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Paura e horror accendono la fantasia 3 I sentieri brivido del IL PIACERE DI LEGGERE UN CLASSICO DELL’HORROR E. A. Poe Il crollo della casa Usher p. 32 FATTI STRANI, PRESENZE INQUIETANTI A. Horowitz L’incubo di Harriet p. 41 Antologia 3

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Paura e horror accendono la fantasia

3I sentieri

brividodel

IL PIACERE DI LEggERE

UN CLASSICO DELL’HORROR

E. A. Poe Il crollo della casa Usher p. 32

FATTI STRANI, PRESENZE INQUIETANTI

A. Horowitz L’incubo di Harriet p. 41

Antologia 3

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I l p I a c e r e d I l e g g e r e

Il pIacere dI leggere

Antologia 3 Un classico dell’horror3. I sentieri del brivido

Edgar Allan PoeIl crollo della casa UsherEdgar Allan Poe, uno dei più importanti scrittori dell’Ottocento, è considerato il capostipite dell’horror contemporaneo.L’autore, nelle sue opere, mette a nudo la realtà dei sentimenti umani, quali la paura, i desideri contorti, l’avidità di dominio, l’angoscia derivante dal confronto con la propria stessa miseria.

1.  fatiscenti: ricoperti di muffa, decrepiti.

Come quando le nubi pendono basse e opprimenti nel cielo, io avevo cavalcato solitario attraverso una regione campe-

stre singolarmente lugubre – e con l’avvicinarsi delle ombre del-la sera mi trovai in vista della malinconica casa degli Usher.Guardavo la scena davanti a me, e solo al vedere la casa e i trat-ti del pae saggio – i muri squallidi, le vuote occhiaie delle fine-stre, le poche file di giunchi e i pochi tronchi bianchi di albe-ri fatiscenti1 – fui invaso da un’estrema depressione di spirito. Era un gelo al cuore, uno sconforto, un disgusto, una invincibi-le tristezza di pensiero che nessuno stimolo dell’immaginazione avrebbe potuto ravvivare. Guidai il mio cavallo sino al margine scosceso di uno stagno lugubre e nero che giaceva in immobi-le lucentezza davanti alla dimora. E guardai – ma con un brivi-do più penetrante di prima – le immagini ripetute e invertite dei giunchi grigiastri, dei tronchi spettrali e delle finestre simili a occhi vuoti.In questa abitazione di tristezze io mi proponevo tuttavia di sog-giornare per alcune settimane. Il proprietario, Roderick Usher, era stato uno dei miei più cari compagni di giovinezza; di recen-te una sua lettera mi aveva raggiunto in una lontana parte del paese – una lettera la cui intonazione disperata non ammetteva altra risposta che di persona. La calligrafia attestava un’agita-zione nervosa. Lo scrivente mi parlava di una malattia acuta – di un disordine mentale che l’opprimeva – e di un ardente deside-rio di vedermi, essendo io il suo migliore, anzi il solo suo intimo amico, e sperando egli d’ottenere dall’allegrezza della mia com-pagnia un po’ di conforto al suo male.Sebbene da ragazzi fossimo stati intimi, in realtà io sapevo poco del mio amico. Però non ignoravo che la sua famiglia, molto an-

AntefAttoQuesto lungo racconto è ritenuto il capolavoro di Poe. La casa dove Roderick

Usher trascorre i suoi giorni, isolato dagli uomini in compagnia di una sorella che si sta lentamente spegnendo, si fonde con la figura del protagonista: Roderick è

la sua casa. In questo sfondo, in questo castello corroso da un’atmosfera malefica, assistiamo al dramma di un uomo pervaso da una paura talmente estrema da

condurlo alla follia.

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2.  Avevo anche appreso… durevole: non si erano mai formate, in modo durevole, delle altre famiglie con lo stesso cognome, discendenti da un secondo­genito o terzogenito del ramo principale. Il nome della famiglia era sempre passato di padre in figlio. Qui la parola ramo si riferisce all’albero genealogico. La «schiatta» è l’insieme di persone che discendono da un medesimo capostipite per più generazioni successive e con diverse ramificazioni (sinonimi: casata, stirpe; discendenza, progenie).

3.  intorno a tutta la casa… piombo: la casa sembra avere una propria personalità e l’atmosfera inquietante che la circonda sembra nascere dalla casa stessa e dal paesaggio attorno a essa.

4.  Suo carattere principale… pietre: nonostante la casa fosse molto antica e decadente, non sembrava dare segni di cedimento.

5.  maniero: antica casa signorile.

6.  vestibolo: salone d’ingresso.

7.  passo furtivo… oscuri ed intricati: ogni particolare accresce le sensazioni delle pagine precedenti; ad esempio il passo furtivo del domestico, così come i passaggi oscuri ed intricati.

8.  Sebbene… suscitassero in me: l’inquietudine provata dal personaggio e l’atmosfera particolare dell’ambiente rendono estranei anche gli oggetti più comuni.

tica, si era distinta da tempo immemorabile per una particolare sensibilità di carattere che, attraverso i secoli, si era esplicata in molte opere di arte. Avevo anche appreso il fatto molto notevo-le che il tronco della schiatta Usher, in nessun’epoca aveva mai avuto un ramo collaterale durevole2.Questa mancanza di un ramo collaterale e la conseguente tra-smissione costante di padre in figlio del patrimonio e del nome, aveva talmente identificato le due cose, che il nome del luogo si era fuso nel bizzarro appellativo di casa Usher, appellativo che sembrava includere tanto la famiglia come l’abitazione.Quando alzai gli occhi dall’immagine dello stagno alla casa, ave-vo in tal modo lavorato con la mia immaginazione, da credere realmente che intorno a tutta la casa incombesse un’atmosfera propria a essa e a quei paraggi – un’atmosfera che esalava dagli alberi deperiti e biancastri, dalle mura grigie e dallo stagno si-lenzioso: un vapore torbido, pesante, appena visibile e dal colore di piombo3. Esaminai più attentamente il reale aspetto dell’edificio. Suo ca-rattere principale sembrava essere una eccessiva antichità. Lo scolorimento prodotto dal tempo era stato grande: però nessun deterioramento importante derivava da ciò. Nessuna parte della casa era caduta, e sembrava ci fosse una strana contraddizione fra la consistenza generale dell’edificio e il deterioramento del-le singole pietre4. Tolto questa grande decadenza, il maniero5

non dava alcun segno d’instabilità. Forse l’occhio di un attento osservatore avrebbe potuto scoprire una fessura appena percet-tibile, che partendo dal tetto della facciata percorreva a zig-zag tutta la parete, perdendosi poi nelle lugubri acque dello stagno.Osservando queste cose, cavalcai verso la casa su di una strada selciata. Un servo di guardia mi prese il cavallo, ed io entrai sot-to la vòlta del vestibolo6. Un domestico dal passo furtivo mi con-dusse, in silenzio, attraverso molti passaggi oscuri ed intricati7, nello studio del padrone.Molto di ciò che io incontrai strada facendo contribuì, non so come, ad aumentare i vaghi sentimenti di cui ho già parlato. Sebbene gli oggetti intorno a me fossero cose tutte per me abi-tuali sin dall’infanzia, mi meravigliavo nel riscontrare quali in-solite fantasie tali immagini consuete suscitassero in me8.Il domestico aprì una porta, e m’introdusse alla presenza del suo padrone. La stanza ove mi trovai era molto ampia e alta: le fine-stre erano lunghe, strette e aguzze e a una tale distanza dal pa-vimento di nera quercia, da essere assolutamente inaccessibili dall’interno. Deboli raggi di luce passavano per le vetrate, e ri-uscivano a rendere abbastanza distinti i principali oggetti. Tap-pezzerie oscure pendevano dalle pareti. Il mobilio generale era

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9.  Ma ora… dubitavo a chi parlassi: i lineamenti e le espressioni di Usher, nel corso del tempo, si sono fatti più marcati e sono ora così accentuati da rendere l’uomo quasi irricono sci bile.

10.  serici: uguali alla seta.

11.  Il pallore… idea di semplice umanità: il colore della pelle, l’espressione degli occhi, i capelli scompigliati conferiscono a Usher un aspetto poco umano.

12.  tardi: lenti.

13.  morbosa: anormale, assurda.

stravagante, incomodo, antico e rovinato. Sparpagliati qua e là erano molti libri e strumenti musicali: ma non bastavano a ravvivare in nulla l’ambiente. Sentivo che re-spiravo in un’atmosfera di dolore. Un’aria di tristezza se-vera, profonda, irrimediabile, aleggiava su tutto e tutto invadeva.Al mio entrare, Usher si alzò da un divano sul quale giaceva lungo disteso, e mi salutò con una vivace effu-sione. Ci sedemmo; e per alcuni minuti, mentre egli non parlava, io lo contemplai con un sentimento misto di pie-tà e di paura. Invero, mai uomo era cambiato così terri-bilmente, e in così breve tempo, come Roderick Usher! L’aspetto del suo volto era sempre stato singolare: pal-lore cadaverico, occhio grande liquido e luminoso al di là di ogni paragone, labbra alquanto sottili e molto pal-lide ma di una curva straordinariamente bella, naso di delicato modello ebraico, capelli più morbidi e più tenui di una tela di ragno. Questi lineamenti, insieme con un eccessivo sviluppo della fronte, gli conferivano una fi-sionomia che era difficile dimenticare. Ma ora, per la semplice accentuazione che si era prodotta in questi lineamenti, e nella espressione che essi di solito avevano, era derivato un cambia-mento tale che io dubitavo a chi parlassi9. Il pallore ora spettrale, e il luccichio dell’occhio sorprendente, soprattutto mi colpirono e mi spaventarono. I suoi serici10 capelli erano cresciuti senza al-cuna cura, e io non potevo, nemmeno con uno sforzo, associare l’immagine che ne derivava con una qualsiasi idea di semplice umanità11.Una certa incoerenza e una certa inconsistenza nei modi del mio amico mi colpirono, e presto mi accorsi che ciò derivava da una serie di sforzi deboli e senza speranza per padroneggiare una trepidazione e un tremore abituali. I suoi gesti erano alternati-vamente vivaci e tardi12. La voce passava da una indecisione tre-mula a una specie di brevità energica, a un tono brusco, forte, e dal suono falso, a un urlare rude e gutturale, pesante. Con que-sto tono egli parlò dello scopo della mia visita, del suo ardente desiderio di vedermi e del conforto ch’egli s’aspettava da me. Si diffuse lungamente, alla fine, sulla natura della sua malattia. Era – diss’egli – un male irrimediabile e di famiglia, per il quale disperava di trovare un rimedio. Egli soffriva di una morbosa13 acutezza dei sensi: i cibi più insipidi erano per lui i soli tollera-bili; poteva indossare soltanto abiti di un certo tessuto; i profu-mi di tutti i fiori lo opprimevano; i suoi occhi erano torturati da una luce anche debole; e non c’erano che alcuni suoni particolari – quelli degli strumenti a corda – che non gli ispirassero orrore.

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14.  banale: semplice, comune.

15.  Io morirò… la paura!: Usher teme ogni sensazione, ogni evento che vada a toccare i suoi sensi, acuti in modo eccessivo a causa della malattia. Il pericolo lo preoccupa poiché farebbe nascere in lui una sensazione estrema di terrore. E questo terrore, questa paura che Usher è convinto stia per arrivare, crede lo condurranno alla fine della sua vita e della capacità di ragionare.

16.  Egli era dominato… sul suo spirito: Usher è convinto che alcune caratte­ristiche della casa lo abbiano influenzato nel suo modo di essere e condizionino il suo umore e la sua mente.

17.  scevra: priva.

18.  emaciate: dimagrite, deperite.

19.  scendevano a gocce le lacrime: in questa prima parte della storia i fatti reali sono molto pochi e cedono il posto a sensazioni o fuggevoli incontri (come quello con lady Madeline che compare e scompare dalla scena come un’appa rizio ne breve, ma che ci accompagna fino alla fine).

20.  frustrato: eluso, resa vana.

21.  di carattere quasi catalettico: tali che Madeline cadeva in catalessi, cioè in uno stato simile alla morte. L’apatia, invece, è l’incapacità di provare interesse e partecipa zione propria di alcune malattie nervose.

Mi accorsi che era lo schiavo impotente di una anormale specie di terrore.– Io morirò – mi disse – di questa deplorabile malattia. Rabbrivi-disco al pensiero che un avvenimento qualsiasi, anche il più ba-nale14, potrà avere incalcolabili conseguenze su questa mia ani-ma agitata. Invero, io non ho orrore del pericolo ma solo del suo effetto, il terrore. In questa pietosa spossatezza di nervi, io sento che, presto o tardi, verrà il momento in cui dovrò abbandonare la vita e la ragione nella lotta con il sinistro fantasma: la paura!15

Appresi inoltre un’altra caratteristica singolare del suo sta-to mentale. Egli era dominato da certe superstizioni sulla pro-pria dimora, dalla quale per molti anni non si era avventurato a uscire – relative a una misteriosa influenza che derivava da al-cune caratteristiche del castello, che avevano preso dominio sul suo spirito16. Tuttavia egli ammetteva, sebbene con esitazione, che gran parte della singolare tristezza che l’affliggeva poteva essere ricondotta alla grave e lunga malattia e alla morte ormai vicina di una sorella teneramente amata, la sua unica compa-gna di lunghi anni, la sua ultima e sola parente in terra.La sua morte – egli disse con un’amarezza che non dimentiche-rò mai – avrebbe lasciato lui, lui, il disperato e il debole, ultimo della antica razza degli Usher. Mentre parlava, lady Madeline (così si chiamava la sorella) passò lentamente in una parte lon-tana della stanza, e scomparve senza aver notato la mia pre-senza. Io la guardai con una immensa meraviglia non scevra17 di paura: una sensazione di stupore mi opprimeva mentre i miei occhi seguivano i suoi passi che si allontanavano. Quan-do finalmente la porta si schiuse dietro a lei, il mio sguardo cercò istintivamente con vivo interesse il volto del fratello; ma egli aveva nascosto la faccia nelle mani, e io potei solo scorge-re che un pallore straordinario si era sparso sulle dita emacia-te18, attraverso le quali scendevano a gocce le lacrime19.La malattia di lady Madeline aveva per lungo tempo frustrato20 l’abilità dei suoi medici. Una fissa apatia, un graduale deperi-mento della persona, crisi frequenti (se pur transitorie) di carat-tere quasi catalettico21: questi erano i sintomi.Nei giorni che seguirono, il suo nome non fu ricordato né da Usher né da me, e durante questo periodo io feci seri sforzi per alleviare la malinconia del mio amico. Leggevamo o dipinge-vamo insieme; oppure io ascoltavo come in un sogno le sue im-provvisazioni sulla chitarra. E così, mentre una intimità sem-pre più grande mi schiudeva sempre più le profondità del suo animo, con crescente amarezza io riconobbi l’inutilità di tutti i tentativi che io facevo per ravvivare questo spirito, dal quale si versava una irradiazione incessante di tristezza.

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22.  Questa opinione… materia inorganica: Usher sosteneva che anche la materia è sensibile, in grado di percepire certi fenomeni; così, secondo Usher, accadeva anche per le pietre grigie lungo la facciata della casa.

23.  io sussultai: l’uomo prova un brivido perché si rende conto di aver avuto lo stesso pensiero di Usher riguardo all’atmosfera che circonda la casa.

24.  lady Madeline non era più: la donna era morta.

25.  mesto fardello: il triste peso, ovvero il corpo della donna.

26.  in questa regione d’orrore: in questo luogo orribile.

Ricordo bene una conversazione nella quale si manifestò una certa opinione di Usher, che io cito non tanto per la sua novità quanto per l’ostinazione con cui egli la sosteneva. Questa opi-nione sosteneva la capacità di sentire di tutte le cose vegetali. Ma nella sua fantasia disordinata l’idea aveva assunto un carat-tere più audace e sconfinava nel regno della materia inorgani-ca22. Questa credenza era in stretto rapporto con le pietre gri-gie della casa. La prova, la prova di questa sensibilità – diceva lui (e mentre parlava io sussultai23) – era nel condensarsi gra-duale, eppur certo, sulle acque e sulle pareti, di un’atmosfera che era loro propria.Il risultato – proseguì – si poteva vedere in quell’influenza silen-ziosa ma terribile che era stata esercitata per secoli sulla sua fa-miglia, e aveva fatto di lui ciò che io vedevo ora, quello che egli era.Una sera, annunciandomi bruscamente che lady Madeline non era più24, Usher mi espresse l’intenzione di conservarne il cada-vere per una quindicina di giorni (prima della sua sepoltura de-finitiva) in uno dei numerosi sotterranei scavati entro le mura maestre dell’edificio. Egli era stato indotto a questa risoluzione (così mi disse) dal carattere insolito della malattia, e da certe cu-riosità importune e indiscrete del medico, che avrebbe potuto ap-profittare anche della posizione remota e indifesa della tomba di famiglia. Alla richiesta di Usher, l’aiutai personalmente nei preparativi per la sepoltura temporanea. Deposto che avemmo il corpo nella bara, la portammo – noi due soli – al luogo del suo riposo. Il sotterraneo ove lo ponemmo era piccolo, umido e non offriva alcuna via d’ingresso alla luce trovandosi a grande profondità, proprio sotto quella parte dell’edificio in cui era la mia stanza da letto. A quanto sembrava aveva servito, nei lonta-ni tempi feudali, a ben peggiori uffici, da prigione perpetua, e in tempi posteriori come deposito di polvere e di altre sostanze mol-to combustibili.Deposto il mesto fardello25 su alcuni cavalletti, in questa regio-ne d’orrore26, sollevammo il coperchio e guardammo la faccia di Madeline. Una rassomiglianza straordinaria tra il fratello e la sorella arrestò subito la mia attenzione, e Usher, forse indovi-nando i miei pensieri, mormorò poche parole, dalle quali io seppi solo allora che la morta e lui erano stati gemelli. I nostri sguardi non si fermarono tuttavia a lungo, poiché non potevamo contem-plare senza spavento. La malattia che l’aveva condotta alla tomba nella pienezza della gioventù aveva lasciato l’ironia di un debole color rosso sul petto e sul volto, e sulle labbra quel sorriso equi-voco e languido che è così angoscioso nella morte. Riponemmo e avvitammo il coperchio e, dopo aver assicurato la porta di ferro, ritornammo con tristezza negli appartamenti superiori.

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27.  mi atterrisse e mi contagiasse: mi depri mes se e influenzasse negati vamen te il mio umore.

E allora, trascorsi alcuni giorni di amaro dolore, avvenne un cambiamento visibile nel disordine mentale del mio amico. Il suo modo abituale era svanito, le solite occupazioni trascurate o di-menticate. Egli vagava di stanza in stanza con passo affrettato, ineguale e senza meta. Il pallore della sua fisionomia aveva as-sunto una tinta, se possibile, ancor più spettrale, ma la lumino-sità degli occhi era del tutto scomparsa. Non più quella asprezza di tono che talvolta egli aveva, ma una tremula cadenza, come di estremo terrore, caratterizzava abitualmente la sua pronuncia. Alle volte, in verità, pensavo che la sua mente in continua agita-zione fosse travagliata da qualche segreto opprimente, e che egli lottasse per trovare il coraggio necessario a rivelarlo. Altre vol-te vedevo che egli guardava per lunghe ore nel vuoto, come se ascoltasse qualche suono immaginario. Non c’è da meravigliarsi dunque che il suo stato mi atterrisse e mi contagiasse27.Fu specialmente nella notte del settimo e ottavo giorno dopo la de-posizione di lady Madeline nel sotterraneo, sul tardi, mentre an-davo a letto, che esperimentai in tutta la loro potenza quelle sen-sazioni. Il sonno non voleva avvicinarsi al mio letto, e le ore pas-savano e passavano. Un terrore irrefrenabile gradatamente per-vase il mio organismo, e alla fine anche il mio cuore fu oppresso da un incubo e da una paura che erano senza motivo. Respirai violentemente e con uno sforzo mi sbarazzai dell’incubo, mi solle-vai sui cuscini; e scrutando ardentemente l’intensa oscurità della camera, ascoltai – non saprei dire per qual ragione – certi suoni bassi e indefiniti che giungevano, a lunghi intervalli, non so di dove, attraverso le pause della tempesta. Dominato da un intenso sentimento d’orrore, inesplicabile e intollerabile, afferrai in fret-ta una veste e cercai, passeggiando rapidamente su e giù per la stanza, di sollevarmi dalla condizione pietosa in cui ero caduto.Avevo appena fatto pochi giri, quando un passo lieve su di una scala vicina fermò di nuovo la mia attenzione. Riconobbi subito quel passo: era quello di Usher. Un istante dopo egli bussò pia-no alla mia porta, ed entrò portando una lampada. La sua fisio-nomia era, come di consueto, di un pallore cadaverico, ma in più c’era una specie di folle ilarità ne’ suoi occhi. Il suo aspetto mi atterrì – ma qualunque cosa era preferibile alla solitudine che io avevo a lungo tollerata, e perciò accolsi la sua presenza come un sollievo. «E voi non lo avete veduto!», diss’egli a un tratto, dopo essersi guardato attorno fissamente per alcuni istanti in silenzio. «Dun-que, non lo avete veduto? Ma aspettate allora, lo vedrete».Parlando in tal modo e coprendo con cura il lume, si slanciò ver-so una delle finestre e l’aperse completamente all’uragano. L’im-petuosa furia della raffica che entrò ci sollevò quasi di peso.

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28.  Non v’era raggio… come un lenzuolo: nonostante nel cielo non splenda la luna e non ci siano stelle, una strana luce illumina e avvolge la casa.

29.  Mad Trist di Sir Launcelot Canning: un romanzo di avventure favolose – totalmente inventato da Poe! – che rafforza l’atmosfera di angoscia del racconto. Il titolo significa «Il convegno dei pazzi».

30.  adirato: arrabbiato.

31.  in sua vece: al suo posto.

Era una notte tempestosa e pertanto solennemente bella, una notte strana e singolare nella sua terribilità e nella sua bel-lezza. Un turbine aveva concentrato le sue forze vicino a noi e la eccezionale densità delle nubi non c’impediva di scorgere la viva velocità con la quale esse correvano rapidamente l’una contro l’altra. Non v’era raggio né di luna, né di stelle, e non c’era nel cielo alcuna luce di lampo, ma tutti gli oggetti attor-no a noi risplendevano nella luce innaturale di una specie di esalazione gassosa, al quale gravava sulla casa e l’avviluppava come un lenzuolo28.«Voi non dovete contemplare ciò. Non contemplerete ciò», diss’io rabbrividendo a Usher. E lo condussi con dolce violenza dalla fi-nestra a una sedia. «Chiudiamo questa finestra. L’aria è pungen-te e dannosa al vostro organismo. Qui c’è uno dei vostri roman-zi favoriti. Io leggerò, e voi ascolterete; e così passeremo insieme questa terribile notte».L’antico volume che io avevo preso era il Mad Trist di Sir Laun-celot Canning29; io mi cullavo nella vaga speranza che l’eccita-zione da cui era agitato Usher potesse trovare sollievo nella esa-gerazione stessa delle follie che stavo per leggere.Ero giunto alla ben nota parte della storia, in cui Etelredo, l’eroe del Trist, avendo cercato invano di entrare amichevol-mente nella dimora dell’eremita, si decide a forzarne la porta. Qui le parole della narrazione sono: «E Etelredo non stette più a lungo a discutere con l’eremita, ma sentendo la pioggia sulle spalle e temendo il sorgere di una tempesta, sollevò senza in-dugio la sua mazza e a furia di colpi fece presto strada attra-verso le assi della porta alla sua mano dal guanto ferrato, e spezzò e squarciò e ridusse tutto in pezzi, in modo che il suono sordo del legno secco fece echeggiare il suo rimbombo per tut-ta la foresta».Alla fine di questa frase sussultai e mi arrestai per un istante: poiché mi era parso (sebbene subito concludessi di essere stato ingannato dalla fantasia) che da qualche parte molto remota del-la casa mi giungesse indistintamente all’orecchio un suono che, per la sua esatta rassomiglianza, si sarebbe detto l’eco di quel rumore di rottura e laceramento che Sir Launcelot aveva così minutamente descritto. Continuai il racconto:«Ma il buon campione Etelredo, ora, passando la porta, fu mol-to adirato30 e stupito non vedendo più alcuna traccia del malva-gio eremita e scorgendo in sua vece31 un drago di apparenza or-ribile, con la lingua di fuoco, che stava di guardia davanti a un palazzo d’oro dal pavimento d’argento. Etelredo sollevò allora la sua mazza e colpì sulla testa il drago, che cadde dinanzi a lui e rese il suo respiro con un grido così orribile ed aspro e tagliente,

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32.  conser vavo… con qualsiasi osservazione: l’uomo non parla a Usher di ciò che ha udito per non agitarlo ulte riormente.

che Etelredo fu costretto a tapparsi le orecchie con le mani per il terribile rumore».E qui di nuovo mi arrestai, e ora con un sentimento di violen-to stupore; poiché non ci poteva essere alcun dubbio che io non avessi realmente sentito (sebbene fosse impossibile dire donde ve-nisse) un suono basso e come lontano ma aspro e prolungato e singolarmente acuto e penetrante, un esatto corrispondente del grido innaturale del drago quale lo aveva descritto il romanziere e immaginato la mia fantasia.Oppresso come certamente ero, in seguito a questa seconda e molto straordinaria coincidenza, da mille contrastanti sensazio-ni, nelle quali predominavano la meraviglia e l’estremo terrore, conservavo tuttavia una sufficiente presenza di spirito per non eccitare la sensibilità del mio compagno con qualsiasi osserva-zione32. Non ero proprio certo che egli avesse notato quei suo-ni; sebbene senza dubbio una strana alterazione fosse avvenuta, in questi ultimi minuti, nel suo contegno. Prima egli stava pro-prio di fronte a me; ma a poco a poco aveva voltato la sua sedia in modo da sedere con la faccia rivolta alla porta della camera; e così io potevo solo in parte scorgerne la fisionomia, sebbene ve-dessi che le labbra gli tremavano come se mormorassero qualche cosa d’incomprensibile. La testa gli era caduta sul petto e tutta-via io sapevo che egli non dormiva; perché, di profilo, scorgevo il suo occhio spalancato. Anche il movimento del corpo escludeva che egli dormisse, perché oscillava lievemente da un lato all’al-tro, con un movimento costante e uniforme. Notato che ebbi tutto questo, ripresi il racconto di Sir Launcelot, che continuava così:«Ed ora il campione, sfuggito alla terribile furia del drago, ri-cordandosi dello scudo di rame e sapendo che l’incanto era rotto, rimosse la carcassa che era davanti a lui e si avvicinò intrepida-mente, al luogo della parete ove era lo scudo. Il quale, in verità, non attese che egli fosse giunto vicino, ma cadde ai suoi piedi sul pavimento, con un fragore possente e terribile».Queste parole mi erano appena uscite dalla bocca, che – proprio come se uno scudo di rame fosse in quel momento caduto pesan-temente su di un pavimento d’argento – io sentii un colpo distin-to, profondo, metallico, penetrante e tuttavia come attutito. In-capace di dominarmi balzai in piedi; ma il dondolio misurato di Usher non si era interrotto.Mi precipitai verso la sedia ove egli stava. I suoi occhi guarda-vano fissamente innanzi – e una rigidità di pietra era in tutta la sua fisionomia. Ma quando posi la mano sulla sua spalla, un gran brivido gli percorse la persona; un sorriso malsano tremò sulle sue labbra, ed io udii che egli parlava con un mormorio basso, affrettato e confuso.

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33.  Dite… entro la volta di rame: i rumori che avevano sentito i due uomini non sono collegati ai rumori descritti nel romanzo che stanno leggendo, ma piuttosto al fatto che lady Madeline è uscita dalla tomba.

34.  lo trascinò… aveva previsto: il terrore provato alla vista della sorella è talmente forte da uccidere Usher; quindi, come egli aveva previsto, è stata la paura a condurlo alla morte.

Mi chinai su di lui, e finalmente afferrai l’orribile significato del-le sue parole: – Non sentite? Sì, io sento, e ho sentito da molto tempo, molto, molto; da molti minuti, da molte ore, da molti giorni. Ho sentito, ma non osavo, miserabile ch’io sono! Non osavo parlare! Noi l’ab-biamo posta viva nella tomba! Non vi dissi che i miei sensi erano acuti? Io ora vi dico che udii i suoi primi movimenti. Molti, mol-ti giorni fa; ma non osavo parlare! E ora, questa notte, Etelredo, ah! la porta dell’eremita spezzata, e il grido di morte del drago, e il fragore dello scudo! Dite, piuttosto, la bara che si squarcia e lo stridere dei cardini di ferro e la lotta entro la volta di rame33. Dove fuggire? Non è certo che ella sarà qui tra un istante? Non arriva per rimproverarmi la mia fretta? Non ho udito i suoi pas-si sulle scale? Non distinguo il battito orribile del suo cuore? In-sensato!Qui egli si alzò furiosamente in piedi, e urlò queste sillabe:– Insensato! Io vi dico che ella adesso è dietro la porta.Come se l’energia sovrumana della sua parola avesse la potenza di un incantesimo, i grandi antichi battenti della porta aprirono lentamente le pesanti imposte d’ebano. Entrò una folata impetuo-sa di vento. Ma dietro alla porta stava l’alta figura di lady Ma-deline Usher, ravvolta nel sudario. Sulle sue bianche vesti c’era sangue: e c’erano tracce di una dolorosa lotta in tutta la perso-na. Per un attimo, ella rimase tremante e barcollante sulla so-glia: poi, con un grido profondo e lamentevole cadde pesante-mente in avanti contro il fratello, e nella sua violenta ed estrema agonia lo trascinò a terra cadavere, vittima del terrore ch’egli aveva previsto34.Spaventato, fuggii da quella camera e da quella casa. La tem-pesta al di fuori infuriava ancora quando attraversai il vecchio viale. Ad un tratto una strana luce si proiettò sul sentiero, e io mi volsi per vedere donde venisse un così strano splendore, poi-ché dietro a me avevo soltanto la grande casa e le sue ombre. La luminosità era quella della luna piena, color di sangue, che ora splendeva vivida attraverso quella fessura prima appena visibile, che percorreva a zig-zag (come ho detto) l’edificio dal tetto sino alla base. Mentre guardavo, la fessura si allargò rapidamente; sopravvenne una forte raffica; l’intero disco del satellite balzò a un tratto ai miei occhi, e mi prese come una vertigine vedendo crollare e spaccarsi in due le possenti pareti del maniero.Ci fu un lungo e tumultuoso frastuono simile alla voce di mille acque, e il cupo e profondo stagno ai miei piedi si richiuse silen-ziosamente sulle rovine della casa Usher.

E. A. Poe, Il crollo della casa Usher, in Racconti, Garzanti

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3

Una notte, Harriet ebbe un sogno così orribile da parerle vero. Una specie di film, di cui lei era la protagonista. Per fortuna, di lì a poco si sarebbe svegliata e tutto sarebbe finito…

L’incubo di Harriet Anthony Horowitz

A rendere il sogno così orribile era il fatto di sembrare così vero. Harriet aveva l’impressione di essere al cinema, inve-

ce che a letto, e di guardare un film con se stessa come protago-nista. E anche se una volta aveva letto che si sogna soltanto in bianco e nero, il suo era un sogno in technicolor. Nel film – nel sogno – indossava il suo vestito rosa preferito e aveva nastri rossi nei capelli. Naturalmente, Harriet non si sa-rebbe mai sognata di sognare in bianco e nero. Soltanto il me-glio, per lei.Comunque, quello era un sogno che avrebbe preferito non fare. Perfino mentre stava raggomitolata a letto, avrebbe voluto sve-gliarsi e chiamare Fifi – la sua tata francese – perché le pre-parasse la colazione. Il sogno – probabilmente era durato solo pochi secondi, eppure sembrava essersi trascinato per ore – era particolarmente spaventoso. Un incubo, in effetti. E pensare che era cominciato così bene. C’era Harriet, nel suo ve-stito rosa, che saltellava sul viale della loro bella casa subito fuo-ri Bath, nello Wiltshire. E canticchiava. Stava tornando da scuo-

fatti strani, presenze inqUietanti3. I sentieri del brivido

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la, ed era particolarmente soddisfatta di com’era andata la gior-nata. Aveva vinto un premio in ortografia, e pur sapendo benis-simo di avere imbrogliato – aveva sbirciato il foglietto nascosto nel portamatite – era andata a ritirare il premio tutta impettita. Naturalmente Jane Wilson (che era arrivata seconda) aveva fat-to i soliti commenti maligni, ma Harriet si era vendicata versan-dole addosso «per caso» un bicchiere di latte durante l’intervallo del pranzo.Era contenta di essere a casa. Abitava in un’imponente palaz-zina bianca – nessuna delle sue compagne di scuola viveva in una casa tanto grande – collocata in mezzo a un giardino perfet-to, completo di ruscello e cascata in miniatura. La sua biciclet-ta nuova era appoggiata al muro davanti alla porta d’ingresso… anche se forse avrebbe dovuto metterla in garage: ormai era ri-masta sotto la pioggia per una settimana, e aveva già comincia-to ad arrugginirsi. Be’, era colpa di Fifi. Se la tata l’avesse mes-sa dentro, adesso sarebbe stata a posto. Pensò di lamentarsi con sua madre. Quando voleva, Harriet sapeva esibire una speciale espressione triste e spremere secchi di lacrime. Se avesse frigna-to a sufficienza, forse mamma avrebbe licenziato Fifi. Sarebbe stato divertente. Si era già sbarazzata di quattro tate. L’ultima era durata appena tre settimane!Ma quando aprì la porta d’ingresso, le cose cominciarono ad an-dare storte. Se lo sentì nelle ossa prima ancora di capire cosa succedeva. Ma naturalmente questo capita spesso, nei sogni.Suo padre era tornato dal lavoro prima del solito. Harriet aveva visto la sua Porsche parcheggiata sul viale. Guy Hubbard aveva un negozio di antiquariato a Bath, anche se di recente aveva co-minciato a trafficare anche in altri settori: terreni edificabili a Bristol, una multiproprietà a Maiorca. Ma la sua vera passione erano le anticaglie. Girava per il paese, infilandosi nelle case col-pite da un lutto recente. Si presentava alla vedova e si guardava intorno, individuando a colpo d’occhio i pezzi di valore. «Questo è un tavolo niente male» diceva. «Potrei pagarglielo cinquanta ster-line. In contanti. Senza discussioni. Che ne dice?». E dopo un po’ quello stesso tavolo compariva nel suo negozio, in vendita per cin-quecento o addirittura cinquemila sterline. Era tutto lì il segre-to del suo successo. Le persone con le quali trattava non avevano idea del valore delle loro proprietà. Ma lui sì. Una volta aveva det-to che poteva fiutare un buon pezzo prima ancora di vederlo.Adesso era in salotto e parlava con la moglie a voce bassa, tesa. Qualcosa era andato male. Terribilmente male. Harriet si avvici-nò a origliare.– Siamo rovinati – stava dicendo Guy. – Finiti. Abbiamo chiuso, bella mia. E non possiamo farci niente.

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– Hai perso proprio tutto? – replicò sua moglie. Un tempo Hil-da Hubbard aveva fatto la parrucchiera, ma non lavorava più da anni; ciò nonostante, non faceva che lamentarsi d’essere sfinita e si concedeva almeno sei vacanze l’anno.– Tutto quanto. Quei maledetti immobili. Jack e Barry hanno preso il largo. Lasciato il paese. Hanno intascato i soldi e mi hanno lasciato i debiti.– Ma come faremo?– Vendiamo tutto e ripartiamo da zero, vecchia mia. Possiamo farcela. Ma dovremo rinunciare alla casa. E alle auto…– E Harriet?– Tanto per cominciare, dovrà lasciare quella sua scuola spoc-chiosa. D’ora in poi frequenterà una scuola pubblica. E quanto alla vostra crociera… ve la scordate!Harriet aveva sentito abbastanza. Spalancò la porta ed entrò nel-la stanza a passo di carica. Aveva le guance scarlatte e le labbra serrate in un broncio furibondo.– Che succede? – strillò con voce acuta. – Che stai dicendo, papà? Perché non posso andare in crociera?Guy la fissò con aria infastidita. – Stavi origliando? – domandò.Hilda, seduta in poltrona, coccolava un bicchiere di whisky. – Non fare il prepotente con lei, Guy – piagnucolò.– Dimmelo! Dimmelo! Dimmelo! – Harriet si era caricata come se stesse per scoppiare in lacrime, ma aveva già deciso che non avrebbe pianto. Caso mai, poteva ricorrere a uno dei suoi strilli spaccaorecchie.Guy Hubbard stava ritto accanto al camino. Era basso, coi baffet-ti e capelli neri lisciati all’indietro. Indossava un abito a scacchi e dal taschino della giacca spuntava un fazzoletto rosso. Non c’era mai stato un grande legame, fra lui e Harriet. In effetti, Harriet gli parlava il meno possibile, di solito solo per battere cassa.– Tanto vale che tu lo sappia – disse Guy. – Ho fatto bancarotta.– Che cosa? – A dispetto della sua decisione, Harriet sentì le la-crime pizzicarle gli occhi.– Non farti sconvolgere, bambolina… – cominciò Hilda.– Farti sconvolgere! – sbottò Guy. – Le cose cambieranno, ragaz-za mia. Poco ma sicuro. Puoi scordarti i vestiti eleganti e le tate francesi…– Fifi?– L’ho licenziata stamattina.– Ma a me stava simpatica!Le lacrime cominciarono a scorrere sulle guance di Harriet.– Dovrai cominciare a fare la tua parte. Quando avrò finito di pagare i debiti, non ci resterà di che comprare un barattolo di fa-gioli. Dovrai trovarti un lavoro. Quanti anni hai? Quattordici?

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– Dodici!– Be’, puoi sempre consegnare i giornali o qualcosa del genere. Quanto a te, Hilda, tor-nerai a fare la parrucchiera. Taglio e messa in piega a trenta sterline l’ora. – Tirò fuori una sigaretta e l’accese, soffiando nell’aria fumo azzurrino. – Compreremo una casa a Bletchley o roba del genere. E potremo per-metterci una sola stanza da letto.– E io dove dormirò? – chiese Harriet con voce tremula.– Puoi dormire in bagno.Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Or-mai le lacrime sgorgavano a profusione… non solo dagli occhi di Harriet ma anche, in modo decisamente disgustoso, dal suo naso. – Non voglio! – strepitò a pieni polmoni. – Non voglio! Non voglio! Non lascerò questa casa e non dormirò in bagno. È tutta colpa tua, papà – urlò d’un fiato. – Ti odio e ti ho sempre odiato e odio anche mamma e an-drò in crociera lo stesso e se provi a impedirmelo ti denuncerò alle finanze e alla polizia e dirò a tutti che imbrogli le vecchiette e non paghi le tasse e sarò contenta quando finirai in prigione!Strillava così forte che quasi si strozzò. Si fermò a prendere fia-to, poi girò sui tacchi e corse fuori dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle. Mentre saliva le scale, sentì il padre borbottare: – Dobbiamo occuparci di quella ragazza…Ma ormai era lontana.E poi, come spesso succede nei sogni, era il giorno dopo, o forse quello dopo ancora, e Harriet era seduta al tavolo della colazione insieme alla madre – che mangiava una ciotola di cereali a basso contenuto calorico e leggeva una rivista pettegola – quando suo padre era entrato in cucina.– Buongiorno – l’aveva salutata.Harriet lo aveva ignorato.– D’accordo – aveva detto Guy. – Ho preso atto della tua opinione e ne ho discusso con tua madre, e sembra che dovremo arrivare a un nuovo accomodamento.Harriet prese una terza focaccina e la spalmò di burro. Si sta-va comportando da vera signorina contegnosa, pensò. Proprio come un’adulta. Peccato che il burro fuso, gocciolandole sul men-to, sciupasse l’effetto.– Dovremo traslocare – proseguì Guy. – Ma hai ragione. Nella nuova casa non ci sarà posto per te. Hai troppe pretese.– Guy… – mormorò Hilda.

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Il marito ignorò il suo tono accorato.– Ho parlato con tuo zio Algernon – annunciò. – E lui ha accon-sentito a prenderti con sé.– Io non ho nessuno zio Algernon – disse Harriet, tirando su col naso.– Non è esattamente tuo zio. Più che altro un vecchio amico di famiglia. Ha un ristorante a Londra. Lo «Sawney Bean».– Che nome stupido – commentò Harriet.– Stupido o no, è di gran moda. Fa soldi a palate. E gli serve una ragazzina come te. Non chiedermi per che cosa! Gli ho telefona-to, e verrà a prenderti oggi. E forse un giorno, quando ci saremo rimessi in sesto…– Mi mancherà la mia cocchina! – piagnucolò Hilda.– Non ti mancherà affatto! Sei sempre stata troppo impegnata a giocare a bridge e farti il pedicure per badarle come si deve. Forse per questo è diventata una peste viziata. Ma ormai è tardi. Algernon sarà qui fra non molto. Farai meglio a mettere le tue cose in una valigia.– La mia pupetta! Stavolta fu Hilda a scoppiare in lacrime, inzuppando i cereali.– Ne prenderò due, di valigie – affermò Harriet. – E farai meglio a darmi un po’ di soldi. Sei mesi di paghetta in anticipo!Zio Algernon arrivò a mezzogiorno. Da quanto aveva detto il padre, Harriet si aspettava che guidasse almeno una Jaguar e rimase delusa quando un malconcio furgoncino bianco, con la scritta Sawney Bean stampata sulla fiancata in lettere rosso sangue, comparve ansimando sul viale.Il furgone si fermò e, lentamente, ne emerse una figura assurda. Tanto per cominciare, era così alto che non si capiva come fosse riuscito a entrarci. Quando si raddrizzò, la testa calva sovrasta-va addirittura l’antenna sul tettuccio. Ed era spaventosamente magro. Come se lo avessero legato a una ruota di tortura e tira-to. Era pelato, ma gli occhietti scintillanti erano sormontati da incredibili sopracciglia cespugliose. La faccia aveva il colore di una pallina da ping-pong, e la testa più o meno la stessa forma. Indossava un cappotto nero col collo di pelliccia e lucide scarpe nere che cigolavano a ogni passo.Guy Hubbard gli andò subito incontro.– Bene arrivato! – lo salutò. – Come vanno gli affari?– Bene. Molto bene. – Algernon aveva una voce bassa e sommes-sa… simile, pensò Harriet, a quella di un impresario di pompe funebri. – Non posso trattenermi molto, Guy. Devo tornare in cit-tà per pranzo. Tutto prenotato, oggi. E domani. E il resto della settimana. Lo «Sawney Bean» ha riscosso perfino più successo di quanto avessi potuto immaginare.

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– Soldi a palate, eh?– Puoi dirlo forte.– Allora, ce l’hai?Sorridendo, Algernon estrasse da una tasca del cappotto una raggrinzita busta marrone. Harriet, ferma sul portone, assisté alla scena perplessa. Sapeva cosa significavano le buste marro-ne, in relazione a suo padre. A quanto pareva quell’uomo, Al-gernon, gli stava consegnando del denaro… e parecchio, a giu-dicare dalle dimensioni della busta. Ma dato che si era assunto l’incarico di occuparsi di lei, non sarebbe dovuto essere Guy a dargli dei soldi?Guy intascò la busta.– Allora… dov’è? – chiese Algernon.– Harriet! – chiamò Guy.Harriet prese le sue due valigie e varcò la soglia di casa per l’ul-tima volta.– Eccomi – annunciò. – Ma non vi aspetterete che salga su quel furgone disgustoso…Guy si accigliò, ma Algernon sembrò non averla sentita. La sta-va fissando con un’espressione difficile da definire. Di sicuro era soddisfatto di quello che vedeva. Felice. Ma c’era anche qual-cos’altro. Avidità? Harriet poteva quasi sentire i suoi occhi scor-rerle addosso.Mise giù le valigie e fece una smorfia mentre lui le sfiorava la guancia con un dito.– Oh sì – biascicò Algernon. – È perfetta. Di prim’ordine. Andrà benissimo.– Per cosa andrà benissimo? – indagò Harriet.– Non sono affari tuoi – la zittì Guy.Adesso anche Hilda era uscita sul viale. Tremava, e Harriet notò che evitava di guardare il loro visitatore.– È tempo di andare – disse Guy.Algernon sorrise. Aveva denti orribili. Gialli e irregolari e, peg-gio, stranamente aguzzi. Denti più da bestia che da uomo.– Salta su – disse, rivolto a Harriet. – È un lungo viaggio.Hilda scoppiò di nuovo in lacrime.– Non mi dai un bacio d’addio? – frignò.– No – ribatté Harriet.– Addio – disse Guy, chiaramente ansioso di vederli partire.Harriet salì sul furgone mentre Algernon sistemava le sue vali-gie nel retro. Il sedile era coperto di plastica a poco prezzo, strap-pata qua e là a mostrare l’imbottitura. Il pavimento era coperto di cartacce, vecchie fatture e pacchetti vuoti di sigarette. Harriet tentò d’abbassare il finestrino, ma la maniglia non girava.– Addio, mamma! Addio, papà! – gridò attraverso il vetro. –

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Non mi siete mai piaciuti e non mi dispiace lasciarvi. Forse vi rivedrò quando sarò grande.– Ne dubito… – Davvero suo padre aveva detto così? Harriet vol-tò la testa sprezzante.Algernon le si sedette accanto, ingobbito, la testa che sfiorava il soffitto. Mise in moto, e l’istante successivo il furgone si allonta-nava sul viale. Harriet neanche si voltò. Non voleva che i genito-ri credessero che potesse sentire la loro mancanza.Nel furgone regnò il silenzio finché ebbero raggiunto l’autostra-da e iniziato il lungo viaggio verso est e la città. Harriet aveva sperato di ascoltare un po’ di musica, ma la radio doveva essere stata rubata e i fili tagliati penzolavano dal cruscotto. Era con-sapevole che Algernon la esaminava con la coda dell’occhio an-che mentre guidava e finalmente, infastidita, si decise a parlare.– Allora… mi dica del suo ristorante – esordì.– È molto esclusivo – cominciò Algernon. – Così esclusivo, in effetti, che lo conoscono solo pochissime persone. Ma è ugual-mente pieno tutte le sere. Non facciamo pubblicità, ma la voce corre. Di bocca in bocca, potremmo dire. Sì. Di bocca in bocca, proprio così.C’era qualcosa di sinistro nel suo tono.– È costoso? – chiese Harriet.– Oh sì. Il più costoso di tutta Londra. Sai quanto spenderesti per una cena per due?Harriet si strinse nelle spalle.– Cinquecento sterline. Vino escluso.– Assurdo! – Harriet aggrottò la fronte. – Nessuno pagherebbe tanto per una cena.– I miei clienti sono più che felici di pagare. Vedi… – Algernon sorrise di nuovo, senza staccare gli occhi dalla strada. – Certa gente ha denaro a palate. Stelle del cinema e scrittori. Banchieri e uomini d’affari. Hanno milioni di sterline, e devono pur trova-re il modo di spenderli. Non ci pensano due volte a pagare cen-to sterline per qualche cucchiaiata di caviale. O mille per una bottiglia di vino! Frequentano solo i migliori ristoranti e non si preoccupano di quanto pagano, purché il loro pasto sia prepa-rato da un cuoco famoso, e meglio ancora se il menù è scritto in francese e gli ingredienti sono trasportati via aerea, con enor-me spesa, da tutto il globo. Mi segui, carina?– Non mi chiamo «carina» – replicò Harriet.Algernon ridacchiò fra sé.– Ma naturalmente, a un certo punto, scoprono di aver mangia-to tutto quello che è possibile mangiare. Il miglior salmone affu-micato, la bistecca più succulenta. C’è un numero limitato d’in-gredienti, carina, e in breve scoprono di averli assaggiati tutti.

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Petto di piccione con marmellata d’arance e foie gras. Pesce per-sico affumicato con scalogni e funghi cinesi. A un certo punto sentono di avere provato tutto. E i loro appetiti, ormai sazi, van-no alla ricerca di un’esperienza culinaria completamente nuova. È allora che vengono allo «Sawney Bean».– Come mai il ristorante ha un nome così stupido?– È il nome di una persona realmente esistita – rispose Alger-non senza scomporsi, anche se Harriet ce la metteva tutta per essere indisponente. – Sawney Bean è vissuto in Scozia all’ini-zio del secolo. Aveva gusti insoliti…– Non si aspetterà che io lavori nel ristorante, voglio sperare.– Lavorare? – Algernon sorrise. – Oh no. Però mi aspetto che tu vi compaia. In effetti, prevedo di presentarti a cena stasera…A questo punto il sogno accelerò e si trovarono a Londra, in King’s Road, a Chelsea. Ed ecco il ristorante! Un palazzetto di mattoni intonacati, col nome in lettere rosse sopra la porta. Non si vedevano finestre e neanche c’erano menù in mostra. In effetti, se Algernon non gliel’avesse indicato, Harriet non l’avrebbe nean-che visto. Il furgone svoltò in uno stretto vicolo dietro l’edificio.– Lei vive qui? – chiese Harriet. – È qui che dovrei vivere io?– Per qualche ora almeno – fu la risposta. Il furgone si fermò in fondo al vicolo, in un cortile racchiuso da alte mura di mattoni. Su un lato c’era una fila di bidoni della spazzatura e una porta di metallo chiusa da svariate serrature. – Eccoci arrivati – disse Algernon.Mentre Harriet scendeva dal furgone, la porta si aprì e ne uscì un ometto grasso, vestito di bianco da capo a piedi. Giapponese, si sarebbe detto. Aveva la pelle arancio pallido, gli occhi a man-dorla, e un cappello da cuoco in bilico sopra la testa. Sorrise, e tre denti d’oro scintillarono nella luce del pomeriggio.– L’hai presa! – esclamò. Aveva un forte accento orientale.– Sì. Questa è Harriet.– Sai quanto pesa?– Non ancora.Gli occhi del cuoco la percorsero da capo a piedi. Harriet si senti-va sempre più inquieta. Quell’uomo la stava esaminando bene… be’, come se fosse un taglio di carne. – Buona, molto buona – bor-bottò il cuoco.– Giovane e viziata – replicò Algernon. Accennò alla porta di metallo. – Da questa parte, carina.– E le mie valigie?– Non ne avrai bisogno.Adesso Harriet era decisamente nervosa. Non sapeva bene per-ché, e questo la faceva sentire anche peggio. Forse c’entrava il nome del ristorante. «Sawney Bean». Era un nome che aveva già

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sentito. Forse alla tivù, o forse l’aveva letto in un libro. Lo cono-sceva, poco ma sicuro. Ma dove…?Lasciò che i due uomini la spingessero nel ristorante e trasa-lì quando la solida porta d’acciaio si chiuse dietro di lei. Era in una cucina lustra, tutta mattonelle bianche, fornelli di taglia in-dustriale, pentole e padelle scintillanti. Il ristorante era chiuso. Erano più o meno le tre del pomeriggio. Mancava ancora parec-chio all’ora di cena.Si rese conto che Algernon e il cuoco la fissavano in silenzio, entrambi con gli stessi occhi eccitati, avidi. Sawney Bean! Dove aveva già sentito quel nome?– Perfetta – disse il cuoco.– Sono d’accordo – annuì Algernon.– Un po’ grassoccia, forse…– Non sono grassa! – protestò Harriet. – E ho deciso che non mi piace stare qui. Voglio tornare a casa. Riportatemi subito indietro.Algernon ridacchiò.– Troppo tardi. Di gran lunga troppo tardi. Ho pagato un bel po’ di soldi per te, carina. E poi te l’ho detto… ti voglio qui per cena, stasera.– Possiamo cominciare marinandola in vino bianco – suggerì il cuoco. – E poi una salsa bernese…Fu allora che Harriet ricordò. Sawney Bean. Aveva letto di lui in un libro di storie dell’orrore.Sawney Bean.Il cannibale.Aprì la bocca per urlare, ma non riuscì a emettere un suono. Na-turalmente: è impossibile urlare quando hai un incubo. Ci provi, ma la voce non ti obbedisce. Ecco cosa stava succedendo a Har-riet. Sentì l’urlo montarle dentro. Vide Algernon e il cuoco avan-zare verso di lei. La stanza turbinava, pentole e padelle le vorti-cavano attorno, e ancora l’urlo non usciva. E poi un vortice la ri-succhiò, e l’ultima cosa che ricordava era una mano tesa premu-rosa a sorreggerla perché cadendo non si procurasse qualche li-vido, danneggiando la carne.Per fortuna a quel punto si svegliò.Che incubo spaventoso!

Aprì lentamente gli occhi. Fu il momento più delizioso della sua vita, sapere che tutto quello che aveva sognato non era vero. Suo padre non aveva fatto bancarotta. I genitori non l’avevano vendu-ta a un ripugnante individuo su un furgone bianco. Fifi era an-cora lì, pronta a servirle la colazione e aiutarla a vestirsi. Adesso si sarebbe alzata e sarebbe andata a scuola, e fra poche settima-ne lei e sua madre sarebbero partite per la loro crociera ai Carai-

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bi. Che sciocca, a farsi spaventare tanto da un sogno così assur-do. Anche se era sembrato proprio vero.Sollevò una mano per strofinarsi la fronte.O meglio: ci provò.Aveva le mani legate dietro la schiena. Sbarrò gli occhi. Si trova-va in una cucina, distesa su una lastra di marmo. Un pentolone pieno d’acqua gorgogliava sul fornello. Un cuoco giapponese sta-va affettando cipolle con uno scintillante coltello d’acciaio.Harriet aprì la bocca.Questa volta riuscì a urlare.

A. Horowitz, Tempi tempestosi a Villa Ghiacciaossa, Mondadori