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Un banchetto letterario: la letteratura italiana e cucina

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Presentazione progetto

Destinatari

Gli obiettivi del progetto

Metodologia

Il progetto parte dalla consapevolezza che il cibo insieme necessit e piacere, segno inequivocabile di potere, controllo e supremazia; la tavola pu unire o dividere, mescolare o ribadire le differenze di classe; Il cibo simbolo di prosperit, di vita, di abbondanza, ma anche metafora di possibile caduta e peccato originario.

Nella letteratura italiana la centralit del cibo stata evidente fin dall'inizio e ribadita in ogni passaggio d'epoca. Basti pensare al rilievo reale e metaforico del cibo nella Commedia e nel Convivio di Dante; nelle novelle del Decameron di Boccaccio; nelle Intercenali di Alberti; nel Cortegiano di Castiglione e nel Galateo di Della Casa; nei Promessi Sposi di Manzoni e nelle novelle di Verga; nelle opere di Gadda e di Calvino; nel Ventre di Napolidi Matilde Serao, in Fame e in Nascita e morte della massaia di Paola Masino.

Il progetto nato dall'intento di esplicitare le potenzialit formative che la letteratura offre agli studenti e di promuovere l'integrazione tra i diversi saperi che indispensabile per la costruzione di competenze. Pensare per competenze comporta due condizioni: una didattica centrata sui discenti e uno sguardo concretamente rivolto al mondo che circonda la scuola.

La letteratura qui intesa come uno strumento estremamente potente e versatile sul piano delle competenze comunicative, emotive e sociali, e delle competenze di cittadinanza in genere, come enunciato nel Documento programmatico di COMPTA (Competenze dell'italiano), un progetto pilota, pluriennale di ricerca-azione, finalizzato a promuovere l'innovazione didattica nel secondo biennio e nell'ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado, e sostenuto da una convenzione del MIUR, Direzione Generale per gli Ordinamenti e per l'Autonomia Scolastica, con l'Universit di Bari capofila, che coinvolge altre universit e scuole di

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secondo grado (licei, istituti tecnici e istituti professionali), selezionate su tutto il territorio nazionale, guidato da un gruppo di italianisti di scuola e universit (del quale fa parte anche la sottoscritta) (www.compita.it).

Pertanto, il progetto intende coinvolgere la letteratura, la storia e l'enogastronomia, affinch questi saperi si uniscano e offrano un contributo reale alla formazione culturale degli studenti, in una visione interdisciplinare e pluridisciplinare.

Infine, l'analisi dei testi, prima ricercati con l'aiuto del docente, sar finalizzata alla riappropriazione del testo in una forma di riscrittura personale, ovvero nella rielaborazione di ricette di cucina e nella produzione di saggi su usi e costumi dell'arte culinaria nella storia italiana, raccolti in un e-book, utilizzando la piattaforma Epubeditor, fruibile da tutta la comunit scolastica e non solo. Il lavoro finale sar presentato al comitato scientifico di COMPITA.

Gli studenti della classe 5^ A serale di Casamassima

Sviluppare:

l'abitudine all'attivit cooperativa in particolare per la formazione del saperela pratica del dialogo e dell'ascolto reciprocol'acquisizione e l'uso di competenzela ricerca di informazioni e il loro uso appropriatoin modo pi consapevole l'espressione della propria interiorit e dei sentimenti

Competenze letterario-interpretative

Quelle individuate dai documenti Compita per la poesia e per il testo narrativo (aspetti della competenza interpretativo-letteraria, indici disciplinari, descrittori di attivit e compiti per le classi del II biennio e dell'anno V)

Lezione frontale in orario curricolare

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Lezione guidata con domande

Lezione dialogata

Ricerca e relazione orale

Esercitazione a piccoli gruppi e individuale (in tal caso domestica)

Lavoro a distanza tramite e-mail

Il tutto tenendo ben presente i principi base della centralit del testo, del lettore e del procedimento euristico

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TESTI DA ANALIZZARE

Passi scelti da:

Dante, Convivio e Purgatorio

Speculum perfectionis

Petrarca, Sonetto 9 da Canzoniere

Boccaccio, Novelle VIII, 3 e VI, 2

Pulci, versi dal Morgante

Verri, Il caff

Manzoni, un brano da I promessi sposi

Pascoli, Il risotto romagnuolo e La piada

Moretti, La Pi (Il pane dei poveri)

Marinetti, Il manifesto della cucina futurista

Saba, Polpette al pomodoro

Rodari, Gli uomini di burro

Calvino, La distanza della luna

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Dante Aliglieri, Convivio

IL "Convivio" di Dante

Convivio I, 1 (1-19)

1. S come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere [ed] che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, inclinabile alla sua propia perfezione; onde, acci che la scienza ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.

2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro all'uomo e di fuori da esso lui rimovono dall'abito di scienza.

3. Dentro dall'uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l'uno dalla parte del corpo, l'altro dalla parte dell'anima. Dalla parte del corpo quando le parti sono indebitamente disposte, s che nulla ricevere pu, s come sono sordi e muti e loro simili. Dalla parte dell'anima quando la malizia vince in essa, s che si fa seguitatrice di viziose dilettazioni, nelle quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile.

4. Di fuori dall'uomo possono essere similemente due cagioni intese, l'una delle quali induttrice di necessitade, l'altra di pigrizia. La prima la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a s tiene delli uomini lo maggior numero, s che in ozio di speculazione essere non possono. L'altra lo difetto del luogo dove la persona nata e nutrita, che tal ora sar da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano.

5. Le due di queste cagioni, cio la prima dalla parte [di dentro e la prima dalla parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avegna che l'una pi, sono degne di biasimo e d'abominazione.

6. Manifestamente adunque pu vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che all'abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li 'mpediti che di questo cibo sempre vivono

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affamati.7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane

delli angeli si manuca! e miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo!

8. Ma per che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch'elli ama, coloro che a cos alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande se[n] gire mangiando.

9. E acci che misericordia madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra nominata.

10. E io adunque, che non seggio alla beata mensa, ma, fuggito della pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolemente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale alli occhi loro, gi pi tempo, ho dimostrata; e in ci li ho fatti maggiormente vogliosi.

11. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ci ch'i' ho loro mostrato, e di quello pane ch' mestiere a cos fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata. Ed ha questo convivio di quello pane degno, co[n] tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata.

12. E per ad esso non s'assetti alcuno male de' suoi organi disposto, per che n denti n lingua ha n palato; n alcuno assettatore de' vizii, perch lo stomaco suo pieno d'omori venenosi contrarii, s che mai vivanda non terrebbe.

13. Ma vegna qua qualunque [per cura] familiare o civile nella umana fame rimaso, e ad una mensa colli altri simili impediti s'assetti; e alli loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, ch non sono degni di pi alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane che la far loro e gustare e patire.

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14. La vivanda di questo convivio sare di quattordici maniere ordinata, cio [di] quattordici canzoni s d'amor come di vert materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d'alcuna oscuritade ombra, s che a molti loro bellezza pi che loro bontade era in grado.

15. Ma questo pane, cio la presente disposizione, sar la luce la quale ogni colore di loro sentenza far parvente.

16. E se nella presente opera, la quale Convivio nominata e vo' che sia, pi virilmente si trattasse che nella Vita Nova, non intendo per a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo s come ragionevolemente quella fervida e passionata, questa temperata e virile essere conviene.

17. Ch altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; per che certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, s come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sar propia ragione mostrata. E io in quella dinanzi, all'entrata della mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella gi trapassata.

18. E con ci sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; s che l'una ragione e l'altra dar sapore a coloro che a questa cena sono convitati.

19. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene alla sua grida, che non al mio volere ma alla mia facultade imputino ogni difetto: per che la mia voglia di compita e cara liberalitate qui seguace.

Convivio I, 13 (11-12)

11. Cos, rivolgendo li occhi a dietro e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato dalle macule e dall'essere di biado; per che tempo d'intendere a ministrare le vivande.

12. Questo sar quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soverchieranno le sporte piene. Questo sar luce nuova, sole nuovo, lo quale surger l dove l'usato tramonter, e dar lume a coloro che sono in tenebre ed in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce.

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Il Convivio un'opera mista di prosa e versi di argomento filosofico-dottrinale, scritta da Dante in un periodo agli inizi del suo esilio (probabilmente intorno al 1304-1308): il progetto originale dell'opera prevedeva quindici trattati in prosa volgare, uno introduttivo e altri quattordici di commento ad altrettante canzoni dottrinali composte dall'autore negli anni precedenti. Dante non port a termine l'opera e la lasci incompiuta dopo il IV Trattato, probabilmente per dedicarsi alla composizione della Commedia.Il titolo significa letteralmente banchetto e allude alla volont dell'autore di imbandire ai lettori la sapienza attraverso delle vivande rappresentate dalle canzoni, mentre il pane costituito dal commento in prosa. L'ambizione di Dante era quella di creare una vasta opera enciclopedica, in cui affrontare tutti gli argomenti dello scibile e dimostrare cos il proprio sapere e la propria maestria letteraria per riscattare la sua condizione di esule.

L'opera nasce dagli studi filosofici cui Dante si era dedicato negli anni successivi alla morte di Beatrice, come egli stesso precisa nel Trattato introduttivo (in cui, tra l'altro, reinterpreta in chiave allegorica la donna gentile di cui aveva parlato nella Vita nuova, dichiarando che essa altro non era che allegoria della filosofia). Dante afferma nel I Trattato di essere ai piedi della mensa dei veri sapienti, dalla quale raccoglie le briciole, per cui sua intenzione condividere la ricchezza del sapere con gli altri lettori comunicando le sue scoperte: da qui la scelta del volgare come lingua dell'opera, dal momento che il pubblico cui si rivolge italiano, colto ma non specialistico, formato da alta borghesia e piccola nobilt, quindi non necessariamente in grado di intendere il latino.

II Trattato

dedicato a commentare la canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete: Dante spiega anzitutto le circostanze biografiche in cui la lirica venne composta, ovvero il periodo seguente alla morte di Beatrice in cui lui cerc consolazione nello studio della filosofia (specialmente leggendo Cicerone e

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Boezio), quindi reinterpreta la donna gentile di cui si parlava nei capp. XXXV-XXXIX della Vita nuova come allegoria della filosofia, per cui la materia narrativa del libello giovanile viene rivisitata e attualizzata. Su questa base egli svolge il commento e l'interpretazione della canzone, tessendo un appassionato elogio della filosofia e dello studio della materia dottrinale.

III Trattato

il commento alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona, la stessa intonata da Casella nel Canto II del Purgatorio e collegata anch'essa alla figura della donna gentile, esaltata secondo la poetica stilnovistica della loda. Come nel II Trattato, anche qui Dante compie numerose divagazioni di carattere scientifico, filosofico, teologico.

IV Trattato

La canzone commentata Le dolci rime d'amor ch'i' sola, che si distende per trenta capitoli con un raddoppiamento esatto rispetto ai due Trattati precedenti, entrambi di quindici capitoli. Dante abbandona il tema biografico-amoroso, affrontando una elaborazione di carattere pi strettamente teorico: il tema centrale la definizione della nobilt, che quella d'animo e non di sangue (secondo il celebre motivo stilnovista) ed quindi una sorta di dono divino, di cui il destinatario deve rendersi degno con una condotta virtuosa da esprimere nell'impegno politico e civile. Il tema sociale si fonde con quello politico, poich Dante esalta il concetto di monarchia universale rappresentata storicamente dall'Impero romano e poi dal Sacro Romano Impero, voluta quindi dal disegno provvidenziale di Dio attraverso la vicenda di Enea, la fondazione di Roma e del Papato (la stessa visione torner, con qualche correttivo, nella Commedia e nella Monarchia).

Stile e prosa del Convivio

Varie sono le fonti e i modelli cui Dante si rif nella composizione di quest'opera cui doveva affidare, almeno nelle intenzioni, la sua fama negli anni successivi: anzitutto i filosofi pagani alla cui lettura si era avidamente dedicato prima dell'esilio, fra i quali spiccavano Aristotele e i gi citati Cicerone e Boezio, cui vanno aggiunti naturalmente gli autori cristiani

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(anche se nell'opera si avverte una certa sopravvalutazione della speculazione filosofica e della ragione umana a scapito della teologia: ci stato interpretato come causa del cosiddetto traviamento morale di Dante, rimproveratogli da Beatrice nel Canto XXX del Purgatorio e all'origine, forse, dello smarrimento nella selva oscura). Un certo debito di Dante innegabile anche verso la tradizione medievale della letteratura didascalica, a cominciare dalle opere di Brunetto Latini come Trsor (in lingua d'ol) e Tesoretto, nonch alle razos dei poeti provenzali con cui essi spiegavano il significato delle loro poesie e le commentavano.

La prosa del Convivio il risultato di questa ricerca dottrinale e rappresenta una scommessa vinta nel tentativo di usare il volgare per scrivere un'opera di cos elevato impegno intellettuale: lo stile decisamente elevato e il volgare dimostra una vitalit e un'efficacia che sarebbe stata impensabile al latino medievale, dal quale comunque trae l'equilibrio compositivo, la lucida chiarezza, la complessit sintattica e la simmetria. Dante fonda in un certo senso la prosa filosofica in volgare (secondo la definizione di Segre) e la arricchisce con l'uso frequente di similitudini e metafore, allo scopo di dare concretezza ed evidenza alle proprie argomentazioni, anche a quelle di carattere pi squisitamente teorico.

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LA RICETTA DEL SAPERE (riscrittura ad opera di tutta la classe)

Questa la ricetta di un piatto molto gustoso, il piatto della CONOSCENZA

Ingredienti:

1 kg di gioia

1 kg di emozione

1 kg di creativit

1 kg di fantasia

1 kg di ricerca

1 kg di analisi

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500 gr di carta e penna

500 gr di digitale

1 kg di libri

infinite parole

1 kg di competenze

Un pizzico di follia

Pazienza e tempo q.b.

Consapevolezza e disponibilit ad apprendere q.b.

Preparazione:

Disponi il tuo cuore e la tua testa all'apprendimento: serve silenzio, concentrazione e tanta gioia. Usa consapevolezza e disponibilit ad apprendere in ogni passaggio della ricetta.

Prendi gioia, emozione, creativit e fantasia e aggiungili alla ricerca e all'analisi.

Con carta e penna e col digitale frulla il tutto e spalma il composto sui libri.

Crea infinite parole con competenza e un pizzico di follia.

Usa pazienza e tempo quanto basta per mescolare gli ingredienti.

Il tutto va cotto sul tuo cuore e nella tua testa per l'eternit.

La conoscenza sar pronta ogni volta che testa e cuore saranno disposti ad accoglierla.

Buon appetito

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Dante, Purgatorio, XXIII, vv. 1-36

I golosi del Paradiso

Mentre che li occhi per la fronda verdeficcava io s come far suolechi dietro a li uccellin sua vita perde,

lo pi che padre mi dicea: Figliuole,vienne oramai, ch l tempo che n' impostopi utilmente compartir si vuole.

Io volsi l viso, e l passo non men tosto,appresso i savi, che parlavan se,che l'andar mi facean di nullo costo.

Ed ecco piangere e cantar s'udeLabia mea, Domine' per modotal, che diletto e doglia parture.

O dolce padre, che quel ch'i' odo?,comincia' io; ed elli: Ombre che vannoforse di lor dover solvendo il nodo.

S come i peregrin pensosi fanno,giugnendo per cammin gente non nota,che si volgono ad essa e non restanno,

cos di retro a noi, pi tosto mota,venendo e trapassando ci ammiravad'anime turba tacita e devota.

Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,palida ne la faccia, e tanto scema,che da l'ossa la pelle s'informava.

Non credo che cos a buccia strema

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Eristtone fosse fatto secco,per digiunar, quando pi n'ebbe tema.

Io dicea fra me stesso pensando: Eccola gente che perd Ierusalemme,quando Maria nel figlio di di becco!'

Parean l'occhiaie anella sanza gemme:chi nel viso de li uomini legge omo'ben avria quivi conosciuta l'emme.

Chi crederebbe che l'odor d'un pomos governasse, generando brama,e quel d'un'acqua, non sappiendo como?

S. Dal, L'albero dei golosi Dante, appena entrato nella VI Cornice del Purgatorio guarda con attenzione tra le fronde dell'albero, quando Virgilio lo avverte che il tempo poco ed necessario procedere. Il poeta segue il maestro e Stazio che parlano tra loro, finch sente delle anime che cantano piangendo il Salmo Labia mea, Domine e ne chiede spiegazioni a Virgilio. Questi risponde che forse sono anime di penitenti e infatti poco dopo i tre sono raggiunti da una schiera di golosi, che procedono spediti e li guardano sorpresi, senza fermarsi. Ciascuno di loro ha il volto pallido e scavato dalla magrezza, al punto che la pelle aderisce tutta alle ossa del cranio; Eristtone non dimagr cos tanto a causa del castigo di Cerere, mentre i golosi ricordano a Dante gli Ebrei che a Gerusalemme, durante l'assedio di Tito, furono indotti ad atti di cannibalismo. Il loro volto cos smunto che sembra di leggervi la parola

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OMO, e tutto ci a causa del profumo dei frutti che pendono dall'albero e dell'acqua, che producono quell'effetto in modo incomprensibile all'uomo.

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LA GOLOSITA' (riscrittura ad opera di tutta la classe)

Recita il dizionario Treccani:

golso (ant. gulso) agg. [dal lat. gulosus, der. di gula gola]. 1. a.Ghiotto, avido di cibi raffinati e ricercati o in genere di determinati cibi: essere g. di dolci, di frutta, di ostriche. Pi spesso, usato assol., che ha il vizio della gola: molto g.; non sono affatto g.; anche sostantivato: i g. sono puniti da Dante nel 2 cerchio dell'Inferno. b. fig. Avido, desideroso, bramoso: esser g. di piaceri, di soldi; un pubblico g. di notizie scandalistiche; riferito agli occhi e allo sguardo, che rivela concupiscenza, desiderio sensuale: le rivolse uno sguardo g.; la guardava con occhi g.; con altro sign., nel linguaggio poet., riferito agli occhi, bramosi di vedere: sempre con li occhi gulosi si mira innanzi (Dante). 2. estens. Di cibo, che stuzzica la gola (meno com., in questo senso, di gustoso, ghiotto, appetitoso): piatti g.; un g. manicaretto. Dim. golosino, golostto; accr. golosne (f. -a); pegg. golosccio (gli ultimi due, usati di solito come sost.). Avv. golosamnte, con golosit, con avidit: mangiava golosamente la sua porzione di dolce; seguiva golosamente tutti i particolari della vicenda.

L'aggettivo rimanda ad una certa volutt nel ricercare i cibi pi raffinati. Si collega anche al termine leccorna: questa parola significa squisito e raffinato' e deriva da lecconera, cio cibo da leccone, che anticamente significava goloso'.

Inoltre, il termine si collega a gola, che per estensione usato come sinonimo di " ingordigia ", " golosit ", uno dei sette vizi capitali secondo la morale cattolica.Essa si ha quando l'uomo, spinto dagli stimoli dell'appetito concupiscibile, eccede la giusta misura nel dedicarsi ai piaceri del cibo e delle bevande. Tale disordinata concupiscenza dei piaceri del palato contamina la vita spirituale dell'uomo e, se giunge a distogliere l'uomo dal suo fine ultimo, cio dal pensiero della salvezza dell'anima e di Dio, pu divenire peccato mortale.

Nel Convivio (III, VII 17), Dante accenna al vizio della gola, annoverandolo tra i vizii consuetudinarii (s come la intemperanza, e massimamente del

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vino), distinti dai vizi connaturali, cio da quelli a li quali naturalmente l'uomo disposto (s come certi per complessione collerica sono ad ira disposti).

Il peccato di g. ha una collocazione precisa nelle due strutture topografiche e morali dell'Inferno e del Purgatorio. Nell'Inferno esso punito nel terzo dei nove cerchi (dopo la lussuria e prima dell'avarizia e prodigalit, secondo uno schema progressivo di maggiore gravit), al di fuori della citt di Dite, tra i peccati cio meno gravi d'incontenenza, che men Dio offende e men biasimo accatta (XI 82-84).

Nel Purgatorio esso punito nel sesto dei sette gironi del sacro monte (Pg XXII 115 ss., XXIII, XXIV), dopo l'avarizia e prodigalit e prima della lussuria, secondo uno schema progressivo di minore gravit: tra quei peccati, cio, generati dall'erroneo indirizzarsi dell'amore d'animo, con troppo... di vigore (Pg XVII 96), con ordine corrotto (v. 126) in quanto corrompe l'ordine naturale al bene.

I golosi dell'Inferno sono dannati a restare distesi sotto lo scroscio costante di una pioggia etterna, maladetta, fredda e greve, fatta di grandine grossa, acqua tinta [" sporca "] e neve (If VI 8 e 10). A guardia del luogo della loro pena vi Cerbero, il mitico mostruoso cane trifauce (di derivazione virgiliana), che li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, / e 'l ventre largo, e unghiate le mani (vv. 16-17; descrizione di avidit animalesca volutamente ambigua e antropomorfa nei termini barba, mani, a raffigurare i caratteri simbolici del goloso). La pioggia per la sofferenza che produce fa urlar... come cani le anime dei peccatori che dei piaceri del ventre fecero il solo scopo della loro vita (Paul. Philipp. 3, 19 " quorum deus venter est "), e un cane dal ventre largo le grafia, iscoia ed isquatra, e con i suoi latrati le 'ntrona... / s, ch'esser vorrebber sorde (If VI 18, 32-33).

Nel Purgatorio le anime di coloro che assecondarono i piaceri della gola oltra misura (Pg XXIII 65), purgano il loro peccato soffrendo gli stimoli della fame e della sete (il contrapasso , in questo caso, evidente), resi pi acuti dalla vista di due alberi posti alle due estremit del girone, pieni di pomi odorosi (a odorar soavi e buoni, XXII 132), e di una sorgente di acqua limpida (un liquor chiaro, v. 137), che bagna e rende fragranti con i suoi spruzzi le foglie di uno degli alberi (Di bere e di mangiar n'accende cura / l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo / che si distende su per sua verdura, XXIII 67-69). Il

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tormento per le anime che girano incessantemente si rinnova di continuo (E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena, vv. 70-71). Il loro aspetto deformato dall'estrema magrezza: profonde e scure occhiaie, pallore sul volto, pelle a contatto diretto con le ossa dello scheletro (Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, / palida ne la faccia, e tanto scema [" scarna "] / che da l'ossa la pelle s'informava, vv. 22-24); le occhiaie somigliano ad anella santa gemme, tanto gli occhi sono privi di luce, quasi invisibili e infossati nel profondo de la testa (vv. 31 e 40), e chi nel viso de li uomini legge omo ' / ben avria quivi conosciuta l'emme (vv. 32-33: cio le due occhiaie simili a due O ', e la linea dei sopraccigli e del naso, simile a una M ', messa in rilievo dalla magrezza). Ai due estremi del girone, presso i due alberi odorosi e carichi di pomi, si ode una voce che indica rispettivamente esempi ' di temperanza e di intemperanza (presso il primo: l'episodio evangelico, narrato in Ioann. 2, 11, della vergine Maria, che alle nozze di Canaan spinse Ges a compiere il miracolo di mutare l'acqua in vino, non per sua golosit, ma perch fosser le nozze orrevoli e intere, conformi alle buone usanze e complete [XXII 143]; la credenza, affermata da Valerio Massimo [II I 3], citato poi da s. Tommaso in Sum. theol. II II 149 4, secondo cui le antiche donne romane bevevano solo acqua; il racconto biblico, in Dan. 1, 3-20, secondo cui il profeta Daniele rifiut i cibi raffinati della mensa del re Nabuccodonosor, accontentandosi del cibo semplice dei poveri, e ricevendo, quale ricompensa, da Dio le doti del sapiente e del saggio; la mitica leggenda dei tempi dell'et dell'oro, secondo cui gli uomini allora soddisfacevano ai bisogni del sostentamento con mezzi semplici, come le ghiande e l'acqua di ruscello; l'episodio evangelico, narrato in Matt. 3, 4 e in Marc. 1, 6, secondo cui s. Giovanni Battista, ritiratosi nel deserto, si nutr di miele e di locuste. Presso il secondo: l'episodio, narrato da Ovidio in Met. XXII 210 ss., dei centauri, che, ubriacatisi durante le nozze di Piritoo, aggredirono la sposa e le altre donne presenti, generando una mischia furibonda, in cui molti di essi persero la vita per mano di Piritoo e di Teseo; l'episodio biblico del libro dei Giud. 6, 11 e 7, 25, secondo cui Gedeone, dovendo muovere contro i Madianiti, non volle tra le fila dei suoi soldati quegli Ebrei che presso la fonte di Arad mostrarono troppo slancio e mollezza nel voler soddisfare la sete; e oltre a queste, altre colpe de la gola / seguite gi da miseri guadagni, XXIV 128-129). Inoltre la voce divina presso i due alberi fa precedere l'elenco degli esempi ' da un ammonimento (presso il primo: Di questo cibo avrete caro, " mancanza " [XXII 141], che ricorda il divieto fatto da Dio ad Adamo ed Eva di cibarsi dei

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pomi dell'albero della scienza del bene e del male, in Gen. 2, 17; presso il secondo: Trapassate oltre sanza farvi presso: / legno pi s che fu morso da Eva, / e questa pianta si lev da esso [Pg XXIV 115-117], con pi preciso riferimento al lignum del racconto biblico, che si trova pi s, in cima alla montagna del Purgatorio, nel Paradiso terrestre). Infine, le anime penitenti, ogni volta che giungono vicino al secondo albero, si fermano qualche istante gridando e alzando le mani verso le foglie, quasi bramosi fantolini e vani (v. 108), per poi riprendere, delusi, il loro andare, accompagnato dal canto " Laba ma Domine " (versetto 17 del Miserere; Pg XXIII 11).

Tra i golosi dannati nel terzo cerchio dell'Inferno D. immagina d'incontrare Ciacco (v.). Fra i golosi del Purgatorio il papa Martino IV, Ubaldino della Pila, Bonifazio Fieschi, Marchese degli Orgogliosi, Bonagiunta Orbicciani e Forese Donati: v. le singole voci e soprattutto quelle degli ultimi due personaggi, di grande rilievo nella Commedia

La domanda nasce spontanea: si pu essere golosi di un cavolo? Be', proprio no... E' difficile che la nostra gola accolga con gioia questa verdura, che certamente fa benissimo, ma non stuzzica il palato. L'orco di Pollicino era goloso di bambini...

La golosit, per, rimanda ad un peccato...E non soltanto perch minaccia la bilancia, ma anche perch la golosit rimanda all'idea di soddisfare altri piaceri.

Tuttavia, il buon cibo sicuramente una favola!!!

Leggetevi questo articolo e capirete:

http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Ricette_da_fiaba.html

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San Francesco, Speculum perfectionis

Speculum perfectionis112. DEL CIBO E DEL PANNO CHE, PRESSO A MORIRE, EGLI DESIDERAVA

1812113. Stava il Santo, infermo dell'ultima malattia che lo port a morte, nel

luogo di Santa Maria degli Angeli. Un giorno chiam i suoi compagni e disse loro: Voi sapete come Donna Jacopa de Settesoli vivamente devota a me e al nostro Ordine. Credo perci ch'ella considerer grande favore e consolazione se la informiamo del mio stato. Domandatele specialmente che mi faccia avere del panno monacale color cenere e, insieme, mi mandi anche di quel dolce che a Roma prepar per me pi volte. I romani chiamano quel dolce: mostaccioli, ed fatto di mandorle, zucchero e altri ingredienti. Quella nobildonna era molto religiosa, una delle vedove pi nobili e ricche di Roma. Per i meriti e la predicazione di Francesco, aveva ricevuto dal Signore la grazia di emulare, nelle lacrime e nel fervore, nell'amore e nell'appassionata dedizione a Cristo, Maria Maddalena. Scrissero dunque una lettera come aveva detto il Santo; e un frate andava cercando un compagno che recapitasse alla nobildonna la lettera, quando fu picchiato alla porta del luogo. Un frate apr, ed ecco, l in persona, Donna Jacopa, venuta con gran fretta a visitare Francesco. Un frate la riconobbe e si rec immediatamente da Francesco, annunziandogli con grande gioia che Donna Jacopa era venuta da Roma con suo figlio e molto seguito a fargli visita. Soggiunse: Cosa facciamo, padre? Possiamo lasciarla entrare da te? . Disse questo, perch per volont di Francesco era stato deciso che in quel luogo, per preservarne il decoro e il raccoglimento, non vi entrasse alcuna donna. Ma il Santo disse: Tale regola non va osservata per questa nobildonna, che una grande fede e devozione ha fatto accorrere qui da tanto lontano . Cos Donna Jacopa entr dal beato Francesco, scoppiando in lacrime davanti a lui. E, cosa mirabile, portava con s il panno mortuario, color cenere, per fare una tonaca, e le altre cose contenute nella lettera, come se l'avesse ricevuta in antecedenza. La signora disse ai frati: Fratelli miei, mentre pregavo ebbi questa ispirazione:--Va' a visitare il tuo padre Francesco; affrettati, non

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indugiare; ch, tardando, non lo troveresti pi vivo. E portagli il tale panno per la tonaca e tali altre cose, per fargli quel dolce. Inoltre, porta con te gran quantit di cera per farne delle candele, e anche dell'incenso ---. Questo, tranne che l'incenso, era annotato nella lettera che si stava per recapitarle. E cos avvenne che Colui, il quale ispir ai re Magi di andare con doni a onorare il Figlio suo nel giorno della sua nascita, ispir anche a quella nobile e santa signora di recarsi con doni a onorare il suo dilettissimo servo nei giorni della sua morte, o meglio della sua vera nascita. Prepar quella signora il cibo che il Santo desiderava mangiare, ma egli ne mangi ben poco, perch sempre pi gli mancavano le forze e si avvicinava alla morte. Fece fare anche molte candele che, dopo la morte del Santo, ardessero intorno alla sua salma; e con il panno, i frati confezionarono la tonaca con la quale venne sepolto. Francesco stesso ordin ai frati di cucirgli del sacco sulla veste che portava, in segno ed esempio di umilt e di sovrana povert. E in quella settimana in cui era venuta Donna Jacopa, il nostro santissimo padre migr al Signore.

Il testo Speculum perfectionisoLegenda antiquissima un'opera discrittoreanonimoscritta intorno al1318sulla vita diSan Francesco d'Assisi.

Creduta per molto tempo opera difrateLeone, compagno fedele delsanto, loSpecchio di perfezione in realt operaanonimadovuta ad una revisione di materiali contenuti nellaLegenda Perusina.

Ilmanoscrittopi antico delloSpeculumsi trova aFirenzenelmonastero d'Ognissantie riporta la data del1317.

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PANE (riscrittura ad opera di tutta la classe)

Si tratta di un cibo immancabile sulle nostre tavole, essenziale alla vita umana, simbolo del lavoro dell'uomo ed anche alimento sacro.

PANE

PANE che accompagni

PANE che sazi

PANE scuro dei poveri

PANE bianco dei ricchi

La tua presenza sulla tavola

riempie gli occhi.

Il tuo profumo dal cesto

inebria le narici.

La tua fragranza in bocca

scioglie le papille.

Ogni senso da te appagato

mostra il lavoro di ogni d,

che trasforma la fatica nella gioia della tavola.

Un approfondimento a questo link:

http://www.storico.org/storia_societa/pane.html

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http://www.storico.org/storia_societa/pane.html

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Francesco Petrarca, Canzoniere

Sonetto 9 del Canzoniere

Petrarca, Canzoniere Sonetto 9

Quando 'l pianeta che distingue l'oread albergar col Tauro si ritorna,cade vertu da l'infiammate cornache veste il mondo di novel colore;et non pur quel che s'apre a noi di fore,le rive e i colli, di fioretti adorna,ma dentro dove gia mai non s'aggiornagravido fa di se il terrestro humore,onde tal fructo et simile si colga:cosi costei, ch'e tra le donne un sole,in me movendo de' begli occhi i raicria d'amor penseri, atti et parole;ma come ch'ella gli governi o volga,primavera per me pur non e mai.

Con il titolo Canzoniere si soliti designare l'opera Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca, cio la raccolta delle sue rime. Il titolo di Rime sparse, col quale essa appare in molte edizioni, desunto dal primo verso del sonetto-proemio.

L'opera raccoglie le liriche composte da Petrarca nell'arco di tutta la vita, approssimativamente dal 1335-1336 (ma forse anche prima) sino agli ultimi anni prima della morte, nel 1373-74, e l'autore sottopose le sue poesie a un continuo lavoro di riscrittura e rielaborazione che lui stesso defin labor limae, arrivando alla sistemazione definitiva in una raccolta concepita come opera organica. Il titolo, Rerum vulgarium fragmenta ("Frammenti di cose volgari"), allude al carattere sparso dei componimenti (che nel sonetto proemiale sono appunto detti "rime sparse") e al loro scarso valore, dal momento che il poeta considerava i versi volgari inferiori a quelli scritti in latino; le liriche della raccolta erano da lui chiamate nugae, "cose da poco",

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definizione di maniera che forse non va intesa in senso spregiativo visto che era usata talvolta anche per le composizioni latine. La raccolta non ha un vero e proprio schema narrativo ed priva di qualunque cornice in prosa, distaccandosi cos dai modelli precedenti della Vita nuovae del Convivio, e se il tema centrale la storia tormentata dell'amore di Petrarca per Lauranon mancano temi d'occasione, come ringraziamenti ad amici e conoscenti o rime encomiastiche per i potenti protettori del poeta, cos come liriche di argomento politico (specie le canzoni Spirto gentil e Italia mia) e sonetti di polemica contro la corruzione della Curia papale di Avignone, detta "avara Babilonia". L'opera comprende 366 poesie tra cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali, che si succedono apparentemente prive di uno schema anche se, come detto, il libro racconta le fasi dell'amore per Laura e dunque c' un ordine cronologico; il numero delle poesie rispecchia quello dei giorni di un anno bisestile e la raccolta si pu dividere in due parti (Rime in vita di Madonna Laura e Rime in morte di Madonna Laura), anche se tale suddivisione si deduce dal tema delle poesie e non resa esplicita dall'autore (la canzone 264 la prima rima in cui si accenna in modo allusivo alla morte della donna, bench il fatto venga dichiarato solo nel sonetto 267). L'ordine delle liriche non rispetta comunque quello della composizione, in quanto il sonetto di apertura stato composto intorno al 1350 e costituisce una sorta di bilancio a posterioridella vita amorosa del poeta, quindi la struttura del Canzoniere frutto di una rielaborazione finale dell'autore cui, probabilmente, giunto solo negli ultimi anni della sua vita. Dell'opera esiste l'autografo di Petrarca e l'edizione critica si basa principalmente sul Codice Vaticano Latino 3196, scritto in gran parte di suo pugno e che contiene anche le annotazioni a margine e le correzioni apportate dal poeta, consentendo perci di ricostruire con buona approssimazione la "storia editoriale" di quest'opera che, almeno sotto questo aspetto, gi decisamente moderna.

Il sonetto n. 9 paragona l'effetto del sole sulla terra e gli effetti degli occhi di Laura su Petrarca. Il sole fa nascere frutti preziosi, come tuberi, asparagi, tartufi, soprattutto in pirimavera, quando la terra si risveglia dinanzi ai suoi raggi ed quasi ingravidata dal seme della luce. I frutti preziosi sono pronti per essere colti e gustati.

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Forse non avviene la stessa cosa in amore: i raggi dagli occhi di Laura producono pensieri, atti e parole d'amore in Petrarca, ma questi non sa come questa donna operi in amore, perch non vi mai gioia e corrispondenza d'amore.L'amore decisamente pi difficile da realizzarsi rispetto alla nascita di un frutto della terra.

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CROSTATA ALLA FRUTTA (riscrittura ad opera di Campobasso Miriam)

Crostata alla frutta

INGREDIENTI PER UNA CROSTATA DI FRUTTA DA 26cm:

PER LA CREMA PASTICCERA:2 uova80g di zucchero (4 cucchiai)30g di amido di mais (2 cucchiai)1/2 litro di lattebuccia di limone

GELATINA FATTA IN CASA:125 ml di acqua50 g di zucchero8g di amido di mais

PER DECORARE:

Pezzi o Fettine di Frutta a piacere

PREPARAZIONE

Usiamo la base frolla gi pronta

PREPARIAMO LA CREMA PASTICCERA:

In un pentolino versiamo 500ml di latte, un pezzetto di scorza di limone, e facciamo scaldare sul fuoco.

In un'altra pentola rompiamo 2 uova, aggiungiamo 80g di zucchero e mescoliamo con una frusta, aggiungiamo 30g di amido di mais e mescoliamo bene.

Togliamo la scorza di limone dal latte e spegniamo il fuoco, quindi

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aggiungiamo il latte caldo alla crema, mescoliamo bene e riportiamo sul fuoco per 3- 4 minuti sempre mescolando. Quando la crema si addensa la possiamo versare sulla base.

Ora disponiamo la frutta a piacere, fragole tagliate a met, kiwi e banane tagliate a fette e frutti di bosco al centro. Ricopriamo tutta la crema con la nostra frutta preferita.

PREPARIAMO LA GELATINA FATTA IN CASA

La gelatina impedir alla frutta di annerirsi e la manterr fresca per ore, inoltre dar un aspetto lucido e invitante alla nostra crostata di frutta!

Amalgamiamo 50g di zucchero e 8g di amido di mais, aggiungiamo 125 ml di acqua e mescoliamo con la frusta, mettiamo sul fuoco per circa 3 minuti sempre mescolando. La gelatina pronta, la togliamo dal fuoco e spennelliamo per bene tutta la superficie della nostra crostata.

Ecco fatto, la crostata di frutta pronta! Perfetta per l'estate, colorata, fresca e buonissima!

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Giovanni Boccaccio, Decameron

Boccaccio, Decameron

Giovanni Boccaccio, Decameron, Ottava giornata, Novella terza

Calandrino, Bruno e Buffalmacco gi per lo Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia, e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia, ed egli turbato la batte, e a'suoi compagni racconta ci che essi sanno meglio di lui.

Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che ancor ridono, la reina ad Elissa commise che seguitasse, la quale ancora ridendo incominci:

Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verr fatto di farvi con una mia novelletta, non men vera che piacevole, tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua, ma io me ne 'ngegner.Nella nostra citt, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti stata abondevole, fu, ancora non gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi, il quale il pi del tempo con due altri dipintori usava, chiamati l'un Bruno e l'altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ci che de'modi suoi e della sua simplicit sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto e avvenevole, chiamato Maso del Saggio; il quale, udendo alcune cose della simplicit di Calandrino, propose di voler prender diletto de'fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa. E per avventura trovandolo un d nella chiesa di San Giovanni, e vedendolo stare attento a riguardar le dipinture e gl'intagli del tabernacolo il quale sopra l'altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pens essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione; e informato un suo compagno di ci che fare intendeva, insieme s'accostarono l dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme cominciarono a ragionare delle virt di diverse pietre, delle quali Maso cos efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario.

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A' quali ragionamenti Calandrino posto orecchie, e dopo alquanto levatosi in pi, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro; il che forte piacque a Maso; il quale, seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre cos virtuose si trovassero. Maso rispose che le pi si trovavano in Berlinzone, terra de'Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi gi, e chi pi ne pigliava pi se n'aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d'acqua.

- Oh, - disse Calandrino - cotesto buon paese; ma dimmi, che si fa de'capponi che cuocon coloro?Rispose Maso: - Mangiansegli i Baschi tutti.Disse allora Calandrino: - Fostivi tu mai?A cui Maso rispose: - Di'tu se io vi fu' mai? S vi sono stato cos una volta come mille.Disse allora Calandrino: - E quante miglia ci ha?Maso rispose: - Haccene pi di millanta, che tutta notte canta.Disse Calandrino: - Dunque dee egli essere pi l che Abruzzi.- S bene, - rispose Maso - si cavelle.Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede vi dava che dar si pu a qualunque verit pi manifesta, e cos l'aveva per vere, e disse: - Troppo ci di lungi a' fatti miei, ma se pi presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco, pur per veder fare il tomo a quei maccheroni, e tormene una satolla. Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre cos virtuose?A cui Maso rispose: - S, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virt: l'una sono i macigni da Settignano e da Montici, per virt de' quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina; e per ci si dice egli in que' paesi di l, che da Dio vengono le grazie e da Montici le macine; ma ecci di questi macigni s gran quantit, che appo noi poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de'quali v'ha maggior montagne che monte Morello che rilucon di mezza notte vatti con Dio. E sappi che chi facesse le macine belle e fatte

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legare in anella, prima che elle si forassero, e portassele al soldano, n'avrebbe ci che volesse. L'altra si una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran virt, per ci che qualunque persona la porta sopra di s, mentre la tiene, non da alcuna altra persona veduto dove non .Allora Calandrin disse: - Gran virt son queste; ma questa seconda dove si truova?A cui Maso rispose, che nel Mugnone se ne solevan trovare.Disse Calandrino: - Di che grossezza questa pietra? O che colore il suo?Rispose Maso: - Ella di varie grossezze, ch alcuna n' pi e alcuna meno, ma tutte son di colore quasi come nero.

Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembiante d'avere altro a fare, si part da Maso, e seco propose di voler cercare di questa pietra; ma diliber di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acci che senza indugio e prima che alcuno altro n'andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consum in cercargli.

Ultimamente, essendo gi l'ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n'and a costoro, e chiamatigli, cos disse loro: - Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i pi ricchi uomini di Firenze, per ci che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra non veduto da niun'altra persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v'andasse, v'andassimo a cercare. Noi la troveremo per certo, per ci che io la conosco; e trovata che noi l'avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella e andare alle tavole de'cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedr; e cos potremo arricchire subitamente, senza avere tutto d a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca.

Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra s medesimi cominciarono a ridere, e guatando l'un verso l'altro fecer sembianti di maravigliarsi forte, e lodarono il consiglio di Calandrino; ma domand Buffalmacco, come questa pietra avesse nome. A Calandrino, che era di grossa pasta, era gi il nome uscito di mente, per che egli rispose: - Che abbiam noi a far del nome, poi

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che noi sappiam la virt? A me parrebbe che noi andassimo a cercare senza star pi.- Or ben, - disse Bruno - come ella fatta?Calandrin disse: - Egli ne son d'ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa; e per ci non perdiamo tempo, andiamo.A cui Brun disse: - Or t'aspetta; - e volto a Buffalmacco disse: - A me pare che Calandrino dica bene; ma non mi pare che questa sia ora da ci, per ci che il sole alto e d per lo Mugnone entro e ha tutte le pietre rasciutte, per che tali paion test bianche delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l'abbia rasciutte, paion nere; e oltre a ci molta gente per diverse cagioni oggi, che d di lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo, e forse farlo essi altress, e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l'ambiadura. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover fare da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in d di festa, che non vi sar persona che ci vegga.Buffalmacco lod il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s'accord, e ordinarono che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra; ma sopra ogn'altra cosa gli preg Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ci che a lui era stata posta in credenza. E ragionato questo, disse loro ci che udito avea della contrada di Bengodi, con saramenti affermando che cos era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono fra s medesimi.Calandrino con disidero aspett la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del d si lev, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon discesi, cominciarono ad andare in gi, della pietra cercando. Calandrino andava, come pi volenteroso, avanti, e prestamente or qua e or l saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e quando un'altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n'ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che all'analda non era, e faccendo di quegli ampio gre, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empi.Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l'ora del

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mangiare s'avvicinava, secondo l'ordine da s posto, disse Bruno a Buffalmacco: - Calandrino dove ?Buffalmacco, che ivi presso sel vedeva, volgendosi intorno e or qua e or l riguardando, rispose: - Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi.Disse Bruno: - Ben che fa poco! a me par egli esser certo che egli ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico d'andar cercando le pietre nere gi per lo Mugnone.- Deh come egli ha ben fatto, - disse allora Buffalmacco - d'averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo s sciocchi che noi gli credemmo. Sappi! chi sarebbe stato s stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una cos virtuosa pietra, altri che noi?Calandrino, queste parole udendo, imagin che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virt d'essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pens di tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne cominci a venire.Vedendo ci, Buffalmacco disse a Bruno: - Noi che faremo? Ch non ce ne andiam noi?A cui Bruno rispose: - Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne far pi niuna; e se io gli fossi presso, come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa - ; e il dir le parole e l'aprirsi e '1 dar del ciotto nel calcagna a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, lev alto il pi e cominci a soffiare, ma pur si tacque e and oltre.Buffalmacco, recatosi in mano uno de'ciottoli che raccolti avea, disse a Bruno: - Deh! vedi bel codolo, cos giugnesse egli test nelle reni a Calandrino! - e lasciato andare, gli di con esso nelle reni una gran percossa. E in brieve in cotal guisa or con una parola, e or con una altra su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de'gabellieri si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo.Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la citt, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ci che quasi a desinare era ciascuno.Entrossene adunque Calandrino cos carico in casa sua.

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Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo della scala; e alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire, cominci proverbiando a dire: - Mai, frate, il diavol ti ci reca! ogni gente ha gi desinato quando tu torni a desinare.Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominci a gridare: - Ohim, malvagia femina, o eri tu cost? Tu m'hai diserto; ma in f di Dio io te ne pagher - ; e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le treccie la si gitt a'piedi, e quivi, quanto egli pot menar le braccia e'piedi, tanto le di per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa valendole il chieder merc con le mani in croce.Buffalmacco e Bruno, poi che co'guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a pi dell'uscio di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora, il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui dovessero andare. Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell'un de'canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d'altra parte Calandrino scinto e ansando a guisa d'uom lasso sedersi.Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero: - Che questo, Calandrino? Vuoi tu murare, che noi veggiamo qui tante pietre? - E oltre a questo soggiunsero: - E monna Tessa che ha? E'par che tu l'abbi battuta; che novelle son queste?Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta, e dal dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccogliere lo spirito a formare intera la parola alla risposta. Per che soprastando, Buffalmacco ricominci: - Calandrino, se tu aveva altra ira, tu non ci dovevi perci straziare come fatto hai; ch, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio n a diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti, e venistitene, il che noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai mai.A queste parole Calandrino sforzandosi rispose: - Compagni, non vi turbate, l'opera sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato! avea quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l'un l'altro, io v'era presso a men di diece braccia; e

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veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate, v'entrai innanzi, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto.E, cominciandosi dall'un de'capi, infino la fine raccont loro ci che essi fatto e detto aveano, e mostr loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel'avessero, e poi seguit: - E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ch sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que'guardiani a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via pi miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, n alcun fu che parola mi dicesse n mezza, s come quegli che non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si par dinanzi ed ebbemi veduto, per ci che, come voi sapete, le femine fanno perder la virt ad ogni cosa: di che io, che mi poteva dire il pi avventurato uom di Firenze, sono rimaso il pi sventurato; e per questo l'ho tanto battuta quant'io ho potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni; che maladetta sia l'ora che io prima la vidi e quand'ella mi venne in questa casa!E raccesosi nell'ira, si voleva levar. per tornare a batterla da capo.Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, e avevano s gran voglia di ridere che quasi scoppiavano; ma, vedendolo furioso levare per battere un'altra volta la moglie, levatiglisi allo 'ncontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la donna, ma egli che sapeva che le femine facevano perdere la virt alle cose e non le aveva detto che ella si guardasse d'apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ci che la ventura non doveva esser sua, o perch'egli aveva in animo d'ingannare i suoi compagni, a'quali, come s'avvedeva d'averla trovata, il doveva palesare.E dopo molte parole, non senza gran fatica, la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono.

Giovanni Boccaccio, Decameron, Sesta Giornata, Novella seconda

Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d'una sua trascutata domanda.

Molto fu da ciascuna delle donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comand la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella cos cominci:

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Belle donne, io non so da me medesima vedere che pi in questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d'anima nobile vil mestiero, s come in Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d'altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio.E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino. Le quali io avviso che, s come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de'futuri casi, per le loro oportunit le loro pi care cose n pi vili luoghi delle lor case, s come meno sospetti sepelliscono, e quindi n maggiori bisogni le traggono, avendole il vil luogo pi sicuramente servate che la bella camera non avrebbe. E cos le due ministre del mondo spesso le lor cose pi care nascondono sotto l'ombra dell'arti reputate pi vili, acci che di quelle alle necessit traendole pi chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello 'ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m'ha tornata nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi.Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a pi quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva. Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n'era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l'altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado. Il quale, veggendo ogni mattina davanti all'uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s'avis che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d'invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi. E avendo un farsetto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali pi tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l'ora che egli

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avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti all'uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d'acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d'ariento, s eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s'era, cominciava a ber s saporitamente questo suo vino, che egli n'avrebbe fatta venir voglia a' morti.La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: - Chente , Cisti? buono? -Cisti, levato prestamente in pi, rispose: - Messer s, ma quanto non vi potre' io dare a intendere, se voi non assaggiaste -.Messer Geri, al quale o la qualit o affanno pi che l'usato avuto o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo disse: - Signori, egli buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che egli tale, che noi non ce ne penteremo -; e con loro insieme se n'and verso Cisti.Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuori dal forno, gli preg che sedessero; e alli lor famigliari, che gi per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse: - Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ch io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d'assaggiarne gocciola!E cos detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino diligentemente diede bere a messer Geri e a' compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n'and a ber messer Geri. A' quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale invit una parte de' pi orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de' suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense.Il famigliare, forse sdegnato perch niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco. Il quale come Cisti vide, disse: - Figliuolo, messer Geri non ti manda a me. -Il che raffermando pi volte il famigliare n potendo altra risposta avere, torn a messer Geri e s gliele disse; a cui messer Geri disse: - Tornavi e digli che s fo: e se egli pi cos ti risponde, domandalo a cui io ti mando. -Il famigliare tornato disse: - Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a

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te. -Al quale Cisti rispose: - Per certo, figliuol, non fa. -- Adunque -, disse il famigliare - a cui mi manda? -Rispose Cisti: - Ad Arno. -Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s'apersero dello 'ntelletto e disse al famigliare: - Lasciami vedere che fiasco tu vi porti -; e vedutol disse: - Cisti dice vero -; e dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole.Il quale Cisti vedendo disse: - Ora so io bene che egli ti manda a me -, e lietamente glielo impi.E poi quel medesimo d fatto il botticello riempiere d'un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, and appresso, e trovatolo gli disse: - Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m'avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ci che io a questi d co' miei piccoli orcioletti v'ho dimostrato, ci questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ci che io non intendo d'esservene pi guardiano tutto ve l'ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace.Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rend che a ci credette si convenissero, e sempre poi per da molto l'ebbero e per amico.

Raccolta di cento novelle di G. Boccaccio, la cui stesura definitiva pu essere attribuita agli anni tra il 1349 e il 1351. Consta d'un proemio, di un'introduzione e di dieci giornate (in greco ), comprendenti dieci novelle ciascuna. Le cento novelle si fingono raccontate da sette donne (Pampinea, Filomena, Neifile, Fiammetta, Elisa, Lauretta, Emilia) e tre giovani (Filostrato, Dioneo, Panfilo), in campagna presso Firenze, dove la brigata si era rifugiata per l'infuriare in citt della pestilenza del 1348. Nella prima giornata si ragiona "di quello che pi aggrada a ciascheduno", nella seconda di avventure e peripezie terminate felicemente, nella terza della conquista di beni agognati, nella quarta di amori a triste fine, nella quinta di liete avventure amorose, nella sesta di motti arguti, nella settima di inganni delle mogli ai mariti, nell'ottava di burle e beffe, nella nona di vari fatti a piacimento del novellatore, nella decima di imprese e atti magnanimi. Al principio della quarta giornata e in unaConclusionealla fine del Decameron, l'autore lo difende dai malevoli.

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Dalla novella VIII, 3 di Boccaccio: MACCHERONI BENGODI (riscrittura ad opera di Vitalini Sabrina)

INGREDIENTI

300 g farina bianca150 g semolino fine100 g grana grattugiato80 g burrouova1 L brodo di pollo e manzosale

Durata: 1 hLivello: FacileDosi: 4 persone

Per la ricetta dei maccheroni di Bengodi, con la farina, il semolino, le uova e un pizzico di sale preparate la pasta (aggiungete poca acqua nel caso ce ne fosse bisogno), poi dividetela a pezzetti, rotolateli sulla spianatoia fino ad ottenere dei cilindretti poi da essi ricavate gli gnocchi piuttosto piccoli e arrotolateli sul rovescio della grattuggia. Scaldate il brodo in una pentola piuttosto larga, quando avr raggiunto l'ebollizione tuffatevi i "maccheroni" e, mescolando di tanto in tanto, cuoceteli per circa 10.

Questo tipo di impasto richiede un tempo di cottura pi lungo di quello per gli gnocchi di patate che, invece, vengono scolati appena salgono in superficie. Pertanto, prima di scolare i "maccheroni", assaggiatene uno e verificate la cottura, indi estraeteli dall'acqua con il mestolo forato e metteteli in una zuppiera condendoli, mano a mano, con il formaggio. Condite con il burro che potrete aggiungere fuso o a riccioli.

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Dalla novella VI, 2 di Boccaccio: TORTA DI PANE E DI VINO (riscrittura ad opera di Vitalini Sabrina)

Ingredienti

500 g di pane raffermo

qualche biscotto avanzatomezzo litro di vino rossocannella100 g di uva sultanina100 g di zucchero semolato250 ml di panna liquida2 uova interescorza di limone

Preparazione

Fare ammorbidire il pane spezzettato e i biscotti frantumati in mezzo litro di vino rosso, nel aromatizzato con la cannella e nel quale si sar disciolto lo zucchero, per circa 30 minuti. Strizzare bene il pane facendo fuoriuscire tutto il vino eventualmente in eccesso. Unire tutti gli ingredienti e amalgamare bene con un cucchiaio di legno.Ungere di burro sciolto la tortiera, versare l'impasto , cospargere con un po' di zucchero e qualche fiocchetto di burro.

Infornare a 180 C per circa un'ora.

La torta di pane e vino e' ottima anche tiepida.

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Luigi Pulci, Morgante

Morgante

Luigi Pulci, Morgante, XVIII, 112-142

112Giunto Morgante un d in su 'n un crocicchio,uscito d'una valle in un gran bosco,vide venir di lungi, per ispicchio,un uom che in volto parea tutto fosco.Dtte del capo del battaglio un picchioin terra, e disse: Costui non conosco;e posesi a sedere in su 'n un sasso,tanto che questo capite al passo.

113Morgante guata le sue membra tuttepi e pi volte dal capo alle piante,che gli pareano strane, orride e brutte:- Dimmi il tuo nome, - dicea - vandante. -Colui rispose: - Il mio nome Margutte;ed ebbi voglia anco io d'esser gigante,poi mi penti' quando al mezzo fu' giunto:vedi che sette braccia sono appunto. -

114Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto:ecco ch'io ar pure un fiaschetto allato,che da due giorni in qua non ho beuto;e se con meco sarai accompagnato,io ti far a camin quel che dovuto.Dimmi pi oltre: io non t'ho domandatose se' cristiano o se se' saracino,o se tu credi in Cristo o in Apollino. -

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115Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,io non credo pi al nero ch'a l'azzurro,ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;e credo alcuna volta anco nel burro,nella cervogia, e quando io n'ho, nel mosto,e molto pi nell'aspro che il mangurro;ma sopra tutto nel buon vino ho fede,e credo che sia salvo chi gli crede;

116e credo nella torta e nel tortello:l'uno la madre e l'altro il suo figliuolo;e 'l vero paternostro il fegatello,e posson esser tre, due ed un solo,e diriva dal fegato almen quello.E perch'io vorrei ber con un ghiacciuolo,se Macometto il mosto vieta e biasima,credo che sia il sogno o la fantasima;

117ed Apollin debbe essere il farnetico,e Trivigante forse la tregenda.La fede fatta come fa il solletico:per discrezion mi credo che tu intenda.Or tu potresti dir ch'io fussi eretico:acci che invan parola non ci spenda,vedrai che la mia schiatta non tralignae ch'io non son terren da porvi vigna.

118Questa fede come l'uom se l'arreca.Vuoi tu veder che fede sia la mia?,che nato son d'una monaca grecae d'un papasso in Bursia, l in Turchia.E nel principio sonar la ribecami dilettai, perch'avea fantasiacantar di Troia e d'Ettore e d'Achille,

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non una volta gi, ma mille e mille.

119Poi che m'increbbe il sonar la chitarra,io cominciai a portar l'arco e 'l turcasso.Un d ch'io fe' nella moschea poi sciarra,e ch'io v'uccisi il mio vecchio papasso,mi posi allato questa scimitarrae cominciai pel mondo andare a spasso;e per compagni ne menai con mecotutti i peccati o di turco o di greco;

120anzi quanti ne son gi nello inferno:io n'ho settanta e sette de' mortali,che non mi lascian mai lo state o 'l verno;pensa quanti io n'ho poi de' venali!Non credo, se durassi il mondo etterno,si potessi commetter tanti maliquanti ho commessi io solo alla mia vita;ed ho per alfabeto ogni partita.

121Non ti rincresca l'ascoltarmi un poco:tu udirai per ordine la trama.Mentre ch'io ho danar, s'io sono a giuoco,rispondo come amico a chiunque chiama;e giuoco d'ogni tempo e in ogni loco,tanto che al tutto e la roba e la famaio m'ho giucato, e' pel gi della barba:guarda se questo pel primo ti garba.

122Non domandar quel ch'io so far d'un dado,o fiamma o traversin, testa o gattuccia,e lo spuntone, e va' per parentado,ch tutti sin d'un pelo e d'una buccia.E forse al camuffar ne incaco o bado

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o non so far la berta o la bertuccia,o in furba o in calca o in bestrica mi lodo?Io so di questo ogni malizia e frodo.

123La gola ne vien poi drieto a questa arte.Qui si conviene aver gran discrezione,saper tutti i segreti, a quante carte,del fagian, della stama e del cappone,di tutte le vivande a parte a partedove si truovi morvido il boccone;e non ti fallirei di ci parola,come tener si debba unta la gola.

124S'io ti dicessi in che modo io pillotto,o tu vedessi com'io fo col braccio,tu mi diresti certo ch'io sia ghiotto;o quante parte aver vuole un migliaccio,che non vuole essere arso, ma ben cotto,non molto caldo e non anco di ghiaccio,anzi in quel mezzo, ed unto ma non grasso(prti ch'i' 'l sappi?), e non troppo alto o basso.

125Del fegatello non ti dico niente:vuol cinque parte, fa' ch'a la man tenga:vuole esser tondo, nota sanamente,acci che 'l fuoco equal per tutto venga,e perch non ne caggia, tieni a mente,la gocciola che morvido il mantenga:dunque in due parte dividin la prima,ch l'una e l'altra si vuol farne stima.

126Piccolo sia, questo proverbio antico,e fa' che non sia povero di panni,per che questo importa ch'io ti dico;

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non molto cotto, guarda non t'inganni!ch cos verdemezzo, come un ficopar che si strugga quando tu l'assanni;fa' che sia caldo; e puoi sonar le nacchere,poi spezie e melarance e l'altre zacchere.

127Io ti darei qui cento colpi netti;ma le cose sottil, vo' che tu creda,consiston nelle torte e ne' tocchetti:e' ti fare' paura una lampreda,in quanti modi si fanno i guazzetti;e pur chi l'ode poi convien che ceda:perch la gola ha settantadue punti,sanza molti altri poi ch'io ve n'ho aggiunti.

128Un che ne manchi, guasta la cucina:non vi potrebbe il Ciel poi rimediare.Quanti segreti insino a domattinati potrei di questa arte rivelare!Io fui ostiere alcun tempo in Egina,e volli queste cose disputare.Or lascin questo, e d'udir non t'increscaun'altra mia virt cardinalesca.

129Ci ch'io ti dico non va insino all'effe:pensa quand'io sar condotto al rue!Sappi ch'io aro, e non dico da beffe,col cammello e coll'asino e col bue;e mille capannucci e mille gueffeho meritato gi per questo o pie;dove il capo non va, metto la coda,e quel che pi mi piace ch'ognun l'oda.

130Mettimi in ballo, mettimi in convito,

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ch'io fo il dover co' piedi e colle mani;io son prosuntoso, impronto, ardito,non guardo pi i parenti che gli strani:della vergogna, io n'ho preso partito,e torno, chi mi caccia, come i cani;e dico ci ch'io fo per ognun sette,e poi v'aggiungo mille novellette.

131S'io ho tenute dell'oche in pasturanon domandar, ch'io non te lo direi:s'io ti dicessi mille alla ventura,di poche credo ch'io ti fallirei;s'io uso a munister per isciagura,s'elle son cinque, io ne traggo fuor sei:ch'io le fo in modo diventar galanteche non vi campa servigial n fante.

132Or queste son tre virt cardinale,la gola e 'l culo e 'l dado, ch'io t'ho detto;odi la quarta, ch' la principale,acci che ben si sgoccioli il barletto:non vi bisogna uncin n porre scaledove con mano aggiungo, ti prometto;e mitere da papi ho gi portate,col segno in testa, e drieto le granate.

133E trapani e paletti e lime sordee succhi d'ogni fatta e grimaldellie scale o vuoi di legno o vuoi di corde,e levane e calcetti di feltrelliche fanno, quand'io vo, ch'ognuno assorde,lavoro di mia man puliti e belli;e fuoco che per s lume non rende,ma con lo sputo a mia posta s'accende.

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134S' tu mi vedessi in una chiesa solo,io son pi vago di spogliar gli altariche 'l messo di contado del paiuolo;poi corro alla cassetta de' danari;ma sempre in sagrestia fo il primo volo,e se v' croce o calici, io gli ho cari,e' crucifissi scuopro tutti quanti,poi vo spogliando le Nunziate e' santi.

135Io ho scopato gi forse un pollaio;s' tu mi vedessi stendere un bucato,diresti che non donna o massaioche l'abbi cos presto rassettato:s'io dovessi spiccar, Morgante, il maio,io rubo sempre dove io sono usato;ch'io non ist a guardar pi tuo che mio,perch'ogni cosa al principio di Dio.

136Ma innanzi ch'io rubassi di nascoso,io fui prima alle strade malandrino:arei spogliato un santo il pi famoso,se santi son nel Ciel, per un quattrino;ma per istarmi in pace e in pi riposo,non volli poi pi essere assassino;non che la voglia non vi fussi pronta,ma perch il furto spesso vi si sconta.

137Le virt teologiche ci resta.S'io so falsare un libro, Iddio tel dica:d'uno iccase farotti un fio, ch'a sestanon si farebbe pi bello a fatica;e traggone ogni carta, e poi con questaraccordo l'alfabeto e la rubrica,e scambiere'ti, e non vedresti come,

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il titol, la coverta e 'l segno e 'l nome.

138I sacramenti falsi e gli spergiurimi sdrucciolan gi proprio per la boccacome i fichi sampier, que' ben maturi,o le lasagne, o qualche cosa sciocca;n vo' che tu credessi ch'io mi curicontro a questo o colui: zara a chi tocca!ed ho commesso gi scompiglio e scandolo,che mai non s' poi ravvato il bandolo.

139Sempre le brighe compero a contanti.Bestemmiator, non vi fo ignun divariodi bestemmiar pi uomini che santi,e tutti appunto gli ho in sul calendario.Delle bugie nessun non se ne vanti,ch ci ch'io dico fia sempre il contrario.Vorrei veder pi fuoco ch'acqua o terra,e 'l mondo e 'l cielo in peste e 'n fame e 'n guerra.

140E carit, limosina o digiuno,orazon non creder ch'io ne faccia.Per non parer provno, chieggo a ognuno,e sempre dico cosa che dispiaccia;superbo, invidoso ed importuno:questo si scrisse nella prima faccia;ch i peccati mortal meco eran tuttie gli altri vizi scelerati e brutti.

141Tanto ch'io posso andar per tutto 'l mondocol cappello in su gli occhi, com'io voglio;com'una schianceria son netto e mondo;dovunque i' vo, lasciarvi il segno sogliocome fa la lumaca, e nol nascondo;

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e muto fede e legge, amici e scogliodi terra in terra, com'io veggo o truovo,per ch'io fu' cattivo insin nell'uovo.

142Io t'ho lasciato indrieto un gran capitolodi mille altri peccati in guazzabuglio;ch s'i' volessi leggerti ogni titolo,e' ti parrebbe troppo gran mescuglio;e cominciando a scirre ora il gomitolo,ci sarebbe faccenda insino a luglio;salvo che questo alla fine udirai:che tradimento ignun non feci mai. -

Il Morgante un poema epico-cavalleresco in ottave di Luigi Pulci. Composto negli anni Sessanta del 15 sec., fu pubblicato nel 1478 in un'edizione minore, di 23 canti; l'editio princeps, riveduta e ampliata a 28 canti, e detta perci comunemente, ma non esattamente, Morgante maggiore, del 1483.

L'argomento comune a quello dell'epopea carolingia, ma Pulci ha posto al centro dell'azione nuovi personaggi, quali il gigante Morgante, convertito al cristianesimo da Orlando, un altro gigante, Margutte, e due diavoli, Astarotte e Farfarello. Il protagonista, figura popolaresca comicamente intesa, muore punto da un granchio.

Il brano analizzato riproduce uno dei passi pi famosi ed emblematici dell'intera opera: in esso il gigante Margutte ("margutte" o "margutto" , nei dialetti dell'Italia centrale, un "fantoccio" o addirittura uno "spaventapasseri", come ha osservato Gianfranco Contini) fa una "professione di fede", enunciando la propria visione della vita, irriverente e maliziosa, al termine della quale muore soffocato dalle sue stesse risate. Il personaggio di Margutte, uno sfacciato furfante che pensa che il vino sia l'unica salvezza dell'uomo, rappresenta la creazione meglio riuscita del poema, con cui si attua il radicale stravolgimento di tutti gli ideali tipici della cultura cavalleresca. un anti-eroe, ingenuo e bizzarro, cinico e buffone, attraverso il quale Pulci enuncia una filosofia alternativa rispetto a quella degli umanisti, animalesca, spregiudicata e fraudolenta.

Mentre sta facendo ritorno in Levante, Morgante incontra in modo fortuito Margutte, un bizzarro "mezzogigante" che si presenta come peccatore incallito e sciorina un improbabile "credo" culinario, in cui afferma di riporre

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la sua fede unicamente nel gioco d'azzardo e nel vino. Il passo, giustamente celebre in quanto tratteggia un personaggio deforme e paradossale, contiene vari elementi sacrileghi e blasfemi che hanno contribuito ad attirare sull'autore accuse di empiet, tali da farlo morire in odore di eresia e di negargli una sepoltura cristiana. In seguito Morgante e Margutte diverranno amici e compiranno assieme varie imprese, di segno beffardo (come gli scherzi ai danni di un povero oste) o di carattere nobile (come quando libereranno la giovane Florinetta).

https://epicacavalleresca.weebly.com/il-credo-di-margutte.html

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IL PRANZO DI UN GOLOSO DI PRIMA RISMA: Margutte (riscrittura ad opera di Cellamare Italia)

Cappone, sia lesso, sia arrosto; anche nel burro, nella birra, nel mosto

Fegatelli

Buon vino

Torta e tortino.

Calcolo delle Calorie

Cappone 100 gr 300 calorie

Fegatelli 100 gr 140 calorie

Birra 50 cl 225 calorie

Vino ad alta gradazione alcolica (14) 77 calorie ogni 10 cl 385 calorie

Torta di cioccolato - una fetta - 410 calorie (per porzione)

Totale calorie: 300+140+225+385+410= 1460 calorie

DICHIARAZIONE NUTRIZIONALE

VALORI MEDI PER PORZIONE

ENERGIA5775 Kj

1395 kcal

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GRASSI 97 g

CARBOIDRATI 6,15 g

PROTEINE 172,8 g

Sodio 92,8 mg

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Pietro Verri, Il caff

Il Caff

Cos' questo Caff? un foglio di stampa, che si pubblicher ogni dieci giorni. Cosa conterr questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi Autori, cose tutte dirette alla pubblica utilit. Va bene: ma con quale stile saranno scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoi. E sin a quando fate voi conto di continuare quest'Opera? Insin a tanto che avranno spaccio. Se il Pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per pi ancora, e in fine d'ogni anno dei trentasei fogli se ne far un tomo di mole discreta: se poi il Pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perci ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d'una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene che possiamo alla nostra Patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri Cittadini, divertendoli, come gi altrove fecero e Stele, e Swift, e Addison, e Pope ed altri. Ma perch chiamate questi fogli il Caff? Ve lo dir ma andiamo a capo. Un Greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea e Candia, mal soffrendo l'avvilimento, e la schiavit, in cui i greci tutti vengon tenuti dacch gli Ottomani hanno conquistata quella Contrada, e conservando un animo antico malgrado l'educazione e gli esempi, son gi tre anni che si risolvette d'abbandonare il suo paese: egli gir per diverse citt commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha, dove cambi parte delle sue merci in Caff del pi squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne a Milano, dove son gi tre mesi ha aperta una bottega addobbata con richezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un Caff, che merita il nome veramente di Caff: Caff vero verissimo di Levante, e profumato col legno d'Aloe che chiunque lo prova, quand'anche fosse l'uomo il pi grave, l'uomo il pi plumbeo della terra, bisogna che per necessit si risvegli, e almeno per una mezz'ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un'aria sempre tepida, e profumata che consola; la notte illuminata, cosicch brilla in ogni parte l'iride negli specchi e ne' cristalli sospesi intorno le pareti, e in mezzo alla

Un banchetto letterario: la letteratura italiana e cucina

Classe 5^A Corso serale ENO CASAMASSIMA IISS MAJORANA

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bottega; in essa bottega, che vuol leggere, trova sempre i fogli di Novelle Politiche, e quei di Colonia, e quei di Sciaffusa, e quei di Lugano, e vari altri; in essa bottega, chi vuol leggere, trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e l'Estratto ella Letteratura Europea, e simili buone raccolte di Novelle interessanti, le quali fanno che g