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1 « Misera offerta per un sublime impegno ». È la motivazione con cui una povera persona mi consegnava il suo obolo: voleva collaborare all’apostolato affidatomi dalla Chiesa. Piccola cosa, ma offerta cioè regalata con amore, senza obblighi o forzature, con entusiasmo e con interesse, come chi intuisce che donando fa il mestiere di Dio. Dice s. Paolo: «In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: -Vi è più gioia nel dare che nel ricevere! -» (ATTI D. APOSTOLI 20, 35). È la gioia stessa di Dio, quella che sperimenta colui che benefica; il Creatore infatti dona senza nulla perdere, senza nulla elemosinare: dona perché è Amore nella sua essenza; dona perché ama essendo la sua dinamicità l’amare. Tutto quello che passa nelle nostre mani, scende dalla Provvidenza divina; tutto quello che offriamo cioè che facciamo passare nelle mani degli altri, è sempre di Dio -bontà sua; a noi la profonda soddisfazione di ripetere un gesto divino. C’è da godere ogniqualvolta ci viene data l’occasione, la fortuna di dare qualcosa di noi o delle nostre cose. Ora possiamo capire un poco il segreto di certi precetti evangelici sulla carità. « Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in via con lui ». «Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello... » (MATTEO 5, 25-41): Gesù ci invita così a non lasciarci sfuggire alcuna occasione, anzi a stimolarle a costo di pagare di persona il prezzo dell’umiliazione o del perdono o dello spogliamento delle proprie robe e dei propri diritti o privilegi... Se le cose stanno così è logico che si debba donare secondo lo stile divino, senza ripensamenti, rimpianti o rivalse di sorta; bensì con gioia, con il volto sereno, proprio come chi donando sa di fare un ottimo acquisto, l’apprendimento del «mestiere di Dio », l’Amore. S. Paolo scrive ai Corinzi: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia » (2 COR. 9,7). Che se l’offerta è impiegata per un «sublime impegno», per l’evangelizzazione delle anime, cioè per l’Impresa della salvezza, allora c’è da domandarsi, stupiti, per quali nostri meriti Iddio si degni associarci a un bene così grande... e, commossi, ringraziarneLo. Abbiamo mai valutato il grande servizio, spesso impareggiabile, che offre un ponte ben piazzato, solido, slanciato, che unisce le sponde di una larga e profonda vallata? Tempo e rischi risparmiati, spesso vite salvate... È un’immagine, appena abbozzata, dell’incalcolabile servizio che un cristiano convinto, coerente e proteso alla santità, rende ai fratelli di fede, persino ai non credenti, a tutta l’umanità. Il Santo è un ponte che salva. La sua fragilità non cede, la sua precarietà non genera sorprese: ci si può fidare, poiché in esso Dio si impegna, Dio rivela il suo genio, il suo amore. Il Santo è un ponte di salvezza le cui arcate tengono: Dio le ha impastate di nullità e di potenza. Dio tiene saldamente: «Il fondamento gettato da Dio sta saldo» (2 TIMOTEO 2, 19). Di queste colonne il Mondo ha urgente bisogno perché l’alluvione del materialismo ateo non schianti tutti.

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« Misera offerta per un sublime impegno ». È la motivazione con cui una povera persona mi consegnava il suo obolo: voleva collaborare all’apostolato affidatomi dalla Chiesa.

Piccola cosa, ma offerta cioè regalata con amore, senza obblighi o forzature, con entusiasmo e con interesse, come chi intuisce che donando fa il mestiere di Dio. Dice s. Paolo: «In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: -Vi è più gioia nel dare che nel ricevere! -» (ATTI D. APOSTOLI 20, 35).

È la gioia stessa di Dio, quella che sperimenta colui che benefica; il Creatore infatti dona senza nulla perdere, senza nulla elemosinare: dona perché è Amore nella sua essenza; dona perché ama essendo la sua dinamicità l’amare. Tutto quello che passa nelle nostre mani, scende dalla Provvidenza divina; tutto quello che offriamo cioè che facciamo passare nelle mani degli altri, è sempre di Dio -bontà sua; a noi la profonda soddisfazione di ripetere un gesto divino. C’è da godere ogniqualvolta ci viene data l’occasione, la fortuna di dare qualcosa di noi o delle nostre cose. Ora possiamo capire un poco il segreto di certi precetti evangelici sulla carità.

« Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in via con lui ».

«Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello... » (MATTEO 5, 25-41): Gesù ci invita così a non lasciarci sfuggire alcuna occasione, anzi a stimolarle a costo di pagare di persona il prezzo dell’umiliazione o del perdono o dello spogliamento delle proprie robe e dei propri diritti o privilegi...

Se le cose stanno così è logico che si debba donare secondo lo stile divino, senza ripensamenti, rimpianti o rivalse di sorta; bensì con gioia, con il volto sereno, proprio come chi donando sa di fare un ottimo acquisto, l’apprendimento del «mestiere di Dio », l’Amore.

S. Paolo scrive ai Corinzi: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso

nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia » (2 COR. 9,7).

Che se l’offerta è impiegata per un «sublime impegno», per l’evangelizzazione delle anime, cioè per l’Impresa della salvezza, allora c’è da domandarsi, stupiti, per quali nostri meriti Iddio si degni associarci a un bene così grande... e, commossi, ringraziarneLo.

Abbiamo mai valutato il grande servizio, spesso impareggiabile, che offre un ponte ben piazzato, solido, slanciato, che unisce le sponde di una larga e profonda vallata?

Tempo e rischi risparmiati, spesso vite salvate... È un’immagine, appena abbozzata, dell’incalcolabile servizio che un

cristiano convinto, coerente e proteso alla santità, rende ai fratelli di fede, persino ai non credenti, a tutta l’umanità. Il Santo è un ponte che salva. La sua fragilità non cede, la sua precarietà non genera sorprese: ci si può fidare, poiché in esso Dio si impegna, Dio rivela il suo genio, il suo amore.

Il Santo è un ponte di salvezza le cui arcate tengono: Dio le ha impastate di nullità e di potenza.

Dio tiene saldamente: «Il fondamento gettato da Dio sta saldo» (2 TIMOTEO 2, 19).

Di queste colonne il Mondo ha urgente bisogno perché l’alluvione del materialismo ateo non schianti tutti.

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« Cercate ciò che è gradito al Signore» (EFESINI 5, 10). Magnifico programma che l’Apostolo traccia ai battezzati di Efeso e a ciascuno di noi: cercare l’Infinità e farla propria! Dio e sua Volontà non sono due realtà separabili, poiché non possono esistere due Infinità: quindi chi cerca e abbraccia la Volontà divina, fa con Dio un’unità bellissima. «Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1 CORINZI 6, 17).

Non esiste mèta più lusinghiera, giacché chi più alto di Dio, e più grande, e più buono? Noi abbiamo un inestinguibile anelito all’immensità e qui siamo appagati, e possiamo esserlo sempre più largamente, sempre più intensamente, se appena cerchiamo e accettiamo i Voleri divini.

Purtroppo noi si teme sempre l’«espropriazione»! Dio non ha bisogno di niente e di nessuno; siamo noi gli irriducibili mendicanti di Lui, così goffamente incollati agli stracci del nostro egoismo. Dio ci passa di continuo accanto, bussa, interpella, propone: che cosa? Se stesso nelle sue intenzioni, nei suoi comandi, nei suoi desideri, nella più piccola delle sue indicazioni. Che stoltezza, farlo attendere, o addirittura, dubitare di lui, o voltargli le spalle!

«La mia sorte, ho detto, Signore, è custodire le tue parole. …Ho scrutato le mie vie, ho rivolto i miei passi verso i tuoi comandamenti. Sono pronto e non voglio tardare a custodire i tuoi decreti» (SALMO 118).

Non tutti possiamo grandeggiare nella cultura; nella salute è sempre occultata l’insidia delle malattie; negli affari d’ogni tipo quanti insuccessi all’ordine del giorno! Non molti possono primeggiare nello sport, nella politica, nell’organizzazione sociale; ben pochi... farsi notare e passare, famosi, alla Storia. Ma nessuno, se vuole, è escluso

dal campionato e dal primato «essenziale», quello della unione con Dio mediante la ricerca della Volontà divina e il suo compimento quotidiano: si realizza infatti un’esistenza dalla «forma» divina; si toccano vertici altissimi; si capitalizzano pregi, valori, meriti di un peso eterno.

«Quanto amo la tua legge, Signore tutto il giorno la vado meditando. ...Mia eredità per sempre sono i tuoi insegnamenti, sono essi la gioia del mio cuore» (SALMO 118).

Tolgo dal diario di un Vescovo qlilesto programma, valido per quanti vogliamo un cristianesimo essenzialista e fervoroso: «Bisogna che io viva di fede, che alimenti la fede, che diffonda la fede. La fede mi donerà la -pace! Fede in Dio, nella sua paternità adorabile, nel disegno quotidiano della sua provvidenza, nelle vicende liete e tristi che egli dispone per me... Umiltà sincera e convinta. Preghiera semplice ma continua» (card. Giov. Urbani). È un elenco di componenti indispensabili; chi le trova nel proprio corredo spirituale, si offra ai fratelli come ponte che conduce e porta e sospinge ai beni eterni.

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O è un pazzo, o è un Dio! Chi sa qualche cosa del Condannato alla morte di croce sul Golgota la mattina di Parasceve, non può rimanere indifferente. Sconcerta quella ingiusta condanna; eccita alla ribellione quella inconcepibile sostituzione; nausea il vile baratto: Gesù muore in luogo di Barabba, «prigioniero famoso» (MATTEO 27, 16), che «si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio» (MARCO 15, 7). Gesù aveva insegnato ad amare in modo «divino », aveva proclamato che «colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo» (MATTEO 20, 26-27). È di parola lui, il Maestro, e accoglie l’iniqua sentenza per farsi schiavo anche di Barabba, l’assassino, fino a morire per lui. Nell’ultima Cena aveva anche detto: «Nessuno ha un amore pia grande di questo: dare la vita per i propri amici» (GIOVANNI 15, 13): ma qui si tratta di morire per un nemico della vita, per un assassino nemico di Dio come chiunque si fa nemico degli uomini.

Quel Gesù Nazareno re dei Giudei o è un pazzo o è un Dio. La risposta ce la danno i Santi che hanno capito qualcosa più di noi...

di quel Crocifisso che muore perdonando: hanno detto che Dio è morto impazzito d’amore. Questa è la follia della Croce. Quel condannato è un Dio: la Croce la sua follia di amore. «Gesù diceva: -Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno-» (LUCA 23, 34). Rileggiamo qualche riga del salmo profetico preannunciante l’epilogo drammatico di un’esistenza totalmente offerta agli uomini, alla loro salvezza: «Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo. Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: “Si è affidato al Signore, lui lo scampi; lo liberi, se è suo amico”. ...Come acqua sono versato, sono slogate tutte le mie ossa» (SALMO 21).

Veramente c’è da impazzire di gioia al pensiero di essere amati a quel modo da un Dio Uomo, che dà la vita per gli amici e per i Barabba.

A contatto di quel Cuore spaccato non sappiamo come si possa ancora dubitare della Carità di Dio, del suo perdono; come si possa preferire qualcosa o qualcuno a Lui, alla sua amicizia.

«Grazie a Dio per questo suo ineffabile dono!» (2 CORINZI 9, 15).

Vicina al tramonto s.Teresa di G.Bambino potrà con indicibile soddisfazione ripetere: «Io non ho mai dato al buon Dio altro che amore» e morrà fissando l’occhio nel Crocifisso e dicendo: «Oh! Io L’amo! O mio Signore, io... Vi amo!».

Soltanto chi non crede all’Amore divino, chi non ama è nella morte (cfr 1 Giovanni 3, 14); ma a chi accoglie in sé la Carità, cioè l’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfr Romani 5, 5) è dato sperimentare «una speranza che non delude» e una pace che «sorpassa ogni. intelligenza» (cfr Filippesi 4, 7): l’abbraccio di un Dio alla sua creatura.

L’ammalato - il peccatore, l’inesperto, il povero - potrà con piena sicurezza dire: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (FILIPPESI 4, 13).

S. Alfonso (in « Pratica di amar Gesù C.») si domanda: «Ah! che se la fede non ce ne assicurasse, chi mai potrebbe arrivare a credere che un Dio onnipotente, felicissimo, e signore del tutto, abbia voluto amar tanto l’uomo, che sembra esser egli uscito fuori di sé per amore dell’uomo? Abbiamo veduto la stessa Sapienza, cioè il Verbo Eterno, impazzito per il troppo amore portato agli uomini! così parlava s.Lorenzo Giustiniani ».

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Dottrina da folli, o divina, il Cristianesimo. Le Beatitudini. La carità, il distacco dalle ricchezze, la sequela della Croce, l’incessante orazione, il quotidiano «Si, Padre!»... non sono dottrina di uomini, sono insegnamenti divinamente alti, impegnativi e realizzabili solo con una forza superiore e soprannaturale. È una prassi di vita da innamorati. L’amore non fa calcoli, si dona senza misurarsi. Il Vangelo è codice di condanna, senza pietà e senza intermittenza, di ogni egoismo: solo Cristo, l’unico Maestro-Dio poteva dettarlo, solo presso di lui si può impararlo e solo con la sua forza sovrumana si può tradurre in codice di vita.

Gesù salito sulla montagna cosi dice ai suoi discepoli:

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate. perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (MATTEO 5, 3-12).

È un insegnamento diretto a chiunque ha cuore di fanciullo, semplice, autentico, essenzialista, libero; a chi sprofondato nell’umiltà riconosce la propria nullità, e la endemica fragilità; a quanti amano realizzare il massimo da questa brevissima corsa sulla terra. Dice ancora Cristo Gesù: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori... Quando fai la elemosina, non sappia la tua sinistra ciò

che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta...» (MATTEO 5, 44; 6, 3). Anche i peccatori, gli emarginati, i falliti... possono iscriversi a questa scuola, frequentarla e alla fine ottenere la promozione più alta, quella dei figli di Dio.

Di coloro che ascoltano la dottrina di Cristo, s. Giovanni dice nel prologo del. suo Vangelo: «... A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (GIOVANNI 1, 12-13). È, dunque, dottrina divina per gli uomini «nati da Dio », che divinamente vogliono vivere, che anelano a conquistare i beni eterni del regno dei cieli. Se è così, non stupisce la condizione impreteribile che Gesù pone, il distacco da quanto incolla al transeunte, all’effimero, al caduco, al nulla. Si lascia il nulla per il Tutto!

Anche quel nulla che affascina come un bel sogno. Anche quelle realtà che pur essendo buone, non possono sostituire e sostituirsi alla suprema Realtà, Dio. «Se uno viene a me-dichiara Gesù- e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo... Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (LUCA 14, 26-33).

Ci incoraggia a questa strana saggezza, alla follia della croce, l’Apostolo Paolo che di sé afferma: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo…» (GALATI 6, 14).

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Strano pugilato? Il mistero della Redenzione, prodigio dell’Amore di Cristo, si attualizza e si compie in noi, ma non senza ‘di noi, non senza la nostra personale responsabile collaborazione. Questa è resa difficile dalle pretese dei nostri egoismi o passioni: contro questi dobbiamo ingaggiare un pugilato senza quartiere, in ogni epoca della esistenza. Gesù è chiaro. Non accarezza illusioni e puerilità. «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (MATTEO 16, 24): non è facile essere seguaci autentici, anche se molto felice. Non gode le profonde e gioiosissime soddisfazioni del Cristo, chi vive nel compromesso, ossia nella schiavitù delle passioni.

«Ho detto con sgomento: - Ogni uomo è inganno -» (SALMO 115).

Covano dentro di noi, fatale conseguenza del peccato primo, intenzioni e progetti balordi, del tutto contrastanti con la mentalità di Cristo: vanno scovati e presi a pugni. Spettacolo curioso, ma impegnativo, da forti, da coraggiosi: cielo e terra sono lì a osservare; Dio, noi, l’Umanità, tutti stiamo a vedere come si concluderà la competizione, giacché tutti siamo coinvolti e cointeressati alla vittoria.

«Signore, assolvimi dalle colpe che non vedo.

Anche dall’orgoglio salva il tuo servo

perché su di me non abbia potere... » (SALMO 18).

La Provvidenza aiuta chi è deciso a immobilizzare sul ring il proprio avversario, a renderlo perlomeno innocuo e impotente: possiamo tenerci sicuri di Dio:

« Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli,

noi siamo forti

nel nome del Signore nostro Dio.

Quelli si piegano e cadono,

ma noi restiamo in piedi e siamo saldi» (SALMO 19).

Nessuno però, se vuol contare sull’Onnipotenza divina, deve prestarsi al doppio gioco: lealtà e coerenza devono essere conquistate in partenza, sono i «patti chiari » che fanno l’«amicizia lunga». Non nascondiamo nulla, non risparmiamo un palmo al nostro avversario. Dio non sottoscrive questi compromessi! Un fatto biblico ci insinua di non cedere a siffatte incoerenze che segnano già in partenza una sconfitta. Narra il secondo libro dei Maccabei: «Gli uomini di Giuda andarono a raccogliere i cadaveri per deporli con, i loro parenti nei sepolcri di famiglia. Ma trovarono sotto la tunica di ciascun morto oggetti sacri agli idoli di ]amnia, che la legge proibisce ai Giudei; fu perciò a tutti chiaro il motivo per cui costoro erano caduti. Perciò tutti, benedicendo l’operato di Dio giusto giudice che rende palesi le cose occulte, ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato» (2 MACC 12, 39-42).

Giù la maschera, via la tunica! Mettiamo a nudo i nostri idoli, e assestiamo dei buoni pugni al nostro goffo « io ».

Quante volte abbiamo - a testa bassa come gente sconfitta -riconosciuto la verità della sentenza biblica: «Coloro che commettono il peccato e l’ingiustizia sono nemici della propria vita» (TOBIA 12, 10)!

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«Tu abiti in mezzo a una genia di ribelli» (EZECHIELE 12, 2). I vizi capitali, almeno sette!, che noto in me, contro i quali mi batto, si trovano anche negli altri, in tutti gli uomini. Non vale il detto: «Mal comune mezzo gaudio», ma proprio il contrario va temuto, che cioè il male degli altri non crei quell’ inquinamento generale, quello smog velenoso, che può intaccar fatalmente l’individuo che in quell’ambiente tossico vive.

Leggiamo nella Scrittura: «Questa parola del Signore fu rivolta a Ezechiele: - Figlio dell’uomo, tu abiti in mezzo a una genia di ribelli, che hanno occhi per vedere e non vedono, hanno orecchi per udire e non odono, perché sono una genia di ribelli -» (EZECHIELE 12, 1-2). È una fotografia per nulla esagerata o irreale, anche se a tinte fosche. Le passioni acciecano, istupidiscono, corrompono. Quanta gente vive abitualmente in stato fallimentare, di peccato, fuori della casa del Padre! Spettacoli, stampa, discorsi, mezzi della comunicazione, letteratura, propaganda di ateismo, ecc. pare che di altro non siano tanto zelanti quanto di presentare il peccato come una liberazione, una conquista, un bell’affare. Gli industriali del peccato si danno da fare per inquinare ogni ambiente. Le passioni escogitano scuse e alibi, astuzie e raggiri per legalizzare assurde e assassine pretese. È quest’aria che devo respirare? Ma l’uomo ha bisogno di ossigeno puro, di verità, di genuina libertà! I tempi sono forti; il male si fa sfacciato, procace, aggressivo: ci vogliono uomini forti; occorre ardore giovanile; godere perfetta sanità spirituale; difendere un’ecologia morale cui è condizionata la sopravvivenza della Fede e della coscienza cristiana. L’Apostolo prediletto alla scuola di Cristo, ha ben capito il pensiero del Maestro, e l’esigenza di un regime decisamente forte per realizzarlo e scrive:

«Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno. Non amate il mondo, né le cose del

mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, e la superbia della vita, non viene dal

Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!» (1 GIOVANNI 2, 14-17). La frequente, assidua, meditata ascoltazione della Parola di Dio, opera sicuramente in noi una funzione decantatrice: corregge l’inquinamento; ossigena la mente; rasserena l’esistenza. Gesù ce lo assicura: «In verità, in verità vi dico: se uno osserva le mie parole, non vedrà mai la morte» (GIOVANNI 8, 51).

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Sala d’attesa o... d’arrivo? Il materialismo ateo, che avvelena l’aria, ti vorrebbe incollare alla terra come se in essa dovesse esaurirsi tutto il fine dell’uomo: non sono pochi i colpiti da un così grave acciecamento. Quanti scambiano questa presente fase dell’esistenza per l’unica e definitiva ragione d’essere e di vivere, fanno della sala d’attesa, la meta di arrivo, quindi una tomba.

Siamo nell’aereo sulla pista di lancio, pronti per il decollo, per il volo: sembrano interminabili quei pochi minuti, quei brevissimi istanti. Chi si fissa nell’apparente interminabilità dell’attesa, fa del tempo così precario e fugace una eternità e vi si adagia. È il colmo della suggestione, il colmo della degradazione. Il «re del creato» che si seppellisce da se stesso nella materia, come in una fossa. Ma valeva la pena di nascere, se qui siamo venuti per entrare in un immenso cimitero? I poveri di cose e di spirito non hanno tante lusinghe quante ne hanno i ricchi e i superbi: beati loro! Non è il caso di festeggiare il «miliardo»; non è che orpello, fumo negli occhi, illusione: se tutto terminasse in quella somma di denaro, sarebbe l’ironia di chi festeggia la propria tomba, la propria miseria. Quel denaro ti incolla e ti capsula nella materia. Festa esequiale. Capestro da assassini il materialismo!

Il destino ultraterreno., l’Aldilà eterno è il« tesoro » per il quale viviamo e per il quale valeva davvero la pena di venire a questo mondo. Curiamo anche la sala d’attesa, sistemiamoci decentemente, facciamo posto per gli altri, si, preoccupiamoci dell’ordine sociale e della pace e del benessere di questa stazione di partenza, ma non commettiamo lo sbaglio di scambiarla per la stazione di arrivo. Ladri, tignole, tarli e sorella morte ci lascerebbero delusi e amareggiati; a mani vuote. Nel frattempo l’Eternità non sparisce; chi la può distruggere? È troppo tremendamente grande.

«Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignole e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignole né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (MATTEO 6, 19-21).

Non è una sorta di droga spirituale inventata per calmare

l’insaziabilità del cuore umano; è il nostro spirito immortale che già è in viaggio verso quella immensa realtà; la linfa che si cela nelle radici e nel tronco è ineluttabilmente destinata ai fiori e ai frutti.

L’eternità spiega il tempo con tutte le sue vicende; spiega il mistero dell’uomo; lo sazia. Gli «interminabili» anni di attesa sono pochissime decine; sono fatti di cortissimi minuti; la loro quantità non distrugge la loro fugacità. Non sono eterni. Attenzione a non lasciarsi drogare dalla loro impossibile «interminabilità »!

« Passa la scena di questo mondo! » (1 CORINZI 7, 31). Charles de Foucauld fa queste riflessioni: «...Quante generazioni si succedono! Come il numero di quelli che dormono sotto terra sorpassa quello di coloro che si agitano su di essa! Se la terra si aprisse e lasciasse uscire i suoi cadaveri, quale popolo numeroso ne sorgerebbe! Quelle generazioni hanno vissuto, amato, sofferto, la passione ha agitato i loro cuori, come è avvenuto per noi. Essi sono stati ciò che noi siamo: noi saremo ciò che essi sono... Quando sarà il nostro turno? L’uomo è ben poca cosa se non si considera che questo aspetto della sua esistenza! Come passa presto e in quale profondo oblio cade sulla terra!... Queste generazioni innumerevoli, i cui corpi dormono nella polvere non sono morte, vivono e vivranno eternamente... Il tempo che hanno passato sulla terra non era che il loro primo passo nella vita: i primi giorni dell’infanzia, lo stato del bimbo appena nato: esse non sono entrate nell’esistenza vera, quella per la quale sono state create, che il giorno in cui Dio le ha liberate dai loro corpi, come si libera un bimbo dalle fasce... ».

Verità indubbia, che Charles addolcisce con altre espressioni come questa: «...La nostra terrena esistenza è paragonabile all’uomo. Come lui, è un nulla in se stessa, ma è talmente colmata da Dio di doni e di grazie che si approssima per le sue grandezze alla beatitudine del cielo... ».

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Tornare all’essenziale instancabilmente. Assetati di Infinità, altra via non c’è fuori di quella di una diuturna ricerca della Volontà divina: abbracciati a quella, finalmente avvertiamo in noi un indescrivibile senso di sicurezza, di pace e di gaudio. Dio stesso, che ha posto in noi l’insaziabilità ci viene incontro, ci offre se stesso -ossia l’Infinito- nel proporci la sua Volontà: l’accettazione dei comandamenti, l’adesione quotidiana e minuta ai nostri doveri, la piena rassegnazione al fluttuare degli avvenimenti e il buon viso alle immancabili tribolazioni, crea in noi serenità e coraggio. L’essenziale è per ognuno di noi fare la Volontà divina. L’essenzialista non si adatta a perdere tempo e fiato dietro cose secondarie o ingombranti. L’essenzialista va dritto a Dio; aggancia la sua piccola all’onnipotente Volontà. Si diventa cosi familiari di Dio, se ne avverte la Provvidenza, se ne gode l’amicizia e si intuisce il divino valore che acquista la nostra piccola persona.

La Scrittura dice di Mosè: «Così il Signore parlava a Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro... Mosè disse al Signore: -Se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi indicami la tua via, cosi che io ti conosca, e trovi grazia ai tuoi occhi; considera che questa gente è il tuo popolo-. Rispose: -Io camminerò con voi e ti darò riposo» (ESODO 33, 11-14). È bellissimo, sapere e sentire che Dio cammina con noi.

La strada è unica; non ne esiste altra fuori dell’accoglimento della Volontà divina; Gesù cosi premunisce i suoi discepoli, e noi tutti: «Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando» (GIOVANNI 15, 14).

Ogni autentica grandezza qui si realizza o si esalta: nell’ascoltare la Voce divina per custodirla gelosamente nella vita; è questa la misteriosa soprannaturale parentela che Dio offre a chi aderisce in questo unico modo a lui. Alla glorificazione della Madre sua per bocca di una donna, Gesù risponde, per puntualizzare proprio quella esaltazione e giustificarla: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (LUCA Il, 28). Come si può unirsi a Dio nel suo e nostro Cristo, accedere alla intimità divina? Risponde il Maestro stesso: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola dì Dio e la mettono in pratica» (LUCA 8, 21).

Mille sollecitazioni tentano di allontanarci dall’essenzialità; reagiamo senza posa, riconducendo la nostra scelta sulla strada dei divini Voleri.

«O Signore, sia il mio cuore integro nei tuoi precetti, perché non resti confuso. ...Mai dimenticherò i tuoi precetti: per essi mi fai vivere. io sono tuo: salvami, perché ho cercato il tuo volere» (SALMO 118).

Teresa di G. B. scrive a Celina (6 luglio 1893): «La perfezione consiste nel fare la volontà di Dio, e l’anima che s’abbandona interamente a lui è chiamata da Gesù stesso “sua madre, sua sorella”, e tutta la sua famiglia... Com’è facile piacere a Gesù, rapire il suo cuore! Non c’è che da amarlo, senza badare a se stessi, senza troppo esaminare i propri difetti». Non facciamoci illusioni però, e cerchiamola incarnata nelle indicazioni dei superiori, araldi e messaggeri di cui la Provvidenza costuma servirsi: «...Da quali inquietudini ci liberiamo facendo il voto di obbedienza! Come sono felici le semplici religiose! La loro bussola è la volontà dei superiori... Madre cara (cosi alla Priora), lei è la bussola che Gesù mi ha dato per condurmi sicuramente alla riva eterna. Quanto mi è dolce fissare su di lei il mio sguardo, e compiere così la volontà del Signore!».

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Addormentato sulla tastiera del pianoforte. Per il principiante è sempre noiosa e quasi insopportabile la fatica dell’apprendimento di una qualsiasi scienza o arte, persino della musica, del suono di uno strumento. Un giorno trovai un giovane addormentato dalla noia sulla tastiera del pianoforte. Gli occhi erano troppo lenti a distaccarsi dall’album musicale; troppo lente le dita a levarsi dalla tastiera... Troppo spesso ci ritroviamo appiccicati alle cose, ai fatti, alle persone; troppo lenti a strapparci da quanto è passatizio e caduco. Non è possibile allora cantare. Soltanto si sogna, perché si dorme. Intanto il tempo scappa via; quello non dorme; la scala mobile non accenna a rallentare. Svegliandosi si ha l’impressione che il tempo, mentre dormivano, sia fuggito in un baleno.

Il libro della Sapienza fa dire a coloro che «sragionano» giudicando sbrigativamente il tempo della vita terrena: «La nostra vita passerà

come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia... La nostra

esistenza è il passare di un’ombra, e non c’è ritorno alla nostra

morte... Su godiamoci i beni presenti…» (SAP 2, 4-6). E commenta: «La pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati... Sì,

Dio ha creato l’uomo per l’immortalità, lo fece a immagine della

propria natura» (SAP 2, 21-23 ). Chi gusta la musica e il suono di uno strumento musicale? Chi si è

così bene impossessato da staccarsi da quei righi, da quei tasti, da quelle corde, pur guardando e toccando prestamente, quasi correndo a occhi chiusi. I ragazzi, quando cantano, allungano il collo, guardano in alto, mal sopportano il foglio della musica; se suonano girano gli occhi un po’ dappertutto, mal sopportando di lasciarsi incatenare. Il canto è un Volo. Non si canta col muso lungo e gli occhi inchiodati a terra. Le dita scattano sulle corde della chitarra, danzano sui tasti; così come i piedi non si incollano sugli scalini della scala o sul marciapiede della via: sarebbe la paralisi, la fine,

« Ho terminato la mia corsa » (2 TIMOTEO 4, 7) dichiara Paolo, definendo «corsa» la sua vita. Corriamo, ci spinge con violenza il tempo col suo irrefrenabile ritmo; corriamo ad arricchire per la vita futura; accumuliamo il bene senza lasciarci scappare di mano nessuna

occasione. L’Apostolo ci indica di quali tesori dobbiamo riempire le tasche: «Ai ricchi in questo mondo -scrive a Timoteo- raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza sull’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà in abbondanza perché ne possiamo godere; di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi cosi da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera» (1 TIM 17-19).

Comportandosi a questo modo ci si arricchisce per il Cielo, e si gustano con «povertà e libertà di spirito» anche le piccole gioie di quaggiù. Chi viaggia sul giusto binario, forse che non gusta il panorama? Può anche cantare; deve cantare: la meta lo attende e si avvicina... a passo di «corsa»; ma si guardi dal luccichìo del -denaro, che fu laccio fatato e fatale per molti incauti: Dio ne scampi! «Sia benedetto il Signore, che non ci ha lasciati in preda ai loro denti. Noi siamo stati liberati come un uccello dal laccio dei cacciatori: il laccio si è spezzato e noi siamo scampati» (SALMO 123).

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Lettere senza indirizzo: il loro destino, il fuoco. Un albero che non rende, che occupa inutilmente il terreno, un vestito che non difende dal freddo, una penna che non scrive più...; ogni cosa che non realizza il suo fine particolare è ingombrante, dà fastidio, è rifiutata, buttata a incenerire. Dove andrà a finire un’esistenza senza il giusto indirizzo? È come una lettera, forse di carta pregiata, che non ha l’indirizzo, oppure l’ha impreciso o sbagliato: andrà «smarrita» probabilmente cestinata o bruciata. Si possono dare molti orientamenti ai nostri passi, moltissime intenzioni al nostro quotidiano cammino, ma uno solo può giustificare tutto, e tutto condurre a buon fine. Veniamo da Dio, gli apparteniamo come raggi al sole che li genera; non abbiamo altra ragione di vivere che per Dio, come il raggio vive per il suo sole.

« Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! ...Voglio cantare al Signore finché ho vita, cantare al mio Dio finché esisto. A lui sia gradito il mio canto,. la mia gioia è nel Signore» (SALMO 103).

Ogni altro traguardo è più basso, chi vi si dirige non si realizza al sommo; potrebbe perdere la finale conquista; come pallini sparati a vuoto che non raggiungono la preda. Solo a Dio, l’uomo può chiedere quella plenitudine che indarno uomini e cose gli promettono: si può saziare l’insaziabilità con il contagocce del creato? Se l’uomo è il «re del creato», questo è sgabello, piattaforma, torre di lancio, ossia un mezzo, non il fine.

«Signore, i miei giorni sono come ombra che declina, e io come erba inaridisco. Ma tu, Signore, rimani in eterno... » (SALMO 101).

Se porgiamo attento ascolto alle voci che parlano dentro di noi, se tocchiamo le corde della nostra cetra, sentiamo Qualcuno che ci detta il giusto indirizzo. È Dio che soavemente e fortemente soffia nelle nostre vele; tocca a noi impugnare il timone e collaborare col vento dello Spirito. Non siamo noi tutti opera della infinita Sapienza divina? Basterebbe che ci lasciassimo condurre da Essa, non sbaglieremmo la rotta, arriveremmo a destinazione, «ad Deum»

«Essa, la Sapienza, si estende da un confine all’ altro con forza, governa con bontà eccellente ogni cosa... Ho deciso di prenderla a compagna della mia vita, sapendo che mi sarà consigliera di bene e conforto nelle preoccupazioni e nel dolore... Per essa otterrò l’immortalità» (SAPIENZA 8, 1-13).

È strano, imperdonabile, che i nostri orecchi siano spalancati a ogni voce, a infinite parole vuote, e restino chiusi alle «nostre » voci; che si voglia remare contro vento, contro i richiami del divino per il quale l’uomo è fatto.

I barcaioli cantano, se il vento sospinge soffiando nella vela: preghiamo che lo Spirito di Dio, ci parli, ci scuota, ci faccia correre e cantare; noi cercatori, pescatori, affamati di Infinità.

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Ardevano carte da mille e da cinquecento. Era uno spettacolo consueto; nulla di nuovo o di sensazionale: tutti fumavano, e sulle mense s’era formato uno strato di fumo, come una copertura grigia di nebbia o di smog. Ma un pensiero mi disincantò, violento come lo scoppio di una folgore: erano biglietti da cinquecento e da mille che lentamente ma inesorabilmente pigliavano fuoco e creavano quell’aria tossica e irrespirabile. Anche il piatto, il vino, il frutto erano costati denaro, ma il cibo chi lo poteva contestare?

Avremmo apostrofato per pazzi quei tali, se li avessimo veduti dar fuoco con un cerino a quel mucchio di banconote: le sigarette, i sigari... costano banconote.

E pensavo alla ragazza incontrata la mattina, mentre andavo a celebrare la Messa, curva sul marciapiede a sfamarsi di rifiuti...; e pensavo ai milioni di creature umane che muoiono puntualmente ogni anno di fame, forse guardando il cielo, in cerca di un perché liberatore.

Il «perché» eccolo là, in quella sala dove si dà fuoco alle carte da mille; è là nella follia dell’egoismo più assurdo e disumano.

Un pacchetto di sigarette è il prezzo di un chilogrammo e mezzo di pane, per la fame di chi è più prossimo di quanto si creda o non si voglia credere. Il povero Lazzaro è sempre lì all’uscio che attende... Attende che il fratello cessi di fare il pazzo infischiandosi dei crampi del suo stomaco.

Come non pensare anche alla inesorabile ora del «rendiconto » al banco di Dio? Elemosinerà tant’acqua, quanta se ne può attaccare alla punta del dito, il ricco Epulone, ma non l’avrà, lui che ebbe il cuore più meschino di quello dei cani, e il ventre servito come un dio. «Allora gridando disse: -Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura-» (LUCA 16,24). Non mi riesce difficile connettere le fiammelle che consumano le sigarette, bruciando banconote, dovute a chi non ha pane, con le fiamme del ricco seppellito nell’Inferno.

Quello che è in più, non ci appartiene; è dei poveri. A chi urla di

fame non è lecito offrire il ributtante spettacolo del fumo di denaro bruciato.

Quello smog intossica l’anima assai più che i polmoni; e non impedisce di ricorrere alla giusta «Ira di Dio », per invocare misericordia a chi muore di fame, e giustizia a chi muore di crepapelle. o soffocato da quello stesso fumo dell’assurdo sciupio del pane «altrui».

Dal Vangelo: «Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete» (LUCA 6, 24-25).

Dalla lettera di s. Giacomo: «E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco... Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage» (Gc 5, 1-5).

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La tramezza di dieci centimetri, per un egoista, è larga come una catena di monti, invaricabile come un oceano, impenetrabile come una corazza di acciaio. Se nella stanza adiacente c’è uno che soffre, i dieci centimetri sono più che sufficienti per non sentire, per non essere costretto ad accorgersi, per non dover scomodarsi. In treno, in filovia, in un pullman... può persino mancare il centimetro: l’egoista orbita e giostra soltanto intorno a sé, per se stesso; perciò gli altri non si devono far notare; comunque come non esistessero. Il boccone che sprechi, la sigaretta che butti in fumo -prezzo di denaro, prezzo di pane-, il capriccio voluttuario, quella spesa inutile... non li potevi tramutare in medicine, in abiti, in attrezzi da lavoro, in libri per la lotta all’analfabetismo, in tegole e mattoni per i baraccati, in caramelle per i vecchi del Ricovero, in fiori per la riconoscenza a Dio e ai fratelli?

Non è giudizioso rispondere che i destinatari sono oltre oceano, sono in soffitta, nello scantinato, alla periferia, all’Ospedale civile, nel lontanissimo Lebbrosario, in capo all’universo. Per chi ama, le distanze spariscono; per l’egoista la tramezza è già un ostacolo impossibile.

Il colmo dell’ironia? Il mutismo della nuora o della suocera, del marito o della sposa: portati dalla vita a convivere, troppe volte l’orgoglio crea separazioni insopportabili, diaframmi dannosi a tutti. Tutti cointeressati ad abbatterle; all’opposto tutti indaffarati a puntellare, in un carosello di piccole follie, di incontabili manciate di torti e di dispetti, di sospetti e di pettegolezzi, l’inconcepibile muraglia invisibile e schiacciante.

Quale difformità dallo stile di Dio! Chi può dirsi amico del Padre, se odia, se non ama, se non favorisce, se non serve i figli di Lui, nostri fratelli tutti?

« Ma io vi dico -dichiara il Maestro -: Amate i vostri nemici, pregate per i vostri persecutori, perchè siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano., quale merito ne avete?» (MATTEO 5, 44-46).

Oh, la pazienza di Dio! Ma noi? Noi che da quell’immensa pazienza abbiamo bisogno di essere

sopportati e perdonati, non la incontriamo se non di là della tramezza costruita e puntellata dai nostri egoismi.

«Se voi infatti -protesta il Maestro- perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (MATTEO 6, 14-15).

Siamo sinceri sino in fondo? Forse scopriremo che gli unici nemici da perdonare siamo noi stessi,

che non smettiamo di tradire Dio e gli uomini, tappandoci nella pigrizia; divenuti pesi ingombranti; autentici scrocconi.

Gli altri, tutti gli altri, sono dall’altra parte della tramezza ad attendere... forse da troppo lungo tempo... le nostre briciole.

Lazzaro è li all’uscio, ancora. Fallo entrare in casa tua, prima che giunga in seno ad Abramo a

reclamare la giusta vendetta, sulla tua testa, che non ha voluto accettare la sua proposta d’amore... per salvarti dal crollo finale.

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Affare d’oro! Ci teniamo tanto a ricavare buoni guadagni da ogni affare in ogni occasione? Il Vangelo ce ne insegna il segreto meraviglioso: intaschiamo dando agli altri, arricchiamo impoverendoci, conquistiamo perdendo, capitalizziamo rinunciando; ottimi incassi al cento per uno. Per una vita piena, abbondante, soprannaturale, divina, eterna, si.intende; non per un banale cambio di merce, per un palmo di più di terra, non per sostituire uno zero grosso a uno o cento di piccoli. «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio» (LUCA 6, 36-38).

La nostra generosità, sempre piccola e condizionatissima, è la bisaccia o portafoglio in cui la Misericordia divina immette la sua sempre grande e magnanima ricompensa: è dunque in mano nostra il primo piatto della bilancia; se sul nostro poniamo cento lire, con cuore sincero, buono ed ilare, sull’altro, Dio mette diecimila, almeno. Contemporaneamente al gesto di cavare dal mio portafoglio una banconota da mille lire, Dio immette un’altra banconota, ma del valore centomila: nel medesimo posto, nello stesso tempo, ma con una generosità da Dio. La rinuncia alle mille lire, li per li, può sembrare un sacrificio grosso; ma è un giudizio momentaneo, provvisorio, fasullo; un attimo dopo si dovrà cambiare parere. Anzi, la tempestività della ricompensa è tale che il togliere di tasca equivale già all’intascare. Questo ottimo affare è realizzabile in ogni nostro rapporto di carità con Dio e col prossimo per... amore di lui. «Chiunque avrà lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà, in eredità la vita eterna» (MATTEO 19, 29).

C’è da rimanere stupiti che non si ricorra a questo gioco di «Borsa» con ardente passione, se appena si voglia riconoscere .la caduca durata di ogni bene terreno e la sua spietata svalutazione di fronte ai beni

spirituali eterni. Dio continua a offrire agli uomini la sua Generosità senza confronto,

illimitata, ma «la maggior parte ascoltano più volentieri il mondo che Dio, e van dietro più facilmente alle brame dei sensi che alla divina volontà... Per un meschino guadagno si corre un lungo viaggio, e per la vita eterna tanti appena una volta alzano il piede da terra. Si va in cerca del vile denaro; qualche volta si litiga in maniera vergognosa per una moneta; non si bada a faticare giorno e notte per un oggetto vano, per una promessa da nulla» (Imitazione di Cristo III, 3).

Se c’è da faticare e da sobbarcarsi a ogni sacrificio, non dovrebbe ciò avvenire per trovare chi accetti e gradisca la nostra carità?

Se i poveri -e di questi ce ne sono tantissimi, vicini e lontani, persino fra coloro che nuotano nel denaro o nella fama o nei successi - non vengono a bussare al nostro uscio, non dovremmo, noi stessi, andarli a cercare?

Si, dovremmo scongiurarli di accettare la monetina della nostra misericordia -e di questa ci sono infinite edizioni- al fine di ottenere in cambio-ricompensa, il centuplo e la vita eterna!

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Vie storte. La Scrittura cosi invita a rivedere le proprie posizioni morali: «Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie storte per i vostri passi, perché il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire» (EBREI 12, 12-13). Sono tutte vie tortuose, vicoli ciechi; o passi inutili e perduti... quanto non conduce al compimento del proprio fine che è l’incarnazione della volontà di Dio in ognuno di noi, nella vita di tutti i giorni. Possono essere persino un controsenso, un attentato alla vita stessa, qualora ci si metta gravemente contro i comandamenti di Dio.

«Signore, siano diritte le mie vie, nel custodire i tuoi decreti, Allora non dovrò arrossire se avrò obbedito ai tuoi comandi. ...Tu minacci gli orgogliosi; maledetto chi devia dai tuoi decreti»(SALMO 118).

Spesse volte il nostro incedere assomiglia ai passi del mendicante che accattona di casa in casa: elemosiniamo una goccia, o una briciola; ma la fame e la sete non si spengono; la momentanea illusione reca un sollievo parimenti momentaneo, mentre l’insaziabilità resta e si fa più acuta. È ben poca cosa bagnarsi le labbra con una pezzuola, quando la febbre bruciante reclama un sollievo definitivo e assoluto. Cose, persone e fatti ci passano accanto a inumidirci le labbra riarse, ma se ne vanno veloci, perché non commettiamo l’errore di aspettare l’infinità dalle nullità. Possibilità tutt’altro che ipotetica! Chi può dare consistenza e stabilità al mio incedere?

«Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra. Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode» (SALMO 120).

Nessuna cosa e persona, in terra o in cielo, mi possono acquietare, ma soltanto Dio.

Siamo nati tutti con un orientamento sbagliato: protesi verso la creazione come fosse il Creatore; dalla fanciullezza... fino all’ultimo giorno pretendiamo dalle creature quanto di appagamento e di soddisfazione può scendere in cuore solo da Dio.

Meno male che la creazione ci si offre sempre con la sua ambivalenza; ci accarezza con una mano, ci schiaffeggia con l’altra: dura legge, ma necessaria e benefica.

Anche le più affascinanti rose hanno le spine. I giorni più festosi conoscono il tramonto e la notte che incalza. Nessuna medaglia, seppure d’oro, ha solo il dritto; il rovescio può

celarsi, non togliersi. A chi Dio basta, tutto può bastare! Chi ha la coscienza in pace con Dio, gode buona sanità spirituale, e

si trova nella migliore disposizione per assaporare anche la minima gioia della vita. Il bimbo innocente va in visibilio anche per i nonnulla... Alla Fonte divina anela ognuno di noi; perché soffochiamo la voce della natura che la reclama?

«Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti! L’ anima mia languisce e brama gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente» (SALMO 83).

Quante corse a vuoto, mio Dio! Troppe volte ho corso strade storte, che mi si stringevano attorno come spire di galera e di morte, che mi davano ebbrezze fugaci come lampi, per seppellirmi nel nulla.

«Signore, rendi saldi i miei passi secondo la tua parola e su di me non prevalga il male» (SALMO 118).

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La danza sempre nuova, inebriante, che trasforma in una festa intramontabile l’esistenza umana, è quella che la Provvidenza divina cadenza e ritma con le infinite sue movenze. Perché l’uomo si ostina a voler fare da sé, a svincolarsi dalle braccia infinitamente larghe di Dio? Ogni tentativo di sciogliersi dai suoi comandamenti, si risolve in un tentativo balordo, quello di imprigionarsi nelle proprie strettissime sbarre. Usciamo dall’oceano in cerca di un’illusoria affermazione, ma ci attende il bagnasciuga: poveri esseri mortali che rifiutano l’Infinità di cui hanno tuttavia estremo bisogno.

«Apro, Signore, anelante la bocca, perché desidero i tuoi comandamenti. ...Fa’ risplendere il volto sul tuo servo e insegnami i tuoi comandamenti. Fiumi di lacrime mi scendono dagli occhi, perché non osservano la tua legge»(SALMO 118).

Chi si affida al Signore, con intelletto d’amore, assomiglia a colei che si abbandona nel ritmo di una danza, all’amplesso di uno sposo, alla straripante gioia di un Dio innamorato. È mai possibile? Non siamo forse noi tutti degli anchilosati, degli infermi? Qui ci si smarrisce negli oceanici flutti di un Amore di Dio; ci si rifugia nelle parole di Cristo, quasi timorosi che tutto ciò non sia vero, ma solo sia un sogno. Chi ci assicura che possiamo buttarci sulla Fonte divina per inebriarci? È Gesù che offre alla povera donna di Samaria l’impossibile potere: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: -Dammi da bere! -, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva... Chiunque beve di quest’ acqua (levata dal pozzo di Giacobbe) avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’ acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (GIOVANNI 4, 10-14).

Non è facile scandagliare il bel Cuore di Cristo, ma se appena riusciamo a spiarne qualche palpito, sentiamo una ineffabile sicurezza,

una illimitata pace; ci sentiamo abbracciati nonostante la nostra cronica miseria morale. «...Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» assicura Gesù (LUCA 15, 7).

Possiamo anche aggiungere che l’amara esperienza dei nostri sbandamenti e delle nostre fughe dalla casa del Padre, acuisce insieme col dolore, la brama del perdono, e l’ineffabile gioia dell’abbraccio misericordioso e buono.

Ogni qualvolta siamo rientrati, ci siamo sentiti bloccati e serrati fortissimamente in quelle braccia divine: si doveva far festa, e grande festa, perché l’Amore divino lo esige. «...Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» dice il padre del figliol prodigo (LUCA 15, 32).

«Pietà di me, Signore, a te grido tutto il giorno. ...Tu sei buono, Signore, e perdoni, sei pieno di misericordia con chi ti invoca » (SALMO 85).

Di tale pienezza senza fine, possiamo far conto sempre e poi... ancora.

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«Il nostro Dio è un fuoco divoratore», la lettera agli Ebrei lo proclama così: «Poiché noi riceviamo in eredità un regno incrollabile, conserviamo questa grazia e per suo mezzo rendiamo un culto gradito a Dio, con riverenza e timore; perché il nostro Dio è un fuoco divoratore» (EB .12, 28-29).

Mosè sul monte Oreb era stupito al vedere il roveto che ardeva nel fuoco senza consumarsi, e Dio lo chiamò dal roveto per affidargli il compito di liberare gli Israeliti dalla schiavitù di Egitto (ESODO 3, 1-12): qui Dio si manifesta nel segno del fuoco, e si rivela come un Padre commosso dal gemito dei figli, e si offre come il Liberatore.

Più tardi un fuoco nel cielo richiamerà l’attenzione dei Magi, che si metteranno in cammino alla ricerca del Figlio di Dio fatto Uomo: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo» (MATTEO 2, 2).

E Gesù dirà quasi identificandosi con la sua missione: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso» (LUCA 12, 49).

La parola del Signore è come fuoco: «La mia parola non è forse come il fuoco -oracolo del Signore- e come un martello che spacca la roccia?» (GEREMIA 23, 29); e per bocca del profeta Malachia il Signore così promette il Messia: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate; l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, ecco viene, dice il Signore degli eserciti. Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore... Siederà per fondere e purificare... » (ML 3, 1-3).

È «in Spirito Santo e fuoco» che il Messia battezza i figli della nuova alleanza (MATTEO 3, 11). È ancora nel fuoco che si manifesta nella Pentecoste il Signore: «Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo... » (ATTI D. APOSTOLI 2, 2-4).

Il fuoco è luce, calore, vita, gioia: bellissima immagine di Dio che è Amore e che soltanto ama. Gesù -Dio con noi è la più grande epifania della infinita carità di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (GIOVANNI 3, 16).

Il messaggio della salvezza è una incandescente proposta d’amore: il Vangelo, i Sacramenti, la Chiesa sono tutte fiamme che s’innalzano vigorose sul nostro cammino, fiaccole che rivelano il cuore di Cristo che si dona a ognuno di noi come Signore, Padre, Sposo, Amico e Fratello, e Figlio... che ama come nessuno potrà mai amare, da Uomo Dio.

Chi si sottrae al calore di questo «Fuoco» si condanna alla solitudine, al tormento del dubbio, alla desolazione più squallida, alla notte del rimorso; alla fine si ritroverà nel fuoco inestinguibile della dannazione.

«Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco» (MATTEO 6, 19). «Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi li raccolgono e li gettano nel fuoco e li brucian » (GIOVANNI 15, 6): dice il Signore.

Il fuoco decide? O si arde d’amore, o si brucia di odio: il regno dei cieli è la casa

dell’amore; l’inferno è la dimora dell’odio. Vita natural durante ci si deve allenare a quest’arte che sarà la vita eterna; chi si rifiutasse di impararla, come potrebbe viverne per sempre?

«In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose (le opere della carità) a uno di questi miei fratelli più piccoli, non le avete fatte a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna» (MATTEO 25, 45-46).

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Un piede nel Paradiso ha fin d’ora chi vive nella Grazia santificante, cioè vive -in coerenza con la fortuna del Battesimo e con gli obblighi derivanti da esso. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» -dice anche a noi Gesù (GIOVANNI 14, 23); e ancora: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non po1ete far nulla» (GIOVANNI 15, 5).

Il cristiano fedele al Battesimo, che vive e opera nella Grazia, ha un piede nel Paradiso: se lo coglie sorella Morte non fa che entrarvi con l’altro piede... A differenza perciò di coloro che «sono tutti intenti alle cose della terra» noi siamo sospinti e quasi calamitati a guardare in alto, pur camminando su questa terra cori gli occhi sbarrati agli affari temporali, dove trova spiegazione finale ed esauriente il nostro essere umano e cristiano: «La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo... » (FILIPPESI 3, 19-20).

Ringraziamo la Chiesa che non si stanca di ricordare mediante l’evangelizzazione e i sacramenti, con la liturgia e l’esercizio della carità, che siamo stati creati a immagine dell’Eterno, santificati dal Verbo Incarnato e inabitati dallo Spirito Santo, resi cioè capaci e promossi a costruire un edificio sull’altra sponda della vita, nel Regno stesso di Dio. Un tempo non capivo perché mai si dovessero suonare le campane a festa -nel mio paese nativo -nel momento in cui un feretro veniva portato nella chiesa parrocchiale per le esequie: perché tanta festa sopra un lutto e torrenti di pianto?

Il cristiano è un cittadino immensamente fortunato se, anche in faccia al misterioso Aldilà ancora sorride e lascia che la Chiesa lo saluti con un commiato festoso. È Pasqua ogni qualvolta un battezzato, amico di Dio per Cristo salvatore, lascia la terra per l’eternità: «Io sono la risurrezione e la vita -disse Gesù sulla tomba di Lazzaro-; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (GIOVANNI 11, 25-26).

Se teniamo un piede in Paradiso, mentre l’altro ancora pesta sul

lastricato del Golgota, non ci è lecito inchiodarci alle cose che dovremo lasciare, e non ci è consentito disperarci quando qualche cosa o qualcuno ci lascia; ma ci è consentaneo e congeniale sperare sempre e cantare alla «perfetta letizia» di un senso divino, misterioso e soave, insito nel travaglio quotidiano: «Non continuate ad affliggervi -scrive s.Paolo ai Tessalonicesi- come gli altri che non hanno speranza» (1 Ts 4, 13).

Restiamo in attesa. Nel frattempo lavoriamo instancabilmente a rendere sicura la nostra

promozione finale: occhi aperti e maniche rimboccate... come chi riempie e prepara i bagagli, perché l’arrivo è prossimo.

«Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobrii» (1 TESSALONICESI 5, 6).

E impariamo a cantare! «Quale gioia, quando. mi dissero: “Andremo alla casa del Signore”; E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme!» (SALMO 121).

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Come si annunzia il Paradiso? Lo stesso apostolo Paolo che ci ammonisce di stare sempre pronti a mettere il secondo piede nel Paradiso eterno, scrive nella medesima lettera: «State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1 Ts 5, 16). È giusto essere sereni, cantare e proclamare con la nostra abituale serenità l’esistenza del Regno dei Cieli. È una apologia incisiva e convincente meglio che centomila ragionamenti a filo di filosofia e di teologia: se il battezzato è già iscritto nella anagrafe del Cielo, se già vive con Cristo in Dio, come non assicurare i suoi concittadini che il Paradiso non è una bella fiaba, ma una soavissima realtà che egli già sente e pregusta?

La tristezza del peccatore, ribelle e ostinato, non è forse già un anticipo di Inferno? E c’è chi non si trattiene dall’affermarlo pubblicamente: «Ho l’inferno addosso!» mi sono sentito dire più volte da chi un piede l’aveva nella dannazione, avendolo stretto nei ceppi del vizio.

La Chiesa è maestra di canto. I cristiani convinti e fedeli, traboccanti di Grazia, rivelano il Paradiso

con la loro fortezza d’animo, con la pazienza nelle avverse fortune, con la pace e la gioia.

Un cristiano felice del suo Battesimo, è profeta, ambasciatore, testimone dei beni futuri, del Paradiso; non dovrebbero esistere cristiani «tristi», se la loro testimonianza è quella stessa degli Angeli della Risurrezione (cfr Luca 24, 4): quali migliori «vesti sfolgoranti» di un volto costantemente sereno?

Non dovrebbe essere sempre evidente e lampante la differenza fra un discepolo e un non credente, fra un amico di Cristo risorto, e un forestiero?

I due che si recavano da Gerusalemme a Emmaus (clr Luca 24, 13-35) avevano «il volto triste» perché dubbiosi e orfani, spaesati anche se diretti alla loro casa. Ma quando riconobbero il Maestro resuscitato, di nuovo in pieno possesso della vita, allora «partirono senza indugio»: col cuore che si spaccava di gioia dovettero far ritorno a Gerusalemme

a dire e a dimostrare che Gesù era vivo. Lo si annunzia il Paradiso con la prova irrefutabile di una condotta in

linea perfetta con i beni eterni che nella speranza teologale già pregustiamo: l’amore alle cose di lassù. Come può essere creduto un araldo di beni invisibili che si dimostra così gretto e avaro, così incollato alle cose di quaggiù?

«Se dunque -scrive s. Paolo ai battezzati di Colossi- siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (COL 3, 1-2).

Due atteggiamenti correlativi, inseparabili come le ,due facce di un identico cristallo, vere e persuasive credenziali per l’annunzio del Paradiso: pace profonda e gioiosa, e distacco del cuore dalla caducità del mondo.

Ascoltiamo il Maestro divino: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo... Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (MATTEO 6, 19-21).

Per questo, mandando i suoi araldi, Gesù dirà: «...Predicate che il regno dei cieli è vicino... Non procuratevi oro, né argento, né monete di rame nelle vostre cinture...» (MATTEO 10, 7-10).

Le parole, anche le più veritiere e lusinghiere non convincono senza il sigillo delle opere.

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AI passo di Cristo risorto. I discepoli di Emmaus non camminarono più a testa bassa, tristi e disorientati: una volta sicuri della Resurrezione, si misero al passo di Cristo, passo di corsa. «Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano » (LUCA 24, 28): davvero lungo, interminabile il cammino di Cristo, ora che ha per sempre vinto le sbarre della morte. Chi lo vuol seguire... e stare al suo passo, non può rassegnarsi alla mediocrità, alla equivoca condotta di chi crede, ma nei fatti concreti mostra dubbio e ingenerosità.

Il Cristiano mediocre non sarà mai accolto e accettato come un teste autentico, meritevole di essere creduto e seguito. L’evangelizzatore non è un informatore, un cronista da giornale, o un narratore di fiabe; né un insegnante di filosofia cristiana o un teologo, un intenditore biblista. L’evangelizzatore è un seguace, un discepolo, un apostolo, un vangelo vivente; è Cristo resuscitato che continua il lungo cammino col cuore e nei passi di chi crede e vive di Vangelo.

I Santi, stupenda pleiade, questi sì che tengono il passo del Risorto, e non tollerano ambiguità, compromessi, ipocrisie e «false» testimonianze: il Cristo si specchia sul loro volto, predica ancora con le loro labbra, opera nella loro condotta.

L’evangelizzazione troppo spesso la si allinea con le mille forme di informazione sociale, e l’evangelizzatore con i molti cronisti e insegnanti; e l’incandescenza di un cuore innamorato? Non è forse questa che urge nell’animo dell’apostolo perché nulla ,e nessuno, né la pigrizia, né il rispetto umano, né l’apatia o il disprezzo altrui, né la persecuzione... lo possa far tacere?

Non sono i fiori di «plastica» o di panno o di seta... anche se rifiniti magnificamente, quelli- che diffondono il profumo! S. Paolo così dichiara ai Corinzi: «Io ritenni... di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso... E la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di

Dio» (1 COR 2, 2-5). Al passo dei Santi, dunque, se vogliamo conquistare il Mondo a Cristo risorto, ci spronano queste incandescenti parole di Paolo: «Siano rese grazie a Dio, il. quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e fra quelli che si perdono; per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita. E chi è mai all’altezza di questi compiti? Noi siamo infatti come quei molti che mercanteggiano le parole di Dio, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo» (2 CORINZI 2, 14-17).

Mi piace paragonare i Santi alle arcate dei ponti: ben piazzate nella valle dell’umiltà, ma slanciate verso il cielo, per portare Cristo, che è «Via» al possesso di beni immensi, eterni.

I Santi, arcate di ponte, fanno camminare la Chiesa, il Mondo.

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La «santità» chi è? Fissando bene i lineamenti o connotati dei Santi si scopre una simbiosi stupenda e commovente: è Cristo la santità; non una cosa o un complesso di doti e di pregi, di sentimenti e di gesta; una Persona divina che continua il miracolo della Incarnazione nella redenzione epifanica, luminosa, suadente nei battezzati che aderiscono in pieno a Gesù.

La santità è Gesù. «Un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito

immondo, si mise a gridare: - Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio -» (MARCO 1, 23-24).

E nella sinagoga di Cafarnao, dopo la promessa dell’Eucaristia, Pietro risponde al Maestro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (GIOVANNI 6, 68-69).

«Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli...» (EBREI 7, 26): di Lui respirano e vivono quanti, assecondando la spinta dello Spirito, anelano a un cristianesimo integrale, totalitario, perfetto. Dei suoi pensieri fanno oggetto di riflessione assidua, dei suoi gesti un codice di vita, delle sue promesse un tesoro di casa, dei suoi doni divini un patrimonio irrinunciabile.

Nei suoi Santi Cristo ancora scrive la Storia della salvezza, ancora predica il suo Vangelo; tutt’ora rivela i segreti del suo Cuore: i Santi sentono il divino, se ne nutrono, ne vivono. Dio è di casa con loro; essi sono di casa con Lui. Ognuno di loro può confidarci quanto l’Apostolo scrive ai Corinzi: «...I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato... Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1 COR 2, 11-16).

È per questa ragione che quando ci si incontra con un battezzato, che vive la sua vocazione cristiana radicalmente, senza equivoci, ci

si sente incoraggiati e sedotti a una revisione e a un pronunciamento più coerente?

La vita è una strada: venuti dall’eternità, a quella siamo diretti e sospinti: è una strada che corre sopra la valle del tempo, un ponte fra due sponde. Cristo è il nostro «ponte», la nostra strada, il nostro mediatore di salvezza; ma come si rivela potenza e misericordia per noi nei suoi Santi! Ce li mette sotto gli occhi, fragili come noi, tentati come e più di noi, ma forti e coraggiosi... come tutti noi possiamo diventare se ci lasciamo invadere e possedere dal «Santo di Dio» Gesù. Arcate di ponte, i Santi.

Ma è Gesù che in essi impasta il cemento col ferro, la debolezza con la potenza, l’incapacità con la sicurezza e la riuscita. Sono essi a riconoscere il potere prodigioso della Grazia che da Gesù scorre nelle loro vene: «Questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio. Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio...» (2 CORINZI 3, 4-5).

L’invito alla santità è rivolto a tutti (cfr Matteo 5, 48); Cristo si offre a tutti, anche agli sfiduciati, agli stanchi, agli anchilosati che barcollano sotto il peso di infinite debolezze e piaghe.

«Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò... Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (MATTEO 11, 28-30): ammiriamo la sicura fermezza con cui arcate gigantesche, su colonne alte e sottili, sorreggono il ponte che mena alla sponda dell’Eterno. È la strada che viene sorretta, o la strada sorregge e solleva le arcate e le colonne?

Cristo è questa misteriosa «strada» (cfr Giovanni 14, 6). La percorrono, quasi portati, a volo... i poveri di spirito. I Santi.

S. Agostino ci sussurra all’orecchio un delizioso segreto: «L’Eucaristia! Quale mistero di pietà! Quale segno di unità! Quale vincolo di amore questa eucaristia! Chi vuole spiritualmente vivere, ha dove vivere, ha di che vivere! Si avvicini, creda, si incorpori, e resti vivificato»!

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Regole facili per un’impresa difficile. I poveri di spirito non sono fatti per progetti o programmi troppo studiati e difficili: fanno pensare all’adolescente Davide che non si rassegna alla pesante armatura offertagli dal re Saul (cfr 1 Samuele 17, 39), e se ne libera. «Poi prese in mano il suo bastone, si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li pose nel suo sacco di pastore che gli serviva da bisaccia; prese ancora in mano la fionda e mosse verso il Filisteo (Golia) ». Bel coraggio! vorremmo suggerire al Ragazzo, ma la Fede nel Signore lo percorre per dargli l’ardimento dei campioni e degli eroi.

Davide così risponde agli insulti e alla sfida di Golia: «Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schire d’Israele, che tu hai insultato. In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani... » (1 SAMUELE 17, 45).

Nulla di complicato nella condotta dei Santi: li attira lo Spirito Santo che è Semplicità assoluta. Cristo Gesù si rivela ai piccoli, incapaci di complicazioni e di problematiche (cfr Matteo 18, 3).

Che la santità sia un’impresa difficile nessuno ne dubita: c’è da fare i conti con Golia, personificazione dei vizi capitali, del nostro difetto predominante, delle insidie di Satana, delle lusinghe di una mondanità fascinosa, insomma di quanto non è «santo», ossia secondo la mente e lo stile di Cristo.

Nelle cinque scaglie con le quali Davide affronta il gigante per abbatterlo, ci pare di trovare, in parabola, le cinque regole facili, semplici, alla portata degli innocenti o dei penitenti, che lealmente vogliono realizzare Cristo in se stessi, poiché, tale è la santità. Ne parleremo nelle pagine che seguono.

Ora, a scanso di equivoci e di illusioni, ripetiamo che non si tratta di un gioco d’azzardo, o di una commedia a lieto fine; né di un campionato riservato ad anime di lusso, nate già sante (sic!) o incapaci di scelte negative, quindi già «presantificate».

Non è affare da poco, verissimo; ma non è monopolio di

aristocratici: la bimillenaria storia della Chiesa ce lo può dimostrare all’evidenza.

Chi ama vivacchiare, abbandoni l’idea. Ma ricordi che una sola volta si ha l’incommensurabile dono

della vita. Chi si pasce di fallaci sentimentalismi, nemmanco incominci. E ricordi che «il regno di Dio non è questione di cibo e di bevande,

ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (ROMANI 14, 17). Si faccia avanti chi vuole realizzare tutti i talenti ricevuti,

disposto alla lotta, ad andare contro corrente, a seguire con la croce, ogni giorno il Maestro: è sul Golgota il ring, l’urto che decide.

Preavviso buono per tutti: «Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (MATTEo 11, 12)!

Tuttavia a nessuno manchi il coraggio: se il Maestro chiama, si impegna a condurci alle vette; non lascerà alcuno a mezza strada, di coloro che hanno creduto in Lui.

Come a Giosuè anche a noi dice il Signore: «Come sono stato con Mosé, così sarò con te; non ti lascerò né ti abbandonerò. Sii coraggioso e forte» (GIOSUÈ 1, 5-6).

«Il Cristianesimo non è facile, ma felice!» (Paolo VI), a nostro conforto.

Purché il nemico del Regno di Dio, l’insultatore, l’antiDio, non lo si scambi mai per un amico, né si venga a patti con le sue astute macchinazioni.

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«Sì, Padre» (MATTEO 11, 26). Fede, speranza e carità hanno certamente ispirato, guidato e sostenuto il pastorello Davide e portato alla vittoria: sono le stesse energie che percorrono con l’impeto dello Spirito ogni battezzato che non opponga resistenza alla misteriosa e onnipotente azione divina.

Dal torrente cui beviamo ogni giorno - se la vita, che corre irrefrenabile, amiamo assomigliarla al torrente - dobbiamo cavare il primo «ciottolo liscio», la prima facile regola di vita santa: un «Sì, Padre» accanto all’altro... e avremo la colonna e l’arcata del ponte che porta all’Infinito.

Non ci sembri faticoso, arduo, pressoché impossibile coniugare col tic-tac del nostro tempo, l’adesione ispirata, guidata, sostenuta dalla Grazia. Il nostro «Sì» è ben poca cosa, meno che un sassolino, un granino di sabbia, di fronte all’immenso Potere, all’incalcolabile Volere di Dio che crea e regge l’universo, presiede alla storia universale e alla sorte di ogni minuta creatura, all’evoluzione colossale che si attua nei millenni, al progresso dei popoli, al respiro di ogni vivente.

Tutto intorno a noi è obbedienza al Creatore, se è vero quanto afferma solennemente la Scrittura: «Tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso. Prevalere con la forza ti è sempre possibile; chi potrà opporsi al potere del tuo braccio? Tutto il mondo davanti a te, come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra» (SAPIENZA Il, 20-21). Un coro di uccelli mi rallegra mentre scrivo queste righe, qui in faccia al sole che tramonta: non è forse un «Sì, Si, Si!» che si ripete innumerevoli volte, come le minuscole note di un’immensa armonia?

Non sarà gran cosa se al concerto aggiungeremo il nostro «Si, Padre», interpretativo dell’anelito incontenibile del creato, di cui l’uomo è cantore intelligente, e responsabile? Per Cristo Signore, in lui e fatti suoi nel mistero battesimale, il nostro atto di accettazione della volontà del Padre, anche nei più insignificanti attimi del nostro vivere, tocca l’Infinito, galvanizzato di Spirito Santo, si getta nell’Eterno. Qui l’uomo diventa «gloria del creato», e il suo

umilissimo «Si, Padre» si fonde nel «Fiat!» della Creazione, nell’«Ecce venio!» della Incarnazione, nel «Consummatum est» del Golgota che vince la morte.

Forse un dubbio viene qui a disturbarci: come posso essere certo di compiere sempre il Volere divino? La Sapienza ci obbliga a prendere in esame tale dubbio: «Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni... » (9, 13-14).

Nella coscienza due luci fanno chiaro, se non ne sabotiamo il provvidenziale servizio: la ragione e la Fede; natura e Grazia; Dio stesso, artista sommo, parla e insegna. Se ogni uomo è immagine di Dio, un occhio «lucido» (cfr Matteo 6, 22), un cuore non schiavo del peccato (cfr Sapienza 1, 4), sente la voce del Signore e vi aderisce: «Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (GIOVANNI 14, 26).

È la Chiesa, madre e maestra, la nostra guida; mediante i suoi Pastori ci istruisce sulle intenzioni e i voleri di Dio.

Il tracciato è segnato dal Verbo Incarnato, «se le sue parole rimangono in noi» (cfr Giovanni 15, 7): «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita» (GIOVANNI 6, 23).

Una segnaletica minutissima la possono godere i Religiosi, se sanno leggere la santissima Volontà nell’orario, nell’ufficio, nelle indicazioni o precetti dei superiori.

E le circostanze - casi varie e spesso imprevedibili - non sono forse anch’esse messaggere dell’Altissimo, per chi cerca nel torrente dell’esistenza che corre «ad Deum» l’onda che sospinge, partita dalla Fonte?

La Bibbia non è forse un epistolario indirizzato a noi, per le mani della Chiesa, nell’alveo della Tradizione, dalla Provvidenza divina? Il Vangelo, cuore della Bibbia, è una manifestazione chiara e suadente della Volontà del Padre nostro che è nei cieli: il vescovo martire s.Cipriano di Cartagine scrive che «la volontà di Dio è quello che Cristo ha fatto e insegnato»; tocca a noi assimilarlo con

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grande passione. Una volta diventati discepoli affezionati e docili del Vangelo,

ognuno di noi potrà confessare di aver trovato nell’obbedienza al Padre il miglior stipendio della vita:

«Signore, mia eredità per sempre sono i tuoi comandamenti sono essi la gioia del mio cuore. Ho piegato il mio cuore ai tuoi comandamenti, in essi è la mia ricompensa per sempre» (SALMO 118).

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...Ma nell’amore! Regola d’oro, questa della piena accettazione di quanto il Padre amandoci divinamente dispone per noi, ma purché sia l’Amore, quello che seduce la nostra volontà e la conquista a Dio: logicamente qui parliamo di un amore battezzato, soprannaturale, bruciante di Spirito Santo.

«Questo amore, dice l’Imitazione di Cristo (libro 3°, 5), è pronto, sincero, pietoso, giocondo e dilettevole, forte, paziente, fedele, prudente, longanime, virile e tale che non cerca mai se medesimo. Quando infatti uno cerca se stesso, allora egli travia dall’ amore».

La Carità è fuoco che di sua natura tende a salire incenerendo quanto si rifiuta di ascendere perché ancora carnale o attaccato alla vanità, o comunque indegno del Padre. Per questa legge invalicabile l’Amor vero, quello che santifica e divinizza ogni istante, deve fare i conti col dolore che decanta e cata1izza, purifica e sublima: «Senza dolore non si vive nell’amore» (Imit. di C. 3°, 5).

Innanzitutto mai dubitare dell’adorabile paternità di Dio e del suo amore per ciascuno di noi, sempre in ogni circostanza della vita:

«Del tuo amore, Signore, è piena la terra; insegnami il tuo volere» (SALMO 118).

Perché non dovrei fidarmi di Lui? Purtroppo è questo il nostro male endemico, torto grave, vecchio quanto il peccato originale: dubitiamo nell’ora della tentazione, come se la sua Legge venisse a minorarci, a espropriarci di quella libertà che Dio stesso ci ha donato. Ma il Padre ci ama, e geloso tutore della nostra libertà, ci sostiene con la Legge perché, errando, non decadiamo dalla singolare dignità di suoi figli.

«Hai fatto bene al tuo servo, Signore, secondo la tua parola. Insegnami il senno e la saggezza perché ho fiducia nei tuoi comandamenti» (SALMO 118).

...Poi educare il cuore all’amore di quanto è buono, giusto, santo, amabile, benefico a sé e alle anime; crearsi un palato dai gusti fini, rifiutare per sé e per gli altri tutto ciò che porta alla connivenza col peccato, unico vero nemico sia della vita naturale e soprannaturale, che privata e sociale. È un amore di sé «interessato», ma giusto e doveroso. Pian piano scopriremo in noi il senso del peccato, quasi un radar spirituale che avverte l’approssimarsi dell’«ombra di morte», e spinge a dirottare su altre mete.

Seguire Dio, lasciarsi guidare, fidarsi di lui: qui sta la più vera realizzazione dell’uomo!

S. Paolo scrive agli Efesini: «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (EF 5, 1-2). Scrive Teresa di G. B.: «Gesù può tutto e la fiducia fa miracoli... Ciò che offende Gesù, ciò che lo ferisce al Cuore è la mancanza di confidenza».

È possibile innalzare l’edificio di una non vanesia santità, senza una fiducia che esclude limitazioni, e porti ad abbracciare la divina Volontà?

Signore, mio Bene, «attirami dietro a te, corriamo!» (CANTICO DEI CANTICI 1, 3).

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L’arpa a dieci corde. Davide si propone di inneggiare al suo Signore, che chiama sua roccia, suo allenatore alla lotta, sua grazia e sua fortezza, rifugio e liberazione, scudo in cui confida:

«Mio Dio, ti canterò un canto nuovo suonerò per te sull’arpa a dieci corde; a te, che dai vittoria al tuo consacrato, che liberi Davide tuo servo» (SALMO 143).

Per coloro che credono all’Amore divino e rispondono con pari fervore e affetto, i dieci comandamenti non sono che dieci corde di un’arpa con cui cantare la riconoscenza e fare della vita di ogni giorno una danza.

In essi la Sapienza divina ci prende per mano, maternamente sollecita della piena realizzazione di ognuno e della riuscita finale nell’eternità. O siamo così lontani dal vero, da pensare che Dio venga a elemosinare alcunché da noi, attraverso dieci pretesti o diritti, senza dei quali siano compromessi i suoi attributi? I comandamenti non sono tasse che la Giustizia riscuote, ma servizi che rende all’uomo desideroso di giustizia; non siamo noi a tutelare l’esistenza e la provvidenza e le attese di Dio, né Lui intende imporre una tutela da minorenni, ma è Lui che mette a nostro vantaggio Se stesso perché vivendo di Lui, la nostra libertà «liberata» da ogni inganno orbitizzi nell’Infinità.

I comandamenti, ben capiti, e beneaccetti sono ali per il volo, non manette o ceppi: chi non li accoglie e si ribella, tradisce se stesso e si fa carceriere e carcerato con le sue stesse mani.

Abbiamo parlato di santità: ebbene, perché non resti un bel sogno, ma un puro sogno, persuadiamoci di dover una riconoscenza entusiastica al Signore che al nostro volo - perché sortisca felicemente - spazza via ogni ostacolo.

Le tentazioni di vario genere che ci buttano fra i piedi lacci luccicanti come monili preziosi, non sono in realtà, dei veri nemici che insidiano la nostra sicurezza e la nostra serenità? Talvolta sono così noiose e abbaiano furibonde come cani mastini, e pensiamo vogliano procurarci un vero benessere?

Non son forse tutti e dieci ugualmente diretti a proteggere la nostra vita, le nostre prerogative, i nostri beni, il finale successo dell’esistenza? Anche quando -come nei primi tre comandamenti -a noi sembra che Dio cerchi una autodifesa, in verità non fa che aiutarci a rispettare e amare la Fonte dalla quale derivano i nostri beni, la vita, la Grazia, la libertà, la pace.

Mai l’uomo si riscopre grande e signore, come quando, dominando passioni e tentazioni. è uscito al largo, ha respirato bontà e Grazia.

«Sia benedetto il Signore, che non ci ha lasciati in preda ai loro denti. Noi siamo stati liberati come un uccello dal laccio dei cacciatori: il laccio si è spezzato e noi siamo scampati» (SALMO 123).

La stessa vita domestica, la convivenza sociale, non sarebbero grandemente avvantaggiate dall’osservanza fedele dei comandamenti di Dio? Il santo timore di Dio crea nei singoli e nelle comunità e nei popoli il gusto della giustizia, l’amore all’ordine, l’esigenza del reciproco rispetto e l’armonia degli animi.

Ma chi si fida del Signore? C’è chi si guarda bene dal nominare il santo Nome, e chi vorrebbe defenestrare ogni vestigia religiosa: di conseguenza si dovranno inventare ogni giorno nuove leggi, e comminare nuove sanzioni.

«Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode» (SALMO 126).

«Il “SI Padre” è il nostro ideale, la grande passione che alimenta la nostra vita, la nostra parola, la nostra opera: è vita nostra», scrive Richard Graf.

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L’esiguità dei mezzi esalta la magnanimità dell’Artista. La seconda regola di vita vissuta nella santità sta nell’accettare la nostra esiguità che si manifesta ogni giorno, a ogni passo, in centomila forme. La santità «nostra» è ben diversa da quella angelica; è la santità di peccatori che hanno bisogno di continua conversione. Non gonfiamoci di vento, non nutriamoci di illusioni; ma scopriamo e ammiriamo con estatico stupore e gioia sempre nuova la grandezza della Misericordia divina messa di continuo a favore della nostra esiguità, chiamata nonostante tutti i suoi limiti, alla perfezione del Padre.

Dal torrente, Davide raccoglie questo secondo ciottolo liscio, un modestissimo sassolino, battuto e sbattuto dalle acque e lisciato da infinite percosse: servirà splendidamente a mettere in risalto il braccio forte del Dio degli eserciti.

D’altronde è proprio confidando in quel «braccio» che Davide si accingerà a imprese colossali, da ciclopi, diremmo da Santi: forse potrà dimenticare le sue umili origini, la fonte inquinata, i suoi limiti, la sua creta... ora che si ritrova strumento vivo della Provvidenza?

«Ecco, nella colpa sono stato generato nel peccato mi ha concepito mia madre. ...Distogli - Signore - lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe» (SALMO 50). La piccolezza del suo essere ha suggerito un cantico di commossa

riconoscenza a Colei che «tutte le generazioni chiameranno beata», quando si accorse che l’Onnipotente non s’era arrestato di fronte all’umiltà della sua serva, ma aveva operato grandi cose (cfr Luca 1, 46-49).

Chissà quante volte abbiamo sentito anche noi fremiti di profonda esultanza dopo una Confessione umile e sincera che aveva posto davanti all’immensa compassione di Gesù le nostre piaghe!

S. Paolo, stupito per i prodigi della Misericordia a suo favore scrive ai Corinzi: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per

Cristo; quando sono debole, è allora che sono forte» (2 COR 12, 9-10). Paradosso stupendo, che ognuno di noi può far suo «incessanti voce».

Stile divino che Gesù non abbandona mai: sei giare di pietra riempite di povera acqua non mettono in imbarazzo il Maestro che vi farà attingere vino eccellente, se i rimasti senza vino, obbediranno fiduciosamente (cfr Giovanni 2, 1-11); cinque pani e due pesci per una folla di gente che ha fame, possono mettere a dura prova il più accorto economo, non Lui, se i discepoli obbediranno e porteranno con fiducia quest’esiguità (cfr Matteo 14, 15-21); il «nulla» preso dopo aver faticato tutta la notte permetterà a Gesù di rivelare a Simon Pietro «peccatore» l’esagerato Amore, se sulla sua parola getterà le reti (cfr Luca 5, 4-8); e che cosa portò di suo il paralitico della piscina, se non un’accorata confessione delle sue miserie, né altro chiese il Salvatore, se non che si levasse, prendesse il suo lettuccio e camminasse (cfr Giovanni 5, 2-9); andò, si lavò e tornò che ci vedeva... il cieco nato al quale la «Luce del mondo» aveva spalmato gli occhi con fango e ingiunto di lavarsi nella piscina di Siloe (cfr Giovanni 9, 1-7); basteranno un po’ di pane e un calice di vino e dei poveri uomini per lasciarci nell’ultima Cena i doni supremi di un Amore abissale (cfr Luca 22, 19-20) l’Eucaristia e il Sacerdozio ministeriale.

L’esiguità di Zaccheo, sempre piccolo anche sui rami del sicomoro, non impedirà che in quella casa si imbandisca una grande festa (cfr Luca 19, 1-10): perché ci dimentichiamo che «il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto?».

La chiamata di ognuno di noi alla santità non ci sconcerterebbe affatto, e obbedendo, vedremmo il grande prodigio. «Oggi abbiamo visto cose prodigiose»: la potenza del Signore aveva con due semplicissime parole guarito la paralisi dell’anima e del corpo (cfr Luca 5, 17-26).

Davanti a quella Onnipotenza conta assai, chi conta poco o nulla. Don Giovanni Calabria afferma a conclusione di una lunga

esperienza apostolica: «Per compiere grandi cose il Signore si serve d’ordinario dei più umili strumenti; ea quae non sunt!».

L’amorosissimo sguardo di Dio è sui piccoli, sugli umili, su quanti non presumendo di sé, confidano in Lui:

«Eccelso è il Signore e guarda verso l’umile ma al superbo volge lo sguardo da lontano» (SALMO 137).

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«Ciò che molte anime non vogliono fare». Scrive s. Teresa di G. Bambino (13 luglio 1897):

« ...Come sono poco conosciuti la bontà e l’amore misericordioso del Cuore di Gesù! È vero che per godere di tali tesori, dobbiamo umiliarci, riconoscere il proprio nulla, e questo appunto, è ciò che molte anime non vogliono fare »; e altrove dice: «Quando accettiamo umilmente l’umiliazione di essere stati imperfetti, il buon Dio ritorna immediatamente a noi ». Il Signore tien conto delle nostre debolezze, conosce perfettamente la fragilità della nostra natura. Di che mai potrò io temere?

Nella vita spirituale non è raro essere dei sognatori, credere che i buoni passi fatti nell’onestà, nella Grazia, nell’apostolato diano diritto a crederci dei titani, forti, capaci, invulnerabili, sicuri: è quella superbia spirituale che ti lascia nel fondovalle e rischia di insabbiarti per sempre nella più goffa delle presunzioni.

La fragile nostra creta è chiamata a percorrere aspri sentieri, camminamenti impossibili, a toccare cime inafferrabili; ma ad un patto: che accettiamo la nostra creta, e lasciamo che in noi, nella nostra carne inferma, trionfi la Misericordia. Se vogliamo cambiare natura, cessare di essere creta, Dio ci lascia seppelliti nelle nostre idiozie. Sinceri e fiduciosi diciamo: «Signore, tu sei il mio Dio; voglio esaltarti e lodare il tuo nome, perché hai eseguito progetti meravigliosi, concepiti da lungo tempo, fedeli e veri... Perché tu sei sostegno al misero, sostegno al povero nella sua angoscia, riparo dalla tempesta, ombra contro il caldo...» (ISAIA 25, 1.4).

Il piagnucolare e lo scoraggiarsi giovano soltanto alla affermazione e alla proliferazione dell’orgoglio ferito. La compunzione che deriva dallo Spirito, riaccende l’umile fiducia, la voglia della riparazione e... la fretta della ripresa.

La santità non sta nel piacere a se stessi, non è una specie di sacro «narcisismo», né un gioco assurdo o la scalata dell’Olimpo: sarebbe perfettismo, e non perfezione, una autentica, anche se mascherata, idolatria di sé.

Regola «facile» l’abbiamo chiamata; tuttavia quanta fatica a

riconoscerci per quelli che realmente siamo! Così vorremmo costruire un edificio tanto alto, la santità, sulla falsità e sulla ipocrisia: è un ridicolo scimmiottare la « perfezione del Padre celeste ».

A nostro conforto l’Imitazione di Cristo (libro 3°, 30) fa dire così al Signore: «Non si turbi il tuo cuore e non si sgomenti. Credi in me e abbi fiducia nella mia misericordia. Quando tu pensi d’esser lontano da me, spesso è allora ch’io ti sono più vicino. Quando stimi che ormai quasi tutto sia perduto, spesso proprio allora sei sul punto di far maggiore guadagno ».

«Ma io a te, Signore, grido aiuto, e al mattino giunge a te la mia preghiera. ...Sono infelice e morente dall’infanzia sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori» (SALMO 87).

Perché dimentichiamo le nostre malattie che portiamo, croniche, dalla culla?

Se ce ne ricordassimo, queste stesse si muterebbero in fortune, e saremmo preservati dal grande male, l’unico che compromette a ogni istante il cammino della perfezione.

«Signore, anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro dal grande peccato» (SALMO 18).

Riascoltiamo s. Teresa di G. Bambino che ci incoraggia alla prassi di questa «facile» regola di santa vita: «La santità non consiste in tale o tal altra pratica, la santità consiste in una disposizione del cuore che ci rende umili e piccoli fra le mani di Dio, coscienti della nostra debolezza e fiduciosi fino all’audacia nella sua bontà di Padre».

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«Non fare a nessuno ciò che non piace a te»: raccomanda Tobia al figlio, dopo aver anche detto: «Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio» (TOBIA 4, 15.7). Terza regola facile di vita santa, distintivo caratteristico della santità concepita secondo il Vangelo: l’amor fraterno, senza frontiere, senza misure. Quelle cinque famose scaglie lucide raccolte nel torrente non dovevano forse servire a compiere un’intenzione divina, nonostante l’esiguità del pastorello e dell’arma stessa, a beneficio comune della Nazione? Non per divertimento o spirito snobista o per piacere di avventura Davide avrebbe sostenuto l’urto contro Golia, ma per un dovere di carità, di servizio sociale.

Non parliamo di santità prescindendo dalla pratica costante della carità: Dio lo raggiungeremo solo attraversando il cuore dei nostri fratelli, nei quali Dio si cela come in altrettanti tabernacoli viventi. Un culto che prescinda dal servizio ai fratelli (e «ogni uomo è mio fratello») non incontra il gradimento del Signore: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va, prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (MATTEO 5, 23-24).

Il culto all’Eucaristia, o al Sacro Cuore, deve, se autentico, portare alla bontà, educare il cuore alla pazienza, spingere al perdono, animare di iniziative sociali, creare una sensibilità finissima così da captare ogni sofferenza per portarvi conforto.

S. Paolo, che ha inteso bene il pensiero del Maestro, non si dà pace finché non vede i battezzati uniti in un cuor solo, in perfetto vincolo, nella carità; ai Colossesi prescrive: «Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!» (COLOSSESI 3, 14-15). E ai Corinzi aveva predicato così bellamente della carità! «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, o possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità,

non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine (1 COR 13, 1-8).

Su questo codice si possono imbastire revisioni e verifiche per ogni riforma spirituale: si troveranno debiti vecchi ed esigenze nuove.

D’altra parte non siamo forse tutti inclini alla bontà nonostante le pretese e i brutti tiri dell’egoismo?

S. Paolo parla spesso di «riconoscenza »: è carità, ne abbiamo bisogno tutti, anche se l’ingratitudine è un difetto così generale; la Scrittura parla di «elemosina» e chi di noi non manca di qualche cosa?

Soleva ripetere la Serva di Dio Mamma Rosa Barban (1932): «Desidero e sono lieta di essere poverella, perché mi sembra d’essere così più amata dal Signore. Se fossi ricca, avrei quasi paura che Dio non mi voglia più tanto bene e che mi aiuti di meno! Il Signore ci provvede di più, quando facciamo la carità per suo amore. Se doniamo qualcosa ai poveri, è come se l’offrissimo a Gesù in persona. Questo pensiero mi commuove tanto, che darei via anche me stessa». Mamma Rosa fece sul serio: oltre i nove figli del suo sangue, ne accolse come adottivi ed educò cristianamente altri cinque.

Aveva appreso dalla Religione che «Chi opprime il povero offende il suo Creatore, chi ha pietà del misero lo onora» (PROVERBI 14, 31). Come Tobia, ora il Maestro ripete la grande lezione: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti» (MATTEO 7, 12).

S. Leone Magno in un’omelia quaresimale afferma una consolante verità: «Non esiste cosa più bella per l’uomo che di imitare il suo Creatore e, nella misura delle proprie possibilità, sviluppare l’opera divina. Ora, quando si dà da mangiare agli affamati, si vestono gli ignudi, si assistono i malati, non è come se la mano del servitore venisse a completare quello che è l’aiuto di Dio, e la bontà dello schiavo fosse essa stessa un dono del Signore? Questi certo per mettere in atto la sua misericordia non ha bisogno di collaboratori, pure ha regolato la sua onnipotenza in maniera tale da venire incontro ai travagli degli uomini per mezzo degli uomini. Ed è giusto quindi che si ringrazi Dio per i soccorsi della carità, perché son sue le opere che appaiono nei suoi servi...».

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La carità più divertita. Il più bel gioco è quello di imitare Dio, la sua Provvidenza, il suo Amore: mutuando quello stile ci si sente crescere e ingigantire. Avete mai provato ad assaggiare la soavità verginale di un atto di carità non avvertito da nessuno, del tutto seppellito nel silenzio? E non abbiamo sentito fremere il nostro intimo dopo un gesto di bontà - un regalo, un favore, un servizio - reso a chi ci aveva pestato i piedi o percosso una guancia? Chi non ha pregato per i suoi avversari - un compagno di lavoro, un collega di ufficio, una cognata o la nuora o la suocera o un figlio!... o un coniuge - sentendo forte la presenza di Dio, fatto esperto di uno stile trascendente e divino?

E il dare più del giusto, oltre le esigenze della convenienza, nel vasto spazio della generosità? E il prestarsi, senza esserne ri,. chiesti; l’offrire senza esserne pregati; il ringraziare chi ha fatto il buon viso alla nostra carità o ci ha consentito di farla?

È carità divertente; è il giuoco abituale di Dio. Ti lascia una carezza nel cuore. E la nostalgia di porgere l’altra guancia; di cercare un altro povero;

di sostare al letto di un altro infermo; di radere la barba a un altro vecchio o di accendergli il sigaro o di spostargli l’ombrellone che lo ripara dal sole..: Quante gentilezze, se stai al codice stradale e guidi con senso di responsabile carità!

Dal buon Dio c’è poi da imparare ancora: che le mani siano pulite, che siano, come quelle di Cristo Dio, forate dai chiodi; La nostra carità parte da un cuore puro, da intenzioni rette, da un desiderio sincero di purificazione; e non sia priva del prezzo che le dà un valore salvifico universale, quello del sacrificio.

Il vertice della carità è il Golgota, dove il Verbo Incarnato agonizza e muore per gli amici e per i persecutori: bere a quel calice, partecipare a quella passione redentrice è un onore, è il segno supremo della carità. Soffrire cioè per i peccati propri e per quelli degli altri. È commovente il gemito di Gerusalemme che si vede strappare i figli a causa dei loro peccati: «Ascoltate, città vicine di Sion, Dio mi ha mandato un grande

dolore. Ho visto, infatti, la schiavitù in cui l’Eterno ha condotto i miei figli e le mie figlie. Io li avevo nutriti con gioia e li ho dovuti lasciare con lacrime e gemiti. Nessuno goda di me nel vedermi vedova e desolata; sono abbandonata per i peccati dei miei figli che deviarono dalla legge di Dio» (BARUC 4, 9-12).

Pregare per chi non prega. Lodare il santo Nome per chi lo insulta. Adorare l’Eucaristia per coloro che la ignorano o profanano. Perdonare le offese; non fame parola. Seppellire nell’oblio ingratitudini e disprezzo. Fare penitenza per chi pecca e se ne ride. Offrire al Signore una condotta innocente, perché siano risparmiati e

perdonati i peccatori. Benedire, benedire sempre. E aprire gli orecchi e, il cuore perché nessun dolore umano gridi a

noi, inascoltato. Ad ogni ora, ad ogni istante del giorno e della notte, se ben ascolto,

qualcuno geme, che nasce, che muore, che lotta per non morire; forse nell’anima grida... chi si sforza di ridere e forse sghignazza e disturba il tuo sonno. Dal nostro posto di servizio rispondiamo con la fedeltà al dovere: non sarà molto, ma Qualcuno fascerà per noi quelle ferite, se altro non possiamo offrire.

È questa la maniera più vantaggiosa per arricchire in vista dell’eternità: «Benefica se stesso l’uomo misericordioso» (PROVERBI Il, 17); «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (MATTEO 5, 7).

E facciamoci santi per i nostri fratelli! Scrive Charles de Foucauld: «Per fare al prossimo il bene che Dio

vuole che noi gli facciamo, impieghiamo tutti i mezzi che Egli stesso mette a nostra disposizione, aggiungendovi sempre la preghiera (il più potente di tutti i nostri mezzi d’azione), ma soprattutto rendiamoci santi, perché l’essere santi noi stessi è un mezzo per santificare il prossimo, talmente più efficace di tutti gli altri che a paragone di questo tutti gli altri sono un nulla. Con questo mezzo, con la santità personale, gli altri mezzi, per quanto deboli essi siano, acquistano una forza incomparabile».

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La via stretta. Non è mai stato facile Vivere un cristianesimo radicale; non lo è oggi. Tuttavia un’altra regola «facile» accessibile a tutti è offerta a quanti aspirano alle più coraggiose conquiste spirituali: il sentiero che, abbandonata la strada larga, asfaltata, meno ripida, punta per direttissima alle vette. È il sentiero che non offre perditempo, non scansafatiche, non si attarda a deliziose fonti o ai belvedere: ha fretta,e brucia le tappe. Educa all’austerità, alla povertà evangelica, alla mortificazione, al distacco: è un sentiero che stacca presto e spinge in alto. È un sentiero, si dice, che tira...

Ma a costo di sangue e gola, non lo dobbiamo lasciare per scelte meno seccanti e più comode. Il Maestro, che ci dimostra stima e fiducia proponendoci la perfezione del Padre celeste (cfr Matteo 5, 48), ci indica subito a quale regime ci dobbiamo allenare: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (MATTEO 7, 13-14). Ricalcando quel monito, l’Imitazione di Cristo (libro 2°, 9) afferma: «Molto e a lungo deve l’uomo combattere dentro di sé, prima di imparare a superare completamente se stesso e a volgere a Dio tutto il proprio affetto. Quando l’uomo fa punto d’appoggio se medesimo, cade facilmente nella ricerca delle consolazioni umane. Ma il vero amatore di Cristo e fervente seguace delle virtù non si abbandona a siffatte consolazioni, non cerca tali sensibili dolcezze, bensì piuttosto si adopera a sostenere forti prove e dure fatiche per amore di Cristo».

È difficile parlare all’uomo moderno, che vive in mezzo a un carnevale continuo, di mortificazione e di austerità: gli potrebbe sembrare un oltraggio alla civiltà e al progresso; ma chi è tanto cieco da non scorgere fra tanta baldoria un’esistenza vuota di valori autenticamente validi, umani e cristiani?

La civiltà consumista a oltranza, e il costume sfacciatamente permissivo... non stanno alienando l’uomo dai suoi valori primari e dalla realizzazione di beni superiori, ultrasensibili, eterni, quasi

imprigionandolo nella materia, e seppellendolo nel transitorio ed effimero presente? Potrebbe tuonare anche sulle nostre piazze il profeta Isaia per ricordarci che per altri beni siamo stati creati uomini e... redenti da Cristo.

«O voi tutti assetati venite all’ acqua... Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? ...Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete. ...Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo,mentre è vicino» (Is 55, 1-6).

Davide si presenta alla grossa impresa con un allenamento da forte: «Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso» (1 SAMUELE 17, 36); non è cresciuto nella dolce vita ma nell’austera asprezza della vita campestre al seguito dei greggi.

Gli Apostoli erano persone già preparate alla fatica; e il Maestro per fame altrettanti pescatori di uomini li condurrà per le vie strette di distacchi e rinunce mai finite.

Regola facile, questa? Certamente per coloro che al seguito di Gesù portano buone spalle e

un cuore forte. La robustezza spirituale non si adatta alla dolce vita, la respinge come declassante e meschina; preferisce ciò che più secca a ciò che rammollisce e debilita. Il Vangelo creduto e seguito conserva l’ardimento e l’entusiasmo dei giovani.

«Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno» (1 GIOVANNI 2, 14).

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Volto austero, ma cuor contento! Il volto abbronzato del pastore dalla vita dura e rotta a ogni intemperia, nasconde sotto un cuore forte, perennemente giovane, contento: Davide deve aver imparato per tempo a cantare, se non gli venne meno il coraggio davanti al gigante bestemmiatore e violento, né mai gli mancò la serenità nelle continue lotte e nelle stesse umiliazioni. Ecco il quinto sasso liscio pescato nel. fiume per abbattere il colossale Golia: la felicità del cuore.

Senza questa colonna portante mancherà una arcata difficilmente sostituibile alla costruzione di un’esistenza genuinamente santa. «Cuor contento ciel l’aiuta!». «Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri. La gioia del cuore è vita per l’uomo, 1’allegria di un uomo è lunga vita. Distrai la tua anima, consola il tuo cuore, tieni lontana la malinconia. La malinconia ha rovinato molti, da essa non si ricava nulla di buono» (SIRACIDE 30, 21-23).

Dobbiamo essere contenti, se vogliamo realizzare un programma impegnativo qual è appunto quello della santità. Tristezza e infedeltà prima o poi si accompagnano e gettano all’aria ogni proposito di perfezione: fedeli, se felici; pur riconoscendo che la fedeltà porta con sé immancabilmente nuova carica di felicità, la gioia propria di chi ha lottato e ha vinto.

Le Beatitudini, già per se stesse annunzi austeri di vera gioia, terminano col precetto augurale: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (MATTEO 5, 12).

Siamo figli di Dio nostro Padre; siamo proprietà di Cristo e insieme suoi possessori; al seguito del Risorto siamo incamminati in comunione con una moltitudine di credenti, alla conquista di una Felicità immensa: che cosa può mancare al gaudio del cuore?

La gioia è il profumo di un mazzo di fiori, la risultante di molte componenti anche minime e quasi insignificanti: coltiviamo questo giardino, e difficilmente la tristezza ci aggredirà.

Ottimisti per. vocazione, non sapremo scorgere e ammirare l’aspetto positivo di cose, persone e fatti?

«Non tutto il male vien per nuocere»; se continuassimo a fissare

l’occhio sulle spine, non sentiremmo più il profumo di quelle stesse rose che le spine hanno il compito di proteggere.

Seguaci coraggiosi di un Condannato alla Croce, non avremo tanto spirito di adattamento da «saper fare di necessità virtù e sorridere a cattiva sorte»?

O non crediamo al Padre che conta persino i capelli del nostro capo (cfr Matteo 10, 30)?

Attenti a non lasciarci sorprendere da un trabocchetto dal quale non si salvò nemmeno Davide (cfr 2 Samuele Il, 2-27), l’aspettarci -sedotti dai sensi, dalla superbia o dalla sensualità o dalla bramosia del denaro... dalle creature quel «pieno» di felicità che è attribuito solo a Dio: l’Infinità cui appetiamo talvolta in maniera formidabile e violenta, non c’è che in Dio.

«Ma ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del Signore » (2 SAMUELE Il, 27): e pianse un’amarezza indicibile. Non conobbe tuttavia la tristezza; e il pentimento esplose in un cantico nuovo (cfr Salmo 50).

«Distogli, Signore, i miei occhi dalle cose vane, fammi vivere sulla tua via... Gioirò per i tuoi comandi che ho amati. Alzerò le mani ai tuoi precetti che amo, mediterò le tue leggi» (SALMO 118).

Quando l’auto affronta una salita il motore deve cantare. Ci attende il «monte santo», ma sappiamo cantare, e giocare, e suonare?

È molto importante.

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«...E c’era la madre di Gesù» (GIOVANNI 2, 1). Alle nostre gioie mancherà sempre qualcosa «vita natural durante», e non ci dobbiamo per questo abbandonare alla tristezza. Il vino alle nozze di Cana non era un elemento essenziale, ma certo ci voleva; e intervenne Maria, la madre di Gesù. «Non hanno più vino»: era una preghiera: Gesù accontenta la madre e per essa allieta quelle nozze.

La nostra condizione creaturale, le nostre infermità fisiche e morali, e mille altre necessità ci mettono nell’elenco abituale dei «poveri di Dio » cui sempre manca qualcosa. Ci dobbiamo rassegnare fatalisticamente? No.

L’orazione trasforma l’indigenza in una ricchezza, il lamento in confidenza, l’implorazione in lode della divina Clemenza. Dio ascolta, e se non muta gli avvenimenti, non manca di cambiare i sentimenti: se i lampi non cessano, il bambino che si rifugia fra le braccia di sua madre o del padre, ora non piange; addirittura gode per l’insolito spettacolo.

Sono i sentimenti che domandano l’intervento pietoso e paziente di Dio, perché sono questi che coinvolgono le nostre responsabilità, la nostra perseveranza nella Fede e nella Grazia, nel servizio di Dio e dei fratelli.

La Bibbia è tutta una dimostrazione lampante e della effimera nostra vita presente, e della straordinaria efficacia della preghiera; prodigiosi interventi della Provvidenza sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento autorizzano a credere che il Signore vuole, gradisce, sollecita e premia il nostro ricorso filiale in qualsiasi necessità. «Buona cosa è la preghiera con il digiuno... » (TOBIA 12, 8).

«Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza, la sua preghiera giungerà fino alle nubi, finché non sia arrivata, non si contenta, non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto...» (SIRACIDE 35, 16-18).

E il Maestro assicura formalmente: «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi

cerca trova, e a chi bussa sarà aperto» (MATTEO 7, 7-8); e ci presenta la preghiera come coefficiente di gioia perfetta: «In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà... Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (GIOVANNI 16, 23-24). E nel quarto d’ora fatidico nel quale è messa a dura prova la nostra debolezza ancora a pregare siamo invitati e pressati: «Pregate, per non entrare in tentazione... Perché dormite? Alzatevi e pregate per non entrare in tentazione» (LUCA 22, 40-46). Nelle agonie che torchiano la sua santissima natura umana, al Getsemani e sul Golgota, Lui stesso; prega e insegna, con la suprema voce del sangue, a pregare. Seguendo docili il suo insegnamento dopo la tragedia di Parasceve gli apostoli, i discepoli, le pie donne si dedicheranno «assidui e concordi con Maria, madre di Gesù» all’orazione (cfr Luca 24, 53 -Atti 1, 14).

«Nulla è impossibile a Dio » (LUCA 1, 37). «Tutto è possibile a chi crede » (MARCO 9, 23). «E tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete»

(MATTEO 21, 22). «Perseverate nella preghiera e vegliate in essa, rendendo grazie»

(COLOSSESI 4, 2). Penso con riconoscenza - e quanti come me - al primissimo

insegnamento materno: la mamma sapeva prima di noi e anche a motivo di noi, che tutto deriva da Dio come il torrente dalla sorgente, e ci affrettò a incontrare la «Mamma bella» - Maria, la madre di Gesù, perché non ci sentissimo mai soli o indifesi.

Gesù ci insegna con la massima autorità e convinzione come «servirci» di Lei nel nostro impegno di redenzione nostra e universale: entrato nel mondo, creatura fra creature, con la suprema umiliazione (cfr Filippesi 2, 5-8) «assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» ebbe bisogno di Maria, del suo latte per vivere, del suo insegnamento ,e della sua educazione alla pari di ogni figlio d’uomo, dei suoi comandi, e alla fine della sua presenza presso la Croce e delle sue braccia amorose per il seppellimento. Ecco chi è per Gesù Maria di Nazareth: madre, maestra, signora; socia della Redenzione, corredentrice.

Per noi tutto questo; e rimedio ai nostri peccati; rifugio e speranza. «Sotto la tua protezione, veniamo a rifugiarci, santa Madre di Dio.

Non respingere le preghiere che ti rivolgiamo nelle nostre necessità, ma liberaci sempre da tutti i pericoli, Vergine gloriosa e benedetta!».

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Se non manca questa, il resto è al sicuro. S. Paolo scrivendo ai cristiani di Roma fa un lungo elenco di precetti e di suggerimenti morali e ascetici, perché i battezzati siano all’altezza della vocazione cristiana: in essi, quasi midollo spinale in un corpo ben fatto, il precetto della preghiera, che assicura la realizzazione di tutto quel magnifico programma.

«La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore.

Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità. Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto...» (ROMANI 12, 9-15).

Se il cuore è forte, e batte bene, si può resistere all’urto di malanni gravi e sopportare decentemente tribolazioni di ogni sorta; purché l’orazione tenga il posto del cuore, nella programmazione della giornata, nella compagine spirituale di un cristianesimo radicale, e il suo ritmo sia « sostenuto », tutto il resto è assicurato.

La tendenza a minimizzare l’efficacia pratica, esistenziale dell’orazione nella dinamica ascetica e pastorale o apostolica, non parte forse più a monte da una strana idea di autosufficienza, o dal fervore o entusiasmo generato dallo spettacolo delle necessità altrui?

Di fronte alla urgenza di soccorso c’è chi salta in auto e via di corsa di null’altro preoccupato che di far presto e... arrivare in tempo a sollevare chi geme e lotta; ma la stessa urgenza di fare qualche cosa per chi ha bisogno di aiuto, non spingerà forse ad assicurarsi il combustibile per poter viaggiare per arrivare, e nelle tasche il necessario per il soccorso, al fine di non rimanere a mezza strada o di arrivare, sì in tempo, ma a mani vuote?

L’orazione, fatta quantitativamente e qualitativamente, a seconda delle proprie responsabilità sociali, ossia in ordine agli altri, assicura la forza soprannaturale per operare con costanza, per ottenere al fratello

indigente - e l’indigenza qui è estesa quanto le innumerevoli povertà umane! - quell’interiore sollievo che può venire, nostro felice tramite, solo da Dio. Costanza ed efficacia pleniore, naturale e soprannaturale: questi gli inapprezzabili vantaggi che sempre reca con sé l’orazione fatta da chi si dedica al più vero bene degli altri.

«Perseveranti nella preghiera»: non sembri raccomandazione superflua, giacché le più insistenti tentazioni, subdole o sfacciate, sono sempre contro l’orazione. C’è chi lavorerebbe otto ore di braccia o di testa, piuttosto che raccogliersi dieci minuti in vera preghiera, magari in un giardino, all’aria pura, o in un angolo quieto della propria casa. La tentazione di metterla, l’orazione, al secondo posto, più tardi, alla fine; o l’altra di ridurne la quantità al minimo sforbiciando con ogni buon pretesto, o infine quella di sostituirla con attività meno impegnative... o altre tentazioni ancora, sono all’ordine del giorno, sempre pronte per impedire questa attività di punta, o a ridurne l’incidenza nella vita.

«Perseveranti nella preghiera», anche quando il mare è in burrasca, anche se il fortunale minaccia; soprattutto allora: «Piglio, io sono il Signore che conforta nel giorno della tribolazione. Ricorri a me, quando c’è qualche cosa che non ti va bene. Ciò che specialmente ti priva della consolazione celeste è che troppo tardi tu ricorri alla preghiera» (Imitazione di Cristo -3°, 30).

Vincenzo de’ Paoli, Benedetto Cottolengo, Giovanni Bosco e la stupenda folla di Santi e di Sante che hanno sacrificato le loro cose e l’esistenza per il bene dei fratelli, dove acquistavano tanta fortezza d’animo, e tanta carica di pazienza, se non lavorando di ginocchia prima che di braccia o di testa?

Non è tempo perso quello che si impiega a fare il pieno della benzina, all’inizio del proprio cammino! Cosi per chi, innanzitutto, prega.

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Il salmo 142 - Ezechiele - Vincenzo de’ Paoli. La paura di non farcela, di non riuscire a realizzare un cristianesimo autentico, la santità, è spiegabile, ma da sola non è che superbia sottile e pericolosa come un laccio fra i piedi. La paura di non farcela e la fiducia in Dio, sono umiltà, virtù graziosa e benedetta che attira l’assistenza divina e la perseveranza anche nelle immancabili crisi. A sua volta la perseveranza reca con sé un profondo senso di soddisfazione: la pace di chi non batte l’aria, ma conquista, vince e gode.

Timor di Dio, fiducia, umiltà, perseveranza e gioia: questo il tracciato liricamente esposto nel Salmo 142:

«Signore, ascolta la mia preghiera. ...Non chiamare in giudizio il tuo servo: nessun vivente davanti a te è giusto. ...In me languisce il mio spirito, si agghiaccia il mio cuore. …A te protendo le mie mani, sono davanti a te come terra riarsa. Rispondimi presto, Signore, viene meno il mio spirito. ...Salvami dai miei nemici, Signore, a te mi affido. Insegnami a compiere il tuo volere, perché sei tu il mio Dio. Il tuo spirito buono mi guidi in terra piana».

«I miei nemici»: ne incontro ogni giorno in casa e fuori, spesso camuffati e subdoli, astuti e nascosti come serpi velenose, vestiti di fascino e iniettanti seduzione e morte. Ma buona educazione cristiana, una coscienza illuminata, propositi generosi e.. un sano ambiente morale... non bastano a smascherare nemici e insidie? Quante volte «è venuto meno il nostro spirito» non appena passato quel piccolo numero di minuti di prova! Le nostre muraglie protettive sono crollate, una dopo l’altra, al sopraggiungere di un temporale fuori stagione o per una insolita scossa di terremoto.

La paura di non farcela, può nascondere la superbia di chi teme l’insuccesso, la brutta figura, il ricorso al fratello che rialzi e perdoni, l’incomodo di dover riprendere per l’ennesima volta il cammino di nuovo interrotto: questa paura è alleata dell’orgoglio, prepara lo

scoraggiamento; va eliminata. È la fiducia posta in Dio, quella che puntando i piedi sulla propria

debolezza, fissa lo sguardo nel Padre, della cui perfezione tutti (innocenti e penitenti) siamo invitati a partecipare a dispetto dell’innata inclinazione al peccato.

È l’umiltà che commuove il cielo e fa piovere sulla nostra terra riarsa la rugiada di incontabili «colpi di Grazia» che rende la nostra povertà capace di cose mirabili: come a s. Paolo ci verrà fatto sperimentare che la potenza di Dio «si manifesta pienamente nella debolezza» (2 CORINZI 12, 9).

Da queste premesse deriveranno perseveranza e gaudio: ce lo garantisce lo Spirito, ce ne danno conferma i Santi di ogni tempo. «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia... Voi, mie pecore, siete: il gregge del mio pascolo e io sono il vostro Dio» (EZECHIELE 34, 15...).

S. Vincenzo de’ Paoli scriveva: «Aver confidenza nella Provvidenza, significa sperare che Dio si prenda cura di coloro che lo servono, come uno sposo si prende cura della sua sposa e un padre del proprio figlio. Allora, non dobbiamo fare altro che abbandonarci alla sua volontà che ci guida, come un fanciullo che tutto s’aspetta dalla sua mamma. Se la mamma sorregge il figlio sul braccio destro, egli è felice; e se lo passa sul braccio sinistro non per questo egli si dà pensiero; purché possa succhiare dal seno di lei, è contento. Noi tutti dobbiamo avere la stessa fiducia nella Provvidenza divina, poiché essa si prende cura di ogni cosa che ci riguarda».

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Arcate spezzate potremmo chiamare certi fallimenti nel campo della santificazione propria o degli altri: qui ne parliamo allo scopo di guardarcene ed esserne liberati in tempo. Sono tentativi destinati a cadere nel vuoto tutti gli sforzi fatti per realizzare una santità (= un Cristianesimo radicale) che non tenga conto dei talenti che la Provvidenza divina ha donato a ciascun’anima; infatti si lavora sul vuoto, o su terreno d’altri o con materiale non proprio o non adatto al genere di costruzione che si intende ottenere.

«Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro» (LUCA 14, 30) dichiara il Vangelo riferendo le burle lanciate come sassate sulle spalle di coloro che mossi da buone intenzioni, non fanno i conti con le reali possibilità.

Ne risultano arcate incompiute, o spezzate. Non era stato esaminato sufficientemente il terreno? Oppure il

materiale gettato nelle fondamenta non era stato di prima scelta? O il lavoro stesso era stato eseguito da incompetenti?

Il Signore chiama ogni anima a mutuare la santità di Cristo a seconda della propria natura (temperamento e carattere), della vocazione di ognuno, della missione da svolgere a favore della umanità. È ridicolo voler fare un po’ tutte le parti in un dramma: ogni attore faccia la sua con tutte le energie intellettive e operative di cui dispone la sua natura!

«Signore fammi conoscere la strada da percorrere, …insegnami a compiere il tuo volere, perché sei tu il mio Dio» (SALMO 142).

È goffo chi vuole ricopiare alla lettera gli atteggiamenti di questo o di quel Santo: chi volesse infilare le scarpe dei piedi d’altri potrebbe trascinarsi anziché correre, e rimanere bloccato, anche se, proprio con quelle, altri ci sapeva fare delle belle corse. «A ciascuno le sue scarpe» dice il proverbio! Ricordo un giovane animato di buona volontà, ma troppo sbrigativo e forse

sventato, che si era piccato di voler ripetere le gesta di don Bosco, le sue austerità, le sue fatiche, i suoi trattenimenti con la gioventù. Incominciò col ridurre al minimo il sonno, ma cadeva vinto a mezza mattina: quelle «sante scarpe» non erano state fatte per i suoi piedi e... dovette smettere quel giochetto pericoloso per salvare i nervi, l’equilibrio morale e... l’anima.

Il ruolo della direzione spirituale è determinante soprattutto agli inizi della ascesi, per non scegliere sentieri impossibili, per non infilare vicoli ciechi, per non perdere tempo e fiato. Chi volesse contare sulla propria cultura o esperienza o sui libri di ascetica... potrebbe ritrovarsi al punto di partenza anche dopo infiniti giri e rigiri. Vale ancora l’avviso che «non c’è peggiore stoltezza che voler essere maestro di se stesso».

La lettura delle biografie dei Santi è utilissima, ma dovrà portare alla imitazione del loro impegno ascetico, dello zelo per le anime, del fervore spirituale, non alla pedissequa ripetizione di programmi e di regolamenti. Passando davanti alle vetrine delle confezioni si possono ammirare stoffe e modelli; si possono fare anche delle scelte; ma misurando e rimisurando sulle spalle proprie, tagliando e rabberciando per tutto riportare e ridurre alle proprie misure.

Il conformismo piatto e cieco non fa onore a un cristiano autentico; anzi lo declassa e ne fa oggetto di scherno. Quanti Santi mancati alla edificazione della Chiesa,.. per il mancato equilibrio che avrebbe offerto alla più ardita impresa (quella della santificazione) materiale umano adatto!

Prima uomini, poi cristiani; poi ancora santi! È di fondamentale importanza la guida spirituale, come la presenza di

un perito quando si segnano le fondamenta di un edificio: la pretesa di fame senza rivela una falsa sicurezza che spesso prepara i crolli di domani.

Chi ne ha scoperto l’utilità non si rassegna ad abbandonare la direzione spirituale mai, nemmeno dopo anni e anni di salita verso le vette della santità: ottimo esercizio di quella umiltà di cui s’ha bisogno non soltanto nel principio, ma sempre,.

L’ascesi spirituale non è senza rischi e pericoli; è fitta di tentazioni e di lotte: una direzione spirituale illuminante reca sicurezza e serenità, compagne insostituibili per chi vuole veramente farsi santo.

Chiedere alla Provvidenza divina l’aiuto di un degno padre spirituale penso sia segno di vera umiltà e tanto meritoria: e voglia il cielo farci incontrare dei direttori d’anime come li avrebbe voluti Teresa di G.B. «specchi fedeli che riflettessero Gesù nelle anime»!

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Quella predica di don Bosco sortì meravigliosamente: fu la scintilla che fece divampare il grande incendio di santità che fu Domenico Savio. Ricopio fedelmente il fatto come lo narrano le Memorie biografiche di don Giovanni Bosco (vol. V pag. 209): «D.Bosco in una di quelle domeniche faceva una predica sul modo di farsi santi e si fermò specialmente a sviluppare tre pensieri: è volontà di Dio che ci facciamo tutti santi; è assai facile di riuscirvi; è preparato un grande premio in cielo a chi si fa santo. Queste parole fecero una grande impressione sull’animo umile di Savio, il quale diceva poi a don Bosco: - Mi sento un desiderio, un bisogno di farmi santo; io non pensavo di potermi far santo con tanta facilità; ma ora che ho capito potersi ciò effettuare anche stando allegro, voglio assolutamente farmi santo. D.Bosco lo confortò nel suo proposito, gli indicò come Dio volesse da lui per prima cosa una costante e moderata allegria; e consigliandolo ad essere perseverante nell’adempimento dei suoi doveri di pietà e di studio, gli raccomandò di prendere sempre parte alla ricreazione coi suoi compagni. Nello stesso tempo gli proibì ogni rigida penitenza e le preghiere troppo prolungate, perché non compatibili con la sua età e sanità e con le sue occupazioni. Savio obbedì, ma un giorno d. Bosco lo incontrò tutto afflitto, che andava esclamando: - Povero me! Io sono veramente imbrogliato. Il Signore dice che se non faccio penitenza, non andrò in Paradiso; e a me è proibito di farne. Quale adunque sarà il mio Paradiso?

- La penitenza che il Signore vuole da te, gli disse d. Bosco, è l’obbedienza. Ubbidisci e a te basta.

- Non potrebbe permettermi qualche altra penitenza? - Sì; ti si permettono le penitenze di sopportare pazientemente le

ingiurie, qualora te ne venissero fatte; tollerare con rassegnazione il caldo, il freddo, il vento, la pioggia, la stanchezza, e tutti gli incomodi di salute, che a Dio piacerà di mandarti.

- Ma questo si soffre per necessità. - Ciò che dovresti soffrire per necessità, offrilo a Dio, e cosi diventa

virtù e merito per l’anima tua. - E niente altro?

- Adoperati nel guadagnare anime al Signore... ». Animo umile; docilità alla direzione spirituale; regole facili di vita

perfetta; zelo per la salvezza delle anime: magnifico repertorio, più che sufficiente per fare di un adolescente un grande amico di Dio, un Santo.

Qualche riga più innanzi il biografo ci rivela il fuoco che turbinava in quel ragazzo in gamba: «Tutto gli riusciva dolce, quando pensava di cooperare a salvare un’anima ».

L’amore vince tutto! «L’amore del Cristo ci spinge» (2 CORINZI 5, 14), quell’amore che

solo si arresta nelle spire dell’orgoglio, e si esalta nei cuori semplici. Impresa difficile o facile dunque questa della nostra santificazione? Impossibile per coloro che innalzano l’edificio spirituale sul terreno

infido della presunzione; ben difficile per chi vuol fare da sé e respinge la guida esperta di vette; facile per gli umili che si affidano alla grazia dello Spirito e obbediscono.

Le nostre lacune, il ricordo di un passato triste, i nostri peccati di ieri e di oggi non impediscono la scalata alla santità più alta, purché non manchi un solo quarto d’ora la fiducia in Colui che ci chiama e ci dà i mezzi per salire, e ci attende instancabile per fasciare le nostre ferite e rimetterci in cammino.

La chiamata alla santità è veramente un «tesoro», segno chiarissimo della divina Predilezione. «Però, scrive s. Paolo, noi abbiamo questo tesoro (Cristo e la sua Grazia) in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2 CORINZI 4, 7).

Nonostante i nostri piedi di creta, e la incostanza endemica del nostro cuore, magari zoppicando come storpi, saliremo le vette della santità evangelica, purché non venga meno la nostra confidenza in Colui che chiamandoci e affidandoci il tesoro del suo invito non ci lascerà a mezza strada, ma compirà l’opera. S. Vincenzo d. P. ancora ci suggerisce a nostro conforto: «... D’altra parte, che faremmo noi, che guadagneremmo a non aver confidenza in Dio? Dovremmo riporre tutta la fiducia nella nostra capacità di guidarci da soli. Bisogna lasciar fare a Dio, che è nostro padre. E così, quanto più avremo confidenza in Dio, tanto più Dio si prenderà cura di noi. Che la confidenza dunque scacci il timore... ».

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È con noi il Signore? Certamente. «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (FILIPPESI 4, 13): ognuno

di noi può affermarlo e farne conto. Diamo per scontato che lungo la salita riporteremo delle ferite,

saremo colti da burrasche, forse saremo travolti momentaneamente dalla tormenta, da crisi d’ogni sorta: si rimane uomini anche quando si puntano gli sguardi al cielo e si mira alla perfezione del Padre celeste. Una sola cosa dovremo temere e fuggire, lo scoraggiamento: questo porta tristezza, uccide ogni proposito, è la tomba di ogni sforzo, il crollo fatale.

Si evita il grave ostacolo coltivando una invincibile e illimitata fiducia.

Teresa di G. B. scrive: «Ciò che offende Gesù, ciò che lo ferisce al cuore, è la mancanza di fiducia!».

«Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?» (GIOVANNI 11, 40) disse Gesù a Marta.

...Fiducia nella infallibile promessa di Gesù: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto... Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che gliela chiedono!» (LUCA 11, 9-13). Chi prega con fiducia, e non si stanca, può diventare «arcata di ponte», un santo? Certamente, purché, come d. Bosco insegnava, si canti e si stia allegri...!

Oranti, fiduciosi, lieti. Santi.

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Possiamo diventare tutti santi? Certamente: la storia della Chiesa ce lo dimostra presentandoci lunghissime liste di Santi e di Sante appartenenti a ogni categoria di persone, che nella vita ebbero avventure, traversie e lotte d’ogni sorta. Non tutti vissero nella innocenza battesimale; molti furono penitenti.

Anche oggi molte persone mutano condotta in occasione di un corso di Esercizi spirituali o di Missioni o conquistate da qualche sofferenza o dagli esempi di anime fervorose.

Chi di noi non ricorda con commozione lo sprone ricevuto da tante persone, talvolta umilissime, incontrate sul cammino della vita? Di santi vivi abbiamo bisogno, è vero!, ma grazie a Dio ci sono ancora santi che camminano al nostro fianco.

È ,difficile diventare santi? No, tutt’altro! Tutto è possibile a chi crede, a chi si fida del Signore e

si appoggia alla sua misericordia che non ha limiti (cfr MARCO 9,23). Per chi ha buona volontà, sa controllarsi, e si accaparra l’assistenza divina con la preghiera, l’impresa della santità, in se stessa non facile, diventa affascinante e possibile. Sono la nostra fantasia e il nostro egoismo che ce la fanno apparire impossibile o impresa troppo ardua, “un osso duro” mi obiettava una suora.

Aveva ragione don Bosco quando assicurava Domenico Savio che sarebbe riuscito nella grande avventura. Oso dire che il non diventare santi è un’impresa tremendamente pesante, essendo più facile vivere da santi che da delinquenti: chi può contare le amare delusioni dei peccatori, e le intense gioie di coloro che vivono santamente? Chi di noi non ha provato momenti di gioia indescrivibile seguendo con fedeltà i precetti del Signore? Del resto, quale tristezza più profonda del non sentirsi in armonia con la legge di Dio, nostra origine e nostro supremo destino?

Chi ha da diventare santo? Non appena qualcuno, o qualche gruppo particolare, ma tutti. Ogni creatura umana è fatta a immagine di Dio (cfr GENESI 1, 27): tutti dobbiamo fare ogni sforzo per gareggiare con l’infinita bellezza di Dio. Egli ci rinnova la vita ogni giorno, a ogni

istante: possiamo ricominciare da capo e rinascere in Cristo, crocifisso e risorto per noi, infinite volte. Se porgiamo attento ascolto alle più segrete voci della natura, che tengono viva l’insopprimibile nostalgia del Divino, l’invito alla santità (alla giustizia, alla onestà, alla perfezione) è pressoché continuo.

Chi ci aiuterà a diventare santi? Non occorre andare lontano o alla ricerca di libri o alla caccia di chissà quali persone straordinarie: è Gesù il Santo di Dio (GIOVANNI 6, 69), è lui che converte e che santifica le nostre anime. Egli si è fatto come noi per farci come lui; ha parlato e ha insegnato e tutto ha fatto per farci come lui; ha sofferto ed è morto per farci come lui; ha fondato la santa Chiesa per farci come lui; vive nel sacramento dell’Eucaristia perché viviamo di lui; alla destra del Padre intercede per noi perché realmente vivendo del suo Spirito possiamo diventare buoni e santi come lui. Aveva ben capito Pietro che stando con Gesù la sua vita era cambiata in meglio e ne attribuiva il merito alla convivenza con la santità ,di Dio venuta ad abitare in mezzo a noi. Non altrimenti devono riconoscere tutti i santi di ogni tempo: la loro condotta è diventata irreprensibile ed edificante per aver creduto in Gesù di Nazareth, come pecore (deboli e inferme) che non abbandonano l’amorosa guida del Pastore. C’è chi attribuisce il cambiamento di rotta della sua vita al frequente uso del sacramento della riconciliazione; altri alla riscoperta del prodigioso mistero eucaristico; altri in una accentuata devozione all’Amore misericordioso di Gesù. Quanti ancora affermano di avere incontrato la “salvezza” presso un santuario mariano, ai piedi della Vergine. Altri infine si sente obbligato alla riconoscenza verso la Comunità religiosa nella quale vive i consigli evangelici al seguito di Gesù povero, casto e obbediente.

Per chi ci dobbiamo santificare? Per noi stesi innanzitutto; per tutta la Chiesa e suo tramite per tutto il Mondo. Grande responsabilità hanno coloro che la Provvidenza divina ha chiamato al Sacerdozio ministeriale o alla vita religiosa: costoro infatti devono presentarsi al Popolo di Dio come modelli di perfezione cristiana (1 PIETRO 5, 3).

Così dichiara il Concilio Vaticano II: «La professione dei consigli evangelici appare come un segno, il quale può e deve attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana» (LUMEN G.).

Santità fatta di piccole cose, santità di Nazareth! Dice il divino

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Maestro: «Chi è fedele nelle piccole cose, è fedele anche nelle grandi; e chi è ingiusto nelle piccole cose, è ingiusto anche nelle grandi» (LUCA 16, 11). Nazareth! Offre a tutti uno stile inconfondibile di umiltà, di piccolezza; di nascondimento e di laboriosità; di pace e di intensa carità. È lo spirito degli umili, dei poveri, che lavorano in santa pace paghi e felici di compiere ogni giorno la santissima volontà di Dio: è la santità delle piccole cose; è la fedeltà ai doveri più minuti. «Fa molto solo chi fa la divina volontà; quando si fa la volontà di Dio, si è fatto tutto, e perciò sono contento»: così riassumeva la sua vita p. Filippo Bardellini, amico e salvatore di tanta umile gente.

Santità ,di Nazareth! I superbi la rifiutano con sdegno nella stolta pretesa di dare al Signore grandi cose, che danno nell’occhio, che si impongono alla considerazione pubblicitaria; ma costoro sognano di dare a un Dio “bisognoso” di qualche cosa, e sono ben lontani dall’offrire a Dio un culto vero e gradito. Gesù ha lodato la povera vedova che con cuore grande aveva offerto il suo poco, il suo nulla (cfr MARCO 12, 41-44). L’apostolo Giacomo addirittura scrive che, se vogliamo, abbiamo la santità in bocca, tant’è impegnativo e meritorio il controllo delle nostre parole: «Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo» (GIACOMO 3, 2). Quanto incoraggiamento da queste parole, per noi che non sappiamo da quale punto incominciare la nostra scalata alla santità.

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INDICE

1. «Misera offerta per un sublime impegno » 2. «Cercate ciò che è gradito al Signore» 3. O è un pazzo o è Dio 4. Dottrina da folli, o divina 5. Strano pugilato? 6. «Tu abiti in mezzo a una genia di ribelli» 7. Sala d’attesa o,.. d’arrivo? 8. Tornare all’essenziale instancabilmente 9. Addormentato sulla tastiera del pianoforte 10. Lettere senza indirizzo 11. Ardevano carte da mille e da cinquecento 12. La tramezza di dieci centimetri 13. Affare d’oro! 14. Vie storte 15. La danza sempre nuova 16. «Il nostro Dio è un fuoco divoratore» 17. Un piede nel Paradiso 18. Come si annunzia il Paradiso? 19. Al passo di Cristo risorto 20. La «santità» chi è? 21. Regole facili per un’impresa difficile» 22. «Si, Padre» 23. ...Ma nell’Amore! 24. L’arpa a dieci corde 25. L’esiguità dei mezzi esalta la magnanimità dell’Artista 26. «Ciò che molte anime non vogliono fare» 27. «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» 28. La carità più divertita 29. La via stretta 30. Volto austero, ma cuor contento! 31. «...E c’era la madre di Gesù» 32. Se non manca questa, il resto è al sicuro 33. Il salmo 142 - Ezechiele - Vincenzo de Paoli 34. Arcate spezzate 35. Quella predica di don Bosco 36. Possiamo diventare tutti santi?