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Ugolino della Gherardesca

I DELLA GHERARDESCADai longobardi

alle soglie del Duemila

EDIZIONI ETS

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I DELLA GHERARDESCADai longobardi

alle soglie del Duemila

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1 G. DEL GUERRA, Pisa attraverso i secoli, Giardini, Pisa 1967, pp. 64-67. È citata una contessa di Montescudaio che nelXIII secolo, sotto lo pseudonimo di Madonna Bombaccaia, fu in Pisa una sorta di Bertoldo in gonnella. I detti d’amore dellacontessa pisana si trovano ricordati nel codice n. 2197, conservato presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze.

Nel progettare l’impostazione di questomio lavoro, avevo immaginato una sua suddi-visione per evi storici. Infatti quasi in perfettacoincidenza con la conclusione di tali evi, aiGherardesca era sempre accaduto qualche e-vento particolare che ne aveva profondamen-te influenzato la storia. Gli ultimi decenni delXV secolo avevano segnato la chiusura defi-nitiva del ciclo pisano della famiglia e datopiù deciso avvio a quello fiorentino, mentrela fine del 1700 quasi coinciderà con la perdi-ta delle ultime vestigia d’indipendenza signo-rile sino ad allora goduta dai Gherardescanella propria contea maremmana.

Quanto da me programmato non facevadunque una piega, anche se, per ragioni pra-tiche, all’Evo Moderno ho poi dovuto ag-giungere uno spezzone di quello Contempo-raneo per arrivare fino alla costituzione ed aiprimi anni del Regno d’Italia. Il mio lavorotermina infatti con la morte del mio bisnonnoUgolino avvenuta nel 1882, con ciò evitando-mi di dover disquisire dei suoi successori che,per la maggior parte, ho conosciuti nel corsodella mia esistenza e dei quali non avrei quin-di potuto parlare con quel necessario distac-co che costituisce la base di una corretta o-biettività storica.

In realtà, solo più tardi mi sono reso contoche l’impostazione per evi storici mi sarebbecomunque stata suggerita da un’altro altret-tanto valido argomento. Ho infatti scopertoche con il «trasferimento» fiorentino della ca-sata veniva a registrarsi un corposo aumentodella documentazione disponibile nell’archi-

vio di famiglia che si arricchiva di documentie di epistolari di cui non avevo invece trovatotraccia per i secoli precedenti. Sembrava qua-si che i Gherardesca avessero imparato a scri-vere solo arrivando a Firenze, ed anche senon credo che essi, più abili nel maneggiodella spada che non della penna, avessero maibrillato nel Medio Evo per particolari doti let-terarie1, mi stupiva tuttavia che avessero la-sciato così esigue testimonianze scritte delleproprie pur prestigiose imprese medievali.

Sono così giunto alla conclusione che talitracce dovevano certamente esserci state, mache, nel corso dei secoli, erano andate perdutea causa delle tante tumultuose vicende nellequali la casata si era trovata ad essere coinvol-ta. Avevano certo contribuito alla pressochétotale dispersione degli archivi dell’anticaschiatta, la distruzione, prima, delle torri edel palazzo pisano del «dantesco» conte Ugo-lino; poi, l’identica sorte toccata, pochi annipiù tardi, al palazzo del conte Nieri, signoredi Pisa; quindi le accanite guerre in Sardegnacon la perdita finale di Villa di Chiesa e delletre roccaforti isolane; ed infine lo smantella-mento dei maggiori castelli maremmani dellacasata.

Tale plausibilissima ipotesi spiega la neces-sità, da me incontrata, di dover raccogliere lememorie medievali dei Gherardesca, attin-gendo soprattutto da quanto hanno di loroscritto storici che per il proprio lavoro si sonoavvalsi di documenti conservati in archivi di-versi da quello della casata comitale. Inveceproprio nelle filze di quest’ultimo, ad iniziare

PREMESSA

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dalla seconda metà del 1400, ho trovato unricco materiale documentale che meglio miha permesso di «personalizzare» la secondaparte di questo mio lavoro, rendendola, miauguro, più digeribile per il lettore, ed indu-cendolo così ad arrivare fino alla conclusionedi questa lunga storia dei Gherardesca.

Comunque, a mia eventuale discolpa, in-tendo sottolineare che tracciare in forma sin-tetica ed, al medesimo tempo, facilmente leg-gibile, le vicende di una famiglia così antica,rappresenta comunque un progetto ambizio-so per chicchessia. Avrei pertanto voluto es-sere uno scrittore dalla penna scorrevole perrendere quanto meno pesante possibile que-sto mio racconto, che si dipana lungo l’arco

di oltre dodici secoli di storia. Non credopurtroppo di essere un tal genere di scrittore.Nemmeno intendo spacciarmi per uno stori-co particolarmente ferrato, poiché in praticasono riuscito a sviluppare una mia ricerca au-tonoma solo su pochissimi temi, mentre per ilresto ho attinto notizie da testi di studiosi piùdi me qualificati, limitandomi a riordinarle alfine di ricomporre, nella forma più organicapossibile, il complesso mosaico della secolarevicenda della famiglia.

Voglia pertanto il lettore scusarmi se, conprosa spesso poco fluida, lo tedierò comescrittore e se, con qualche intuizione perso-nale, e quindi opinabile, rischierò d’ingannar-lo come storico.

8 I della Gherardesca

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PARTE PRIMA

Una grande casata guerriera del Medio Evo

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Abbreviazioni

AAL = Archivio Arcivescovile di Lucca.AAP = Archivio Arcivescovile di Pisa.ACP = Archivio Capitolare di Pisa.AGV = Archivio Generale di Volterra.AF = Archivio della famiglia della Gherardesca.ASF = Archivio di Stato di Firenze.ASL = Archivio di Stato di Lucca.ASP = Archivio di Stato di Pisa.ASS = Archivio di Stato di Siena.

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1 ASF, Carte del Comune di Volterra. Documento del 1008 in cui Gherardo 2°, conte di Frosini, professa formalmente lapropria osservanza della legge longobarda.

Le radici lontane

I Della Gherardesca hanno sempre vanta-to origini longobarde e su tale assunto non visono ragionevoli dubbi: oltre ad una ben ra-dicata tradizione familiare, la conferma pro-viene anche da un antico manoscritto1, non-ché dall’avallo di qualificati storici. La fami-glia però si richiama in particolare ad una di-scendenza da S. Walfredo, fondatore nel 754e primo abate del monastero di S. Pietro inPalazzuolo presso Monteverdi, nell’odiernaprovincia di Pisa. A sostegno di tale ipotesinon è dato peraltro produrre la prova inop-pugnabile di documenti, ma è solo consenti-to richiamarsi a secolari memorie e ad alcuniriscontri territoriali che sarà mio compito evi-denziare con esposizione quanto più convin-cente possibile.

Infine si vorrebbe far discendere questoWalfredo da Ratcauso o Ratchait, figlio diPemmone, duca longobardo del Friuli.

Muovendo pertanto da una breve sintesistorica delle vicende di questo Ducato, cer-cherò di rendere meno leggendarie questevantate discendenze; e per raggiungere l’in-tento, utilizzerò qualche indizio maturato daintuizioni che, anche se saranno probabil-mente poco apprezzate da storici più ferratidi chi scrive, hanno pur sempre una lorofondatezza in quanto scaturite da ragiona-menti logici.

Le ascendenze leggendarie

Attorno all’anno 568, attraversando il pas-

so del Predil e proveniendo dalla Pannonia,valicarono le Alpi orientali i Winnili, gente diorigine scandinava, ribattezzati «Longobar-di» nel corso del loro prolungato peregrinareper le regioni germaniche dell’Europa cen-trale. Questo loro nuovo appellativo derivavaforse dalle lunghe alabarde (lang bard) checostituivano l’armamento tipico dei guerrieridi questo popolo, o piuttosto dalla stranezzadella pettinatura dei loro uomini che porta-vano la testa rasata nel bel mezzo e due lun-ghe trecce di capelli che ricadevano sulle go-te dando l’apparenza di fluenti barbe (langbärte). Condottiero di questa migrazione eraun capo di nome Alboino, figlio di re Adui-no.

È possibile immaginare che quando i Lon-gobardi, dopo aver scavalcato le montagne, siaffacciarono sulle ridenti vallate friulane, ve-nissero pervasi da quella medesima inebrian-te sensazione provata dagli Ebrei allorché,per la prima volta, si trovarono dinanzi allaterra loro promessa da Dio. Se questa è unasemplice illazione, un fatto certo è invece cheAlboino intuì subito l’importanza strategicadi tali vallate quale via di accesso all’Italiaanche per altri popoli invasori che avesseroseguito le orme della sua gente e di conse-guenza decise di presidiarle saldamente. Fucosì che, eletto re dei Longobardi nell’annosuccessivo e prima d’inoltrarsi ulteriormentenella penisola italica, egli volle proteggersi lespalle lasciando nel Friuli, o Foro Julio comeallora si chiamava questa regione, un fortecontingente militare capeggiato da suo nipo-te Gisulfo.

CAPITOLO PRIMO

Le origini leggendarie e storiche della famiglia

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2 E. STOLFA, I duchi longobardi del Foro Giulio, Edizione Saggi Storici, Venezia 1939, pp. 32-33. 3 A. MANCINI, La storia di Lucca, Pacini Fazzi, Lucca 1975, p. 19. 4 R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, Sansoni, Firenze 1978-81, vol. I, p. 99.

Fu dunque questi il primo di una lunga se-rie di duchi del Friuli2 che, nell’ambito dellamassima gerarchia del proprio popolo, quelladucale appunto, seconda solo all’autorità re-gia, conservarono sempre una posizione diparticolare preminenza in relazione ai delicatie fondamentali compiti loro affidati. Del restoAlboino aveva visto giusto poiché dal Friuli,in seguito ed a più riprese, tentarono di pene-trare popolazioni di prevalente ceppo slavo,come gli Avari e gli Schiavoni, attratte an-ch’esse da quanto si andava magnificando cir-ca le ricchezze, le bellezze ed il clima tempe-rato dell’Italia.

A Gisulfo, morto proprio combattendocontro gli Avari, subentrarono nel Ducato i fi-gli Tasso e Caco. Ma, dopo di essi, l’incaricoconservò carattere di nomina regia, e quindiprettamente non ereditario, fino alle sogliedel 700, allorquando fu fatto duca un certoCorbulo, da cui procedette invece una vera epropria dinastia che detenne il potere in Friu-li per i successivi ottant’anni circa [tav. 1].

Corbulo era un fedele amico di Liutpran-do, re dei Longobardi, ma un giorno, traditocon false accuse dai suoi stessi baroni, fu dalre medesimo fatto accecare e deposto dallacarica ducale.

Gli subentrò nel 705 il nipote Pemmone,figlio di una sorella andata sposa ad un valo-roso guerriero di nome Billone, a sua volta di-scendente dalla famosa stirpe longobarda deiRemona di Belluno. Di Pemmone parla diffu-samente lo storico Paolo Diacono [720-799],che fu a suo tempo fra i giovani comites am-messi ad una sorta di accademia istituita daPemmone stesso nella sua corte ducale, alloscopo di forgiare i figli dei nobili longobardi,sia addestrandoli alle armi, che preparandolialla responsabilità delle più alte cariche pub-bliche. Nella sua Storia dei Longobardi, il Dia-cono ci racconta che Pemmone sposò Ratper-ga, donna assai brutta ma ricca di eccezionalidoti di carattere, dalla quale ebbe tre «glorio-sissimi» figli che lo storico menziona secondo

un ordine che dovrebbe risultare basato sullacronologia delle loro nascite: Ratchis, Rat-chait ed Aistulfus.

Di questi tre fratelli si conoscono bene levicende che riguardano Ratchis (o Rachis) edAistulfus (o Astolfo), i quali, l’uno dopo l’al-tro, divennero prima duchi del Friuli e poi redei Longobardi, mentre di Ratchait (o Rat-causo) le notizie che ci sono pervenute sonoinspiegabilmente assai scarse. Di lui infatti ilDiacono solo narra che fu uno dei giovani co-mites e che ebbe «vari figli maschi» con i qua-li, in uno dei suoi scritti, il celebre storico di-ce, senza peraltro citarne i nomi, di essere sta-to una volta commensale alla corte di re Ra-chis a Pavia3.

Eugenio Stolfa, nel suo trattato su I duchilongobardi del Foro Giulio, fidandosi dell’or-dine adottato dal Diacono, considera Ratcau-so come il secondogenito e ne ipotizza la na-scita nel 705, intermedia a quelle di Rachis[702] e Astolfo [708].

Riguardo all’attendibilità di queste datenon ho trovato né conferme né smentite, maqualche cosa sembrerebbe non quadrare, poi-ché Pemmone che, sempre secondo lo Stolfa,risulterebbe nato nel 660, sarebbe divenutopadre del suo primogenito Rachis a quaranta-due anni d’età ed a ben quarantotto dell’ulti-mogenito Astolfo. Inoltre, come se non ba-stasse, sempre Pemmone sarebbe stato depo-sto dall’incarico di duca nel 735, quando eraormai settantacinquenne.

Francamente tutto ciò appare alquanto a-nomalo per un’epoca nella quale la vita mediaumana era generalmente assai breve ed in cuici si sposava giovanissimi al punto che unalegge di re Liutprando considerava età validaper il matrimonio i dodici anni per le femmi-ne ed i tredici per i maschi4.

Ritornando a Ratcauso, è il caso di sottoli-neare, una volta ancora, che egli praticamen-te non ricompare più in alcun altro docu-mento che citi fatti rilevanti della sua esisten-za; lo stesso Diacono, dopo averlo definito

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5 A. FALCE, La formazione della Marca di Tuscia, Fiorentina, Firenze 1930, p. 23. Vi si legge: «poiché gli ultimi re, daLiutprando a Desiderio, miravano costantemente a sostituire i duchi ereditari ed indipendenti con gastaldi elettivi forniti digiurisdizione, cioè con una specie di conti fedeli in tutto e per tutto alla corte di Pavia».

6 Anche A. SOLMI, La Corsica, Edizioni Tyrrhenia, Milano 1925, e P. ARRIGHI, Histoire de la Corse, Puf, Paris 1969, con-fermano tale ipotesi.

«glorioso e valoroso», non ci giustifica la ra-gione di tali attributi e mai più lo menzionanel corso della sua cronaca, nella quale inve-ce accenna ripetutamente agli altri due figlidi Pemmone, anche prima che essi ascenda-no al trono. Ratcauso non è infatti citato co-me presente a Pavia nemmeno quando Liut-prando destituì Pemmone da duca del Friuli,per aver egli ingiustificatamente imprigionatoCallisto, patriarca di Aquileia. Per tale suo er-rore, il duca fu sostituito nell’incarico dal fi-glio Rachis, che, nella particolare circostanza,dimostrò al suo sovrano la propria fedeltà, in-tervenendo persino contro il fratello Astolfoquando questi, per vendicare l’affronto arre-cato al padre, snudò la spada contro Liut-prando stesso.

Ma dove era dunque Ratcauso nel momen-to in cui gli altri figli di Pemmone erano con ilpadre a Pavia? Era forse morto? Non sem-brerebbe proprio, poiché il Muratori collocala sua scomparsa attorno al 754, due anni do-po cioè che egli era divenuto duca del Friuli,preceduto in tale carica, come abbiamo visto,non solo dal fratello maggiore Rachis nel 735,ma, con inspiegabile sovvertimento di ogninormale scala successoria, anche da quello mi-nore Astolfo nel 744. Da tale anomalia sem-brerebbe quasi potersi dedurre che, in quel744, Ratcauso si trovasse assente dal Friuli; ciòpotrebbe avallare l’ipotesi di alcuni studiosi, iquali sostengono che, per le sue doti di corag-gio e le sue capacità di comando, re Liutpran-do avesse a lui affidato, sin da giovanissimo,un prestigioso incarico militare in altra partedella penisola. Qualcuno anzi identifica taleincarico con quello di gastaldo o comes 5 a Pi-sa, con specifici compiti miranti al conteni-mento delle scorrerie che i Saraceni andavanointensificando in quell’epoca sia in Corsicache lungo tutte le coste della Tuscia.

È probabile che Ratcauso sia stato nomina-to «gastaldo civitatis», poiché il titolo di co-mes, anche se in qualche modo riecheggia

l’attributo conferito dal Diacono ai giovanilongobardi che frequentarono l’istituzionefondata nel Friuli dal duca Pemmone, è piùtipico dell’ordinamento pubblico franco chesi affermò in Italia solo dopo la caduta del Re-gno longobardo. Il gastaldo o gasindo era unfunzionario regio che presidiava, per contodel monarca, una città strategicamente impor-tante dove non risiedeva un duca; in essa ilgastaldo esercitava veri e propri poteri ducali,fra i quali, in primis, il comando militare. Frail re e il suo gastaldo esisteva un rapporto difiducia analogo a quello che in seguito le-gherà il comes carolingio al suo sovrano. Lanomina di Ratcauso a gastaldo avvenne forsein concomitanza con la definitiva conquista diPisa da parte dei Longobardi.

Vari studiosi, come ad esempio Mario A-scari nel suo trattato su La Corsica nell’anti-chità, collocano tale conquista attorno al 725,data dalla quale si può anche far decorrerel’annessione dell’isola corsa al Regno longo-bardo6. È infatti da ricordare che la Corsica,come del resto Pisa e tutto il litorale toscano,fino a quel momento era rimasta sotto il con-trollo dei bizantini e che solo quando l’argina-mento dell’avanzata saracena assunse caratte-re prioritario, i Longobardi, che inizialmentesi erano limitati alla conquista ed al controllodell’entroterra, decisero di assicurarsi anchele coste e le isole maggiori, in precisa funzio-ne antisaracena. È quindi senz’altro possibileche a Pisa, sulla quale il duca longobardo in-sediato a Lucca non aveva alcuna giurisdizio-ne, venisse nominato un gastaldo civitatis conla precipua incombenza di gestire le operazio-ni guerresche che avrebbero appunto avuto laloro base di partenza in Pisa e nel suo portonaturale in foce d’Arno.

A questo punto vale la pena di aprire unaparentesi per sottolineare che, fino ad allora,Pisa era stata ignorata dai popoli germaniciche, in più ondate, avevano invaso l’Italia.Questi popoli ben poco infatti sapevano di

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7 G. VOLPE, Toscana medievale: Massa Marittima, Volterra, Sarzana, Sansoni, Firenze 1964. Viene ipotizzato che Walfre-do fosse della famiglia dei duchi di Lucca.

8 ASS, Carte del Comune di Massa Marittima. 9 Biblioteca della città di Trier (Treviri), Carte del monastero di S. Eucarius-Passionale di S. Massimino, Manoscritto (Hs)

1151/453, vol. I, fal. 37/40, Vita di S. Walfridi (Abate di Tuscia), BHL 8792.

mare, di arte nautica e di navi in genere, equindi si erano sempre limitati al controllodei territori più interni, lasciando in poteredei bizantini tutte o quasi le coste con i relati-vi approdi portuali. Fu dunque proprio daibizantini che ai pisani venne inculcata quellacultura marinara e mercantile che in seguitocaratterizzò Pisa rispetto alle altre città tosca-ne, rappresentando la probabile origine stori-ca di quella diversità socio-economico-politi-ca che nel Medio Evo la contraddistinse daglialtri Comuni del retroterra.

Chiusa la parentesi, torniamo a Ratcauso.Questi, dall’incarico ricevuto, se mai lo rice-vette, trasse un interesse di tale rilevanza daindurlo a mantenersi lontano dalla pur presti-giosa corte del Ducato friulano e da consi-gliarlo a non concorrerne alla successione, almomento in cui suo fratello maggiore Rachis,dopo la morte di Liutprando, venne eletto redei Longobardi lasciando vacante la sede du-cale. Quanto esposto è una pura congettura,non suffragata da documenti, ma è indubbioche misteriosa rimane l’esistenza di questo e-minente personaggio longobardo i cui figli e-rano così considerati da poter frequentare lacorte regia di Pavia malgrado che loro padrenon risultasse depositario di alcun potere, nétanto meno figurasse di aver realizzato alcun-ché di notevole nel corso della propria vita.D’altro canto anche la presunta data di mortedi Ratcauso nel 754 circa non ci aiuta, se nona rilevare che precedette sia quella di Astolfo,morto nel 756 cadendo accidentalmente dacavallo, che quella di Rachis, spirato invece dimorte naturale attorno al 763, quando era mo-naco benedettino a Montecassino.

Per consentire a questo punto una discen-denza di Walfredo da questo Ratcauso, senzadover ricorrere a forzature poco plausibili, sa-rebbe necessario disporre di un arco di tem-po più ampio di quello che ci verrebbe con-cesso se effettivamente Ratcauso di Pemmonefosse nato nel 705. È infatti piuttosto impro-

babile che, nello spazio di soli quarantanoveanni, quanti ne intercorrono dal 705 al 754,Walfredo, nato da Ratcauso, abbia a sua voltapotuto procreare figli già in età da potersi farmonaci, così come ci segnala l’atto di fonda-zione del monastero di S. Pietro in Palazzuolo[figg. 1-2]. Non rimane quindi che immagina-re, per Ratcauso e per i due suoi fratelli, datedi nascita un poco anteriori a quelle indicatedallo Stolfa, il che del resto meglio sistemereb-be anche il rapporto generazionale fra Pem-mone ed i suoi figli. Resta comunque accerta-to che il longobardo Walfredo fu un notabiledella sua epoca7, anche se di questo personag-gio, che si vorrebbe far discendere dai duchidel Friuli e che i Gherardesca vanterebberofra i propri progenitori, si conoscono solo al-cune notizie ricavate da due soli documenti:l’atto di fondazione del monastero di S. Pietroin Palazzuolo8 e la Vita di S. Walfredo9 redattada Andrea, terzo abate del convento medesi-mo, nonché nipote del Santo in quanto figliodel di lui cognato, il lucchese Gunvaldo.

Analizziamo pertanto con la massima meti-colosità questi due preziosi manoscritti, ondespremerne tutto quanto possa aiutarci ad in-dividuare l’ascendenza e la discendenza diWalfredo. Iniziamo dunque dall’atto di fon-dazione del monastero che venne redatto il 6luglio 754, essendo re dei Longobardi Astolfo[Appendice, doc. 1].

La prima notizia che vi si raccoglie è che ilfondatore era figlio di un Ratcauso, cittadinopisano («filio quodam Ratcausi civis pisane»).Ma di quale Ratcauso si tratta? E perché laformula «filio quodam Ratcausi» è così spo-glia da qualsiasi riferimento ad eventuali qua-lifiche o cariche ricoperte da Ratcauso stessoche, purtuttavia, doveva essere un personag-gio eminente se, come vedremo, era riuscito atrasmettere al figlio domini territoriali di va-stità tale da estendersi, nel loro insieme, su diun territorio grande come un Regno? Ebbenetale formula era semplicemente una fra quelle

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I ruderi del monastero di S. Pietro in Palazzuolo a Monteverdi

[fig. 1]

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I ruderi del monastero di S. Pietro in Palazzuolo a Monteverdi

[fig. 2]

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10 L. SCHIAPPARELLI-C. BRUHL, Codice diplomatico longobardo, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1929,vol. III, p. 120.

11 F. BRUNETTI, Codice diplomatico toscano, Pagani, Firenze 1806-33, vol. I, parte I, p. 227. Si asserisce che Ratcauso eraun nobile pisano.

12 Nell’atto di fondazione del monastero di S. Pietro in Palazzuolo si legge: «ut nullus Episcoporum aut Judicum ibi per-veniat imperio, neque aliquis de filiis vel heredum meorum typo superbie inflati».

13 FALCE, op. cit., p. 49. Così viene delimitato il territorio del Ducato di Lucca: «Il Ducato di Lucca comprendeva adun-que tutta la Garfagnana, poi scendendo la valle del Serchio […], abbracciava tutta la Val di Nievole […] e toccava l’estremolimite orientale di S. Miniato. A questo punto il Ducato lucchese si abbassava a sud ovest e toccando Capannoli comprendevaAppiano, Ponsacco, Lavaiano, Fauglia, Termoleto, Trippole, […] Gello, Montalto, Palazzuolo, Monteverdi, Gualdo di Popu-lonia, Rocciano presso Soana, Tufo, Cornino e si spingeva verso Montione nel grossetano, estremo limite meridionale».

in uso da parte dei notai dell’epoca, ed anchere Astolfo, in un documento del 75110, vienemenzionato come «filio quodam Pemone»senza cenno alcuno alla carica ducale a suotempo ricoperta dal padre. Non ci si stupiscadunque di questa prima parte del documentoche riguarda Walfredo, la cui figliolanza daun Ratcauso puro e semplice non esclude as-solutamente un’ascendenza di maggior cara-tura11. D’altra parte, pur ponendo ancora unavolta in debito rilievo le difficoltà prima se-gnalate a riguardo dello spazio temporale, ul-teriori elementi, contenuti nel manoscritto inesame, militerebbero a favore di una strettaparentela fra Walfredo e i duchi del Friuli.

Esaminiamo, ad esempio, i nomi dei quat-tro figli che con lui entrarono in convento:Benedetto, Rachis, Tasso e Gunfredo. Il pri-mo di loro potrebbe essere stato così battez-zato in ossequio a S. Benedetto, al quale era-no devotissimi gli ultimi duchi del Friuli e peril cui ordine monastico, prima Pemmone, epoi tutti i suoi tre figli ed infine il «presunto»nipote Walfredo, fondarono numerosi con-venti dotandoli di cospicue donazioni di lorobeni. Diverso è il discorso per i nomi Rachis eTasso. Si potrebbe immaginare in prima istan-za che Rachis derivasse il suo nominativo perun omaggio all’omonimo re dei Longobardi,ma occorre allora evidenziare che Rachis, diPemmone, non doveva ancora essere stato in-coronato quando nacque questo figlio di Wal-fredo che ne ripeteva il nome. Rachis asceseinfatti al trono nel 744 e non è pertanto pen-sabile che Walfredo traesse con sé in conven-to un bambino di soli nove o al massimo diecianni. Cadrebbe così l’ipotesi che il nome fos-se stato scelto in onore di un sovrano che nonpoteva ancora essere tale. A questo punto va-

le la pena di segnalare che la moglie di Rachisera una nobile romana chiamata Tassia, omo-nimo al femminile di Tasso. Ricordiamo inol-tre che Rachis di Pemmone divenne duca delFriuli nel 735 ed è quindi in omaggio ad unozio duca ed a sua moglie che Walfredo bat-tezzò con i loro nomi due dei suoi figli, che,pertanto, quando con lui si fecero monaci,potevano già avere la più ragionevole età didiciotto o diciannove anni. Del quarto figlioGunfredo non è invece ipotizzabile l’originedel nome, che potrebbe forse derivare daqualche avo materno; di lui, che sarà il secon-do abate di S. Pietro in Palazzuolo, avrò mo-do di riparlare in seguito, sottolineandone laparticolare considerazione di cui fu fatto se-gno sia da parte di papa Adriano I che daCarlo Magno, re dei Franchi.

Del resto anche Walfredo aveva dato mo-stra di quale grado d’indipendenza e di pre-stigio godesse, sottraendo il proprio monaste-ro alla protezione di chicchessia e conferen-dogli una precisa autonomia sia nei confrontidella pur potentissima Diocesi di Lucca, nellacui giurisdizione ricadeva il convento, sia neiriguardi delle confinanti Diocesi di Populoniae Volterra12.

Proseguendo ora nell’analisi del mano-scritto in esame, non si può non rimanere at-toniti nello scorrere l’interminabile elencodei beni che Walfredo assegna al suo mona-stero. La prima considerazione, che scaturi-sce da tale lettura, è che Walfredo dovevaprovenire da una famiglia così potente e fa-coltosa da poter controllare possedimentidisseminati non solo in tutto il vastissimo ter-ritorio del Ducato di Lucca13, ma addiritturaubicati anche in Corsica dove per l’appuntoavevano tentato d’insediarsi quei Saraceni

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Una grande casata guerriera del Medio Evo 19

14 A. MURATORI, Antichità del Medio Evo, vol. III. Perprando era signore del castello di Rosignano, così come del restoconferma il doc. 13 riportato da N. CATUREGLI, Regesto della Chiesa di Pisa, Istituto Storico Italiano, Roma 1938. Secondoquanto poi dice E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, Tip. A. Tofani e G. Mazzoni, Firenze 1833-45,vol. IV, p. 824, i Gherardesca attorno al 1000 avevano possedimenti in territorio di Rosignano. SCHIAPPARELLI, op. cit., doc.28 dell’anno 720, riporta che questo Perprando, a somiglianza di Walfredo, era titolare di una arimannia situata presso Ari-na, ed inoltre, come Walfredo, era devoto a S. Pietro.

15 B. ANDREOLLI, Uomini del Medio Evo: studi sulla società lucchese dei secoli VIII-XI, Pàtron, Bologna 1983, vol. I, p. 21.Vi si asserisce che Pertinfunso fu comes.

16 AAL, doc. 47. 17 D. BARSOCCHINI, Sulle cause che nel Medio Evo produssero la divisione dei domini in minute parti in Toscana, Giusti,

Lucca 1857.

contro i quali si suppone che Liutprando a-vesse inviato a combattere Ratcauso.

Sempre dal documento che stiamo esami-nando, lo stesso Walfredo ci fa intuire unasua passata presenza nell’isola dove dichiaradi essere patrono del monastero di S. Pietroin Accio od Accia, le cui rovine sono tutt’og-gi visibili in una zona interna, a sud-ovest diBastia. Non è pertanto da escludere che egliabbia anche partecipato a qualche azioneguerresca in Corsica, in analogia a quanto,nei medesimi anni, fece il vescovo di Lucca,Walprando, che la storia ricorda come segua-ce in guerra di re Astolfo e che, prima di par-tecipare ad una spedizione militare, fece re-digere il proprio testamento, giunto sino anoi, con cui, nel caso di morte in guerra, la-sciava la gran parte dei propri domini ai suoidue fratelli, Perprando14 e Pertinfunso15. Intale manoscritto16, Walprando lasciò anche«parte de pecunia nostra in Corsica»; è cu-rioso far rilevare che pure Walfredo donò alsuo monastero «portionem meam de pecunianostra in insula Corsica», adottando una for-mulazione del tutto analoga a quella usatadal vescovo longobardo di Lucca, suo con-temporaneo. Altro elemento di contatto fra idue, è il monastero lucchese di S. Fredianoche Walprando, nel suo testamento, beneficòcon un generoso lascito e che Walfredo col-locò fra gli arbitri che avrebbero dovuto in-tervenire, se mai si fossero registrate diffi-coltà nella nomina di un abate per il mona-stero di S. Pietro in Palazzuolo. Ultimo ele-mento infine che accomuna il vescovo e ilsanto abate è quello della dislocazione dei ri-spettivi domini. Walprando aveva infatti ere-ditato dal padre Walperto, duca di Lucca,immensi possedimenti non solo nella lucche-

sia vera e propria, ma anche nelle Marem-me17 e più precisamente nei distretti di Soa-na, Roselle, Massa Marittima e Populonia,nei quali pure ricadevano i beni che Walfre-do assegnò al monastero da lui fondato e, aifini della tesi che andrò a sostenere per cer-care di dimostrare la discendenza dei Ghe-rardesca dal Santo, nei quali soprattutto rien-treranno, due secoli e mezzo dopo, quelli cheGherardo 2°, conte di Frosini e progenitorestorico della casata comitale, donerà al mona-stero di S. Maria di Serena che egli fondò nel1004 [Appendice, docc. 2-3].

Fino a questo punto ho cercato d’indivi-duare tutto quanto possa ricollegare Walfre-do a Ratcauso del Friuli (ed in seguito scopri-remo altri interessanti indizi); ora indagheròsu ciò che possa comprovare una sua apparte-nenza alla genealogia dei Gherardesca. In as-senza d’inoppugnabili documenti che ricolle-ghino Walfredo agli antenati storici di questafamiglia, non mi resta che affidarmi, per que-sta ricerca, ad una scrupolosa analisi di alcunidati di carattere territoriale da cui si possonotrarre convincenti riscontri logici a sostegnodella mia tesi. A tale specifico scopo apparedi determinante interesse quanto riporta l’at-to di fondazione del monastero di S. Maria diSerena sito presso Chiusdino, nell’antico di-stretto volterrano. In questo manoscritto silegge infatti che il conte Gherardo 2° dotò ilconvento di propri beni sparsi nei territori di«Volterra, Lucca, Populonia, Roselle e persi-no Orvieto». Orbene, come è possibile verifi-care, questa delimitazione territoriale è quasiesattamente circoscritta dalle donazioni fatte,duecentocinquanta anni prima, da Walfredoal suo convento, nell’evidente intento di sal-vaguardare il complesso patrimoniale della

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propria casata, così come del resto fecero altrinotabili longobardi nel medesimo periodostorico.

Non voglio tediare il lettore elencandodettagliatamente in queste righe tali donazio-ni e procedendo poi al loro accostamentocon i domini Gherardesca, così come risulta-no dai documenti dell’Alto Medio Evo. Rin-vierò pertanto chi sia particolarmente inte-ressato ad approfondire questa ricerca fonda-mentale, a consultare gli inserti 1 e 2 con larelativa cartina geografica illustrativa che hocollocato nell’Appendice a fine testo. Sonoconvinto che il mio accurato raffronto e leconsiderazioni che ne possono scaturire, co-stituiscono un indizio più che sufficiente adimostrare una volta per sempre che Walfre-do fu un ascendente dell’antica casata comi-tale.

A sostegno di una tesi contraria ad una di-scendenza dei Gherardesca da S. Walfredo, viè chi fa rilevare:

– che Walfredo non ebbe in pratica di-scendenza, poiché tutti i suoi figli si feceromonaci con lui;

– che il culto di S. Walfredo è stato prati-cato dai Gherardesca solo ad iniziare dal XIXsecolo e cioè da quando papa Pio IX lo auto-rizzò su istanza del cardinale Cosimo Corsi,arcivescovo di Pisa, il quale, aggiungo io, sol-lecitando detta autorizzazione, poteva ancheperseguire un interesse familiare in quanto fi-glio di una Gherardesca;

– che il nome di Walfredo non comparemai nella più antica genealogia della famigliacomitale, ma compare invece, per la primavolta, nel 1800 per i motivi di cui al puntoprecedente.

Esaminiamo dunque la fondatezza o menodi queste tre contestazioni.

Walfredo intanto non dice che tutti i suoifigli entrarono con lui in convento, ma accen-na anzi ripetutamente a propri eredi che eglidiffida dall’agire in sfavore delle sue elargizio-ni al monastero; parrebbe quanto meno scon-certante che tale monito fosse diretto proprioa coloro che con lui avevano abbracciato lavita claustrale. Per quanto riguarda uno alme-no di tali eredi, ci viene in determinante aiuto

l’abate Andrea nella sua Vita di S. Walfredo,nella quale ci parla di un quinto figlio delSanto dicendoci che questi si chiamava Rat-causo (come il nonno) e che era il primogeni-to. D’ora in poi, per non confondere fra loroquesti due omonimi, cosa che è accaduta inpassato ad opera di alcuni studiosi, io li citeròcome Ratcauso 1° (il nonno) e Ratcauso 2° (ilnipote).

Prima di procedere oltre, desidero sottoli-neare che la scoperta di questo Ratcauso 2°mi risulta del tutto inedita; nel corso dei mieistudi non ho infatti trovato alcun altro storicoche ne abbia fatto menzione, anche se negliAnnali Camaldolesi si riporta che Walfredoebbe «cinque» figli maschi. Inoltre, che Rat-causo 2° si sia conservato allo stato laicale, celo conferma appunto l’atto di fondazione delmonastero nel quale per ben due volte sonocitati con chiarezza i suoi quattro fratelli fatti-si monaci, senza mai includerlo fra di essi.Non si deve poi dimenticare che Paolo Dia-cono parlò di «figli» di Ratcauso 1° e quindidi «fratelli» di Walfredo, sempreché venga ac-cettata la discendenza di quest’ultimo dai du-chi del Friuli. È comunque un dato di fattoche Walfredo, nell’elencare le sue donazionial convento, precisa sempre che trattasi di«portionem meam», lasciando con ciò inten-dere che altri familiari possedessero con lui laparte residuale del tutto, così come del restoprevedeva la legge longobarda in materia dipatrimonio parentale, argomento che illu-strerò più avanti. La continuità della schiattapuò pertanto essere stata assicurata sia daRatcauso 2° come pure da altri consaguinei diWalfredo che con lui risultavano comproprie-tari dei possedimenti donati parzialmente almonastero.

Per quanto riguarda poi il culto del Santo,posso senz’altro contestare che esso sia statopraticato dai Gherardesca solo ad iniziaredalla seconda metà del XIX secolo, poiché,ad esempio, è comprovato che già nelle primedecadi del XVII secolo, Cosimo della Ghe-rardesca, vescovo di Colle Val d’Elsa, nel ri-strutturare il duomo di quella cittadina, dapochi anni elevata a sede di diocesi, vi consa-crò una cappella dedicata a S. Walfredo.

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18 Nel 1781 furono poi eseguiti altri scavi che sono descritti da G. CACIAGLI, Pisa, Colombo Cursi Editore, Pisa 1970, Istituto Storico delle Provincie d’Italia, vol. II, pp. 606-608. Tali scavi portarono alla luce tre scheletri dei quali uno, il me-glio conservato, fu rinvenuto con il cranio appoggiato ad un mattone con su incisa la parola «Santo».

19 MURATORI, op. cit., vol. III. Vi è riportato un documento che riguarda Walfredo, di Enrico conte di Donoratico, chevende alla Mensa di Pisa una parte del castello di Lavaiano. Anche CATUREGLI, op. cit., docc. 218 e 317.

Nell’archivio della famiglia comitale, oggi de-positato presso l’Archivio di Stato di Firenze,ho inoltre trovato che nel 1748 fu fatto acqui-sto di un’antica medaglia di bronzo raffigu-rante Walfredo e sua moglie e che due anniprima erano stati finanziati alcuni scavi, fra lerovine del convento di Palazzuolo, tesi alla ri-cerca del corpo o quanto meno della tombadel Santo18. L’attribuzione di S. Walfredo al-l’ascendenza dei Gherardesca si trova ancheriportata in trattati storici del Settecento eprima ancora; fra di essi, ad esempio, l’Histo-ria ecclesia pisana di Anton Felice Mattei (to-mo I, p. 130). È indubbio quindi che il cultofamiliare per il presunto capostipite, risale adassai prima della data della sua formale eleva-zione alla gloria degli altari.

Rimane infine da giustificare la quasi totaleassenza del nome Walfredo nella genealogiapiù antica dei Gherardesca. Ho detto quasi,poiché in realtà un Walfredo s’individua at-torno al 112619 ma debbo sottolineare che,nel corso dei primi secoli della loro storia, iGherardesca furono di accanito orientamentoghibellino, poco incline dunque all’ecclesiasti-co, anche se, in una casata così antica, non so-no ovviamente mancati alcuni alti prelati dellaChiesa e, frammisto ad una maggioranza diguerrieri e uomini di governo, qualche perso-naggio che si dedicò alla vita spirituale e morìin odore di santità. Anche il nome di Wido oGuido, portato da un antenato dei Gherarde-sca vissuto nel XII secolo e beatificato nel1459, scomparve dopo di lui quasi del tuttonella genealogia discendente della famiglia,mentre vi era apparso con grande frequenzanella sua parte ascendente. Lo stesso fatto av-venne anche nel caso della beata Gherardescadella Gherardesca, il cui nome, prima di leiportato da una delle figlie del dantesco Ugoli-no, dopo la morte della Santa ricomparirà so-lo una volta ancora per battezzare una nipoti-na della stessa e nel 1637 verrà riesumato daAnna, figlia del conte Ippolito della Gherar-

desca, che, nel farsi monaca, volle essere chia-mata Suor Gherardesca.

Al contrario, nella più antica genealogiadella casata ci si imbatte continuamente innomi di antenati distintisi nell’arte della guer-ra o del governo della cosa pubblica, comequelli di Gherardo (o il suo abbreviativoGaddo), di Tedice, di Guelfo, di Ranieri, diBonifazio e di Ugolino (con l’abbreviativo U-go e gli accrescitivi Ugone ed Uguccione). Permeglio comprendere il tutto, ritengo ci sidebba ricalare nelle due diverse realtà stori-che vissute dalla schiatta, e cioè quella ghibel-lino-pisana fino alla fine del XIV secolo equella guelfo-fiorentina che i Gherardesca sitrovarono ad affrontare dopo la loro pace conFirenze nel 1405.

Fino a quando la famiglia comitale si mosseall’interno della prima delle due realtà, ebbecerto più interesse a vantare quei propri per-sonaggi che bene avevano operato al serviziodell’Impero e del comune ghibellino di Pisa.Poi, quando dopo il 1405, i Gherardesca sitrovarono a doversi confrontare con le grandifamiglie mercantili fiorentine, che certo noncontavano molti importanti guerrieri fra i loronon troppo antichi ascendenti e che, essendodi orientamenti guelfi, tenevano piuttosto avantare successi conseguiti nell’ambito dellaChiesa, anche i Gherardesca cominciarono arispolverare i loro ascendenti santi o quasi.

Del resto, il ripetersi o lo scomparire di de-terminati appellativi in una famiglia è semprestato condizionato da opportunità politichecontingenti che hanno consigliato o sconsi-gliato l’uso dell’uno o dell’altro nominativo inparticolari momenti storici. Ad esempio il no-me di Ugolino, bollato da Dante come tradi-tore, scompare quasi per due secoli dalla ge-nealogia della famiglia per poi ricomparirvi,dopo la pace con Firenze, nella meno com-promettente versione abbreviata di Ugo. An-che in tempi assai più remoti abbiamo vistoche il nome di Pemmone, duca del Friuli, non

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22 I della Gherardesca

20 Le arimannie erano terre donate dal re ai guerrieri longobardi più meritevoli, e ciò a titolo definitivo e con possibilitàdi trasmissione ereditaria.

21 A. CIANELLI, Documenti del Ducato di Lucca, R. Accademia di Lucca, Lucca 1813-80, vol. I, p. 49. Vi si legge che, altempo di Liutprando, gastaldo di Pisa era Tagipertum (Tachiperto).

venne nemmeno usato per battezzare i suoinipoti. A tale proposito non si deve infatti di-menticare che, durante il Regno longobardo,forse non era opportuno ricordare un ducacaduto in disgrazia, mentre dopo, al tempodella dominazione franca, era altrettanto i-nopportuno insistere con appellativi longo-bardi che potevano suonare come nostalgici opeggio ancora come revanscisti.

Nella genealogia antica dei Gherardescatroviamo peraltro un Pepone, menzionato inun documento del 1133, che ha una singolareassonanza con il nome del duca del Friuli epiù tardi s’individuano due membri della fa-miglia che si chiamarono Ramone o Rainone,risvegliando nella memoria la presunta origi-naria discendenza dalla schiatta longobardadei Remona, progenitori di Pemmone.

Dunque le tre contestazioni mosse all’ipo-tetica e vantata discendenza da Walfredo, nonsono di spessore tale da annullare gli indizi fa-vorevoli da me raccolti. È soprattutto quelladi una mancata discendenza dal Santo che ri-sulta la più inconsistente, considerato quantoho potuto appurare dal manoscritto dell’aba-te Andrea. Del resto nemmeno può escludersiche i figli di Walfredo, con lui entrati in con-vento, non abbiano alternato periodi di vitalaica a quella religiosa, come era abituale aquei tempi nei quali i familiari, che seguivanoin monastero il fondatore del medesimo, nonerano nemmeno tenuti a pronunciare i voti dicastità monacale.

Di un’alternanza del genere ci fornisce pro-va proprio re Rachis, che prima lasciò il tronoal fratello Astolfo e si ritirò a vita claustrale aMontecassino, poi, alla morte di Astolfo, uscìnuovamente dal monastero per tentare la ri-conquista dello scettro regale in concorrenzacon Desiderio. Fallito però questo progetto,Rachis tornò a fare il monaco benedettino.Anche i figli di S. Walfredo potrebbero dun-que aver abbandonato S. Pietro in Palazzuoloper alcuni periodi di tempo ed essersi magari

costituita una famiglia assicurandosi una di-scendenza; a quanto narra l’abate Andrea, al-meno uno di essi, Gunfredo, ad un determi-nato momento, lo fece, fuggendo dal conven-to dove, però, nolente o volente, venne prestoricondotto.

Ma torniamo a trattare ora di Ratcauso 2°,figlio primogenito di Walfredo, il quale meri-ta un particolare cenno, poiché della sua vitaho potuto formulare una ricostruzione so-stanzialmente innovativa riguardo agli avveni-menti intervenuti in Italia nei primi anni delRegno franco. Cominciamo innazi tutto con ilricordare che suo nonno, Ratcauso 1°, avevapresumibilmente abbandonato il Friuli pocopiù o poco meno che ventenne, per assolvereai compiti affidatigli dal suo re e che, assorbi-to in tale incarico, per molti anni non avevapiù partecipato alle vicende del suo Ducatod’origine. È possibile che per i meriti da luiacquisiti nell’espletamento delle sue mansio-ni, prima re Liutprando e poi i di lui succes-sori, che, fra l’altro, erano fratelli di Ratcausostesso, lo abbiano ricompensato, donandogliun ingente patrimonio fondiario ricavato di-rettamente dai possedimenti (o gualdi) che lacorona aveva conquistati lungo il litorale dellaTuscia, all’atto della cacciata dei bizantini dadetto territorio. È anche probabile che Rat-causo 1° sia inoltre riuscito ad assicurarsi del-le consistenti quote delle arimannie20 che fu-rono impiantate presso Pisa dai sovrani lon-gobardi.

Secondo il Muratori, Ratcauso 1° ricom-parve nel Friuli solamente attorno al 752:quando, lasciata, probabilmente ad uno deisuoi figli o ad altro suo consanguineo, la cari-ca di gastaldo di Pisa21, assunse l’incombenzaducale che da tempo gli sarebbe spettata eche conservò fino al 754, allorché, contempo-raneamente e quasi come per intesa con Wal-fredo, egli si ritirò a vita monastica, in non ca-suale concomitanza con gli avvenimenti legatialla prima discesa in Italia dei Franchi, guida-

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Una grande casata guerriera del Medio Evo 23

22 Questi tre eminenti storici, ignorando l’esistenza di un nipote omonimo di Ratcauso, padre di Walfredo, identificarono ilnonno con quel duca del Friuli che fu sconfitto ed ucciso dai Franchi nella battaglia dell’anno 776. Essi non si erano però resiconto che, a quel tempo, Ratcauso 1°, ipoteticamente nato nel 705, e forse addirittura prima, aveva già superato la settantina enon era pertanto più idoneo né a combattere in guerra né a coltivare ambizioni di una riconquista del trono longobardo.

23 S. GASPARRI, I duchi longobardi, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1978, p. 62. Vi si segnala che un do-cumento lucchese del 773 nomina «Tachipert dux». Si tratta sicuramente del duca di Lucca [AAL, doc. 95]. Nella nota 90dell’opera citata, si precisa che il periodo del Ducato di Tachiperto potrebbe iniziare, al massimo, dal 754, e quindi proprioall’epoca in cui Walfredo fondò il suo monastero.

24 P.P. PIZZETTI, Antichità toscane, Rossi, Siena 1778-82, vol. I, p. 147 [albero genealogico], e vol. II, p. 276. Walfredo eTachiperto sono considerati fratelli.

25 Ivi, vol. I, p. 292. 26 EGINARDO, Vita Karoli Imperatoris, a cura di G. Bianchi, Salerno, Roma 1980, p. 50. 27 S. ABEL-B. SIMSON, Jahrbücher des Fränkischen Reiches unter Karl dem Grosse, Duncker und Humblot, Leipzig 1883.

ti dal loro re Pipino, detto il Breve. La dina-stia di Pemmone non s’interruppe tuttavia inFriuli, poiché il Ducato passò nelle mani diun cugino di Ratcauso 1° di nome Pietro. Ri-guardo alla morte di Ratcauso 1° non abbia-mo notizie certe, ma sempre il Muratori ipo-tizza che egli sia deceduto poco dopo essersiritirato dalla vita pubblica.

Ma ecco che compare ora alla ribalta il ni-pote Ratcauso 2°, ingenerando, a causa dellasua omonimia con il nonno, non poca confu-sione fra alcuni pur autorevoli storici, fra iquali in particolare il Pizzetti, il Cianelli ed ilFalce22; essi, ignorando l’esistenza del nipote,seguitano infatti ad attribuire erroneamenteall’avo alcuni eventi che illustreremo in segui-to. È anche possibile che, per un certo tempo,Ratcauso 2° abbia pure lui ricoperto l’incari-co di gastaldo, ma egli, come la storia ci con-ferma, nutrì ambizioni che andavano ben ol-tre questa pur prestigiosa incombenza.

Occorre altresì segnalare che, secondo al-cune fonti storiche, quando nel 754 Walfredofondò il suo monastero, era forse già duca diLucca, o stava per diventarlo, Tachiperto23,pure lui «filio Ratcausi de Pisa» e quindi conbuone probabilità, fratello dello stesso Wal-fredo e zio di Ratcauso 2°24. Non meraviglie-rebbe daltronde che, ancora regnante Astol-fo, se ne trovino i parenti più stretti alla gui-da d’importanti ducati come quello di Luc-ca, con Tachiperto, e quello del Friuli, conRatcauso 1°. Più tardi, quando, per la secon-da volta i Franchi intervennero in Italia, gui-dati questa volta dal loro re Carlo (futuroCarlo Magno), non è nemmeno improbabileche abbiano reputato affidabile questa schiat-ta longobarda, imparentata con re Rachis, il

quale aveva contrastato l’ascesa al trono diDesiderio, nemico giurato di re Carlo stesso.È opportuno ricordare, a questo proposito,che alla Dieta Longobarda, convocata in To-scana per scegliere il successore di Astolfo,Pisa, della quale doveva essere gastaldo unparente del sovrano deceduto, votò a favoredi Rachis25.

È anche noto che, nei primi anni dopo laconquista dell’Italia, i Franchi evitarono disconvolgere il tessuto organizzativo dei Lon-gobardi e preferirono lasciare ai posti di co-mando quei loro capi che avevano dimostratouna certa lealtà nei confronti dei nuovi padro-ni del Regno italico. Da alcuni documenti èanzi riportato che Ratcauso 2° (e non già Rat-causo 1° che a quell’epoca risultava già mortoda dieci anni) rimase alla guida del Ducatofriulano per diretta riconferma di re Carlo26;il quale con ciò forse intese ricompensarel’aiuto prestatogli da questo notabile longo-bardo nel corso della guerra contro Deside-rio, che, come noto, si concluse con la resa diquest’ultimo nel giugno del 764.

È dunque dopo il consolidamento del suoincarico ducale che Ratcauso 2°, approfittan-do della lontanaza dall’Italia di re Carlo, im-pegnato in una spedizione contro i Sassoni,reputò di essere ormai abbastanza potente datentare la scalata ad un rinascente trono lon-gobardo, che già era stato appannaggio deisuoi familiari27. Fingendosi partigiano di unarestaurazione di Adelchi, sfortunato figlio diDesiderio, che si trovava esule a Bisanzio,Ratcauso 2° si alleò allora con Rengimbaldoduca di Chiusi, con Ildebrando duca di Spo-leto e con Arechi duca di Benevento, tutti,come lui, longobardi che re Carlo aveva rite-

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24 I della Gherardesca

28 CIANELLI, op. cit., vol. I, p. 58.29 PIZZETTI, op. cit., vol. I, pp. 234-35, e vol. II, p. 285. 30 Codex Carolinus, epp. III, docc. 51 del 775 e 57-58 del 776. 31 CIANELLI, op. cit., vol. I, pp. 57-58. 32 Codex Carolinus, edizione Gundlach in M.G.H., epp. III, p. 582, doc. 77. 33 CATUREGLI, op. cit., doc. 13.

nuto di non dover rimuovere dai rispettivi o-riginari incarichi. All’inizio egli certo fece an-che affidamento sul legame di sangue con Ta-chiperto duca di Lucca, ma quando la con-giura abortì per le titubanze dei suoi alleati,Tachiperto probabilmente era già stato rimos-so dalla sua carica28. Caduto infatti in disgra-zia con i Franchi, egli era stato sostituito daAllone, pure lui di origine longobarda29, mareputato più fedele a re Carlo.

Quale diretta conseguenza di tale esautora-mento improvviso, si può meglio giustificarela politica di Allone, astiosamente ostile ai di-scendenti di Walfredo (e quindi di Tachiper-to) confermata da alcune lettere indirizzate dapapa Adriano I a re Carlo30, con le quali ilpontefice prende risolutamente le difese diGunfredo, figlio di Walfredo e fratello di Rat-causo 2° nonché secondo abate di S. Pietro inPalazzuolo, per sostenerne le ragioni avversoal duca Allone che non solo aveva usurpato ipossessi di Gunfredo stesso nel distretto diPopulonia, ivi incluso Bolgheri (ribattezzato«Sala di Allone»), ma aveva addirittura atten-tato alla vita dell’abate31. Un documento ri-portato dal Muratori in Antichità del MedioEvo segnala inoltre che Allone vendette alcu-ni beni che gli erano pervenuti, senza specifi-care come, da un Teudiperto che potrebbeforse identificarsi col Tachiperto zio di Gun-fredo.

Ratcauso 2°, nel contempo, malgrado glifossero venuti a mancare i principali alleati,proseguì con ostinazione nel suo ormai dispe-rato tentativo di rivolta contro i Franchi, po-tendo ormai contare solo sull’appoggio di suosuocero Stabilino, duca di Treviso, e su quellodi Gaido, duca di Vicenza. Nello scontro de-cisivo, che ebbe luogo nel 776 in territoriofriulano nei pressi di Livenza, Ratcauso 2° ri-mase però sconfitto da re Carlo ed ucciso sulcampo di battaglia32. Fu pertanto Ratcauso 2°a battersi in quel frangente con eroico corag-

gio e non già Ratcauso 1°, come erroneamen-te scritto dal Pizzetti, il quale non tenne in de-bito conto che, pur accettando per buona ladata di nascita attribuitagli dallo Stolfa, Rat-causo 1° avrebbe avuto allora l’età, per queitempi veneranda, di settantun anni, certo ini-donea a permettergli di prender parte ad uncombattimento. Con la morte di Ratcauso 2°,svanì dunque l’ultima speranza dei Longobar-di di restaurare in Italia le loro antiche fortu-ne e con lui si esaurì non solo la dinastia rega-le di Pemmone, ma anche quella ducale, poi-ché re Carlo, dopo la vittoria, nominò a ducadel Friuli un Franco di nome Markaire.

Anche di Tachiperto si perdono per alcunianni le tracce e l’ipotesi più probabile rimanequella che egli sia stato portato in Franciaquale ostaggio, come nel medesimo periodoavvenne per i vescovi di Lucca e di Pisa e for-se anche per l’abate Gunfredo che comunquefu alla corte di re Carlo per reclamare, consuccesso, i diritti lesigli dal duca Allone. Ta-chiperto riappare invece in Toscana nel 784,come sottoscrittore di un documento con ilquale Perprando, figlio del già duca di LuccaWalperto e fratello del vescovo Walprando,vendette alcuni possedimenti in Rosignano33;tale ulteriore accostamento fra i figli di Wal-perto ed i familiari di Walfredo riconferma u-na contiguità, quanto meno di consorteria, frale due schiatte. Che Tachiperto e Ratcauso 2°abbiano poi avuto o meno discendenza non èa tutt’oggi documentato, per quanto sia plau-sibile che, tramite essi o qualche altro loroconsanguineo, sia stata assicurata la continuitàdella prosapia proceduta da Ratcauso 1°.

Quando nel X secolo storicamente s’indivi-dua una potente casata comitale di ceppo lon-gobardo, quella appunto dei Gherardesca, e-sattamente arroccata in quei medesimi terri-tori che furono di Walfredo e del suo paren-tado, e che Walfredo intese proteggere ricor-rendo a quella che si potrebbe contraddistin-

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34 Il termine interpretato sta a significare quanto segue. Dal momento in cui i discendenti di Walfredo caddero in disgra-zia con i Franchi, non ricoprirono più cariche pubbliche. Nei documenti che li riguardavano non apparvero pertanto parti-colari attributi oltre ai loro nominativi puri e semplici, e pertanto ne risulta assai difficile l’individuazione. È chiaro inveceche nel secolo X, e cioè da quando ai Gherardesca fu attribuito il titolo di comites, divenne assai più agevole riconoscere icomponenti della schiatta.

35 CATUREGLI, op. cit., docc. 44-45.

guere come l’operazione monastero, è plausi-bile che la si supponga derivata da quelle me-desime robuste radici. Anche se nessun docu-mento rinvenuto od interpretato34 sino ad og-gi, fornisce notizie della famiglia anteriormen-te al X secolo, è alquanto improbabile che isuoi membri fossero insediati in posizioni do-minanti sin dai primi decenni del Novecento,senza che alle loro spalle non vi fosse stato unadeguato humus di potenza e ricchezza, chenon poteva essere, a quei tempi, frutto di ca-sualità. Si può invece ipotizzare che gli avi deiGherardesca, malvisti dai Franchi in quantoLongobardi inaffidabili, abbiano perduto tut-te le loro cariche pubbliche ed abbiano dovu-to defilarsi, ritirandosi nei propri vasti e forti-ficati domini; ciò sino agli inizi del X secoloquando, caduto il governo franco, subentra-rono in Italia altre dinastie e soprattutto quel-la sassone degli Ottoni, più affine alla gentelongobarda in quanto di origine germanica,che consentirono loro di recuperare le accan-tonate posizioni di potere e prestigio.

È chiaro che questa tesi è solo basata su de-duzioni logiche, non essendovi documenti chepossano avallarla, ma d’altra parte non è facileimmaginare come avrebbero potuto fare que-sti Longobardi a trovare così tanto credito aiprimi del X secolo, se non fossero già statipreventivamente potenti. Gli estesissimi do-mini dei Gherardesca, ampiamente documen-tati da numerosi manoscritti, fra cui, in primis,l’atto di fondazione del monastero di S. Mariadi Serena del 1004, dovevano essere giocofor-za derivati da un’acquisizione precedente al-l’arrivo dei Franchi in Italia. È alquanto im-probabile infatti che dei Longobardi abbianopotuto costituirsi un tale potente sistema di-fensivo di rocche e castelli ed un così ingentepatrimonio fondiario proprio durante il go-verno di un popolo loro ostile. Non esiste in-fatti un solo documento che registri un acca-dimento così anomalo, segnalando le ragioni

per le quali avevano avuto origine queste rag-guardevoli acquisizioni patrimoniali e di con-trollo territoriale. Trovata la risposta a questipostulati, si sarà risolto il problema della coin-cidenza territoriale delle donazioni fatte da S.Walfredo con i domini successivi dei Gherar-desca, tenendo pur sempre ben in evidenza,come vedremo tra poco, che le leggi longo-barde in materia ereditaria vincolavano ognipatrimonio a mantenersi all’interno del nu-cleo parentale originario per sette generazionie cioè circa duecento anni.

Una considerazione conclusiva, infine. Que-sta schiatta longobarda forse aveva potutoconservare il proprio potere territoriale, an-che grazie al fatto che i Franchi, nella loroconquista del Regno italico, non avevano pro-ceduto ad alcuna migrazione di massa di loropopolazioni (come invece era avvenuto nelcaso dei Longobardi), ma solo esercitato uncontrollo militare sulla propria conquista. InTuscia, ad esempio, essi avevano limitato det-to loro controllo alla dorsale Firenze-Roma (eSiena venne da loro potenziata a tale precipuoscopo), trascurando di estenderlo ad altre zo-ne della regione, quali ad esempio quella vol-terrana e quella più litoranea, dove i discen-denti dai Longobardi ebbero quindi buongioco a conservare integro il proprio poteresenza troppi problemi.

Le prime tracce storiche

Lo storico tedesco Hansmartin Schwarz-maier, nel suo trattato su Lucca e l’Impero,fornisce una propria ricostruzione della ge-nealogia dei Gherardesca [tav. 2], partendoda un conte Ghisolfo35 che risulterebbe de-ceduto prima del 941, come documenta unmanoscritto nel quale si cita uno dei suoi fi-gli, Rodolfo, qualificandolo quale «comes i-stius comitatus pisensis».

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36 G. BONACINA, I Longobardi. Quattordici secoli fa la calata degli uomini dalla lunga ascia, in «Storia illustrata». [Il testoin fotocopia è in possesso dell’autore, ma senza frontespizio].

Di questo Ghisolfo non mi risulta si sappiaalcunché d’altro che lo possa ricondurre alceppo dei Gherardesca, ma a me piace far ri-marcare che egli ripeteva il nome di Gisulfo,primo duca del Friuli, e che il ritorno nel-la prosapia comitale agli originari appellativilongobardi, quali quello di Teuperto (che sirichiama a Tachiperto), di Gottifredo e di Pe-pone, diviene significativamente più frequen-te dopo l’avvento in Italia di dinastie imperia-li germaniche, sicuramente più ben dispostead una rivalutazione delle radici longobardedella schiatta. Del resto una conferma di talemia ipotesi proviene dal già menzionato do-cumento del 1008, con il quale il conte Ghe-rardo 2°, presunto pronipote di Ghisolfo, tie-ne fieramente e pubblicamente a dichiarare diessere seguace della «legge longobarda», allaquale assicura di aver aderito anche sua mo-glie, Willa Berardenghi, che pur era di origi-naria «legge franca o salica».

A questo punto intendo aprire una breveparentesi per chiarire cosa potesse significareseguire la legge longobarda, codificata nell’e-ditto di Rotari. In particolare intendo eviden-ziarne l’istituto della proprietà familiare, il ri-spetto delle cui norme avrà, nei secoli, gran-de influenza sulle sorti del complesso patri-moniale dei Gherardesca. Riporterò dunquequi di seguito alcuni brani tratti dalla Storiad’Italia diretta da G. Galasso, nei quali l’au-tore, P. Delogu, commenta adeguatamente al-cuni specifici aspetti dell’editto rotariano.

Nel diritto longobardo la proprietà si articolavain raggruppamenti familiari tenuti assieme da soli-darietà che si manifestava in una sorta di correspo-sabilità patrimoniale (gafand). Solidarietà di onore edi interesse familiare costituivano, almeno nella vitagiuridica, la manifestazione delle parentele fondatesull’affinità di sangue trasmesso in linea maschile edocumentata dalla memoria analitica della discen-denza comune; esse si estendevano, per gli effettigiuridici, a comprendere il gruppo dei consanguineiindividuato da un antenato comune alla settima ge-nerazione con vincolo dunque che era efficace finoal settimo grado (Edit. Rot., c. 153, p. 30 ss.). All’in-terno del gruppo coniugale la concorrenza d’interes-

si familiari era solidissima mentre tendeva a diventa-re virtuale nella parentela allargata che recuperavaprerogative e diritti solo quando la famiglia ristrettanon aveva prosecuzione (Edit. Rot., c. 158, p. 41).La coesistenza di diritti di padre e figli sui beni fami-liari era espressa dalle regole che proibivano agli unied agli altri di alienarli unilateralmente anche solo inparte (Edit. Rot., c. 170, p. 41). Ad evitare dispersio-ni e commistioni, la proprietà familiare si trasmette-va solo in linea maschile. Le figlie avevano solo dirit-to ad una costituzione dotale, il «ferdafio», sullaquale rimanevano del resto operanti i diritti della fa-miglia di origine che tornavano efficaci se, rimastevedove, rientravano a vivere nella casa paterna.

Orbene queste norme i Gherardesca sonoriusciti praticamente ad osservarle, fino quasialla fine del 1700; questa è stata la ragione pri-maria per la quale l’originario nucleo patrimo-niale della casata ha potuto conservarsi sem-pre intatto, a dispetto della graduale estinzio-ne nel tempo di tante ramificazioni genealogi-che della schiatta. Dopo il 1700, a seguito diaccadimenti che riporterò più dettagliatamen-te in altra parte di questo lavoro, la tradizioneereditaria longobarda venne meno ed il patri-monio della famiglia, in poco più di un secoloe mezzo, si polverizzò, anche se ai Gherarde-sca rimangono tuttora alcuni dei loro più anti-chi domini come Castagneto e Donoratico.Non vi è da stupirsi eccessivamente per que-sto plurisecolare rispetto dei dettami di re Ro-tari se si considera, ad esempio, che nel berga-masco le ultime leggi longobarde furono di-chiarate decadute solo nel 1430 ed alcuni co-dicilli delle medesime, riguardanti il regimedelle acque, sono stati rispettati fino ai primidel 190036. Anche Pisa del resto dichiarava nel1114 di osservare ancora «legem Romanamretentis quibusdam de lege Longobarda».

Ma torniamo ora al conte Ghisolfo e allasua discendenza. Lo Schwarzmaier fa nascereda lui, come già detto, un figlio Rodolfo, co-mes di Pisa (menzionato in due documentidel 949 e 964), una figlia Rotia che andò spo-sa a Ranieri di Froalmi, visconte di Luccanonché capostipite della casata che sarà poidetta dei «da Corvaja», ed infine un altro fi-

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37 P. LITTA, Famiglie celebri italiane, vol. IX; e M.L. CECCARELLI LEMUT, I conti Gherardeschi, in AA.VV., I ceti dirigenti in To-scana nell’età precomunale, Atti del I Convegno di Studi sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana, Pacini, Pisa 1981, pp. 165-90.

38 In quasi tutte le carte geografiche della Toscana redatte fra il XVI o il XVIII secolo, viene indicato come Gherardescail territorio a sud del fiume Cecina. Anche il Repetti ed il Targioni Tozzetti, nei loro rispettivi trattati sulla Toscana, chemenzioneremo più volte, così indicano detto distretto. Pure G. Carducci, nella sua ode Idillio di S. Giuseppe, canta: «ma dala Gherardesca da monti in circuiti foschi / di verde selva sulle ferrigne crete / venivan turchine poi nere le nubi / triste il li-beccio urlando sopra il pian di Vada».

39 H. SCHWARZMAIER, Lucca und das Reich bis zum Ende des XI Jahrhunderts, Niemeyer, Tübingen 1972, p. 214. A Ghe-rardo 1° viene attribuito anche un quarto figlio di nome Ranieri ed un quinto di nome Ildebrando, dal quale poi nascerebbeun altro Gherardo che potrebbe risultare il capostipite dei Gherardenghi, signori della Garfagnana.

40 F. SCHNEIDER, Regestum Volterranum, Loescher, Roma 1907, doc. 58, e placito tenuto dal marchese Oberto a Monte-voltraio alla presenza dell’imperatore Ottone I.

41 Ivi, doc. 104. Identifica il conte Rodolfo con un Aldobrandeschi anziché con Rodolfo 1°, comes di Volterra, morto at-torno al 992. Trattasi a mio avviso di un equivoco poiché lo Schneider non considera: 1/ che il manoscritto è stato conserva-to a Volterra, residenza del comes ma non degli Aldobrandeschi il cui territorio di influenza si trovava più a sud; 2/ che l’at-to cui si riferisce il documento, fu redatto a Papena, piccola rocca oggi scomparsa, ubicata fra Frosini e Miranduolo, in terri-torio dunque dominato all’epoca dai Gherardesca e non già dagli Aldobrandeschi; 3/ che se è esatto che Rodolfo Aldobran-deschi ebbe un figlio di nome Ildebrando, è vero anche che Rodolfo 1°, comes di Volterra, oltre a Teuperto, detto Teuzo,ebbe anche un altro figlio di nome Ildebrando che appare in un manoscritto del 1° febbraio 1006 conservato presso l’ASP ecitato al n°14 del trattato di M. NANNIPIERI D’ALESSANDRO, Carte dell’Archivio di Stato di Pisa, Edizioni di Storia e Lettera-tura, Roma 1979. Detto documento, redatto in Chinseca, quartiere cittadino pisano dove risultano insediati i Gherardescada tempo immemorabile, è anche sottoscritto da un Teuperto, fratello d’Ildebrando, e da Guido, suo cugino, conte di For-coli. La probabile confusione dello Schneider fra i conti Rodolfo, l’uno Gherardesca e l’altro Aldobrandeschi, è del resto re-sa plausibile anche per la quasi contestuale morte dei due omonimi.

42 SCHWARZMAIER, op. cit., lascia intuire l’origine comune delle due casate. Contra R. Pescaglini Monti.

glio di nome Gherardo. Quest’ultimo sarebbeappunto quel Gherardo 1°, morto anteceden-temente al 980, dal quale procede la genealo-gia dei Gherardesca, stilata e riconosciuta co-me valida dalla maggior parte degli studiosi37.

Prima dell’ipotesi avanzata dallo Schwarz-maier, questo Gherardo è sempre stato consi-derato il capostipite storico della casata, che,da lui e da altri Gherardi che ne arricchirononei secoli le vicende, venne forgiandosi quelcognome di Della Gherardesca, cioè di stirpedella terra dei Gherardi, individuata appuntocome La Gherardesca [fig. 3] fino ad oltre lametà del 180038. Da questo progenitore è in-fatti abbastanza agevole dipanare il filo con-duttore della genealogia, senza incontrarevuoti inspiegabili nel tempo o difficoltà insor-montabili, se si escludono quelle derivanti dalfrequente ripetersi, anche in medesime epo-che storiche, di appellativi identici che talvol-ta mal consentono di attribuire, all’uno o al-l’altro personaggio omonimo, un determinatofatto riportato in un documento. Si sa co-munque che Gherardo 1° ebbe almeno tre fi-gli maschi39 e che essi furono tutti di ragguar-devole rilevanza storica, in quanto due di essi,Rodolfo 1°40 e Tedice 1° furono comites diVolterra, mentre il terzo, Gherardo 2° contedi Frosini, fu, come già anticipato, il fondato-

re del monastero di S. Maria di Serena. An-che Gherardo 1°, padre dei tre, fu probabil-mente comes di Volterra, sempreché lo si vo-glia identificare con uno dei sottoscrittori diun placito lucchese del 9 agosto 964.

È comunque accertato che i Gherardesca,già nel X secolo, erano così potenti da con-trollare Volterra, una delle maggiori città to-scane dell’epoca, e da mantenere posizionidominanti sia a Pisa che a Lucca. Le radicidella famiglia dovevano essere ben profondee forti, poiché non si potrebbe proprio conce-pire che questo primato derivasse da casualitàe non procedesse piuttosto da posizioni dipotere acquisite ancor prima del X secolo. Èpossibile anzi ipotizzare che la schiatta con-tasse su di un parentado ed una consorteriaassai più estesi di quanto appaia, e che potes-se inoltre avvalersi di solide alleanze matrimo-niali, come quelle conseguenti dalle unioni diGherardo 2° con Willa Berardenghi, di Tedi-ce 1° con Berta Aldobrandeschi, e di Rodolfo1° con Giulia di Landolfo, principe di Capuae Benevento41. Non sono nemmeno da esclu-dersi consanguineità con altre potenti prosa-pie, come, ad esempio, quella dei Cadolingi.Quest’ultima ipotesi, e cioè quella di una co-mune ascendenza fra i Cadolingi e i Gherar-desca, è assai controversa42 e non sembrereb-

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Una grande casata guerriera del M

edio Evo

29Affresco raffigurante la Toscana, con su indicata la GherardescaVaticano, Galleria del Mappamondo

[fig. 3]

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43 Scritture dei canonici di S. Martino, vol. XI, n. 89. 44 SCHNEIDER, op. cit., doc. 113.

be ammessa dalle più recenti ricerche; è miaintenzione comunque di apportare un mode-sto contributo a supporto di quanti sostengo-no tale comunanza di origini.

Per sviluppare questo contributo, proce-derò all’esame di alcuni elementi che, se ana-lizzati indipendentemente l’uno dall’altro,possono apparire più o meno validi, ma chedivengono assai più convincenti se assuntinella loro globalità. Inizierò dagli indizi di mi-nor spessore, come quello dell’identico titolodi comes, con il quale si fregiavano i compo-nenti delle due casate e quello della singolarecoincidenza negli appellativi nelle rispettivegenealogie. In esse si trovano contemporanea-mente ripetuti i nomi di Tedice, Ranieri e Ugo(con le relative varianti di Ugone e di Uguc-cione), tanto che di frequente s’ingeneranodifficoltà nell’attribuire un determinato docu-mento all’una o all’altra prosapia.

Nella prima metà dell’XI secolo, s’indivi-dua poi un Guglielmo Cadolingi, detto ilBulgaro, in strana assonanza con Bolgheri, u-no dei più antichi e riconosciuti domini deiGherardesca nella Maremma Pisana; ed inquesto caso l’accostamento fra le due schiatteè ancor più significativo se si considera che ilconte Ugo, figlio del predetto Bulgaro, cedet-te nel 1089 alcuni suoi possessi presso Casta-gneto43 che da tempi immemorabili, e senzaombra di dubbio, fu ed è territorio in cui sierano insediati i Gherardesca. Un secondoindizio, già più consistente, è quello dei reite-rati legami familiari costituitisi nel tempo frale due nobili prosapie. Infatti Cadolo, dalquale deriva il patronimo dei Cadolingi, eche visse verso la metà del X secolo, risultaessersi sposato (forse in seconde nozze) conGemma, figlia del principe Landolfo di Ca-pua e Benevento, e sorella quindi di quellaGiulia che, a mio giudizio, fu moglie di Ro-dolfo 1°, comes di Volterra. Cadolo e Ro-dolfo furono dunque cognati fra di loro, ma ilegami fra le due casate si rinsaldarono ulte-riormente nella generazione successiva con ilmatrimonio fra Adelagita, figlia di Cadolo, e

Tedice 2° della Gherardesca, figlio del conteTedice 1°44.

Infine nell’albero genealogico dei Gherar-desca, stilato da Pompeo Litta con la collabo-razione del Passerini, s’individua un’ulterioreunione fra Adelasia, del conte Guido 2° dellaGherardesca [tav. 4] e quell’Ugo con il qualei Cadolingi si estinsero nella prima metà delXII secolo. Di tale matrimonio non ho peròrinvenuto traccia nella genealogia dei Cado-lingi redatta da alcuni studiosi quali il Repettie la Pescaglini, ma è pur sempre possibile chesi sia trattato di una prima moglie avuta dalconte Ugo prima che, in seconde nozze, eglisposasse Cecilia, vedova di Opizio Upezzin-ghi, unica consorte attribuitagli dai menziona-ti storici. A proposito di questo argomento,rinvio anche all’inserto 2, contenuto nell’Ap-pendice, al punto in cui si accenna al castellodi Marti.

Ma un argomento ancor più rilevante, a so-stegno di una tesi di una qualche colleganzafra i Gherardesca e i Cadolingi, è forse quelloche emerge dalla politica territoriale sviluppa-ta dalle due casate, quasi perseguendo unpreciso progetto di contiguità dei rispettividomini e senza tuttavia che tale confinanzaabbia mai intaccato la loro solidarietà paren-tale e portato le due schiatte ad entrare inconflitto fra di loro. Troviamo infatti dominicontigui nella Val d’Era, dove fra l’altro i Ca-dolingi fondarono a Morrona uno dei quattromonasteri benedettini edificati nei propri ter-ritori, in analogia con quanto i Gherardescaavevano fatto e continuavano a fare nei loro;in Val d’Arno, dove i Gherardesca si attesta-rono da Pisa ad occidente di S. Miniato e iCadolingi da oriente di S. Miniato stesso finoquasi a Firenze, alle cui porte fondarono ilmonastero di Settimo; ed infine nella vallataad oriente di Lucca, dove i Gherardesca eb-bero possessi a Marlia, Segromigno, Lunata,Lammari e Porcari, mentre i Cadolingi s’inse-diarono da Pescia verso Pistoia. Le due fami-glie ebbero inoltre signoria in comune a Ca-stelfalfi, Lorenzana (in terra Ghisolfinga) e

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45 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 270. 46 SCHNEIDER, op. cit., doc. 93. 47 M.L. CECCARELLI LEMUT, Il monastero di S. Giustiniano di Falesia e il castello di Piombino, Il Telegrafo, Livorno 1972.

Inoltre da una bolla di papa Innocenzo III, datata 22 aprile 1138, risulta che abate di questo convento fu anche un Gherar-do della Gherardesca, forse figlio di Aliotto.

Cadolingi forniva loro una sicurezza lungo iconfini orientali, prevalentemente fiancheggia-ti dai possedimenti di quest’ultima casata.

Dopo aver dato una scorsa a queste primegenerazioni storiche dei Gherardesca, credosia il caso di sottolineare ancora una volta cheè poco credibile che questa potente famigliacomitale, nel X secolo, si limitasse ad esserecomposta dai soli tre personaggi riconosciuti-le, fino ad oggi, dagli storici e dai genealogisti.Nel Medio Evo, la vigoria delle prosapie erasoprattutto fondata sull’estensione del paren-tado e della consorteria, né si può pensareche un dominio vasto come quello individua-bile dalle ingenti donazioni di castelli e terrefatte da Gherardo 2° al suo monastero di S.Maria di Serena, che si estendevano dal lagodi Bolsena (castello di Bisenzio) al Senese, dalgrossetano fiume Bruna a Populonia e di lì fi-no alla Lucchesia, potesse essere controllato edifeso da solo tre Gherardesca (Gherardo 2°,Rodolfo 1° e Tedice 1°), i quali, oltre a tutto,risultavano essere particolarmente impegnatinel solo distretto di Volterra.

I Gherardesca dovevano dunque essere piùnumerosi, anche se non ce ne danno confer-ma i documenti trovati, consultati, interpreta-ti e pubblicati sino ad oggi dagli studiosi. Delresto la rapida espansione della famiglia dopoil suo capostipite storico, Gherardo 1°, è unindizio di quanto altrettanto estese potesseroessere le sue ramificazioni a monte di tale per-sonaggio. Già nella seconda generazione do-po Gherardo 1° si possono individuare setteod otto discendenti maschi dai quali ebberoorigine i diversi segmenti in cui si suddivise laprosapia dopo l’XI secolo. Per inciso antici-però che i Gherardesca raggiungeranno la lo-ro massima estensione numerica fra il XIII ela prima metà del XIV secolo e, quasi comediretta conseguenza, il culmine della loro po-tenza, concretizzatasi con l’affermazione dellaloro signoria su Pisa.

Proprio a causa di questa rigogliosa ramifi-

Barbialla45, oltre che, come abbiamo accen-nato, a Castagneto e Marti. Comprendo beneche tutti questi argomenti, così succintamen-te esposti, non saranno sufficienti da soli aconvincere circa la fondatezza della tesi so-stenuta, ma dovrebbero pur sempre stimola-re altri studiosi ad un riesame riguardo all’e-ventualità di un legame di sangue fra le dueprosapie, come del resto sembra adombrarelo Schwarzmaier nel suo trattato prima men-zionato.

Torniamo ora alla storia dei Gherardesca,interrotta al conte Tedice 1°, comes di Volter-ra, che sposò Berta Aldobrandeschi, figlia delconte Rodolfo46 e morì attorno al 1000. Daquesto Tedice nacquero sei figli maschi: Tedi-ce 2°, Gherardo 3°, Guido 1°, Rodolfo 2°, U-go od Ugone 1° ed Enrico o Arrigo. Questisei fratelli sono rimasti storicamente legati fradi loro per aver fondato assieme, nel 1022, ilmonastero di S. Giuliano di Falesia, nei pressidi Piombino47. Non mi risulta che di essi ac-cennino altri manoscritti per riportarne fattidi un qualche rilievo, oltre quello che riguar-da detto monastero e che fu redatto presso S.Miniato nel castello di Vetrugnano, detto og-gi Montebicchieri [Appendice, doc. 4].

Di due di questi fratelli conosciamo però imatrimoni, che ritengo opportuno citare inquanto significativi al riguardo delle alleanzeperseguite a quei tempi dai Gherardesca. Te-dice 2° sposò, come detto, Adelagita Cadolin-gi ed Ugo 1° si unì con Iulitta Aldobrande-schi, mentre, come già sappiamo, il loro zioGherardo 2° si era ammogliato con Willa Be-rardenghi. Appare dunque evidente che iGherardesca, imparentandosi con tali potentischiatte, miravano soprattutto a proteggere iconfini dei loro domini, cioè quelli a sud delfiume Bruna, nel distretto di Roselle, alleando-si agli Aldobrandeschi attestati nella Marem-ma Grossetana; quelli ad est di Frosini e Chiu-sdino, collegandosi con i Berardenghi domi-nanti nel Senese, mentre la colleganza con i

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32 I della Gherardesca

48 Gherardo 7° viene indicato come «conte di Pisa» nel documento con il quale Federico I, detto Barbarossa, confermòalcuni privilegi ai canonici di Pisa. Ranieri, conte di Segalari, mentre risiedeva a Costantinopoli negli ultimi anni del XII se-colo, era conosciuto come il «conte dei Pisani». Ranieri, detto Nieri, e Bonifazio Novello, detto Fazio Novello, conti di Do-noratico entrambi e signori di Pisa, sono citati in una lettera di re Giacomo II d’Aragona come «conti di Pisa».

cazione genealogica ho reputato problematicoriuscire a dare un inquadramento organico al-le più salienti vicende della famiglia, senzaprima sfrondarne l’albero da quei numerosirami, i cui vari personaggi, anche se storica-mente di un qualche rilievo, sembrano funge-re più da cornice che non da quadro centraledegli eventi che cercherò di trattare unitaria-mente, dopo aver proceduto a questa preven-tiva e necessaria potatura. Inoltre, nel corsodel mio racconto, quando risulterà opportu-no, non mancherò di attirare l’attenzione dellettore anche sulle unioni matrimoniali di al-cuni componenti della casata, poiché tali u-nioni, spesso, più di molti documenti, posso-no darci un’esatta percezione degli orienta-menti e del peso politico dei Gherardesca neidiversi periodi storici. Bisogna infatti tenere inevidenza che per molti secoli il matrimoniofra membri di famiglie potenti fu assai rara-mente un atto d’amore, bensì, quasi sempre,un preciso contratto nel quale prevalevano a-spetti politici, territoriali e patrimoniali.

Per tradurre in pratica il mio progetto nar-rativo, mi baserò fondamentalmente sulla ge-nealogia della casata predisposta dal Litta,non già perché la ritenga assolutamente esattae completa, ma perché, al momento, non hotrovato argomenti e documenti certi che pos-sano far privilegiare genealogie, parzialmentediverse, redatte da altri storici anche più re-centi. È infine opportuno che io premetta chei riferimenti nobiliari con i quali verrannocontraddistinti i vari rami della prosapia, so-no puramente convenzionali e solo indicatividel principale luogo di residenza o di azionedi un determinato personaggio o gruppo fa-miliare, che genealogicamente appartenevapur sempre all’originario ceppo parentale deiconti di Donoratico, al cui titolo comune si ri-chiamarono sempre anche i componenti dellaschiatta che andrò invece a collocare nei di-versi segmenti della medesima.

Occorre ricordare che, nell’Alto Medio E-

vo, nemmeno per le famiglie del ceto più ele-vato erano ancora stati forgiati cognomi bendefiniti; esse pertanto venivano generalmenteindividuate con riferimento al loro capostipitepiù eminente (i Berardenghi da Berardo, gliIldobrandeschi o Aldobrandeschi da Ilde-brando, i Cadolingi da Cadolo, i Pannocchie-schi da Pannocchia ed infine i Gherardesca oGherardeschi, come furono anche detti neiprimi secoli medievali, dai tanti Gherardi chearricchirono nel tempo la loro vicenda stori-ca), o, alternativamente, con un determinatotitolo nobiliare spesso non ricollegabile ad u-na precisa investitura, ma piuttosto al luogonel quale i suoi membri risiedevano ed opera-vano.

Prima dell’adozione in via definitiva del co-gnome di Della Gherardesca, il riferimentoprimario fu dunque quello di conti di Dono-ratico, essendo l’omonimo castello ciò che og-gi chiameremmo la casa madre della schiattae, come riferimento secondario, quello di unaroccaforte dove risiedeva in permanenza, oanche occasionalmente, un certo personaggiocui si riferisca un documento.

Pertanto i conti di Suvereto, di Forcoli, diFrosini e Miranduolo, di Castagneto, di Cam-piglia, di Segalari, di Biserno e di Montescu-daio e Guardistallo, rimangono pur sempredella medesima prosapia nota poi come quel-la dei Della Gherardesca in quanto signori diquelle terre, di comune proprietà parentale,che furono denominate La Gherardesca. Delresto, a più riprese ed in epoche diverse,membri della casata furono citati come contidi Pisa48, senza che ciò abbia mai significatouna vera e propria investitura di un tale titolo,e così può anche dirsi per gli altri titoli occa-sionalmente apparsi in alcuni documenti,quali quelli di conte di Capannoli, di Strido,di Cornino, di Bolgheri e di Casale.

È ipotizzabile che, nell’antichità, i Gherar-desca fossero più semplicemente noti a Pisacome i Conti ma che, diversamente dai Vi-

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49 AF, f. 100.

sconti che travasarono nel cognome l’origina-rio loro titolo di vice comes, i primi, nel for-giarsi il patronimo, anziché al titolo nobiliaredi comites, si siano richiamati ai loro avi piùillustri e rappresentativi che in gran numero sichiamarono Gherardo.

Che questa mia ipotesi non sia fantasiosa,lo confermano vari autorevoli storici e, informa quasi aneddotica, un processo che,nel 1590, i Gherardesca intentarono nei con-fronti di un certo Iacopo Conti di Lajatico a

«motivo del cognome ed arme della famigliaGherardesca usati da detto signore»49. Ilconvenuto aveva infatti formulato l’elemen-tare assunto che se i Visconti derivavano daivice comites, lui con il suo cognome di Contidoveva a buon titolo discendere dai comitese poteva quindi fregiarsi dei relativi simboli.Malgrado questa sua logica pseudostorica,Iacopo Conti perse la causa e di conseguen-za fu costretto a rinunziare alle sue velleità a-raldiche.

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1 Questo matrimonio, citato anche dal Repetti nel suo ben noto Dizionario, rappresenta un primo legame storico fra iGherardesca e i marchesi di Massa, discendenti dagli Obertenghi, che dominarono in Corsica e signoreggiaranno in seguitoil Giudicato di Cagliari.

2 REPETTI, op. cit., vol. V, pp. 490-94.

I conti di Suvereto

Suvereto è un paese della Maremma, untempo pisana ed oggi livornese, arrampicatosu di una collina ad est di Campiglia e collo-cato lungo l’antichissima strada che serpeggiaal disopra della vallata del fiume Cornia. Daquando il litorale tirrenico toscano prese adimpaludarsi per l’abbandono da parte dei co-loni delle sue fertili pianure, troppo soggettealle ormai frequenti scorrerie dei pirati sara-ceni, questa strada collinare era divenuta ilcammino più salubre e sicuro per chi avessevoluto viaggiare fra Pisa e Roma. A Suveretosopravvivono ancora vistose rovine di una po-tente rocca che nell’XI secolo fu dominata daiGherardesca.

Il ramo della famiglia che s’identificò con iltitolo di conti di Suvereto, ebbe origine daquel Rodolfo 2°, figlio di Tedice 1°, che con isuoi cinque fratelli fondò il monastero di S.Giustiniano di Falesia [tav. 3]. Dal conte Ro-dolfo 2°, detto forse Buonridolfo, nacque unUgo che sposò Iulitta, figlia del marchese Gu-glielmo di Corsica1 e questo conte Ugo è cita-to in un manoscritto del 1052, con cui egli ef-fettuò una sostanziosa donazione al monaste-ro di S. Pietro in Palazzuolo (di cui, tre secoliprima, era stato fondatore S. Walfredo, suoprobabile antenato).

Da Ugo e Iulitta nacque un figlio, anch’e-gli di nome Ugo, il quale sposò Teodorun-da di Ugo Alberto, signore di Montegrossoli,progenitore della casata Ricasoli. Di questo

secondo Ugo, conte di Suvereto, si narra cheda giovane militò nell’esercito della contessaMatilde di Toscana, combattendo anche con-tro l’imperatore Enrico IV. Più tardi peròtradì la contessa, passando a servire sotto leinsegne imperiali. Questa slealtà non deveperò stupirci più di tanto, poiché, analoga-mente a lui, agirono in quegli anni molti con-ti della Tuscia come pure vari Comuni, fracui Pisa che, partigiana prima dell’imperato-re, passò poi dalla parte di Matilde e di con-seguenza del papa, al solo scopo di ottenereda quest’ultimo che la Corsica ricadesse sottola giurisdizione religiosa del vescovo pisano.Ottenuto tale beneficio che, oltre ad elevaread arcivescovato la sua diocesi, offriva al co-mune pisano assai meno religiosi ma più pro-fittevoli risvolti economici, Pisa tornò a so-stenere Enrico IV ospitandolo persino fra lesue mura.

Secondo la genealogia del Litta, il ramo deiconti di Suvereto si estinse con questo Ugo,ma il Repetti accenna invece ad un suo fratel-lo, Rodolfo, che sposò un certa Ghisla e da leiebbe un figlio di nome Uguccione. Questi trepersonaggi appaiono in due documenti datatirispettivamente 28 dicembre 1104 e 12 gen-naio 11052. Nel secondo documento, Ghisla,con il consenso del figlio Uguccione, dona al-cuni suoi beni alla solita abbazia di S. Pietroin Palazzuolo. Dopo di ciò nient’altro ci è da-to sapere di questo ramo della prosapia, chedovrebbe essersi pertanto estinto nella primametà del XII secolo.

CAPITOLO SECONDO

I rami genealogici minori della famiglia

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Una grande casata guerriera del M

edio Evo

37L. da Vinci, Veduta dei castelli della costa pisana e del suo immediato retroterraProprietà real casa di Inghilterra

[fig. 4]

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38 I della Gherardesca

3 D. BARSOCCHINI, Memorie e documenti per servire all’istoria del Ducato di Lucca, R. Accademia di Lucca, Lucca 1841, p.242.

4 R. PESCAGLINI MONTI, Un inedito documento lucchese della marchesa Beatrice e alcune notizie sulla famiglia dei ‘domini’di Colle tra X e XI secolo, in AA.VV., Pisa e la Toscana occidentale nel Medioevo, Gisem-Ets, Pisa 1991, vol. I, p. 145.

5 D. BERTINI, Memorie e documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, Tip. Bertini, Lucca 1818, vol. IV, doc. III.

I conti di Forcoli

Forcoli era un castello, oggi trasformato invilla signorile, ubicato poco lontano dall’at-tuale paese di Capannoli ed eretto sulle piag-ge cretose al di sopra del fiume Era e del tor-rente Roglio. Di probabile origine romana(Castrum Furcolae), la sua posizione strategi-ca era eccellente poiché poteva controllare losbocco della Val d’Era ed affacciarsi nel con-tempo sulla valle inferiore dell’Arno, guar-dando verso Pontedera. Forcoli era inoltreun’importante cerniera di un’articolato com-plesso di roccheforti dominate dai Gherar-desca, che, dopo essersi esteso ad est finoquasi a raggiungere S. Miniato, si sviluppavalungo tutte le colline che da quest’ultima cit-tadina menano fin verso Volterra, fiancheg-giando il torrente Egola.

Il ramo della casata che si qualificò comeconti di Forcoli, ebbe origine da Guido 1°,fratello del menzionato Rodolfo 1°, conte diSuvereto [tav. 4]. Anche Guido 1° risultavafra i fondatori di S. Giustiniano di Falesia,ma a dispetto di questo suo atto esemplar-mente cristiano, non doveva essere in praticaun grande stinco di santo. È soprattutto ri-cordato infatti quale acerrimo avversario diGiovanni, vescovo di Lucca, e delle violentecontroversie fra i due ci tramandano memo-ria due membrane lucchesi del 1051 e del10523. Esse ci riportano che due nipoti delpredetto Guido 1°, Ugo e Tedice 3°, figli delconte Tedice 2°, s’impegnarono a fornire o-gni loro possibile sostegno al menzionato altoprelato, in tutto il territorio compreso fraPorcari e Roselle, nel caso che il loro parenteavesse insistito nel commettere soprusi alladiocesi lucchese, ed assicurarono inoltre dinon voler far pace con il loro turbolento ziosenza il preventivo consenso del vescovo.Non risulta se questi accordi ebbero praticaattuazione. Di Guido 1° si rintraccia ancorasolo una notizia in un documento del 1056,

nel quale egli figura donatore di alcuni suoibeni in Guardistallo.

Notizie più copiose si rinvengono invece disuo figlio, Guido 2°, che fu in effetti il primoad essere menzionato come conte di Forcoli.A quanto risulterebbe, egli continuò l’aggres-siva politica paterna nei riguardi del vescovodi Lucca della sua epoca, tanto da costringerela contessa Matilde di Toscana ad intevenireper ben due volte contro il suo «pur buon a-mico» Guido, al quale, fra l’altro, nel 1068, a-veva concesso l’investitura su alcune terre si-tuate in Usciana, non lontano da Forcoli [Ap-pendice, inserto 1, voce «Padule Actioni»]. Ilprimo intervento della contessa è sotto formadi un arbitrato del 1° gennaio 1071, con cuiella ingiunse a Guido di risarcire alcuni dannida lui arrecati ai possedimenti del vescovo; incalce a tale manoscritto4 si può anche leggereche il conte Guido, trovandosi a Pisa «in pa-latio», vendette al vescovo danneggiato i benie le chiese che il conte stesso possedeva in Pe-rignano, nel pisano, in cambio di un simboli-co anello d’oro. Credo che questo sia il primodocumento in cui si accenni ad un palazzo pi-sano dei Gherardesca. Il secondo arbitrato èdi epoca più tarda poiché redatto il 16 giugno1099; con esso venne imposto a Guido di re-stituire al vescovo lucchese Rangerio il castel-lo di Capannoli che il conte aveva usurpato5.E dire che Guido, poco prima di questo se-condo placito, e forse per espiare qualchepeccato di troppo, che si sentiva gravare sullacoscienza, fu per breve periodo in Terra San-ta, per assolvere ai suoi doveri di cristiano,partecipando alla crociata del 1096.

Se tutto sommato questo Gherardesca nonfu quell’anima pia che volle far credere facen-dosi crociato, d’indole totalmente diversa fusuo figlio Pietro, il quale invece divenne unecclesiastico di ragguardevole caratura. Di es-so vale la pena di sintetizzare la vita. Cappel-lano e scrittore di Sua Santità, conseguì giova-nissimo il galero cardinalizio che gli fu impo-

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40 I della Gherardesca

6 P. TRONCI, Memorie istoriche della città di Pisa, Forni, Bologna 1967, p. 58. 7 A.F. MATTEI, Historia Ecclesia Pisana, Venturini, Lucca 1768, vol. I, p. 204. 8 G. VOLPE, Studi sulle istituzioni comunali di Pisa, Nistri, Pisa 1902, p. 273; e W. HEYWOOD, A History of Pisa. Eleventh

and Twelth Centuries, University Press, Cambridge 1921. 9 DAVIDSOHN, op. cit., vol. I, p. 919.

ebbe un primo significativo successo, nel1190, con la nomina a podestà di Pisa delconte Tedice di Forcoli, figlio del menzionatoUgolino e di Gena Visconti.

Il Volpe, nelle sue Istituzioni comunali a Pi-sa, avalla l’attribuzione del podestariato a que-sto Tedice, pur doverosamente segnalando lacontemporanea presenza fra i Gherardesca dialtri due suoi omonimi: Tedice conte di Biser-no e Tedice conte di Segalari. Tedice di For-coli fu dunque il primo podestà di Pisa che lastoria ricordi; di lui si narra che fu guida ca-pace e prestigiosa per l’emergente città tosca-na, tanto da meritarsi la rielezione all’incarico,dopo la conclusione del suo primo mandato.Per quasi dieci anni, cioè fino alla vigilia dellasua morte, avvenuta poco prima del 1200, Te-dice fu il principale ispiratore della politica e-spansionistica di Pisa, cercando di conqui-starle sempre nuovi e più ricchi sbocchi dimercato. Nel 1192 e poi nel 1198 egli rinnovòinfatti vantaggiosamente i fondamentali ac-cordi commerciali fra Pisa e gli imperatorid’Oriente, Isacco Camneo e Alessio III, mol-to probabilmente avvalendosi nelle trattativedella collaborazione del suo consanguineo,Ranieri conte di Segalari, il quale, dopo averpartecipato alla crociata indetta nel 1188, ave-va preso dimora stabile in Costantinopoli, do-ve, fungendo in pratica da ambasciatore diPisa, era conosciuto come il conte dei pisani.

Tedice fu convinto assertore per Pisa di u-na politica filoimperiale, verso la quale dove-vano anche incoraggiarlo i suoi parenti del ra-mo di famiglia che, convenzionalmente, de-nominerò in seguito come quello dei conti diDonoratico. Nel 1192 egli dette così ospitali-tà cittadina all’imperatore Enrico VI, figlio diFederico Barbarossa; al monarca egli poifornì anche l’appoggio di navi ed armati pisa-ni nella spedizione contro Tancredi, re di Sici-lia. Per riconoscenza, l’imperatore riconfermòa lui, quasi a titolo di feudo ad personam9, tut-ti i privilegi che suo padre aveva accordati a

sto da papa Pasquale II6. Fu principe dellaChiesa anche sotto i pontefici Gelasio II, O-norio II e Innocenzo II, e di loro godette lastima fino ad essere inviato con l’incarico diLegato Apostolico in Corsica, nel 11207. Du-rante il papato d’Innocenzo II, Pietro commi-se però il grave errore di concorrere all’ele-zione degli antipapi Anacleto e Vittore. Penti-tosi, tornò in seguito all’obbedienza del legit-timo pontefice e fu da questi perdonato, po-tendo così morire, nel 1145, riconciliato conla Chiesa.

Dei vari fratelli di questo cardinale, si co-noscono i nomi, ma non vicende particolaridella loro vita, ad eccezione dei loro matri-moni. I conti Ranieri e Ugolino sposaronodue donne di casa Visconti mentre un altroloro fratello, Guido 3°, detto Malaparte, siammogliò con Galliana, figlia di Ermanno daUzzano. Sottolineerò ancora una volta chenei secoli passati gli imparentamenti fra le ca-sate più potenti rappresentavano una precisalinea di lettura da seguire per comprenderne idisegni politici, e, nel caso specifico, coglia-mo la conferma che, con il legame matrimo-niale di Guido 3°, i Gherardesca miravano amantenere un solido contatto con Lucca, ma,con gli altri due sposalizi, gettavano soprat-tutto un ponte verso Pisa, dove, a quell’epo-ca, i Visconti godevano di un’assoluta supre-mazia. Occorre ricordare che i Visconti de-rivavano da quei vice comites che Ottone I ritenne opportuno insediare a Pisa quandotrovò questa città abbandonata a se stessa daicomites, che avevano evidentemente preferitospostare il proprio campo d’azione verso di-stretti che, a quel tempo, apparivano più ap-petibili, come ad esempio quello volterrano.Ora invece, presagendo una decadenza politi-ca di Volterra, dominata del resto ormai daisuoi vescovi, i Gherardesca tendevano a riav-vicinarsi a Pisa, che già aveva avviato conbuon successo la propria espansione maritti-ma e mercantile8. Questo loro orientamento

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10 Il già menzionato documento del 1133 che riporta il lodo fra il vescovo Crescenzo Pannocchieschi e Gena Visconti,vedova di Ugolino, conte di Forcoli, menziona Tedice come se fosse tuttora minore e quindi soggetto alla tutela materna.

11 Nel Medio Evo si usava costruire le chiese al di fuori delle cinte murarie dei castelli, sia per sottolineare l’indipenden-za del clero dal potere del castellano, sia confidando nel fatto che nessun nemico avrebbe mai profanato un luogo sacro e in-difeso. Tracce della facciata della chiesetta di Donoratico sono ancora individuabili sul retro di un edificio rustico, oggi ri-strutturato in albergo.

12 AF, f. 5, n. 4, a. 1597. 13 Annali Camaldolesi, vol. III, pp. 50 e 162.

Pisa con il diploma del 1162. Inoltre il conteTedice fece ricostruire e rafforzare il castellodi Bonifacio, che controllava lo stretto dimare fra le isole di Corsica e Sardegna, tra-sformandolo in un munito covo di corsaripisani che per qualche tempo da lì operaro-no contro le navi genovesi che si avventura-vano in tali acque. A questo proposito biso-gna ricordare che, da alcuni decenni, Pisa a-veva iniziato una sua penetrazione politica inSardegna e quindi Bonifacio, in questa cor-nice, avrebbe rappresentato un importanteavamposto.

Tutta l’azione di questo Gherardesca fuquindi volta a valorizzare la potenza marinaradi Pisa, favorendone una sempre maggiore af-fermazione in tutto il Mediterraneo. Il presti-gio del conte Tedice fu rilevantissimo in tuttaItalia, tanto che nel 1198 il papa InnocenzoIII ritenne opportuno inviargli una propriaambasceria di due cardinali, per discutere unprogetto di riappacificazione generale dellaToscana. Per sfortuna dei suoi concittadini, e-gli venne però a morte alcuni mesi dopo,quando da poco doveva aver superato la set-tantina10.

Indole del tutto diversa da quella di Tedice,ebbe suo fratello Guido: quanto il primo si e-ra appassionato al governo della cosa pubbli-ca, altrettanto il secondo fu attratto da una vi-ta religiosa solitaria e contemplativa. Da gio-vanetto Guido abitò certamente nel castellodi Donoratico, che da sempre rappresentavala comune dimora parentale dei Gherardesca,e, affascinato dal selvaggio panorama boscosoche circondava la grande fortezza, decise for-se già da allora di ritirarsi in quelle selve percondurvi vita eremitica. A tempo debito dun-que indossò il saio e, abbandonato il fastodella casa paterna, scelse a sua dimora unapiccola grotta situata nella stretta vallata cheoggi si chiama di Santa Maria. La tradizione

popolare tramanda che egli fosse particolar-mente devoto alla Madonna e che, più voltetentato dal demonio, si affidasse alla Vergineper respingerlo, finché Satana, sconfitto, nonsprofondò in un baratro che da allora fu de-nominato Salto del Diavolo. Non si sa l’annoesatto in cui Guido rese la sua santa anima aDio, ma una leggenda racconta che, quandoegli morì, le campane delle chiese dei villaggivicini suonarono da sole, tutte assieme ed astormo. Il suo corpo venne tumulato nellacappella che sorgeva subito al difuori dellemura del castello di Donoratico11 ed ivi ripo-sarono ancor dopo che la fortezza venne rasaal suolo attorno al 1448.

Si narra che, uno o due inverni successivialla distruzione di Donoratico, nevicò nellazona con inconsueta copiosità e che due bo-scaioli trovandosi a transitare, proprio nelgiorno dell’Epifania, nei pressi del castello or-mai diruto, notarono, con loro grande stupo-re, una profumatissima erica completamentein fiore, a dispetto del gelo e del periodo sta-gionale inappropriato per una tale fioritura.Sotto le radici di questa miracolosa erica12

venne rinvenuto il corpo incorrotto dell’ere-mita Guido che con solennità, fu subito tra-sferito nella chiesa del castello Gherardescadi Castagneto. Nel 1451 le autorità di Pisa,venute a conoscenza dello straordinario rin-venimento, chiesero ai Gherardesca che ilcorpo del Santo venisse traslato nella prima-ziale pisana. Sei anni dopo, papa Callisto III,con un suo breve, approvò tale traslazione,che venne così effettuata nel 145913. In segui-to, e precisamente nel 1689, il corpo di Gui-do fu sistemato nell’altare di S. Ranieri, patro-no di Pisa. L’avvenimento fu poi celebratocon una tela che adornò le pareti del duomopisano e che oggi si trova nel Museo Naziona-le della città [fig. 5].

Dopo la scomparsa di Tedice e Guido, il

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42 I della Gherardesca

Gian Domenico Ferretti, Il trasporto delle reliquie del beato Guido della Gherardesca, Museo Nazionale, Pisa

[fig. 5]

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Una grande casata guerriera del Medio Evo 43

14 CATUREGLI, op. cit., doc. n. 558. 15 M. MACCIONI, Difesa del dominio dei Conti della Gherardesca, Riccomi, Lucca 1771, p. 29 [Sommario dei documenti]. 16 ASS, Kaleffo dell’Assunta, doc. del 19 settembre 1178.

ramo dei conti di Forcoli iniziò il suo declinofino ad estinguersi nell’arco di sole due altregenerazioni. Anche l’omonimo castello uscìdel resto, nel 1182, dai domini della famigliaGherardesca14.

I conti di Frosini e Miranduolo

Frosini, un castello oggi trasformato in villasignorile, era ed è eretto su di un poggio altoe scosceso dalla parte del sottostante torrenteFeccia; la fortezza sbarrava uno degli accessialla vallata del fiume Merse. La sua posizione,al confine fra il territorio volterrano e quellosenese, era quindi strategicamente rilevante,tanto più che rappresentava il fulcro di un si-tema fortificato dominato dai Gherardesca, dicui facevano pure parte le roccheforti di Pa-pena, Serena, Miranduolo e, forse, Chiusdi-no. Oggi di Papena rimane solo il nome attri-buito ad un casolare agricolo, mentre di Sere-na e di Miranduolo sono tuttora visibili alcuniruderi [Appendice, inserto 2]. Per quanto ri-guarda i Gherardesca, che per vari secoli si-gnoreggiarono questo distretto, nel quale era-no fra l’altro incluse le miniere d’argentopresso Montieri, non credo che mai sia esisti-to uno specifico ramo della casata che, senzasoluzione di continuità, si sia richiamato al ti-tolo di conti di Frosini e di Miranduolo.

Vero è invece che di tale titolo si fregiaro-no, di volta in volta, alcuni membri della casa-ta comitale, primo fra tutti Gherardo 2°, fon-datore del monastero di S. Maria di Serena.Ma Gherardo, morto attorno al 1014, non ri-sulterebbe aver avuto una propria discenden-za e da lui quindi non ebbe origine alcun seg-mento della schiatta Gherardesca.

Assai più tardi, invece, troviamo menziona-ti, come conti di Frosini, altri membri dellafamiglia che facevano parte del ramo dei con-ti di Forcoli. Essi sono citati in un lodo pro-nunciato da papa Innocenzo II, nel 1133, perdirimere una vertenza insorta fra Crescenzo

Pannocchieschi, vescovo di Volterra, e GenaVisconti, vedova del già menzionato Ugolinoconte di Forcoli, la quale, nella circostanza, a-giva in nome e per conto, non solo dei suoiquattro figli minorenni (Tedice poi podestà diPisa, Guido il santo, Pepone e Monaco), maanche di tutti gli altri Gherardesca15. Proba-bile ispiratore di detto lodo può darsi che siastato il cardinale Pietro, cognato di Gena.

I conti di Frosini sono nuovamente ricor-dati nel 1186, allorché sottomisero il propriocastello al comune di Siena, dopo che già nel1178 avevano donato al comune medesimo larocca di Miranduolo16. Infine un manoscrittodel 1204, conservato nell’Archivio di Stato diSiena, riporta il giuramento fatto da un Ghe-rardesca, conte di Frosini, ai Nove di Siena;altri documenti menzionano a più riprese, efino alla metà circa del XIII secolo, membridella casata comitale come signori del castel-lo, ma, come torno a ripetere, non credo pro-prio che si possa parlare di un preciso ramodella casata, bensì di un riferimento locale u-tile alla stesura di atti, ai quali di volta in voltaparteciparono membri diversi della schiattache annoverò Frosini e Miranduolo fra i pro-pri domini.

I conti di Castagneto

Castagneto, ridente paese a sud di Cecina,inerpicato sulla vetta di un colle olivato facen-te parte della prima serie di alture prospicien-ti al mare, sorse attorno alla roccaforte deiGherardesca in epoca certamente non troppodiversa da quella in cui fu edificato il grandecastello di Donoratico, situato poco distante.Il bastione castagnetano [fig. 6] costituì certa-mente una cerniera importante del sistemafortificato che la prosapia comitale realizzò inquesta zona, nell’Alto Medio Evo, per proteg-gere, il litorale e soprattutto il suo retroterradalle scorrerie dei Saraceni.

Fra i tanti castelli e le rocche di cui dispo-

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44 I della Gherardesca

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17 G. ROSSETTI, Pisa nei secoli XI e XII. Formazione e carattere di una classe di governo, Pacini, Pisa 1979, p. 104, nota 62.Cita il conte Alberto come canonico e visconte di S. Maria; G. VOLPE, Toscana medievale: Pisa, Sarzana, Massa Marittima,Sansoni, Firenze 1964, pp. 17-18, cita il conte Alberto come vescovo di Massa Marittima.

18 ASS, Cartapecore di Massa; e VOLPE, Toscana medievale, cit., p. 105. 19 AF, f. 98, a. 1308. 20 R. SARDO, Cronaca pisana dall’anno 962 al 1400, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1963, p. 180, n. 2.

nevano i Gherardesca nel territorio inclusofra i fiumi Cecina a nord e Cornia a sud, Ca-stagneto aveva la funzione di sbarrare la stra-da che, dall’acquitrinosa fascia costiera, mena-va e mena tuttora verso Sassetta, immettendo-si in quella via collinare che, come già spiega-to, rappresentava nell’antichità il collegamen-to più praticabile fra Pisa e Roma. Le finalitàmilitari di questa roccaforte furono chiara-mente ribadite nelle Capitolazioni in Acco-mandigia del 1405 fra i Gherardesca e Firen-ze, ma erano state precedentemente riconfer-mate dalla costruzione di una nuova torre cheil conte Lorenzo fece erigere nel XVI secolo edella quale conserva memoria una lapide an-cor oggi murata su di una delle pareti esternedell’attuale fabbricato ristrutturato in tempiassai più recenti e trasformato in palazzo resi-denziale. Quando, attorno al 1448, venne di-strutto il castello di Donoratico, l’abitato e lapopolazione di Castagneto registrarono un re-pentino incremento dovuto alla necessità didare asilo a tutti coloro che, avendo origina-riamente avuto le proprie case attorno al ma-niero fatto saltare dai Fiorentini, furono in-dotti a traslocare, preferendo avvicinarsi adun luogo più protetto da eventuali attacchi dinemici e soprattutto dalle scorrerie dei pirati,ancor frequentissime a quell’epoca.

Il ramo dei Gherardesca detto dei conti diCastagneto ebbe inizio nel XII secolo ad o-pera di un capostipite di nome Tancredi, fi-glio di Tedice 4°; dopo di lui, l’espansionenumerica di questo segmento della casatacomitale fu assai rapida, ma, a dispetto diciò, il suo peso politico rimase sempre infe-riore a quello di altri rami della famiglia. Acominciare infatti dai quattro figli maschidel conte Tancredi, poco o niente di loro citramanda la storia. Sappiamo solo che Al-berto fu canonico della Metropolitana di Pi-sa e, secondo alcuni studiosi17, anche vesco-vo di Massa Marittima, e che da Remone (o

Rainone) ebbero origine i conti di Campi-glia, ai quali accennerò fra breve. Degli altridue fratelli conosciamo solo i nomi; uno diessi, Ugolino, risulta che abbia sposato unadonna della nobile casata pisana dei Gualan-di, dalla quale nacque quel conte Gualandoche alcuni storici, credo a torto, dicono essermorto nel 1268 assieme al suo consanguineoGherardo, conte di Donoratico, quandoquesti fu giustiziato a Napoli con il giovanis-simo re Corradino di Svevia. Un cugino diGualando, Uguccionello, fu podestà di Pog-gibonsi nel 1225 e di Massa Marittima nel123018 ed un fratello di questi, Tancredi, eb-be per moglie Beatrice, figlia di Guglielmodi Collebarotti, discendente dall’antichissi-ma schiatta dei Gherardenghi di Garfagna-na. Infine nel 1308, il conte Andrea, figliodel precitato Gualando, fu generale dei Vol-terrani nella guerra contro San Gimignano19.

Dopo questi personaggi di modesto valorestorico, i conti di Castagneto, per alcuni de-cenni, svanirono dalla ribalta di una vitapubblica di un qualche peso ma non cessa-rono di tessere quella trama di complessi in-trecci matrimoniali che, all’epoca, costituiva-no le premesse ed il barometro delle ambi-zioni coltivate da un gruppo familiare. Aiprimi del XIV secolo vennero infatti allac-ciati o riallacciati nuovi legami con i Belfor-te, signori di Volterra, con le nobili casate pi-sane dei Gualandi, dei da Caprona, dei daCorvaja, dei della Rocca ed infine con la po-tente famiglia dei Gonzaga di Mantova. Ifrutti non tardarono a manifestarsi. Ed infat-ti i due fratelli, conti Dea e Giovanni, furonosenatori di Pisa, rispettivamente nel 1349 enel 1357; alcuni anni dopo, nel 137020, fu ilconte Gualando, figlio di quel Lorenzo cheaveva eretto l’ultima torre del bastione casta-gnetano, ad essere inviato ambasciatore deiPisani a Roma e poi, nel 1373, ad essere elet-to vicario nella città di Perugia, dove, fra

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herardesca

Ricostruzione pittorica della rocca e dell’antico borgo di Castagneto. Sulla sinistra si intravede SegalariProprietà Gherardesca

[fig. 6]

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21 AF, f. 153, a. 1374. 22 GUIDONE DA CORVAJA, Cronaca pisana.

che fu detto dei conti di Campiglia [tav. 6].Per questo riferimento vale quanto già ricor-dato precedentemente e cioè che l’aggiunta diun richiamo geografico al titolo di conte, co-mune a tutti i componenti della schiatta, nonaveva assolutamente valore di investitura feu-dale bensì di più agevole individuazione delterritorio operativo di un determinato nucleodella casata.

Un documento del 19 giugno 1139 riporta,ad esempio, che il conte Ildebrando di Biser-no cedette alla Mensa di Pisa la parte dei pro-pri possedimenti ubicati nel distretto di Cam-piglia, confermandoci in tal modo che anchequesto ramo dei Gherardesca vantava suoidomini nell’area. Altro manoscritto del 127422

ci narra di Preziosa dei conti di Campiglia an-data sposa a Veltro da Corvaja, ma questa fi-glia del conte Uguccionello di Castagnetonon faceva assolutamente parte di quel ramodella famiglia che si fregerà con continuità deltitolo in argomento a partire da Remone, ziodi Preziosa.

Da quanto sopra si può concludere che aCampiglia fecero riferimento pure altre ramifi-cazioni dei Gherardesca, anche se solo nelXIII secolo un particolare segmento della pro-sapia si richiamò ad esso con maggiore insi-stenza. I conti di Campiglia furono dunque o-riginati dal suddetto Remone e si protrasseroper appena quattro generazioni senza che nes-suno di essi ci abbia lasciato tracce d’impreserealizzate, o di cariche pubbliche ricoperte, odi significative alleanze matrimoniali contrat-te, salvo quella di un loro conte Lodovico conGhiga dei Belforti, signori di Volterra.

I conti di Segalari

Segalari era una rocca eretta su di un rilie-vo poco distante da Castagneto. Dell’origina-rio edificio non restano oggi tracce tali daconsentire una sia pur approssimativa rico-struzione immaginaria del suo primitivo a-spetto. L’attuale immobile è frutto infatti d’in-

l’altro, stese il suo testamento21. A questo punto è interessante evidenziare

che tutti questi incarichi vennero conferiti aiconti di Castagneto, solo dopo che si era con-clusa a Pisa la signoria dei loro parenti, contidi Donoratico; tale circostanza potrebbe in-durre a pensare che il precedente disimpegnodi questi Gherardesca fosse ricollegabile aqualche loro dissapore familiare o politicocon la più potente e ricca componente dellacasata.

La ripresa del ramo dei conti di Castagnetorisultò tuttavia di breve respiro, poiché essivennero falcidiati dalla grande pestilenza del1348 e questo segmento dei Gherardesca si e-stinse verso la prima metà del XV secolo, do-po aver peraltro fatto a tempo a ratificare gliaccordi del 1405 fra la Repubblica Fiorentinae la loro schiatta.

A seguito di tali intese la fortezza castagne-tana conservò le proprie originarie finalità di-fensive, ma poi, con il graduale venir menodei suoi antichi scopi militari, modificò il suoaspetto arcigno e turrito nelle più pacate sem-bianze di un «palazzo baronale» (come lo de-finisce il Repetti), che solo per l’abnormespessore dei propri muri ricorderà sempre ilvero fine per il quale questo bastione fu co-struito tanti secoli orsono.

I conti di Campiglia

Campiglia Marittima è oggi una cittadinacollinare che, affacciandosi verso la vallatadel fiume Cornia, guarda verso l’ampio golfodi Piombino. Un tempo sorgeva forse suquello che oggi è detto Monte di CampigliaVecchia, e probabilmente si trattava ancora diun piccolo castello, quando, nel 1004, il conteGherardo 2° della Gherardesca ne assegnò lapropria metà al monastero di S. Maria di Se-rena da lui fondato. La signoria della casatacomitale su Campiglia risale dunque ad unperiodo assai più remoto rispetto a quello incui s’individua quel ramoscello della prosapia

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23 W. HEYD, Histoire, vol. I, p. 265; VOLPE, Studi sulle istituzioni comunali di Pisa, cit., p. 326. 24 VOLPE, Studi sulle istituzioni comunali di Pisa, cit., pp. 345-47.

numerevoli ritocchi apportati nel corso di e-poche diverse, a seconda della destinazione divolta in volta attribuita alle sue strutture mu-rarie. In posizione isolata, rispetto al fabbrica-to principale, rimane invece ancora una delleoriginarie torri del castello. Come il vicino ra-mo dei conti di Castagneto, anche quello deiconti di Segalari [tav. 7] procedette da un fi-glio omonimo di Tedice 4°, da cui si dirama-rono due segmenti della progenie: quello diSegalari, al quale accennerò nel presente pa-ragrafo, e quello dei conti di Settimo, del qua-le tratterò più a lungo in seguito collegandonele vicende con quelle dei Gherardesca, contidi Donoratico e signori di Pisa.

Prima d’inoltrarmi però nel breve compen-dio della storia dei conti di Segalari, penso siaopportuno segnalare il matrimonio contrattodal loro capostipite, Tedice 5°, con Preziosa,figlia di Costantino Lacon Serra, giudice diCagliari. Occorre ricordare in proposito che,nel Medio Evo, la Sardegna era suddivisa inquattro regni, detti giudicati, dei quali quellodi Cagliari era di gran lunga il più esteso edimportante.

Il matrimonio fra Tedice e Preziosa rappre-sentò un primo significativo segno dell’inte-ressamento dei Gherardesca per la Sardegna eda quel momento l’influenza della casata co-mitale nell’isola si accentuò in misura vieppiùcrescente, fino a marcarne profondamente ol-tre un secolo e mezzo di storia. Di tutte que-ste vicende sarde parlerò fra non molto in unapposito capitolo, mentre ora mi limito soload illustrare i fatti che più specificatamente ri-guardano il ramo dei conti di Segalari.

Questo spezzone dei Gherardesca mise su-bito in evidenza due personaggi di ragguar-devole spessore: i fratelli Ranieri e Alberto,figli di Tedice 6°. Il primo, Ranieri, fu soprat-tutto un guerriero, ma, in un particolare mo-mento della sua vita, seppe anche dimostrarsiabile negoziatore in favore degli interessi pi-sani nel Medio Oriente. Ancor giovanissimo,egli partecipò, nel 1188, alla terza crociata inTerra Santa, distinguendosi per doti di corag-

gio in ogni battaglia a cui prese parte. Allaconclusione della crociata, Ranieri, affascina-to da quel mondo così diverso da quello incui era nato e vissuto, decise di stabilirsi aCostantinopoli e da lì, in buona sintonia conil suo consanguineo Tedice conte di Forcoli,eletto in quei medesimi anni podestà di Pisa,curò con successo i rapporti con gli impera-tori bizantini che, anche per merito suo, rin-novarono con Pisa quegli accordi commer-ciali che tanto interessavano alla Repubblicaper rafforzare la propria attività mercantile inOriente.

Nel 1201, però, quando ormai Tedice eradefunto, Ranieri compromise le sue buoneentrature a corte, favorendo la fuga in Occi-dente del principe Alessio, che intendevachiedere aiuti alle nazioni europee in favoredi suo padre, Isacco III, che era stato detro-nizzato dal fratello, Alessio III23. A seguitodi questa sua intromissione nelle faccendeinterne dell’impero, il conte di Segalari do-vette sloggiare in tutta fretta da Costantino-poli e rientrare a Pisa. Egli non era però uo-mo da stare con le mani in mano e così, nel1202, fu ancora alla ribalta comandando letruppe pisane che conquistarono Siracusa24,tenendola sotto loro controllo nei successividue anni. Poi, nel 1211, ancora Ranieri ca-peggiò una rivolta di coloni pisani che si erainstallati nell’isola e che, partigiani dell’im-peratore Ottone IV, si erano ribellati al gio-vanissimo Federico di Svevia, re di Sicilia, dapoco eletto anch’egli imperatore in contrap-posizione ad Ottone stesso. Questa volta tut-tavia la buona sorte abbandonò l’avventuro-so conte di Segalari: fatto prigioniero dai sol-dati di Federico, fu portato via con sé dalloSvevo nel marzo del 1212, quando questi,dopo aver eluso il blocco navale dei Pisani,si recò in Germania per farsi riconfermare lanomina imperiale e diventare quel FedericoII che tanta influenza poi ebbe nella storia i-taliana tutta, ma in particolare in quella pisa-na ed in quella della famiglia Gherardesca.Da tale forzoso viaggio Ranieri mai più fece

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25 AF, f. 98, aa. 1215 e 1226. 26 AF, f. 95, n. 14. 27 AF, f. 98, a. 1232. 28 AF, f. 99, a. 1434. Questo conte Alberto venne sepolto nella chiesa di S. Giovanni a Volterra. 29 AF, f. 98, aa. 1434 e 1459; e f. 99, a. 1434. 30 In un primo tempo i Ceuli vendettero ai Merlini di Castagneto e furono dunque questi ultimi a rivendere Segalari ai

Gherardesca.

ritorno e di lui si persero da quel momentole tracce.

Suo fratello Alberto privilegiò invece la cu-ra delle faccende di governo rispetto a quelleguerresche; fu infatti podestà di Volterra neglianni 1215 e 122625 e forse ancora una voltanel 1252, quando riuscì a sottomettere a Vol-terra il castello di Montevoltraio26. Nel perio-do intercorrente fra i suoi due ultimi mandatipodestarili, questo conte di Segalari ricoprì aPisa la carica di console nel 1235 e quella disenatore nel 1237. Alla sua morte, i volterra-ni, riconoscenti per i tanti servigi resi loro siain pace che in guerra da questo Gherardesca,vollero che a sua memoria fosse apposta unalapide nel battistero di Volterra, mentre il suostemma gentilizio ancor oggi adorna una dellefacciate dell’antico palazzo comunale, a ricor-do dei suoi podestariati.

Sulla base dell’albero genealogico stilatodal Litta, con inspiegabile avarizia per quan-to riguarda questo ramo dell’antica casata,nient’altro dovrei aggiungere alla storia deiconti di Segalari.

Tuttavia, questa volta, farò uno strappo allaregola impostami e mi riferirò ad alcuni docu-menti, nonché agli studi di altri genealogistipiù recenti, per segnalare le vicende di perso-naggi di questo segmento familiare trascuratidal Litta nella sua opera, malgrado che di varidi essi io abbia trovato precise tracce nell’ar-chivio Gherardesca, certo consultato anchedal Litta stesso. Compaiono così due podestàdi Campiglia, Bartolomeo e Giovanni, e unsenatore di Pisa, Coscio, tutti e tre figli di quelconte Gano che è ricordato per essere stato alcomando di una delle galee pisane che prese-ro parte alla sfortunata battaglia della Melo-ria. Inoltre risulterebbe anche che il conte Al-berto, quello che era stato podestà di Volter-ra, avesse avuto un figlio di nome Rinaldo chefu, a sua volta, podestà di Massa Marittima27.

Dopo questo personaggio non ho trovatoperò nient’altro di notevole che concerna iconti di Segalari e pertanto non mi resta chesegnalare che, nel 1434, il castello uscì par-zialmente dai domini dei Gherardesca, allor-quando un altro conte Alberto, morendo sen-za discendenza e non essendo più legato davincoli parentali di solidarietà patrimoniale,per essere state superate le sette generazionidall’avo in comune con i conti di Settimo, la-sciò erede della sua porzione di possesso il ni-pote Guglielmo Ceuli di Pisa28.

Venticinque anni dopo, Bartolomea, figliadel conte Duccio di Castagneto, a sua voltavendette ai Ceuli la propria caratura su Sega-lari che in tal modo uscì completamente daidomini della casata comitale29. In tempi assaiposteriori, i Gherardesca ripresero in affittodai Ceuli questi loro antichi possessi; a quel-l’epoca il castello era ormai stato destinato aduso agricolo. Di questa affittanza rimane,nell’archivio Gherardesca, il curioso contrat-to che fra le altre clausole, prevede l’annuaconsegna di alcuni maiali da portarsi... alleporte di Pisa o di Pontedera. Solo sul finiredel 1800, mio nonno Walfredo Tedice, dopoalcuni contrattempi30, riuscì a ricomprare Se-galari e subito pose mano alla ristrutturazio-ne, rimasta peraltro incompiuta, di quantoresiduava del corpo edilizio principale, orien-tandosi, secondo il gusto imperante a quell’e-poca, verso l’attuale discutibile aspetto neo-gotico.

I conti di Biserno

Biserno era una rocca ubicata nella partemeridionale di quelle alture che dal fiume Ce-cina si elevano parallelamente al mare fino alfiume Cornia e che per secoli furono detteMonti della Gherardesca. Di essa non riman-

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31 REPETTI, op. cit., vol. I, pp. 328-29. 32 VOLPE, Toscana medievale, cit., p. 32.

gono oggi nemmeno i ruderi, anche se è opi-nione generale che dovesse trovarsi situata adest dell’attuale paese di S. Vincenzo, in zonaoggi occupata dalle cave della Solvay.

La memoria più antica di questa roccaforterisale ad un documento in essa redattonell’anno 80131, ed il dominio dei Gherarde-sca sulla medesima è attestato dall’atto di fon-dazione del monastero di S. Maria di Serenanel 1004, quando il conte Gherardo 2° men-ziona la propria metà della «corte di Biserno»[tav. 8]. In seguito un ramo della grande casa-ta comitale si fregiò del titolo di «conti di Bi-serno»; questi Gherardesca, trovandosi a di-fendere il lembo meridionale dei domini fa-miliari, più che verso Pisa, gravitarono, grada-tamente nel tempo, prima verso Massa Marit-tima e poi, in ultimo, verso Siena, quandoquesto comune estese la propria influenzasulla Maremma Massetana. In Pisa, infatti, iconti di Biserno, pur possedendovi torri e pa-lazzi nel quartiere di Chinseca come altri ramidei Gherardesca, ebbero influenza e poteri li-mitati. Per questa loro «marginalità», da alcu-ni storici è stata persino ventilata l’ipotesi cheessi non appartenessero nemmeno alla stessastirpe longobarda dei Gherardesca, ma è pro-prio richiamandosi a tale origine che si puòinvece meglio comprendere l’effettiva posi-zione di questo spezzone della famiglia rispet-to al restante parentado.

Per l’editto di Rotari, infatti, un nucleo fa-miliare era considerato tale fino alla settimagenerazione, partendo da un antenato comu-ne. Orbene nel caso dei conti di Biserno, par-tendo da Gherardo 5°, progenitore in comu-ne con altri Gherardesca, le generazioni delsegmento andarono ben oltre il suddetto limi-te e pertanto, secondo la legge longobarda ri-spettata dalla loro schiatta, essi, ad iniziaredall’ottava generazione, non furono più ob-bligati da vincoli di proprietà e di solidarietàfamiliare con coloro che rimanevano a farparte dell’originario nucleo parentale.

Solo in questo senso dunque i conti di Bi-serno potevano considerarsi distaccati dal

ceppo principale della prosapia, con la qualeperaltro essi seguitarono ad avere intensi rap-porti sia per la contiguità dei rispettivi terri-tori in Maremma che delle proprie torri inPisa.

Il ramo dei Biserno fu abbastanza fronzuto,ma, a dispetto di tale rigoglio, i suoi perso-naggi degni di nota non furono molti. Il pri-mo ricordato dalla storia fu il conte Ildebran-do 2°, che nella guerra fra Pisa e Lucca del1171, fu «signifer et vexillifer»32 dei Pisani.Anche suo figlio Tedice fu fra i condottieri intale conflitto, e poi partecipò anche alla guer-ra contro Genova, controfirmandone la pacedel 1188. Inghiramo 1°, nato da detto Tedice,fu forse podestà di Volterra nel 1210, ma diquesto evento ho solo trovato un accenno manessun documento certo, ed il conte Iacopo,suo figlio, fu senatore di Pisa nel 1241. Pochianni prima, e più esattamente nel 1237, erastato firmato un solenne accordo di riappaci-ficazione fra i Visconti, i Gherardesca e variecomunità del contado di Pisa. Fra i firmataridel documento figurarono due conti di Biser-no: il summenzionato Iacopo che, per esseredi tendenze guelfe, si allineò con i Visconti, esuo fratello Guglielmo che, da buon ghibelli-no, si associò invece al comune di Pisa assie-me agli altri componenti della schiatta Ghe-rardesca. Questo conte Guglielmo sarà poiinviato in Sardegna come vicario della Repub-blica Pisana ma di lui parlerò nuovamente atempo debito.

Il personaggio storicamente più rilevantedei da Biserno è, senza ombra di dubbio, ilconte Inghiramo 2°, che, convinto assertoredel partito guelfo, fu sostenitore del dantescoconte Ugolino, quando questi cercò di orien-tare la politica pisana verso una maggiore in-tesa con i confinanti comuni della TagliaGuelfa. Quando infatti Ugolino fu esautoratoed imprigionato dai suoi avversari, Inghira-mo fu il solo a tentare di portargli concretoaiuto; mosse infatti guerra a Pisa, ponendosiin marcia contro di essa alla testa delle suetruppe. Come prima iniziativa egli strappò ai

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Palazzotto dei conti di Biserno nella piazza del duomo di Massa Marittima

[fig. 7]

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33 AF, cartapecora n. 51. 34 E. CRISTIANI, Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa. Dalle origini del podestariato alla signoria dei Donoratico, Istituto I-

taliano di Studi Storici, Napoli 1962, p. 386.

Pisani il castello di Vada, lasciandoselo allespalle custodito da una sua guarnigione. Ag-girando poi i monti del Gabbro, si portò nel-la piana di Collesalvetti, onde investire Pisada posizione strategicamente più favorevole,ma lì trovò ad attenderlo Conticino de’ Pan-nocchieschi, che aveva invece condotto i pro-pri armati a sostegno dei ghibellini pisani, ne-mici di Ugolino. Nello scontro violento chene seguì, la vittoria arrise al conte di Bisernoma il successo d’Inghiramo non valse a salva-re il suo consanguineo che nel frattempo si e-ra spento con i suoi familiari nella tragicaTorre della Fame. Fallito il suo progetto, adInghiramo non rimase allora che rientrarenelle sue terre e, in seguito, far pace con Pisa,cui restituì anche il castello di Vada.

Questo bellicoso personaggio sarà di nuo-vo alla ribalta quando, nel 1296 e nel 1297,venne nominato Capitano Generale della Ta-glia Guelfa e cioè della lega che univa fra diloro i vari comuni toscani di tendenza guelfa.La radicata fede politica d’Inghiramo si scon-trò dunque ancora una volta con il risorgenteghibellinismo pisano; e così, nel 1296 prima enel 1304 poi, Pisa attaccò la rocca di Biserno,sottoponendola ad assedi che probabilmentecostituirono l’avvio della sua completa distru-

zione. In effetti Inghiramo 2° morì nel 1313,non già a Biserno bensì a Massa Marittima, dicui era divenuto cittadino e nella quale posse-deva una casatorre che ancor oggi si può am-mirare nella splendida piazza principale dellacittadina [fig. 7]. Egli fu solennemente sepol-to nel duomo di Massa Marittima, e sulla pa-rete esterna destra della chiesa fu apposta unalapide per tramadare ai posteri la memoria diquesto grande guerriero.

Dopo la sua scomparsa, seguirono altre tregenerazioni dei conti di Biserno ed alcuni diessi sono menzionati nella pace che fu stipula-ta nel 1329 fra Pisa, Firenze e Massa Maritti-ma. Verso la metà del XIV secolo, questo ra-mo della casata però si estinse ed i suoi posse-dimenti, non più vincolati da solidarietà pa-rentale, si dispersero in gran parte al di fuoridel dominio della prosapia d’origine, anche serimane notizia che il conte Duccio di Casta-gneto acquistasse, nel 1334, varie terre in Bi-serno nei pressi della rocca o di quanto di essarimaneva33. Altri documenti34 accennano an-che a locazioni, compere e spartizioni di beniche furono dei conti di Biserno, ma nessunanotizia certa ci è mai pervenuta di quando eperché la rocca venne completamente rasa alsuolo.

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1 Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, Utet, Torino 1987, vol. VII, p. 580.

Il castello di Donoratico e l’autonomia dei Gherardesca in Maremma

Un’ipotesi suggestiva farebbe derivare ilnome di Donoratico da «Dominus hierati-cus» e cioè da S. Walfredo in quanto «signoreieratico (sacerdotale)». Forse però la denomi-nazione che fu data al grande castello deiGherardesca, eretto fra il X e l’XI secolo so-pra uno sprone collinare prospiciente al ma-re, a sud di Castagneto, trova il suo vero eti-mo in «Domno-ra-aticus» e cioè «Residenzadei signori». Che sia corretta o meno que-st’ultima etimologia, resta comunque di fattoche Donoratico rappresentò per secoli il sim-bolo del potere della prosapia dei Gherarde-sca ed il perno fondamentale di quell’articola-to sistema di fortificazioni che la schiatta co-mitale si costruì a difesa dei propri domini. Ilcastello, da posizione quasi baricentrica, con-trollava infatti quel territorio, compreso fra ifiumi Cecina e Cornia, che fu signoria dellacasata comitale per tutto il Medio Evo e cheanche nell’Evo Moderno conservò peculiaricaratteristiche di vero e proprio stato indi-pendente entro i confini medesimi del Gran-Ducato di Toscana. Tale aspetto dell’enclavein argomento è stato del resto chiaramente e-videnziato, nel corso dei secoli, da documentie fatti che di seguito elencherò brevemente,riservandomi, per alcuni di essi, una trattazio-ne più ampia e dettagliata in altra parte diquesto lavoro.

1/ Con il diploma imperiale del 6 aprile1162, Federico I, detto il Barbarossa, assegnòa Pisa la sovranità, peraltro in gran parte pla-tonica, sui territori litoranei tirrenici da Por-

tovenere a Civitavecchia. In detto diploma,tuttavia, si evita con cura di menzionare, qualioggetto di tale imperium, località compresefra i fiumi Cecina e Cornia, a dispetto del fat-to (e forse proprio per il fatto) che in tale ter-ritorio ricadessero castelli e rocche dell’im-portanza di quelle dei Gherardesca. In base atale assegnazione, la giurisdizione di Pisa po-teva estendersi su tutto quanto essa avesseposseduto «toto retro trigintas annos» ed èquindi evidente che la formula escludeva queidomini sui quali i Gherardesca vantavano an-tichissime origini allodiali.

Una spiegazione di tutto ciò la fornisceMaria Sacerdotti nel suo saggio Il diploma diFederico Barbarossa ai Pisani [Mariotti, Pisa1924, p. 17], quando non può fare a meno dirilevare che, a fronte del contado vero e pro-prio dominato da Pisa, esisteva un «vetus co-mitatus» sul quale dominavano invece i contiGherardesca. Anche Michele Luzzatti, in unsuo studio apparso nella Storia d’Italia a curadi G. Galasso, nel disquisire sulla nascita delcomune di Pisa, ci conferma che dalla giuri-sdizione del comune pisano, rapidamente e-stesasi in tutto il contado, si preservarono pe-raltro alcuni «grossi complessi signorili comeè il caso dei Gherardesca» che conservaronouna «speciale giurisdizione» sui territori ma-remmani da loro dominati1.

Per meglio intendere il processo che si svi-luppò nell’Alto Medio Evo, con l’espandersidel potere di quei comuni nel cui contado ri-cadevano i possessi dell’antica schiatta comi-tale, e comprendere le ragioni per cui alcunidi questi domini si preservarono dagli effettidi tale espansione, rinvio il lettore ad un esa-

CAPITOLO TERZO

Le prime generazioni dei conti di Donoratico

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2 SCHNEIDER, op. cit., doc. 313. 3 AF, cartapecora n. 51; e f. 58, n. 6, a. 1414. 4 M. LUZZATI, Firenze e l’area toscana, in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, Utet, Torino 1987, vol. VII, p. 669; e Ap-

pendice, inserto 3.

me dell’inserto 2 dell’Appendice al presentelavoro ed in particolare alla cartina geograficache ne fa parte. Sarà con essa facile visualizza-re come l’enclave fra la Cecina ed il Cornia sitrovasse assai defilato rispetto a tutti i più im-portanti comuni toscani dell’epoca (Volterra,Pisa, Siena ed infine Firenze), e quindi lonta-no dalle loro brame espansionistiche. Da que-sto dato di fatto, non sarà difficile compren-dere il motivo per cui i Gherardesca poteronoin tale territorio mantenere a lungo la loro au-tonomia giurisdizionale.

2/ In base ad un documento del 22 luglio12132, i Gherardesca, agendo in assoluta indi-pendenza, sottoscrissero un trattato di allean-za con Gullo, podestà di Volterra, impegnan-dosi a difendere tale comune nel caso fossestato aggredito da un qualche nemico, a pattoche esso si astenesse dall’intraprendere azioniostili ai danni di Pisa. Incidentalmente segna-lo che l’accordo venne stipulato a nome ditutta la «domo Gherardesca», rivelandoci chequesto cognome della schiatta era già in usoin quella lontana epoca.

Non si vede proprio come la casata comita-le avesse in tal modo potuto agire se fossesoggiaciuta alla giurisdizione di Pisa stessa,oggetto invece, in questo caso, della «prote-zione» dei Gherardesca.

3/ In tempi assai successivi, l’indipendenzadei Gherardesca venne sancita dalle «Capito-lazioni in Accomandigia» stipulate nel 1405fra la Repubblica Fiorentina e la casata comi-tale, senza che alla firma di questo fondamen-tale patto intervenisse alcun altro soggettoche potesse vantare diritti sul territorio che,da sempre, era di esclusiva signoria dei Ghe-rardesca stessi.

4/ Ulteriore riprova dell’autonoma posizio-ne dei Gherardesca rispetto a Pisa, provieneda un documento del 12 giugno 14143, suc-cessivo pertanto alle «Capitolazioni», nel qua-le, in occasione di alcune sanzioni inflitte daifiorentini ai pisani, si escludono dalle medesi-me tutti i domini dei Gherardesca, dettaglia-

tamente delimitati nel precitato trattato del1405, ribadendo con tale delibera la loro par-ticolare indipendenza.

5/ Dal 1405 sino a ben oltre la metà del1700, i Gherardesca, a più riprese e sempreottenendone soddisfazione, richiamarono laRepubblica Fiorentina prima, la Signoria diFirenze poi ed infine il Granducato di Tosca-na, al rispetto delle varie clausole dell’Acco-mandigia, e ciò ogni qual volta esse vennerodisattese dalle autorità fiorentine4 che con iltrascorrere dei secoli, sopportavano con sem-pre maggior insofferenza le pastoie imposteda questo antico trattato di «durata perpe-tua».

6/ Questa situazione di autonomia fiscale,militare e, in parte, giurisdizionale, bene omale si protrasse senza intralci fino al 1766 ecioè fino all’arrivo a Firenze del diciottennegranduca Pietro Leopoldo I di Lorena, figliodell’imperatore Francesco I e di Maria Teresad’Austria. Il giovane principe, con inaspettatozelo, pose subito mano ad una sostanziale o-pera di svecchiamento del suo nuovo Statoche la fiacchezza degli ultimi Medici e la lun-ga inerte reggenza per tutto il periodo duran-te il quale Francesco I, solo nominalmente, e-ra rimasto granduca di Toscana ma in realtà siera solo dedicato alle cure dell’impero au-striaco, non avevano certo contribuito ad ade-guare alle mutate esigenze dei tempi. Fra glialtri provvedimenti, miranti al riordino del-l’amminstrazione statale, Pietro Leopoldo de-cise quello di un aggiornamento del catasto ditutte le proprietà fondiarie. Per far ciò eglipartì dal «Libro dei Feudi», istituito da suopadre con una legge promulgata nel 1749,quando, per soli tre mesi (prima di essere e-letto imperatore d’Austria), egli fu di personaa Firenze in qualità di primo granduca di To-scana della famiglia Lorena.

Fu a quel momento che Pietro Leopoldoconstatò che i Gherardesca, pur proprietari divastissime tenute nella Maremma Pisana, nonfiguravano fra gli inscritti in tale libro e che,

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5 Nel 1340, in piena signoria dei Gherardesca, Pisa inviò propri capitani a Castagneto, Bolgheri e Donoratico. Nel farquesto, era evidente che si intendeva solo rendere un servigio ai propri signori. Peraltro due anni prima [G. ROSSI SABATINI,Pisa al tempo dei Donoratico (1316-1347), Sansoni, Firenze 1938, p. 69] era stato costruito un ponte sul fiume Cecina alle cuitestate erano state apposte, da un lato, le armi del comune di Pisa e, dall’altro, quelle dei Gherardesca quasi a segnare il con-fine fra i due stati diversi.

per di più, nei loro domini essi esercitavanoun autonomo potere che costituiva un indub-bio problema per un corretto ed autorevolefunzionamento di un governo centralizzato,così come lo concepiva il giovane granduca.Egli ingiunse allora ai Gherardesca di produr-re, in tempi ristrettissimi, i titoli che compro-vassero la natura allodiale (e non feudale) deiloro possedimenti. Allo straniero Lorena talenatura non appariva infatti altrettanto chiaradi quanto sempre fosse apparsa, in passato, aitoscanissimi suoi predecessori Medici. Fu intal modo avviata una controversia giudiziaria,peculiare nel suo genere, il cui esito, come ve-dremo in altra parte di questo lavoro, andòprofilandosi talmente incerto ai fini delle in-tenzioni ammodernatrici del granduca, daconsigliarlo a… tagliar corto. Prima pertantoche venisse emmessa dalla magistratura unasentenza sfavorevole ai suoi desiderata, PietroLeopoldo, nel 1775, promulgò un rescritto (omotu proprio) con il quale impose ai Gherar-desca d’iscriversi nel famoso «Libro dei Feu-di» e di ricevere di conseguenza formale inve-stitura feudale per quei domini che in realtà e-rano pervenuti loro, nell’Alto Medio Evo, perconquista longobarda ed erano quindi di na-tura allodiale. I Gherardesca, consci dell’inuti-lità e dell’impossibilità di continuare a contra-stare, come per il passato avevano fatto, l’a-vanzare dei tempi nuovi, accettarono a malin-cuore il diktat granducale e, dopo dieci secoli,persero così le ultime prerogative di governoautonomo che ancora godevano nella loroContea, in forza del trattato del 1405.

Anche se giuridicamente discutibili, le ra-gioni del granduca erano comprensibilissime,poiché l’autonomia di questo enclave mal sicontemperava con gli schemi di un’ammini-strazione statale più moderna, e rappresenta-va soprattutto un pericoloso, e talvolta esplo-sivo, elemento d’attrito fra i Gherardesca ed iloro sudditi delle comunità presenti nellaContea.

7/ La posizione di autonomia signorile go-duta dalla schiatta comitale, è anche compro-vata dai tanti matrimoni da essa contratti conprosapie regnanti, che li consideravano dun-que loro pari grado. Basti citare, in primis, idue sposalizi con la casata imperiale degliHohenstaufen, e poi quelli con i Gonzaga diMantova, i Medici di Firenze, i Carraresi diPadova, i Pio di Carpi, gli Appiano d’Arago-na di Piombino, i Belforti di Volterra e i Ca-stracane degli Antelminelli di Lucca.

È dunque verità difficilmente confutabileche nel Medio Evo i Gherardesca gestirono inassoluta indipendenza i loro domini marem-mani, dai quali, per secoli, trassero i soldatiper i loro eserciti, dei quali curarono in pro-prio la difesa e nei quali esercitarono unacompleta giurisdizione sia civile che penale,quest’ultima parzialmente ridotta nel 1405,quando la famiglia comitale si raccomandò al-la Repubblica di Firenze. È vero peraltro che,prima di allora, la Repubblica Pisana si eratalvolta intromessa nella signoria dei Gherar-desca sul loro territorio; ciò deve però inter-pretarsi non già come un fatto sostanziale, mapiuttosto come un atteggiamento formale vo-luto ed accettato dai Gherardesca stessi peropportunità politica5, e consigliata dalla ne-cessità di non apparire stranieri agli occhi deiPisani, nei cui affari di governo i conti ma-remmani, per secoli, vollero intromettersi.

I conti di Donoratico da Gherardo 3°a Gherardo 5°

Ma torniamo ora a Donoratico, cioè a quel-la grande fortezza di cui oggi rimane solo iltroncone di una delle torri ed alcune traccedelle cinte murarie. Come ho già avuto mododi spiegare, tutti i componenti della prosapiaGherardesca, e non solo quindi uno specificoramo della medesima, sempre si qualificaronocome conti di Donoratico. È pertanto unica-

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6 MACCIONI, op. cit., p. 15-22 [Sommario dei documenti]. 7 AF, f. 99, a. 1114.

mente per esigenze narrative che io indicheròcome tali solo i membri di quello spezzonedella schiatta che ebbe origine dal conte Ghe-rardo 3°, figlio di Tedice 1° e di Berta Aldo-brandeschi.

Per la verità, in un primo momento, avevopensato di accennare a questo segmento dellacasata comitale come a quello dei «Gherarde-schi», così come in effetti furono chiamati allaloro epoca, poiché fu appunto con essi che siconsolidò il cognome che portiamo tutt’oggi.In ogni loro generazione figura infatti almenoun Gherardo e vari di tali Gherardi furonostoricamente famosi. Ho tuttavia conclusoche nessuno meglio di questi «Gherardeschi»potesse riconoscersi nell’originario titolo no-biliare comune, e solo per essi dunque ho vo-luto adoperare questo riferimento.

Come accennato, il capostipite del ramo fuil conte Gherardo 3°, fondatore con gli altrisuoi cinque fratelli del monastero di S. Giu-stiniano di Falesia. Per le prime due genera-zioni, la sua discendenza non ci ha lasciatotracce di un qualche rilievo e bisogna pertan-to arrivare fino al conte Gherardo 5° per tro-vare argomenti d’interesse storico da riporta-re. Prima occorre però ricordare che, a metàdell’XI secolo, reggeva Napoli il duca SergioV e che attorno al 1076, egli venne attaccatodal normanno Roberto il Guiscardo e da Ric-cardo, principe di Capua, i quali cinsero in u-na morsa la città partenopea sia da terra chedalla parte del mare. La resistenza di Napolinon avrebbe pertanto potuto protrarsi a lun-go, se non le fosse venuta in soccorso Pisa,che, con una sua flotta, ruppe l’assedio marit-timo e tolse il duca e i suoi sudditi da una si-tuazione alquanto critica. Questo interventopisano fu dettato dall’interesse della Repub-blica Marinara che, per i propri traffici com-merciali, in Napoli poteva contare su di unaben attrezzata base portuale d’appoggio, sen-za dover temere concorrenza alcuna da partedei partenopei che non disponevano né diun’adeguata flotta né di una tradizione mer-cantile confrontabile con quella di Pisa. È

possibile che Gherardo 5° abbia partecipato aquesta spedizione guerresca, ma è comunquecerto che egli era stato a Napoli anche alcunianni prima, e più esattamente nel 1059, allor-ché figurò fra i «grandi» che assistettero al si-nodo tenuto a Benevento da papa Niccolò II.

Fu pertanto in una di queste due circostan-ze che egli ebbe modo di conoscere e di spo-sare Stefania, figlia del duca Sergio, assiemealla quale, attorno al 1090, egli fondò poi, aMontescudaio, il convento di S. Maria persuore benedettine, dotandolo, secondo l’usodei tempi, di consistenti suoi beni6.

Il conte Gherardo 6° e la conquista delle Baleari

Gherardo e Stefania procrearono numerosifigli, dei quali uno, Ildebrando 1°, fu il capo-stipite del ramo dei conti di Biserno, ed un al-tro, Gherardo 6°, fu uno dei dodici condottie-ri che, nel 1113, guidarono i Pisani alla vitto-riosa conquista delle isole Baleari, nelle quali iSaraceni avevano impiantato alcune potentibasi, da cui partivano per effettuare scorrerielungo le coste spagnole, francesi ed italiane.Nel corso delle battaglie che si combatteronoper tale conquista, Gherardo 6° ebbe modo didistinguersi per coraggio e capacità di coman-do, tanto che, rientrato a Pisa dopo la favore-vole conclusione della guerra, fu prescelto afar parte degli ambasciatori inviati a papa Pa-squale II a Roma, per informarlo del buon esi-to della spedizione contro i mussulmani7.

Il conte Gherardo 7°, alleato di FedericoBarbarossa

Gherardo 6° si era sposato con certa Ade-lasia di Guidalduccio e da lei aveva avuti trefigli maschi: Ranieri, Enrico e Gherardo 7°.Quest’ultimo fu un altro personaggio di cui lastoria ci ha tramandato le gesta.

Nel 1158 egli comandò le milizie che Pisa

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8 DAVIDSOHN, op. cit., vol. I, p. 698. La borgata di S. Genesio era situata in una vasta pianura presso S. Miniato. Costitui-va un luogo di agevole accampamento situato in posizione quasi baricentrica rispetto alle principali città toscane e sin daitempi di Enrico III fu prescelto quale sito ideale per importanti convegni.

9 A. BOSCOLO, La Sardegna dei Giudicati, Edizioni della Torre, Cagliari 1979, p. 53; e AF, f. 153, a. 1234.

inviò in aiuto all’imperatore Federico I, dettoBarbarossa, impegnato nell’assedio di Milano.Le cronache riportano che proprio per l’ini-ziativa ed il valore di Gherardo 7°, fu resapossibile la conquista di Crema da parte delleforze imperiali. Poi, come capo della consor-teria dei Gherardesca, partecipò alla Dietaconvocata il 20 marzo 1160 a S. Genesio8.Nel 1171 fu fra i condottieri nella guerra chePisa mosse a Lucca onde evitare che questocomune riuscisse a controllare il porticciolodi Motrone, in Versilia, che, nei disegni deiLucchesi, avrebbe dovuto diventare concor-rente di quello pisano in foce d’Arno. Nel1173, sempre Gherardo guidò un’ambasceriainviata da Pisa all’imperatore Federico Barba-rossa e, nel medesimo anno, fu uno dei «gran-di» che assistettero il monarca stesso all’attodella firma del diploma imperiale con cui fu-rono riconfermati alcuni privilegi ai Canonicidi Pisa; in tale circostanza il Gherardesca ven-ne citato come «comes di Pisa». Infine nel1175 fu fra i delegati che parteciparono alletrattative di pace con Genova. Sposatosi inetà avanzata con Adelasia della potente fami-glia genovese dei Grimaldi, egli ebbe da leiun’unica figlia che andò sposa al senese conteEmanuele Pannocchieschi.

I conti Enrico e Ranieri, fratelli di Gherardo 7°, e le loro discendenze

I due fratelli di Gherardo 7°, Enrico e Ra-nieri, in fatto di eredi maschi, furono più for-tunati. Dal primo, noto come conte di Strido(una rocca che i Gherardesca dominavanonell’alta Val d’Era) conosciamo il nome didue figli: Walfredo, già menzionato nel primocapitolo, e Aliotto, da cui proverrà, come ve-dremo, una progenie che darà molto lustro al-la casata comitale.

L’altro fratello di Gherardo, Ranieri, nonlasciò tracce importanti della sua vita, salvo

quella di aver partecipato anche lui alla guer-ra del 1171 fra Pisa e Lucca; di lui sappiamoanche che ebbe quattro figli maschi e che dauno di essi, Enrico detto Enrigetto, ebbe ori-gine un’altra progenie collaterale dei conti diDonoratico, estintasi solo nel 1348 a seguitodella mortifera peste nera che in tale anno fla-gellò Pisa e il contado. Questi conti di Dono-ratico furono, come vedremo, a volte alleatied a volte antagonisti di quel loro ramo piùimportante che ebbe modo di distinguersi inSardegna, e, soprattutto, di raggiungere la si-gnoria su Pisa.

Ranieri, conte di Bolgheri, detto «il Piccolino»

Della discendenza di Enrigetto avrò mododi riparlare estesamente, mentre mi limiteròora a tratteggiare la vita di due personaggi as-sai interessanti, che di Enrigetto erano nipoti.

Il primo è Ranieri, figlio di Ugolino, cheamò qualificarsi come conte di Bolgheri mache fu soprannominato «il Piccolino», forseper la sua ridotta struttura corporea ma noncerto per il notevole livello delle imprese dalui compiute. Da giovane, Ranieri fu castella-no della città di San Miniato, da dove, dopoesser rimasto vedovo di una prima moglie,della quale non è dato sapere né il nome né lafamiglia di provenienza, nel 1232, partì per laSardegna per guerreggiare contro i Visconti;questi infatti, con i loro alleati da Capraia, o-steggiavano Benedetta, alleata di Pisa e deiGherardesca nonché figlia di Guglielmo diMassa [tav. 10], alla cui morte era subentratanel governo del Giudicato di Cagliari. Secon-do Alberto Boscolo9 ed altri storici, Raniericondusse con sé nell’isola, non solo suo figlioLamberto (di cui inspiegabilmente non esistetraccia nella genealogia redatta dal Litta), maanche un giovanissimo congiunto di nome U-golino, che la storia renderà famoso soprat-

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10 Secondo genealogisti diversi dal Litta, la beata Gherardesca era invece figlia del conte Uguccionello di Castagneto,mentre Gherardesca, figlia di Gherardo, sarebbe andata sposa ad Inghiramo 1°, conte di Biserno, così come riporta un do-cumento menzionato da VOLPE, Studi sulle istituzioni comunali di Pisa, cit.

11 AF, f. 103, n. 161/2. 12 AF, f. 98, a. 1260. Tommaso Mini, camaldolese, ne parla nel suo Catalogo dei Santi e dei Beati dell’Ordine edito nel se-

colo XVII.

tutto per la drammatica morte per fame eche, accompagnando il conte di Bolgheri, fe-ce la sua prima conoscenza dell’isola, nellaquale avrebbe poi speso tanti anni della sua e-sistenza.

In Sardegna, «il Piccolino» non si limitò acombattere i Visconti, ma contrasse anche unsecondo matrimonio con Agnese, sorella diBenedetta e figlia dunque anch’essa di quelGuglielmo di Massa che, come narrerò nelprossimo capitolo, fu grande amico ed alleatodei Gherardesca. Questo matrimonio di chia-ro significato politico, che seguiva di qualcheanno quello del conte Tedice 5° con PreziosaLacon Serra, zia di Agnese, ribadì l’interessedei Gherardesca a rafforzare parentalmente laloro presenza nell’isola, caduta ormai in granparte sotto l’influenza pisana.

Ranieri ed Agnese non dettero comunqueorigine ad alcun ramo della prosapia, poichéda loro nacquero, in rapida sequenza, soloquattro figlie. Nel frattempo la guerra fra «ilPiccolino» e i Visconti con i loro alleati non a-veva avuto soste, malgrado che in quegli stessianni fosse venuta a morte la povera Benedet-ta, relegata dai suoi nemici nella fortezza diGilla o Igia. Nel 1237, però, in concomitanzacon la riappacificazione firmata a Pisa fra iGherardesca e i Visconti, anche Ranieri con-cluse un accordo con Rodolfo da Capraia,suo più diretto antagonista, e pose in tal mo-do fine al sanguinoso conflitto che si era pro-tratto nell’isola per quasi cinque anni. Poi,per qualche tempo ancora, egli rimase al fian-co di Agnese che aveva assunto la reggenzadel Giudicato in nome del nipotino Gugliel-mo, orfano di Benedetta, ma infine decise dirientrare a Pisa. Poco tempo dopo si fece fra-te domenicano nel convento di S. Caterina,dove concluse la propria esistenza ricordatonegli annali del monastero come monacomolto pio e di discrete capacità predicatorie.In una cronaca, scritta prima del 1408 da frà

Domenico da Peccioli e conservata nell’archi-vio di S. Caterina, si legge infatti che Ranieri«nam graziosissime predicabat».

La beata Gherardesca della Gherardesca

Altrettanto edificante fu la vita di Gherar-desca, figlia del conte Gherardo 8° e cuginaquindi del «Piccolino»10. Fin dalla fanciullez-za ella provò una forte vocazione a farsi mo-naca. Per obbedienza ai desideri della madre,accettò però di sposare certo Alfiero di Ban-dino. Rimasta tuttavia fedele, nel suo intimo,ai propri profondi sentimenti religiosi, riuscì,con il tempo, a convertire ad essi anche il ma-rito ed a convincerlo ad abbracciare con lei lavita monastica. I due si fecero così camaldole-si11, ma prima di ritirarsi in convento, Ghe-rardesca volle donare ai poveri tutti i suoi be-ni, onde aver modo di condurre una vita inassoluta povertà, fino alla sua morte che av-venne attorno al 126012. Di lei rimase una re-liquia nel convento di S. Silvestro dove si eraspenta, un’immagine dipinta da frà Lorenzodegli Angeli nella sacrestia di S. Michele inBorgo, a Pisa, ed un’antica cronaca su carta-pecora che un tempo si conservava nell’archi-vio del monastero nel quale ella era vissuta.Nel 1858, papa Pio IX, su istanza del cardina-le Cosimo Corsi, arcivescovo di Pisa (e figliodi Maddalena della Gherardesca), ne approvòufficialmente il culto.

Potrei ora continuare ad illustrare altre fi-gure salienti di queste prime generazioni deiconti di Donoratico, ma sento la necessità diaprire una parentesi e raccogliere in un appo-sito capitolo le vicende della casata comitalein Sardegna, dove i Gherardesca, per oltre unsecolo e mezzo, ebbero rilevante influenza edinteressi, i cui segni premonitori furono le u-nioni matrimoniali di Tedice di Segalari, pri-ma, e di Ranieri «il Piccolino», poi.

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1 Da studi condotti da O. Banti, docente presso il Dipartimento di Storia Medievistica dell’Università di Pisa, risulta cheuna lapide (la n. 174) della cappella così detta Gherardesca nella chiesa di S. Francesco a Pisa, è relativa alla tomba di un Vi-sconti di Fucecchio pur essendo fregiata con lo stemma gentilizio dei Gherardesca. Essendo Fucecchio antica signoria deiCadolingi, ci si potrebbe anche domandare se non fu un membro di questa schiatta ad essere nominato vice comes di Pisada Ottone I. In tal caso lo stemma, identico a quello dei Gherardesca, avvalorerebbe l’ipotesi di un’origine comune delle duecasate comitali.

Il conflitto a Pisa fra Gherardesca e Visconti

La cronistoria dei rapporti che, dalla finedel XII alla metà del XIV secolo, si sviluppa-rono fra i Gherardesca e la Sardegna, può so-lo essere affrontata dopo che sia stato ap-profondito l’esame di alcuni eventi verificati-si in epoche precedenti, ma che di detti rap-porti costituirono l’originaria premessa. Biso-gna tornare dunque a quando, nel 965, l’im-peratore Ottone I il Grande visitò Pisa e datale suo soggiorno trasse due precise convin-zioni.

La prima fu quella d’intuire che Pisa, go-dendo di un’eccellente posizione aperta versoil mare, al quale la collegava l’Arno che allafoce si apriva con un ben protetto porto natu-rale, era particolarmente indicata per una ra-pida e profittevole espansione nel campo deitraffici marittimi, verso cui la sospingeva an-che la consolidata vocazione dei suoi abitantiche avevano assimilato tale cultura dai loroantichi dominatori bizantini. Ottone dovetteanche rilevare che, in quell’epoca, lungo tuttoil litorale tirrenico della Toscana, non esiste-vano scali altrettanto grandi e sicuri comequello pisano.

La seconda convinzione alla quale perven-ne l’imperatore, fu che tale espansione non a-vrebbe potuto realizzarsi, senza che vi fossestato, in loco, un’autorità permanente in gra-do di stimolarla, favorirla ed orientarla. Pisa

risultava infatti in quegli anni orfana di quellaprobabile primitiva conduzione dei suoi co-mites di origine longobarda che da lei si era-no forse allontanati per sfuggire all’ostilità dicui erano stati fatti segno durante il governodei Franchi. Ottone I nominò allora un vicecomes, confermando con tale provvedimentoche, da qualche parte, anche se necessaria-mente non a Pisa, un comes doveva pur esser-ci. La sua scelta certo cadde su di un’antica enobile casata, ma quale sia stata tale casatanon è dato saperlo poiché, con il trascorreredegli anni, i vice comites si identificarono conil loro incarico al punto da assumere il patro-nimo di Visconti, senza più alcun riferimentoalla schiatta dalla quale derivavano.

In uno studio del Gabotto si ipotizza addi-rittura una parentela con gli stessi Gherarde-sca, ma non mi risulta che questa asserzionetrovi attendibile conferma, tranne che nellaconsiderazione che, a quanto sembrerebbe, iVisconti di Fucecchio sfoggiavano lo stessostemma gentilizio dei Gherardesca1.

Sta di fatto che i vice comites, o Viscontiche dir si voglia, trovarono aperto di fronte asé quello che oggi si direbbe un ampio spaziopolitico, e di ciò non mancarono di approfit-tare, assicurandosi rapidamente in Pisa unaposizione di assoluta preminenza ed avviandola città verso quelle mete mercantili saggia-mente intraviste da Ottone I.

Nel frattempo gli antichi comites seguiva-no e reggevano, probabilmente con maggior

CAPITOLO QUARTO

L’epopea dei Gherardesca in Sardegna

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66 I della Gherardesca

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Una grande casata guerriera del Medio Evo 67

2 Sia G. Volpe che W. Heywood, nei loro studi, confermano questo particolare orientamento dei Gherardesca dopo il se-colo XI.

3 Pisa aveva peraltro già allacciato rapporti con la Sardegna sin dal 1080.

interesse ed impegno, le sorti di città toscanegià ben affermate nel X secolo, quali Volter-ra e Lucca, anziché quelle di Pisa che ancoranon doveva apparire come un appetibilecentro di potere. Tale atteggiamento andòcomunque modificandosi nella prima metàdell’XI secolo, quando anche i Gherardescacompresero alfine le grandi prospettive of-ferte da quest’ultima città ed iniziarono unavera e propria marcia d’avvicinamento versodi essa con l’intenzione di riconquistarvi l’o-riginaria probabile antica influenza2. Questoriavvicinamento non fu tale solo nel sensogeografico della parola, come potrebbe sug-gerire il fatto che la casata comitale sempremaggiormente fece sentire la propria potentepresenza nei castelli che dominava fra la Vald’Era e la Val d’Arno inferiore, bensì anchein senso politico, cercando cioè di gettareponti di collegamento con i Visconti, tramitele abituali alleanze matrimoniali. Come già il-lustrato nel paragrafo loro riservato, furonoin particolare i conti di Forcoli che si appli-carono a quest’ultima incombenza; a dispet-to tuttavia dei numerosi imparentamenti frale due casate, lo scontro fra di esse si pro-spettò subito come inevitabile, poiché ormaii Visconti avevano ben compreso le intenzio-ni dei Gherardesca di scalzarli dal potere inPisa e conquistare, o riconquistare, nella cittàuna propria supremazia. A tal fine i comitesavevano iniziato ad erigere le proprie torrinel quartiere pisano di Chinseca, il quale,per l’importanza che venne così ad assumere,fu collegato con una nuova cinta muraria allacittà vecchia in cui i Visconti si erano arroc-cati nel quartiere di Borgo Largo.

Con il trascorrere degli anni, i rapporti frale due famiglie si andarono deteriorando ul-teriormente, per aver i Visconti assunto un o-rientamento politico contrapposto a quellodei Gherardesca, apertamente favorevoli alpartito imperiale, così come lo divenne il co-mune di Pisa, influenzato in tal senso dallapoderosa ed antica schiatta di ceppo longo-

bardo. La lotta fra le due casate si radica-lizzò, raggiungendo il suo culmine al tempodel conte Gherardo 7° di Donoratico, che,come narrato nel capitolo precedente, fu ri-soluto sostenitore di una stretta alleanza pisa-na con l’imperatore Federico I di Svevia. Semai vi fu un periodo nel quale parve possibi-le trovare un accomodamento a tale insanabi-le antagonismo, fu forse quando Tedice, con-te di Forcoli e figlio di Gena Visconti, fu elet-to primo podestà (storico) di Pisa. Pare infat-ti che Gena, donna d’indubbie qualità, si siaadoperata con ogni sua energia per sanare icontrasti fra la sua gente di origine e quellaalla quale si era legata sposandosi, ma anche isuoi sforzi non sortirono il risultato voluto.Infatti proprio con i podestariati di Tediceebbe avvio la definitiva decadenza visconteain Pisa, anche se, dopo di lui, si ricordano al-tri podestà di questa casata. In contrapposi-zione diretta con la graduale perdita di pote-re da parte dei Visconti, si accentuò l’affer-marsi dei Gherardesca, che ebbero l’accor-tezza di allearsi strettamente con il comune,acquisendo in esso quella veste di «primi cit-tadini» che, agli inizi del XIV secolo, li por-terà a conquistare una formale e piena signo-ria su Pisa.

I Giudicati di Sardegna e le mire pisanesull’isola

Prima di procedere oltre, occorre fare unpasso addietro di alcuni decenni e tornare allaseconda metà del XII secolo, allorché la Re-pubblica Pisana, in aperto contrasto con Ge-nova, accentuò le proprie mire espansionisti-che in Sardegna, allo scopo di assicurarsi inessa approdi per le proprie navi e nuovi sboc-chi commerciali3.

A quei tempi l’isola era suddivisa in quat-tro regni, detti «Giudicati»: Torres o Logodu-ro, Arborea, Gallura e Cagliari. Di essi il piùimportante era indubbiamente il Giudicato di

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4 F. SCHNEIDER, Regestum Senese, Loescher, Roma 1911, doc. 286. Redatto a Sovicille il 19 dicembre 1178, menziona lacessione delle argentiere di Monte Beccaro da parte del conte Tedice, di Ugolino, che poi sarà podestà di Pisa.

5 A. BOSCOLO, L’Abbazia di S. Vittore, Pisa e la Sardegna, Cedam, Padova 1958, p. 76.

Cagliari; e fu soprattutto verso di esso che Pi-sa appuntò i propri interessi, attratta in parti-colare dalla posizione strategicamente favore-vole del suo approdo. La sorte volle che Co-stantino Lacon Serra, giudice in quell’epocadi Cagliari, ai fini di una successione, non po-tesse contare su eredi maschi, ma solo su trefemmine [tav. 10]. Fu dunque verso di questeche si appuntarono le attenzioni di due gran-di prosapie alleate di Pisa, le quali valutaronoche eventuali matrimoni con le figlie di Co-stantino avrebbero rappresentato un sistemapratico per assecondare, non solo il raggiun-gimento delle mete perseguite dal comune pi-sano, ma anche per coltivare le ambizioni chele predette due casate già nutrivano nei con-fronti dell’isola.

Avvenne quindi che di dette tre donnicelle,una, Preziosa, sposò Tedice della Gherarde-sca, conte di Segalari, ed un’altra, Giorgia, simaritò con Oberto, marchese di Massa, di-scendente dalla grande stirpe degli Oberten-ghi. Solo la terza figlia, della quale non è per-venuto il nome, contrasse un matrimonio iso-lano, unendosi con Pietro di Torres, il quale,per essere l’unico sardo fra i tre generi di Co-stantino, gli succedette nella carica di giudi-ce, quando questi venne a morte nel 1162.Quanto però il suocero si era mostrato di-sponibile ad intese con Pisa, altrettanto Pie-tro se ne dimostrò subito avverso, cercandoanzi di favorire gli interessi di Genova. Tuttoquesto a dispetto persino del fatto che nelfrattempo egli si era imparentato con i Vi-sconti, tramite il matrimonio dell’unica suafiglia con Eldito, rampollo della nobile fami-glia pisana, che, con tale unione, cercava an-ch’essa una propria via di penetrazione nell’i-sola. Pisa allora, che certo non era rimasta e-stranea all’intreccio di tutti questi sponsaliintessuti dai Massa, dai Gherardesca ed infi-ne dai Visconti, si trovò costretta a ricorrerealle armi. Con l’aperto e determinante soste-gno delle tre grandi casate appena menziona-te, la Repubblica Marinara toscana, nel me-

desimo 1162, assalì e conquistò Cagliari, cac-ciandone l’ostile Pietro.

Si trattava ora di consolidare il successoconseguito, prima di una ipotizzabile reazionegenovese; pertanto fu eletto nuovo giudice ca-gliaritano, Guglielmo di Massa, figlio di O-berto e nipote di Costantino Lacon Serra.

I Gherardesca s’insediano nel Giudicato di Cagliari e i Visconti in quello di Gallura

Alla scelta di questo nuovo giudice non do-vettero restare estranei i Gherardesca, tant’èvero che Guglielmo li ricompensò assegnadoloro alcuni possedimenti nei distretti del Si-gerro e del Sulcis, territori potenzialmentericchi sotto il profilo minerario. La grande fa-miglia comitale fu ben lieta di assicurarseli,forte anche della sua passata esperienza inmateria di sfruttamento di miniere, per esserestata proprietaria di argentiere nel distrettovolterrano di Montieri4.

Quando nel 1214 Guglielmo morì, il go-verno del Giudicato passò nelle mani dellasua primogenita Benedetta, la quale però sitrovò ad essere fortemente osteggiata dai Vi-sconti che, sul cagliaritano, avanzavano loropretese per il matrimonio intervenuto fra El-dito e l’unigenita figlia di Pietro di Torres.Nel 1217, con i loro alleati da Capraia, essiriuscirono anzi ad occupare il castello di Ca-gliari e ad esautorare Benedetta, relegandolanella non lontana fortezza d’Igia.

Nel contempo i Visconti si erano mossi condecisione e successo anche verso il Giudicatodi Gallura, a nord di quello cagliaritano, dicui s’impossessarono nel 12155. L’eccessivopotere che essi andavano in tal modo acqui-sendo nell’isola allarmò, com’è ovvio, la Re-pubblica Pisana e con essa i Gherardesca chenon perdevano occasione per tenere sotto tirola casata loro nemica, con la quale, nel 1225,si registrò a Pisa un ennesimo scontro armato

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6 A. BOSCOLO, Aspetti della società e dell’economia in Sardegna nel Medio Evo, Edes, Cagliari 1979; e P. TOLA, Codex Di-plomaticus Sardiniae, in Monumenta Historiae Patriae, Augustus Taurinorum 1841.

a seguito del quale i Visconti furono addirit-tura cacciati dalla città.

Altri cenni storici su Ranieri, «il Piccolino»

Fu più o meno a quell’epoca che, in accor-do con il comune pisano ed i suoi stessi fami-liari, il conte Ranieri di Donoratico, detto «ilPiccolino», si portò in Sardegna per rintuzza-re con le armi le velleità viscontee. Dal 1232,Ranieri, che, forse in quel medesimo anno, siera sposato con Agnese, sorella di Benedetta,guerreggiò con successo contro i Visconti, ri-conquistando loro i territori del cagliaritano eportandosi persino ad insidiarli nella Gallura.Quando nel 1237, come ho già narrato, il co-mune di Pisa con i Gherardesca, da un lato, ei Visconti, dall’altro, stipularono nel conti-nente l’ennesima quanto vana pace generale,anche Ranieri concluse con una tregua la suaguerra in Sardegna. Questi accordi posero co-munque la parola fine, per i successivi cin-quant’anni, ad ogni ulteriore intromissionenel governo di Pisa da parte dei Visconti stes-si, i quali, vedendosi sbarrare quello spaziopolitico del quale avevano così largamente u-sufruito finché i Gherardesca erano rimastiassenti dalla ribalta cittadina, per varie gene-razioni volsero tutte le loro attenzioni alla cu-ra del Giudicato di Gallura [tav. 11].

Il conte Ranieri nel frattempo, conclusacon successo la missione affidatagli, si insediòa Cagliari, dove sua moglie Agnese era suben-trata nel governo del Giudicato alla sorellaBenedetta, deceduta in quegli anni in prigio-nia lasciando un figlioletto in tenera età. An-che il conte di Donoratico venne nominatorector del Giudicato6, ma già sappiamo che,dopo qualche tempo, egli lasciò moglie, figlieed isola per far ritorno a Pisa ed entrare inconvento per il resto dei suoi giorni.

Agnese, per parte sua, continuò a governa-re fino al 1256; poi rinunziò a tutti i suoi dirit-ti ereditari sul Giudicato a favore del nipote,orfano di Benedetta.

Guglielmo di Biserno, conte di Donoratico

Dopo la partenza di Ranieri dalla Sarde-gna, risulterebbe che nell’isola sia approdatoun altro Gherardesca, inviatovi da Pisa inqualità di suo vicario. Ho attinto tale notiziada uno scritto del critico Nicola Valle che rac-conta che l’architetto Dionigi Scano, noto so-printendente alle Belle Arti in Cagliari, colpi-to da un dipinto eseguito nel 1925 da FilippoFigari nel salone consiliare del locale palazzocomunale e raffigurante un fantomatico «vi-cario di Pisa», chiese al pittore a quali fontistoriche si fosse ispirato nel rappresentare talepersonaggio. Il Figari rispose che era solofrutto di fantasia, ma, per strana coincidenza,un anno dopo fu rinvenuto ad Iglesias un’an-tico sigillo di bronzo con lo stemma dei Ghe-rardesca e la dicitura: «Guglielmo conte diDonoratico, vicario di Pisa in Sardegna». Conbuona probabilità si trattava di quel Gugliel-mo, conte di Biserno, che figurò fra i firmata-ri del patto di riappacificazione del 1237, as-sieme agli altri Gherardesca alleati del comu-ne di Pisa, e che, forse, in ricompensa alla suaaffidabilità, dal comune stesso fu nominato asuo rappresentante nell’isola. Da sottolineareora che questo conte di Biserno, in Sardegna,tenne a richiamarsi al comune titolo familiaredi «conte di Donoratico», cui, in base alle leg-gi longobarde in materia, aveva diritto, rien-trando egli ancora entro la settima generazio-ne da un antenato in comune con l’originarionucleo parentale.

Gherardo il Vecchio, conte di Donoratico,e Ugolino, conte di Settimo

Ma torniamo ai Visconti, ai quali altro nonera rimasto se non dedicarsi al loro Giudicatodi Gallura, mentre a Pisa andava sempre piùconsolidandosi la vigorosa personalità diGherardo 10°, conte di Donoratico, che fudetto in seguito «il Vecchio», per distinguerloda un suo omonimo nipote che sarà signore

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7 Adelasia di Torres era figlia di Barisone e di Agnese di Massa. Quest’ultima, rimasta vedova del primo marito, si risposòcon Ranieri «il Piccolino», conte di Bolgheri.

8 Arrigo, detto Enzo, era figlio di Federico II di Svevia e di una dama tedesca di nome Adelaide, che fu l’amante dell’im-peratore prima che questi sposasse Isabella di Brienne.

di Pisa e che, di contro, verrà ricordato come«il Giovane». Il conte Gherardo, per oltremezzo secolo, fu l’effettiva guida del comunepisano, indirizzandone la politica verso unasempre più vincolante intesa con la dinastiaimperiale degli Hohenstaufen o Svevi. Non sipensi peraltro che l’orientamento da lui soste-nuto non incontrasse robuste opposizioni, sia,a viso aperto, da parte dei Visconti e dei nobi-li pisani loro alleati, sia, più larvatamente, daparte di un parente stesso del conte di Dono-ratico, e cioè di quell’Ugolino che si qualificòanche come conte di Settimo, per l’omonimocastello che egli dominava nei pressi di Pisa.

Si tratta di quel personaggio del qualeDante canterà le tragiche vicende nella suaDivina Commedia e che, come abbiamo visto,aveva fatto le sue prime esperienze guerre-sche in Sardegna sotto la guida di Ranieri, «ilPiccolino». Pur dissimulando a Gherardo isuoi veri sentimenti, Ugolino fu sempre ditendenze che potrebbero definirsi moderata-mente guelfe o comunque tali da avvicinarloalle posizioni politiche dei Visconti, con iquali si era anche imparentato grazie al matri-monio di una delle sue figlie con GiovanniVisconti, giudice di Gallura. Malgrado tutta-via tali suoi celati sentimenti, Ugolino, che e-videntemente conservava nei suoi cromosomiuna buona dose della ghibellinità della fami-glia di appartenenza, non si oppose al proget-to di Gherardo di stringere maggiori legamifra gli Hohenstaufen e i Gherardesca ed ac-cettò che suo figlio maggiore Guelfo si spo-sasse con Elena, unigenita di Adelasia di Tor-res7 e di Enzo di Svevia8, che il padre Federi-co II aveva nominato re di Sardegna. Ma pro-prio il lunghissimo soggiorno del conte «dan-tesco» nell’isola, anche se giustificabile con lanecessità di curare i consistenti interessi cheormai vi vantava la sua casata, è forse il segnopiù evidente del disagio che egli provava neltrovarsi relegato a Pisa in una posizione di se-condo piano rispetto al più carismatico pa-

rente. Anche sotto questo aspetto, Ugolino e-ra quindi assimilabile ai Visconti, poiché, pertutti loro, la Sardegna venne a rappresentareuna valvola di sfogo per irrealizzabili ambizio-ni di supremazia cittadina.

La conquista pisana di Cagliari e la spartizione del Giudicato

A dispetto tuttavia di quanto fin ora detto,a Gherardo, ad Ugolino e ai Visconti fu anco-ra una volta possibile trovarsi alleati fra di lo-ro e con la Repubblica Pisana, quando que-st’ultima, nel 1257, fu costretta a riconquista-re con la forza Cagliari per sloggiarne i Geno-vesi che vi si erano insediati; la sconfitta deigenovesi da parte dei pisani maturò nellagrande battaglia di S. Igia. Gherardo il Vec-chio, che aveva preso parte alla spedizioneguerresca, fu armato cavaliere alla conclusio-ne vittoriosa di questo scontro, in riconosci-mento del grande valore di condottiero da luidimostrato in tale frangente. Da quel momen-to Pisa confermò in via definitiva il propriodominio sul Giudicato cagliaritano per un pe-riodo di quasi settant’anni, e cioè fino al1326, allorché ne venne a sua volta sloggiatada un’armata spagnola inviata nell’isola da reGiacomo II d’Aragona.

Dopo la vittoria sui Genovesi, Pisa vollemantenere sotto il proprio diretto controllosolo Cagliari, con il suo porto ed il suo pode-roso castello, suddividendo il resto del Giudi-cato fra i Visconti, i da Capraia e i Gherarde-sca [fig. 8]. Questi ultimi conservarono i pro-pri originari possessi ottenuti anni prima daGuglielmo di Massa, ampliandoli con granparte del Campidano, ivi inclusi i distretti diDecimo e Nora.

Fra i rami della casata più direttamente im-pegnati nell’isola, quello di Gherardo si assi-curò il Sulcis e quello di Ugolino il Sigerro,mentre rimasero completamente ed inspiega-

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I quattro Giudicati della Sardegna medievale e la suddivisione del Giudicato di Cagliari dopo il 1257

[fig. 8]

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9 TOLA, Codex Diplomaticus Sardiniae, in Monumenta Historiae Patriae, Torino 1861, vol. II. 10 S. PETRUCCI, Re in Sardegna, a Pisa cittadini, Cappelli, Bologna 1988, pp. 68-69. 11 P. TOLA, Dizionario biografico degli uomini illustri della Sardegna, Chini e Mina, Torino 1837, p. 55.

bilmente esclusi i conti di Donoratico del ra-mo dal quale era proceduto Ranieri «il Picco-lino», che pur tanto aveva dato per l’affer-marsi degli interessi pisani in Sardegna.

Da segnalare inoltre che, forse già primadel 1257, i Gherardesca avevano eretto i lorotre grandi castelli sardi di Acquafredda pressoSiliqua [fig. 9], di Gioiosa Guardia oggi dettaVillamassargia e di Gonnesa. È chiaro che laspartizione del Giudicato cagliaritano rappre-sentò il compenso che Pisa dovette corrispon-dere alle precitate tre grandi prosapie, sue al-leate che, nella circostanza, non solo avevanoassolto a funzioni di comando durante laguerra vittoriosa, ma avevano contribuito inmaniera sostanziale al suo buon esito, appor-tandovi proprie milizie e profondendovi pro-prie risorse finanziarie. Sta di fatto che, da al-lora, i rappresentanti di dette famiglie, ciascu-no per la propria parte di territorio, assunserole vesti di iudices9 o meglio di domini Sardi-nee10.

Il conte Ugolino in Sardegna

Occorre ora fare un passo indietro, per ri-cordare che nel 1238 Federico II aveva intesoriaffermare la propria sovranità sulla Sarde-gna, in contrapposizione alle speculari pretesedel pontefice, ed aveva proclamato re dell’iso-la il suo figlio spurio Arrigo, detto Enzo, che,in quello stesso anno, l’imperatore fece sposa-re con Adelasia, ultratrentenne giudice diTorres, da poco rimasta vedova di UbaldinoVisconti11. A quanto riportano le cronache, inun primo momento, Adelasia fu ben lieta diaccoppiarsi con il giovanissimo ed aitanteprincipe germanico, ma, più tardi, le pressio-ni della Chiesa Romana le fecero comprende-re di aver fatto una mossa politicamente sba-gliata. Da parte sua l’imperatore la mossa l’a-veva invece teoricamente azzeccata, poiché A-delasia riuniva nelle sue mani sostenibili pre-tese su ben tre dei quattro Giudicati sardi: su

quello di Torres, in quanto figlia ed erededell’ormai defunto giudice Mariano; su quellodi Cagliari, per essere figlia di Agnese di Mas-sa, risposatasi dopo la morte di Mariano conRanieri «il Piccolino»; infine su quello di Gal-lura, essendo vedova di un Visconti.

Per re Enzo dunque, le prospettive di raf-forzare rapidamente e concretamente i suoiplatonici attributi reali, si presentarono allet-tanti, ma il giovane svevo non seppe o non in-tese sfruttarle e, appena un anno dopo il suomatrimonio con Adelasia, abbandonò la piùanziana sposa e la neonata figlioletta Elena,per rientrare in continente ed assolvere alnuovo incarico, conferitogli dal padre, di vica-rio imperiale per l’Italia. Peraltro, almeno for-malmente, il governo del Giudicato di Torresrimase nelle mani di Enzo, il quale a sua voltaprovvedette a nominarvi suoi vicari, fra i qualianche il conte Ugolino che stava accentuandola sua presenza in Sardegna per le ragioni cheho già illustrate. Egli infatti si era sempre piùstabilmente insediato nei suoi domini sardi,dedicandosi con impegno ed abilità allo svi-luppo, soprattutto minerario, dei distretti chericadevano sotto la sua giurisdizione. Per pri-ma cosa mise mano alla trasformazione in ve-ra e propria città del piccolo agglomerato diVilla di Chiesa, oggi Iglesias, che egli volle di-venisse il centro principale della zona delle«fosse argentifere», che era sua ferma inten-zione sfruttare al meglio. In pochi anni Villadi Chiesa, originariamente sorta attorno ad u-na bella basilica dedicata a S. Chiara, fu am-pliata e racchiusa entro una robusta cinta mu-raria, con venti torri e quattro porte di acces-so [fig. 10]. La cittadina divenne così il secon-do centro abitato della Sardegna meridionaledopo Cagliari. Due lapidi murate sulla faccia-ta del duomo d’Iglesias ricordano ancor oggiche questo edificio fu fatto costruire ai tempidi Ugolino. Il Gherardesca si preoccupò inol-tre di far amministrare la nuova città da unpodestà di propria nomina e la dotò di unparticolare statuto comunale a carattere si-

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Lo stato attuale della cinta muraria di Villa di Chiesa (oggi Iglesias)

[fig. 10]

Le rovine del castello Gherardesca di Acquafredda che si affacciava sul Campidano di Cagliari

[fig. 9]

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12 J. DAY, La Sardegna e i suoi dominatori dal secolo XI al secolo XIV, in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, vol. X, p. 93.Vi è riportata una cartina geografica su cui sono indicati i 55 centri abitati, di signoria dei Gherardesca nelle tre zone caglia-ritane di loro influenza (Sigerre, Sulcis, Campadano).

13 PETRUCCI, op. cit.14 E. BESTA, La Sardegna medievale, Forni, Bologna 1966, vol. I, p. 242. 15 DAVIDSOHN, op. cit., vol. III, p. 53.

gnorile, che egli promulgò sotto forma di un«Breve» diviso in quattro volumi, suddivisi aloro volta in vari capitoli. Questa considerevo-le opera legislativa si conserva ancora nell’ar-chivio comunale d’Iglesias, anche se non nellasua veste originale, bensì in una versione par-zialmente rielaborata in tempi successivi, pri-ma dai Pisani, quando cacciarono gli eredi diUgolino dal Sigerro, e poi, nel 1324, dagli A-ragonesi, dopo che questi conquistarono a lo-ro volta Villa di Chiesa, togliendola a Pisa. Ilquarto volume di tale «Breve» rappresentaaddirittura il primo organico codice minerarioitaliano, e forse del mondo, con il quale si ten-deva a regolamentare lo sfruttamento dellefosse di minerale argentifero.

Ugolino promosse poi un’attiva politica diripopolamento dei suoi territori per richia-marvi la manovalanza occorrente per le mi-niere, nonché gli specialisti necessari per lagestione della zecca che egli volle fosse im-piantata a Villa di Chiesa onde trasformaresubito in moneta sonante il nobile metallo e-stratto dai giacimenti. Sorsero in tal modonuovi villaggi e tutto il distretto fruì di unavera e propria rinascita che stimolò anche iSardi, dediti fino a quel momento alla pastori-zia e ad una primordiale agricoltura. Dallecronache storiche si apprende che i paesi do-minati dai conti di Donoratico furono bencinquantacinque12.

Pur curando, con impegno e grande capa-cità amministrativa, i propri interessi e quellidel ramo della famiglia che faceva capo aGherardo il Vecchio, Ugolino cominciò peròa risentire in quegli anni la suggestione delsuo solitario imperium ed iniziò ad atteggiarsiquale unico e libero «signore, re et domino»dei suoi possedimenti13, facendosi forte delfatto che da pochi anni si era tradotto inrealtà il progettato sposalizio fra suo figlioGuelfo ed Elena, figlia di re Enzo di Svevia.Pian piano cominciò ad atteggiarsi a vicario

unico del re nell’isola e pervenne anche adoccupare con le armi il Giudicato di Torres ela città di Sassari, mantenendola per anni insuo possesso e suscitando con ciò una decisareazione del papa che lo diffidò più volte a ri-tirarsi dal Logoduro ed infine gli inflisse lascomunica14. Ugolino tentò anche di afferma-re la propria completa indipendenza da Pisa,rifiutandosi di versarle quei tributi a suo tem-po concordati per i distretti sardi affidati dal-la Repubblica ai Gherardesca dopo il 1257;però, come vedremo, per tale atto di apertaribellione, il conte di Settimo dovette subireanche un breve periodo di prigionia a Pisa,dalla quale fu poi bandito.

La morte sul patibolo angioino di Gherardo il Vecchio e il ritorno a Pisadel conte Ugolino

Nel frattempo, e cioè nel 1268, era scom-parso dalla ribalta politica pisana il conte Ghe-rardo il Vecchio, il quale, fedele all’impero fi-no al supremo sacrificio della vita, aveva se-guito il giovanissimo re Corradino di Svevianel fallito tentativo di riconquistare il Regnodi Napoli, assegnato dal papa alla dinastiafrancese degli Angiò. Durante tale sfortunataimpresa, l’ormai settantenne conte di Dono-ratico capeggiò le truppe che i ghibellini ita-liani, con Pisa alla loro testa, avevano messo adisposizione di Corradino. Il 23 agosto 1268,nei pressi della località di Alba, si svolse unagrande battaglia che, in seguito, fu erronea-mente detta di Tagliacozzo15, durante la qualel’armata dello Svevo, dopo un primo favore-vole andamento dello scontro, per un fataleerrore di uno dei suoi condottieri germanici,subì una sanguinosa e definitiva disfatta ad o-pera degli Angioini.

Pochi giorni dopo tale sconfitta, Corradinocadde prigioniero dei suoi nemici, assieme ad

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16 L. FRATI, La prigionia di re Enzo, Zanichelli, Bologna 1902. Il testamento del sovrano è riportato alle pp. 125-31. 17 L’ambasciatore pisano si chiamava Vanni Gubetta da Ripafratta e la sua morte fu orribile, poiché egli, dopo essere sta-

to legato a due cavalli, venne squartato dai due animali sospinti a galoppo in direzioni opposte. 18 A quanto risulta un esemplare di detto tornese si conservava a Berlino, prima della seconda grande guerra mondiale,

ed un altro si trova tuttora presso la collezione Sellai di Sassari. 19 ASF, Arch. Riformagioni, doc. 84; e AF, f. 98, a. 1292.

alcuni dei suoi fedelissimi, fra i quali il vec-chio conte di Donoratico. Tradotti a Napoli,furono tutti quanti sottoposti ad un farsescoprocesso e quindi fatti decapitare da re Carlod’Angiò. La sentenza fu eseguita su un pati-bolo eretto fuori dalle mura della città, nelluogo dove oggi sorge la centrale Piazza delMercato. Oltre al non ancora diciassettenneHohenstaufen, vennero con lui giustiziati ilcugino Federico, duca d’Austria, il conte Ghe-rardo ed altri otto seguaci di Corradino, fra iquali, sembra, un secondo Gherardesca, Gua-lando di Castagneto. I sogni svevi di una ri-conquista dell’Italia andavano così frantu-mandosi ad uno ad uno, poiché, due anni pri-ma di Corradino, era rimasto ucciso nella bat-taglia di Benevento un altro figlio di FedericoII, Manfredi, autoproclamatosi re di Sicilia.

Quattro anni dopo la morte di Corradino,nel 1272, anche re Enzo, a suo tempo fattoprigioniero dai Bolognesi nello scontro diFossalta, si spense nella città felsinea, lascian-do per testamento i suoi teorici diritti sovranisulla Sardegna e su altri territori italiani, aipropri nipoti maschi, già nati o nascituri, «exexcellenti filia nostra Helena et viro magnifi-co Guelfo de Donoratico»16. Fu probabil-mente a seguito di tale investitura che i Ghe-rardesca si sentirono autorizzati a qualificarsi«signori della terza parte del Regno di Caglia-ri» e il conte Ugolino si reputò svincolatodall’obbligo di pagare i noti tributi a Pisa.

Con la morte di Gherardo si era comunqueriaperta per il conte di Settimo la possibilitàdi riproporre la propria candidatura alla gui-da della Repubblica Pisana, cui poteva rinfac-ciare l’insuccesso di una politica troppo asser-vita alle declinanti fortune dell’impero svevo.L’ormai già anziano conte concluse allora ilsuo lungo «esilio» in Sardegna e, lasciata al fi-glio Guelfo la cura e la difesa dei domini fa-miliari nell’isola, rientrò a Pisa per andare fa-talmente incontro al suo drammatico destino.

I conti Guelfo e Lotto in guerra contro Pisa

Guelfo, rimanendo in Sardegna, ebbe laventura di trovarsi lontano allorché, alcunianni dopo, i propri più stretti familiari, fracui uno dei suoi figli, Ugolino, detto Nino ilBrigata, vennero incarcerati dai Pisani e fattimorire di fame. La reazione che il conteGuelfo ebbe a seguito di questo tragico acca-dimento, fu improntata al più sanguinariospirito medievale di vendetta. Giustiziatobarbaramente l’ambasciatore che Pisa gli ave-va inviato17 per convincerlo a rientrare in pa-tria dall’isola, con il chiaro proposito di farglifare la medesima fine dei suoi parenti, Guelfosi proclamò indipendente dalla Repubblica,emulando in ciò, ma questa volta con un cer-to successo, quanto in passato aveva vana-mente tentato di fare suo padre. Poi mosseguerra a Pisa, occupando con le sue miliziegran parte del cagliaritano, ivi inclusi i terri-tori che appartenevano agli eredi di Gherar-do il Vecchio; subito dopo conquistò ancheCagliari, trucidandovi quanti più ghibellinipisani ebbe in sorte di acciuffare.

Per otto lunghi anni il conte Guelfo riuscì adifendere questa sua indipendenza, della qua-le fu emblematica riprova l’emissione di alcu-ne proprie monete fatte battere nella zecca diVilla di Chiesa. Si trattò di un «aquilino mi-nuto», analogo a quello genovese, e di ungrosso «tornese» d’argento18, coniato ad imi-tazione della prestigiosa moneta francesedell’epoca. Detto tornese riportava su di unafaccia lo stemma dei Gherardesca e sull’altra inomi di Guelfo e di suo fratello Lotto [fig.11]. Va infatti detto che il conte Lotto, cadutoprigioniero dei Genovesi durante la battaglianavale della Meloria, era stato liberato nel1292 grazie all’intervento di Firenze e dellaTaglia Guelfa, che avevano versato a Genovaun riscatto di tremila fiorini genovesi19; poi e-ra stato finanziato anche da Genova stessa af-

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76 I della Gherardesca

20 F.C. CASULA, La storia di Sardegna, Edizioni Ets-C. Delfino Editore, Pisa 1992, pp. 241 e 334. Settefuentes è ubicata anord di Iglesias, a qualche chilometro da Santu Lussurgiu.

21 L. WANDINGO HIBERNO, Annales, Roma 1733, vol. V.

finché equipaggiasse proprie truppe e corres-se in Sardegna a dar man forte al fratelloGuelfo nella lotta contro l’ormai comune ne-mico pisano.

Si dice anche che, poco più tardi, un terzofratello, Matteo, andasse ad affincarli, ma diciò rimangono versioni contradittorie, mentrerisulta con certezza che tutti e tre questi Ghe-rardesca, in odio alla loro patria d’origine,chiesero ed ottennero in quegli anni la cittadi-nanza genovese. Dal canto suo, Pisa non

mancò di reagire alla rivolta inviando nell’iso-la un buon nerbo di truppe, al cui comando,fra gli altri condottieri, pose pure il conte Ra-nieri di Donoratico, figlio di Gherardo il Vec-chio; egli, da accanito ghibellino quale era,non aveva del resto mai nascosto la propriaavversione alla politica fatta adottare al gover-no della Repubblica Pisana da Ugolino, al suorientro dalla Sardegna. Il rapporto di forzeschierate nell’isola risultò ben presto a sfavoredei ribelli, poiché essi potevano contare solosulle proprie risorse locali, mentre i Pisani, siapur fiaccati dalla sconfitta della Meloria, po-tevano ancora, bene o male, attingere da piùconsistenti apporti di uomini ed armi prove-nienti dal continente. Il conte Guelfo, che fa-ceva anche affidamento sui suoi tre ben ar-roccati castelli sardi, iniziò allora a ripiegare,combattendo, verso Villa di Chiesa, entro lecui solide mura contava di poter meglio soste-nere l’urto delle preponderanti forze avversa-rie; ma fu proprio durante un’audace sortitada questa città, nell’intento di raggiungere ilcastello di Acquafredda, che il conte ribellevenne gravemente ferito in uno scontro. Soc-corso dai suoi uomini, fu trasportato, si dice,in un ospedale dei Gerosolimitani, situatopresso Settefuentes20, dove, malgrado le cure,morì e fu sepolto. La sua tomba però non fumai più rinvenuta e pertanto la fine del pri-mogenito di Ugolino è rimasta avvolta nel mi-stero.

Fu comunque suo il primo ma non ultimosangue che i Gherardesca versarono sull’a-spro terreno sardo nell’intento di difendere leloro conquiste nell’isola.

Lotto, dopo la morte del fratello, ormaiconvinto dell’impossibilità di protrarre oltrela guerra in Sardegna, rientrò a Genova dovesubì un ulteriore breve periodo di carcere, acausa della sua impossibilità di rimborsare aiGenovesi i prestiti avuti per organizzare lasua spedizione sarda. Matteo si rifugiò invecea Bologna, conseguendone la cittadinanza nel129621.

Il tornese d’argento coniato dai conti GherardescaProprietà Sollai, Sassari

[fig. 11]

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22 D. SCANO, Ricordi di Sardegna nella Divina Commedia, A. Pizzi, Cinisello Balsamo 1982. 23 AF, f. 102, n. 24; e WANDINGO HIBERNO, op. cit., vol. V; M. RONZANI, Famiglie nobili e famiglie di popolo nelle lotte

per l’egemonia sulla chiesa cittadina a Pisa fra il Due e il Trecento, in AA.VV., I ceti dirigenti nella Toscana tardocomunale, Attidel III convegno di studi sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana, Papafava, Firenze 1983.

I discendenti di Gherardo il Vecchio e le loro vicende in Sardegna

Conclusosi nel modo che ho descritto il lun-go conflitto con i figli del conte Ugolino, Pisane confiscò i domini sardi, mentre ai conti Ra-nieri e Bonifazio di Donoratico la Repubblicalasciò la loro quota di quei possedimenti, cheerano stati di loro padre Gherardo, ma neiquali non erano però incluse le ricche argen-tiere e la zecca di Villa di Chiesa.

Né Ranieri né Bonifazio tuttavia, impegna-tissimi nella restaurazione del potere ghibelli-no in Pisa, risiedettero mai più stabilmentenell’isola; solo una lapide, apposta sulla fac-ciata di una chiesa di Villamassargia, ricordail conte Ranieri quale signore di quelle terre,mentre un’altra lapide riferisce come egli vol-le che, in quel medesimo villaggio, fosse crea-to un ospedale.

Iniziava in tal modo il declino di quel pe-riodo magico che i Gherardesca avevano go-duto nell’isola e che Giosuè Carducci, in Fai-da di Comune, sintetizzò così bene nel verso:«Voi che siete re in Sardegna ed in Pisa citta-dini». Fu proprio questa cittadinanza che for-se costituì il freno maggiore per le ambizionisarde della casata comitale, la quale, troppointeressata a conservare una supremazia a Pi-sa, proprio con il conte Ugolino, mancò l’op-portunità d’imprimere un più decisivo slancioalla sua espansione in Sardegna, anche al di làdei confini del pur ricco distretto cagliaritano.

In realtà, dopo il fallimento della ribellionedel conte Guelfo, un evento sembrerebbe a-dombrare un progetto di rafforzamento nel-l’isola del potere dei conti di Donoratico. Èdi quell’epoca infatti la nomina a vescovo diSolci22, voluta dal clero sardo, del domenica-no Bonifazio, figlio del conte Ranieri, del ra-mo secondario dei Donoratico, e di Sofia diMonferrato23. La mossa fu forse architettatanell’intento di costituire nell’isola una base dipotere che potesse contare anche sulla irri-

nunciabile protezione della Chiesa Romana.papa Bonifacio VIII non apprezzò tuttavia l’i-niziativa e, intervenendo di persona nel 1297,non ratificò tale nomina e diplomaticamenteassegnò al domenicano Gherardesca la dioce-si corsa di Sagona che, a quei tempi, ricadevaancora formalmente sotto la giurisdizionedell’arcivescovo di Pisa, anche se in realtà e-rano i Genovesi a dominare ormai l’isola.Questo vescovo Bonifazio doveva comunqueessere abbastanza inviso al Pontefice, poichéquesti, nel 1306, lo spostò ancora di diocesi,destinandolo alla lontana Chirone, nell’isoladi Creta, dove mai egli si recò, così come nonrisulta che in precedenza avesse mai postopiede nell’ostile Corsica. A ritorsione dell’ar-meggio papale in suo sfavore, Bonifazio, pocoprima di morire, si vendicò, figurando fra icardinali scismatici che elessero l’antipapaNiccolò V; ma a questa vicenda accennerò nelcapitolo che segue, mentre tornerò ora a par-lare della parabola discendente dei Gherarde-sca in Sardegna, poiché quel declino nonmancò di aspetti drammatici. Altri nipoti diGherardo il Vecchio versarono infatti il lorosangue per sostenere nell’isola gli interessipropri e quelli di Pisa. Verso la fine del XIIIsecolo, papa Bonifacio VIII aveva offerto a reGiacomo II d’Aragona la sovranità sull’isola,che il sovrano spagnolo aveva accettato senzaperò esercitarne le prerogative per alcuni de-cenni.

Durante tutto questo periodo di disinteres-se aragonese, Pisa fece ogni sforzo pur di riu-scire quantomeno a preservare le posizionigià acquisite nel cagliaritano. Tuttavia, dopola cocente sconfitta subita alla Meloria ad o-pera dei Genovesi, la Repubblica non era piùin grado di sostenere le proprie velleità conl’antica vigoria delle armi, e si era affidatapertanto ad una fitta rete di contatti diploma-tici con i d’Aragona, cercando nel contempodi continuare la sua originaria e ben collauda-ta politica d’intrecci matrimoniali fra membri

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24 Costanza, figlia maggiore di re Manfredi di Svevia, aveva sposato il re Pietro III d’Aragona, mentre la figlia minoreBeatrice si era unita in matrimonio con Ranieri, detto Nieri, conte di Donoratico.

25 SALAVERT, Cerdeña. 26 H. FINKE, Acta Aragonensia, Rothshild, Berlin-Leipzig 1908. 27 CASULA, La storia di Sardegna, cit., p. 334. Si afferma che si tratta di una delle figlie del conte Ugolino dantesco andata

sposa a Giovanni di Mariano, giudice diArborea, ma è da sospettare che l’ipotesi nasca da un equivoco con la figlia dellostesso Ugolino che si maritò con Giovanni Visconti, giudice di Gallura, e da cui nacque «il gentil Nino».

28 TOLA, Codex Diplomaticus Sardiniae, cit., vol. I, p. 672, doc. XXVI.

delle sue maggiori casate e donne sarde chepotessero vantare pretese su qualcuno deiquattro Giudicati dell’isola. Nelle trattativeavviate con gli Spagnoli, ebbero gran parte iconti di Donoratico, discendenti da Gherar-do il Vecchio, i quali potevano vantare unabuona entratura presso i reali d’Aragona, es-sendo con loro imparentati24; nella corrispon-denza che in quell’epoca intercorse fra Giaco-mo II e Ranieri di Donoratico, detto Nieri,questi è più volte citato dal sovrano come«conte di Pisa»25 e chiaramente indicato co-me interlocutore preferito. Malgrado questabenevola disposizione d’animo del monarca,il Gherardesca riuscì solo a strappargli tran-quillizzanti assicurazioni circa il mantenimen-to futuro dei residui possedimenti Gherarde-sca in Sardegna, ma non riuscì ad evitare che,più tardi, scoppiasse un conflitto armato fragli Spagnoli e i Pisani26, benché questi ultimiavessero giocato un’ultima carta disperata of-frendo Pisa stessa in feudo a re Giacomo.

Per quanto poi riguarda le alleanze matri-moniali che avrebbero dovuto contribuire arafforzare la traballante posizione pisana nel-l’isola, quella che più direttamente riguarda lacasata comitale fu lo sposalizio intervenuto,attorno al 1315, fra Giacomina, vedova di ungiudice d’Arborea27, e il conte Tedice di Do-noratico, detto Tige, lontano congiunto diNieri stesso. Tale unione mirava evidentemen-te a predisporre ipotetiche pretese sul Giudi-cato d’Arborea, cosa che, come vedremo nelprossimo capitolo, regolarmente fu tentata,ma senza alcun esito pratico.

Le manovre per il controllo dei quattroGiudicati ed i relativi intrighi rappresentaro-no invece la motivazione per la quale gli Ara-gonesi, incitati dal papa, decisero infine d’in-tervenire in Sardegna, sbarcandovi nel 1323una poderosa armata di oltre diecimila soldatial comando dell’infante Alfonso. Gli Spagnoli

attaccarono, prima di tutto, Villa di Chiesa,conquistandola ed assicurandosi i suoi ricchigiacimenti argentiferi; la città venne da alloraribattezzata Iglesias. Da lì puntarono poi suCagliari, dove i Pisani si erano asserragliatinel ben munito castello dominante la città,con l’evidente intenzione di tentare una di-sperata resistenza ad oltranza, nella speranzache dalla patria fosse loro inviato soccorso.La Repubblica però, come già ricordato, nonera più in grado di sostenere adeguatamentele proprie ambizioni nell’isola.

Malgrado questo stato di fatto, con unosforzo eccezionale, Pisa riuscì ad armare unaflotta di una quarantina fra galee e legni28,che salpò da Piombino con a bordo soldati ecavalieri al comando del giovane conte Man-fredi, figlio di Nieri di Donoratico, nominatonell’occasione capitano generale. Circa l’effet-tiva consistenza delle forze messe a disposi-zione del Gherardesca, le opinioni degli stori-ci divergono sostanzialmente, poiché quelli i-berici tendono, per motivi comprensibilissi-mi, a dilatarla, mentre, per ragioni opposte,quelli italiani parlano di solo poche migliaiadi fanti ed alcune centinaia di cavalieri merce-nari tedeschi. Sta di fatto che Manfredi nondoveva reputarsi superiore di forze, tant’è ve-ro che, giunto in vista delle coste sarde, dopouna traversata ostacolata dal maltempo, com-prese il rischio di far vela direttamente su Ca-gliari, assediata anche dal mare da una grossaflotta aragonese, e preferì ricorrere ad unostrattagemma. Sbarcate nottetempo le suetruppe a Capo Carbonara, all’imbocco orien-tale del golfo cagliaritano, rispedì indietro lesue navi, dopo averle opportunamente zavor-rate, onde dare ad intendere, ad eventuali ve-dette nemiche, che esse fossero ancora cari-che di armati e che egli avesse dunque rinun-ziato a porre piede in Sardegna. Poi, con ca-valieri e fanti, iniziò la marcia di avvicinamen-

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29 P. TRONCI, Annali pisani, Forni, Bologna 1975, vol. I, p. 624. 30 G. GALGANI, Duemila anni di storia in Maremma: da Biserno a S. Vincenzo, Il Telegrafo, Livorno 1973. Vi si narra che

Manfredi venne sepolto nel castello di Siliqua (che viene probabilmente confuso con quello vicino di Acquafredda), ma nonsi accenna alla fonte dalla quale è stata attinta la notizia. Invece da una lapide ancora in possesso dei Gherardesca risultereb-be che egli fu tumulato nello stesso sepolcro del conte Nieri, suo padre.

31 FINKE, op. cit., pp. 390, 603 e 628. 32 AF, cartapecora n. 231/2. 33 G. ZURITA, Anales de la corona d’Aragon, Zaragoza 1967-74 (di cui un estratto si conserva nell’AF, f. 103, n. 1); e G.

MELONI, Mediterraneo e Sardegna nel Basso Medioevo, Edizioni Ets, Pisa 1988, pp. 99-121.

tima circa una conservazione dei propri do-mini in Sardegna.

Dopo la morte del conte Manfredi, la resi-stenza pisana a Cagliari si protrasse ancora al-cuni mesi, ma nel 1326 la Repubblica dovettecedere, firmando con gli Spagnoli un gravosotrattato di pace che, di fatto, la escludeva daogni sua ingerenza nell’isola. I Gherardescainvece, grazie ad un’abile trattativa finale con-dotta dal conte Bonifazio Novello, detto Fa-zio Novello, nipote di Nieri, riuscirono a sal-vare parte dei loro possessi sardi, conseguen-done investitura feudale dal re d’Aragona31.Ben poco però rimase loro rispetto agli opimidomini del passato anche se, come magraconsolazione, essi ottennero in compensazio-ne dagli Aragonesi due tenute in Spagna, checredo mai visitassero, ma che sono citate neltestamento di Fazio Novello32.

Le ultime vestigia del passato potere deiGherardesca nel cagliaritano si conservaronofin verso il 1355; però già nel periodo fra il1343 e il 1346, un consigliere catalano del red’Aragona formulò un progetto di «conquistadefinitiva della Sardegna», proponendo fral’altro di riscattare i feudi concessi ai conti diDonoratico. Il piano non ebbe attuazione macomunque vano risultò il tentativo dei figli diNieri di scongiurare, ancora per del tempo,questa ineluttabile evenienza.

Lo tentò prima il conte Bernabò e, dopo lasua morte avvenuta appunto in Sardegna nel1349, suo fratello Gherardo, il quale riuscìsolo ad impegolarsi malamente in un’oscuravicenda che lo condusse a morte violenta. In-fatti, nella guerra che nel 1353 scoppiò fra gliAragonesi e Mariano IV, giudice d’Arborea33,Gherardo si schierò inizialmente a fianco de-gli Spagnoli; dette però poi l’impressione diesser passato nel campo di Mariano, allorchéquesti, per sferrare un suo attacco a Cagliari,

to alla città assediata, tentando di cogliere, disorpresa, alle spalle gli Spagnoli, più numero-si e meglio armati dei Pisani. L’astuta mano-vra ebbe un successo iniziale allorché, nellevicinanze di Lococisterna, si verificò l’im-provviso contatto fra i due opposti schiera-menti, ma la spericolata strategia di Manfredicontava anche su di una contemporanea sor-tita, che era stata preventivamente concorda-ta con i Pisani assediati, e che invece inspie-gabilmente non avvenne. Con il protrarsi del-la battaglia, lo squilibrio numerico a favoredei soldati di Alfonso che, nel frattempo si e-rano ripresi da un primo sbandamento perl’attacco improvviso, cominciò a farsi sentiresempre più, finché i pur valorosi Pisani inizia-rono ad essere sopraffatti.

Si narra che il conte Manfredi fosse esem-pio a tutti per l’eroismo con cui si batté, mapoi, ferito gravemente, non ebbe altro scam-po che sfondare le linee nemiche con i suoicavalieri e rifugiarsi con i superstiti delloscontro nel castro cagliaritano29. Grazie allasua giovane tempra, il Gherardesca riuscì mi-racolosamente a ristabilirsi in breve volger ditempo e, non appena fu in grado di farlo, vol-le riassumere il comando dei suoi guidandoliancora una volta in un’improvvisa sortita dalcastello, tesa ad alleggerire la pressione del-l’assedio. Questa sua azione scompaginò letruppe spagnole, colte ancora una volta disorpresa, ma Manfredi fu nuovamente ferito,e questa volta a morte; ai suoi cavalieri non ri-mase che riportarne a Cagliari il corpo ormaisenza vita30. La sua eroica morte smentisce dasola quei cronisti partigiani che, in seguito,insinuarono che il figlio di Nieri non s’impe-gnò troppo in questa spedizione armata, pernon guastare i buoni rapporti che intercorre-vano fra gli Aragona e la sua famiglia e nonpregiudicare quindi le aspettative di quest’ul-

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34 Questo sigillo si conserva nel Museo di Cagliari.

passò senza colpo ferire attraverso il Campi-dano, dove il conte di Donoratico aveva isuoi feudi. La rivolta del giudice d’Arboreafu sedata poco dopo dagli Spagnoli, ma ilconte Gherardo, morto nel frattempo, chi di-ce in battaglia e chi invece ucciso da Marianostesso, fu a torto o a ragione accusato di fello-nia dal parlamento aragonese e, di conse-guenza, si procedette alla completa confiscadegli ultimi domini sardi dei Gherardesca,che ancora comprendevano vaste estensioniterriere nelle curatorie di Decimo e di Nora.

È pertanto attorno al 1355 che dovrebbeessersi conclusa l’epopea dei Gherardesca inSardegna; da allora, quella che era stata laparte da loro dominata nel «Regno di Caglia-

ri» non venne più menzionata in alcun altrodocumento della famiglia, dopo che per l’ulti-ma volta lo fu nel codicillo al testamento cheil conte Bernabò fece rogare a Cagliari nel1349. A testimonianza delle vicende sardedella schiatta comitale, non rimasero nell’isolache i ruderi dei vecchi castelli, le aquile sullefacciate del duomo d’Iglesias e della chiesa diNostra Signora di Pilar a Villamassargia, alcu-ne lapidi, il «Breve» del conte Ugolino, il si-gillo di quest’ultimo34 e quello del conte Gu-glielmo di Biserno, un paio di tornesi d’argen-to (unici esemplari della moneta battuta daiGherardesca) ed alcune nenie popolari, chenarrano dell’eroismo ma anche di un certoqual... caratteraccio dei Gherardesca stessi.

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1 N. TOSCANELLI, I conti di Donoratico della Gherardesca signori di Pisa, Nistri, Pisa 1937, p. 23.

Altri cenni storici su Gherardo il Vecchio e sui suoi figli, Nieri e Fazio

Concluso il racconto delle imprese deiGherardesca in Sardegna, occorre ora rianda-re molto indietro nel tempo e riportarci in Pi-sa dove, nei primi decenni del XIII secolo, siera consumata la decadenza politica dei Vi-sconti ed era salito alla ribalta il carismaticoGherardo, conte di Donoratico. Risultandopraticamente impossibile narrare le vicendedi questo ramo della casata comitale senza in-trecciarle con un altro segmento della medesi-ma, convenzionalmente indicato come quellodei «conti di Settimo» [tav. 12], ho riunito inun solo capitolo le vicende dei personaggidella schiatta che tanta influenza ebbero sullastoria della Repubblica Pisana fra l’inizio delXIII secolo e la prima metà del XIV secolo. Eper meglio inquadrare tutto questo processostorico che culminò con l’instaurazione a Pisadella Signoria dei Gherardesca, ripartirò ap-punto dal conte Gherardo il Vecchio.

Secondo il Toscanelli1, Gherardo parte-cipò, appena ventenne, alla quinta crociatapromossa da papa Onorio III nel 1216; e inparticolar modo durante l’assedio di Damiet-ta, seppe mettere in evidenza eccezionali dotidi coraggio guerresco. Se questa esperienzagiovanile da crociato sia stata vissuta o meno,non ho potuto accertarlo da alcun documen-to, ma resta la certezza che, nella sua lunga e-sistenza, questo Gherardesca dimostrò am-piamente di essere un valoroso condottiero inguerra ed una saggia guida in tempo di pace,tanto da essere amato ed ascoltato dai Pisaniper molti decenni. Legato all’imperatore Fe-

derico II da leale e profonda amicizia, egli fustrenuo difensore della causa degli Svevi in I-talia, fino all’estremo sacrificio della propriavita.

Questo conte di Donoratico si era sposatocon Teodora dei marchesi di Monferrato e dalei aveva avuto due eredi maschi, Bonifaziodetto Fazio e Ranieri detto Nieri, nonché unafemmina, Teccia, che andò sposa ad Anselmoda Capraia, giudice di Arborea in Sardegna.Come vedremo fra breve, i due figli furonosempre i più convinti seguaci della politica fi-loimperiale inspirata dal padre al governo diPisa; e lo fu in particolar modo Nieri, il quale,dopo che il genitore fu fatto giustiziare a Na-poli da re Carlo d’Angiò, per quella bramosiadi vendetta che mai più lo abbandonerà nelcorso di tutta l’esistenza, si arruolò sotto le in-segne aragonesi per combattere in Sicilia gliAngioini, nemici giurati della sua casata. Fuappunto durante questa sua spedizione sici-liana che conobbe e sposò la giovanissimaBeatrice, figlia ultimogenita del defunto reManfredi di Svevia e sorella quindi della regi-na Costanza, moglie di re Pietro III d’Arago-na. Con tale matrimonio, seguito a quello fraGuelfo ed Elena, fu allacciato un secondo le-game fra i Gherardesca e gli Hohenstaufen efu inoltre contratta quella parentela con gli A-ragona che, come abbiamo visto, non mancòdi produrre i suoi benefici effetti allorché gliSpagnoli conquistarono la Sardegna. Gli in-transigenti convincimenti ghibellini del conteNieri furono esaltati da questo prestigiosomatrimonio, e si può quindi ben comprende-re l’avversione da lui sempre provata nei con-fronti delle tendenze politiche del suo con-

CAPITOLO QUINTO

I conti di Donoratico e la loro Signoria su Pisa

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2 Solo cinque galee genovesi riuscirono a salvarsi fuggendo, mentre tre furono affondate e ventidue catturate. 3 Poco prima era stato nominato senatore di Pisa.

sanguineo conte Ugolino, tutte mirate ad unamigliore intesa non solo con le città guelfedella Toscana, ma addirittura con gli stessiAngiò. Proprio per tale sua avversione, Nieriscelse, per lunghi anni, di tenersi lontano daPisa, preferendo soggiornare nei suoi castellimaremmani e, per un breve periodo, rifugian-dosi anche in Sardegna, dove fu fra l’altro o-spite del cognato da Capraia, giudice di quel-l’Arborea che confinava con i domini sardidei Gherardesca.

Suo fratello Fazio, invece, meno sanguignoe più diplomatico di lui, si mantenne al difuori degli affari di governo della Repubblica,ma non si dimostrò altrettanto apertamenteostile al conte Ugolino, divenuto ormai di fat-to il signore di Pisa. In questo atteggiamentodi Fazio, si può ritrovare qualche lato dellaprudenza che aveva contraddistinto la con-dotta di Gherardo il Vecchio, il quale avevasempre avuto cura di operare in stretto accor-do con il ramo di famiglia dei conti di Settimoche, di tutto l’esteso parentado dei Gherarde-sca, era quello a lui più vicino a Pisa.

I conti di Settimo

All’epoca in cui Gherardo il Vecchio avevaesordito nella vita pubblica, a capo del ramodei conti di Settimo era il conte Guelfo, padredi Ugolino; più anziano del conte di Donora-tico, Guelfo ne intuì subito le eccezionaliqualità e le indubbie doti carismatiche e maigli contese il primato nell’ambito cittadino,divenendone anzi fedele seguace nel disegnopolitico e, quando se ne presentò l’occasione,affidabile alleato in guerra.

Questo Guelfo, conte di Settimo, è storica-mente ricordato soprattutto come uomo d’ar-mi e di lui si accenna in particolare in occasio-ne di due vittoriosi scontri navali nel corsodei quali egli fu al comando delle forze pisa-ne. Il primo ebbe luogo nei pressi delle costesarde e si concluse con la cattura di una navedei da Capraia che, carica di armi ed armati,

era stata inviata a sostegno dei Visconti inSardegna, nel periodo medesimo in cui, con-tro di loro ed in nome di Pisa, combattevanell’isola Ranieri «il Piccolino». La seconda epiù importante battaglia navale si svolse il 3maggio 1241 nelle acque fra le isole di Mon-tecristo e del Giglio, dove la flotta pisana ca-peggiata da Guelfo e quella imperiale alle di-pendenze di re Enzo di Svevia (che però nonfu presente allo scontro per essere rimasto aPisa), intercettarono e sbaragliarono una po-tente flotta genovese, sulle cui navi erano im-barcati numerosi cardinali e vescovi diretti aRoma per partecipare ad un concilio convo-cato dal pontefice Gregorio IX allo scopo difar formalmente condannare la condotta anti-papale dell’imperatore Federico II. Gli altiprelati furono in gran parte fatti prigionieri2 econdotti a Pisa legati, si narra, con simbolichecatenelle d’argento, ma la nobiltà di questometallo non valse a stemperare lo sdegno delpontefice che subito lanciò anatemi contro reEnzo, contro Pisa e, significativamente, noncontro Guelfo bensì contro Gherardo, per ilquale fu avviato un processo di scomunica. Èchiaro che questa impresa militare era statavoluta dagli Svevi per umiliare il papa, con ilquale essi si trovavano in insanabile contrastopolitico però, a giudicare dalla reazione dellaChiesa, il conte di Donoratico doveva essernestato il principale ispiratore, anche se non ri-sulta che egli abbia personalmente partecipa-to alla battaglia.

Quando nel 1247 morì il conte Guelfo3,l’unico suo figlio maschio, Ugolino, gli suben-trò a capo del ramo dei conti di Settimo.

Il conte Ugolino e i prodromi di una tragedia

Fu questi quel conte Ugolino del qualeDante tramandò nei secoli il nome e le dram-matiche vicende, narrandole magistralmentein uno dei più bei canti della Divina Comme-dia. Anche se in questo tragico modo Ugolino

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4 Landuccio (o Banduccio) era forse un figlio spurio allevato in casa.

divenne il personaggio popolarmente più no-to, fra i Gherardesca, non ritengo che egli siastato di taglia superiore ad altre figure stori-che della sua schiatta, quali, ad esempio,quelle di Gherardo il Vecchio, Gherardo ilGiovane e, soprattutto, Fazio Novello. Per lanotorietà conferita ad Ugolino da Dante Ali-ghieri, gli storici hanno ovviamente appunta-to la loro particolare attenzione più su di luiche su alcun altro dei personaggi appena cita-ti, ma non sempre hanno saputo soppesare levicende ugoliniane con la dovuta obiettivitàed il necessario distacco dalla poetica e ro-manzata traccia dantesca.

Per quel che mi riguarda dunque, pur sof-fermandomi quanto necessario su questo arci-noto Gherardesca, cercherò piuttosto di ana-lizzarne il complesso carattere, così come cre-do di averlo potuto ricostruire su base docu-mentale, ed inquadrarne il valido disegno po-litico, nella personale convinzione che esso,da solo, sia sufficiente ad assolvere storica-mente l’Ugolino dantesco ed a trarlo fuori...dall’Inferno dove impietosamente lo cacciò ilSommo Vate. Le colpe addossate al conte diSettimo travisarono o quantomeno trasceserola realtà e la vera sostanza dei fatti, e furono i-noltre dilatate a dismisura dalla rinomanzaconferita loro dalle splendide ma fuorviantirime di Dante che, in effetti, intendeva conesse colpire Pisa, atavica nemica di Firenze,piuttosto che lo stesso Ugolino. Prima dun-que di accennare alle sue presunte colpe, cer-cherò di tratteggiare il carattere del personag-gio onde riuscire poi a meglio soppesarne idiversi comportamenti nelle varie fasi dellasua movimentata esistenza.

Ugolino si era sposato, ancor giovane, conMargherita dei conti Pannocchieschi di Mon-tegemoli; con lei aveva messo al mondo unaprole assai numerosa che comprendeva sei fi-gli maschi4 e tre femmine. Partendo proprioda queste ultime, si può già intuire che i loromatrimoni furono un significativo indizio del-le incertezze politiche che tormentavano ilconte di Settimo, sempre in bilico fra il visce-rale ghibellinismo della famiglia ed i propri

larvati e più ragionati orientamenti guelfi, for-se coltivati più per opportunismo che per rea-le convinzione. La figlia maggiore, di nomeGherardesca, andò sposa a Guido NovelloGuidi, conte di Modigliana e vicario generaledi re Manfredi in Toscana, e la seconda, Emi-lia, al conte Ildebrando Aldobrandeschi. Il ri-svolto ghibellino di tali due imparentamenti èfuor di ogni dubbio, ma la terza figlia, dellaquale non ci è nemmeno pervenuto il nome,si maritò invece con il guelfo Giovanni Vi-sconti, terzo giudice della sua casata nella sar-da Gallura. Questo matrimonio costituisceforse un primo segnale del mutamento in cor-so nelle vedute politiche del conte Ugolino,che peraltro, nel frattempo, come sappiamo,aveva di buon grado accettato d’imparentarsicon la casa imperiale degli Hohenstaufen,grazie alle programmate nozze del suo primo-genito Guelfo con Elena di Svevia.

Come prima di lui aveva fatto suo padre,anche Ugolino mantenne sempre buoni rap-porti con il consanguineo Gherardo il Vec-chio, ma non si può escludere che nel suo in-timo egli non covasse una punta d’invidia perle doti di condottiero di questo suo più anzia-no parente che di fatto era divenuto il signoredi Pisa, anche se di Signorie vere e proprienon era ancora giunto il tempo di parlare inquel periodo di forte impegno comunale. Fututtavia a seguito di tale pur celato antagoni-smo nei confronti del conte Gherardo, che U-golino preferì sottrarsi ad una vita pubblica disecondo piano in Pisa e trasferirsi per tantianni nei domini sardi della famiglia, dove sisarebbe sentito meno condizionato dalla fortepersonalità del congiunto e dove del resto,come abbiamo potuto vedere nel capitoloprecedente, seppe mettere in mostra ragguar-devoli doti di governo e di capacità ammini-strativa. A Pisa egli infatti rientrò solo dopo latragica morte sul patibolo angioino di Gherar-do. Apparentemente dimentico, a quel punto,della parentela di suo figlio Guelfo con gliHohenstaufen, alla quale senza dubbio avevatenuto molto in precedenza, Ugolino comin-ciò a sostenere che era stato un grave errore

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l’aver legato le sorti della Repubblica alla de-clinante stella degli Svevi, e soprattutto l’averpraticato una politica ghibellina troppo in-transigente che aveva contribuito ad inimicar-si sempre più i comuni di Firenze e Lucca,con i quali sarebbe stato assai più saggio econveniente per Pisa mantenere pacifiche re-lazioni, onde sviluppare proficui flussi com-merciali che avrebbero contribuito a risolle-vare le sorti della sua traballante economiamercantile. È bene ricordare che l’antica re-pubblica marinara aveva ormai perduto granparte dei suoi sbocchi sui mercati d’Oriente,nei quali era stata soppiantata da Venezia, eche per far sopravvivere il suo porto aveva unpressante bisogno di aprirsi al suo naturaleentroterra, rappresentato appunto da Luccae, soprattutto, da Firenze, dove stavano rapi-damente espandendosi fiorenti attività artigia-no-industriali. Il conte Ugolino, sotto questoprofilo, mostrò di avere una precisa nozionedel nesso che, ancor oggi, intercorre fra unporto ed il suo immediato retroterra, nonchédell’estrema necessità che Pisa aveva di colle-garsi con esso per ravvivare la languente atti-vità della propria flotta mercantile. In tale im-postazione economico-politica, il conte di Set-timo ebbe per alleato suo genero GiovanniVisconti, il quale, proprio con i comuni guelfidella Toscana aveva sempre mantenuto ottimicontatti ed intese.

Nel contempo andava anche maturando u-na riappacificazione con re Carlo d’Angiò: ilrelativo atto ufficiale venne firmato nel 1272,con comprensibile disappunto dei figli diGherardo il Vecchio, che appena quattro anniprima era stato fatto giustiziare dallo stessoAngiò. A seguito di questa repentina inversio-ne della politica del governo pisano, in cittàcominciarono a scoppiare dei disordini fra isostenitori ugoliniani della nuova impostazio-ne ed i loro avversari, fra i quali, più o menoapertamente, dovevano anche annoverarsi iconti Fazio e Nieri, i quali certo mal tollerava-no di vedere in tal modo sconfessata la lineapolitica sostenuta da loro padre. Questi san-guinosi tumulti si protrassero anche dopo chefu raggiunto l’accordo con gli Angioini, e, persedarli, al comune di Pisa non restò altra via

che procedere con energia nei confronti deipiù sediziosi. Giovanni Visconti dovette alloradarsi alla fuga, riparando sotto l’ala protettri-ce della lega dei comuni guelfi della Toscana,mentre lo stesso Ugolino che, oltre a tutto do-po la recente morte di re Enzo si era rifiutatodi corrispondere a Pisa i tributi dovuti per idomini sardi assegnatigli in realtà dalla Re-pubblica ma che lui ora, per quanto dispostodal testamento di Enzo, considerava invece didiretta investitura regia, fu imprigionato il 14luglio 1274 e tenuto per qualche tempo incarcere a Pisa. Caldeggiato da Giovanni Vi-sconti, scoppiò nel contempo l’ennesimo con-flitto fra i comuni della Taglia Guelfa e la Re-pubblica Pisana. Ugolino, che gli incauti Pisa-ni avevano troppo frettolosamente scarcerato,scese allora in campo quale alleato dei comu-ni guelfi ed invase con i propri armati vastiterritori pisani, distruggendo Montecchio eBientina, portando guasti a Vico Pisano eMontecastello ed impadronendosi infine di S.Maria a Monte. La guerra si protrasse senzasoste fino al 1276, cioè fino a quando Pisanon si trovò costretta a firmare una pace conFirenze, in virtù della quale il conte Ugolinofu in grado di rientrare trionfalmente nellasua città. Da quel momento fu per lui assaipiù agevole incanalare la politica della Repub-blica sui binari di una ricerca d’intesa con icomuni dell’entroterra; probabilmente il suopiano era anche quello di assicurare a Pisamaggior tranquillità lungo i propri confini,mentre andava profilandosi un inevitabilescontro armato con la rivale Genova. Anchesotto questa angolazione, Ugolino perseguivauna precisa strategia che nulla aveva a che fa-re con tradimenti od altro. Anzi, al lume diquanto avvenne in seguito, sarei propensopiuttosto a considerare lungimiranti le veduteche il vecchio conte volle imporre con cocciu-taggine, nel fermo intento di procurare allapropria patria sia un profittevole retroterracommerciale che confini terrestri più pacificie sicuri.

Proprio in quegli anni venne però a man-cargli il sostegno di Giovanni Visconti, chemorì lasciando a suo erede un giovanetto, o-monimo del suo nonno materno conte di Set-

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5 Ugolino era nato attorno al 1210 e non già nel 1220 come erroneamente sostenuto da alcuni storici. Se quest’ultima ipo-tesi fosse esatta, egli avrebbe infatti avuto il maschio primogenito Guelfo, che nacque nel 1234, a soli quattordici anni d’etàné può esludersi che, prima di Guelfo, sia addirittura nata qualcuna delle figlie di Ugolino stesso. Oltre a ciò, nel 1232 egliandò a combattere in Sardegna con Ranieri «il Piccolino», e quindi, all’epoca, non poteva certo essere un fanciulletto.

timo, ma che la storia e Dante ci hanno tra-mandato con il nomignolo di «Nino». Del-l’opposizione ai progetti di Ugolino da partedei figli di Gherardo il Vecchio, ho già accen-nato; di questi due Gherardesca non resta chesottolineare ancora una volta la diversità ca-ratteriale: violento e intransigente il conteNieri, più subdolo e prudente, invece, il conteFazio. Non si potrebbe altrimenti spiegarequel grado di capitano generale che Fazioconseguì proprio in quegli anni dal comune,con l’indubbio consenso di Ugolino che do-minava ormai la ribalta cittadina.

Agli inizi del 1284, Fazio fu infatti inviatoin Sardegna, con tale roboante grado ma conpoche e vecchie galee; l’intenzione era quellari rafforzare nell’isola le difese pisane in vistadella guerra con Genova, ma il Donoraticonon riuscì nemmeno a raggiungere la sua me-ta, poiché nelle acque dell’isola di Tavolara fusorpreso da preponderanti forze navali geno-vesi e fatto prigioniero.

La guerra contro Genova e la sconfittadella Meloria

Prima che scoppiasse il conflitto vero eproprio con Genova, il conte di Settimo si eraadoperato con ogni sua energia a stringeresempre più amichevoli rapporti con Firenzee, almeno a giudicare dal mancato successivointervento di questo comune a favore dei ge-novesi, si dovrebbe concludere che l’azione diUgolino ebbe pieno successo, almeno sottoquesto aspetto. Ma se egli andava cercando dispengere i fuochi di guerra lungo i confiniterrestri della Repubblica Pisana, non altret-tanto gli fu possibile fare per quelli marittimi,dove il contrasto con la nemica di sempre siradicalizzava ogni giorno di più, frazionando-si in una miriade di piccoli scontri navali, concui le due Repubbliche rivali si ostacolavano avicenda il regolare svolgimento dei rispettivitraffici marittimi, linfa vitale per entrambi.

Malgrado che da tempo avesse già superatii settant’anni5, il conte Ugolino sembrava avertrovato una seconda giovinezza dedicandosicon vigore al governo di Pisa, che egli confi-dava di poter risollevare alle antiche glorie.Risale forse a quel periodo l’aneddoto su dilui, riportato in una lettera che nel 1625 sitrovava ancora nelle mani dello speziale fio-rentino Luca Chiari e della quale ho trovatoun estratto nell’archivio dei Gherardesca. Inessa si racconta che, per festeggiare un suocompleanno, Ugolino fece organizzare

una ricca festa dove ebbe figlioli et nipoti et tuttosuo legnaggio et parenti, uomini et femmine congrande pompa di vestimenta et di corredi et di ap-parecchiamenti. Il conte mostrò la sua grandezza epotenza ad un savio uomo di corte chiamato MarcoLombardo et da questi ebbe per risposta che stassepreparato alle disgrazie, perché a lui nulla mancavafuorché l’ira di Dio. E fu vero perché subito la for-tuna abbandonò il conte Ugolino et per lui comin-ciarono quelle sventure che lo portarono a tanta mi-seranda fine.

In effetti questa profetizzata ira divina co-minciò a manifestarsi quando, scoppiata laguerra con Genova, la medesima si conclusein pochi mesi con la cocente disfatta di Pisanella battaglia navale combattuta fra le dueflotte nemiche, il 6 agosto 1284, nei pressidell’isolotto della Meloria. In tale battaglial’ormai ultrasettantenne conte di Settimo nonebbe gran parte attiva, poiché, pur rivestendoil grado di capitano generale e ammiragliodella flotta, assieme al podestà Alberto Moro-sini, lasciò a quest’ultimo e all’ammiraglio Sa-racini l’effettivo comando del grosso dell’ar-mata navale pisana, forte complessivamentedi 60 o 70 galee oltre ad un buon numero dilegni minori. Il vecchio conte si limitò invecea capeggiare chi dice dodici e chi sole tre ga-lee, piazzate alla foce d’Arno per impedireche navi nemiche tentassero di forzare il por-to per risalire poi verso la città. In tal senso sipuò ben dire che egli assolse al compito affi-datogli, perché, malgrado la disastrosa scon-

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fitta subita dalla flotta pisana, che venne pra-ticamente annientata, nessuna galea genoveseosò attaccare direttamente Pisa. Secondo cro-nache dell’epoca, peraltro in disaccordo fraloro circa l’esatto numero di essi, risulta che iGenovesi alla Meloria fecero una strage di Pi-sani ed un gran numero di prigionieri, fra iquali l’ammiraglio Morosini e il conte Lotto,figlio di Ugolino. Una lapide murata nellachiesa di S. Matteo a Genova parla di 9272nemici catturati (forse inclusi quelli fatti pri-gionieri in altre battaglie che avevano prece-duto la Meloria); ma anche se detto numeronon fosse del tutto veritiero, rimane per certoche furono comunque così tanti da far circo-lare, in quegli anni, un mordace detto, forsedi conio fiorentino, che così suonava: «Chivuol veder Pisa vada a Genova».

Alcuni storici, non del tutto imparziali, ri-collegarono le cause della disfatta della Melo-ria a presunte responsabilità del vecchio contedi Settimo e quindi da esse le motivazioni del-la triste sorte da lui subita pochi anni dopo.Non si comprende però come Ugolino avreb-be potuto ribaltare le ormai ben delineate sor-ti dello scontro, buttandovi dentro le poche ecerto più vetuste navi al suo comando, mentreassai più palese appare il rischio che avrebbe-ro corso Pisa e i suoi abitanti, se la boccad’Arno fosse rimasta del tutto indifesa.

Dalla proclamazione di Ugolino a podestàper dieci anni al suo imprigionamento e alla sua morte per fame

Se veramente il conte di Settimo si fossemacchiato della colpa poi addossatagli, non sispiegherebbe il motivo per il quale, due annidopo la Meloria, i Pisani lo chiamassero a ri-coprire la carica di podestà per l’eccezionaledurata di dieci anni, proclamandolo di fattoloro signore. Del resto, subito dopo la disa-strosa sconfitta navale, Ugolino era anche sta-to acclamato dai suoi concittadini «salvatoredella patria» per essersi adoperato con suc-cesso onde evitare che Firenze approfittassedella situazione ed attaccasse Pisa dalla partedi terra, infliggendole il colpo di grazia defini-

tivo. Si narra anzi che egli, per assicurarsi laneutralità fiorentina, non esitò nemmeno a re-carsi di persona nella città rivale.

Di fronte all’offerta dell’anomalo podesta-riato decennale, Ugolino, troppo ambiziosoper rifiutarlo, si rese almeno conto che la suaetà avanzata non gli avrebbe probabilmenteconsentito di espletarlo sino alla sua lontanascadenza, e perciò chiese ed ottenne di poter-si associare nel potere il nipote Nino Visconti,il quale lasciò allora il Giudicato di Gallura erientrò a Pisa per affiancare l’avo materno nelgoverno della Repubblica.

I due signori, in perfetto accordo fra loro,proseguirono nella politica di buon vicinatocon Fiorentini e Lucchesi e, pur di assicurar-sene la non belligeranza, in un frangente cosìdelicato per Pisa, non si tirarono indietronemmeno quando si trattò di restituire a talicomuni alcune castella di confine, sottratte lo-ro dai Pisani anni prima. Inutile dire che det-ta pur saggia decisione dei due podestà, su-scitò un forte malcontento fra i ghibellini pi-sani che ancora potevano contare su di unforte seguito. Ugolino non si dette però pervinto e, per quasi due anni, governò con il ni-pote a dispetto degli avversari, promulgandoaddirittura un nuovo statuto per la Repubbli-ca, i «Brevi Pisani Communis», la cui impo-stazione tendeva già a prefigurare l’avventonella città di una formale Signoria. Era la pri-ma volta che si tentava di indebolire le istitu-zioni comunali ed è ovvio che da ciò prorup-pero nuovi risentimenti da parte dei nemicidel conte, i quali, fra l’altro, cominciarono adaccusarlo di non adoperarsi a sufficienza perraggiungere una pace con Genova, che per-mettesse il rimpatrio dei tanti prigionieri pisa-ni che ancora languivano nelle carceri dellacittà ligure. In realtà i due podestà non aveva-no mai cessato di trattare con i vincitori dellaMeloria e nell’aprile del 1288 erano persinoriusciti a farsi da essi rimettere una bozza diproposta di tregua, sotto forma però di ungravosissimo accordo che non venne firmatoper insormontabili difficoltà pratiche di attua-zione; in esso, infatti, i Genovesi avevano pre-vista una complessa meccanica per il paga-mento di rilevanti penalità a loro favore, nel-

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Opera d’arte raffigurante la morte del conte Ugolino e dei suoi familiari.Pierino da Vinci, Bassorilievo in terracotta (già proprietà Gherardesca, oggi Antinori)

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Opera d’arte raffigurante la morte del conte Ugolino e dei suoi familiari.Jules Jean Baptiste Carpeaux, Statua in marmo, Metropolitan Museum, New York

[fig. 13]

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6 Era della nobile casata degli Ubaldini.

l’ipotesi che i Pisani avessero trasgredito aipatti di pace.

Gli avversari di Ugolino, decisamente inmalafede, colsero allora l’occasione per rivol-gergli la demagogica accusa di non voler farrientrare i prigionieri stessi, nel timore che fradi essi si annoverassero più oppositori che so-stenitori della sua politica. Chi attaccava in talmodo il conte di Settimo fingeva di non ricor-dare che, fra tali prigionieri, vi era anche unfiglio di Ugolino, Lotto, oltre al consanguineoFazio. Questi, per la verità, irritato anche pernon essere ancora stato riscattato, si era la-sciato coinvolgere dai Genovesi nella congiu-ra antiugoliniana che in Pisa andava semprepiù prendendo corpo proprio con l’appoggioesterno di Genova, la quale aveva addiritturapromesso ai congiurati il blocco del porto pi-sano con le proprie navi, non appena fossescoppiata la rivolta contro il conte di Settimo.Tali navi, su una delle quali era stato imbarca-to anche il conte Fazio, presero in effetti ilmare, ma arrivarono solo a cose fatte poiché,mentre erano ancora in navigazione, l’arcive-scovo Ruggeri6, che capeggiava la fazione ghi-bellina in Pisa, decise di rompere ogni indu-gio e di esautorare il conte Ugolino ricorren-do ad uno strattagemma. Gli fece infatti cre-dere che tutto il risentimento dei ghibellini siconcentrava più che altro sul nipote Nino,troppo acceso sostenitore della parte guelfa, econvinse il vecchio conte a ritirarsi, momenta-neamente, nel suo castello di Settimo, ondeconsentire che i Pisani si rivoltassero controquel presunto unico bersaglio dei loro mal-contenti.

Anche quasta versione postuma dei fatti ap-pare tale da suscitare legittimi dubbi, però èvero che, in quei giorni, Nino si trovò costret-to a fuggire dalla città ed a trovare rifugiopresso la Lega Guelfa, così come a suo tempoaveva dovuto fare anche suo padre Giovanni.Convinto allora che ogni ribellione si fosse or-mai placata in Pisa, si dice che Ugolino rien-trasse in città con i suoi armati, ma il Ruggerilo attirò ancora in una trappola invitandolo apresiedere una riunione nel Palazzo degli An-

ziani, situato nella parte opposta della città ri-spetto al quartiere di Chinseca, dove erano u-bicate le torri dei Gherardesca.

Il conte di Settimo si recò a tale riunionesenza sospetti ed accompagnato solo da alcu-ni dei suoi figli e nipoti; ma giunto a destino,fu subito fatto imprigionare assieme ai suoifamiliari, e cioè a due figli, Gaddo e Uguccio-ne, e a due nipoti, Ugolino detto Nino il Bri-gata, figlio di Guelfo e di Elena di Svevia, eAnselmuccio, figlio di Lotto, ancora prigio-niero a Genova. Un terzo figlio del vecchioconte, Landuccio, fu forse ucciso nel corsodella difesa del palazzo e delle torri paterne,quando anch’esse vennero assalite dai congiu-rati nel tentativo di ammazzare o catturaretutti i componenti della famiglia del depostosignore.

I cinque Gherardesca, fatti prigionieri nelPalazzo degli Anziani, furono rinchiusi in unatorre appartenente alla casata dei Gualandi,che pare si appoggiasse al muro del palazzoprecitato e che originariamente era denomina-ta «della muda», prima di essere ribattezzata«della fame» per quanto vi avvenne. Una leg-genda popolare, ripresa con fiorentina acredi-ne da Dante, narra che, dopo averli rinserratinella torre, venne gettata in Arno la chiave delportoncino dell’improvvisato carcere, ondescongiurare ogni rischio di una liberazione deiGherardesca da parte dell’ancor potente loroconsorteria. A carico dei malcapitati non fucelebrato alcun processo pubblico; ed anchese, sul conto di Ugolino, continuarono a cir-colare le già note quanto infondate accuse,appare mostruosamente ingiusto che altri suoifamiliari, che da dette accuse non erano nem-meno lontanamente sfiorati, ne subissero an-ch’essi le atroci conseguenze. Invano parentied amici dei conti di Settimo versarono, a piùriprese, le forti somme di riscatto di volta involta richieste dagli Anziani di Pisa, i qualicontinuarono a reclamarne sempre di nuove edi maggiori, fino a quando il rivolo di denaronon giunse ad inaridirsi.

Il Davidsohn, nella sua bella Storia di Fi-renze, narra che tutte quelle laboriose trattati-

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Una grande casata guerriera del Medio Evo 91

7 Lo narra Scipione Ammirato il Vecchio. 8 Guelfuccio era un nipote di Guelfo e Elena, figlio di loro figlio Arrigo detto Enzo, come il nonno materno. 9 Tali beni non furono mai più restituiti ai conti di Settimo, malgrado che una condizione in tal senso sia stata inserita nei

diversi trattati che Pisa dovette firmare con Firenze e i comuni di Taglia Guelfa, negli anni successivi alla morte di Ugolino. 10 AF, f. 153, a. 1304.

ve furono «ascoltate» per mesi anche dallevittime che, alla meglio, potevano seguirle at-traverso il muro in comune che separava laloro prigione dalla sala in cui si riunivano gliAnziani stessi, i quali, a loro volta, potevanoudire i gemiti dei disgraziati Gherardesca cheandavano lentamente spengendosi di fame edi stenti. Dopo nove mesi di prigione, Uguc-cione e Gaddo furono i primi a rendere l’ani-ma a Dio, mentre loro padre, a dispetto del-l’avanzatissima età, riusciva ancora incredibil-mente a resistere. Nessuno però volle, o poté,togliere dalla cella i due primi cadaveri che ri-masero così a far macabra compagnia ai tresuperstiti. Sentendo ormai prossima anche lasua fine, il vecchio Ugolino invocò a gran vo-ce che gli fosse inviato un sacerdote o un frateche lo potesse confessare ed assolvere dai suoipeccati7, ma, pur udendolo, gli Anziani nega-rono spietatamente anche questo estremoconforto. Poi, il 18 marzo 1289, ogni gemitocessò e fu silenzio di morte.

La vendetta dei Pisani nei confronti di tutta la famiglia del conte di Settimo

Qualche giorno più tardi, gli Anziani, con-vinti ormai che i prigionieri fossero tutti dece-duti, decisero di far riaprire la porta della tor-re dentro la quale furono rinvenuti, in stato diavanzata decomposizione ed orrendamenterosicchiati dai topi, i corpi senza vita dei cin-que Gherardesca. Forse proprio da quest’ulti-mo scempio perpetrato dai ratti, nacque la di-ceria di un cannibalismo fra i malcapitati cheDante lascia intravedere nell’ambiguo versoche dice: «più che il dolor poté il digiuno».Alcuni commentatori di queste drammatichevicende hanno sostenuto, in difesa dell’opera-to degli Anziani di Pisa, che se i figli e i nipotidi Ugolino erano stati anche loro incarcerati elasciati morire di fame, dovevano pur essersianch’essi macchiati di qualche crimine. Se ciò

può forse non escludersi per Nino il Brigata,che era un violento e già era stato accusatodell’assassinio di un avversario politico, altret-tanto non è comprovabile per gli altri suoicongiunti. Ancor meno si può spiegare per-ché venne crudelmente incarcerato, ma nonnella torre della fame, anche un bisnipote delconte di Settimo, Guelfuccio, il quale, a quel-l’epoca, aveva appena compiuto tre anni8. Lasua tenera età costrinse addirittura i suoi a-guzzini ad imprigionare con lui anche un’in-nocente nutrice affinché lo accudisse. Perquasi venticinque anni i due poveretti langui-rono insieme nel carcere, fino a quando, nel1312, non intervenne in loro favore l’impera-tore Arrigo VII del Lussemburgo (il dantesco«alto Arrigo») il quale ne ordinò la liberazio-ne. Per Guelfuccio era però ormai troppo tar-di, poiché, stremato dai troppi stenti sofferti,decedette poco tempo dopo.

Oltre a quelli sino ad ora citati, i rimanentimaschi della famiglia di Ugolino scamparonola vita o per aver avuto la buona sorte di tro-varsi lontani da Pisa o per essere riusciti ad al-lontanarsene prima di venir catturati. Tutti iconti di Settimo superstiti furono comunquebanditi dai territori della Repubblica e venne-ro a loro confiscati dal comune i palazzi incittà (che peraltro erano stati rasi al suolo) e ipossedimenti nelle immediate vicinanze di Pi-sa9, mentre nulla potette fare il comune mede-simo al riguardo dei loro domini maremmaniin quanto beni indipendenti della comunitàparentale dei Gherardesca. Il mancato inca-meramento delle quote di proprietà che gli e-redi di Ugolino vantavano su tali terre, non ri-sulta smentito da alcun documento; ci è con-fermato anzi da un manoscritto del 28 novem-bre 130410, nel quale si accenna a possedi-menti in Maremma degli eredi di Ugolino, ri-badendo con ciò la particolare autonomia dicui godeva l’enclave dei Gherardesca, sul qua-le Pisa non poteva esercitare alcuna sostanzia-le giurisdizione.

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92 I della Gherardesca

11 Il suo nome era forse Leona. 12 F. DAL BORGO, Dissertazioni sopra l’istoria di Pisa, Giovannelli, Pisa 1761, vol. I, parte I, pp. 32-33. Si riporta quanto

scritto dal domenicano Frà Tolomeo de’ Fiandoni nei suoi Annali. Lo scrittore lucchese era anche stato uno degli esecutoritestamentari della contessa Capuana.

Ma torniamo ora ai conti di Settimo super-stiti. Di Guelfo, Lotto e Matteo ho già parlatotrattando delle vicende sarde della casata. Ag-giungerò ora solo alcuni cenni relativi alla vitadi Lotto e di Matteo, per eventi accaduti do-po la conclusione della rivolta in Sardegna diquesti Gherardesca.

Lotto, durante il periodo della sua prigio-nia a Genova, godette evidentemente di ri-guardi particolari, tanto da poter sposare inseconde nozze, proprio in quegli anni, unaSpinola11, figlia di Oberto, capitano del popo-lo nella città ligure. Fu certo grazie a questasua prestigiosa parentela, che Lotto poté an-che essere riscattato in anticipo, rispetto aglialtri prigionieri pisani, ed aiutato a raggiunge-re la Sardegna per combattere contro Pisacon suo fratello Guelfo.

Matteo, invece, dopo essere forse stato an-ch’egli, per un breve periodo, nell’isola, andòsuccessivamente a risiedere a Bologna, per poiricomparire nel 1314 a fianco di Uguccionedella Faggiola, quale uno dei maggiori prota-gonisti della vittoriosa guerra di Pisa controLucca. A lui anzi si attribuisce lo strattagem-ma grazie al quale le truppe pisane riuscironoad aver ragione della resistenza nemica, vio-lando le mura lucchesi e penetrando nellacittà attraverso le porte di S. Giorgio e di S.Frediano.

Proprio in Lucca, anni prima, si era rifugia-to un altro Matteo, parente del primo perchéfiglio di Nino il Brigata. Questo bambino erafuggito da Pisa con sua madre, una Capuanada Panico, onde evitare la medesima sorte cheera toccata al suo cugino e coetaneo Guelfuc-cio. Madre e figlio vissero, in seguito, a Luccaed alla loro morte furono seppelliti nella chie-sa lucchese di S. Romano, dove tutt’oggi sipuò vedere la lapide del loro sepolcro12. Al difuori di Anselmuccio, di cui ci è nota la mortenella Torre della Fame, poco o nulla si sa inve-ce delle peripezie occorse agli altri figli maschi(Giovanni, Gaddo e Pietro) che il conte Lotto

aveva avuti dalla prima moglie. Ho di proposito riportato i dettagli riguar-

danti le vicende dei vari discendenti del conteUgolino, per meglio sottolineare che la perse-cuzione di questo ramo dei Gherardesca as-sunse contorni di una tale ferocia da travalica-re qualsiasi colpa si volesse, a torto o a ragio-ne, addossare al vecchio conte di Settimo. Sitrattò in effetti di una spietata caccia all’uomocondotta dai capi della riscossa ghibellina, nelterrore di una ipotizzabile vendetta a loro ca-rico da parte di quei familiari di Ugolino chea lui fossero sopravvissuti. Ben si adattò quin-di a quei pisani, e non già al popolo pisanotutto, il dantesco attributo di «vituperio dellegenti».

Le tre figlie del conte, che vivevano sposatelontano da Pisa, non poterono invece essereperseguitate, anche se non si può escludere u-na tale intenzione da parte dei ghibellini del-l’arcivescovo Ruggeri. Persino l’anziana mo-glie di Ugolino, Margherita, a quanto sappia-mo, dovette, infatti, lasciare in tutta fretta lacittà e rifugiarsi presso i Malaspina in Luni-giana. La drammatica vicenda si conclusedunque con la totale dispersione del ramo deiconti di Settimo e con la confisca di tutti queiloro beni, sui quali alla Repubblica fu possibi-le allungare le mani.

Per non esaurire con tali dolorose note lanarrazione delle vicissitudini ugoliniane, ri-porterò, a loro conclusione, un gustoso rac-contino che ho rinvenuto nell’opera più voltecitata del Davidsohn.

Gherardesca, la figlia del conte Ugolino che avevasposato Guido Novello dei conti Guidi del Casenti-no, stava un giorno passeggiando in compagnia di u-na cognata nei pressi di Campaldino. La prima delledue dame era, come il padre, di larvata fede guelfa ela seconda invece era di convinti sentimenti ghibelli-ni in quanto figlia di quel Buonconte da Montefel-tro, che, proprio nella battaglia di Campaldino, eramorto combattendo, contro i guelfi fiorentini, alfianco dei ghibellini d’Arezzo. Nell’attraversare icampi dove si era svolto quel sanguinoso scontro, la

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13 Nel castello Guidi sito a Poppi nel Casentino, sembra che si conservi un affresco in cui appare Gherardesca mentreracconta a Dante le vicende del padre Ugolino.

figlia del conte Ugolino disse ad un certo momentoalla cognata: Guardate, madama, come sono nateabbondanti queste biade e questo grano. Sono certache il terreno risente ancora di quella grassezza.

Era lampante a qual tipo di concimazione inten-desse riferirsi Gherardesca. Ribatté allora pronta-mente la figlia di Buonconte: Sono assai belli inveroma speriamo che giungano a maturazione prima chealcuno di noi non abbia a morir di fame.

Anche i questo caso era facile intuire a che cosavolesse riferirsi la cognata di Gherardesca.

Sarebbe così stata forgiata, alla fine del XIIIsecolo, la prima delle tante storielle, sempreun po’ macabre, che fiorirono, e fiorisconotuttora, attorno alla figura di questo disgrazia-to personaggio dantesco13, sdrammatizzando-ne la truce vicenda.

Il conte Guido da Montefeltro, signore di fatto a Pisa, e i conti di Donoratico,Nieri e Neri

Torniamo ora alla realtà storica, cioè agliavvenimenti che avevano spazzato via dalla ri-balta pisana sia i conti di Settimo che NinoVisconti, unico della sua casata ad essere riu-scito a riconquistare il potere in Pisa, dopo ildeclino della supremazia viscontea sulla città.Disorientata e scossa da quanto era seguito al-la sconfitta della Meloria e soprattutto alla ca-duta della Signoria di Ugolino e Nino, la Re-pubblica Pisana si trovò a dover affrontarel’ultimo decennio del Milleduecento, senzapoter più fare affidamento, per la prima voltadopo due secoli di storia, sul sotegno di una odell’altra delle due grandi prosapie che, fra lesue mura, si erano a lungo contese il potere.

Forse una certa disponibilità avrebbe potu-to sussistere nei conti di Donoratico, discen-denti da Gherardo il Vecchio, ma, di essi, Fa-zio era tuttora prigioniero a Genova e Nieri,pur affidabile in guerra, era assai poco dotatodi quelle caratteristiche diplomatiche, politi-che ed amministrative, di cui il governo di Pi-sa necessitava disperatamente in quel partico-lare frangente.

Fu perciò gioco forza ricorrere ad una gui-da forestiera e la scelta cadde su Guido, contedi Montefeltro, al quale, per il triennio dal1289 al 1292, furono contemporaneamenteassegnate le cariche di podestà, capitano delpopolo e capitano generale di guerra. Si trat-tava in pratica di una vera e propria tempora-nea Signoria, anche se tale forma di governo,che, all’epoca, non si era ancora affermata inItalia, presupponeva l’ereditarietà nell’eserci-zio del potere, prassi che Guido, alla fine delsuo mandato, tentò del resto d’instaurare, fa-cendosi succedere da suo cugino, Galasso daMontefeltro.

Quando Guido assunse il potere in Pisa,cercò innanzi tutto di rivitalizzare la tradizio-nale politica ghibellina e di riconquistare i ter-ritori e i castelli strappati alla Repubblica daiconfinanti comuni guelfi, nel periodo che ave-va preceduto il suo avvento. Per tale impresa,con lui collaborarono anche due Gherardescafra di loro omonimi e conosciuti con due so-prannomi tanto simili da creare qualche equi-voco nella lettura dei documenti che li riguar-dano. Si trattava di Ranieri, detto «Nieri»,conte di Donoratico e figlio di Gherardo ilVecchio, e di Ranieri, detto «Neri», anche luiconte di Donoratico, ma figlio di un Giovan-ni, che fu padre anche del beato Gaddo e delvescovo Bonifazio.

Di Nieri avrò modo di parlare più estesa-mente in seguito e per ora di lui mi limiterò adire che, all’epoca del conte di Montefeltro,fu al comando della cavalleria pisana; per ilsecondo invece cercherò di sintetizzare ora, inpoche righe, i fatti salienti della sua esistenzadi guerriero. Innanzi tutto Neri capeggiò ighibellini della Val d’Era, riconquistando conessi, a Pisa, vari castelli di quella zona strate-gica. Condusse poi una vittoriosa spedizionesu Castiglion della Pescaia e, di lì, si spinse fi-no a Grosseto. Alcuni anni più tardi, e preci-samente nel settembre del 1304, fu al coman-do dei rinforzi inviati da Pisa ai ghibellini diPistoia, quando questi vennero minacciati daFirenze; infine, nel 1308, guidò le truppe pi-

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14 AF, f. 99, a. 1330. 15 AF, f. 98, a. 1293. Nella Pace di Fucecchio furono inclusi nell’accordo anche i figli superstiti del conte Ugolino. 16 Alcuni storici riportano che solo duemila furono i prigionieri che fecero ritorno a Pisa dopo la firma della tregua. A ta-

le proposito occorre però ricordare che alcuni di essi, come ad esempio il conte Lotto di Ugolino, erano stati rilasciati in an-ni precedenti al 1299.

17 DAVIDSOHN, op. cit., vol. III, p. 433.

sane accorse in aiuto ai ghibellini d’Arezzocapeggiati, a quei tempi, da Uguccione dellaFaggiola. In tarda età, Neri si ritirò a vita con-ventuale nel monastero di S. Maria ad Marty-res, a Donnino fuori Pisa, ma prima chiese edottenne dai figli, in ossequio al disposto delleleggi longobarde in materia, il consenso dipoter donare al convento stesso alcuni benidella famiglia siti a Rosignano14.

I due conti di Donoratico omonimi ebberodunque una parte di rilievo nel successo arrisoall’energica politica militare di Guido da Mon-tefeltro, che, nel 1293, quando ormai questi e-ra stato sostituito dal cugino Galasso, si con-cretizzò nella pace stipulata a Fucecchio fraPisa ed i comuni della Taglia Guelfa15.

La pace fra Pisa e Genova

Scarso rilievo storico ebbe per Pisa il quin-quennio successivo al podestariato del conteGuido, ma c’è da immaginare che tutti glisforzi della Repubblica fossero concentratisull’obiettivo di raggiungere la pace con Ge-nova e ricondurre in patria i tanti suoi cittadi-ni che ancora languivano in prigionia. Questatanto sospirata tregua fu alfine raggiunta il 31luglio 1299, cioè ben dieci anni dopo la mortedel conte Ugolino. Tale dato di fatto eviden-zia ancora una volta che questi non era stato ilsolo ostacolo che si frapponeva alla pace, laquale trovava invece i suoi impedimenti inmotivazioni assai diverse. Le accuse quindi,rivolte in tal senso al conte di Settimo, eranoinfondate, mentre è plausibile che fosse pro-prio Genova a non aver mai avuto alcun inte-resse a rinviare a casa tanti potenziali soldatinemici ed a cercare di procrastinare il più pos-sibile la loro liberazione, frapponendo conti-nui intralci nelle trattative di pace.

Le clausole dell’accordo furono pesantissi-me per Pisa che dovette rinunziare ad ogni

pretesa sulla Corsica, come pure su gran partedella Sardegna. In compenso rientrarono nel-le loro famiglie i Pisani superstiti16, fra i qualianche il conte Fazio che, dal carcere genove-se, non aveva mai cessato d’incitare i propriseguaci a ribellarsi alla politica seguita da U-golino e, a suo tempo, era stato anche segreta-mente inviato a Pisa, dall’arcivescovo Rugge-ri, quale ambasciatore di Genova17. Sarà pro-prio Fazio di Donoratico a riprendere a Pisaquel posto di primo cittadino che era stato disuo padre Gherardo, e ad ispirare per vari an-ni la condotta politica del governo della Re-pubblica.

Fazio, conte di Donoratico, primo cittadino in Pisa

Contrariamente a suo fratello Nieri, Faziopossedeva tutte quelle doti di prudenza chetanto necessitavano in quel momento per ri-sollevare il perduto prestigio di Pisa. Fu luiinfatti che, assecondato in questo dal fratello,avviò le trattative con re Giacomo II d’Arago-na nel tentativo ufficiale, risultato vano, disalvaguardare i residui interessi pisani in Sar-degna, ma con il più celato ma felicementeriuscito intento di preservare quelli che iGherardesca ancora avevano nell’isola. Lamorte colse però Fazio troppo presto per con-sentirgli di concludere lui stesso questi con-tatti con gli Aragona, che furono proseguitidal fratello Nieri e definiti da suo nipote Fa-zio Novello.

Quando le doti diplomatiche non mostra-vano di raggiungere l’effetto desiderato, Fazioseppe anche impugnare le armi, come nel ca-so di alcune spedizioni guerresche da lui con-dotte sia sul territorio di S. Miniato (con scar-so successo) che su quello di Volterra (con e-sito positivo). In questa ultima impresa eglicoinvolse il comune di Pisa in faccende che

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18 AF, f. 102, n. 15. 19 AF, f. 58, n. 1, a. 1260; e SCHNEIDER, Regestum Volterranum, cit., doc. 855. In precedenza anche Ugolino, padre di

Lotto, si era richiamato al titolo di conte di Montescudaio e Guardistallo. 20 M.L. CECCARELLI LEMUT, I Pisani prigionieri a Genova dopo la battaglia della Meloria: la tradizione cronistica e le fonti

documentarie, in AA.VV., 1284. L’anno della Meloria, Ets Editrice, Pisa 1984.21 CRISTIANI, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa, cit., p. 264, n. 105.

riguardavano solo ed esclusivamente i Ghe-rardesca, i quali stavano soffrendo l’insolven-za del comune di Volterra, che tardava a rim-borsar loro un prestito fattogli nel 1303 dallostesso Fazio18. La commistione degli interessidella casata comitale con quelli di Pisa, assu-merà d’allora in poi carattere permanente, maquesta fu una delle caratteristiche comuni atutte le Signorie.

Nel documento transattivo finale firmatocon Volterra, assieme al «comes Fatio», simenziona anche il «comes Loctus», confer-mandoci in tal maniera che questo conte diSettimo, divenuto ora conte di Montescudaioe Guardistallo19, rientrato dalla sua prigioniagenovese, si era reinsediato nei propri dominimaremmani, mai confiscatigli da Pisa. QuestoLotto era infatti proprio quel figlio di Ugoli-no che, grazie al suo imparentamento con lapotente casata genovese degli Spinola, ma an-che al pagamento di un sostanzioso riscatto,era riuscito a ritornare nelle sue terre alcunianni prima che, nel 1299, fosse raggiunta latregua con Genova20. Già nel 1297, chiusa or-mai e... dimenticata la parentesi guerresca inSardegna, lo troviamo infatti «vicarius mariti-me» a Cecina; poi, nel 1299, nominato suoprocuratore dal conte Fazio tuttora prigionie-ro e, in quel medesimo anno, eletto membrodel Consiglio di Credenza a Pisa21. Tutto ciòdovrebbe far supporre che, sotto il profilopolitico, i discendenti diretti del conte Ugoli-no fossero stati in un certo qual modo riabili-tati dal comune pisano, che tuttavia esitava arestituir loro l’antica potenza, tant’è vero che ibeni confiscati saranno ridati agli antichi pro-prietari, solo assai parzialmente, nel 1318,quando la Signoria dei Gherardesca, conti diDonoratico, si era ormai stabilmente consoli-data in Pisa.

Da parte sua, come ho avuto modo di ac-cennare, Fazio aveva raggiunto nella città unprestigio tale da consentirgli di esercitare

un’influenza diretta su tutti gli affari di gover-no e sulle nomine alle principali cariche pub-bliche; gli fu anche possibile incanalare la po-litica pisana entro i binari da lui preferiti, cosìcome ad esempio avvenne nel 1307, quandoin odio ai Visconti, non solo ostacolò i proget-ti matrimoniali del suo parente Tedice, dettoTige, che intendeva sposare Giovanna, figliadi Nino Visconti ed ultima della sua casata aricoprire la carica di giudice della Gallura, maspinse addirittura Pisa a conquistare con learmi il Giudicato ed a cacciarne la stessa Gio-vanna. Pare che al conte Tige l’accaduto nonpiacque affatto, tanto che, si dice, egli fu so-spettato di un tentativo di assassinio di Fazio.Solo dopo la morte di quest’ultimo, a Tigestesso fu possibile sposare Giacomina, vedovadi un Giovanni, giudice d’Arborea, e con ciòtentare di soddisfare le velleità sarde sue eforse anche del ramo di quei Donoratico, chenon erano mai riusciti a conquistarsi una con-veniente base nell’isola, malgrado le impreseguerresche di Ranieri «il Piccolino» e gli intri-ghi ecclesiastici del vescovo Bonifazio. Dal ca-pitolo precedente sappiamo però quanto in-soddisfatte rimasero le ambiziose pretese diGiacomina sul Giudicato del defunto suo pri-mo sposo e, di conseguenza, quanto vane letardive speranze di Tige e del suo ramo di fa-miglia, di sedersi anch’essi alla tavola del ban-chetto sardo, ormai prossima ad essere... spa-recchiata.

Anche delle trattative avviate da Fazio coni d’Aragona ho dato cenno, ed in propositonon mi resta che confermare che in esse Fazioebbe sempre al fianco il fratello Nieri, che, perquanto poco idoneo a qualsiasi azione diplo-matica, era pur sempre l’anello di congiunzio-ne parentale fra i Gherardesca e gli Aragonastessi. Dopo la morte di Fazio, infatti, fu pro-prio Nieri a mantenere rapporti diretti con ilsovrano spagnolo, così come conferma unamissiva inviata al re dal suo delegato Vidal de

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22 F. ARTIZZU, Pisani e Catalani nella Sardegna meridionale, Cedam, Padova 1973, p. 123. 23 CRISTIANI, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa, cit., p. 291, n. 219. 24 E. CARLI, Il monumento Gherardesca nel camposanto di Pisa, in «Bollettino d’Arte», marzo 1933.

Villanueva, con cui quest’ultimo informa ilsuo re di aver ricevuto una lettera da Ranieri,«conte dei pisani». Risulta anche chiaro chere Giacomo II, nelle trattative con Pisa, fecesempre molto affidamento sull’intermediazio-ne di questo suo «affine», tanto che il 13 giu-gno 1321 indirizzò in tal senso una letterapersonale al conte Nieri, il quale, risponden-dogli il 5 agosto successivo, gli assicurò signi-ficativamente che, «more solito», non avreb-be mancato di fornire il suo personale e soler-te appoggio presso la Repubblica Pisana. Inpratica però tutti questi contatti personali ser-virono ben poco a Pisa mentre furono assaipiù utili agli interessi dei conti di Donoraticoin Sardegna, perché, al momento della firmadel trattato di pace del 1326, Pisa venne estro-messa dall’isola, mentre il re d’Aragona tennea precisare di escludere da tale cacciata i Ghe-rardesca, con i quali il monarca dichiarò divoler trattare direttamente «graciose et specia-liter»22, come in effetti fece concludendo unaccordo separato con il conte Fazio Novello,nipote di Fazio.

Il momento di maggior popolarità di Fazioa Pisa fu raggiunto allorché egli, in qualità di«comes pisanus», nel 1311 guidò l’ambasceriache la Repubblica inviò solennemente ad in-contrare a Genova il giovane Arrigo VII diLussemburgo, primo imperatore a rimetterepiede nella penisola dopo la fine della dina-stia degli Svevi. In lui erano riposte le speran-ze revansciste di tutta l’Italia ghibellina e diPisa in particolare. L’esultanza dei Pisani rag-giunse il suo punto più elevato quando «l’altoArrigo» da Genova si trasferì nella loro cittàdove, per la maggior parte del soggiorno, fuospite nei palazzi dei conti di Donoratico nelquartiere di Chinseca23. Ma i sogni pisani diriconquistare, con l’aiuto di questo imperato-re, le proprie antiche posizioni di preminenzaall’interno ed all’esterno della Toscana, svani-rono d’un sol colpo nel 1313, quando ArrigoVII morì improvvisamente a Buonconvento,nel senese, mentre era in viaggio verso Roma,

dove avrebbe dovuto cingere la prestigiosacorona del Sacro Romano Impero. Con luiscomparve un sovrano dalle idee grandiose,che aveva dato prova di equilibrio e lungimi-ranza nel suo pur breve passaggio in Italia,dove aveva giudiziosamente tentato di ripor-tar pace fra i ghibellini e i guelfi. Dopo alcunianni, a Pisa, che con tanto giubilo lo aveva ac-colto al suo primo arrivo, ritornarono solo lesue spoglie mortali che i Pisani tumularonocon reverente amore in uno splendido sepol-cro marmoreo, in stile gotico, opera di Tinoda Camaiano, che ancor oggi si può ammirarenel duomo cittadino.

Nel medesimo anno in cui spirò l’impera-tore, anche il conte Fazio di Donoratico con-cluse il suo cammino terreno e fu a sua voltasepolto in un grande mausoleo da lui stessocommissionato [fig. 14].

Questo monumento venne collocato all’in-terno della chiesa pisana di S. Francesco, nelcui chiostro esterno altri Gherardesca eranostati sepolti; fra di essi anche il conte Ugolinoe i suoi familiari che, comunemente ma erro-neamente, si pensava fossero lì stati tumulati,perché non degni di essere accolti all’internodell’edificio sacro, in quanto traditori dellapatria. In realtà, studi recenti hanno smentitol’ipotesi, confermando che nel chiostro stessoambivano aver la propria tomba i ghibellinipiù illustri della città.

Ma ritorniamo alla bellissima arca funebredi Fazio, anch’essa in stile gotico. Di essa nonsappiamo chi sia stato l’esecutore, anche se ilValentier propenderebbe ad attribuirla al mae-stro Lupo di Francesco24.

Il grande sepolcro che, dopo quelle di Fa-zio, accolse le spoglie dei vari suoi discenden-ti che furono signori di Pisa (Gherardo ilGiovane, Fazio Novello e Ranieri Novello) edanche quelle del piccolo Gherardo, fratello diRanieri Novello, morto a soli quattro annid’età, rimase per alcuni secoli nella sua origi-naria collocazione nel transetto di destra dellachiesa francescana. Poi, all’epoca dell’occupa-

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zione francese della Toscana, S. Francescovenne sconsacrata e trasformata in un acquar-tieramento di truppe ed addirittura in unascuderia per cavalli. È immaginabile lo scem-pio a cui furono sottoposte le opere d’arteconservate nell’ex chiesa, che anche preceden-temente erano state spogliate per parziali ven-dite abusive effettuate dai frati.

Nel 1810, infine, Carlo Lasinio, soprinten-dente al cimitero monumentale di Pisa, decisesaggiamente di asportare da S. Francesco il se-polcro dei Gherardesca, o quanto di esso ri-maneva a quel tempo, per ricollocarlo nel pre-detto cimitero monumentale che si trova ubi-cato di fianco al duomo cittadino. Forse man-cavano però i soldi per attuare il progetto, maalle spese provvedette allora il conte GuidoAlberto della Gherardesca, mio trisnonno, ecosì il trasferimento fu effettuato. Nella nuovasistemazione fu rimontato però solo quanto ri-maneva dell’arca sepolcrale dopo la venditaavvenuta in precedenza di vari suoi pezzi e do-po i danni subiti dai soldati e... dai cavalli na-poleonici nonché quelli involontariamente ap-portatigli all’atto del suo smontaggio da S.Francesco. A quel momento l’aspetto del mo-numento, così come fu riassemblato, risultògià più modesto rispetto alla sua originariacomposizione architettonica [fig. 15]. E pur-troppo, a ridimensionarlo ulteriormente prov-vedettero i danni arrecatigli da un bombarda-mento aereo alleato del 1943: oggi l’arca è ve-ramente ridotta ai... minimi termini [fig. 16].

L’odissea di questo stupendo monumentoho avuto modo di ricostruirla sulla base diquanto riportato nella bella tesi di laurea so-stenuta, nell’anno accademico 1983-84, da A.Martelli all’Università di Pisa in archeologiamedievistica ed intitolata Il monumento sepol-crale dei conti della Gherardesca: caratteristi-che tipologiche, iconografiche e epigrafiche. O-ra sembrerebbe invece che una speciale com-missione costituita dalla Soprintendenza pisa-na ai Beni Culturali, abbia recentemente deli-berato di ritrasferire l’arca nella sua originariasede in S. Francesco, previa una ricostruzionequanto più completa possibile del suo primiti-vo aspetto, essendone stati rintracciati varipezzi sparsi nei depositi più disparati. Come al

solito, tuttavia, mancano i soldi per dare attua-zione alla delibera e questa volta temo proprioche non si trovi un Gherardesca disposto asobbarcarsene l’onere.

Uguccione della Faggiola e la sua temporanea Signoria

Andiamo ora a vedere ciò che avvenne do-po la morte del conte Fazio, allorché a Pisa siripresentò il problema di trovare una nuovaguida al governo. I Pisani pensarono prima dirivolgersi ad Amedeo di Savoia e poi al contedi Fiandra, ma entrambi questi illustri perso-naggi declinarono garbatamente l’invito. Lascelta cadde allora su Uguccione della Faggio-la, strenuo ghibellino e valoroso condottiero.Uguccione accettò di buon grado, per il trien-nio dal 1313 al 1316, le stesse cariche signoriliche qualche anno prima erano state ricopertedal conte Guido da Montefeltro. Si riportache uno dei più convinti sostenitori della can-didatura del Faggiola, fu il conte Nieri di Do-noratico, il quale, in più occasioni, aveva avu-to modo di apprezzare le capacità di comandodi Uguccione, ben conosciuto del resto datutti i Pisani per essere egli stato nella lorocittà al seguito dell’imperatore Arrigo VII.

Ci si potrebbe domandare ora per qualemotivo il conte di Donoratico, che pur posse-deva doti caratteriali alquanto simili a quelledi Uguccione della Faggiola, non abbia avan-zato a quel momento una sua personale can-didatura. A questo proposito si può avanzarel’ipotesi che i Gherardesca, scottati dall’ancorrecente e traumatica esperienza negativa delconte Ugolino, preferissero evitare un coin-volgimento diretto nel governo della Repub-blica e cercassero di mantenersi in una posi-zione meno responsabilizzata, pur conservan-do un’influenza determinante nella direzionepolitica di Pisa.

Del resto, oltre a Nieri, avrebbe potuto pro-porsi anche suo nipote Gherardo, figlio di Fa-zio, che, per quanto in verde età, possedevaun’innata predisposizione ad assumere incari-chi di governo; però, in quel frangente, ancheGherardo, che sarà poi conosciuto come «il

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98 I della Gherardesca

Il sepolcro dei conti di Donoratico secondo un’incisione di Carlo Faucci, Lucca 1771

[fig. 14]

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La risistemazione del monumento dopo i danni arrecatigli dal bombardamento aereo del 1942

[fig. 16]

Come era ridimensionato il sepolcro allorché Carlo Lasinio, ai primi del 1800, ne fece ricoverare i resti nel camposanto urbano di Pisa

[fig. 15]

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25 AF, f. 102, n. 8. In tale medesima circostanza Uguccione inviò Tedice, detto Tige, a Lucca in preventiva quanto vanaambasceria prima dello scoppio delle ostilità.

Giovane», si mantenne prudentemente estra-neo a quegli impegni che invece, pochi annidopo, non esiterà ad accettare.

È forse ora il momento di comprenderemeglio l’atteggiamento che i Gherardesca, adeccezione del conte Ugolino, avevano fino adallora mantenuto nei loro rapporti con il co-mune di Pisa.

Risaliamo a tale scopo alla fine del XII se-colo, cioè all’epoca di quelle accanite lotte dipotere fra i Gherardesca e i Visconti, risoltesi,come sappiamo, a favore dei primi. Sin da al-lora i Gherardesca tennero sempre ad atteg-giarsi quali leali sostenitori del comune pisa-no e delle sue istituzioni, e, non a caso, ne ri-coprirono per primi la carica di podestà conTedice, conte di Forcoli. Questo loro orienta-mento popolare li pose peraltro in contrastonon solo con i Visconti, ma anche con granparte della più o meno recente nobiltà di Pi-sa, che forse mal digeriva quel probabile at-teggiamento di superiorità che i Gherardescadovevano ostentare nei suoi confronti, sia perla propria maggior antichità di lignaggio, che,soprattutto, per quei poteri signorili che essi,e solo essi, potevano liberamente esercitareancora nei propri vasti domini maremmani.La conferma di un tal quadro proviene pro-prio dall’accordo di riappacificazione sotto-scritto nel 1237 dai Gherardesca e dal comu-ne, alleati fra di loro, con i Visconti, collegatiinvece con numerosi nobili della città e delcontado. A seguito di tale pace, i Gherarde-sca assunsero definitivamente a Pisa la posi-zione di primi cittadini, che permetteva lorodi guidare dall’esterno le sorti del comune,senza mortificarne tuttavia gli organi istituzio-nali, ma limitandosi ad influenzarne la con-dotta politica in generale.

Nel XIII secolo i comuni erano ancora nel-la loro piena vitalità e i tempi non erano quin-di maturi per forme di governo di tipo signo-rile. Di ciò non si rese forse conto Ugolino, al-lorché, conseguito l’incarico decennale di po-destà, pensò di approfittarne per modificaresostanzialmente le istituzioni cittadine, predi-

sponendole per un prematuro avvento di unaSignoria. La tragica sorte toccata al conte diSettimo e ai suoi familiari, come già detto, piùche ad altri fantomatici tradimenti, fu forsedovuta proprio a tale ambizioso ed impru-dente progetto e ciò fu certo tenuto semprein debito conto dai successori di Gherardo ilVecchio, i quali si guardarono bene dall’af-frettarsi a ripetere quel medesimo errore. Latrasformazione dei comuni in Signorie eratuttavia in graduale evoluzione e l’affacciarsisempre più frequente di governi «tempora-nei» a carattere signorile costituiva un preav-viso evidente di questo processo istituzionale,che comincerà ad affermarsi definitivamentein Italia verso la fine del XIV secolo. A questeconsiderazioni deve poi aggiungersi il fattoche i Gherardesca, praticamente liberi signorinei loro domini, non volevano forse giocarsitale privilegiata posizione, coinvolgendositroppo direttamente nel governo della Re-pubblica. La durissima lezione subita dai con-ti di Settimo rappresentava un chiaro monitoda non sottovalutare e disattendere. Da qui lacostante influenza dei Gherardesca negli affa-ri di governo, ma, solo più tardi, un loro di-retto coinvolgimento nei medesimi.

Ma chiudiamo ora la parentesi aperta e ri-portiamoci a Uguccione della Faggiola che a-veva assunto a Pisa le principali cariche istitu-zionali, divenendone di fatto il signore per untriennio. Non è mia intenzione dilungarmi suidettagli della temporanea Signoria di Uguc-cione; mi limiterò pertanto a ricordare chenell’esercizio del potere egli si appoggiò so-prattutto al ceto nobiliare, inimicandosi, diconseguenza, gli ancor ricchi e potenti mer-canti pisani, che furono i maggiori artefici del-la sua cacciata nel 1316, pochi mesi prima chesi concludesse il mandato conferitogli.

Avevo già anticipato che Uguccione non fuuomo politico di particolare sensibilità, mapiuttosto un capace condottiero militare; or-bene in tale veste egli raccolse appunto i suoimaggiori allori, culminati con la conquista diLucca nel 131425 e seguiti, un anno dopo, dal-

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26 Si trattava di Carlotto, figlio di Filippo d’Angiò. 27 La Signoria dei Gherardesca ebbe solo un’interruzione di due anni circa al momento della discesa in Italia dell’impe-

ratore Ludovico il Bavaro che li avversò per favorire Castruccio Castracani. 28 ROSSI SABATINI, Pisa al tempo dei Donoratico, cit., p. 98.

la vittoriosa battaglia di Montecatini, nel cor-so della quale egli inferse una pesante sconfit-ta ai Fiorentini e ai loro alleati Angioini eguelfi. Persino un nipote omonimo di re Car-lo d’Angiò26 rimase ucciso in combattimento;e le cronache riportano che proprio su quelcadavere angioino, dopo averlo profanato ecalpestato, il conte Nieri di Donoratico volleessere armato cavaliere, a selvaggia vendettaper l’esecuzione capitale subita a Napoli dasuo padre Gherardo. Gli indubbi successi mi-litari del Faggiola non valsero tuttavia a farloamare dai Pisani, che mal tolleravano il suodispotico modo di gestire il potere e lo accu-savano di dilapidare le loro finanze.

In questo inquieto stato d’animo di tutto ilpopolo, ma soprattutto del ceto mercantileche era quello economicamente più tartassa-to, trovò il suo lievito l’alleanza strumentalefra il conte Gherardo il Giovane e Coscettodal Colle, un capopolo ambizioso ed arrogan-te, che poteva però contare su di un largo se-guito fra la classe cittadina più minuta. Ap-profittando di una temporanea assenza di U-guccione, che si era recato a Lucca, della qua-le da poco era divenuto signore, i due detteroil via ad un tumulto popolare, cui le miliziefaggiolane, rimaste a custodia di Pisa, nonseppero far fronte. Informato della ribellionementre si trovava ancora a Lucca, Uguccioneprese la decisione di rientrare subito a Pisacon la forza e partì alla testa degli armati cheaveva condotto con sé. I Lucchesi, però, rin-galluzziti dall’esempio dei Pisani, si ribellaro-no a loro volta e, guidati da Castruccio Ca-stracani degli Antelminelli, sbarrarono le por-te delle mura cittadine dietro le spalle del ti-ranno. Uguccione, sorpreso da questo nuovoevento mentre si trovava in marcia verso Pisacon le sue truppe, rimase così tagliato fuoricontemporaneamente dalle due città e, com-prendendo di non aver con sé le forze suffi-cienti per riconquistarle, dovette suo malgra-do allontanarsene per sempre.

La Signoria su Pisa dei conti di Donoratico,Nieri e Gherardo il Giovane

Caduta in tal modo la Signoria faggiolana, iconti di Donoratico ritornarono prepotente-mente alla ribalta politica cittadina e questavolta non poterono o non vollero rimaneredietro le quinte e furono coinvolti diretta-mente nel governo della Repubblica, eventoquesto scongiurato prudentemente per tantotempo. Nell’aprile del 1316, si avviò dunquein Pisa la trentennale Signoria di questo ramodei Gherardesca27, che rappresentò per l’anti-ca repubblica marinara un ultimo felice pe-riodo di ripresa economica e politica. All’ini-zio di tale Signoria, il potere venne gestito incomune dall’ormai anziano conte Nieri, cheper primo venne eletto capitano del popolo, edal suo giovane nipote Gherardo, che, a suavolta, venne nominato, nel 1317, capitano ge-nerale del popolo e della masnada, nonchégonfaloniere di giustizia28.

I due conti di Donoratico riuscirono ad in-tegrarsi in perfetta armonia malgrado la rag-guardevole differenza di età e, soprattutto, laloro accentuata diversità caratteriale, poichéquanto Gherardo era un uomo già proiettatoverso il luminoso Rinascimento, altrettantoNieri era radicato nel più profondo Medio E-vo. Equilibrato, giudizioso e diplomatico ilprimo; rude, prepotente e militaresco il se-condo. Ciò nonostante, l’affiatamento fra idue fu ottimale. Gherardo mostrò sempregrande rispetto e deferenza nei confronti del-lo zio, che considerava quale capo di famigliae del quale apprezzava la comprovata capa-cità di condottiero in guerra, mentre il conteNieri, ben valutando che il nipote era più dilui dotato di tatto politico e di capacità di go-verno, gli lasciò le redini del potere, riservan-do a se stesso la sola cura delle milizie, per ilcui comando egli da sempre era stato versato.Di doti diplomatiche Gherardo ebbe senzadubbio bisogno per gestire i difficili rapporti

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29 Ivi, pp. 96-97. 30 CRISTIANI, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa, cit., p. 116, n. 133.

con il popolano Coscetto dal Colle, il qualetendeva ad attribuire solo a se stesso ogni me-rito della cacciata di Uguccione della Faggio-la, mal tollerando che di essa fossero andatitutti i meriti ed i vantaggi ai due conti di Do-noratico.

Finché visse, Gherardo seppe contenerecon saggia e paziente maestria l’irruento Co-scetto, dedicandosi nel contempo, con ener-gia e successo, agli interessi generali di Pisa.Nel 1318, dopo laboriose trattative ed il sof-ferto assenso dello zio, riuscì a portare in por-to una pace con re Roberto d’Angiò e i comu-ni guelfi della Toscana sconfitti a Montecatini,i quali ultimi chiesero che con questo trattatofosse ancora una volta assicurata la restituzio-ne ai legittimi eredi dei beni confiscati al con-te Ugolino. La clausola fu regolarmente inse-rita ma mai rispettata, in realtà, se non forsein termini assai limitati; del resto non bisognadimenticare che i maggiori oppositori ad unasua pratica attuazione, dovettero proprio es-sere i discendenti di Gherardo il Vecchio, iquali, almeno in Sardegna, si erano sicura-mente avvantaggiati delle traversie occorse ailoro parenti, incamerandone parte dei posse-dimenti. Questa pace con i guelfi non impedìai conti di Donoratico di conservare strettirapporti con il ghibellino Castruccio Castra-cani, ormai divenuto signore di Lucca, e Ghe-rardo il Giovane riuscì anzi ad imparentarsicon lui per il matrimonio intervenuto fra suofiglio Bonifazio, poi detto Fazio Novello perdistinguerlo dall’omonimo nonno, e Bertecca,figlia del Castracani.

Mostrando già uno spiccato senso rinasci-mentale, Gherardo, nel corso della sua pur-troppo breve Signoria, curò anche con amorel’abbellimento della propria città in segnodella recuperata potenza della medesima. DaTommaso Pisano fece infatti completare ilcampanile (già pendente) della primaziale,con l’aggiunta alla sua sommità di quell’ele-gante cella campanaria, ancor oggi oggetto diviva ammirazione. Fece iniziare la costruzio-ne, poi terminata dal figlio Fazio Novello,

della grande chiesa cittadina di S. Martino,che volle eretta a memoria della liberazionedalla tirannide faggiolana. Infine fece comple-tare in S. Francesco la grande arca sepolcraledel padre, dove egli stesso venne tumulatoquando, non ancora cinquantenne, morì im-provvisamente nel 1320, a causa di un colpoapoplettico e non già per veleno come fanta-sticarono alcuni cronisti dell’epoca.

I Pisani piansero con sincerità, ed a ragio-ne, la scomparsa del loro illuminato signoreche tanto aveva ricordato le elevate qualità diGherardo il Vecchio. Egli aveva governato laRepubblica con saggia lungimiranza, cercan-do di raggiungere la pace sia all’interno cheall’esterno della cerchia delle mura cittadine econseguendo un tal prestigio personale da farsì che gli Anziani di Pisa, in occasione diun’accesa discussione sulla convenienza o me-no di creare un porto fortificato alla foce delfiume Magra in Versilia, conclusero con il di-re: «Volumus sicut dixit comes»29.

La morte di Gherardo non procurò inter-ruzioni nell’esercizio del potere da parte deiGherardesca, poiché il vecchio conte Nieri,ormai ultrasettantenne, riassunse nelle sue an-cor vigorose mani le redini del governo sino aquel momento tenute dal nipote. In un primomomento sembrò che egli non volesse appor-tare alcun mutamento alle linee politiche se-guite da Gherardo, ed anche all’interno dellacittà continuò ad appoggiarsi alle grandi fami-glie mercantili, tanto da far dire a GioacchinoVolpe che entrambi questi conti di Donorati-co, furono «potestates mercatorum». Di taleasserzione ce ne proviene conferma anche daun documento del 23 luglio 1322, con il qualei fiorentini, in occasione di una controversiadoganale insorta con i Pisani, chiesero la con-vocazione di una riunione alla quale parteci-passero i mercanti di Pisa assieme al conteNieri, citato come «dominus comes».

In quel medesimo anno, Nieri fu nominatodai Pisani capitano generale e difensore delpopolo30. Ma il vecchio conte che, come giàdetto, era privo di fiuto politico, nel volger di

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31 Ivi, p. 306, n. 272.

breve tempo cominciò ad alienarsi quelle sim-patie dei mercanti di cui inizialmente si eratrovato a godere per merito della prudentecondotta tenuta dal nipote Gherardo nei con-fronti di quel potente ceto cittadino. Nieriprese invece a tartassarlo con balzelli semprepiù esosi e con la richiesta di prestiti forzosiche, a causa del decadimento economico del-le attività commerciali, la classe mercantiletrovava crescenti difficoltà a soddisfare. Di ta-li prestiti ci fornisce il quadro un documentodell’epoca, nel quale fra l’altro si legge che es-si sarebbero stati rimborsati «quando fossepiaciuto al comune e al conte» e, quindi, conbuona probabilità... mai31.

Come conseguenza di questa graduale per-dita di favori da parte dei suoi iniziali sosteni-tori, a Nieri non rimase che tentare di riavvi-cinarsi ai nobili della città, accentuandone lacollaborazione nel proprio governo e cercan-do di compensarne le scarse disponibilità fi-nanziarie con qualche ben retribuito incariconella milizia, che il conte di Donoratico, dasempre versato nell’arte militare, andava or-ganizzando nell’apprezzabile intento di costi-tuire un esercito cittadino stabile che evitassea Pisa di doversi dissanguare con il più onero-so assoldamento di truppe mercenarie.

Anche nei rapporti con i comuni guelficonfinanti, Nieri mutò la politica adottata dasuo nipote e, per le sue viscerali simpatie ghi-belline, fu sempre più attratto verso un’intesacon Castruccio Castracani, che, come fra bre-ve vedremo, non lo ripagò certo di ugual mo-neta. Di questo mutamento degli equilibriprecedenti si allarmarono giustamente i Fio-rentini, con i quali sarebbe stato più conve-niente mantenere ed incrementare quel traffi-co commerciale che ormai costituiva una del-le ultime risorse per la Repubblica Pisana eper la sua assottigliata flotta mercantile.

Altro grave errore del conte di Donoraticofu quello di permettere il rientro a Pisa di al-cuni membri ghibellini delle nobili casate de-gli Orlandi e dei Lanfranchi, che Gherardo ilGiovane aveva precedentemente messo albando per essere stati troppo accesi partigiani

di un ritorno al potere di Uguccione dellaFaggiola. L’iniziativa di Nieri, caldeggiata pro-babilmente dal Castruccio, provocò in cittàmalumori popolari che sfociarono in un veroe proprio tumulto, allorché Nieri, pochi mesidopo, fu costretto a soffocare nel sangue unacongiura ordita ai suoi danni da quegli stessiOrlandi e Lanfranchi, con evidente appoggioesterno del Castracane, il quale, nemmenotroppo segretamente, ambiva ad imporre lasua Signoria anche su Pisa.

È quasi superfluo aggiungere che Coscettodal Colle, sempre in prima fila in ogni som-mossa, non mancò di farsi portavoce dei sen-timenti popolari ostili alle iniziative del contedi Donoratico, e fu in quel momento che laSignoria di quest’ultimo si trasformò decisa-mente in tirannide. Chi ne fece per primo lespese fu l’animoso Coscetto, che Nieri avevasempre odiato e disprezzato, anche quandosuo nipote Gherardo, con realismo politico,ne sopportava le intemperanze popolane.Coscetto, da parte sua, aveva erroneamentevalutato che fosse ormai maturo il tempo perdisarcionare il dispotico signore ed aveva atal proposito fomentato una rivolta del popo-lo minuto che in effetti divampò in vari quar-tieri della città, ma in modo troppo fram-mentario e disorganizzato perché la ben in-quadrata milizia del conte non ne venisse ra-pidamente a capo, sedandola e costringendoCoscetto stesso a darsi a precipitosa fuga ed anascondersi. Tradito probabilmente da unsuo seguace, il capopolo venne però snidatodal suo nascondiglio ed orrendamente truci-dato dai soldati del conte di Donoratico. Siracconta pure che il vendicativo Nieri ordinòche fosse gettato in Arno quanto rimanevadelle sue misere spoglie e ciò alfine di cancel-lare per sempre ogni memoria del ribelle pi-sano.

A seguito di questi eventi, il conte Nieri sitrovò costretto a rompere ogni intesa con Ca-struccio Castracani, magna pars in quei sub-bugli, ed a porre sulla testa di lui una taglia didiecimila fiorini, assicurando inoltre all’even-tuale uccisore il condono di ogni altra pena

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32 L. BEZZINI, Castagneto epigrafica, Tip. Bandecchi e Vivaldi, Pontedera 1991, p. 3.

che gli fosse stata comminata in precedenzaper altri reati. Tutti questi fatti ebbero l’effet-to di radicalizzare il dispotismo innato delconte di Donoratico in quelli che furono isuoi ultimi anni di governo, nel corso deiquali il suo carattere fu anche probabilmenteinasprito dalla morte in Sardegna del suo pri-mogenito Manfredi, del quale già conosciamole vicende e l’eroica fine. Il passato accesoghibellinismo di Nieri subì invece un drasticoaffievolimento, a seguito dei contrasti avuticon il Castracani e i suoi alleati ghibellini inPisa. Il suo voltafaccia politico fu così radica-le da indurlo a guardare con diffidenza versol’imperatore Ludovico, detto «il Bavaro», chesi apprestava a scendere in Italia e che, agliocchi di Nieri, aveva il grave torto di appog-giarsi in modo particolare all’odiato Castruc-cio. Sempre più isolato ed asserragliato nelpalazzo-fortezza che si era fatto costruire inpiazza S. Caterina a Pisa, il vecchio signore sispense nel 1326, senza lasciarsi alle spalle ilrimpianto dei suoi cittadini. Le sue spogliemortali trovarono pace assieme, forse, a quel-le dell’amato Manfredi e di un altro suo figliomorto in tenera età; di tale sepolcro si sonoperdute le tracce, ma i Gherardesca conserva-no ancor oggi, nel castello di Castagneto, unaframmentaria epigrafe32 che dovrebbe appar-tenergli.

Dopo la morte di Nieri seguì un periodo digrande anarchia; e i Pisani, esasperati per ladurezza del suo governo ed addebitando a luianche la perdita della Sardegna a seguito deitrattati firmati con gli Aragona nel 1324 e nel1326, si accanirono contro tutto ciò che pote-va ricordare loro il tiranno, fino a giungere alpunto di radere al suolo anche il suo arcignopalazzo. Sembrava di essere tornati ai tempidel conte Ugolino; del resto sotto certi aspet-ti, si può asserire che Nieri avesse rammenta-to ai suoi concittadini la dispotica testardaggi-ne del suo consanguineo.

Anche i due figli superstiti di Nieri, Ber-nabò e Gherardo, invisi pur essi ai pisani, do-vettero prontamente allontanarsi dalla città erifugiarsi nei loro sicuri castelli maremmani.

Il conte Fazio Novello: un signore rinascimentale

Pareva che la Signoria dei Donoratico a Pi-sa volgesse ormai al tramonto, tanto più che,di quel glorioso ramo dei Gherardesca, eraormai rimasto in città solo il conte Fazio No-vello, ventottenne figlio di Gherardo il Giova-ne. Egli, come sappiamo, si era imparentatocon Castruccio Castracani, sposandone la fi-glia Bertecca; è possibile che, dopo la mortedi Nieri e per qualche tempo, tale legame ab-bia condizionato il comportamento di FazioNovello. Fu probabilmente per non entrarein conflitto con il suocero, il quale ambiva aduna Signoria anche su Pisa, che il giovaneconte di Donoratico si mantenne inizialmentelontano da ogni velleità di governo della Re-pubblica.

Nel 1327 era nel frattempo sceso in Italial’imperatore Ludovico IV, il Bavaro, attornoal quale tentavano di ricompattarsi i ghibellinipiù accaniti che con lui speravano di risolle-vare le sorti della loro parte. In prima fila fradi essi spiccava il Castracani che, in compen-so dei servigi resi al monarca, sperava di con-seguire l’agognata investitura ufficiale a signo-re di Pisa. Invece, a dispetto di tutte le spe-ranze dei ghibellini, Ludovico mostrò benpresto di non possedere la statura politica perpoter condurre al successo i propri ambiziosiprogetti. Attorniato da pochi e mal assortitiseguaci, dotato di miope intelligenza, privo disensibilità politica e, per di più, dilapidatoredegli aiuti finanziari che egli pressantementerichiedeva dai suoi alleati italiani, l’imperato-re perse ben presto ogni credibilità anche agliocchi dei suoi più accesi sostenitori.

Pisa oppose una lunga ed inaspettata resi-stenza prima di accogliere fra le sue mura ilnon gradito ospite. Anche il conte Fazio No-vello, non più animato dagli ideali ghibelliniche avevano infiammato i suoi predecessori,si annoverò fra coloro che si dichiararonocontrari ad ospitare l’imperatore e, di conse-guenza, non volle mettere a sua disposizioneil proprio palazzo, come in altre circostanze

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Una grande casata guerriera del M

edio Evo

105Cavalcata dell’affresco «Trionfo della Morte», un tempo nel camposanto urbano di Pisa. Con l’imperatore Ludovico il Bavaro e Castruccio Castracani, vi sono anche raffigurati il conte Fa-zio Novello di Donoratico (con il falcone sul braccio) e sua moglie Bertecca Castracani (foto Alinari)

[fig. 17]

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33 E. CRISTIANI, Alcune osservazioni sui vescovi intervenuti all’incoronazione romana di Ludovico il Bavaro (17 gennaio1328), in Miscellanea Gilles Gerard Meersmann, Antenore, Padova 1970.

34 AF, f. 153, a. 1329.

analoghe avevano sempre fatto in passato iGherardesca, allorché sostava a Pisa un so-vrano. Il Bavaro fu pertanto ospitato nel me-no fastoso palazzo comunale, da dove conti-nuò imperterrito a spremere i già esausti for-zieri della Repubblica. Fortunatamente per iPisani, il soggiorno di Ludovico IV fu abba-stanza breve, poiché, agli inizi del 1328, egli sidecise ad avviarsi, con il suo variegato segui-to, alla volta di Roma, per cingere quella co-rona del Sacro Romano Impero che prima dilui era stata di Carlo Magno e poi di altri im-peratori più meritevoli e rappresentativi delBavaro.

È ora opportuno ricordare che, da Avigno-ne dove risiedeva, papa Giovanni XXII ave-va sempre avversato questo sovrano, giun-gendo persino a scomunicarlo e di conse-guenza vietando ai suoi legati romani di sod-disfarne le ambizioni imperiali. Lodoviconon ebbe allora altra scelta che quella di sca-valcare la legittima autorità pontificia, facen-do farsescamente eleggere un antipapa nellamodesta persona del frate minorita Pietro daCorvaja. Questi, assunto il nome di NiccolòV, nominò a sua volta in fretta e furia un cer-to numero di cardinali che potessero attor-niarlo al momento di procedere all’incorona-zione dell’imperatore. Come narrato nel ca-pitolo sui Gherardesca in Sardegna, fra taliporporati scismatici figurò anche un conte diDonoratico e più esattamente quell’intrigantedomenicano Bonifazio33 che, per volere delpapa legittimo, era stato trasferito dalla suaoriginaria diocesi sarda, prima a quella corsadi Sagona e poi a quella ancor più lontana diChirone o Corona, a Creta. L’antipapa Nic-colò V, non solo impose a Bonifazio il galerocardinalizio, ma lo mise addirittura a capo ditutto l’ordine domenicano. Questi intrighidell’imperatore finirono con l’indispettire isuoi stessi seguaci, tanto che persino il Ca-stracani, conseguita la sospirata investitura asignore di Pisa, nell’aprile del 1328 abban-donò il monarca a Roma con la scusa di do-

versi andare ad insediare nella nuova Signo-ria che, purtroppo per lui, riuscì solo a con-servare per la durata di cinque mesi, essendoegli morto il 3 settembre di quel medesimoanno.

Nel frattempo anche Ludovico IV aveva la-sciato Roma per riprendere il suo cammino diritorno in Germania, con l’intenzione però difare ancora una volta tappa a Pisa, con viva egiustificata apprensione dei poveri Pisani chegià paventavano nuove spoliazioni. L’unicache pensò invece di poter trarre vantaggiopersonale da questo secondo soggiorno delBavaro nella città, fu Giacomina, vedova diGiovanni d’Arborea e moglie di Tige di Do-noratico. Ella infatti brigò per farsi riconfer-mare con un diploma imperiale (che dovettecerto comportarle qualche esborso finanzia-rio) tutti i diritti sul Giudicato del suo primosposo, che in realtà essa, in seguito, non po-tette mai esercitare34.

Per l’imperatore giunse alfine il tempo, conimmaginabile sollievo dei Pisani, di riprende-re il viaggio verso la Germania; a custodia diPisa, Lodovico lasciò una piccola guarnigioneal comando di Tarlatino Tarlati di Pietramala.Il conte Fazio Novello intuì allora che eragiunto il momento propizio per agire in pri-ma persona e nel giugno del 1329 sollevò ilpopolo e lo guidò contro quest’ultima vestigiadel potere imperiale.

Sconfitto il Tarlati, Fazio Novello fu accla-mato dai Pisani loro signore. Ebbe da allora i-nizio quell’illuminato governo, ricco di tantisuccessi, che si protrasse purtroppo per solidieci anni a causa della prematura morte delconte di Donoratico. È senz’altro possibile asserire che questo Gherardesca rappresentòla figura ideale del principe rinascimentale,quando tale epoca era ancora ai suoi primi al-bori. La sua Signoria, contrariamente alla con-suetudine dei tempi, non nacque dalla sopraf-fazione delle istituzioni comunali, né fu inizia-ta con l’imposizione violenta, ma si andò pla-smando per volontà del comune e delle classi

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35 F. ARDITO, Nobiltà, popolo e Signoria del conte Bonifazio Novello, Sentinella delle Alpi, Cuneo 1920, pp. 171-80. 36 G.B. FRANCESCHI, Notizie del conte Bonifazio Novello, Ciardetti, Firenze 1834, p. 16. 37 AF, f. 109, 1329. 38 DAVIDSOHN, op. cit., vol. IV, p. 1207.

popolari di cui i Gherardesca avevano mo-strato di essere alleati anche nel passato35. Aragione G.B. Franceschi, nel tratteggiare que-sto personaggio, scrive: «Fu tollerante e beni-gno in mezzo a gente intollerante e faziosa»36.

Il suo infatti fu un esercizio del potere sen-za tentennamenti, ma al tempo stesso non ti-rannico, poiché essendo egli di sentimentiprofondamente cristiani, mai venne meno atali suoi principi; anche quando fu deciso econcreto nell’azione di governo, in nessunmomento dimenticò i suoi doveri verso il po-polo pisano che lo aveva voluto a suo signore.

Sin dagli inizi della sua Signoria, Fazio No-vello mise in mostra le proprie doti di statista,pervenedo nel 1329 ad un accettabile accordodi tregua con i confinanti comuni guelfi e ren-dendo con ciò possibile una ripresa del nor-male flusso commerciale con essi ed in parti-colare con Firenze, le cui attività industriali, inrapida espansione, sempre più necessitavanodi un affidabile sbocco marittimo. Fu quello ilpreludio ad un definitivo abbandono dellapassata intransigente politica ghibellina di Pi-sa e, in un certo senso, la riabilitazione postu-ma degli orientamenti sostenuti da Ugolino,forse con troppo anticipo rispetto ai tempi af-finché i suoi concittadini li potessero apprez-zare. Il 21 giugno 1330, Fazio Novello riuscìanche a concludere con re Roberto d’Angiòun «trattato di fratellanza» che pose sollene-mente fine all’antica e sanguinosa faida fra gliAngioini e i Gherardesca.

Occorreva ora trovare un’intesa anche conla Chiesa che, per l’appoggio fornito, sia purea mala voglia, a Ludovico il Bavaro, avevascagliato su Pisa un ennesimo anatema che fa-ceva seguito alla lunga serie d’interdetti pon-tifici che i Pisani avevano dovuto sopportarenel corso dei secoli, in punizione della loro fe-deltà all’impero. A tal fine il signore pensò difar buon uso dell’imbarazzante presenza a Pi-sa dell’antipapa Niccolò V, che il Bavaro, do-po averlo sfruttato per i suoi intrighi, aveva lì

abbandonato all’atto del suo poco gloriosorientro in Germania. Lo sfortunato Pietro daCorvaja era stato per tre mesi ospite segretodi Fazio Novello nel castello di Bolgheri, mapoi, nel timore che questo nascondiglio fossestato individuato dai nemici del povero frate,egli fu riportato a Pisa, dove, per altri diecimesi, fu accolto nel palazzo cittadino del con-te di Donoratico. Fu certo nel corso di talisoggiorni che egli si fece convincere dal si-gnore di Pisa a far atto di sottomissione a pa-pa Giovanni XXII. Ricevutone il consenso,Fazio Novello operò allora con grande diplo-mazia onde garantirsi che, nell’evenienza, nonfosse fatto alcun male a Pietro da parte del le-gittimo Pontefice e solo dopo aver ottenutotutte le assicurazioni37, il conte consegnò ailegati del papa, Pietro che, tradotto ad Avi-gnone, fece l’atto di sottomissione promessoe, in rispetto agli accordi presi, fu ospitato peril resto dei suoi giorni da Giovanni XXII nelsuo palazzo avignonese, senza che gli venissetorto un solo capello. Riconoscente per il sag-gio operato del conte di Donoratico, il Ponte-fice volle che a lui fossero riconosciuti i dirittisul castello di Pereta che la Chiesa possedevanel grossetano e, secondo quanto sostiene, amio avviso erroneamente, il Davidsohn, an-che quelli sul castello di Montemassi, semprenel medesimo territorio ma di proprietà del-l’arcivescovo di Pisa38.

Queste azzeccate mosse diplomatiche di Fa-zio Novello valsero a risollevare un poco l’im-magine appannata della Repubblica Pisana,ma non riuscirono affatto gradite agli irriduci-bili ghibellini, che già avevano considerato u-na viltà l’aver voltato le spalle a Ludovico ilBavaro. Guidati ancora una volta da un Lan-franchi e sostenuti da Mastino della Scala, dapoco divenuto signore di Lucca, essi ordironouna congiura ai danni del conte di Donorati-co. La rivolta esplose tumultuosamente l’11novembre 1335, ma Fazio Novello fu abile edenergico nel soffocarla, senza ricorrere alle

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108 I della Gherardesca

39 ASP, Miscel. Manoscr., c. 7t. 40 A. FABRONIO, Historiae Academiae Pisanae, Mugnaini, Pisa 1791, pp. 46-63.

sanguinose rappresaglie che in genere, a queitempi, caratterizzavano ogni evento analogo.Riconfermategli tutte le cariche pubblicheche lo rendevano loro signore, i Pisani volleroche da quel momento gli venissero anche as-segnati 1550 soldati da adibire alla sua perso-nale sicurezza e poi, nel 1337, lo nominaronoanche «civitatis dominus generalis».

All’inizio di quel medesimo anno, essendorimasto nel frattempo vedovo di Bertecca Ca-stracani, Fazio Novello contrasse, in granpompa, nuove nozze39 con Contalda, della po-tente casata genovese degli Spinola, con laquale, come si ricorderà, i Gherardesca si era-no già imparentati alla fine del secolo prece-dente e che, attorno al 1330, aveva anche avu-to breve Signoria su Lucca. Questo nuovo le-game fu quasi sicuramente allacciato per fa-vorire, come in realtà avvenne, una miglioreintesa fra Pisa e Genova per un maggior ri-spetto dei reciproci traffici marittimi.

Il signore di Pisa non trascurò nemmeno disviluppare ulteriormente le buone relazioniinstaurate con i Fiorentini, non mancando tut-tavia d’inviare loro chiari segnali ed avverti-menti ammonitori, come quello di procedereal rafforzamento di alcuni castelli pisani diconfine, fra cui quello di Vico. Pure con Sienausò un accorto pugno di ferro, allorché que-sto comune intese insediarsi più saldamentenel territorio di Massa Marittima, minaccian-do, con tale atteggiamento, Pisa medesima,ma soprattutto la frangia meridionale dei do-mini Gherardesca.

Se particolarmente intensa fu l’attività diFazio Novello nel cercar di ricreare per la Re-pubblica più promettenti prospettive di poli-tica, che potremmo definire «estera», altret-tanto fattiva fu la sua opera per realizzare inPisa stessa nuove iniziative che potessero ri-sollevarne il prestigio e il decoro. Ad esempiofece allargare ed abbellire la Piazza dei Signo-ri e, ispirato da sincero spirito religioso fondò,nel 1332 in Chiseca, con esplicito consensopapale, il monastero di S. Martino per mona-che dell’ordine di S. Chiara, dotandolo di co-

spicui beni. Occorre ricordare che per tutto ilMedio Evo i conventi, oltre ad essere centridi spiritualità, avevano anche assolto alle pre-ziose funzioni di centri assistenziali e cultura-li. Era però giunto il tempo di affidare talidue ultime incombenze anche ad organismilaici e Fazio ben intese questa esigenza inno-vativa, avvantaggiato indubbiamente dal fattoche Pisa già si trovava all’avanguardia in en-trambi i settori. Essa poteva infatti vantareun’antichissima «Pia Opera della Misericor-dia» che, da una cartapecora ancora conser-vata nell’archivio dell’istituzione, si dice esse-re addirittura stata fondata nel 1053 per ini-ziativa di dodici nobili pisani, fra i quali an-che un Napoleone, conte di Donoratico. Se-condo vari esperti questo documento sarebbeperò apogrifo, ma nemmeno viene esclusoche possa far riferimento a qualcosa di real-mente accaduto, sia pure in epoca più tardarispetto alla data del manoscritto.

Inoltre Pisa, prima in Toscana e secondadopo Bologna in Italia, disponeva di un pro-prio «Studio», la cui costituzione si vorrebbeaddirittura far risalire al tempo dei romani eche comunque nel XIV secolo rappresentavauno dei più importanti e considerati poli cul-turali d’Europa. Orbene, nel 1320, Firenzevolle entrare in concorrenza con la Repubbli-ca rivale anche in questo settore della culturae istituì un proprio Studio cittadino. FazioNovello, consapevole dell’importanza di con-servare a Pisa il prestigioso primato in questocampo, stimolò gli Anziani e il Senato affin-ché provvedessero ad un deciso ampliamentodelle discipline già facenti capo allo Studio pi-sano, che venne quindi trasformato in «Stu-dio Generale», cioè in quella che poi divennel’odierna Università. Il conte di Donoratico i-noltrò allora un’istanza al papa onde ottenereil suo avallo all’iniziativa, ma il pontefice, for-se per favorire il progetto di Firenze, cara alsuo cuore per essere da sempre stata guelfa,tardò a dar seguito alla supplica dei pisaniche decisero allora di procedere ugualmentenei propri programmi40, chiamando ad inse-

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41 FINKE, op. cit., p. 430. 42 AF, cartapecora n. 23 bis. Nel testamento di Fazio Novello non vien fatto ovviamente riferimento al patrimonio pa-

rentale in quanto regolato, da parte dei Gherardesca, dalla tradizionale osservanza delle leggi longobarde in materia.

gnare nel loro rinnovato Studio maestri insi-gni, quali Bartolo di Sassoferrato, Guido daPrato, Ranieri Arsendi e Giovanni d’Andreadi Mugello. Nell’intento poi di poter meglioaccogliere le nuove discipline d’insegnamento,Fazio Novello fece ristrutturare il Teatro delleScuole, onde in esso ricavare gli ambienti oc-correnti allo Studio Generale. Tanto fervor diopere non fu però da lui potuto portare a ter-mine, per la sopravvenuta sua prematura mor-te. A Fazio pertanto non fu possibile vedercompiutamente realizzata la propria iniziativaed esaudita la richiesta del riconoscimento pa-pale, che giunse infatti solo nel 1343, sottoforma di una Bolla di papa Clemente VI.

Poco prima della morte, il conte di Dono-ratico, rimasto per la seconda volta vedovo, sirisposò con Isabella, figlia di Iacopo Savelliproconsole di Roma41; e non è difficile intra-vedere la longa manus del pontefice in talematrimonio, poiché il papa non poteva nonvedere di buon occhio l’imparentamento conil signore di Pisa di un suo alto rappresentan-te in Roma. Ma Fazio Novello era ormai pros-simo al traguardo della vita terrena ed infattirese l’anima a Dio il 3 dicembre 1340, quan-do aveva appena compiuto quarantatré anni.Della sua morte il Tronci ci dice che «ne me-noe Pisa gran duolo e tutta la Toscana», e pos-siamo ben credergli, cercando anche d’imma-ginare quanto diverso sarebbe stato il destinodell’antica Repubblica marinara, se questosuo illuminato signore avesse ancora potutosaggiamente governarla per altri quindici oventi anni.

I Pisani ne provarono sincero dolore, alpunto da voler subito proclamare a loro nuo-vo signore l’unico figlioletto vivente di FazioNovello, Ranieri Novello, che all’epoca conta-va solo undici anni. Con tale atto si intese ri-confermare la fiducia nella Signoria dei Ghe-rardesca e, con l’ereditarietà dinastica, le siconferì l’ultimo sigillo che ancora mancava aquesta emergente forma di governo.

L’indole rinascimentale e l’animo generosa-

mente cristiano di Fazio Novello furono per-fettamente rispecchiati dal suo testamento,con il quale egli dispose che fosse suddivisoin infiniti rivoli benefici il suo cospicuo patri-monio «personale»42 nell’ipotesi, purtroppopoi verificatasi, che la sua discendenza direttafosse venuta meno. Egli infatti, a dispetto deisuoi tre sposalizi, aveva solo avuti tre figli: Ra-nieri Novello che, dei Gherardesca, sarà l’ulti-mo signore di Pisa; Emilia che andò sposa adUgolino dei Gonzaga di Mantova; e Gherar-do, che morì bambino prima che spirasse ilpadre.

Nel suo corposo testamento, il conte FazioNovello, qualificandosi innanzi tutto signoredella sesta parte del Regno di Cagliari, dispo-se di essere tumulato, come i suoi predecesso-ri, nella chiesa pisana di S. Francesco. Seguepoi un interminabile elenco di legati, inco-minciando da quelli in favore dei poveri di Pi-sa e del suo contado, della «Terris Gherarde-sca» (che anche in questo caso costituisceun’entità a parte rispetto al contado pisano),dei suoi territori sardi di Gonnesa e GioiosaGuardia ed infine dei poveri di Vicarello, Luc-ca, Pistoia, Parma, Reggio e della Garfagnana.Simili disposizioni farebbero quasi supporreche, in tutte queste località menzionate, ilconte Fazio Novello avesse avuto propri inte-ressi che peraltro non sono meglio specificatinel documento in esame. Seguono poi i lascitia una dozzina di monasteri ubicati in Pisa onei suoi dintorni, a Carrara, a Pontremoli, inSardegna, a Piombino, a Castiglion della Pe-scaia, a Suvereto, a Massa Marittima, alla Ver-na, a Guardistallo e ad Acquaviva, nei pressidella quale ancor oggi esiste una località detta«il Romitorio» [Appendice, inserto 2]. Altrericche regalie il conte di Donoratico dispose afavore dell’ospedale nuovo di Pisa e delle o-pere pie della chiesa pisana.

Particolarmente generose le sue donazionialla Pia Opera della Misericordia, alla quale,fra l’altro assegnò i suoi possedimenti pressoGanghi, nelle vicinanze di Castelnuovo, che

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43 Un tempo detto Camaiano ed oggi Castelnuovo della Misericordia in provincia di Livorno. 44 AF, f. 99, a. 1342. Bernabò venne poi rilasciato nel 1346.

da allora fu ribattezzato Castelnuovo della Mi-sericordia43. Con tratto di grande signorilità,Fazio Novello volle poi che fosse restituito allaChiesa Romana il castello di Pereta donatoglida papa Giovanni XXII, ma prima disposeche ne venissero beneficati i poveri. Segue unalunghissima lista di legati minori a presbiteri econversi di Pisa, di Lucca e dei rispettivi con-tadi; né il conte di Donoratico dimenticò ipropri servi, ai quali volle che venissero asse-gnati generosi lasciti in denaro. Dispose inol-tre alcuni regolamenti patrimoniali con i contidi Biserno, con i suoi tre cognati Castracani,con i conti Pannocchieschi, con i suoi cugini,Bernabò e Gherardo, figli di Nieri, ed infinecon i successori del conte Ugolino, ma questeultime disposizioni vennero in seguito sostan-zialmente annullate da un codicillo che egliaggiunse al testameno, poco prima di morire.Nel documento principale sono anche men-zionate due tenute spagnole, in Aragona e inCatalogna, frutto probabile di compensazionicon il re d’Aragona per quanto da quest’ulti-mo era stato tolto ai Gherardesca in Sardegna.Altri domini citati nell’atto sono appunto ubi-cati nell’isola ed altri ancora a Camaiano, suimonti livornesi del Gabbro, a Colle Salvetti, inVal d’Arno e in Val di Serchio.

A questo punto non è possibile non sottoli-neare che egli non citò mai, se non per regola-menti interfamiliari, i suoi pur vasti possedi-menti situati nell’enclave Gherardesca, ed èopportuno ricordare che, per quanto attenevaa tali proprietà parentali, era inutile dare di-sposizioni testamentarie in quanto per esse iGherardesca si regolavano sulla falsariga delleleggi longobarde di Rotari, che consideravanoi possessi comuni del nucleo familiare inalie-nabili da parte del singolo o comunque ince-dibili nel caso di mancata sua discendenza.Fazio Novello non ne poteva dunque dispor-re liberamente.

Egli si preoccupò invece di assicurare unavita confacente al loro rango a sua zia Tora,vedova di Paolo degli Alberti, a sua sorella A-gostina, vedova di Guido Orsini di Soana, ed

infine a sua moglie Contalda Spinola. Essen-do peraltro quest’ultima premorta a FazioNovello, che successivamente si risposò conIsabella Savelli, quasi in punto di morte, eglidetterà il già menzionato codicillo, onde asse-gnare alla sua terza moglie gli stessi benefici asuo tempo previsti per la seconda.

Inoltre, il conte di Donoratico affidò a Ti-nuccio della Rocca, che aveva sposato Berar-da della Gherardesca, ed era quindi suo pa-rente, l’incarico di esecutore testamentario edi tutore del piccolo Ranieri Novello fino alraggiungimento della sua maggiore età.

La simbolica Signoria su Pisa e Lucca del conte Ranieri Novello

Anche se questo bambino fu platonica-mente nominato capitano generale della Re-pubblica, in pratica fu il Della Rocca a surro-garlo nell’effettivo esercizio del potere, perquanto nei documenti ufficiali sia sempre Ra-nieri Novello a figurare in prima persona.Quando poi Pisa, nel 1341, conquistò Lucca,in quella medesima cornice formale, il piccoloconte di Donoratico fu acclamato capitanogenerale anche di quest’ultima città, dellaquale, l’anno successivo, diverrà «protettore,difensore e governatore». Sempre nel 1342Pisa stipulò anche un’alleanza con LuchinoVisconti, duca di Milano, e pure in questa cir-costanza, come firmatario, figurò il conte Ra-nieri Novello. A seguito di detti accordi, iconti di Donoratico, Bernabò44 e Giovanni,furono inviati quali ostaggi a Milano, a garan-zia del puntuale adempimento degli impegniassunti dal signore di Pisa. Il potere nominaledi Ranieri Novello era, a quel momento, su-periore a quello detenuto a suo tempo dal pa-dre, e varie lapidi, pervenuteci, ne esaltano lapotenza con vuota ampollosità.

Un documento, quasi sicuramente apo-grifo, riporta addirittura che le nuove muracittadine, costruite in quegli anni fra la PortaCalcesana e quella del Parlascio, furono per-

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45 Nell’Inventario del regio archivio di Lucca, Giusti, Lucca 1872, p. 104, si trova che, in tale occasione, il pittore Petruc-cio Girondi raffigurò, sul muro del palazzo pubblico, l’effige di Ranieri Novello ai piedi dell’imperatore fregiandolo con il ti-tolo di «Nanus domini imperatoris».

sonalmente finanziate da questo imberbe con-te di Donoratico, tanto che, nel 1346, gli An-ziani di Pisa vollero solennemente formalizza-re per iscritto che dette mura appartenevanodi diritto al Gherardesca. Non era però dettonel libro del destino che Ranieri Novello arri-vasse a poter dimostrare che, al di là di unpomposo cerimoniale, egli possedeva effetti-vamente le doti per essere signore di Pisa. Ilconte di Donoratico, dopo appena sei mesidall’aver partecipato ad una grande festa datain suo onore a Lucca45, morì infatti nel 1347,ad appena diciassette anni, ed alcuni mormo-rarono che fosse stato avvelenato, come si u-sava subito sospettare, a quei tempi, per l’im-provviso decesso di un principe.

I presunti motivi per i quali i Gherardescadovettero rinunziare alla loro Signoria su Pisa

La scomparsa di Ranieri Novello creò unvuoto di potere entro il quale cominciaronoad azzuffarsi i seguaci dei due partiti in cui siera suddivisa, a quel tempo, la cittadinanzapisana: quello dei Bergolini, favorevole ad u-na sempre maggiore intesa con i Fiorentini, equello dei Raspanti, decisamente contrario aduna tale intesa.

La scarsa documentazione disponibile po-co aiuta a comprendere quale sia stata, in talefrangente, la parte avuta dai Gherardesca e semai qualcuno di essi si sia fatto avanti per ri-vendicare alla propria casata la continuità del-la Signoria, che divenne invece appannaggiodei Gambacorta, mercanti e capi dei Bergoli-ni. Proviamo quindi ad ipotizzare tutte le pos-sibili ragioni per le quali la Signoria sfuggìdalle mani, in particolare, dei conti di Dono-ratico, che erano riusciti a conservarla perquasi un trentennio, ed, in generale, di tuttigli altri membri della loro antica casata.

Va innanzi tutto ricordato che, dei vari ra-mi in cui a quell’epoca era suddivisa la schiat-

ta dei Gherardesca, solo quelli che ho classifi-cato come «conti di Settimo» e «conti di Do-noratico» avevano messo in evidenza una co-stante vocazione alla vita pubblica, politica eamministrativa di Pisa. Gli altri segmenti fa-miliari, non ancora estinti nel XIV secolo, ecioè i conti di Biserno, di Segalari, di Casta-gneto e di Campiglia, avevano prevalente-mente privilegiato una politica localistica, vol-ta più che altro alla cura ed alla salvaguardiadei propri domini maremmani che li rendeva-no sì potenti e ricchi, ma mai quanto i loroconsanguinei di Settimo e di Donoratico, cheavevano potuto rimpinguare le originarie so-stanze comuni della casata con i proventi del-le personali opime conquiste in Sardegna. Perconcorrere al potere in Pisa, non bastava or-mai più sventolare soltanto l’antichità dellaprogenie di appartenenza, ma occorreva con-trapporre una propria potenza finanziaria aquella sempre crescente della classe mercanti-le, che, con lo scorrere degli anni, si era anda-ta affermando nell’ambito cittadino. Una con-ferma a tale ipotesi potrebbe provenire dallasempre minor influenza avuta in Pisa da queiconti di Donoratico che discendevano da En-rigetto. Sul piano economico questi ultimiDonoratico erano infatti allo stesso livello de-gli altri Gherardesca rimasti esclusi dalle for-tune sarde e non potevano quindi vantare ilpotenziale finanziario del quale disponevano idiscendenti di Gherardo il Vecchio e di Ugo-lino.

Fermo quindi restando il minor peso poli-tico dei rami meno abbienti della prosapia,vediamo quanto potevano pretendere di con-tare ancora in Pisa i due segmenti dei Gherar-desca testé citati. Dei successori del conte U-golino già conosciamo le disavventure politi-che ed economiche, sulle quali non è necessa-rio dilungarci ulteriormente. A quanto risulte-rebbe, di essi erano rimasti solo i discendentidi Lotto che, tuttora poco tollerati dalla Re-pubblica Pisana, vivevano asserragliati nei lo-ro castelli maremmani; inoltre, in aggiunta ai

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46 AF, f. 99, a. 1351; e f. 151, n. 9, a. 1351. 47 AF, f. 150, n. 71/2. Vi si legge che Gaddo della Gherardesca fu l’84° frate del convento di S. Caterina in Pisa. Egli ri-

sulterebbe morto verso il 1300.

loro possessi ubicati a Pisa e dintorni, aveva-no perduto anche i loro domini sardi, incame-rati dalla Repubblica, dopo la rivolta armatadi Guelfo e Lotto, e, almeno in parte, dai lorostessi parenti, conti di Donoratico, come è da-to arguire leggendo il testamento di Fazio No-vello. La loro malferma posizione politica e illoro debilitato potenziale economico li esclu-deva quindi da ogni velleità successoria nellaSignoria.

In situazione quasi analoga si trovavano ifigli del conte Nieri, Bernabò e Gherardo, iquali, pur tuttora assai potenti sotto il profilofinanziario, erano troppo invisi ai Pisani perl’ancor recente ricordo del tirannico dispoti-smo del padre. Non è tuttavia da escludereche alla morte di Ranieri Novello, i due ab-biano fatto qualche tentativo per proporre u-na propria candidatura alla Signoria, e, anchese non ne ho rintracciato alcuna conferma do-cumentale, il fatto che entrambi, nel 1349, sia-no stati contemporaneamente banditi da tuttoil territorio della Repubblica, potrebbe avalla-re tale ipotesi. È dunque certo che i figli delconte Nieri non riapparvero mai più in Pisa,ma si rifugiarono in Sardegna, dove Bernabòmorì nell’anno medesimo della messa al ban-do e Gherardo concluse drammaticamente lapropria esistenza, nel 1355, nel modo già nar-rato. Di Bernabò è anche rimasto il testamen-to, redatto a Cagliari, con il quale egli lasciòsuoi eredi il fratello e la moglie Idanna, figliadel conte Ruggero di Romea, la quale, pro-prio con quanto ereditato, fondò a Siena l’O-spedale della Scala46.

A dispetto delle loro non eccezionali risor-se economiche, rimanevano di fatto candida-bili alla Signoria anche i quattro figli maschidel conte Ranieri e di Sofia di Monferrato,che facevano parte del ramo meno ricco deiDonoratico. L’unico di essi che ebbe peròambizioni di vita pubblica, fu Napoleone chenel 1350 venne nominato podestà di Lucca,mentre il secondo, Ottaviano, morì durante lapestilenza del 1348, e gli altri due, ancor gio-

vani, si erano fatti frati domenicani in S. Cate-rina di Pisa. Di questi due ultimi, già cono-sciamo le peregrinazioni vescovili dell’ambi-zioso Bonifazio, nonché le sue disavventurescismatiche al tempo dell’antipapa Niccolò V;resta dunque solo da accennare al secondo,Gaddo, che mai mirò agli stessi traguardidell’intrigante fratello, contentandosi di unapiù pacata e spirituale vita di convento47. Eglivisse infatti sempre fra le mura del monasteropisano, che lasciò solo in occasione di un suoviaggio a Parigi, dove fu accolto fra i dottoridella Sorbona. Rientrato poi nella sua città, ri-prese l’umile vita di frate e morì in odore disantità, ricordato negli Annali di S. Caterinaper elevate doti cristiane e per colte predica-zioni.

Con questa bella figura di religioso si chiu-de la panoramica delle ragioni contingenti,politiche ed economiche, che resero impossi-bile una continuazione della Signoria deiGherardesca in Pisa. Prima di concludere iltema, però, voglio porre in risalto un ultimoelemento che contribuì, non marginalmente,alla repentina uscita di scena della grande ca-sata comitale dal governo della Repubblicamarinara, che tanto aveva invece influenzatoper oltre un secolo e mezzo. Tale elemento èrappresentato dalla micidiale pestilenza che,nel 1348, ammorbò Pisa e il contado, falci-diando quasi il settanta per cento dei suoi abi-tanti. Pare che il contagio fosse stato originatoda alcune merci guaste, imbarcate su due ga-lee genovesi che, sul finire del 1347, prove-nienti dall’Oriente, avevano fatto scalo nelporto pisano. Fra coloro che rimasero stermi-nati dall’implacabile epidemia, si annoveraro-no ben tredici maschi dei vari rami della pro-genie Gherardesca, che rimase di conseguen-za fiaccata e priva di quel sostegno, anche nu-merico, di cui una consorteria aveva gran bi-sogno in tempi di violenza e soprusi comequelli di cui parliamo. Con i ranghi drastica-mente ridotti, i Gherardesca non trovaronoforse più il vigore per reagire alle avverse for-

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tune da cui erano stati ripetutamente colpiti,quali la tragica decapitazione di Gherardo ilVecchio, le drammatiche vicende del conteUgolino e dei suoi familiari, e le sanguinosebattaglie in Sardegna.

Anche Pisa uscì demograficamente pro-strata dalla pestilenza che si rinnovò nel 1363,assottigliando ulteriormente una popolazionegià decimata dalla morte di tanti giovani du-rante le continue guerre combattute negli ul-timi decenni. La Repubblica si trovava ormainell’impossibilità di armare un esercito dome-stico, in grado di assicurarle un’adeguata dife-sa, né tanto meno disponeva di risorse finan-ziarie che le consentissero di assoldare a talescopo milizie mercenarie. Si andava insommaprofilando la fine dell’indipendenza di quellache era stata una delle quattro gloriose repub-bliche marinare d’Italia.

Ridotta ai limiti della sopravvivenza, ormaipriva del sostegno di quelle grandi prosapiearistocratiche e guerriere che nel passato ave-vano rappresentato la sua spina dorsale, im-poverita nella sua classe mercantile e dilaniatadalle lotte intestine dei due partiti che in cittàsi contendevano il potere, Pisa si avviava fa-talmente verso una sua definitiva resa di fron-te all’inarrestabile ascesa in Toscana della Re-pubblica Fiorentina. Dalla morte del conteRanieri Novello, nel 1347, alla conquista diPisa da parte di Firenze, nel 1406, si sussegui-rono nella Signoria prima i Gambacorta,quindi il doge Dell’Agnello, poi, per un altrobreve periodo, ancora i Gambacorta ed infineil d’Appiano, ma nessuno di loro ebbe la for-za o la capacità di deviare il corso del destinodella Repubblica, volto ormai verso un inarre-stabile tramonto.

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Da conti di Settimo a conti di Montescudaio e Guardistallo

Montescudaio e Guardistallo sono oggidue pittoreschi paesi arrampicati sulle alturelitoranee che si elevano a sud del fiume Ceci-na; nel Medio Evo erano due munite fortezzedei Gherardesca, costruite a difesa del confi-ne settentrionale dell’enclave dominato dal-l’antica casata comitale ed ubicate in posizio-ne strategicamente eccellente per sbarrare, as-sieme alla rocca di Casaglia ed al vicino ca-stello di Casale, la grande vallata che da Vol-terra si apre verso il mare, suddividendosi indue rami all’altezza del torrente Sterza.

Il segmento della schiatta che fu detto deiconti di Montescudaio e Guardistallo [tav.13] è quello dal quale sono derivati gli odierniGherardesca e nel quale, con il graduale e-stinguersi di tutti gli altri rami della casata, esempre nel rispetto delle norme longobarde,confluirono nel tempo tutti i possedimentidell’originario nucleo parentale, con la solaparziale eccezione di quelli dei conti di Biser-no e dei conti di Segalari.

Il primo a richiamarsi stabilmente al titolodi conte di Montescudaio e Guardistallo fu, aquanto risulterebbe, Lotto, figlio di Ugolino,che in queste fortezze trovò probabilmente ri-fugio non appena poté rientrare in Toscana,dopo la lunga prigionia genovese e la conclu-sione sfortunata della guerra combattuta inSardegna contro Pisa. Come sappiamo, eglifaceva parte del ramo dei conti di Settimo,ma nel Medio Evo il fatto di cambiare la pro-pria qualifica o il proprio cognome era costu-me corrente ogni qual volta l’opportunità po-litica suggeriva di smorzare le antipatie popo-lari verso un determinato gruppo familiare

caduto in disgrazia, come senza ombra didubbio era avvenuto per i discendenti delconte Ugolino. L’artificio non servì tuttavia,in questo caso, a far riconquistare ai conti diMontescudaio il perduto prestigio a Pisa néfacilitò in alcun modo il recupero dei loro be-ni incamerati dalla Repubblica. Lotto fu dun-que il capostipite di un ramo della prosapiache mai poté avvantaggiarsi dei fasti della Si-gnoria pisana dei Gherardesca, né tanto me-no tornare a primeggiare nella città dopo lamorte del giovanissimo Ranieri Novello.

Del resto, nell’agonizzante Repubblica, a-vevano ormai prevalso i ceti mercantili, su-bentrati nel potere alle antiche nobili casateche mai più ebbero la forza e i mezzi per ri-conquistarlo.

Le prime generazioni dei conti di Montescudaio e Guardistallo

Alle prime generazioni di questo ramo deiGherardesca toccò quindi il travaglio di do-versi destreggiare nella cornice di una nuovarealtà politica. La condotta che essi, e gli altricomponenti della schiatta comitale, adottaro-no negli anni che stavano concludendo il ci-clo medievale della storia, potrebbe perfetta-mente essere raffigurata come la testa di Gia-no bifronte, di cui una faccia era rivolta versoun glorioso ma irripetibile passato, rappre-sentato da Pisa, e l’altra verso un incerto e piùridimensionato futuro, costituito da Firenze.

Ma torniamo ora a Lotto. Come sappiamo,egli aveva contratto due matrimoni. Il primo,vivente Ugolino, con Ghilla, della nobile ca-sata dei da Capraia, giudici in Arborea, ricon-ferma le persistenti velleità dei Gherardesca

CAPITOLO SESTO

La pace con Firenze e le vicende che ne seguirono

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Una grande casata guerriera del Medio Evo 117

1 Bacarozzo aveva a quei tempi il significato di bandito e, probabilmente, nella fattispecie, di esiliato. 2 AF, f. 98, a. 1429.

nei riguardi della Sardegna; il secondo, conuna Spinola, sottolinea l’alleanza strumentalestretta, alla morte di Ugolino, fra i suoi suc-cessori e Genova per combattere, proprionell’isola, l’ormai comune nemico pisano. Datali matrimoni provenne a Lotto una prolemaschile piuttosto numerosa, che peraltronon comparirà mai sulla scena pisana, salvoAnselmuccio, morto con il nonno nella Torredella Fame. Non mi sembra che vi sia nulla diparticolare da segnalare su questa prima ge-nerazione dei conti di Montescudaio, ad ec-cezione di alcune loro unioni matrimonialiche evidenziano una significativa tendenzadei Gherardesca a cercarsi alleanze in conte-sti diversi da quelli tradizionalmente legati al-le vicende pisane e sarde. Giovanni, detto«Bacarozzo»1, figlio di Lotto, si sposò ad e-sempio con Iacopa della famiglia dei Carrare-si di Padova, grande casata di origine longo-barda anch’essa, che di lì a poco conquisteràla Signoria sulla propria città, mentre una so-rella omonima di Giovanni e suo nipote Lot-to sposarono rispettivamente Dante Scali eFrancesca de’ Bardi, inaugurando la serie de-gli imparentamenti con le più influenti fami-glie fiorentine dell’epoca, e ciò nel chiaro in-tento di procurarsi qualche primo valido ag-gancio con Firenze, con cui i Gherardesca giàpresagivano di dovere avere a che fare benpresto.

In particolar modo è da mettere in eviden-za la parentela con i de’ Bardi, poiché essarappresentò forse il punto di contatto fra l’an-tica schiatta comitale ed la grande famiglia e-mergente di mercanti, che più o meno un se-colo dopo, perverrà al principato a Firenze;infatti proprio nei medesimi anni in cui un al-tro conte di Montescudaio impalmò Ceciliadi Agnoletto de’ Bardi2, Cosimo de’ Medici,ricordato dalla storia come «il Vecchio», a suavolta sposò una donna (Contessina) della me-desima casata.

Fu probabilmente quindi all’interno deigrandi palazzi che i de’ Bardi possedevano an-cora a Firenze, malgrado le loro disavventure

finanziarie con re Edoardo III d’Inghilterra,che i Medici e i Gherardesca allacciarono quelrapporto rivelatosi, con il passar degli anni,tanto prezioso per la prosapia di Ugolino.

I conti di Montescudaio, a dispetto dei tan-ti figli messi al mondo dal loro capostipiteLotto, rischiarono quasi subito l’estinzione esopravvissero soltanto grazie ad alcuni discen-denti di Giovanni Bacarozzo. Quest’ultimoebbe infatti sei eredi maschi, di cui ben quat-tro morirono per la terribile pestilenza del1348. Dei due superstiti, il personaggio dimaggior spicco fu il conte Iacopo, detto «ilPaffetta», della cui avventurosa esistenza valela pena fornire un cenno.

Il conte Iacopo, detto «il Paffetta»

Iacopo aveva sposato una donna della no-bile casata pisana dei Gualandi.

Forse fu questo legame di parentela con iGualandi, che condusse ad un coinvolgimen-to del Paffetta nelle vicende interne di Pisa,da cui dovette però allontanarsi a causa deisuoi sentimenti antifiorentini, in aperto con-trasto con l’orientamento politico dei Gam-bacorta, che, all’epoca, ne erano signori, conl’appoggio del partito fiorentineggiante deiBergolini. Il conte Iacopo, pur di combatterecontro Firenze, si arruolò allora sotto le inse-gne lombarde dei Visconti; durante tale mili-tanza si conquistò la stima e l’amicizia dei du-chi, tanto da essere da loro prescelto a pode-stà di Milano nel 1354.

In quel medesimo anno valicò le Alpi, conun seguito di 2500 cavalieri, Carlo IV delLussemburgo, diretto verso Roma per porsisul capo l’irrinunciabile corona d’imperatoredel Sacro Romano Impero. Il monarca, pas-sando per Padova, giunse il 3 dicembre 1354a Mantova, dove venne accolto con tutti gli o-nori dai Gonzaga. Non altrettanto calorosi fu-rono gli approcci con i Visconti; ed infatti, so-lo dopo laboriose trattative, cui certo parte-cipò anche il conte Iacopo nella sua veste di

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3 F. SARDO, op. cit., p. 115. 4 P. GUELFI CAMAIANI, Dizionario araldico, Cisalpina Goliardica, Milano 1979, pp. 34, 36, 37 e 39. L’aquila nera in cam-

po d’oro rappresentava l’Impero d’Occidente. Le famiglie tedesche e italiane che avevano l’aquila nel loro stemma gentilizio,la potevano esibire per concessione imperiale come simbolo di potenza e di vittoria.

5 SARDO, op. cit., pp. 118, 123 e 136. 6 AF, f. 98, a. 1360.

podestà e forte anche del recente imparenta-mento dei Gherardesca con i Gonzaga, fu al-fine concesso a Carlo IV di entrare in Milanoil 6 gennaio 1355 e di cingere la corona delRegno Italico nella splendida basilica ambro-siana.

Dopo alcune settimane di ospitalità offerta-gli controvoglia dai Visconti, il futuro impera-tore riprese la strada verso Roma, con l’inten-to di fare una sosta a Pisa; fu probabilmenteallora che il Paffetta, esaurito il suo mandatopodestariale, si aggregò al seguito del sovrano,tant’è vero che proprio in quello stesso perio-do egli risultò anche suo ambasciatore aSiena3. Il conte Iacopo fu dunque affidabilealleato di Carlo IV, e ciò apparve ancor più e-vidente quando lo dovette appoggiare con isuoi armati in occasione di una violenta som-mossa scoppiata a Pisa contro il sovrano. A fo-mentare la ribellione era stato il partito deiBergolini; al Paffetta, partigiano invece delpartito dei Raspanti, non parve vero di potermettere a ferro e fuoco le case degli avversarie, in particolar modo, quelle dei Gambacorta,i quali dovettero precipitosamente allontanarsidalla città. Riconoscente per il risolutivo aiutooffertogli, Carlo IV volle allora armare cavalie-re il conte Iacopo, concedendogli anche di ap-porre una corona d’oro sul capo dell’aquilaimperiale che già figurava nello stemma genti-lizio dei Gherardesca4, anche prima del loroimparentamento con gli Hohenstafen [fig. 18].L’imperatore volle inoltre estendere la propriariconoscenza ad altri membri della casata co-mitale, dal che si può dedurre che, nel fran-gente, essi pure gli furono alleati, avendo ri-spolverato il loro mai sopito spirito ghibellino.Furono infatti armati cavalieri anche il conteUgo, fratello di Iacopo, e i conti di Donorati-co, Napoleone e Guido, suo figlio, del qualeavrò modo di parlare fra breve5.

Ma torniamo ora al Paffetta che, incorag-giato dalla vittoria sui Bergolini e dalla bene-

volenza dimostratagli da Carlo IV, forse acca-rezzò l’ambizioso sogno d’impadronirsi delpotere in Pisa, o per consegnare la città ai Vi-sconti, come ipotizzano alcuni storici, o piut-tosto, come sostengono altri, per tentare dirinnovare in essa, ed in prima persona, le pas-sate fortune della famiglia. Tali suoi propositi,forse troppo imprudentemente palesati, rap-presentarono invece la rovina del conte Iaco-po che, caduto in sospetto dei suoi stessi al-leati pisani del partito dei Raspanti, non ap-pena l’imperatore lasciò la città per rientrarein patria, fu imprigionato e mandato a morirenella fortezza lucchese di Achosta (o Augu-sta), in Val di Nievole, dove egli si spense nel1357, ucciso forse da veleno. Matteo Villani,nella sua Cronaca, di lui così scrisse:

Messer Paffetta volea un certo tratto dare Pisa aiSignori di Milano; grande loro amico era ma altrovero non se ne poté trovare; e stato alquanto in pri-gione, per tema che l’imperatore non lo ne facessetrarre o i Signori di Milano, di veleno o d’altra vio-lenta morte celatamente lo fecero morire.

Quale sia quella vera, fra l’una o l’altra del-le due ipotesi formulate circa le mire di Iaco-po su Pisa, non credo si potrà mai accertare; èinvece possibile asserire che, fra i Gherarde-sca di quell’epoca, nessuno meglio del Paffet-ta impersonificò la faccia di Giano rivolta alpassato.

Il graduale avvicinamento dei Gherardescaa Firenze

La faccia del dio romano, rivolta verso ilfuturo fiorentino, potrebbe invece essere rico-nosciuta nel comportamento del già citatoconte Guido di Donoratico. Egli infatti, dopoessere stato, come il padre, podestà di Luccanel 1357, proprio nell’epoca in cui, non lonta-no, vi moriva il suo consanguineo Iacopo, fupodestà di Firenze tre anni dopo6 e da allora

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Antichi sigilli dei Gherardesca. Il primo in alto è attribuito al conte Tedice, primo podestà di Pisa (proprietà Gherardesca). Notare nei quattro sigilli in basso, la corona sul capo dell’aquila, concessa dall’imperatore Carlo IV

[fig. 18]

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7 Questo fatto d’armi fu poi celebrato nel 1788 da un dipinto di Francesco Pascucci. 8 SARDO, op. cit., pp. 238, 240.

optò con convinzione per le buone fortunedella Repubblica Fiorentina, conscio dell’op-portunità di legare ad essa i destini della pro-pria casata. Nel 1361, Guido, concluso il man-dato podestariale, fu inviato a Perugia al co-mando di cinque compagnie fiorentine di ma-snada, con il compito di porre un freno allelotte intestine scoppiate in quella città, doveegli, operando con grande saggezza, ben as-solse anche a questo non facile incarico.

L’accostamento fra le due diverse animepolitiche di Iacopo e di Guido ha certo servi-to a fornire una migliore idea degli opposti o-rientamenti che per alcuni decenni coesistet-tero nell’antica prosapia comitale, allarmatadal pericolo che Firenze poteva rappresenta-re per una conservazione del proprio indi-pendente dominio nell’enclave maremmano.Occorre tenere in debito risalto che la deca-denza di Pisa non poteva non aver rafforzato,ma nel contempo isolato, tale autonomia, eche il prevalere di Firenze sulla Repubblicamarinara costituiva una grossa incognita per iGherardesca, che da troppo poco tempo ave-vano incominciato a tessere trame matrimo-niali per un loro maggior inserimento nel tes-suto delle più potenti famiglie fiorentine del-l’epoca.

I conti Niccolò, Gabriello e Arrigo di Montescudaio

Di queste incertezze e di questi timori deiGherardesca furono emblematici interpretitre nipoti del conte Giovanni Bacarozzo: Nic-colò, Gabriello e Arrigo. Prima però di parla-re di questi tre conti di Montescudaio, è op-portuno ricordare che dal 1364 era divenutosignore di Pisa, il «doge» Giovanni Dell’A-gnello. Malgrado che fosse stato sostenuto daiRaspanti, egli non risultò inizialmente invisonemmeno ai Fiorentini, ma poi, avendo co-minciato a barcamenarsi fra Firenze e i Vi-sconti di Milano, finì con lo scontentare sia ilsuo partito che quello avversario dei Bergoli-

ni. Non fu allora difficile per Firenze fomen-tare fra i Pisani una reazione alla Signoria delDell’Agnello e il conte Niccolò di Montescu-daio fu incaricato di capeggiarla. Quale gene-rale dei Fiorentini e dei fuoriusciti pisani, eglimosse guerra a Pisa nel 1368 e, dopo avernemesso a ferro e fuoco il contado, occupò il ca-stello di Vada e da lì si portò minacciosamen-te sotto le mura stesse di Pisa7. Il doge Del-l’Agnello venne sconfitto e cacciato dalla città;nella Signoria gli subentrò nuovamente il filo-fiorentino Pietro Gambacorta, il quale si af-frettò a firmare con Firenze un accordo percui Pisa parve divenire alfine quel bramatosbocco al mare che da tempo i Fiorentini so-gnavano.

Tre anni dopo, nel 1371, i conti Niccolò eArrigo furono ancora alla ribalta, nel mede-simo contesto politico, facendo parte del-l’ambasceria pisana che si fece incontro a pa-pa Urbano VI8, allorché questi visitò Pisa.Pure loro fratello Gabriello sembrò inizial-mente condividere i medesimi ideali politicifavorevoli a Firenze, comparendo come al-leato dei Gambacorta delle cui masnade fucapitano.

Improvvisamente però l’atteggiamento diquesti tre conti di Montescudaio subì un ra-dicale ribaltamento, di cui non si afferranobene le motivazioni, ma che venne probabil-mente a coincidere con il travagliato avventoal potere a Pisa, nel 1392, di Iacopo d’Appia-no, spalleggiato dai Visconti di Milano inchiave antifiorentina. Nel 1391 il conte Ga-briello venne addirittura condannato a mortein contumacia dal capitano del popolo di Fi-renze, sia per aver tentato di fomentare unarivolta antifiorentina a San Gimignano, cheper aver effettuato con i propri armati delledevastanti scorrerie nel territorio di San Mi-niato.

Immediata conseguenza di un tale voltafac-cia dei Gherardesca fu un attacco di truppefiorentine direttamente portato al castello diBolgheri che, nel 1393, fu saccheggiato e de-vastato.

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9 DAVIDSOHN, op. cit., vol. I, p. 601. Nel 1128 il castello di Bolgheri venne assediato e conquistato dal margravio Corra-do, rappresentante in Tuscia dell’autorità imperiale ed, in quell’occasione alleato di Lucca contro Pisa. In tale occasione al-cuni Gherardesca furono fatti prigionieri e rinchiusi in una fortezza senese.

10 Il documento originale è conservato nell’ASF (Riformagioni) ed è anche riportato da Maccioni nel sommario allegatoalla sua op. cit. Si veda il doc. 5 dell’Appendice.

Le «Capitolazioni in Accomandigia» del 1405

Era la prima volta che, dal lontano 11289,un nemico riusciva a penetrare all’interno deldispositivo fortificato che difendeva i dominipiù antichi della prosapia, e i Gherardescadovettero trarne allarmanti conclusioni. Persecoli non avevano infatti subito invasioni deipropri territori, ben protetti da castelli salda-mente impiantati sui rilievi collinari che si ele-vano fra il fiume Cecina e la Cornia [fig. 35].Non vi erano riusciti i Saraceni dalla parte delmare; né i Senesi da sud dopo essersi assestatifino a Massa Marittima; non avevano tentato,o forse voluto tentare, i Pisani da nord; né al-tri mai, sia esso imperatore o pontefice, avevaavanzato in passato proprie pretese su quel-l’enclave indipendente. Ora invece, Bolgheri,uno dei castelli forse più antichi della schiat-ta, collocato nel bel mezzo dei domini Ghe-rardesca, era stato semidistrutto, dimostrandola vulnerabilità di questo complesso di roc-cheforti sul quale la famiglia comitale avevafatto fino ad allora pieno affidamento. Pro-fondamente scossi da tale «profanazione», èassai probabile che i vari esponenti della pro-sapia si siano riuniti ancora una volta a Dono-ratico per esaminare il da farsi e, come con-fermano alcuni documenti, abbiano preso ladecisione di avviare trattative con Firenze,onde trovare un’onorevole intesa prima chefosse troppo tardi.

Risulterebbe che, in una prima fase, talitrattative furono parallelamente condotte conaltre impostate da Firenze con Pisa; questa i-potesi verrebbe confermata da alcune relazio-ni, fatte nel 1396 ai Dieci di Balia, da MatteoDavanzati e Giovanni Biliotti, ambasciatoridella Repubblica Fiorentina incaricati di con-durre separati colloqui di pace con Pisa, daun lato, e i conti della Gherardesca, dall’altro.Da tale fatto si può ancora una volta trarre laconferma della sostanziale indipendenza di

cui godevano gli stessi Gherardesca rispetto aPisa, nel cui contado era pur sempre inseritoil nucleo originario dei loro domini. Questaincontestabile realtà fu ancor più evidenziataallorché, alcuni anni dopo l’inizio delle pre-dette trattative con Firenze, i Gherardescascissero la propria posizione da quella pisana econdussero in porto un loro autonomo accor-do con la Repubblica Fiorentina, quasi dueanni prima che Pisa, comprata da Firenze aiVisconti e poi sconfitta con le armi sul cam-po, fosse sottomessa all’antica rivale.

Nel 1405 i Gherardesca sottoscrissero in-fatti le «Capitolazioni in Accomandigia» conFirenze stessa10; le clausole di questo trattatocostituirono il fondamento e il costante riferi-mento dei rapporti della prosapia comitalecon il governo di Firenze, per i quasi quattrosecoli che seguirono.

Vale subito la pena precisare che la parola«Capitolazioni» non ha assolutamente l’odier-no significato di «resa» bensì quello origina-rio di «insieme di capitoli», o regolamenti,volti ad inquadrare i reciproci futuri diritti edoveri fra due parti contraenti. In quanto altermine «Accomandigia», è da ricordare che,nel Medio Evo, esso veniva usato per indicarel’accordo per il quale un libero signore, titola-re di territori di origine allodiale, si mettevasotto la protezione di un altro signore o entitàpolitica di lui più potente.

Il trattato, del quale fra breve illustrerò gliaspetti salienti, ebbe immediata applicazione,tanto che già nel 1406 il conte Arrigo, primacitato assieme ai suoi due fratelli conti diMontescudaio, combatté come alleato dei Fio-rentini capitanando «duecento lance» sotto lemura di Pisa assediata, che il 9 ottobre di quelmedesimo anno si arrese dopo accanita resi-stenza. Il patto di pace fra i conti della Ghe-rardesca e la Repubblica Fiorentina era statosolennemente firmato il 28 gennaio 1405 a Fi-renze, nel Palazzo del Popolo, e sottoscrittoda nove dei dieci membri di Balia e, per i

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11 AF, f. 99. Elenco dei possedimenti della famiglia redatto nel 1397. 12 F. BARBOLANI DI MONTAUTO, Sopravvivenza di Signorie feudali: le Accomandigie al comune di Firenze nel trecento e nel

primo quattrocento, in AA.VV., I ceti dirigenti nella Toscana tardo comunale, Atti del III Convegno di Studi sulla storia dei ce-ti dirigenti in Toscana, Papafava, Firenze 1983. Da rilevare che Firenze aveva in genere sempre concesso Accomandige a ter-mine e cioè della durata di dieci o quindici anni rinnovabili alla loro scadenza. L’Accomandigia in perpetuo accordata aiGherardesca rappresenta quindi una significativa eccezione.

Gherardesca, dai conti Giovanni e Gabriello.Da sottolineare che quest’ultimo si era potutorecare a Firenze, essendogli stata revocata lacondanna a morte inflittagli quattordici anniprima. Le «Capitolazioni in Accomandigia»furono poi ratificate, nei mesi successivi, datutti gli altri componenti maschi della prosa-pia comitale, i quali s’impegnarono a rispet-tarne le condizioni anche a nome dei propridiscendenti.

Il documento era costituito da ventinoveclausole, precedute da una lunga premessacon la quale i conti della Gherardesca assicu-ravano di voler rimanere per sempre «veri etdevoti filii servitores et obbedientes» dellaRepubblica Fiorentina. Una formulazione dital genere potrebbe trarre in inganno e farpensare a qualche cosa di simile ad una resaincondizionata dei Gherardesca stessi, ma,come vedremo, la sola intenzione di Firenzefu quella di tarpare le ali e limare un poco gliartigli di questi potenti signori che per secolile erano stati ostili, ma alla cui futura alleanzala Repubblica annetteva ragguardevole im-portanza. Questa interpretazione viene con-fermata sin dal primo dei capitoli dell’accor-do, dove si delimita il territorio che verrà la-sciato alla «libera giurisdizione» dei conti,precisandone i confini che saranno di pocopiù ristretti rispetto a quelli dell’area origina-riamente dominata dalla prosapia e che si e-stendeva dalla Cecina alla Cornia.

Vennero infatti incamerate da Firenze lesole roccheforti di Montescudaio e Guardi-stallo, la cui posizione era di troppo rilevantevalore strategico nel caso che i Gherardescaavessero... cambiato idea, mentre rimaseronelle mani della casata i castelli di Donorati-co, Castagneto, Bolgheri, Casale e persinoquello di Bibbona che in realtà da tempo nonera più dei Gherardesca stessi, essendo statoda questi restituito a Pisa nel 1395, dopo a-verglielo momentaneamente sottratto assieme

al castello di Rosignano.Nell’accordo con Firenze si menzionano

molti altri territori, precisando però che nonrisultavano «fortificati», quali quelli di Colle-mezzano, Casaglia, Mele, Castelgiustri, Casti-glion Mondiglio, Oliveto, Pietrarossa, Segala-ri, e, in parte, Biserno11. Si trattava di una fa-scia, che oggi diremmo smilitarizzata, che an-che Pisa aveva chiesto fosse creata attorno al-la zona protetta dai maggiori castelli dei Ghe-rardesca.

Firenze fu lungimirante a pretenderla an-ch’essa e ciò si evidenziò quando nel 1447 iGherardesca si ribellarono alla Repubblica ri-conquistandole le fortezze di Montescudaio eGuardistallo con l’intento di ricostituire lacintura difensiva settentrionale dei loro domi-ni. Incidentalmente anticiperò che tale mo-mentanea riconquista convinse Firenze delladifficoltà di conservare nelle proprie maniqueste lontane fortezze e di conseguenza del-l’opportunità di deliberarne lo smantellamen-to nell’anno medesimo in cui fu anche raso alsuolo il grande castello Gherardesca di Dono-ratico e, forse, anche quello di Casale.

Ma ritornando all’analisi delle «Capitola-zioni in Accomandigia», va sottolineato che,entro i confini del territorio assegnato loro, iGherardesca conservarono una quasi comple-ta autonomia, pur dovendo sempre ricono-scere l’alto dominio fiorentino, in qualità di«solemniter constituti perpetui Vicari Comu-nis et pro Comunis Florentiae»12. Libertàdunque ma... vigilata.

Con altre clausole dell’accordo si lasciava-no ai Gherardesca tutti i frutti, i privilegi e ipatronati da loro goduti in passato nei propridomini e si confermava loro la possibilità diesercitarvi tutti i poteri giurisdizionali, con ilsolo divieto di comminare le pene capitali equelle «del taglione» che venivano avocate al-l’esclusiva competenza del capitano della Re-pubblica, che da allora in poi si sarebbe inse-

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13 Cartapecora della Magliabeccana di Firenze, riportata da BARBOLANI DI MONTAUTO, Sopravvivenze di Signorie feudali, cit. 14 AF, f.ze 46, 47, 48, processo Gherardesca-Peruzzi. 15 Si veda l’inserto 3 dell’Appendice.

diato nel castello di Campiglia.I Gherardesca potevano inoltre liberamente

imporre gabelle purché non risultassero di no-cumento ai cittadini fiorentini e nel contempoessi ed i loro sudditi sarebbero stati esenti daqualsiasi gabella imposta dalla Repubblica.

Nelle «Capitolazioni» furono poi precisati itermini dell’alleanza militare che, per sempre,avrebbe dovuto legare le due parti contraentifra di loro. I Gherardesca dovevano conserva-re le proprie fortificazioni in buono stato diefficienza e tenere sempre i loro armati a di-sposizione di Firenze, mentre la Repubblicaavrebbe assicurato ai conti la sua protezionein caso di aggressioni nemiche. Ai Gherarde-sca, che si fossero recati a Firenze o a Pisa, ve-niva inoltre concesso di condurre con sé «finoa dieci persone armate di armi difensive edoffensive».

Tutti gli altri capitoli riguardavano partico-lari regolamenti di carattere economico, chesarebbe ozioso illustrare in questa sede, e che,per chi lo desideri, sarà possibile individuare,consultando il documento 5 dell’Appendice alpresente scritto.

Si può dunque concludere che, in base alle«Capitolazioni in Accomandigia», l’indipen-denza dei Gherardesca nei loro domini risul-tava ridimensionata ma non cancellata. Inpratica essi divennero una sorta di confedera-ti della Repubblica Fiorentina ed è appuntoin tale veste che essi figurarono fra i firmataridella pace conclusa nel 1424 fra Firenze eGian Galeazzo Visconti, duca di Milano13.

Va rimarcato inoltre che le «Capitolazioni»implicitamente ribadirono un principio fon-damentale per le consuetudini ereditarie deiGherardesca. Nel trattato si affermava infattiche il diritto di vicariato perpetuo sui dominifamiliari era riferibile «a tutti i maschi dellacasata» (e quindi solo ad essi), con pratica e-sclusione da ogni diritto di proprietà sui me-desimi da parte delle femmine della fami-glia14, e formalizzando in tal modo, per i se-coli a venire, quel dettato delle leggi rotariane

alle quali la prosapia si era sempre attenuta,consentendole di conservare quasi intatto ilnucleo più antico dei suoi domini.

Il laborioso adattamento dei Gherardescaalla nuova situazione politica

Non si deve immaginare però che la con-creta attuazione delle clausole delle «Capito-lazioni», non si sia presentata priva di diffi-coltà, né che tutti i Gherardesca abbiano su-pinamente accettato di buon grado questo vi-cariato fiorentino, così diverso dalla loro ori-ginaria dispotica autonomia. Già infatti nel1414 insorsero i primi contrasti con il capita-no della Repubblica circa la corretta interpre-tazione di alcune clausole del trattato e, da al-lora, altre innumerevoli dispute seguirono finquasi alla fine della seconda metà del Mille-settecento, spezzettandosi in continue fasti-diosissime controversie tributarie, giudiziarieed amministrative15. Ma di tutto questo trat-terò in seguito, in un apposito capitolo. Mi li-miterò ora a sottolineare che, se questo capar-bio e continuo richiamarsi ai termini delle«Capitolazioni», fu un sintomo permanentedell’insofferenza dei Gherardesca a rinunzia-re alla propria antica indipendenza, le loro i-niziali rivolte armate contro la RepubblicaFiorentina rappresentarono le vere e propriescosse di assestamento del terremoto subitonel 1405. Dopo tale data infatti i Gherarde-sca, per vari decenni, tentarono a più ripresedi scuotersi di dosso il mal tollerato giogo fio-rentino, ma l’unico risultato che conseguiro-no dalle ripetute ribellioni fu quello di farsidistruggere i propri principali castelli. Permancanza di adeguato supporto documenta-le, non mi è possibile ricostruire nei dettagli ilfilo conduttore che forse lega fra loro dette ri-volte, ma, a conferma di esse, rimangono an-cora varie sentenze di condanna dell’alta ma-gistratura della Repubblica Fiorentina, a cari-co di alcuni componenti della casata.

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16 ASF, Carte Pucci, manoscritto 597, n. 15. Vi si legge che il conte Fazio fu generale del re d’Aragona per la Toscana. 17 Con delibera dei Dieci di Balia, presa a Firenze nel 1448, si decise lo smantellamento delle roccheforti di Montescu-

daio e Guardistallo, rioccupate dai Gherardesca a dispetto dei patti del 1405, e la distruzione di alcuni castelli dei Gherarde-sca stessi (forse Donoratico e Casale).

La ribellione del conte Fazio e la distruzione del castello di Donoratico

La più dura di tali sentenze fu comunquequella a sfavore del conte Fazio, figlio di Arri-go e di Marchigiana Ricasoli, del quale for-nirò qui di seguito un breve cenno storico. Fa-zio, poco più che ventenne, divenne un con-dottiero fra le truppe spagnole di re AlfonsoV d’Aragona16, il quale era venuto, nel 1442,in Italia per consolidare i propri interessi nel-la penisola e per dar manforte alle pretese an-tifiorentine dei Visconti di Milano, suoi allea-ti.

Non è dato sapere se questa iniziativa delgiovane conte della Gherardesca fosse asse-condata o meno da altri componenti della suafamiglia, ma è tuttavia ipotizzabile che la tota-le distruzione del castello di Donoratico, av-venuta ad opera dei Fiorentini, poco prima opoco dopo che essi sconfiggessero gli Spagno-li, nel 1448, nella piana di Piombino, costitui-sca una riprova della vendetta di Firenze peruna ribellione dei Gherardesca nel loro insie-me, e non di uno solo di essi. È comunque daricordare che nel 1447 l’esercito regio spa-gnolo aveva raggiunto Bolgheri e che i Ghe-rardesca, o almeno alcuni di essi, con l’aiutodegli Aragonesi avevano riconquistato le roc-cheforti di Montescudaio e Guardistallo. Perquanto poi riguarda le circostanze esatte dellosmantellamento di Donoratico, questo eventomanca a tutt’oggi di un’assoluta certezza sto-rica17, anche se un curioso episodio, occorsoa mio padre, sembrerebbe voler avallare l’ipo-tesi di un intervento punitivo delle truppe fio-rentine.

Nel novembre del 1942, nel corso quindidella seconda grande guerra mondiale, miopadre, che era stato richiamato alle armi, sitrovò per alcuni giorni in licenza militare aCastagneto. Era da poco iniziato il taglio delMatarocchio, un bosco che si estende tuttoattorno ai ruderi dell’antica fortezza di Dono-

ratico, ed egli volle andare a verificare il buonandamento di tale lavoro. Va detto che aquell’epoca si usava ancora carbonizzare tuttala legna di diametro minore, e che il carbone,che se ne ricavava, trovava numerosi impie-ghi, oggi del tutto scomparsi. Le «carbonaie»venivano normalmente realizzate su «piazze»,o meglio miniradure, ricavate nel bel mezzodel bosco in taglio. Fu proprio nell’attraversa-re una di tali «piazze carbonaie» da poco«scoticata», che mio padre vide luccicarequalcosa per terra e, chinatosi, raccolse un«san Giovannino» d’argento, come era deno-minata una delle monete fiorentine dell’epocain cui venne fatto saltare Donoratico. Il reper-to non era certo tale da testimoniare inequi-vocalmente l’intervento dei Fiorentini nelladistruzione del castello, ma a noi piacque lostesso immaginare le colorite invettive lancia-te da quel soldato, venuto a minare la fortez-za, che aveva perduto quel «fiorino», ritrova-to dopo cinquecento anni da un discendentedel «traditore» Fazio.

In quanto a quest’ultimo Gherardesca, eglidoveva aver pur commesso qualche grossomisfatto a giudizio di Firenze, poiché in se-guito fu bandito da tutto il territorio fiorenti-no e dovette riparare prima a Siena e poi a Vi-terbo, dove la sua discendenza si estinse nel1609 [tav. 14]. Non risulta che, nella medesi-ma circostanza, siano stati castigati altri Ghe-rardesca, ma il fuoco della loro insofferenzaseguitò indubbiamente a covare sotto le fu-manti ceneri di Donoratico.

La rivolta dei conti Simone e Gherardo

Nel 1465 scoppiò un’altra rivolta nella qua-le rimasero coinvolti i due fratelli Simone eGherardo, figli del conte Bernabò della Ghe-rardesca. Con i due si alleò subito anche Fa-zio, rientrato momentaneamente dal suo for-zoso esilio, ma anche tale ribellione fu sedata

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18 I beni di Fazio furono reintegrati ai Gherardesca con sentenza del 1469 conservata nell’AF. Ciò è significativo circal’inscindibilità del patrimonio parentale sia secondo l’osservanza della legge longobarda che in base alle clausole delle Capi-tolazioni in Accomandigia del 1405 con Firenze.

19 Lorenzo, fratello di Cosimo il Vecchio de’ Medici, aveva sposato Ginevra Cavalcanti. 20 Il sepolcro di Gherardo non risulta oggi reperibile. 21 ASF, Arch. Medici, carte anteriori al Principato, f. 27. 22 AF, f. 3, n. 6 e f. 153, a. 1486.

da Firenze che questa volta deliberò la confi-sca di tutti i beni di Fazio stesso18, mentre Lo-renzo Soderini, capitano della Repubblica aCampiglia, condannò a morte, per decapita-zione, i conti Simone e Gherardo, i quali pe-raltro furono successivamente graziati dallapena capitale e sostitutivamente condannatiad una pesantissima ammenda pecuniaria. Alconseguimento di tale parziale assoluzionecontribuì forse il fatto che, fra il 1439 e il1441, il conte Gherardo aveva militato con o-nore a fianco dei vessilli fiorentini nel corsodella guerra contro Filippo Maria Visconti eche inoltre, avendo sposato Caterina Caval-canti, si era legato ad un’influente casata diFirenze, imparentata anche con i Medici19,che forse intercedette in suo favore. Del resto,dopo il «fattaccio», Gherardo risiedette libe-ramente ed a lungo a Firenze stessa, dovemorì nel 1495 e fu sepolto nella chiesa di S.Felice in Piazza20.

Il canto del cigno di Pisa e la distruzionedel castello di Bolgheri

L’anno che precedette la morte del conteGherardo, e cioè il 1494, era disceso in Italiail re Carlo VIII e Pisa ne aveva approfittatoper rivendicare la propria indipendenza daFirenze, riuscendo a conseguirla con l’aiutodel monarca francese ed a conservarla poi peri successivi quindici anni, fino al 1509. Sarà ilcanto del cigno dell’antica Repubblica mari-nara, prima del suo definitivo riassorbimentonella Signoria fiorentina.

Non mi è stato possibile rintracciare alcundocumento che mi abbia consentito di farmiun’idea ragionevolmente fondata su quelloche fu l’atteggiamento dei Gherardesca inquel particolare frangente. Sta però di fattoche l’unico componente della casata che, nel

1502, compare fra gli Anziani di Pisa, è ilconte Andrea, figlio del proscritto Fazio, ilquale non aveva evidentemente nulla da per-dere nel caso di sfortunato esito di tale suaavventura pisana.

L’ago politico dei Gherardesca doveva dun-que essersi ormai decisamente orientato versouna sempre maggiore intesa con Firenze e, so-prattutto, verso una stretta alleanza con i Me-dici che nella città avevano primeggiato pro-prio fino al 1494. Questa mia ipotesi mi sem-bra venga confermata da due documenti d’ar-chivio. Il primo è rappresentato da una letteradel 10 maggio 1471, indirizzata dal vescovo diMassa Marittima a Lorenzo il Magnifico, nel-la quale l’alto prelato, accennando ad alcuneurgenti necessità della pieve di Bolgheri, sot-tolinea l’amicizia che lega Lorenzo stesso aiGherardesca e lo prega d’intervenire pressoquesti ultimi affinché... sciolgano i cordonidella loro borsa e sopperiscano alla lamentatenecessità21. L’altro documento è del 148622 eci fornisce una conferma della buona intesafra i Medici e i Gherardesca, riportando un«lodo arbitrale» pronunciato, sempre da Lo-renzo il Magnifico, per ristabilire la pace fraalcuni membri della famiglia comitale in litefra di loro.

Non bisogna però ora dimenticare che pro-prio in quel medesimo anno 1494, in cui Pisariconquistò la propria libertà per merito diCarlo VIII, Pietro il Gottoso, figlio dell’ormaidefunto Lorenzo, e tutta la famiglia Medicifurono cacciati da Firenze con la prospettivadi non potervi più rimetter piede. Per i Ghe-rardesca potrebbe quindi essersi prospettatoil pericolo di risultare a loro volta mal vistidalla restaurata Repubblica Fiorentina pro-prio a causa della loro manifesta amicizia congli appena defenestrati signori, e da ciò, forse,la tentazione di riappoggiarsi a Pisa come aivecchi bei tempi. Ritengo però di dover scar-

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Una grande casata guerriera del Medio Evo 127

23 AF, f. 98, a. 1494 [?].

tare tale ipotesi, poiché ben poche attrattivedoveva ormai esercitare sulla famiglia comita-le questa città che un cronista dell’epoca de-scrive come «ridotta in povertà grandissima emolto vota di abitanti e di esercizi».

È piuttosto assai probabile che questa voltai Gherardesca (salvo il precitato Andrea) sisiano mantenuti fedeli a Firenze; e l’attaccoportato nel 1496 al loro castello di Bolgherida soldataglie tedesche al soldo dell’impera-tore Massimiliano I d’Asburgo ne potrebberisultare l’implicita riprova. Massimiliano in-fatti, per i confusi intrighi politici di quellatormentata epoca storica italiana, era passatoa sostenere Pisa, malgrado che l’indipendenzadella medesima fosse stata originariamente fa-vorita da Carlo VIII, nemico dichiarato del-l’imperatore asburgico. Proprio nel 1496 letruppe di quest’ultimo, venute appunto in To-scana per spalleggiare Pisa, avevano posto l’as-sedio a Livorno, piazzaforte difesa dai Fioren-tini e sostenuta dal mare da Carlo VIII.

Massimiliano I era giunto in Italia con po-che truppe ed ancor meno denari, e di conse-guenza i suoi mercenari rimanevano spesso evolentieri senza paga. L’attacco quindi a Bol-gheri, più che dettato da un preciso disegnomilitare e politico, fu forse dovuto ad un’au-tonoma iniziativa presa da quelle mal remu-nerate soldatesche, le quali, intente all’assediodi Livorno, sperarono di poter compensare ilmancato loro soldo con un vantaggioso sac-cheggio di questo non lontano castello.

Sta di fatto che Bolgheri venne attaccato ecinto d’assedio dai germanici, a dispetto an-che di un «monitorio» di papa Alessandro VI(Borgia), alleato di Massimiliano, con cui ilpontefice assicurava la sua protezione al con-te Arrigo della Gherardesca e al suo castello.Arrigo, presente al momento dell’attacco, siapprestò coraggiosamente a difendersi, chia-mando a raccolta quanti più armati gli fu pos-sibile radunare fra i sudditi della Contea, chenon dovevano però essere troppo numerosiconsiderato che Bolgheri, appena tre anni pri-ma, era stato colpito da una pestilenza. La

lotta si prospettò dunque impari, anche se inuna prima fase gli assediati parvero in gradodi sostenere l’urto dell’assai più agguerrito av-versario. Proprio nel momento cruciale dellabattaglia, il conte Arrigo venne però ucciso,mentre stava eroicamente battendosi al fiancodei suoi uomini, che egli incitava a gran voce.

Una leggenda popolare narra che la suagiovane e bella moglie rivestì allora l’armaturadello sposo e, per ingannare il nemico, siportò sugli spalti sostituendosi a lui e conti-nuando a far animo ai difensori del castellofin a quando anch’essa non rimase trafitta amorte. Fu questa la fine della battaglia cheGiosuè Carducci canterà in una sua composi-zione giovanile dal titolo Il conte di Bolgheri.

Il castello conquistato venne prima com-pletamente saccheggiato, poi dato alle fiam-me ed infine raso al suolo dai mercenari diMassimiliano I, che sunguinariamente uccise-ro tutti gli abitanti maschi di Bolgheri al disopra dei quindici anni d’età23. Della roc-caforte dei Gherardesca non rimasero che fu-manti macerie; e così, appena quattro annidopo che Cristoforo Colombo aveva raggiun-to le sue «Indie», scoprendo invece il conti-nente americano, e ponendo «storicamente»fine al Medio Evo, per i Gherardesca si con-cludeva tragicamente quel loro epico ciclomedievale che, forse, li aveva visti duchi delFriuli, ma certamente signori di Pisa, re inSardegna e liberi dominatori nei loro territorimaremmani.

Perdute, per la pace con Firenze del 1405,le roccheforti di Montescudaio e Guardistal-lo, avuta distrutta attorno al 1448 la lorogrande fortezza di Donoratico e forse anchela rocca di Casale, ed ora avuto raso al suolol’antico castello di Bolgheri, i Gherardesca,all’inizio dell’Evo Moderno, si trovarono co-me in mezzo ad un periglioso guado, la cuisponda di partenza, Pisa, era ormai lontanaed inaffidabile, mentre quella di arrivo, Firen-ze, appariva ancora quale approdo incertoper una stirpe ribelle ad ogni giogo e fieradella sua secolare indipendenza.

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PARTE SECONDA

Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia

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1 AF, f. 154, a. 1507.

Bagno di sangue nei primi decenni dell’Evo Moderno

Il Medio Evo si era appena concluso,quando alcuni avvenimenti delittuosi minac-ciarono di troncare definitivamente la pluri-centenaria storia dei Gherardesca. Proprionel XV secolo si erano estinti tutti i rami dellacasata, ad eccezione di quello dei conti diMontescudaio, che sarà l’unico a protrarsi si-no ai giorni nostri e che, da ora in poi, citeròpiù semplicemente come quello dei «Contidella Gherardesca». A cavallo però del XV edel XVI secolo, anche questo segmento del-l’antica stirpe longobarda rischiò seriamentedi essere spazzato via da alcuni violenti fattidi sangue. Poco prima e poco dopo l’eroicamorte del conte Arrigo nella difesa del castel-lo di Bolgheri, tutti e tre i suoi fratelli venne-ro assassinati l’uno dopo l’altro, e pochi annidi poi anche un loro cugino subì la medesimasorte.

La tragica serie ebbe inizio nel 1487, allor-ché il conte Lorenzo, fratello di Arrigo, fu uc-ciso in un agguato tesogli nei pressi di Bibbo-na per motivi rimasti oscuri. Dieci anni dopofu la volta degli altri due fratelli, Gabriello eUgo; il primo pugnalato a Piombino, sembraper questioni d’interesse, ed il secondo assas-sinato al confine fra Bolgheri e Castagneto daRanieri Orlandi della Sassetta. Di quest’ulti-mo delitto si conosce per lo meno l’esattomovente che affondava le proprie radici inun’annosa lite insorta fra gli Orlandi e i Ghe-rardesca in merito al confinamento dei rispet-tivi limitrofi domini.

L’antica e nobile famiglia degli Orlandi si

dice che derivasse da un ramo dei conti Pan-nocchieschi di Siena, e i Gherardesca avevanocon essa allacciato legami di parentela già apartire dal XII secolo. A dispetto però di que-sti diplomatici contratti matrimoniali, un a-stioso antagonismo non cessò mai di guastarei rapporti fra le due casate, fino a sfociare nelcitato delitto ed a concludersi, nel 1514, conun secondo assassinio, allorché Geremia Or-landi uccise a pugnalate Fazio della Gherar-desca, in pieno paese di Castagneto. Per iro-nia della sorte, Fazio si era sposato con Clari-ce, sorella di quel Ranieri che già si era mac-chiato le mani del sangue del conte Ugo.Questo matrimonio avrebbe dovuto rappre-sentare un atto di riappacificazione fra le duefamiglie e invece ne riacutizzò i contrasti, poi-ché agli antichi rancori si assommò una nuovaruggine per la truffaldina mancata correspon-sione a Fazio della dote promessagli per lasposa. Di tutto quanto sopra ho rinvenutotraccia nell’archivio Gherardesca, dove è con-servato pure un «lodo» pronunciato il 31 gen-naio 1507 da Iacopo Appiano d’Aragona, si-gnore di Piombino, per ingiungere proprio aRanieri della Sassetta di versare al cognatoquesta dote indebitamente trattenuta1.

Tutti questi omicidi pongono in evidenza lacrisi che in quegli anni stava attraversando lacasata comitale, tuttora in fase di laborioso a-dattamento alla nuova situazione venutasi acreare per lei dopo la firma del trattato di Ac-comandigia del 1405. I Gherardesca, finan-ziarmente assai indeboliti e privi ormai delsupporto delle proprie principali roccheforti,perdute a seguito del patto di pace con Firen-ze o andate distrutte a causa delle loro ripetu-

CAPITOLO PRIMO

I della Gherardesca diventano fiorentini

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2 ASF, Protocollo di S. Niccolò di A.F. Berni. Iacopo era del ramo della famiglia Medici trasferitosi a Milano, da cui pro-venne papa Pio IV, primo dei tanti pontefici della grande casata fiorentina.

3 AF, f. 154, aa. 1507, 1514, 1520. 4 ASF, Carte Medici avanti il Principato, f. 116.

te ribellioni alla Repubblica Fiorentina, eranodivenuti in quell’epoca facile bersaglio per ivicini, i quali, con alla testa gli Orlandi, nonvolevano mancare l’occasione propizia pertentare di scalzare dai loro privilegi questi di-spotici conti e li aggredivano con una ferociapari a quella di una muta di cani che, dopolunghissimo inseguimento, abbia alfine rag-giunto ed accerchiato un cinghiale ferito.

In quel periodo assai buio per i Gherarde-sca, l’unico punto di forza, sul quale essi po-tessero fare affidamento, era forse rappresen-tato dalla solida intesa raggiunta con i Medici,con i quali da poco era anche stato stretto unprimo legame di parentela per il matrimoniocelebrato nel 1507 fra il conte Neri e Lionar-da, figlia di Bernardo de’ Medici2. Non si puòdisconoscere che i Gherardesca seppero sfrut-tare al meglio questa carta a loro favore, chetuttavia risultava più o meno efficace a secon-da delle alterne vicende di potere dei Medicia Firenze. L’antica prosapia, oppressa dalletante difficoltà prima elencate, iniziò a farsiproteggere da una sorta di fuoco di sbarra-mento rappresentato da una serie di «monito-ri»3 emanati dalla Chiesa che, a quell’epoca,era dominata o quantomeno fortemente in-fluenzata, proprio dai Medici.

Il primo di tali «monitori» è del 17 feb-braio 1507, anno medesimo in cui Neri sposòLionarda de’ Medici, e con esso papa GiulioII (della Rovere) scomunicò il comune e gli a-bitanti di Scarlino, in quanto rei di non averrimborsato alcuni debiti contratti con i Ghe-rardesca. Passarono sette anni e l’8 aprile 1514arrivò un altro «monitorio» emesso dal medi-ceo papa Leone X per minacciare la scomuni-ca a chiunque avesse osato trasmutare i termi-ni di confine dei possedimenti del giovanissi-mo conte Simone, del quale avrò modo diparlare fra breve. Infine, nel 1520, un terzo«monitorio» del cardinale Giulio de’ Medici,che poi sarà papa Clemente VII, condannòl’abusiva occupazione di alcune terre dei Ghe-

rardesca situate nei pressi di Donoratico.A questo punto, salta agli occhi il graduale

affievolirsi del tono di queste tre ingiunzioni,dopo quello minacciosamente ultimativo del-la prima; non dobbiamo però dimenticareche la posizione dei Medici a Firenze era inquegli anni piuttosto traballante. La strategiadifensiva dei Gherardesca aveva dunque ri-sentito anch’essa di tali incertezze politiche esi era andata indebolendo trasformandosi daun robusto fuoco di sbarramento in una piùmodesta cortina fumogena, dietro la quale laprosapia comitale cercava di nascondere inqualche modo la propria temporanea debo-lezza.

Torniamo ora all’assassinio del conte Fazio,i cui dettagli furono riportati in una letteradel 7 gennaio 1514, conservata fra le carte me-dicee, con la quale il conte Neri riferisce sul-l’accaduto al suo «parente» Lorenzo de’ Me-dici, duca d’Urbino4. Con la morte di Faziovenne a concludersi quel cruento periodo difaide locali, dal quale i Gherardesca uscironoalquanto malconci ed a tal punto assottigliatinel numero, da far persino temere un’estin-zione dell’antica stirpe. Per fortuna, due anniprima della sua tragica fine, al conte Ugo eranato un erede maschio, che era stato battezza-to con il nome di Simone.

Il conte Simone 2°, detto «il Conticino»

Mi trovo costretto a cominciare a numerarequest’ultimo nato come Simone 2°, per di-stinguerlo da suo nonno, ma soprattutto daitanti omonimi o quasi che lo seguiranno nellegenerazioni successive. Altrettanto bisogneràfare con i Gherardesca di nome Ugo (il padredi Simone 2° sarà pertanto Ugo 1°), affinchéil lettore possa meglio districarsi nella selva deiSimoni e degli Ughi che per quasi tre seco-li, alternandosi metodicamente, imbottirannol’albero genealogico della casata.

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134 I della Gherardesca

5 AF, f. 109, a. 1529, e cartapecora n. 109. 6 AF, f. 154, a. 1502. 7 AF, f. 98, a. 1519.

Riportiamoci ora proprio a quest’albero cheera in procinto di seccare. Per la verità, oltre aquello di Simone 2°, soprannominato «il Con-ticino», vi erano ancora altri tre segmenti de-gli originari conti di Montescudaio che riusci-rono a protrarsi per altre due generazioni pri-ma di estinguersi del tutto. Uno di essi proce-deva dal conte Fazio, ucciso da Geremia Or-landi; un secondo dal fratello conte Neri, spo-so di Lionarda de’ Medici; ed un terzo da queiGherardesca che erano finiti in esilio a Viter-bo. Di questi rami della prosapia daremo uncenno più avanti mentre ora proseguiremo anarrare della vita di Simone 2° che, rimastoorfano di padre, venne prudenzialmente te-nuto per anni lontano dalle malsicure sue ter-re maremmane ed allevato fra le più protettemura domestiche del palazzo fiorentino che igenitori di sua madre, Elisabetta Spinelli, pos-sedevano nel rione di S. Croce. I Fiorentinisempre in vena di salaci battute, ribattezzaro-no a tale proposito «il Conticino» come «Con-te degli Spinelli».

Di questo Gherardesca ho rintracciato unacitazione storica nel 1529. Si tratta di un di-ploma di Carlo V, anch’esso del tipo cortinafumogena, con il quale l’imperatore dichiaradi prendere sotto la propria personale prote-zione, Simone 2° nonché il suo castello diBolgheri5, o meglio... quanto di esso rimanevadato che la ricostruzione dell’edificio, dopo ladevastazione del 1496, era, sì, stata avviatadalla madre del «Conticino», ma procedevamolto a rilento. L’onere per l’avvio di questiprimi lavori dovette fra l’altro incidere assaipesantemente sulle esauste disponibilità eco-nomiche della famiglia e tale ipotesi sembre-rebbe avallata, oltreché dalla richiesta di pre-stiti a banchieri fiorentini, anche da una con-sistente cessione di credito fatta nel 1502 pro-prio dalla contessa Elisabetta, madre di Simo-ne 2°, a Ferdinando d’Este, duca di Ferrara6.

Il castello, oggetto di tanti sacrifici finan-ziari, non venne riedificato nella sua posizio-ne originaria (zona detta oggi del «Castelvec-

chio»), bensì un poco più a monte, in posizio-ne strategicamente più appropriata, così co-me del resto consigliavano le recenti disavven-ture sofferte ad opera delle soldataglie del-l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo. Nelladecisione di procedere sollecitamente ad unaricostruzione di Bolgheri, dovette anche avereun certo peso l’opportunità di rispettare quan-to previsto nell’accordo di Accomandigia conFirenze, che imponeva ai Gherardesca dimantenere in buona efficienza le rocchefortilasciate sotto la loro giurisdizione. Tuttavia adispetto di tale esigenza, e certamente a causadei costi troppo elevati da sopportare, l’edifi-cazione del nuovo Bolgheri procedette a granrilento e venne spezzettata nel tempo in variefasi successive, tanto che il castello, nell’attua-le aspetto in stile neogotico, fu ultimato solosul finire del Milleottocento [fig. 25].

Assieme alle mura del suo maniero, cresce-va intanto anche «il Conticino» che, nel 1519,ormai ventiquattrenne, fece la sua prima com-parsa pubblica accompagnando suo zio, il ca-nonico Leonardo Spinelli, quando questi ven-ne incaricato da papa Leone X di andare inmissione pacificatrice in Inghilterra per con-segnare a re Enrico VIII la pontificia onorifi-cenza della Rosa d’Oro7. A quanto poco siapoi servito questo passo diplomatico del pon-tefice, lo si può dedurre dal successivo com-portamento scismatico del sovrano ingleseche, blandito dal mediceo Leone X che gli at-tribuì persino il titolo di «Fidei Defensor», fupoi scomunicato nel 1533 dall’ugualmentemediceo papa Clemente VII. Rientrato a Fi-renze dopo questa esperienza all’estero, ilconte Simone 2° non lasciò altre sue tracce dirilievo fino al 1528, anno nel quale si sposòcon Marietta, figlia di Tommaso Soderini.

A questo punto bisogna ricordare che, sianel 1494 che nel 1527, i Soderini avevano a-vuto una parte preminente nella cacciata deiMedici da Firenze; si potrebbe quindi ipotiz-zare un certo allineamento del «Conticino»alla viscerale politica antimedicea dei nuovi

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parenti, considerato che il suo matrimoniocon Marietta era intervenuto poco dopo il se-condo allontanamento dei Medici stessi. Èperò più credibile che siano stati invece i So-derini a cercare nel «Conticino» un appoggioin vista di un paventato possibile rientro deiprincipi, ai quali Simone 2° si era sempremantenuto fedele, come starebbe a comprova-re quel diploma da lui ottenuto, nel 1529, dal-l’imperatore Carlo V che, all’epoca, era strettoalleato del papa e di conseguenza dei Medici.

Diversamente dal «Conticino» la pensaro-no invece due suoi consanguinei, i conti Iaco-po e Gherardo, i quali si schierarono pronta-mente e pubblicamente dalla parte della re-staurata Repubblica Fiorentina, ponendosi inarmi al suo servizio. Ho già accennato al tra-vaglio che i Gherardesca dovevano aver sof-ferto all’atto del proprio inserimento nel con-testo fiorentino, nel quale non potevano nonsentirsi trattati con una certa diffidenza, senon altro per le «grane» da essi procurate aFirenze sia quando capeggiavano Pisa che inoccasione delle loro ribellioni più recenti. IGherardesca pertanto furono costretti, sulprincipio, a muoversi con circospezione nelnuovo ambiente, nel quale non potevano mi-nimamente ambire a raggiungere quella posi-zione di preminenza di cui avevano potutogodere a Pisa. Al contrario, era per loro vitaleassicurarsi solidi appoggi onde far sì che ri-manessero almeno operanti i patti delle «Ca-pitolazioni in Accomandigia» che, pur assog-gettandoli alla tutela fiorentina, assicuravanoalla casata comitale un buon grado d’indipen-denza signorile nei domini maremmani.

Fu proprio nella ricerca di tali sostegni che,come già riferito, i Gherardesca ebbero la fe-lice intuizione di allearsi quanto più stretta-mente possibile con i Medici sin dal loro pri-mo emergere sulla ribalta politica di Firenze.Molti fatti già segnalati, ed altri ancora che inseguito documenterò, stanno a convalidarequesto costante orientamento, di cui fu em-blematico segnale lo sposalizio fra il conteNeri e Lionarda. Al momento, però, del se-condo esilio da Firenze dei Medici, alcuniGherardesca ebbero forse qualche titubanza,nel timore che la risorta repubblica potesse

rinnegare il ben noto trattato del 1405, comeritorsione ad una loro ennesima infedeltà, eda questa ossessiva preoccupazione si deve for-se il sollecito allineamento dei conti Iacopo eGherardo alla nuova situazione venutasi acreare nel 1527.

Mentre delle vicende guerresche di Iacopo,che faceva parte del ramo viterbese della ca-sata, non rimangono tracce, molto di più èpossibile sapere di quelle di Gherardo, figliodi quel Fazio assassinato anni prima a Casta-gneto. Gherardo infatti ricoprì incarichi diparticolare responsabilità alle dirette dipen-denze di Francesco Ferrucci, cioè di quel mer-cante e condottiero che rappresentò il braccioarmato della Repubblica Fiorentina. Al co-mando di una schiera di cavalieri, questo Ghe-rardesca partecipò, proprio con il Ferrucci, al-la difesa di Empoli, e sempre con lui alla ri-conquista di Volterra, città che fu poi incari-cato di difendere allorquando il Ferrucci do-vette spostarsi con il grosso delle sue truppe,prima verso Pisa e da lì verso le montagne pi-stoiesi, dove a Gavinana fu sconfitto ed ucci-so. Correva l’anno 1530 quando questo valo-roso fiorentino venne vilmente ammazzato daFabrizio Maramaldo; e fu in quel medesimoanno che cadde la Repubblica e i Medici po-terono trionfalmente tornare al potere in Fi-renze. Da allora, dei conti Iacopo e Gherardosi persero, per qualche tempo, le tracce; èmolto probabile che, more solito, essi si rifu-giassero nei lontani e sicuri domini marem-mani della casata, nel giustificato timore che irestaurati principi intendessero punirli per illoro comportamento infido.

Fu certo a quel momento che risultaronoloro utili le buone relazioni che «il Contici-no» aveva sempre mantenute con i Medici,durante il loro breve esilio; quale fosse il livel-lo di considerazione in cui egli era tenuto daCosimo I, ce lo indicano gli eventi che segui-rono. Nel 1543 infatti, dopo un salutare pe-riodo di... purgatorio, il granduca nominòGherardo capitano delle Lance Spezzate, affi-dandogli la difesa del litorale toscano, sogget-to a frequenti scorrerie di pirati. Tale incom-benza potrebbe apparire oggi ai nostri occhicome incarico secondario, ma bisogna ricor-

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136 I della Gherardesca

8 AF, f. 109, a. 1565. Lettera del futuro granduca Ferdinando I, con la quale egli ricorda ai Gherardesca l’obbligo di farbuona guardia sul loro litorale, al fine di evitare scorrerie dei pirati turchi, come invece era accaduto in occasione dello sbar-co da questi effettuato nell’anno precedente, con conseguente attacco a Castagneto.

9 AF, f. 440, n. 1´, a. 1553. 10 AF, f. 147, n. 7. 11 AF, f. 2, n. 4. 12 S. MERENDONI, Inventario dell’archivio della fattoria di Mondeggi (1668-1957), C.C.S., Capannori 1991. Mondeggi ri-

mase di proprietà dei Gherardesca dal 1538 al 1938 e fu poi venduto alla Soc. An. Agricola Mondeggi. Nel 1942 fu assegna-to ad Arturo Ascoli e, alla di lui morte, gli eredi lo vendettero nel 1952 ai Sig.ri Riva. Passò infine alla Provincia di Firenze,alla quale appartiene ancor oggi.

13 AF, f. 58, n. 11/2, a. 1427. 14 AF, f. 2, n. 2.

dare che, ancor nel 1564, i Turchi sbarcaronosulle spiagge maremmane ed assalirono Casta-gneto che subì gravi danni e dolorose perditefra gli abitanti; nella circostanza i Medici re-darguirono anzi i Gherardesca per il loro in-sufficiente impegno nella sorveglianza del lito-rale della Contea8. Anche il conte Iacopo ven-ne in qualche modo perdonato, tant’è veroche nel 1553 ne troviamo il figlio Fazio «allaguardia» del castello di Scarlino, da dove in-trattenne un carteggio con Cosimo I per rela-zionarlo sul favorevole andamento della guer-ra e fornirgli ragguagli sulla presa di Buriano9.Con tale magnanimità, i Medici vollero dimo-strare la propria benevolenza nei confronti delconte Simone 2°, il quale, da parte sua, quasi avoler festeggiare il definitivo ritorno al poteredei suoi grandi alleati e protettori, nel 1534,chiese ed ottenne la cittadinanza fiorentina.

A dispetto, peraltro, della cittadinanza ac-quisita, non mi risulta che i Gherardesca pos-sedessero, a quel tempo, un palazzo di loroproprietà in città, tant’è vero che, nel 1545,«il Conticino» affittò da Filippo Spinelli unaporzione della stessa casa in cui era stato alle-vato nella sua infanzia10. In realtà, il primo ac-quisto di beni, nel distretto di Firenze, daparte dei Gherardesca, dovrebbe essere avve-nuto nel 1531, allorché, utilizzando la dote diMarietta Soderini, furono comprati alcuniterreni nel piviere dell’Antella, che appartene-vano ai monaci di Montescalari. È evidenteche alla famiglia comitale non era ancora con-cesso di acquisire proprietà dirette in Firenzeo nel suo dominio, e questa ipotesi è compro-vata dalla supplica avanzata nel 1534, dopoquindi aver conseguito la cittadinanza fioren-tina, per essere in tal senso autorizzati11.

Solo dopo l’accoglimento di tale supplica,

a Simone 2° fu possibile dar corso, nel 1538,all’acquisto, con i suoi personali denari, di«una casa signorile di campagna», denomina-ta Mondeggi e situata nel precitato pivieredell’Antella12. Mondeggi era stata residenzadella famiglia de’ Bardi prima, poi di quellaPortinari ed infine dei Guidetti, dai quali ap-punto la comprò «il Conticino», che subito sipreoccupò anche di ampliarne la circostantetenuta agricola, come in seguito continuaro-no anche a fare i suoi successori. Con tale ac-quisto i Gherardesca fecero un primo passofondamentale verso un definitivo approdo suquella sponda fiorentina del guado, ricordatoalla conclusione del capitolo precedente, everso una più completa integrazione in quelcontesto piuttosto ostile, nel quale avevanocominciato a muovere i primi passi quasi duesecoli prima. L’acquisto di una residenza dicampagna sembrerebbe tuttavia sottolineare,una volta ancora, quello spirito d’insofferenteindipendenza che ancora doveva animare iconti maremmani; essi infatti, ad un palazzocittadino, preferirono una dimora sita al difuori della cinta muraria, dentro la quale do-vevano ancora sentirsi un po’ ostaggi ed og-getto della sospettosa diffidenza prima accen-nata. L’onere finanziario che Simone 2° do-vette accollarsi, sia per la ricostruzione tutto-ra in corso di Bolgheri, che per l’acquisto diMondeggi, lo costrinse probabilmente a ri-correre ad altri prestiti da qualche banchierefiorentino ed a vendere anche parte delle sueproprietà in Maremma. Del resto, già nel142713 e poi ancora nel 143814, si era andatoprofilando un accentuato interesse di variefamiglie fiorentine a farsi rimborsare i prestitifatti ai Gherardesca, assicurandosi la pro-prietà di quote delle loro lontane tenute. In

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15 AF, f. 59, n. 10. 16 AF, f. 11, n. 1. 17 AF, f. 153, a. 1433. 18 Cosimo I e Costanza de’ Medici erano cugini carnali non già da parte Medici bensì da parte Salviati, da cui proveniva-

no le rispettive madri, sorelle fra di loro e figlie di Iacopo Salviati. 19 AF, f. 101, n. 9.

quegli anni, per esempio, alcuni pascoli diDonoratico passarono attraverso varie mani.I primi acquirenti di tali terreni furono i Rica-soli, poi i banchieri Peruzzi, quindi i Mazzin-ghi, per terminare infine con Giovanni de’Medici, figlio di Cosimo il Vecchio, il quale,per un prestito fatto dal padre ai Gherarde-sca, vantava un credito di 800 scudi. Nel1464 detti pascoli passarono poi all’Arte delCambio15 e nel 1517 da tale corporazione al-l’emergente famiglia dei Serristori, che, da al-lora, ne conservò il dominio fino alla sua e-stinzione, avvenuta nel secolo in corso16.

Risulta da ciò evidente che, dai primi delXV secolo, i Gherardesca avevano dovuto ini-ziare a vendere parte dei loro estesissimi pos-sedimenti, onde ricostituirsi quella indispen-sabile liquidità di cui difettavano da quandoerano loro venute meno le cospicue renditedelle miniere sarde e, per di più, era iniziata ladecadenza economica delle loro terre marem-mane, la cui prevalente produzione di cerealie legnami, a seguito del declino di Pisa, nontrovava ormai più il proprio originale e tradi-zionale sbocco di mercato. Già nel 1433, ilconte Enrico, figlio di Bernabò, aveva addirit-tura dovuto cedere ad Albertaccio Peruzzi lequote di sua proprietà dei castelli di Donora-tico, Segalari e Bolgheri17.

Chiudiamo ora la parentesi, per tornare aparlare più direttamente del «Conticino» edei quattro suoi figli avuti da Marietta, deiquali peraltro fu uno soltanto l’erede maschioin grado di assicurare la continuità dellaschiatta. Manco a dirlo, venne battezzato conil nome di Ugo e per noi sarà quindi «Ugo2°». Prima d’inoltrarci nel resoconto della vi-ta di questo parsonaggio di notevole caratura,dal quale ebbe inizio la ripresa economicadella casata, è necessario accennare breve-mente ai matrimoni che furono contratti daUgo e dalle sue tre sorelle, poiché attraversoessi, è possibile farci una più esatta idea della

progressiva fiorentinizzazione dei Gherarde-sca. Il conte Ugo 2°, appena ventiduenne,sposò infatti Costanza figlia di Ottaviano de’Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico, cugi-na germana del granduca Cosimo I18 nonchésorella di quell’Alessandro de’ Medici chesarà cardinale di Firenze e poi papa con il no-me di Leone XI [tav. 16]. Fu questo un matri-monio indubbiamente assai prestigioso cheancora una volta ci conferma la stretta intesaesistente in quegli anni fra i Medici e i Ghe-rardesca.

La maggiore delle sorelle del conte Ugo, E-lisabetta, si maritò con il senatore Luigi de’Nerli; la seconda, Maria, con il marchese Ber-nardo Strozzi ed infine l’ultima, battezzata A-lessandra in onore dello zio porporato, si im-parentò... con mezza Firenze. Infatti inizial-mente si unì con Giovanni Corsi, poi, rimastavedova, si risposò con Francesco Martelli e,alla di lui morte, convolò ancora una volta anozze con Domenico Soderini.

Al riguardo di questa Alessandra, esiste uncurioso carteggio intercorso fra Cosimo I e U-go 2°, fratello della suddetta19. Cosimo I, cheproprio in quegli anni si era risposato con l’a-mante, Camilla Martelli, scrisse al conte Ugoper sottoporgli un suo progetto circa l’oppor-tunità che Alessandra, da qualche tempo ve-dova di Giovanni Corsi, si rimaritasse conFrancesco Martelli, con il quale da poco ilgranduca si era imparentato. Con tale propo-sta Cosimo I intendeva rinsaldare i legamicon questi ancor troppo «forestieri» contimaremmani; ed infatti egli così conclude lasua lettera: «parendoci che questo parentadosia utile per l’una parte e l’altra». Poco tempodopo fu la volta di Ugo, che inviò al granducaun cartoncino, a stampa nerissima ed alquan-to funerea, per comunicargli con parole am-pollosissime, come era in uso a quei tempi,che il contratto per il matrimonio «consiglia-to» era cosa fatta. Nell’archivio Gherardesca

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esiste anche la lista di coloro che vennero in-vitati al ricevimento dato per festeggiare quel-le nozze, e non ho potuto fare a meno di os-servare che, senza sostanziali variazioni, que-sto elenco potrebbe ancor oggi essere riutiliz-zato per un qualsiasi invito mondano, datoche vi compaiono tutti i medesimi nomi chetuttora portano i discendenti delle grandi fa-

miglie fiorentine giunte sino ai tempi nostri.Nessun altro documento, meglio di questo

elenco, sta a confermare che i Gherardesca,ormai inseriti nel tessuto principale della loronuova patria, non erano più né «pisani» né«sardi», avevano sì perduta in parte la loro«signorile indipendenza maremmana», ma e-rano divenuti infine «fiorentini».

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1 BARBOLANI DI MONTAUTO, Sopravvivenza di Signorie feudali, cit.

Ugo 2° della Gherardesca e Costanza de’ Medici

Il conte Ugo 2° venne alla luce nel 1530,cioè nel medesimo anno in cui i Medici torna-rono al potere in Firenze. Tale coincidenzarappresentò quasi un segno premonitore deldestino, poiché, sin dalla sua prima gioventù,egli fu accolto nella ricostituita corte grandu-cale divenendone, gradatamente nel tempo,uno dei personaggi più in vista. A questo pun-to è bene ricordare che ai «signori accoman-dati», anche se ammessi a godere della citta-dinanza fiorentina, come era nel caso dei Ghe-rardesca, non era concesso tuttavia di ricopri-re cariche pubbliche e ad essi venivano per-tanto affidati solo incarichi militari, ambasce-rie ed importanti funzioni a corte1. Nel casospecifico del conte Ugo, la benevolenza chesempre i Medici gli dimostrarono, trovava lesue radici nei buoni rapporti che suo padreSimone aveva saputo conservare con i princi-pi anche durante la loro caduta in disgrazia;secondo un mio malizioso giudizio, tale com-portamento dei Medici doveva anche esserealimentato da un certo snobismo che ancorapoteva serpeggiare nella grande casata dimercanti fiorentini, ai quali faceva probabil-mente piacere di essere serviti e riveriti dai di-scendenti di una schiatta di lignaggio longo-bardo così antico e nobile da non averne u-guali a Firenze.

Per la casata comitale, invece, la protezionedei granduchi costituiva la più solida garanziaper un mantenimento del trattato di Acco-mandigia, che era il fondamento della loro re-lativa indipendenza in Maremma.

A parte questa considerazione, debbo ri-cordare che, fra i Medici e i Gherardesca, viera già un primo vincolo di parentela e che,oltre a tale legame diretto, esistevano tanti im-parentamenti indiretti, per sposalizi contrattidalle due casate con identiche famiglie fioren-tine e non fiorentine. Scorrendo i due alberigenealogici, del periodo intercorrente fra iprimi del Millequattrocento e le prime decadidel Milleseicento, ho infatti scoperto, quasiper caso, un singolare parallelismo nella poli-tica matrimoniale seguita da entrambe le pro-sapie, nel chiaro intento di costituirsi le al-leanze più idonee [tav. 17]. Tale parallelismovenne naturalmente a cessare non appena iMedici, rafforzata la propria leadership, furo-no in grado di proiettarsi nell’empireo euro-peo, iniziando ad imparentarsi con le maggio-ri case regnanti dell’epoca. Non posso crede-re che questa iniziale assonanza fosse pura-mente fortuita, e d’altro canto il carteggio fraCosimo I e Ugo 2°, riportato nel capitolo pre-cedente, comprova la stretta intesa che, anchesotto questo profilo, doveva a quei tempi sus-sistere fra i Medici e i Gherardesca.

Fu in tale cornice che, nel 1552, maturò ilmatrimonio fra Ugo e Costanza de’ Medici.Nessuno può sapere con certezza se questa fuun’unione scaturita dal sogno d’amore di duegiovani che si erano incontrati nelle sale dellacorte medicea, o rappresentò piuttosto, comeè probabile, il consueto contratto che sancival’alleanza fra due casate, i cui interessi comuniavevano convenienza a rinsaldarsi. Sicura-mente tali nozze furono sintomatiche dell’in-teresse che i principi dovevano allora attribui-re al mantenimento di buone colleganze con

CAPITOLO SECONDO

Sotto l’ala protettrice dei Medici

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2 AF, f. 439, n. 10. 3 AF, f. 109, a. 1544.

quei turbolenti conti da poco divenuti cittadi-ni fiorentini. Se poi la giovane Costanza ve-nisse considerata bella o meno, per i gusti delsuo tempo, è ancor più problematico stabilir-lo, dato che l’unico ritratto di lei, che si con-serva fra i quadri dei Gherardesca, la raffigu-ra in funeree vesti vedovili ed ormai appesan-tita dagli anni [fig. 19].

Il bambino che, riccamente abbigliato, ellaha al suo fianco nel dipinto, è il futuro Cosi-mo II e la ragione di questa «raffigurazionecongiunta» la scopriremo fra breve.

A giudicare comunque dal gran numero dipargoli procreati da Ugo e Costanza, si do-vrebbe dedurre che la moglie non dispiacessetroppo al figlio del «Conticino». Nei primiquindici anni di matrimonio essi riuscirono in-fatti a mettere al mondo ben dieci discendenti,solo due dei quali però furono eredi maschi,mentre gli altri furono femmine che, come ve-dremo in seguito, per questa loro abbondan-za, crearono qualche problema di... colloca-mento.

Il maschio primogenito, interrompendo fi-nalmente la serie dei Simone, fu battezzatoOttaviano in onore del nonno materno; l’ini-ziativa avrebbe potuto agevolare questa croni-storia se, per disgrazia di Ottaviano e nostra,il piccolo non fosse morto a soli tre anni, la-sciando ai costernati genitori l’affannosa in-combenza di metter in cantiere tante e tantefemmine prima di raggiungere l’obiettivo diun secondo sospirato maschietto. Quando in-fine questi si decise a nascere, venne battezza-to con il nome di Simone Maria, facendo ri-piombare chi scrive e chi legge nelle note dif-ficoltà di orientamento causate dai tanti omo-nimi che, in particolare in quei secoli, com-paiono nella genealogia dei Gherardesca. L’ag-giunta di un «Maria» al nome dell’avo pater-no, fu una lodevole variante, ma non tale dal-lo sconsigliarmi di affibbiare un numero chia-rificatore anche al nuovo nato che dunque di-verrà Simone Maria 3°.

Fra così tante nascite e battesimi il conteUgo fu molto impegnato, ma non gli mancò il

tempo per assolvere ai tanti incarichi di rap-presentanza e fiducia che i Medici gli affida-rono lungo tutto l’arco della sua vita. Nel1560 fu lui, ad esempio, ad accompagnare aFerrara la figlia di Cosimo I, Lucrezia, che an-dava sposa al duca Alfonso II d’Este che, conquesto suo primo matrimonio (in seguito necontrasse altri due), dette avvio al vano tenta-tivo di scongiurare l’estinzione della sua anti-ca e gloriosa prosapia, di origine longobardaanch’essa. La scelta per questa «scorta d’ono-re» cadde probabilmente su Ugo anche per icordiali rapporti che da tempo dovevano in-tercorrere fra lui e lo stesso duca di Ferrara,almeno a giudicare dal testo di una lettera in-dirizzatagli da quest’ultimo alcuni anni prima,nella quale il duca apostrofa Ugo stesso conun «amico carissimo»2. La missione vennecondotta a termine con buon esito, tant’è ve-ro che nel 1565 sarà ancora il conte dellaGherardesca ad essere prescelto dal futurogranduca Francesco I per essergli al fianco,quando il principe si fece incontro alla pro-messa sposa, Giovanna d’Asburgo, della qua-le divenne damigella d’onore, Clarice, cuginadi Ugo 2°, che poi fu anche «aia» delle figliedel granduca Ferdinando I.

Quando nel 1574 morì Cosimo I, il Ghe-rardesca figurò nel cerimoniale del corteo fu-nebre, fra i «dinasti di Stato», e tale prestigio-sa collocazione indica con chiarezza in qualegrado di considerazione era tenuta la casatacomitale dai Medici, ai cui occhi questi contimaremmani apparivano ancora come «liberisignori alleati con il Granducato». Questonon è affatto un abbaglio, perché, nel 1544,in una supplica, poi accolta, che Angelo de’Medici, vescovo di Assisi, indirizzò agli Ottodi Pratica, massima magistratura fiorentina, sichiedeva al granduca che, in virtù delle bennote «Capitolazioni», i Gherardesca fosseroesentati dal pagare qualsivoglia gabella sui ge-neri che «dalla Contea venivano nel Grandu-cato»3. Si trattava dunque di due entità terri-toriali distinte fra loro, assoggettate a diversiregimi impositivi, come pure a separate giuri-

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Santi di Tito (attribuzione), Costanza della Gherardesca de’ Medici, con in braccio il futuro granduca Cosimo II Proprietà Gherardesca

[fig. 19]

144 I della Gherardesca

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4 AF, f. 439, n. 12. 5 M. VANNUCCI, Le grandi famiglie di Firenze, Newton Compton, Roma 1993. Si legge che i Minerbetti discendevano da

un ramo cadetto della medesima casata dell’arcivescovo Tommaso Becket, fatto assassinare da re Enrico II d’Inghilterra. Ta-le ramo cadetto (minor Becket), perseguitato in patria, si rifugiò a Firenze dove italianizzò il proprio cognome in Minerbetti.

6 AF, f. 12, n. 6, a. 1589.

sdizioni che ne facevano due Stati pressochéindipendenti, anche se collegati da un «vica-riato perpetuo». Mi scusi il lettore se insito unpo’ troppo nel mettere l’accento sulla peculia-re situazione vigente nell’enclave dei Gherar-desca, ma ciò, a mio avviso, è fondamentaleper poi meglio comprendere la vera essenzadell’accesa contesa giudiziaria che scoppieràsul finire del Millesettecento fra la casata co-mitale e il granduca di Toscana, che all’epocanon era già più un Medici bensì un Lorena.

Per farmi perdonare questa insistenza, pas-serò ora a trattare il meno ponderoso e piùsalottiero argomento della sorte toccata alleotto figlie del conte Ugo 2° e di Costanza. U-na di esse, Cammilla, morì da piccola, ed altredue furono avviate alla vita conventuale, conconseguente discreto risparmio sulle eventua-li doti matrimoniali. Le altre cinque figlie fu-rono invece destinate ad allacciare nuove pa-rentele con le famiglie fiorentine più in vista,ma non si pensi tuttavia che il «piazzarle almeglio» abbia rappresentato opera di pococonto. Di tale complesso problema, ho trova-to traccia nell’archivio Gherardesca4, dove èconservata una significativa lettera di CosimoI in risposta alla cugina Costanza, la quale loaveva evidentemente sollecitato a darle unamano nella sofferta incombenza di sistemarele figlie ancora nubili. Il granduca scrive te-stualmente e... tutto d’un fiato: ci ricordate che non vi facciamo aiuto a maritare unadelle vostre figlie, il che abbiamo in animo di fare elo faremo come ci troviamo meglio in comodo, chedi presente non troviamo il modo di poterlo fare.Tenetelo ricordato che quando potremo lo faremo.

Chissà se tale impegno fu mai realmente ri-spettato, ma sta di fatto che, con un po’ di pa-zienza, queste cinque Gherardesca si accasa-rono tutte quante e neppure tanto male. Ma-rietta sposò Roberto Pucci; Lucrezia si unìcon Marcantonio Ubaldini, della medesimaschiatta del tristemente noto arcivescovo Rug-geri, divenendo madre a sua volta di un futu-

ro prestigioso cardinale; Virginia convolò anozze con Annibale Orlandini; Settimia conAntonio Minerbetti5 ed infine Ottavia con A-lessandro Rinaldi.

A questo punto la madre Costanza proba-bilmente emise un bel sospiro di sollievo e,come suol dirsi, ... tirò i remi in barca. Dalcanto suo, Ugo 2° aveva continuato inveceimperterrito a curare la propria brillante car-riera di gentiluomo di corte; ed infatti, nel1589, sarà ancora lui a guidare la cavalcatache si fece incontro a Cristina di Lorena, spo-sa di Ferdinando I. Questa però fu l’ultimasua missione perché, proprio nel giorno checoncludeva quel medesimo 1589, il conte U-go morì improvvisamente quando ancora nonaveva compiuto il cinquantanovesimo anno.La sorte, che gli era sempre stata benigna,volle comunque che, prima di chiudere gli oc-chi, egli potesse assaporare due appagantisoddisfazioni. La prima gli provenne dall’uni-co suo erede maschio, Simone Maria 3°, chesposandosi con Barbara, figlia del conte Sigi-smondo Rossi di Sansecondo, generale dellacavalleria toscana, assicurò in breve la conti-nuità dell’antica stirpe con la nascita di un fi-glio, cui, come d’uso, fu apposto il nome delnonno, e quindi sarà Ugo 3°. La seconda con-solazione gli fu concessa dal granduca Ferdi-nando I, che con proprio rescritto6 volle uffi-cialmente riconfermare ancora una volta lavalidità di tutte le clausole del famoso trattatod’Accomandigia, fra cui quella della giurisdi-zione della casata comitale sui propri sudditi,nonché il permanere delle sostanziose esen-zioni fiscali da essa e da questi godute, inquanto ricollegabili ai privilegi di cui i Ghe-rardesca erano rimasti titolari per i patti sti-pulati nel 1405 con la Repubblica Fiorentina.

La cronistoria della vita del conte Ugo 2°potrebbe anche a questo punto concludersi, seancora non ci incuriosisse domandarci entroquali mura domestiche egli e la sua numerosis-sima famiglia avessero alloggiato in Firenze.

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146 I della Gherardesca

7 AF, f. 96, n. 9. 8 AF, f. 147, n. 16 e f. 17, a. 1623. 9 AF, f. 439, n. 14.

Sappiamo già che i Gherardesca non avevanopotuto far acquisto d’immobili nell’area fioren-tina, fino a quando non ebbero conseguito lacittadinanza nel 1534. Abbiamo inoltre appre-so che «il Conticino», padre di Ugo 2°, era sta-to allevato da bambino nella dimora dei nonnimaterni, della quale egli prese poi una porzio-ne in affitto, pochi mesi prima di morire. Èdunque probabile che questa fosse ancora laresidenza cittadina dei Gherardesca al mo-mento della morte di Ugo 2° e tale rimanessefino a quando Costanza non ricevette in dono,dal fratello cardinale Alessandro, il palazzo inBorgo Pinti del quale tratterò più avanti.

Il fatto poi che, agli inizi del Milleseicento,vari membri della famiglia abbiano trovatosepoltura all’interno della chiesa fiorentina diOgnissanti7 potrebbe far supporre una lororesidenza entro i limiti circoscrizionali di taleparrocchia, mentre due documenti che hotrovati nell’archivio Gherardesca, accennanoalla locazione di alcune case di proprietà deiRinaldi e di Alfonso Giglioli, vescovo di An-glona e nunzio apostolico, site in via Silvestri-na, «nel popolo di S. Michele Visdomini»8.Ad ogni modo non mi sembra che in fatto diresidenza cittadina, la famiglia comitale po-tesse ancora minimamente competere con legrandi casate della nobiltà mercantile fiorenti-na, ben sistemate nei loro severi palazzoni; midomando pertanto come i Gherardesca po-tessero conservare una propria buona imma-gine a corte senza l’adeguato supporto di unavita di rappresentanza mondana. Il conte Ugo2° dovette peraltro soggiornare a lungo nellasua grande villa-palazzo di Mondeggi, che e-gli e Costanza ampliarono ed abbellirono no-tevolmente, tanto che, in segno di tale loro ini-ziativa, ancor oggi i due stemmi gentilizi Me-dici e Gherardesca fanno bella mostra di sésulla facciata principale dell’edificio in parola.Se Ugo curò con particolare impegno la ri-strutturazione della sua dimora di campagna,non ne trascurò nemmeno l’annessa tenuta a-gricola che estese ulteriormente con l’acqui-

sto di altri due grandi poderi. Questa primaproprietà fiorentina dei Gherardesca si am-pliò in seguito, grazie ai benefici di una «com-menda» che il cardinale Alessandro de’ Medi-ci istituì nel 1567 e che Cosimo I intestò prov-visoriamente a Simone Maria 3°. Nel 1601 ilgranduca Ferdinando I assegnò poi «in per-petuo» ai discendenti primogeniti maschi deiGherardesca tale «commenda» che, oltre acomprendere varie case e terreni nei pressi diMondeggi, includeva alcuni edifici in Firenzee terre e fabbricati nel distretto mugellano diScarperia, che andarono a costituire il nucleoiniziale di una seconda proprietà agricola deiGherardesca in territorio fiorentino.

Ma torniamo ora a ciò che seguì dopo lamorte di Ugo 2°. La contessa Costanza, rima-sta vedova e con tutte le figlie alfine sistemate,non si sentì forse di continuare a vivere da so-la e si reinserì nel suo originario ambiente dicorte, assumendo l’incarico di «governatrice»dei principini (otto in tutto) nati dai grandu-chi Ferdinando I e Cristina. Considerando itanti figli propri allevati da Costanza, era pre-sumibile che ella fosse allenata per ben assol-vere all’incombenza affidatale; ed infatti di-mostrò grande capacità, come ci conferma ilcontenuto di varie lettere trovate nell’archiviodella famiglia ed in particolare di una di essecon cui la granduchessa Cristina la ringraziacon enfasi per l’indefessa cura da lei dedicataall’educazione dei principini9. Altre lettere, indate posteriori, sono a lei indirizzate dai suoipupilli, dopo che erano ormai usciti dalla suatutela, e fra di esse ne ho rintracciata una delfuturo Cosimo II (quello rappresentato fra lebraccia di Costanza nel ritratto prima men-zionato), che le scrive nel 1605 per rallegrarsidella nomina a pontefice del fratello Alessan-dro, e conclude ricordando:

l’obbligo che tengo in evidenza di aver ella confer-mato più anni, con infinito amore, diligenza e pru-denza nella mia educazione.

Altre missive, a lei indirizzate, provengono

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 147

10 AF, f. 439, n. 18, a. 1601. 11 AF, f. 109, a. 1606. 12 AF, f. 163, n. 1. 13 AF, f. 171, a. 1776. Nel 1776, il parco investiva ancora solo una parte minore del terreno annesso al palazzo. La resi-

dua maggiore porzione era occupata da un podere agricolo. 14 AF, f. 163, n. 3. Al contratto di acquisto del palazzo, il conte Ugo 2° figurò quale procuratore del cardinale Alessandro

de’ Medici. 15 AF, f. 154, a. 1605. 16 AF, f. 109, a. 1605.

dalle principesse Eleonora e Caterina, le qualiper molto tempo continuarono a mentenersiin contatto con la loro «governatrice» di untempo.

Al di là della corrispondenza con i suoi pu-pilli, Costanza ci ha lasciato un epistolario as-sai copioso ed interessante. Ho trovato, ad e-sempio, una lettera di Maria de’ Medici, regi-na di Francia, con la quale ella annunzia allasua parente che, dopo tanta ansiosa attesa, eraalfine rimasta incinta e sperava dunque di po-ter dare un erede al trono francese10. Altremissive sono della duchessa Eleonora Gonza-ga, sorella della regina Maria. Con una di essela duchessa annunzia il prossimo matrimoniodella propria figlia maggiore Margherita conil duca di Bari e principe di Lorena11. Ho in-fine rinvenuto un’altra lettera di Cosimo II,datata 1606 ed indirizzata, questa volta, alconte Simone Maria per esprimergli il pro-prio sincero cordoglio per la dolorosa scom-parsa della contessa Costanza.

Il palazzo di Borgo Pinti e il conte Simone Maria 3°

Visto che sono venuto a parlare di SimoneMaria, proseguirò ora ad occuparmi di lui.Egli fu il primo dei Gherardesca che, nel1601, andò ad abitare nel grande palazzo inBorgo Pinti che, come narrato, il cardinaleAlessandro aveva donato alla sorella Costan-za. Questo bell’edificio, progettato da Giulia-no da Sangallo, era stato costruito nel 1472per iniziativa di Bartolomeo Scala, illustre u-manista e storico, che a lungo fu al servizio diLorenzo il Magnifico. Lo stesso Scala raccon-ta che egli comprò «una casa per mio abitarecon orto posta nel popolo di S. Piero Mag-giore nella via de’ Pinti presso la porta»12

[fig. 20]. Non sappiamo invece chi ne dise-gnò, assai più tardi, lo splendido parco «ro-mantico» che ancor oggi è il più vasto in cittàdopo quello di Boboli13. Quando Bartolo-meo si spense nel 1497, lasciò in eredità aisuoi figli questo imponente complesso che ri-mase agli Scala fino al 1585, anno nel qualelo acquistò il cardinale Alessandro de’ Medi-ci14, che lo abbellì ulteriormente, ricorrendoall’opera di valenti artisti dell’epoca.

Dopo che la contessa Costanza lo ebbe ri-cevuto in dono dal fratello, questo palazzo,per quasi tre secoli, costituì la residenza fio-rentina dei Gherardesca che, nel vastissimoterreno annesso, trovarono certamente uncompenso a quegli ampi e liberi spazi in cuisempre si erano trovati a loro agio. SimoneMaria 3° fu dunque il primo ad insediarvisi, evi abitava da quattro anni allorché venne no-minato, dal suo grande protettore e zio appe-na asceso al soglio di Pietro, «prefetto e ca-stellano di Castel Sant’Angelo» a Roma15. Ma-lauguratamente quest’ultimo papa Medicimorì dopo solo ventisei giorni di pontificatoed altrettanto breve fu pertanto la duratadell’incarico conferito a Simone Maria che, aquanto risulterebbe da un permesso scritto ri-lasciatogli da Ferdinando I16, a Roma fece so-lo a tempo a fare una fugace apparizione. Re-sta il fatto che un pontefice aveva «indiretta-mente» sfiorato la casata dei Gherardesca e,come da consolidata consuetudine, non avevamancato di lasciargliene tangibili benefici,materializzati nel palazzo di Borgo Pinti, nellecase in Firenze e nelle terre e nei fabbricati inquel di Modeggi e di Scarperia, che certo va-levano assai di più dell’onorifico incarico cheil conte Simone Maria 3° non ebbe nemmenoil tempo d’espletare.

Da sua moglie Barbara, questo Gherarde-sca ebbe quattro figli: due maschi, Ugo 3° e

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Antica pianta della città di Firenze. Contrassegnata la «casa con orto» acquistata da Bartolomeo ScalaIstituto Tedesco di Storia dell’Arte, Firenze

[fig. 20]

148 I della Gherardesca

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 149

17 AF, f. 296, n. 2.

Ippolito, e due femmine, delle quali una, An-gela, nemmeno citata nella genealogia del Lit-ta, si fece monaca, e l’altra, Costanza, andò asuo tempo sposa al conte Francesco Mam-miani della Rovere, cugino del duca d’Urbi-no. Simone Maria, per sua fortuna, aveva po-tuto assicurarsi una discendenza senza patirei medesimi affanni dei suoi genitori, poiché idue eredi maschi vennero alla luce per primie riuscirono entrambi a superare indenni iprimi critici anni dell’infanzia, cosa di nonpoco conto in un’epoca nella quale la morta-lità infantile registrava un tasso elevatissimoanche fra le famiglie più abbienti.

Il secondogenito Ippolito viene ricordato,appena diciottenne, al seguito di GiordanoOrsini quando questi, nel 1608, fu inviatoquale suo procuratore dal granduca CosimoII, a sposare in suo nome l’arciduchessa Mad-dalena d’Asburgo. Dopo tale promettente e-sordio, nulla più ho però rintracciato d’inte-ressante che riguardi questo Gherardesca, ilquale, sposatosi ventiquattrenne con MariaSalviati, campò con essa appena dodici anniprima di morire ancor in giovane età. Ippolitoseppe tuttavia mettere a profitto il suo scam-polo di vita coniugale, procreando un discre-to stuolo di sei figli, dai quali non seguì peral-tro alcun altro ramo della prosapia. I suoi dueunici maschi non ebbero infatti discendenzaper essere l’uno, Simone, morto bambinettonell’anno medesimo in cui spirò suo padre, el’altro, omonimo del genitore, per aver ab-bracciato la carriera ecclesiastica pervenendo,nel 1657, ad essere nominato canonico delduomo di Firenze.

Il conte Ugo 3°, letterato e storico della famiglia

Il conte Ugo 3°, fratello maggiore d’Ippoli-to, lasciò invece tracce più marcate del suopassaggio terreno, nel quale prevalentementesvolse la sua attività presso la corte medicea.Già nel 1608 lo troviamo a far parte del cor-teo che si fece incontro all’arciduchessa Mad-dalena d’Asburgo, quando giunse a Firenze

sposa di Cosimo de’ Medici, che nell’annosuccessivo succederà al padre Ferdinando I.Nel 1611, Ugo fu nominato «gentiluomo dicamera» del granduca Cosimo II, suo coeta-neo, e da quel momento rimase sempre a cor-te espletando svariati incarichi. Nel 1619 eglivenne fatto cavaliere dell’ordine militare di S.Stefano, di cui divenne gran cancelliere nel1635. Risulta anche che il conte Ugo 3° go-desse di grande stima per la sua erudizione,soprattutto storica, tanto da guadagnarsil’ammissione alla prestigiosa Accademia Fio-rentina, della quale fu uno dei membri più in-fluenti. Proprio per tali meriti culturali, ilgranduca, nel 1641, lo nominò senatore.

Quale storico, egli precedette il sottoscrittonel tentativo di riordinare le vicende della fa-miglia ma non posso onestamente dichiarare,da quanto ho potuto leggere della sua ope-ra17, che la sua fama ne esca irrobustita. Da u-na relazione da lui indirizzata nel 1631 a suocugino Cosimo della Gherardesca, vescovo diColle Val d’Elsa e come lui appassionato distoria familiare, si apprende che Ugo, mo-mentaneamente ritiratosi a vita privata dopodieci anni di servizio ininterrotto a corte, ave-va in animo di approfittare di questa più tran-quilla parentesi esistenziale, per avviare uncorposo lavoro di ricerca sui Gherardesca,che, nel suo ambizioso intento iniziale, imma-ginava suddiviso in nientemeno che dodicivolumi. Di fronte a tale mastodontico proget-to il sottoscritto, dopo aver provato una pun-ta di giustificata concorrenziale invidia, do-vrebbe ammutolire per l’assai maggior mode-stia del suo lavoro. Il conte Ugo 3° annunzia-va inoltre a Cosimo che tre di tali volumi era-no già pronti e che essi riguardavano la storiadei Longobardi in generale, quella del Duca-to di Spoleto [?], ed infine tutte le notizie rac-colte sulla schiatta longobarda dei Remona,dalla quale s’ipotizza possa discendere S.Walfredo e quindi i Gherardesca.

Quasi all’inizio della relazione inviata da U-go al vescovo di Colle Val d’Elsa, ho trovatoelencata una ricca bibliografia di riferimentoche mi aveva lasciato ben sperare sulla vali-

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150 I della Gherardesca

18 G. Della Grossa, detto il Corso, visse nel XIV secolo e scrisse una Cronaca della Corsica che è considerata testo atten-dibile solo per la parte che attiene alle epoche più prossime a quella in cui visse l’autore. Il manoscritto si trova presso la Bi-blioteca Vaticana, Raccolta Urbinate.

dità di questo lavoro e soprattutto mi avevastimolato a tentare un arricchimento del mio,ma quando sono andato a consultare alcunidei testi citati non vi ho trovato alcun cennoche direttamente riguardasse i Gherardesca equindi, mio malgrado, ho dovuto concludereche probabilmente il conte Ugo non li avevanemmeno scorsi ma solo menzionati per di-mostrare la propria erudizione. Dopo questovacuo «exploit», la mia fiducia nel mio quasiomonimo concorrente aveva cominciato a va-cillare, tanto più che egli aveva iniziato subitoad ingolfarsi in una confusa ricostruzione cir-ca l’origine dello stemma gentilizio dei Ghe-rardesca, che egli intendeva addirittura far ri-salire ad epoca precedente a Carlo Magno. U-go 3° racconta infatti che «l’arme» di famigliaera inizialmente rappresentata da due sempli-ci bande orizzontali: quella inferiore argentea,a ricordare l’antica nobiltà della schiatta, equella superiore rossa, a sottolinearne l’eroi-smo guerriero.

Fino a qui ci troveremmo sulla falsariga diquanto racconta il Toscanelli (speriamo noninfluenzato da Ugo 3°) nella sua opera, editanel 1937, su I Conti di Donoratico della Ghe-rardesca, e, soprattutto, in linea in fatto di aral-dica dei colori. Ugo però prosegue narrandoche, tuttora regnante Carlo Magno, un fanto-matico Gherardo, figlio di S. Walfredo, nesposò la figlia Berta, recente vedova di Angil-berto, nobile poeta di schiatta franca.

L’erudito conte della Gherardesca inciampaa questo punto in una prima grave inesattezzastorica, poiché tutti gli annalisti, coevi a CarloMagno, riportano che egli, gelosissimo dellesue tre belle figlie, non acconsentì mai, finchévisse, che esse si maritassero, anche se sembrache, in effetti, Berta fosse divenuta l’amante diAngilberto e che da tale relazione fossero per-sino nati alcuni figli. Ugo poi commette un se-condo sbaglio quando racconta che, a seguitodel matrimonio fra Gherardo e Berta, l’impe-ratore concesse che nello stemma dei Gherar-desca venisse inquartata l’aquila imperiale, ma

solo... metà di essa in quanto egli dominaval’Impero d’Occidente, ma non già quello d’O-riente. In tutto questo racconto la fantasia nonfa certo difetto, ma, purtroppo per il suo e-stensore, autorevoli studi in materia conferma-no che gli stemmi gentilizi risalgono ad epocaassai posteriore a quella carolingia e che essifurono probabilmente adottati solo ai tempidelle prime crociate, allorché si rese necessariocontrassegnare le variegate componenti della«multinazionale» armata cristiana, raccoltasotto i bianchi vessilli dalla rossa croce. Nonche prima d’allora gli eserciti non avesseromarciato sotto insegne e labari, basti per que-sto ricordare le aquile delle legioni romane,ma gli stemmi gentilizi veri e propri, se non e-sattamente alla prima crociata, apparvero mol-to dopo la morte di Carlo Magno.

Il conte Ugo 3° prende dunque un grossoabbaglio che aggraverà, nel seguito della suadisquisizione, riferendosi alla Cronaca di Gio-vanni della Grossa, detto il Corso18, e raccon-tando che il precitato Gherardo fu anche no-minato da Carlo Magno conte palatino e con-te di Corsica e che, da quest’ultima isola, eglifece ritorno in Toscana, per riprendere pos-sesso degli antichi domini longobardi dellasua stirpe. Forse con l’impostazione di questasua fantasiosa teoria, Ugo cercò in qualchemodo di colmare quel vuoto documentaleche, dal 754 ai primi del X secolo, costituisceun vero e proprio «black out» che tutt’ogginon permette e forse non permetterà mai ditracciare con ragionevole certezza la genealo-gia dei Gherardesca a monte di quel Ghisolfo,cui fa cenno lo Schwarzmaier, o meglio diquel Gherardo 1° che, con maggior certezza,rappresenta il progenitore storico riconosciu-to dalla generalità degli studiosi. Ugo 3° nonvolle o non seppe probabilmente accettare l’i-potesi più attendibile, e cioè quella che, du-rante il Regno franco in Italia, i predecessorilongobardi dei Gherardesca, privati dai vinci-tori di qualsivoglia qualifica pubblica, si sianoanonimizzati, divenendo per tal fatto meno

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19 S. RAZZI, Vita di Santi e di Beati toscani, Giunti, Firenze 1601, parte II.

individuabili nei documenti dell’epoca che ri-portano i loro nominativi puri e semplici, sen-za l’aggiunta di alcun titolo che possa facilitar-ne l’identificazione, come invece avvenne daquando, nel X secolo, furono fatti comites.

D’altra parte io stesso, nei vari regesti con-sultati, ho rintracciato alcuni antichi docu-menti, nei quali sono citati nomi e località ri-conducibili forse all’antica casata longobardada cui discendono i Gherardesca, anche sepoi non risulta possibile per nessuno di acqui-sirne un’assoluta certezza. Senza dunque vo-ler ulteriormente infierire sulle doti storichedi Ugo 3°, mi limiterò quantomeno a conclu-dere che forse, alla sua epoca, egli ebbe unatroppo scarsa disponibilità di idonea docu-mentazione, trovandosi, di conseguenza, nellanecessità di lavorare un poco di fantasia e,nella più generosa delle ipotesi, di dover ri-correre a tradizioni orali difficilmente con-trollabili.

Per quanto se ne sappia, comunque, la mo-numentale opera storica programmata dalconte Ugo non vide mai la luce, almeno nellasua interezza, perché il suo autore fu richia-mato a corte e quindi non ebbe più il tempodi dedicarsi al completamento del proprioambizioso progetto.

Non s’immagini tuttavia che questo Ghe-rardesca, immerso negli studi ed assorbitodalle tante incombenze cortigiane, sia solostato un sognatore ed abbia trascurato di oc-cuparsi dei più concreti interessi patrimonialidi famiglia, per i quali dimostrò invece un di-screto acume amministrativo. A lui, fra l’altro,va ascritto un notevole ampliamento della te-nuta agricola in Mugello che, nel 1618, egli e-stese acquistando dai Medici un grande ap-pezzamento di terreno il località «Le Mozze-te», presso S. Piero a Sieve. Si deve inoltre adUgo 3° un pregevole abbellimento del palaz-zo di Borgo Pinti, dove fece effettuare vari af-freschi da Baldassarre Franceschini, detto ilVolterrano [fig. 21]. È probabile che, versotale artista, ancora giovanissimo, lo avesse o-rientato il cugino Cosimo che, dalla diocesi diColle Val d’Elsa non lontana da Volterra, po-

teva aver raccolto buone referenze sul contodi questo emergente pittore.

Nel corso della vita di Ugo, si estinsero tut-ti gli altri rami della casata e il «patrimonioparentale» rifluì quindi nelle sue sole mani,così come dettava la perdurante osservanzadelle norme longobarde in materia. In parti-colare egli rientrò in possesso delle tenute diCastagneto e Donoratico che, in precedenza,erano state assegnate ai cugini Cosimo (il ve-scovo) e Cammillo, figli del conte Bernardo edi Beatrice, sorella di Sforza Appiano d’Ara-gona, signore di Piombino.

Cosimo della Gherardesca, vescovo di Colle Val d’Elsa e di Fiesole

Quando Cammillo, nel 1606, morì scapolo,le due tenute passarono a suo fratello Cosimo,il quale, per quanto impegnato in una brillan-te carriera ecclesiastica, non mancò di occu-parsene nei limiti del possibile, anche dopoche divenne vescovo della neocostituita dioce-si di Colle Val d’Elsa. In questa cittadina siconservano ancor oggi segni numerosi del suovescovato e soprattutto... tanti e tanti stemmidi famiglia disseminati un po’ ovunque.

Fra le sue varie iniziative, è da ricordare,per prima, quella dei lavori fatti nel duomocittadino, in cui ancora si conserva una prege-vole opera bronzea di Pietro Tacca, raffigu-rante una palma pasquale sulla cui base è ri-portato a sbalzo l’arme della casata comitaledi Cosimo. Sempre nel duomo egli fece con-sacrare una cappella a S. Walfredo, leggenda-rio progenitore della schiatta, ma non solo atale santo di famiglia egli mostrò di essere de-voto, poiché si deve probabilmente a questovescovo il suggerimento di realizzare, nel mo-nastero di S. Lucchese presso Poggibonsi, undipinto raffigurante il beato Guido della Ghe-rardesca, sul cui conto, proprio pochi anniprima, erano stati editi alcuni studi19. Nel1634, Cosimo lasciò Colle dopo essere statonominato vescovo di Fiesole, ma in questanuova sede non ebbe il tempo di dissemina-

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20 AF, ff. 45, 46, 47. 21 Ed. Arnaud, Firenze 1968, p. 115.

re... stemmi, poiché la morte lo colse in quelmedesimo anno. Fu tumulato a Firenze nellabasilica della SS. Annunziata, nel cui interno,i Gherardesca divenuti ormai parrocchiani inquanto residenti in Borgo Pinti, avevano le lo-ro sepolture alla sinistra dell’entrata principa-le, sotto il pavimento su cui oggi sorge la cap-pella dedicata alla Vergine Maria. Tali sepol-ture furono smantellate nel Millesettecento,in ottemperanza a nuove disposizioni di leggeche vietavano l’inumazione di morti nellechiese, e le relativa lapidi andarono disperse.

La vertenza giudiziaria fra Ugo 3°e Anfrosina Peruzzi

Dopo la morte del conte vescovo Cosimo,il rifluire di Castagneto e Donoratico verso ilramo principale della casata, non avvennesenza contrasti, poiché, contro ogni tradizio-ne passata e per la prima volta nella storiadella famiglia, una cugina di Ugo 3°, Anfrosi-na, figlia del conte Francesco della Gherarde-sca nonché vedova di Ugo Peruzzi, tentò diopporvisi, rivendicando una sua spettanza su-gli antichi domini familiari. Di conseguenza,fu avviata una vertenza giudiziaria trascinatasiper sei anni (i tempi delle cause nei tribunalierano evidentemente più brevi di quelli odier-ni) e conclusasi con una sentenza particolar-mente interessante20. La decisione finale deimagistrati accolse integralmente la tesi difen-siva degli avvocati del conte Ugo, sancendoche, nelle «Capitolazioni in Accomandigia»,la Repubblica di Firenze aveva inteso asse-gnare il «vicariato perpetuo», su tutti i pos-sessi elencati nell’atto, «ai soli maschi della fa-miglia Gherardesca», e che pertanto i dominidella casata appartenevano «solo ad essi enon già alle femmine della prosapia». Anfro-sina si vide rigettare le sue pretese, mentre aiGherardesca fu sostanzialmente riconfermatala possibilità di continuare ad attenersi a quel-le leggi longobarde, afferenti all’eredità nel-l’ambito di un nucleo parentale, praticamente

da loro rispettate per tanti secoli e che venne-ro osservate ancora per altri duecento annicirca. Infatti solo alla metà del Milleottocen-to, i Gherardesca si trovarono a doversi ade-guare a norme ereditarie «più moderne», conla conseguenza di veder rapidamente usciredai domini di casa ciò che per tanto tempo e-rano riusciti a mantenere unito, pur non a-vendo mai ricorso all’istituto ereditario delmaggiorascato.

Costanza, sorella di Ugo 3°, si sposa

Nel 1614, anno nel quale aveva avuto iniziola vertenza giudiziaria testé illustrata, la sorelladel conte Ugo, Costanza, si sposò con il conteFrancesco Mammiani della Rovere, cuginodel duca d’Urbino. Fu sicuramente un matri-monio visto di buon occhio da tutta la fami-glia Gherardesca, in quanto collocava Costan-za in una posizione di particolare prestigiopresso la corte dei Medici, con i quali, oltre ailegami diretti di sangue per parte dell’ava pa-terna di cui portava il nome, Costanza s’impa-rentò ulteriormente tramite i Della Rovereche già vantavano lo sposalizio di un loro fa-miliare con Claudia, figlia del granduca Fer-dinando I, e che, pochi anni dopo tale unio-ne, rinsaldarono i propri vincoli con la grandecasata principesca fiorentina, per il matrimo-nio del futuro granduca Ferdinando II conMaria Vittoria, figlia del duca d’Urbino. LeaRossi Nissim fornisce una gustosa e coloritadescrizione dei preamboli a quest’ultimo e-vento, in un libro dedicato alle Donne di ca-sa Medici 21. Ecco, qui di seguito, quanto ellaracconta:

Il 25 ottobre 1623 un corteo principesco muove-va da Palazzo Pitti per un solenne battesimo.

La contessa Costanza della Gherardesca, mogliedi Giovan Francesco Mammiani recava in braccio u-na bimba vestita di un abito bianco e adorna di pre-ziosi gioielli e accompagnata da gentiluomini e paggi,per il corridoio vasariano, giunse in Palazzo Vecchioove centotrenta dame erano riunite, con i loro son-tuosi abiti di raso e velluto pieni di sbuffi e di gale.

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 153

Palazzo della Gherardesca in Borgo Pinti a Firenze (proprietà SMI). Soffitto affrescato da Baldassarre Franceschini detto «Il Vol-terrano» e raffigurante «La Cecità della mente umana illuminata dalla Verità»

[fig. 21]

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22 AF, f. 85. 23 AF, f. 79, nn. 1, 3.

Da Palazzo Vecchio una lunga fila di quaranta-due carrozze ad otto e a sei cavalli condusse tutti gliillustri personaggi fino alla Cattedrale e a San Gio-vanni, ove fu celebrato con grande pompa il battesi-mo: era compare, a nome del papa, il cardinale Bor-romeo e tutto si svolse con il fasto e la minuziosa eti-chetta propria del secolo.

La bimba, a cui erano riservati tanti onori, eraMaria Vittoria della Rovere, aveva quindici mesi edera stata regolarmente battezzata all’atto della suanascita avvenuta a Pesaro il 7 febbraio 1622.

Il nuovo battesimo che le venne così solenne-mente impartito in San Giovanni in Firenze, nonfu, come qualcuno potrebbe pensare, un omaggiospeciale al Santo Patrono della città, ma fu un’affer-mazione di fiorentinità e soprattutto il suggello diun patto fra la famiglia Medici e quella Della Rove-re perché la piccola Vittoria si considerasse fin d’al-lora la sposa del futuro granduca Ferdinando checontava allora quindici anni e della bimba era cugi-no carnale.

Termina a questo punto la narrazione del-la Rossi Nissim e a me non resta che eviden-ziare che, nella descritta fastosa cornice, lacontessa Costanza fu la persona adatta al po-sto adatto, perché nessuna dama più di lei po-teva vantare titoli validi ad assolvere all’onori-fico incarico di recare fra le proprie braccia labattesimanda piccola Vittoria.

Di Costanza c’è ancora da accennare che,con immaginabile gioia del marito, seppe benpresto dargli un erede maschio che fu chia-mato Giulio Cesare, ma che il padre, moren-do assai presto, godette per poco tempo. Taleevento costituì la premessa di vicende succes-sive che anticipo e che riguarderanno diretta-mente i Gherardesca. Costanza, rimasta ve-dova, dovette preoccuparsi di amministraredi persona il cospicuo patrimonio che il ma-rito aveva lasciato al figlio ancora minorenne,e, per farlo, dimorò a lungo a Pesaro, da do-ve non mancò di mantenere stretti rapporticon i Medici. In un voluminoso epistolarioda essa lasciato22, ho rinvenuto lettere indi-rizzatele dal granduca Ferdinando II, dalla dilui sposa Maria Vittoria e dalla principessaMargherita, sorella di Ferdinando e duchessadi Parma.

Casualmente ho anche scoperto quale fu laresidenza preferita da Costanza nelle Mar-che, poiché, trovandomi alcuni anni orsono atrascorrere con mia moglie due giorni a Pesa-ro, un pomeriggio chiesi al portiere dell’al-bergo in cui alloggiavamo, che cosa ci consi-gliasse di fare per impiegare alcune ore che cirestavano ancora disponibili, ed egli, forse diproposito, mi suggerì di visitare il giardinodella... «Villa della Gherardesca». Non lasciaitrapelare la mia sorpresa nel sentirci menzio-nare in una regione così distante dal nostronaturale «habitat» toscano, ma, rientrato aFirenze, volli subito scoprire la ragione per laquale il cognome Gherardesca era stato attri-buito a tale villa. Appresi allora, dalle carted’archivio, che il figlio unigenito di Costanza,Giulio Cesare, era deceduto a Roma in giova-nissima età, così che sua madre aveva da luiriereditato tutto il patrimonio che era stato disuo marito. La successione fu contrastata dal-la Fabbrica di S. Pietro con motivazioni chesarebbe ozioso riportare in queste pagine, ela conseguente lite giudiziaria si protrasse alungo, per poi concludersi, nel 1666, con unasentenza favorevole a Costanza, che però resel’anima a Dio proprio in quel medesimo an-no23. Le proprietà marchigiane del conteFrancesco Mammiani erano sostanzialmentecostituite dal feudo di S. Angelo, da un pa-lazzo ed altri immobili in Pesaro e dalla citatavilla, con annesso giardino e peschiera, cono-sciuta in origine come «Villa la Fonte». Allamorte di Costanza tutti detti beni, con esclu-sione del feudo di S. Angelo, furono ereditatidai nipoti Gherardesca della defunta e rima-sero nel patrimonio familiare fino al 1788; daciò la nuova e per me inaspettata denomina-zione della villa.

Il matrimonio di Ugo 3°e la sua discendenza

Torniamo ora a Firenze e facciamo uno deinostri frequenti passi indietro.

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Veduta interna del palazzo della Gherardesca in Borgo Pinti a Firenze (proprietà SMI). Il salone da ballo

[fig. 22]

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24 AF, f. 296, n. 4.

Nel 1626, anche Ugo 3°, che già contavatrentott’anni, si decise a dar l’addio al celiba-to e sposò Lucrezia, figlia del suo grande ami-co Pier Francesco Capponi e di Cassandrade’ Bardi. Data la non più verdissima età, U-go dovette «bruciare le tappe» mettendo su-bito al mondo una discreta nidiata di cinquefigli, fra i quali gli eredi maschi furono piùnumerosi che non nelle precedenti generazio-ni. Delle due uniche femmine, la primogenita,Cassandra, tenne fede al suo poco propiziato-rio nome, ricevuto in onore della nonna ma-terna, e morì quasi subito, mentre la seconda,battezzata Barbara come la nonna paterna, sifece monaca. Rimasero così alla vita «monda-na» i tre maschi, Guido, Piero e Simone Ma-ria (4° per noi), i quali, alla morte del padre,nel 1646, erano tuttora poco più che infanti,poiché il maggiore, Guido, contava quindicianni ed il minore, Simone Maria, soltanto set-te. Lasciamo ora crescere in pace questi pic-coli Gherardesca ed approfittiamone per ri-flettere sulle vicende della famiglia nel primosecolo e mezzo dell’Evo Moderno.

Da quando questi conti maremmani, la-sciandosi alle spalle le ancor fumanti maceriedi Bolgheri si erano stabilmente insediati a Fi-renze, le sorti della famiglia avevano senzadubbio subito, almeno sotto il profilo econo-mico, una evoluzione positiva. Tale evoluzio-ne era stata fondamentalmente favorita dallaprotezione offerta dai Medici, e più in parti-colare dai due matrimoni con donne di talecasata, dalle donazioni generosamente elargi-te da papa Leone XI ed infine dall’ereditàmarchigiana pervenuta alla casata da Costan-za della Gherardesca. All’originario nucleopatrimoniale della Maremma si erano andatecosì aggiungendo la tenuta di Mondeggi,quella del Mugello, il prestigioso palazzo diBorgo Pinti e, in ultimo, i citati beni del pesa-rese. I Gherardesca erano riusciti dunque arisalire gradatamente la china del basso livelloeconomico toccato alla fine del Medio Evo, esi erano potuti adeguare al potenziale finan-ziario delle più ricche famiglie di Firenze.

La politica filomedicea, adottata già dai

tempi di Cosimo il Vecchio, aveva dato ab-bondanti frutti, ma ora, al momento dellamorte del conte Ugo 3°, cominciarono a pro-filarsi le prime avvisaglie di un mutamentodella situazione creatasi sin dal primo inseri-mento della casata comitale nel contesto fio-rentino. È chiaro che l’interesse familiare con-sigliava di rimanere ancora, come prima, sot-to l’ala protettrice dei principi, ma è altrettan-to evidente che questi ultimi, ormai affermatinell’élite europea, si erano liberati da quellosnobismo provinciale che li aveva inizialmen-te avvicinati ai Gherardesca; i Medici infatticonsideravano ormai come una consuetudineacquisita, e niente più, l’opera prestata a corteda questi conti, tanto che il granduca CosimoIII, nell’emettere una certa lettera di patente,concluderà il documento semplicemente rico-noscendo la «fedeltà e lo zelo» con cui i Ghe-rardesca avevano sempre «servito» i suoi pre-decessori24.

I Gherardesca, da parte loro, granduca do-po granduca, si erano sempre adoperati affin-ché venisse periodicamente riconfermata lavalidità del ben noto trattato di Accomandi-gia, ed erano così riusciti a salvaguardare, nel-la loro Contea maremmana, quei privilegi si-gnorili che soddisfacevano il loro antico sensod’indipendenza e che certamente costituivanoil più apprezzabile compenso per il loro «ser-vizio» ai Medici.

È vero che, sin dai primi anni dopo la fir-ma delle «Capitolazioni», Firenze aveva ten-tato di dar vita, nella Contea medesima, ad au-tonomie comunali, come nel caso di Donora-tico nel 1407, di Castagneto nel 1421 e di Bol-gheri nel 1530 (e questo ordine cronologico ciindica anche quale fosse, all’epoca, la rispetti-va importanza di queste tre comunità), ma èanche documentato che la pertinacia deiGherardesca, nel riaffermare l’antico propriodominio su dette popolazioni, aveva vanifica-to il progetto fiorentino e trovato nei Mediciun orecchio comprensivo che, fino a quel mo-mento, aveva consentito di salvaguardare ipoteri comitali sulle medesime. Basti pensareche, ancora nel 1639, il conte Ugo 3°, con suo

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 157

Veduta interna del palazzo della Gherardesca in Borgo Pinti a Firenze (proprietà SMI). Galleria lungo il portico

[fig. 23]

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25 AF, f. 13, n. 1, e f. 19, n. 36, a. 1695. 26 AF, f. 32.

personale decreto, elencò le dodici famigliecastagnetane dalle quali, e solo dalle quali,potevano essere tratte le persone cui affidarecariche comunali, sempre ben inteso doposua preventiva approvazione. Il medesimoprovvedimento fu reiterato nel 1695 dal conteGiulio Cesare della Gherardesca, anche innome dei fratelli25.

Con la morte di Ferdinando II e l’avventodi Cosimo III, qualche cosa di tutto questomarchingegno iniziò lentamente ad inceppar-si e non certo in senso favorevole al conserva-torismo dei Gherardesca, sempre meno in li-nea con l’evolversi dei tempi. Se il lungo ed i-netto governo di Cosimo, rappresentò l’avviodel definitivo declino dei Medici, fu anche l’i-nizio di quel processo che nell’arco di circaun secolo concluderà la lunga esperienza si-gnorile dell’antica casata comitale.

Simone Maria 4° e Piero, figli del conte Ugo 3°

I tre Gherardesca, Guido, Piero e SimoneMaria, che avevamo lasciato bambini, eranonel frattempo divenuti adulti. Da quanto hopotuto appurare dalle carte dell’archivio difamiglia, loro madre Lucrezia fu donna assaipia, che si sforzò d’inculcare nei figli i suoistessi sentimenti di religiosità, forse nella se-greta speranza di poterne avviare qualcunofra le braccia di Santa Romana Chiesa.

Mentre Guido, il primogenito, venne edu-cato per intraprendere quella vita pubblicatradizionalmente destinata al capofamiglia, Si-mone Maria fu affidato alle cure di Ippolitodella Gherardesca, suo cugino carnale, di soliquattordici anni a lui maggiore, che già eraavviato ad una discreta carriera ecclesiastica.

La sorte volle però che Ippolito, alla mortedel suo omonimo padre, avvenuta quando luicontava appena un anno di età, avesse eredi-tato Bolgheri e in quella tenuta di famiglia,anziché la vocazione religiosa, il pur piissimoSimone Maria 4° incontrò la vocazione per

l’imprenditoria agricola, in ciò incoraggiatodal suo stesso educatore e parente che, mo-rendo nel 1684, lasciò a lui in eredità questisuoi possessi. Prima di allora i due avevanoviaggiato in lungo e largo per gran parte del-l’Europa e da tali viaggi Simone Maria dovettetrarre molte esperienze in fatto di agricoltura,che gli tornarono utili allorquando pose ma-no all’ammodernamento della tenuta di Bol-gheri, cui si dedicò con impegno negli ultimiventi anni della sua vita.

Non si può invece dire che le proprietà ma-remmane della casata fossero state curate pri-ma di lui con la medesima sua buona volontà;è probabile infatti che i Gherardesca si sianopiuttosto preoccupati di amministrare al me-glio le tenute fiorentine, i cui prodotti trova-vano un mercato di vendita più conveniente evicino che non le loro troppo lontane terre diMaremma. Oltre a ciò i Gherardesca, a svan-taggio dei propri interessi agricoli maremma-ni, si erano soprattutto impegnati a conserva-re una strategica collocazione a corte, convin-ti che «il fuoco riscalda chi gli sta vicino».

Questo disinteresse aveva finito col ridurrequesti domini in stato deplorevole. Impaluda-te lungo tutta la fascia costiera, con la malariache imperava per molti mesi dell’anno e conla popolazione ridotta di conseguenza ai mi-nimi termini, tali proprietà avevano, per dipiù, risentito pesantemente delle ripetute af-fittanze «speculative»26 alle quali le avevanoassoggettate i Gherardesca, onde, con pocafatica, ricavarne quanto fosse stato loro possi-bile per finanziare in parte gli investimenti fa-miliari nell’area fiorentina e le opere d’abbel-limento eseguite sia alla villa di Mondeggi cheal palazzo di Borgo Pinti.

Quando Bolgheri cadde, sulle sue volente-rose spalle il conte Simone Maria 4° si trovòad affrontare un compito tutt’altro che facile.Il castello, malgrado gli interventi del passato,non era ancora certo tornato ad essere quelsuperbo maniero che i mercenari tedeschi ave-vano raso al suolo nel 1496. Simone Maria do-vette eseguirvi alcuni fondamentali lavori per

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 159

Veduta interna del palazzo della Gherardesca in Borgo Pinti a Firenze (proprietà SMI). Interno

[fig. 24]

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27 AF, f. 160, n. 17, a. 1704. 28 L. BEZZINI, Bolgheri. I luoghi, la gente, i misteri, la storia, Tip. Bandecchi e Vivaldi, Pontedera 1990, p. 18. 29 AF, f. 61, n. 2. 30 AF, f. 5, n. 2.

riattarlo ad un’abitabilità decorosa, ma, primad’impegnarsi in tale pur necessaria opera, vol-le dare un segnale della propria devozione cri-stiana e, poco distante dal castello, fece co-struire una cappella che dedicò a S. Antonioda Padova, protettore degli animali [fig. 25].Fu infatti al bestiame «brado e domo» chequesto Gherardesca volse le sue prime cureimprenditoriali, dando l’avvio alla realizzazio-ne delle prime grandi stalle per il ricovero deibovini e degli ovini. Non trascurò peraltro ilriordino colturale della tenuta, procedendopersino all’impianto sperimentale di alcuni vi-gneti da cui, come racconta Luciano Bezzininella sua opera su Bolgheri, provenne un vino«non dispiacente». Furono così cotruiti unacantina e nuovi magazzini per la conservazio-ne dei raccolti, nonché vari alloggi per il per-sonale addetto ai lavori agricoli e ricoveri perle attrezzature, resesi necessarie per affrontarecoltivazioni mai fatte fino ad allora.

La popolazione della Contea mostrò subitodi risentire il benefico effetto di tutte queste i-niziative e i suoi abitanti aumentarono rapida-mente di numero per l’afflusso di braccianti ecoloni attratti da nuove prospettive di lavoro.In mezzo a tanto fervor di opere, il conte Si-mone Maria non mancò di fornire un nuovosegnale della sua religiosità, facendo edificareun altro oratorio nei pressi della via Regia (og-gi Aurelia), che egli volle fosse dedicato a S.Guido della Gherardesca. Si tratta di quellacappella dall’elegante pianta ottagonale cheancora si può ammirare quasi all’imbocco delmagnifico viale di cipressi che conduce a Bol-gheri e che Giosuè Carducci, in età matura,cantò mirabilmente con una lirica stupenda,che tutti conoscono, e con il cuore colmo distruggente nostalgia per la trascorsa gioventùmaremmana. Anche nel cuore di Simone Ma-ria 4° albergò un altrettanto grande amore perquesta sua terra, al punto che, poco prima del-la morte avvenuta a Bolgheri nel 1704, lasciòdisposto che le sue spoglie mortali fossero tra-

sportate a Firenze per essere inumate nella SS.Annunziata, ma che prima ne venisse estrattoil «muscolo cardiaco», simbolo per gli uominidi ogni affetto, per essere sepolto, proprio lì,nella pieve della sua adorata Bolgheri27.

Se questo Gherardesca ha lasciato così tan-te tracce del suo fecondo operare, anche suofratello Piero cercò di non essere da meno de-dicandosi alla cura della vicina tenuta di Do-noratico. La sua cultura imprenditoriale nonera però così affinata come quella di SimoneMaria e pertanto non gli riuscì di dare alleproprie terre quel medesimo impulso innova-tore che trasformò profondamente la tenutadi Bolgheri. Con imprudente baldanza, eglicercò anche di «ricostruire in parte l’anticocastello su cui pesavano due secoli e mezzo diabbandono»28 e di sistemare ciò che restavadel circostante borgo [fig. 26]. Ce ne fornisceconferma lo statuto promulgato nel 1661 perla «comunità di Donoratico»29, e, assai piùtardi, nel 1816, uno scritto del conte GuidoAlberto della Gherardesca che fa riferimentoal «diruto paese» di Donoratico30 del qualeoggi non rimane più traccia alcuna. Il contePiero non ebbe comunque successo neppurecon questa iniziativa, che rimase solo fra lesue buone intenzioni.

Al primogenito Guido: cariche pubbliche e onorificenze

Mentre i suoi due fratelli minori si dedica-vano, con maggior o minor buon esito, alla cu-ra delle loro proprietà maremmane, il capofa-miglia, conte Guido, si era preoccupato inveced’impegnarsi soprattutto nella carriera pubbli-ca, dalla quale anche i suoi predecessori aveva-no tratto decoro e sostegno per la propria ca-sata. Egli fu tenuto infatti in gran conto da Co-simo III, il quale, tre anni appena dopo esserdivenuto granduca di Toscana, lo nominò se-natore; poi, nel medesimo anno 1673, lo fece

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Dal G

randucato dei Medici al R

egno d’Italia161Ricostruzione pittorica del castello di Bolgheri alla fine del 1600

Proprietà Gherardesca

[fig. 25]

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31 Il compenso annuo per tale carica arrivò fino a 5.000 scudi. 32 AF, f. 125. 33 AF, f. 134. 34 AF, f. 105, n. 2.

commissario e capitano di Arezzo, incaricoche Guido conservò fino al 168031. Del primoperiodo di questo settennale commissariato,desidero narrare un episodio di carattere mar-ginale, ma pur sempre di un qualche interessestorico per i Gherardesca. Mentre svolgeva lesue incombenze ad Arezzo, a Guido venne se-gnalato che nelle campagne vicino alla città vi-veva una famiglia assai povera di contadini cheportava lo stesso suo cognome. Incuriosito, ilconte della Gherardesca volle visitare quellamisera gente per meglio conoscerne il passato;ebbe così modo di apprendere che si trattava,a loro dire, di discendenti della schiatta comi-tale il cui progenitore, nel corso della breve Si-gnoria pisana di Castruccio Castracani, era sta-to da questi spogliato di ogni suo avere ed esi-liato da Pisa. Il fatto di per se stesso era plausi-bile, considerato l’ostile antagonismo che, inquel particolare periodo storico, animava fradi loro i Gherardesca e il Castracani, ritenutodai conti un usurpatore dei loro diritti di Si-gnoria sulla città; comunque di questa vicendanon sono riuscito a trovare traccia alcuna nénegli archivi né nei trattati storici. Guido tutta-via ne rimase impressionato e volle generosa-mente beneficare tali suoi supposti parenti.

Nel 1680, dopo l’esperienza aretina, Guidovenne nominato commissario e capitano diPisa e conservò tale incarico per ben quindicianni, cioè fino alla morte avvenuta nel 1695.Nel periodo in cui si trovò a risiedere a Pisa,egli alloggiò in un palazzo che i Gherardescapossedevano ancora in città e che era sito in viaS. Martino, nell’originario quartiere di Chinse-ca. Da un corposo carteggio con i segretaridel granduca, e in particolare col Panciati-chi32, credo di essermi fatto un’idea di qualifossero le incombenze di un commissario(che assimilerei a quelle di un governatore),ma soprattutto dei relativi non disprezzabiliemolumenti33. Nel 1683, il granduca volle an-cora una volta onorare il conte Guido, nomi-nandolo gran connestabile dell’ordine milita-re di S. Stefano. Malgrado tutte queste onori-

ficenze e cariche, Guido fu il primo dei Ghe-rardesca a non espletare funzioni a corte ed atenersi lontano, per i ventidue anni di vita chegli rimasero dopo la sua prima nomina a com-missario di Arezzo, da quel «focarello medi-ceo» al quale i suoi antenati si erano riscaldatiper tanto tempo.

Per quanto riguarda gli aspetti più privatidell’esistenza di questo personaggio, si puòintanto dire che, quale amministratore delsuo cospicuo patrimonio, il conte Guido nonlasciò impronte di alcun rilievo; nella condu-zione delle sue tenute agricole, ubicate sia interritorio fiorentino che in Maremma, egli sirimise soprattutto all’operato dei propri agen-ti, e ciò a causa, probabilmente, del poco tem-po disponibile che gli concedevano i suoi im-pegni commissariali. Unica iniziativa persona-le da lui presa a Castagneto, della cui tenuta e-ra titolare, fu quella d’istituire le feste annualiin onore a S. Guido, suo omonimo antenato,di cui si era preoccupato anche a Pisa, otte-nendo che le sue reliquie, conservate nella pri-maziale, fossero traslocate nell’altare del pa-trono della città, S. Ranieri.

Dal punto di vista familiare, il conte Guidofu ovviamente attento ad assicurare la conti-nuità della schiatta, compensando in abbon-danza l’inesistente propensione matrimonialedei due fratelli minori.

Il conte Ugo 4°, anomalo primogenito di Guido

Il suo primogenito fu subito un maschio e,more solito, venne chiamato Ugo; per noi saràil quarto della serie. Nato nel 1653, sin dalmomento del suo battesimo, in cui ebbe comecompare il granduca Ferdinando II e comecomare la granduchessa Maria Vittoria34, egliparve destinato al consueto trantran della vitadi corte. Ugo 4° fu invece un futuro capofami-glia anomalo, poiché a ventidue anni optò im-provvisamente per la carriera militare, andan-

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randucato dei Medici al R

egno d’Italia163Ricostruzione pittorica dei resti del castello di Donoratico alla fine del 1600

Proprietà Gherardesca

[fig. 26]

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35 AF, f. 147, n. 31, a. 1677. 36 AF, f. 440, n. 2.

do a combattere in Germania sotto le insegneimperiali austriache. L’anomalia consistette nelfatto che le carriere militari o ecclesiastiche, e-rano, ai suoi tempi, riservate ai soli figli cadettidelle famiglie aristocratiche, e ciò per consen-tire al primogenito un regolare proseguimentodella propria stirpe, ben al coperto dai rischiinsiti nella vita di un soldato e salvaguardatodalla... castità obbligatoria per un religioso.

Scartabellando fra le carte dell’archivioGherardesca, credo però di essere arrivato ascoprire le vere ragioni della vocazione guer-resca di Ugo, soprattutto scaturita dall’impel-lente necessità del denaro che gli occorrevaper la sua vita di gaudente «caposcarico» eche il padre invece gli lesinava. Spesso, scri-vendo al genitore dalla Germania, egli infattisi lamentava che la paga da ufficialetto gli erainsufficiente e... batteva cassa. Suo padre do-vette sfogarsene con il granduca, se è vero co-me lo è, che quest’ultimo decise di assegnaredi persona, al giovane spendaccione, una pa-ga mensile di otto scudi per tutto il tempoche egli fosse rimasto a fare il guerriero ed acombattere in terra straniera35.

Rientrato alfine in Italia dopo questa av-ventura in Germania, Ugo 4° parve volercontinuare ad alimentare i propri bellicosispiriti, e divenne capitano di una compagniadi corazzieri a cavallo della banda di BorgoS. Lorenzo. Nella Toscana di quei tempi, nonvi era però fortunatamente ombra alcuna diguerra, anche se in una lettera del conte Si-mone Maria 4°36, si accenna ad una spedizio-ne navale (forse contro i pirati turchi) allaquale Ugo stesso avrebbe partecipato. All’an-cor giovane Gherardesca non rimase pertan-to che far la vita di brillante ufficiale scapolofino al 1691, anno nel quale, con immagina-bile sollievo paterno, decise di mettere la te-sta a partito, sposandosi con Maria Virginia,della nobile famiglia fiorentina degli Ughi.

Considerando che Ugo 4°, al momento delmatrimonio, aveva già trentott’anni, c’era daattendersi un immediato suo impegno per as-sicurare una discendenza alla sua plurisecola-

re stirpe, cosa specialmente auspicata dall’or-mai anziano genitore. I due novelli sposi, in-vece, per vari anni, non sembrarono volersoddisfare tali legittime attese e così il poveroconte Guido morì, nel 1695, senza aver pro-vato la gioia di veder nascere almeno un nipo-tino dai suoi cinque figli maschi ancora viven-ti, dei quali soltanto uno, Tommaso Bonaven-tura, risultava giustificato per il fatto che, in-trapresa la carriera ecclesiastica, non potevacerto concorrere al soddisfacimento dei desi-derata paterni.

Alla scomparsa del conte Guido, il gran-duca volle dimostrare l’apprezzamento perl’opera da lui svolta prima ad Arezzo e poi aPisa, nominando il figlio Ugo suo successorenella carica di commissario di quest’ultimacittà. Sembrò quasi che la morte del padre ela nomina granducale avessero di colposbloccato in Ugo 4° qualche freno inibitore,poiché, ad iniziare dal 1696 e per i quindicianni che seguirono, egli riuscì a procrearecon la moglie la bellezza di ben undici figli diprevalente sesso maschile. In tardivo omag-gio al nonno defunto, il primogenito fu bat-tezzato Guido Filippo e, nella pomposa ceri-monia religiosa, il granduca in persona fu ilcompare del piccolo Gherardesca, mentre lacomare fu la principessa Violante Beatrice diBaviera, nuora di Cosimo III, in quanto spo-sa del suo primogenito Ferdinando. Vista labuona strada intrapresa, lasciamo ora Ugo 4°a fare il commissario granducale a Pisa, non-ché a mettere al mondo figli al ritmo di quasiuno all’anno, ed andiamo a vedere cosa nelcontempo facevano i suoi fratelli.

Il conte Tommaso Bonaventura, arcivescovo di Firenze

Di essi, quello di gran lunga più famoso, fuil citato Tommaso Bonaventura, che, sospintofin da giovanissimo da sincera vocazione reli-giosa, si era fatto sacerdote. Dotato d’intelli-genza vivacissima, non gli riuscì difficile salire

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37 AF, f. 296, n. 1, e f. 160, n. 18. 38 AF, f. 103, n. 17. 39 AF, f. 103, n. 17; f. 296, n. 1.

rapidamente gli scalini della gerarchia dellachiesa fiorentina. Già nel 1679, a soli venticin-que anni, venne nominato canonico del duo-mo di Firenze e, poco più tardi, «uditore dellapontificia nunziatura» per la Toscana, eserci-tando l’incarico di internunzio apostolico.

Fu appunto nella succitata veste che eglidette un primo significativo esempio della suaconvinta carità cristiana. Dovendo infatti pro-nunziare una sentenza per la quale una pove-ra donna veniva completamente spogliata diogni suo avere e, pertanto, di ogni possibilesostentamento per lei e la sua famiglia, Tom-maso Bonaventura si attenne con scrupolositàalla lettera delle norme e condannò la disgra-ziata, ma, al tempo stesso, dispose che le fossecorrisposto, dal proprio patrimonio persona-le, un indennizzo di identica misura a quantole era stato tolto.

Divenuto, con il tempo, decano del Capito-lo, Tommaso Bonaventura venne nominatovicario generale dell’arcivescovo cardinale Mo-rigia, ed infine, nel 1702, papa Clemente XIlo elesse a vescovo di Fiesole. Era però desti-no che un Gherardesca non riuscisse a starper molto a capo di quella diocesi, come set-tant’anni prima era accaduto al conte Cosi-mo; infatti anche Tommaso Bonaventura lalasciò appena un anno dopo, ma questa volta,fortunatamente, non già per sopravvenutamorte, bensì per impugnare il bastone pasto-rale alla guida dell’arcivescovato fiorentino.Egli resse tale diocesi, con grande autorità efermezza, per la durata di diciotto anni e la-sciò ragguardevoli tracce del suo operato. Nel1712, ad esempio, inaugurò il seminario dio-cesano di Firenze in via Cerretani, realizzan-do quanto non erano mai riusciti a fare i suoipredecessori. Invero, già nel 1687, il cardinaleMorigia aveva posato la prima pietra di que-sto grande edificio, ma l’opera non era andataavanti per sopravvenute difficoltà. TommasoBonaventura superò invece ogni ostacolo,non esitando nemmeno a profondere nel pro-getto alcune migliaia di scudi attinti dal suo

patrimonio personale.Di lui si ricordano inoltre, altri significativi

«impegni finanziari». Si narra infatti che, duevolte alla settimana, egli ricevesse in arcivesco-vato, i più miserandi della città e che sempre libeneficasse generosamente con denari proprie non già della diocesi. Si può ben immaginarela confusa ressa che si registrava in tali giorni,tanto che, una volta, un cavaliere suo assisten-te fece notare all’arcivescovo che l’eccessivainvadenza di quei poveretti, presto non avreb-be nemmeno risparmiato la sua stessa camerada letto. Tommaso Bonaventura rispose alloraallo zelante cavaliere: «Si ricordi che essi ven-gono solo a richiedere ciò che è loro»37.

L’arcivescovo fu pure personaggio di eleva-ta cultura e a lui si deve anche la costituzionedi un organico archivio diocesano. Pubblicò e-gli stesso alcuni trattati di argomento religiosoe, per uso della diocesi, volle che fosse adotta-to il catechismo detto di Montpellier, edito aParigi nel 1712 e tradotto in italiano dal fio-rentino Costanzo Grasselli sotto il titolo di I-struzione generale in forma di catechismo38. IlGrasselli aveva dedicato la propria opera al-l’arcivescovo e, quando la romana Congrega-zione dell’Indice pose il libro al bando, il pri-mo a soffrirne profondamente, nell’animo enel fisico, fu proprio Tommaso Bonaventura.L’arcivescovo, che già da tempo lamentava di-sturbi polmonari, ebbe un blocco renale il 5settembre 1721 ed in poche ore rese l’anima aDio, con rimpianto sincero della chiesa e delpopolo tutto di Firenze. Fra le varie caricheche egli aveva ricoperto in vita, vi furono an-che quelle di «prelato domestico» di papa Cle-mente XI, di «assistente al soglio pontificio» edi «principe del Sacro Romano Impero»39.

L’acquisto di una villa con tenuta agricolaa Fiesole

Nell’anno medesimo della dipartita diTommaso Bonaventura, si spense anche suo

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166 I della Gherardesca

40 AF, f. 180, nn. 1, 6, 8. 41 AF, f. 186. 42 AF, f. 14, nn. 1, 2, e f. 65, n. 31. 43 AF, f. 14, n. 10.

fratello Ugo, ma di ciò parleremo dopo averaccennato ad un’iniziativa del conte GiulioCesare, ultimogenito della nidiata messa almondo dal conte Guido e Laura Guadagni,sua moglie. Quest’ultimo Gherardesca nonebbe discendenza, malgrado che, oltre natu-ralmente ad Ugo 4°, fosse stato l’unico a spo-sarsi fra i tanti suoi fratelli; egli non lasciò no-tizie di risalto della sua vita, salvo quella di a-ver acquistato nel 1709 una villa (La Torrac-cia o Lo Stipo), ubicata in quel di Fiesole ecorredata da alcuni poderi che andarono acostituire la terza tenuta di famiglia in territo-rio fiorentino40. Incidentalmente, anche il fra-tello Ugo aveva notevolmente ampliati i pos-sesi dei Gherardesca in Mugello, con l’acqui-sto di altri appezzamenti di terra provenientidalla famiglia Lavoratori41.

Le prime avvisaglie dell’imminente perdita di ogni autonomia dei Gherardesca nella loro Contea maremmana

Prima di concludere la rassegna delle piùsalienti figure della numerosa figliolanza delconte Guido, occorre accennare ad un parti-colare evento che si verificò nel 1716. Proprioin quell’anno infatti i Gherardesca si trovaro-no a dover inoltrare una supplica al granducaaffinché venisse loro «restituita» la giurisdi-zione civile, criminale e mista nella loro Con-tea di Maremma42, che da qualche anno erastata da essi stessi fatta esercitare dal capitanofiorentino di Campiglia. La grazia richiestavenne concessa ma per una durata di soliquindici anni (dal 1716 al 1731). La nuovaprocedura, in tal modo instauratasi, rappre-sentò un allarmante segnale di un mutamentoin corso negli automatismi del famoso «vica-riato perpetuo», con annessi e connessi. Evi-dentemente anche Cosimo III, pur nella suaincapacità di governo, avvertiva ormai l’im-possibilità di protrarre ulteriormente nel tem-po l’anomalo regime tuttora vigente nell’en-

clave dei Gherardesca e sentiva l’opportunitàdi porvi in qualche modo la parola «fine».Dopo questo suo timido primo passo, il gran-duca non ebbe modo di procedere oltre neisuoi intenti, essendo morto nel 1723, cioè as-sai prima di arrivare al termine di scadenzaconcesso, e pertanto non si può stabilire sefosse sua reale intenzione o meno, di dare, nel1731, un ulteriore giro di vite all’autonomiasignorile della famiglia comitale.

È un dato invece certo che Gian Gastone,suo degenere figlio e successore, dimenticòpersino la scadenza in parola e lasciò che, nel-le more, i Gherardesca continuassero imper-territi ad esercitare, nella propria Contea, queipoteri che essi consideravano «perpetui» eche Cosimo III aveva invece riconfermato lo-ro solo per un quindicennio. Soltanto sei annipiù tardi, e cioè nel 1737, Gian Gastone de’Medici, ormai quasi sul letto di morte, reiteròai Gherardesca la grazia giurisdizionale per u-na durata di ulteriori quindici anni43. Quandodunque l’ultimo dei Medici rese l’anima a Dio,la casata comitale riuscì, in extremis, a farsi ri-confermare quegli antichi privilegi di cui eragelosissima, anche se, forse, si rendeva ormaiconto della precarietà della situazione, soprat-tutto ora che le veniva a mancare la protezio-ne di quei principi ai quali si era affidata perdue secoli e mezzo.

Infatti, nella facile previsione di una estin-zione dei Medici, il trattato di Vienna del1735 aveva già assegnato il Granducato di To-scana a Francesco di Lorena; l’incognita di u-na tale successione «straniera» doveva senzadubbio turbare i Gherardesca, quasi quantolo aveva fatto in passato il loro traghettare dalcontesto di Pisa a quello di Firenze, con ilconseguente sofferto inserimento della fami-glia nella nuova realtà politica. Si può quindiimmaginare con quale trepidazione tutta lacasata comitale dovesse attendere l’arrivo inToscana del nuovo granduca.

Ma chi furono i membri della schiatta arappresentarla in quell’epoca di transizione?

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 167

44 B. CASINI, Il Priorista e i Libri d’oro del Comune di Pisa, Olschki, Firenze 1986, p. 88.

I figli del conte Ugo 4°

Avevamo lasciato il conte Ugo 4° a... far fi-gli; ripartiamo perciò proprio da lui che, co-me già detto, fu l’unico fra i tanti fratelli a sal-vare, e con buon margine di sicurezza, la ca-sata dall’estinzione. Dopo il menzionato pri-mogenito Guido Filippo, seguirono con rit-mo incalzante altri dieci pargoli (sei maschi equattro femmine), che, salvo uno, superaronotutti indenni gli anni critici della prima infan-zia. I Gherardesca, in questa loro ventiquat-tresima generazione storica, come del restonelle due precedenti, non soffrirono dunquedi carenze in fatto di eredi che potessero assi-curare una tranquilla continuità della stirpe.Potremmo addirittura esclamare «troppa gra-zia S. Antonio», se non dovessimo però subi-to rilevare che, dei sette maschi nati, uno, Fi-lippo, morì, come già detto, ad appena dueanni d’età; il secondogenito, Carlo, non si spo-sò e visse a lungo a Pisa, noto soltanto per isuoi successi nel Gioco del Ponte ma ancheper essere stato «Priorista» del comune citta-dino negli anni 1733, 1756 e 176544; altri trefratelli, Gherardo, Bernardo e Bonifazio, sifecero religiosi ed infine l’ultimo, Giuseppe,

volle divenire cavaliere di Malta e frate gero-solimitiano, facendo voto di castità, pur rima-nendo a vivere allo stato laicale.

In un modo o nell’altro, resta il fatto che alsolo primogenito Guido Filippo, fu deman-data l’incombenza di «pensare alla famiglia».Dopo essersi goduto il celibato fino all’età ditrentasei anni, egli cominciò infatti a «pensar-vi» sposando Virginia, figlia del conte senato-re Cammillo Pandolfini, e dando subito inizioad una schiera di sette figli, con l’ormai con-sueta prevalenza di eredi maschi.

Il primogenito, con abituale poca fantasia,fu battezzato Ugo e sarà il numero cinquedella sua serie, ma, a Dio piacendo, anchel’ultimo, poiché in seguito si trovò il coraggiodi rispolverare il più compromettente ma an-che più storico appellativo di Ugolino, dandocon ciò l’avvio ad una nuova sequela di cui ilsottoscritto si trova a far parte. Del precitatoUgo 5° parleremo nel capitolo seguente, poi-ché, con l’arrivo a Firenze del granduca Pie-tro Leopoldo I, sarà proprio lui e la sua gene-razione ad essere coinvolto «nell’effettivo» i-nizio operativo del Granducato dei Lorena,con quanto ne seguì per i Gherardesca.

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Francesco I di Lorena e il suo governo «fantasma»

Spentosi l’ultimo dei granduchi medicei, iFiorentini, con una certa curiosità, atteserodi far la conoscenza con il loro nuovo princi-pe, il quale, autodefinendosi Francesco I,parve quasi voler sottolineare una netta frat-tura con un passato, durante il quale, con iMedici, già si era annoverato un granducadello stesso nome e della medesima numera-zione progressiva. Appariva lampante che,con tale sua prima decisione, il Lorena inten-desse simbolicamente prendere le distanzedai suoi predecessori; la cosa non dispiacquein modo particolare a Firenze, dove i Medici,nonostante i gloriosi trascorsi della loro casa-ta, non erano mai stati troppo amati dai pro-pri sudditi. Il nuovo granduca si fece però at-tendere per quasi due anni e quando, nel1739, con una fastosa cerimonia, alfine s’in-sediò a Palazzo Pitti, vi si trattenne appenatre mesi, ripartendone poi, per mai più farviritorno.

Francesco di Lorena aveva sposato MariaTeresa, unigenita figlia dell’imperatore d’Au-stria; per comprensibili ragioni non intende-va quindi trovarsi lontano da Vienna quandosi fosse aperta la successione al trono degli A-sburgo. Fu questo il motivo per cui la Tosca-na rimase orfana della presenza fisica del suoprincipe, il quale si limitò a governarla dalontano affidandosi, in loco, ad una reggenzadi sua fiducia. Quando poi, nel 1745, France-sco I divenne a Vienna il nuovo imperatore,volle conservare anche il titolo di granducadi Toscana e così la precitata reggenza si pro-trasse oltre ogni prevedibile limite. Alla suamorte, avvenuta vent’anni dopo, sul trono

imperiale subentrò il figlio maggiore Giusep-pe, mentre divenne granduca di Toscana ilsecondogenito Pietro Leopoldo che, all’epo-ca, contava appena diciott’anni.

Andiamo ora a vedere che cosa era acca-duto ai Gherardesca nel periodo di tempointercorso fra la morte di Gian Gastone de’Medici e l’ormai prossimo arrivo a Firenzedi Pietro Leopoldo I, che i Fiorentini, a tor-to, ritenevano ancor troppo giovane per as-sumere efficacemente le redini del governogranducale. Sappiamo che il conte GuidoFilippo aveva impalmato la contessina Virgi-nia Pandolfini e con lei aveva sollecitamenteimpostato un numeroso stuolo di fanciullet-ti che ebbero il potere di far svanire ogniqualsivoglia apprensione al riguardo di unaestinzione della schiatta. Già abbiamo fattoanche la conoscenza del loro primogenitoUgo 5°, ed ora non resta pertanto che dareun rapido sguardo per vedere chi erano eche fecero gli altri sei figli di Guido Filippoe Virginia, premettendo che tre di essi (duefemmine e un maschio) morirono in teneraetà.

Prima occorre però accennare ad un even-to che, nel 1749, ebbe un rimarchevole in-flusso sul futuro dei Gherardesca. Il 21 apriledi quell’anno, il granduca fece promulgare u-na legge, poi detta «Legge sui Feudi», concui intese procedere ad un riordino di taleobsoleto istituto medievale, sotto il cui regi-me tuttavia ricadeva ancora la maggior partedelle proprietà fondiarie in Toscana. Non ap-pena la nuova normativa venne pubblicatanel Granducato, due «suppliche» di segnoopposto furono prontamente inoltrate. Unafu diretta dai Gherardesca a Vienna a SuaMaestà Cesarea affinché si degnasse di di-

CAPITOLO TERZO

I Lorena e la controversia sull’autonomia della Contea

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1 AF, f. 67, n. 1. 2 AF, f. 60, n. 17. 3 AF, f. 296, n. 11, a. 1777. 4 Il conte Ugo versò la somma di 200 scudi al camarlingo imperiale.

chiarare che la loro Contea restava esclusadai dettami della nuova legge1; l’altra fu, piùmodestamente, indirizzata dai Castagnetani aFirenze alla Reggenza per la Toscana, per la-mentarsi del «mal governo» dei Gherardescastessi e per richiedere che la «Legge sui Feu-di» venisse automaticamente estesa anche al-la Contea2.

Ad avallo della propria supplica, la casatacomitale sostenne la tesi che il suo dominio suquella parte del litorale toscano, che ancoraallora era segnato sulle carte geografiche co-me «la Gherardesca», godeva già da primadella firma dell’arcinoto trattato del 1405 conla Repubblica Fiorentina, di una propria «giu-risdizione totalmente indipendente» e che sela Contea medesima fosse stata inclusa fra ifeudi, si sarebbe contravvenuto al preciso ac-cordo di «vicariato perpetuo» solennementesancito da Firenze proprio nelle clausole delle«Capitolazioni in Accomandigia». In tutt’al-tre cose affaccendato, Francesco I non detteriscontro né ai Gherardesca né, indirettamen-te, ai loro sudditi castagnetani, e le cose rima-sero come stavano prima, senza che la fami-glia comitale si curasse di farsi iscrivere nelLibro dei Feudi, istituito a norma della pre-ciatata legge. Il conte Guido Filippo, sostenu-to il primo impatto con questa «grana», nonne poté vedere i successivi sviluppi, poichépassò a miglior vita nel 1755, lasciando che,con la faccenda, se la sbrigassero i suoi figli.Veniamo dunque a questi Gherardesca chevissero negli ultimi anni della reggenza e chevidero arrivare a Firenze il nuovo e secondogranduca Lorena.

Cammillo della Gherardesca alle prese con il granduca Pietro Leopoldo I

Per un rapido esame, partirò da Cammillo,secondogenito di Guido Filippo, che, portatoper vocazione alla carriera militare, assolse al

ruolo di figlio cadetto e a vent’anni, per ren-dersi economicamente indipendente e perconquistarsi un po’ di gloria, si arruolò nell’e-sercito imperiale austriaco, andando a guer-reggiare in Germania, come prima di lui ave-va fatto suo nonno Ugo 4°. Cammillo militòprima a Friburgo e poi a Brünn, in Moravia,dove, come alfiere del reggimento Piccolomi-ni, nel 1756 combatté con onore contro letruppe di re Federico di Prussia. Due annipiù tardi fu all’assedio della fortezza diSchweinitz in Slesia, ma durante tali combat-timenti cadde prigioniero del nemico e dallaprigionia fu riscattato solo alcuni anni dopo.Non dovette tuttavia trattarsi di un «soggior-no obbligato» troppo duro, perché, a quantopare, riuscì persino a conoscere il re di Prus-sia, tanto che in seguito Cammillo a lui invieràin omaggio un dipinto raffigurante il conte U-golino3. Suo fratello maggiore Ugo 5°, che gliera molto affezionato, si preoccupò tuttaviaper questa prigionia e, per riscattarlo al piùpresto dalla medesima, non esitò a recarsi aVienna nel 1760, per trattare le condizioniper un suo rilascio. In tale circostanza, Ugo,non ancora trentenne, ma dotato di buon fiu-to e di abbastanza cervello, prese lo spuntoper riaccostarsi al «fuocherello imperiale e nelcontempo granducale», ottenendo di farsi no-minare ciambellano di Francesco I. Il suoviaggio ebbe pieno successo, poiché, oltre aconseguire la liberazione del fratello, il conteUgo rientrò in Italia con l’onorofica nominain tasca, anche se con meno scudi in borsa,dato che aveva dovuto versare il riscatto perCammillo e che anche la nomina a ciambella-no gli era stata fatta... pagare abbastanza lau-tamente4.

Il «riscattato» Cammillo si trattenne inveceper alcuni anni ancora a Vienna, dove conti-nuò a militare nell’esercito austriaco con ilgrado di luogotenente, ma nel 1763 dovettecongedarsi per far ritorno in Toscana, dove lasua presenza era reclamata dal malfermo stato

170 I della Gherardesca

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5 AF, f. 67, n. 4, a. 1769. 6 AF, f. 67, n. 9, a. 1769.

di salute del fratello maggiore e dalla conse-guente necessità di affiancarlo nell’ammini-strazione del cospicuo patrimonio familiare.Ormai per il conte Ugo 5° si avvicinava il tra-guardo della breve sua esistenza terrena, edinfatti spirò a Bolgheri, nel 1767, senza lascia-re alcuna discendenza in quanto scapolo escaricando dunque sulle spalle del fratello leincombenze di capofamiglia.

A questo punto, Cammillo, da buon mili-tare, fece i suoi piani ed effettuò due mosseche reputò strategicamente opportune. Laprima fu quella di accostarsi lui pure al po-tenziale «focherello», facendosi nominareciambellano del nuovo granduca Pietro Leo-poldo I; la seconda, altrettanto prudente, fuquella di sposarsi al più presto, impalmandonel 1768 Teresa, figlia del marchese senatoreVincenzo Riccardi, e cercando di assicurarsiquella discendenza, cui non aveva provvedu-to il conte Ugo 5° e che non poteva essereprocurata dagli altri due fratelli di Cammillo.Il primo di essi infatti, Tommaso Bonaventu-ra, omonimo dell’arcivescovo suo predeces-sore, si era fatto anche lui sacerdote; il secon-do, Neri, detto «il Gobbo», come dà ad in-tendere il soprannome, era persona fisicamen-te menomata. La strategia di Cammillo riscos-se buon esito sotto l’aspetto dinastico, ma unpoco meno per quanto riguarda i rapporti conil granduca.

Pietro Leopoldo infatti, giunto in Toscanagiovanissimo ed accolto con poco credito, po-se invece subito mano, con inaspettata ener-gia, ad un riassetto del suo Stato, che l’inetti-tudine degli ultimi Medici e la successivatrentennale inerzia della reggenza avevano ri-dotto in condizioni alquanto deplorevoli. Frale tante sue iniziative, il principe riprese an-che in mano la famosa legge paterna sui feudie quasi immediatamente rilevò che i Gherar-desca non erano iscritti nell’annesso libro. Ilgranduca non frappose allora tempo in mezzoe, forse ignorando i secolari precedenti che a-vallavano la libera, o quasi, Signoria della fa-miglia comitale nella Contea, deliberò con

«motu proprio» del 1769 che «tutte le leggigranducali, inclusa quella sui feudi», fosseroimmediatamente pubblicate nella Contea me-desima e contemporaneamente venissero a-brogate «tutte quelle emanate dai conti dellaGherardesca»5. Non è difficile immaginare losconcerto che tale «diktat» provocò nei Ghe-rardesca stessi; ma prima d’inoltrarmi nel re-soconto di questa vicenda, parlerò della se-conda mossa fatta da Cammillo. La novellasposa, Teresa, era purtroppo dotata di salutecagionevolissima e ciò non poté non avereun’influenza negativa sulle sorti della discen-denza bramata dal consorte. Tanto per co-minciare, i primi quattro figli, nati in rapidasuccessione fra il 1768 e il 1773 e tutti di ses-so femminile, morirono nel primo anno di vi-ta, ad eccezione di Giulia che sopravviverà, fi-no ad andare sposa al conte Ferrante Cappo-ni ma poi morirà a soli ventitré anni. Come senon bastasse, la contessa Teresa si ammalògravemente nel 1774 e per circa un lustro, conimmaginabile preoccupazione e disappuntodel marito, dovette soprassedere ad ogni «pia-no dinastico».

Non si può quindi asserire che in quei gior-ni il futuro del povero conte Cammillo si pro-filasse tutto rose e fiori, tanto più che, dal1769 al 1775, la controversia con il governogranducale circa l’effettivo stato giurisdizio-nale dell’enclave di famiglia, si consumò, per-venendo ad una inaspettata e sfavorevole so-luzione. Infatti dopo l’emanazione del citato«motu proprio» di Pietro Leopoldo I, i Ghe-rardesca avevano fatto immediata opposizio-ne, chiedendo che, come previsto dalle «Ca-pitolazioni» del 1405, della questione venisseinvestita la magistratura della Pratica Segreta.L’istanza venne accolta, ma l’uditore dellaPratica, bontà sua, assegnò alla casata comita-le un termine di solo otto giorni per produrrele ragioni e i documenti che comprovasserol’origine allodiale degli antichi domini dellaprogenie6. Immediata nuova istanza dei Ghe-rardesca affinché fosse loro assegnato un ter-mine di tempo più congruo, e conseguente

Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 171

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7 AF, f. 67, n. 13, a. 1770. Era evidente che anche il nuovo termine accordato era insufficiente a consentire una seria ri-cerca documentale che per la maggior parte avrebbe dovuto essere effettuata presso archivi diversi da quello di famiglia,sparsi in città come Lucca, Pisa, Siena, Volterra e Massa Marittima.

8 AF, f. 68. 9 AF, f. 67, n. 30, a. 1775.

10 AF, f. 67, n. 32, a. 1775.

concessione di un ulteriore rinvio di... duemesi7. Era dunque evidente la fretta del gran-duca di veder presto risolta la questione chesembrava stargli particolarmente a cuore. Lavertenza, da quel momento, di rinnovo in rin-novo, si trascinò invece per oltre cinque anni,con un batti e ribatti di comparse e contro-comparse che non riuscirono ad avviare la litenella direzione voluta da Pietro Leopoldo.

I Gherardesca, nel frattempo, per la difesadei propri interessi, si erano rivolti ai lumi delprofessor Migliorotto Maccioni, insigne giuri-sta e storico dell’Università di Pisa. Il profes-sore, accettando l’incarico, mise mano conimpegno alla stesura di un’opera documenta-le di vastissime proporzioni, con la quale in-tendeva dimostrare le antichissime e ricono-sciute origini allodiali del territorio della Con-tea e quindi la validità dei poteri signorili che,da secoli, i Gherardesca vi esercitavano. Nonè questa la sede più appropriata per esamina-re nei dettagli la monumentale tesi difensivaimbastita dal Maccioni che, nel predisporla,ricorse, per la verità, a qualche discutibile ar-tificio dovuto più alla sua cultura di avvocatoche non a quella di storico; se il lettore lo de-sidera, potrà comunque farsi un’idea di come,dopo il 1405, stessero le cose nel precitato en-clave, scorrendo rapidamente l’inserto 3, ri-portato nell’Appendice al presente lavoro.

Di fronte a questa poderosa Difesa del do-minio dei Conti della Gherardesca sopra la Si-gnoria di Donoratico, Bolgheri, Castagneto ecc.,ecc., il Fisco granducale ribatté con una stri-minzita e carente Confutazione delle scritturefatte a difesa del presunto dominio ecc., ecc.; ildocumento dell’avvocatura del granduca ap-parve subito troppo povero di argomentazio-ni valide a sostenere la tesi gradita da PietroLeopoldo di Lorena e la vertenza continuò adattorcigliarsi in un susseguirsi, apparentemen-te interminabile, di «osservazioni» e «contros-servazioni»8; già si andava così profilando una

riconferma di quei benedetti patti di Acco-mandigia, con annessi e connessi, che il gran-duca voleva assolutamente abrogare, onde eli-minare il fastidioso ed incongruente intoppoche il regime in vigore nella Contea Gherar-desca rappresentava per la moderna riorga-nizzazione dello Stato programmata da PietroLeopoldo. I tempi del resto erano certamentematuri per farlo, tanto più che in Francia siandavano delineando le prime minacciose av-visaglie di quella grande rivoluzione liberale,che, a breve, avrebbe prima sconvolto quelPaese e poi l’Europa tutta.

Pietro Leopoldo, che era un governantedecisionista e capace, non attese allora che lavertenza giungesse ad una conclusione a luisgradita, ed il 17 aprile 1775 tagliò corto, or-dinando con altro suo «motu proprio» che iterritori della Contea Gherardesca venissero«d’allora in poi considerati come i rimanentidel Granducato»9, confermando implicita-mente, con tale formulazione del rescritto,che fino a quel momento l’enclave della fami-glia comitale era stato un’entità, sotto vari a-spetti, distinta dal Granducato medesimo. IGherardesca non possedevano più l’antica vi-goria per potersi opporre a tale perentorio or-dine del principe e dovettero pertanto... chia-nare il capo. Il 17 dicembre di quel medesimo1775, il conte Cammillo giurò dunque come«feudatario» di Bolgheri, Castagneto e Dono-ratico, e come tale ebbe l’investitura grandu-cale10, dopo aver sborsato, per ironia dellasorte, una somma di circa 62 scudi per dirittigovernativi connessi a tale, da lui poco gradi-to, «onore». Non parliamo poi di quanto sitrovarono a pagare i Gherardesca per saldaretutte le spese, inclusa la salatissima parcelladel Maccioni, conseguenti alla lunga vertenzacon il Fisco; limitiamoci solo a segnalare la fa-stidiosissima serie di obbligazioni minori chea loro derivarono per essere, contro voglia,divenuti dei feudatari [fig. 28]. Unica magra

172 I della Gherardesca

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Il conte Cammillo della Gherardesca con la seconda moglieProprietà Gherardesca

[fig. 27]

Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 173

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11 AF, f. 310, n. 28 bis. 12 AF, f. 310, n. 26, a. 1788. 13 Quasi un secolo dopo, la villa di Appeggi fu rivenduta da Ugolino, nipote del conte Cammillo. 14 L’autore a Castagneto Carducci ha ristrutturato una villa di campagna, ricavandola dal podere di Montepergoli di Sot-

to, fatto costruire nel 1790 dal conte Cammillo. 15 Nell’archivio dei della Gherardesca vi è una lettera di Alessandro Volta che ringrazia il conte Cammillo per la presen-

tazione fattagli allo Ximenes. 16 AF, f. 310, n. 21, a. 1785. 17 AF, f. 296, n. 13, a. 1783.

consolazione fu quella di rivedersi assegnarela giurisdizione nella Contea per le cause civi-li, criminali e miste, con facoltà di accedereanche a quelle che potevano concludersi conla pena di morte.

Le tante suppliche inoltrate dai Castagne-tani al granduca fino almeno al 179911, stannoa dimostrare che quest’unico privilegio con-cesso non risultò affatto gradito agli ex suddi-ti, mentre rappresentò una sia pur modestafonte d’introiti per i Gherardesca, ai quali,come informa una lettera indirizzata nel 1788dal vicario di Castagneto al conte Cammillo12,competeva l’incasso delle pene pecuniarie edelle entrate giurisdizionali.

Ma i guai per Cammillo non erano ancoraterminati poiché, come ho accennato, in queimedesimi anni la moglie si ammalò grave-mente e, dopo la non brillante serie iniziale,non fu più in grado di sopportare gravidanze.Sembrava proprio che la mala sorte si volesseaccanire contro la casata comitale, minaccian-done ancora una volta l’impoverimento e l’e-stinzione. Invece Teresa, nel giro di cinqueanni, recuperò abbastanza salute da concepi-re e dare alla luce, nel 1780, un erede maschioalquanto gracile ma in grado di sopravvivere,cosa non di poco conto se si considera che al-tri due fratellini nati dopo di lui, Maria Annae Vincenzo, morirono entrambi nella primis-sima infanzia. Si possono ben immaginare leassidue cure che i genitori dedicarono all’uni-co figlio maschio, cui fu apposto il nome diGuido Alberto e sul quale, gioco forza, siconcentrarono tutte le speranze dinastichedella casata. La nascita di un erede sembrò ri-dare un nuovo scopo alla vita del conte Cam-millo che, sulle ali di un ritrovato entusiasmo,nel 1781, acquistò la bella villa di Lappeggi,con l’annessa tenuta medicea che confinavacon Mondeggi13.

Anche se scarsamente portato alla condu-zione agricola delle proprie tenute (pur es-sendo stato accolto nel 1771 a far parte dellaprestigiosa Accademia dei Georgofili) , Cam-millo intuì la fondamentale importanza di daravvio a programmi di bonifica idraulica delleterre maremmane. In tale opera usufruì delprezioso aiuto del noto scienziato fiorentino,abate Ximenes, che, esperto del problemaper aver eseguito altri lavori analoghi lungo illitorale toscano, progettò una rete di smalti-mento delle acque palustri, convogliandolenel torrente Bufalareccia, che da allora fudetto «fossa Cammilla». Molti terreni di pia-nura vennero così recuperati alla coltivazio-ne, mentre nuove unità poderali furono rea-lizzate in collina14 con impianto di vigne edoliveti; questa parte della Maremma Pisana,ai primi del Milleottocento, iniziò così quelprocesso di riscatto colturale che la porterà adivenire una delle più belle plaghe esistenti inToscana.

Il conte Cammillo era attratto da ogni pro-gresso della scienza moderna, allora ai suoiprimi albori. Fu anche in rapporti con Ales-sandro Volta che volle presentare allo Xime-nes15, di cui Cammillo fu sempre grande esti-matore e sostenitore, tanto che l’astronomo,morendo, lascerà ai Gherardesca il compitodi suoi esecutori testamentari16. Anche il gran-duca incoraggiò questi entusiasmi di Cammil-lo e, quasi in segno di riconciliazione per ladelusione «feudataria» infertagli, dal 1783 loricoperse letteralmente di onorificenze e cari-che, fra l’altro, ben remunerate. In quell’annoil conte della Gherardesca fu infatti nominatoprimo brigadiere delle guardie nobili, mag-giore delle truppe reali, balì di Massa Maritti-ma del militare ordine di S. Stefano e, in ulti-mo, luogotenente dell’opera della SS. Annun-ziata di Firenze17.

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Ordinanza granducale riguardante alcuni obblighi dei feudatari toscani (AF)

[fig. 28]

Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 175

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176 I della Gherardesca

18 CASINI, op. cit., p. 88.

Sei anni dopo, nel 1789, Cammillo fu an-che gonfaloniere del comune di Pisa18. Anchela contessa Teresa aveva riacquistato la gioiadi vivere, malgrado che, dopo la festeggiatissi-ma nascita dell’erede maschio, le fosse nata esubito deceduta una figlioletta. Nell’archivioGherardesca ho rintracciato infatti la notiziache, in una festa per il carnevale del 1784, ella«cantò da buffo» in un teatro di Pistoia, ri-scuotendo un vivo successo e facendo con ciòarguire che, a dispetto delle tante disavventu-re fisiche e delle ripetute dolorose esperienzematerne, doveva conservare uno spirito viva-cemente allegro. Ma quanto minava Teresa, e-ra sempre in agguato e ricomparve improvvi-samente dopo che ella ebbe partorito un’ulti-ma figlia. Nel 1791, quando contava solo qua-rantasei anni di età, si riammalò, questa voltasenza speranze, morendo di lì a poco di tu-more. Al momento del trapasso, degli otto fi-gli da lei messi al mondo, ne rimanevano invita solamente tre: Giulia, che morirà appenadue anni dopo la madre, Guido Alberto edinfine l’ultima nata, Maddalena, che più tardiandrà sposa al marchese Giuseppe Corsi e di-verrà la madre di quel cardinale ed arcivesco-vo di Pisa, che patrocinerà la santificazione diWalfredo, leggendario capostipite della schiat-ta, e la beatificazione della camaldolese Ghe-rardesca. Prima ancora che Teresa spirasse, leera morto di pochi mesi, come già sappiamo,un secondo erede maschio, Vincenzo, che,più tranquillamente, avrebbe potuto assicura-re la continuità della schiatta destinata invecead affidarsi al solo Guido Alberto, la cui salu-te rappresentò sempre una fonte di costantipreoccupazioni per il padre.

Prima di procedere oltre, occorre ricordareche nel 1790 si era spento a Vienna l’impera-tore Giuseppe, fratello di Pietro Leopoldo, eche quest’ultimo era stato chiamato a succe-dergli sul trono austriaco. In Toscana, comegranduca, gli subentrò il ventunenne primo-genito Ferdinando che, questa volta, a simbo-

lica continuità del principato mediceo, vollechiamarsi Ferdinando III. Per quanto riguar-da i rapporti con i Gherardesca, il nuovogranduca nominò subito come suo «paggiomagistrale» il piccolo Guido Alberto, riassog-gettò Cammillo alla cerimonia dell’investiturafeudale e, pochi anni dopo, armò l’ancor mi-norenne Guido Alberto, cavaliere dell’ordinedi S. Stefano.

Mentre a Firenze si registravano questi av-venimenti secondari riguardanti l’ambito ri-stretto dell’antica casata comitale, in Franciaera scoppiata quella rivoluzione che stravol-gerà l’assetto politico d’Europa e, con essa,anche quello della Toscana. Nel contempo,come spesso avviene in molte famiglie fra pa-dre e figlio, Ferdinando III cercava di affer-mare una propria personalità ripudiando lalungimirante politica adottata da Pietro Leo-poldo ed abrogando alcune delle fondamen-tali riforme economiche da questi volute. I to-scani non rimasero pertanto ben impressiona-ti dall’avvio del governo del giovane principee non si rattristarono più di tanto quando, nel1799, egli dovette precipitosamente abbando-nare il Granducato sotto l’incalzare delletruppe napoleoniche, comandate dal generaleGaultier. La rivoluzione francese era dunqueapprodata anche in Toscana e i Gherardesca,come tutti del resto, si trovarono a confron-tarsi con il nuovo quadro politico che ne erascaturito. Pochi anni prima, con la presa dellaBastiglia a Parigi, si era convenzionalmenteconclusa quell’epoca che sarà poi detta EvoModerno e nel corso di tale ciclo storico lacasata comitale si era vista declassare la pro-pria Signoria nella più modesta investiturafeudale. Ora, all’inizio dell’Evo Contempora-neo, il conte Cammillo fece un ulteriore arre-tramento passando da «conte della Gherarde-sca» a semplice... «cittadino della Gherarde-sca», così come egli stesso fu costretto a quali-ficarsi in un’istanza rivolta al generale che co-mandava le truppe francesi in Maremma.

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1 Da una lettera indirizzata al conte Cammillo da un suo amministratore, Antonio Fabbri, risulterebbe che nel 1801 ilcanonico Tommaso Bonaventura venne nominato vescovo di Arezzo ma che egli, per motivi di salute, non accettò l’inca-rico.

Al momento dell’occupazione francese del-la Toscana, la famiglia Gherardesca, numeri-camente parlando, era veramente ridotta aiminimi termini storici. Nel 1799 ne risultava-no infatti tuttora viventi, solo quattro membriequamente suddivisi in due generazioni. Del-la prima di esse facevano parte il canonicoTommaso Bonaventura1 e l’ormai sessantacin-quenne conte Cammillo; della seconda i dueunici figli rimasti a quest’ultimo, Guido Al-berto e Maddalena. Cammillo, rimasto vedo-vo della prima moglie, si era risposato in etàavanzata, con la giovane Luisa, figlia del nobi-le Iacopo Nerli [fig. 27], ma da tale unionenon era provenuta prole alcuna e pertanto o-gni speranza per una prosecuzione nel tempodella casata rimaneva solo legata al conte Gui-do Alberto.

Questi aveva dovuto però superare, nellafanciullezza, non pochi problemi di salute checerto trovavano la loro origine negli acciacchifisici sofferti dalla madre Teresa prima di con-cepirlo. Era comunque riuscito a travalicarel’età critica infantile, grazie alle assidue atten-zioni del padre che, oltre a fortificarne la salu-te, volle coltivarne il vivace ingegno, facendo-lo istruire privatamente da valenti insegnantidell’epoca, che lo erudirono in tutte le mate-rie umanistiche, insegnandoli anche a domi-nare perfettamente due idiomi stranieri, ilfrancese e l’inglese. Guido Alberto mostròpure una buona disposizione per il disegno ela pittura, tanto che nel 1800 fu ammesso, inqualità di socio onorario, all’Accademia Fio-rentina delle Belle Arti, dove conobbe e di-

venne amico di pittori dell’epoca, come ilBezzuoli, il Benvenuti, il Pampaloni ed altriancora. A venti anni, l’unico rampollo deiGherardesca, era divenuto un uomo di solidacultura, di fisico alto, snello e, si dice, di gra-devole aspetto [fig. 29], per quanto egli venis-se ben presto affetto da una precocissima cal-vizie e canizie. Tutte le strade per un buonsuccesso nel mondo sembravano dunque spa-lancate di fronte a lui.

Nel contempo anche suo padre, pur rima-nendo semplice «cittadino», iniziò a risalire...la china, con la nomina, da parte dei francesi,a commissario straordinario imperiale, primadi Perugia e poi d’Arezzo. Intanto nel 1801, ilgranduca Ferdinando III fu ufficialmente de-stituito, e il 12 agosto di quel medesimo annofu proclamato in Toscana il «Regno di Etru-ria» di cui fu primo sovrano Lodovico I diBorbone Parma. I due Gherardesca, padre efiglio, trassero immediato beneficio dalla nuo-va situazione instauratasi; infatti, appena unmese dopo dall’avvento del nuovo sovrano,Cammillo venne da lui promosso capitano co-mandante della Regia Guardia e tenente ge-nerale delle truppe reali, mentre Guido Al-berto fu nominato ciambellano del re, avvian-dosi a quella brillante carriera di corte che,grazie alla sua adattabilità ai diversi contestipolitici in cui si trovò ad operare, lo portò adivenire una sorta di Talleyrand toscano inscala, ovviamente, assai ridotta.

Un anno dopo, Cammillo, divenuto ormaicolonnello delle Guardie Nobili, dovette ac-compagnare re Lodovico I in un viaggio uffi-

CAPITOLO QUARTO

Sotto il dominio napoleonico in Toscana

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G. Bezzuoli, Ritratto del conte Guido Alberto della Gherardesca ventenneProprietà Gherardesca

[fig. 29]

178 I della Gherardesca

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 179

2 AF, f. 296, n. 21, a. 1803. 3 AF, f. 296, n. 21, a. 1809. Era questa però un onore inflazionato per il fatto che l’imperatore, dal 1806 al 1815, creò 31

duchi, 452 conti e 1500 baroni, ossia più di quanti ne avessero nominati tutti i re di Francia messi assieme. 4 AF, f. 296, n. 21, a. 1812.

ciale in Spagna della durata prevista di varimesi; decise allora di dare al figlio Guido Al-berto un libero e completo mandato per am-ministrare, in sua assenza, tutto il notevolepatrimonio familiare. Il giovane conte avevaappena raggiunta la maggior età di ventun an-ni, ma il padre riponeva in lui una totale fidu-cia per la grande maturità che già dimostrava;da allora mai più revocò la procura generale elasciò le redini economiche in mano a GuidoAlberto.

Rientrato dalla Spagna, il conte Cammillo,in riconoscimento del servizio da lui prestatonel viaggio appena concluso, ricevette in do-no dalla regina d’Etruria, Maria Luisa, un a-nello di brillanti; in risposta a questo onore ri-cevuto, il conte della Gherardesca dette ungrande ricevimento per le loro maestà nelgiardino del suo palazzo di Borgo Pinti. Il fe-stino riuscì benissimo ma gli costò la bellasomma di 451 scudi che furono ricavati, pro-babilmente, salassando le casse delle varie te-nute agricole. A ciò forse si deve il gustosorimprovero garbatamente rivoltogli da Cle-mente Moratti, a quell’epoca suo fattore diCastagneto, il quale, all’atto di inviare i denaririchiesti, così scrisse un po’... sgrammatica-mente al suo padrone:

Ho risentito che Ella sia stato dalla Regina rigala-to di un bel anello contornato di brillanti, che eraquello che portava in dito S. M. in ricompenza dellasua tanta assistenza e incomodi sofferti che non sa-ranno stati pochi, ma si come io non ho memoria diaverle a Lei mai veduto anelli indito gli renderà pe-rora un qualche incomodo che gli parrà di avereimpastoiate le dita, dunque io crederei che sarebbestato meglio un Groppo di zecchini, ma non aven-do potuto avere quelli gliè un bell’onore anche l’a-nello.

In quel medesimo anno 1803, il conte Cam-millo ebbe riconfermata da re Lodovico la fa-mosa investitura feudale, ritornando con ciòad essere il «conte della Gherardesca» a di-spetto delle leggi francesi che avevano abolito

in Toscana l’istituto feudale ed i titoli nobilia-ri2. Mentre egli ormai si stava avvicinando allasettantina, suo figlio Guido Alberto, buonamministratore ed appassionato di agricoltu-ra, si era dedicato con impegno al completa-mento delle bonifiche avviate dal genitore,trasformando in fertili campi e ricchi pascolinuovi terreni un tempo impaludati e malsani.Ma se intendeva cacciare da quelle sue terrel’acqua mefitica, altra buona da bere cercavadovunque per l’approvvigionamento idricodelle colonie di nuovo impianto e per le esi-genze del crescente numero di abitanti di Ca-stagneto e Bolgheri. Durante la sua ultracin-quantennale conduzione imprenditoriale, fu-rono scavati pozzi e captate sorgenti per ali-mentare anche diverse fontanelle pubbliche,fra le quali fece spicco l’artistica fonte di S.Walfredo (più tardi detta «dell’aquila»), eret-ta a Bolgheri ed oggi andata rovinata ad ope-ra di vandali.

Nel 1807, la Toscana venne annessa al-l’Impero Francese e fu in quel medesimo an-no che chiuse per sempre i suoi occhi il con-te Cammillo. Spettò allora a Guido Albertoassumere quegli impegni pubblici che sino aquel momento aveva condiviso con suo pa-dre, e, già nel medesimo 1807, egli fece partedella delegazione che la municipalità fioren-tina inviò a Milano per incontrare l’impera-tore Napoleone. Due anni dopo, venne no-minato ciambellano della granduchessa diToscana, Elisa Baciocchi [fig. 30], che egli ac-compagnò in Francia in occasione del matri-monio di suo fratello, imperatore dei france-si, con Maria Luisa d’Austria. Nella circo-stanza, Guido Alberto si trattenne a Parigiper cinque mesi e durante tale soggiorno funominato, da Napoleone stesso, «conte del-l’Impero», titolo trasmissibile per primogeni-tura maschile3. Nel 1812, venne pure decora-to cavaliere dell’ordine imperiale della Riu-nione4, e, nel medesimo anno, fu equiparatoa cittadino francese ed eletto a far parte della

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180I della G

herardesca

Pietro Benvenuti. Elisa Baciocchi Bonaparte circondata da artisti a Firenze nel 1813 (olio su tela, cm 332×490), Versaille. Accanto alla granduchessa il suo ciambellano,conte Guido Alberto della Gherardesca

[fig. 30]

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Dal G

randucato dei Medici al R

egno d’Italia181Diploma a firma di Napoleone con la nomina a conte dell’impero di Guido Alberto della Gherardesca

Proprietà Gherardesca

[fig. 31]

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182 I della Gherardesca

5 AF, f. 296, n. 21, a. 1812.

Assemblea Cantonale per il dipartimento del-l’Arno5.

Il ciclo storico del grande condottiero cor-so stava tuttavia per esaurirsi e i suoi futurivincitori, seduti attorno al tavolo del Congres-

so di Vienna, tentavano di ripristinare un pas-sato privo ormai di ogni radice nell’animo diquei popoli europei che avevano assaporato iprincipi liberali della Rivoluzione francese.

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Il ritorno dei Lorena a Firenze

In Toscana, nel 1814, si registrarono con-temporaneamente due avvenimenti di rilievo:l’arrivo all’Elba dello sconfitto Napoleone, re-legato in quel piccolo Regno, assegnatogli daisuoi vincitori quasi per spregio, e il ritornonella sua reggia fiorentina di Palazzo Pitti diFerdinando III di Lorena.

Il granduca, mostrando di essere alquantomaturato nel corso del quindicennale esilio,assunse inaspettatamente una linea di gover-no così moderata e liberale da far sì che, nelsuo granducato, la parola «restaurazione»non avesse quel significato punitivo che ebbeinvece in altre parti d’Italia. In tale cornice, fuemblematica l’immediata riconferma a ciam-bellano del conte Guido Alberto, il quale riu-scì in tal modo a passare senza danni, primadai Lorena ai napoleonici e poi da questi nuo-vamente ai Lorena.

Se si considera che egli, all’epoca, aveva so-lo trentaquattro anni, non gli si possono di-sconoscere eccellenti doti di adattabilità allamutevolezza dei tempi. Mentre questo Ghe-rardesca, a dispetto del succedersi dei princi-pi, conservava la propria inamovibilità a cor-te, egli non mancava tuttavia di occuparsi conequilibrato impegno delle sue proprietà e deisuoi interessi economici in generale, dimo-strando nel contempo una saggia disposizionead affrontare quei problemi sociali che gli e-venti gli posero di fronte. Nel 1817, ad esem-pio, dopo che una terribile epidemia di tifofalcidiò un gran numero di abitanti dellaContea, fondò a Bolgheri un istituto per fan-ciulli d’ambo i sessi, rimasti orfani in seguitoal flagello. In quella fondazione, i piccoli ospi-ti furono mantenuti ed istruiti a spese del

conte, che volle addirittura che fosse previstauna certa dote a favore delle femmine, quan-do si fossero maritate. Sensibile ai problemidei meno abbienti, fu altresì fra i fondatoridelle Scuole di Mutuo Insegnamento a Firen-ze, destinate all’istruzione dei ragazzi più po-veri; e, per dimostrare la validità di tale istitu-to, dette a suo tempo il buon esempio iscri-vendovi il proprio figlio primogenito.

Guido Alberto si avvicinava ormai alla qua-rantina quando, nel 1819, decise giudiziosa-mente di sposarsi con Ernesta, unica femminadel nobil cavaliere Iacopo Finocchietti di Pi-sa. Con lei il patrimonio Gherardesca si arric-chì della... Torre della Fame; il palazzo Gua-landi, ubicato nella pisana Piazza dei Cavalie-ri [fig. 32], dentro al quale la tradizione vuolefosse incorporata la famosa torre-prigione, e-ra a quei tempi di proprietà dei Finocchiettie, dopo la morte del padre, pervenne in ere-dità alla contessa Ernesta. Celebrato il matri-monio, si trattava ora di assicurare una di-scendenza alla casata comitale di cui GuidoAlberto era pericolosamente rimasto l’unico esolo rappresentante maschio. La serie dei figliiniziò già nel 1820, ma il primo nato fu unafemmina che oltre tutto morì quasi in fasce;due anni più tardi venne alla luce una secon-da creatura, anch’essa del sesso cosiddettodebole. Sembrava dunque che stesse per ripe-tersi la serie di bambine che aveva angustiatoil conte Cammillo nella generazione prece-dente; invece, nel 1823, giunse il sospirato e-rede maschio che, come ho già accennato, in-terruppe la sequela degli «Ugo» inaugurandoquella degli «Ugolino». Nel volger di altri dueanni, la famiglia si rafforzò con un secondobambino, cui fu apposto il duplice appellati-vo di Walfredo Fazio, riesumando anche per

CAPITOLO QUINTO

Dalla restaurazione dei Lorena ai primi anni del Regno d’Italia

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herardesca

Il palazzo Gualandi (poi Gherardesca) in piazza dei Cavalieri a Pisa. La Torre della fame si dice sia rimasta incorporata in tale edificioCollezione Bertarelli, Milano

[fig. 32]

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 185

1 Guido Alberto fu fra i primi azionisti della Compagnia per la ferrovia toscana, detta poi La Leopoldina. 2 La via Emilia derivava il proprio appellativo dal console romano Emilio Scauro che la fece costruire. Durante il regime

fascista, essa fu ribattezzata Aurelia ed oggi, declassata, è stata sostituita da una nuova superstrada. 3 Così erano detti i magazzini nei quali si conservavano i prodotti agricoli della Contea. 4 Si trattava della carica civile di grado più elevato a corte, per la quale il compenso annuo giunse fini a 14.000 scudi, con

in più uso di una carrozza.

lui due dei più storici nomi della prosapia.Un’ultima femmina, Adelasia, concluse laschiera dei cinque figli che Guido Alberto eErnesta misero alla luce nei primi anni dellaloro lunga e felice unione.

In quei medesimi tempi, e più esattamentenel 1824, si spense il granduca FerdinandoIII, cui subentrò il primogenito Leopoldo II.Di carattere mite ma purtroppo anche estre-mamente indeciso, questi caratterizzò il suogoverno per le grandi opere pubbliche chepromosse con notevole progresso economicodel suo Stato. Il granduca ne migliorò tutta larete viaria, fece costituire la società che rea-lizzò il primo tronco ferroviario in Toscana1 e,in particolare, avviò quella bonifica dell’agrogrossetano che è forse rimasta l’iniziativa leo-poldina più significativa, e per merito dellaquale fu possibile riguadagnare alla produtti-vità un’estesissima plaga di terre palustri.Conseguenza immediata di tutte queste ini-ziative granducali fu l’indispensabile esigenzadi rafforzare il sistema finanziario toscano,previa costituzione di nuovi istituti bancari,cui affidare la raccolta del denaro occorrenteper il finanziamento dei vari progetti; e fu co-sì che, con sovrano rescritto del 30 marzo1829, venne istituita la Cassa di Risparmio diFirenze, della quale Guido Alberto fu uno deisoci fondatori.

Onde controllare personalmente l’anda-mento di tutte le opere pubbliche in corso e,in particolare, i lavori di bonifica a Grosseto,che considerava il proprio fiore all’occhiello,Leopoldo II si spostava frequentemente dallasua reggia fiorentina. Durante questi trasferi-menti, varie volte il granduca sostò a Bolghe-ri, dove ebbe modo di apprezzare le conside-revoli migliorie apportate alle sue tenute dalconte Guido Alberto, al punto da decorarlo,in riconoscimento, cavaliere del Real Ordineal Merito. Fu forse in occasione di uno diquesti incontri che il granduca e il conte della

Gherardesca programmarono la riapertura,attraverso i boschi della Contea, di quella cheera stata l’antica via romana detta «Emilia»2,ridotta a quei tempi a poco più di una malan-data strada di campagna. Per un più sollecitoavvio di tale opera, che avrebbe sostanzial-mente migliorato le comunicazioni fra i varicentri abitati del litorale, mancavano però glistanziamenti di bilancio. Il granduca con-cordò allora con Guido Alberto di ricorrereall’artificio di stornare, a tal fine, alcune som-me originariamente destinate al capitolo dispesa per la «manutenzione di strade»; mapoiché l’importo conseguibile era ancora in-sufficiente, ottenne che il Gherardesca contri-buisse a sua volta, aprendo le sue «dispense»3

a favore delle centinaia di operai stagionaliche avrebbero dovuto lavorare alla riaperturadella strada, durante quei mesi dell’anno neiquali era meno rischioso contrarre le febbrimalariche che ancora imperversavano nellazona. Fu questo pertanto un riuscito esempiodi proficua collaborazione fra «pubblico eprivato» che, in meno di due anni, rese possi-bile riportare a nuova vita un’arteria stradale,risultata poi di primaria importanza [fig. 33].

Il buon successo dell’impresa cementò ul-teriormente i rapporti personali fra il contedella Gherardesca e il granduca, tanto cheche questi volle che Guido Alberto divenissesuo consigliere di Stato, carica peraltro onori-fica, e fosse anche nominato maggiordomodella granduchessa vedova Maria Ferdinanda,carica invece questa discretamente remunera-ta. Non trascorsero altri tre anni da tali even-ti, che Guido Alberto salì l’ultimo e più eleva-to gradino della sua pluriennale carrieranell’ambito delle corti principesche sussegui-tesi in quegli anni in Toscana. Nominato daLeopoldo II suo maggiordomo maggiore4, e-gli mantenne tale prestigiosa incombenza, chelo rendeva il gentiluomo di carica più alta acorte, per sedici lunghi anni, fino a quando

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herardesca

Apertura della nuova via Emilia attraverso i boschi di DonoraticoCollezione Bertarelli, Milano

[fig. 33]

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 187

5 L. BEZZINI, Carducci e la «sua» Maremma, Tip. Bandecchi e Vivaldi, Pontedera 1993.6 L’allivellamento consistette in un’anomala forma di affitto perpetuo che i Gherardesca s’impegnarono a mai più riscat-

tare. I terreni in oggetto vennero equamente ripartiti fra tutte le famiglie castagnetane.

nel luglio 1849, non se ne dimise adducendomotivi di salute. La ragione «ufficiale» appa-riva plausibile, stante il fatto che Guido Al-berto era sempre stato di fisico malfermo.Non mi sentirei però di escludere che le realimotivazioni della sua decisione fossero da ri-cercare in altra sede. Il conte della Gherarde-sca aveva infatti mal digerito l’atteggiamentoda Leopoldo II assunto in occasione dei «mo-ti castagnetani», a cui fra non molto accen-nerò, ed inoltre, come la maggioranza dei To-scani, doveva aver disapprovato la decisionepresa dal granduca, nel febbraio di quel me-desimo 1849, di abbandonare il granducato,rifugiandosi a Gaeta da papa Pio IX, dopo a-ver chiamato in Toscana le truppe austriacheaffinché sedassero i violenti tumulti popolariche stavano squassandola. Sia pur commistaagli aneliti risorgimentali, era infatti arrivatanel granducato l’onda lunga di risacca dellaRivoluzione francese ed anche la ConteaGherardesca non ne poté non risentire. Il ses-santottenne Guido Alberto si trovò a con-frontarsi con i «tempi nuovi» mal coadiuvatodai suoi inesperti figli maschi. Le antiche rug-gini, soprattutto fra i Castagnetani e la casatacomitale, vennero tutte a galla e furono facile,e forse comprensibile, esca di quei «moti»che il Bezzini descrive nel suo Carducci 5. Fuproprio per spengere tali focolai rivoluzionariche, pressato a farlo dall’intimorito granduca,Guido Alberto dovette procedere ad un au-toespropio, allivellando6, a favore degli abi-tanti di Castagneto, oltre settecento fra i piùubertosi ettari delle sue tenute. Il provvedi-mento conseguì l’effetto voluto, ma la vicendaturbò grandemente il vecchio conte che, atorto o a ragione, era nel suo intimo convintodi aver ben operato nel corso della sua esi-stenza e di non aver quindi meritato le violen-ze di cui fu fatto segno nella circostanza.Questo stato d’animo esacerbato ebbe un in-flusso negativo sulle sue già malferme condi-zioni di salute; e da allora, infatti, non riuscìpiù a riprendersi, fino a quando, nel 1854,

morì a causa di un tumore. Facendo ora un passo addietro, voglio se-

gnalare che l’anno medesimo delle sue dimis-sioni, egli venne sostituito a corte dal primo-genito Ugolino, nominato dal granduca suociambellano; non escluderei che la mossa delprincipe sia stata dettata dal desiderio di por-gere a Guido Alberto una sorta di riappacifi-catore ramoscello d’olivo. Del resto poco tem-po dopo, Leopoldo II volle che fosse proprioil vecchio conte della Gherardesca a rappre-sentarlo, andando incontro a Pio IX, quandoil pontefice visitò la Toscana.

I figli di Guido Alberto

Ed eccoci a parlare dei figli di Guido Al-berto, e cioè dell’ultima generazione dei Ghe-rardesca che comparirà in queste pagine. Te-mo che il mio giudizio su di essi risentirà giàdella difficoltà di soppesare, con obiettività,dei personaggi che, per quanto non conosciu-ti direttamente da nessuno dei Gherardescaviventi, hanno percorso e concluso il propriocammino terreno in epoca a noi tanto vicina,da farci tuttora sentire una loro quasi palpabi-le presenza. Alla morte di Guido Alberto, so-lo tre dei suoi cinque figli erano ancora in vi-ta: Ugolino, Walfredo Fazio e Adelasia, anda-ta sposa al conte Giovanni Rucellai. I maschi,che avrebbero potuto preoccuparsi di una di-scendenza della progenie, erano dunque dueed entrambi non mancarono di farlo, sposan-dosi ancor prima che il loro genitore rendessel’anima a Dio. Ugolino impalmò, nel 1844, lagiovane e bella dama di corte Giulia Giuntini,figlia del cavalier priore Michele, e, sette annidopo, Walfredo Fazio si unì con Teresa, figliadel cavalier priore Tommaso Morrocchi. È as-sai curioso rilevare come i due fratelli, avvian-do la serie dei loro discendenti con l’imme-diato arrivo di un erede maschio, vollero en-trambi onorare il genitore apponendone il no-me al proprio rispettivo primogenito; tuttavia

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188 I della Gherardesca

7 Nel 1855, morto da un anno appena il padre, i conti Ugolino e Walfredo Fazio avevano già contratto un mutuo di30.000 scudi (equivalenti a 210.000 lire di allora) con il Monte dei Paschi di Siena.

ad evitare un’imbarazzante omonimia fra cu-gini carnali, mentre Ugolino battezzò comeGuido Alberto il primo figlio natogli nel1845, Walfredo Fazio chiamò Alberto Guidol’erede venutogli al mondo nel 1851. La vene-razione ed ammirazione per loro padre daparte di questi due Gherardesca si confermòquando essi vollero che, a sua memoria, venis-se eretto un imponente monumento funebremarmoreo, nella chiesa del monastero di mo-nache benedettine, tuttora esistente a Firenzein località al Lapo, lungo la via Faentina, doveGuido Alberto, benefattore di tale convento,lasciò scritto di voler essere sepolto.

I due fratelli tuttavia non furono solo all’u-nisono in questi lodevoli sentimenti di amorfiliale, ma purtroppo anche in alcuni difetti,fra i quali il maggiore fu certo quello di volersempre vivere al di sopra dei propri effettivimezzi economici. A quanto risulta, Ugolino eWalfredo Fazio iniziarono a contrarre pesantidebiti appena pochi mesi dopo la morte diGuido Alberto7. Ugolino, fra i due, fu indub-biamente il più solerte in tale infausta con-dotta di vita, tanto che, nell’archivio di fami-glia, ho trovato lunghi elenchi di suoi credito-ri, fra i quali risultano anche il suo ben forni-to suocero e la stessa contessa Giulia. Vieneperciò il sospetto che il matrimonio di Ugoli-no avesse avuto dei precisi risvolti d’interesseeconomico per lui e di soddisfacimento sno-bistico per i Giuntini; questi infatti, pur van-tando nobili ed antiche radici, erano una fa-miglia che solo da poco si era affermata nel-l’ambito della finanza. Forti della loro irrobu-stita posizione economica, essi ambivano oraad imparentarsi con le maggiori casate dell’é-lite aristocratica fiorentina. Tre erano in quelmomento le pulzelle Giuntini da marito e tut-te e tre si accasarono «bene»: Maria Anna siunì con Simone Velluti Zati dei duchi di S.Clemente; Maria Antonia con il conte Cosi-mo degli Alessandri e, infine, Giulia con ilmio omonimo bisnonno.

Da quest’ultimo matrimonio nacquero,piuttosto scaglionati nel tempo, cinque figli,

due femmine e tre maschi, dei quali ultimi,malauguratamente, ne rimase in vita solo uno,e cioè mio nonno Walfredo Tedice, venuto almondo nel 1865. Invece Walfredo Fazio, fra-tello di Ugolino, ebbe maggior successo dina-stico poiché procreò ben sei nuovi Gherarde-sca, di cui quattro maschi, tutti vivi e vegeti.Dal punto di vista patrimoniale, alla morte diGuido Alberto, il suo primogenito Ugolino e-reditò la parte più cospicua delle proprietà,fra cui il palazzo di Borgo Pinti, la villa e lafattoria di Mondeggi, nonché le grandi tenutedi Castagneto e di Donoratico; al fratello Wal-fredo Fazio toccò invece il castello e la tenutadi Bolgheri, la rocca e la tenuta di Castiglion-cello e, infine, la villa e la fattoria di Lappeggi;quest’ultima però fu da lui ceduta, quasi subi-to, ad Ugolino, che a compensazione si accol-lò un consistente debito ipotecario contrattodal fratello. Le proprietà di S. Piero a Sieve inMugello e quella di Fiesole erano già statevendute da loro padre, alcuni decenni prima.Dopo secoli di osservanza del meccanismo e-reditario delle leggi longobarde, fu questa laprima volta che il dominio maremmano sisuddivise definitivamente in due parti chemai più si sarebbero ricongiunte, come inveceera sempre avvenuto per il passato.

Prima di proseguire nel racconto della im-pegnata esistenza del mio bisnonno Ugolino,accennerò al fatto che di Walfredo Fazio inve-ce vi è ben poco da riportare, salvo che preferìsoprattutto vivere in campagna e che fu balì diPerugia dell’ordine militare di S. Stefano.

Il conte Ugolino fra i protagonisti dell’annessione della Toscana al Regno sabaudo

Della vita di Ugolino c’è invece assai di piùda narrare. Come si ricorderà, Leopoldo II loaveva nominato suo ciambellano nel 1849,ma, ciò nonostante, il filo fra i Lorena e l’anti-ca casata comitale si era ormai spezzato a se-guito soprattutto dei tentennamenti del gran-

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 189

8 G. SPADOLINI, Firenze capitale, Le Monnier, Firenze 1966, p. 343. 9 Soprannome dato dai Fiorentini a Leopoldo II, per la consuetudine di quest’ultimo di portare una parrucca di color

giallognolo. 10 Le Assemblee del Risorgimento, in Atti raccolti e pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Tip. Cam.

Dep., Roma 1911, p. 691 sgg.

duca riguardo alla politica da seguire nelle vi-cende risorgimentali italiane. La grande mag-gioranza dei suoi sudditi, e fra essi il mio bi-snonno, non poteva infatti perdonargli lachiamata in Toscana delle truppe austriache,proprio in concomitanza con il primo conflit-to scoppiato fra il Piemonte e l’Austria, nétantomeno le sue titubanze allorché, nel1859, al momento dell’inizio della terza guer-ra d’indipendenza, si trattò nuovamente didecidere se affiancarsi a Napoleone III e aVittorio Emanuele II, come reclamavano iToscani, o allinearsi ancora una volta conl’Austria, come tendeva a fare il granduca.Non sapendo risolversi a prendere l’una o l’al-tra di queste due decisioni, Leopoldo II nontrovò di meglio che abdicare in favore del fi-glio Ferdinando ed allontanarsi nuovamenteda Firenze, questa volta in via definitiva. Nonfurono dei subbugli popolari a spingerlo intal senso, bensì una sorta di pacifica pressionesu di lui esercitata dai due partiti che faceva-no capo, l’uno al barone Bettino Ricasoli el’altro a Giuseppe Dolfi, alleati in tale circo-stanza per quanto di concezioni politiche al-quanto diverse. La partenza del granduca allavolta dell’Austria avvenne quindi senza dram-mi, tanto da far dire a Vincenzo Salvagnoliche «la rivoluzione toscana del 27 aprile 1859finì a desinare»8, e cioè dopo che i Fiorentiniebbero terminato di assieparsi curiosi lungole strade, per dare l’ultimo loro ironico salutoal pur non odiato «Canapone»9.

Partito il principe, fu subito formato un go-verno provvisorio, con alla testa Ubaldino Pe-ruzzi, Vincenzo Malenchini e Alessandro Dan-zini, il cui primo atto fu quello di offrire a Vit-torio Emanuele II la «dittatura» sulla Tosca-na. Fra i convinti sostenitori di tale orienta-mento, oltre al barone Ricasoli, figurò anche ilconte Ugolino della Gherardesca, che gravita-va nell’area politica del Ricasoli stesso. I tempie la situazione internazionale non erano peròancora maturi per un’annessione al Piemonte.

Vittorio Eamnuele preferì pertanto prudente-mente ripiegare su di una semplice formula di«protettorato sabaudo» sulla Toscana, nomi-nandovi a suo commissario straordinario Car-lo Boncompagni, già ambasciatore piemonte-se presso il decaduto governo granducale.

Dopo l’armistizio firmato a Villafranca, frai Francesi e i Piemontesi vittoriosi e gli Au-striaci sconfitti, la situazione politica ebbeun’ulteriore evoluzione che consigliò di svin-colare la Toscana da questa sorta di tutelache, agli occhi delle maggiori potenze euro-pee, non avrebbe consentito un’autonoma de-cisione a riguardo di una sua eventuale annes-sione al Piemonte. Si dimise allora il commis-sario straordinario che venne sostituito da unnuovo governo provvisorio, guidato questavolta dal barone Ricasoli; tale governo, fra isuoi primi provvedimenti, indisse l’elezionedei deputati per sarebbero andati a formarel’Assemblea Generale toscana. Le elezioni sitennero il 7 agosto 1859 e anche il conte Ugo-lino risultò fra gli eletti.

L’assemblea si pose immediatamente al la-voro e fra le sue delibere, prese in gran fretta,vi fu quella di dichiarare per sempre decadutaogni pretesa dei Lorena sulla Toscana e poi,nella seduta del 20 agosto 1859, di approvareuna proposta che sanciva la volontà di annes-sione al Piemonte. Ugolino della Gherardescafigurò primo firmatario fra i nove deputati e-stensori del documento che, rielaborato inparte da un’apposita commissione incaricatadi fonderlo con altra analoga proposta pre-sentata dall’Avv. Massei, venne approvato al-l’unanimità dall’assemblea10. Questo voto fusubito comunicato a re Vittorio Emanuele, ilquale, nel compiacersene, pretese tuttavia unaconsultazione popolare che, ancor più signifi-cativamente, riaffermasse l’effettiva volontàannessionistica dei Toscani. Il plebiscito, in-detto per il marzo 1860, sancì a stragrandemaggioranza l’unione della Toscana al Regnosabaudo.

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11 N. DANELON VASOLI, Il plebiscito in Toscana del 1860, Olschki, Firenze 1968, p. 194. La comunità Gherardesca erastata in realtà soppressa con una legge del 1838, ma l’uso dell’antico appellativo era ancora rimasto dopo più di venti annidalla sua scomparsa legale.

12 AF, f. 371, n. 3. 13 AF, f. 371, n. 23, a. 1867. 14 AF, f. 373, n. 27. 15 AF, ff. 370, 371, 372, 373. Ecco in sintesi le cariche e onorificenze ottenute dal conte Ugolino: 1863, nomina a consi-

gliere comunale di Firenze; 1864, nomina a membro della Commissione Centrale Ippica Italiana e nomina a capoguardia

Nell’antica Contea maremmana, il risultatodella votazione non poté non lusingare gli o-rientamenti politici pubblicamente e ripetu-tatmente manifestati dal mio bisnonno; infattinella comunità di Castagneto, che a quei tem-pi era ancora conosciuta come «Gherarde-sca»11, su 1092 votanti si ebbero ben 1089 vo-ti favorevoli all’annessione. A buon titolodunque, e non solo per questo risultato, pro-prio al conte Ugolino fu conferito il prestigio-so incarico di guidare la delegazione che, ac-compagnata dal Ricasoli, fu inviata a Torinoper comunicare a re Vittorio Emanuele l’esitodella consultazione popolare. Tale delagazio-ne che, oltre al Gherardesca, comprendeva ideputati Scipione Borghesi, Rinaldo Ruschi,Pier Augusto Adami e Giovan Battista Gior-gini, fu solennemente ricevuta dal sovranonella grande sala del Consiglio della reggia to-rinese, presenti il capo del governo piemonte-se, Rattazzi, il generale Lamarmora ed altri il-lustri personaggi. Lo storico evento fu in se-guito immortalato da un grande dipinto delpittore Giovanni Mochi, oggi in Palazzo Pitti,nel quale è raffigurato il conte Ugolino men-tre legge a Vittorio Emanuele II il documentocon cui la Toscana chiede ufficialmente di es-sere annessa al Regno [fig. 34].

È ora il caso di riportare un aneddoto checircolò al rientro a Firenze della delegazione.Premetto che il mio bisnonno aveva un carat-tere ombrosissimo, tanto da essere stato so-prannominato dagli amici il «conte nero». Sinarra dunque che, a causa di questo suo ca-ratteraccio, si verificò un incidente al momen-to in cui i componenti della delegazione to-scana furono presentati, ad uno ad uno, al so-vrano sabaudo dal suo cerimoniere, marcheseFerdinando Arborio di Gattinara. Pare che alsentir nominare per primo il nome di Ugolinodella Gherardesca, a bassa voce ma non tantoda non essere udito dall’interessato, il re mor-

morasse in dialetto piemontese al suo cerimo-niere: «Ma io credevo che fossero morti tuttidi fame». Il mio bisnonno, permalosissimo, siadombrò e fece l’atto deciso di voltare le spal-le e di andarsene. Ci volle del bello e del buo-no per farlo recedere dalla sua decisione che,a dir poco, avrebbe compromesso tutta la ce-rimonia. Anche se questo aneddoto fosse sto-ria vera, il disguido non compromise certa-mente la carriera politica di Ugolino, che, ilmedesimo anno, si presentò candidato al pri-mo parlamento italiano e risultò eletto depu-tato per il distretto di Rosignano, mentre, dueanni più tardi, fu nominato dal re fra i 303 se-natori del Regno12.

Dal 1863 al 1871, il mio bisnonno fu an-che consigliere di quella municipalità fioren-tina che dovette affrontare le sostanziali ri-strutturazioni urbanistiche che predisposerola città a divenire la capitale del Regno. Fra iprimi a dover fare le spese dei grandiosi pro-getti formulati dall’architetto Poggi, fu pro-prio il conte Ugolino, il quale, per consentirela realizzazione dell’ampio viale di circonval-lazione che prese il posto dell’antica cerchiadi mura cittadine, si vide espropriare una lar-ga fascia del giardino di Borgo Pinti13 e, co-me se non bastasse, dovette provvedere, aproprie spese, a sistemare decorosamente tut-to il fronte della sua proprietà, prima confi-nante con le demolite mura ed ora affaccian-tesi sulla nuova grande arteria cittadina. Ailati della bella cancellata che egli fece realiz-zare per un nuovo accesso al giardino volleche fossero apposte due lapidi (tuttora esi-stenti) che ricordassero questa sua opera e,nella sua megalomania, chiese addirittura allostorico Passerini di formularne il pur stringa-to testo14.

Nel decennio fra il 1860 e il 1870, il mio bi-snonno fu letteralmente ricoperto da onori ecariche pubbliche15, ma poi sembrò che la sua

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Dal G

randucato dei Medici al R

egno d’Italia191G. Mochi, Il capo della delegazione toscana, conte Ugolino della Gherardesca, legge a re Vittorio Emanuele II l’esito del plebiscito del 1861 favorevole all’annessione

Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Firenze

[fig. 34]

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della Misericordia fiorentina; 1865, nomina a questore del Senato per il biennio 1865-67 e riconferma a consigliere comunalefiorentino; 1866, elezione a vicepresidente della Filarmonica Fiorentina e nomina a commendatore dell’Ordine dei SS. Mau-rizio e Lazzaro; 1867, ulteriore riconferma a consigliere comunale fiorentino; 1868, nomina a 21mo ufficiale dell’Ordine del-la Corona d’Italia e ammissione a socio della Società Geografica Italiana; 1869, elezione nella commissione di dieci membriche avrebbero sovrainteso alla Consulta Araldica di recente istituzione (10 ottobre 1869); 1870, nomina a membro dellacommissione senatoriale incaricata di ricercare una sede romana appropriata per l’assemblea che avrebbe dovuto trasferirsida Firenze a Roma, nuova capitale del Regno. [Rinunziò a questo incarico per i molti suoi affari]. 1871, dimissioni da consi-gliere comunale fiorentino, a causa, anche questa volta, dei molti suoi affari.

16 La proprietà del palazzo passò poi alla Società delle Strade Ferrate Meridionali e, successivamente, alla Società Metal-lurgica Italiana.

vocazione politica si fosse appagata di colpo ele sue attenzioni maggiori tornassero a volger-si verso la famiglia. Bisogna a questo proposi-to accennare che, nel 1861, era morto il suoprimogenito ed unico maschio Guido Alber-to, riaprendo il problema di una discendenzaper questo ramo principale della casata. Lacontessa Giulia fu ancora una volta all’altezzae, dopo la bellezza di diciotto anni dal suo«sì» matrimoniale, fu capace di mettere almondo altri due eredi maschi: Guido Novelloe Walfredo Tedice, mio nonno. Malaugurata-mente il primo morì a solo otto anni e rimasecosì al secondo l’incombenza di non fare e-stinguere il ramo medesimo.

Il declino di un personaggio

Negli ultimi anni della sua vita, il conte U-golino si dedicò soprattutto ai suoi interessifamiliari, ma non lo fece con grande successo,stando almeno ai sostanziosi e lunghi elenchidi suoi debiti di cui tuttora rimane traccianell’archivio Gherardesca. Il mio bisnonno a-veva anche contratto pesanti mutui con la fio-rentina Cassa di Risparmio, il cui ricavato eraforse servito a sanare le pendenze più urgentima non aveva risolto la sostanza dei suoi pro-blemi finanziari, tanto che, nel 1875, entròaddirittura nell’ordine d’idee di vendere, «acancelli chiusi», il castello e la tenuta di Ca-stagneto, stimati nella circostanza tre milionidi lire. La trattativa, effettivamente avviatasi,non arrivò peraltro a buon fine.

Nel 1877, avendo ancora una volta urgentebisogno di un nuovo prestito di 550.000 lire,si rivolse a sua moglie, ma questa volta elladettò le sue condizioni che costrinsero Ugoli-no a rinunziare alla cura dei suoi affari e ad

affidare l’amministrazione di tutto il suo pa-trimonio ad un «consiglio di sorveglianza»costituito dalla stessa contessa Giulia (che visi fece però rappresentare dal marchese Pom-peo Burbon del Monte), dal marchese Stefa-no Lodovico Pallavicino e dal marchese An-drea Carrega Bertolini. Non risulta tuttavia setali amministratori seppero ben operare, mapersonalmente ne dubito.

Quando infatti, nel 1882, il conte Ugolinorese l’anima a Dio, ai tutori, cui fu affidatomio nonno ancora minorenne, non rimaseche accertare la gravità della situazione patri-moniale e, per tamponarla, vendere a S.A. I-smail Pachà, Kedivé d’Egitto, il palazzo e ilgiardino di Borgo Pinti, per la somma di800.000 lire più 60.000 lire per alcuni mobilied arredi di lusso, lasciati nel palazzo stesso16.È quasi in coincidenza con questo dolorososacrificio finanziario che si chiuse dunque l’e-sistenza di Ugolino che pure, ai suoi tempi, e-ra stato un personaggio politico di successoed aperto, forse più in teoria che in pratica, alodevoli idee liberali.

Nel 1892, anche suo fratello Walfredo Fa-zio lasciò questo mondo e con lui si esaurì laventisettesima generazione «storica» della no-stra progenie. Da allora sono seguite altre cin-que generazioni, fino ad arrivare a quella deimiei nipoti [tav. 18]. Di questi familiari nonparlerò per i motivi che ho esposti nella pre-messa a questo mio scritto. Mi limiterò soload accennare che fra di essi si annoveraronoancora due senatori del Regno, un podestà diFirenze, un preside della provincia di Luccaed un consigliere comunale di Firenze.

Con lo scorrere di tanti secoli, la nostra pro-sapia ha gradatamente perduto in spessore mai Gherardesca possono comunque andar fieridella forse ineguagliabile longevità della loro

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Dal Granducato dei Medici al Regno d’Italia 193

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stirpe, nella storia d’Italia. Chi scrive si conge-da invitando i propri discendenti a meditaresu quanto di positivo hanno saputo fare i no-stri antenati negli oltre dodici secoli della no-stra saga. Poiché ognuno di noi certo reca insé qualche cromosomo di tutti i personaggiche ci hanno degnamente, od indegnamente,

preceduti, sappia ogni Gherardesca ispirarsiai lati migliori di essi.

Il mio auspicio conclusivo sia dunque quel-lo che la nostra schiatta longobarda possa di-gnitosamente percorrere ancora molto cam-mino oltre i suoi dodici secoli di storia.

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Appendice

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[fig. 35]

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1 BARSOCCHINI, Sulle cause che nel Medio Evo produssero la divisione dei domini in minute parti in Toscana, cit. 2 Ad esempio, nel caso delle arimannie. 3 A questo proposito vedere i casi in cui Walfredo, nelle sue donazioni, include anche gli abitanti. 4 Si veda il documento 1 della presente Appendice. 5 Nell’allegata cartina geografica illustrativa, alcuni toponimi sono dunque ripetuti per più di una volta. 6 REPETTI, op. cit., vol. II, p. 557.

Nell’esaminare le donazioni fatte da S. Walfre-do al monastero di San Pietro in Palazzuolo, laprima impressione che se ne ricava è quelladell’apparente minuta dimensione di ciascuna diesse, nonché della loro diffusione su di un’areageografica di estensione molto vasta.

La spiegazione di quanto sopra può essere laseguente. Premettiamo innanzi tutto che, nell’Al-to Medio Evo, almeno in Toscana, la proprietàfondiaria si presentava suddivisa in piccole unità1.Deve infatti tenersi in evidenza che il popolo lon-gobardo non aveva né una cultura, né una parti-colare vocazione agricola, e che pertanto, all’attodella sua invasione dell’Italia, preferì lasciare aglioriginari coloni romani il compito di coltivare leterre. I conquistatori si limitarono ad appropriarsinon già delle medesime, bensì di gran parte delloro frutto, quale compenso della difesa che i loroguerrieri assicuravano al territorio. Solo in alcunicasi2, i Longobardi asservirono gli antichi coltiva-tori, rendendolo loro schiavi3; tale fenomeno siaccentuò probabilmente nelle vicinanze dei forti-lizi che i Longobardi stessi si affrettarono a realiz-zare istituendo una fitta rete di roccheforti atte acontrollare le aree di maggior interesse strategico.La seconda spiegazione che ci interessa, cioè quel-la della diffusione su di un’area geografica così va-sta delle donazioni fatte da S. Walfredo, è certo ri-conducibile al disegno di questo eminente longo-bardo di porre sotto una formale protezione dellaChiesa quanti più domini possibili della propriafamiglia, e ciò nella prospettiva della conquistadell’Italia da parte dei Franchi, alleati appunto delPontefice romano. Del resto la medesima opera-zione fu fatta, all’epoca, da numerosi altri capilongobardi. A questo punto si può procedere

nell’esame, rilevando subito che le donazioni inargomento sembrano quasi circoscrivere quelleche, due secoli dopo, risulteranno essere le signo-rie dei Gherardesca [si veda la cartina allegata].Nell’analisi che segue, i vari toponimi citati nelledonazioni sono stati riportati nel medesimo ordi-ne nel quale appaiano nell’atto di fondazione delmonastero di S. Pietro in Palazzuolo4. Inoltre al-cuni di essi, come ad esempio «Agello» e «Vaia-no», sono diffusissimi in Toscana5 e pertanto nerisulta problematica un’esatta identificazione,mentre altri toponimi sono conservati da localitàsemisconosciute od addirittura da piccolo casolariagricoli, magari ridotti oggi in ruderi. Malgradoqueste difficoltà oggettive della ricerca, è statopossibile accertare una pressoché perfetta sovrap-ponibilità dei possedimenti donati al suo mona-stero da S. Walfredo con i domini che i Gherarde-sca, documenti alla mano, poterono vantare sindagli inizi del X secolo.

PALATIIOLO. Circa l’esatta ubicazione di questalocalità non sussistono incertezze. Le rovine delmonastero fondato da S. Walfredo sono ancoraben visibili [figg. 1-2] su di una collinetta, nonlontana da Monteverdi, denominata «la Badia».Che i Gherardesca dominassero questo territorio,nell’Alto Medio Evo, viene confermato da svariatidocumenti, fra cui uno del 1053 con cui Ugo, fi-glio di Rodolfo conte di Suvereto, vendette all’a-bate di S. Pietro in Palazzuolo, la sua quota partedella vicina rocca di Gualda6. Del resto nei din-torni di Monteverdi i Gherardesca signoreggiaro-no su molte roccheforti, come quelle di Suvereto,Monte S. Lorenzo, Campetroso, Tricase e Leccia.Altra conferma della presenza a Monteverdi della

INSERTO 1

Ricerca toponomastica dei possedimenti di S. Walfredo e loro accostamento con i domini dei Gherardesca

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7 Si veda più avanti il toponimo Rivo Orsario. 8 BERTINI, Memorie e documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, cit., vol. IV, p. 46.9 ACP, doc. n. 42 del 30 maggio 1016.

10 Appendice, doc. 2. 11 Appendice, doc. 3; e CECCARELLI LEMUT, Il monastero di S. Giustiniano di Falesia e il castello di Piombino, cit. 12 S. PIERI, Toponomastica della Toscana Meridionale, Accademia Senese degli Intronati, Siena 1969, p. 153. 13 AF, f. 95, a. 939; e F. SCHNEIDER, L’ordinamento pubblico della Toscana medievale, a cura di F. Barbolani di Montauto,

Stianti, Firenze 1975, p. 249, n. 159.

grande casata comitale, proviene da un manoscrit-to del 18 agosto 1109, con cui il conte Ugo, figliodi Tedice 2°, cedette a Rangerio, vescovo di Luc-ca, i proprio possedimenti «allodiali» compresidalla «Cecina usque ad fluvium quod dicitur RivoUrsajo7 et de Monte Virgide [Monteverdi] usquead mare»8.

BASILICA SANCTI FILIPPI. Non è stato possibileindividuare la località a cui corrisponde oggi que-sto antico toponimo. Unica labile traccia è quellarinvenuta dal Brunetti nel suo Codice DiplomaticoToscano, p. 493, dove cita un documento dell’an-no 759 in cui si accenna ad un terreno del vescovodi Lucca, Walprando, che includeva un CasaleSancti Philippi.

CASTANIETO. Lo Schiapparelli, così come ilRepetti, lo fanno coincidere con Castagneto dellaGherardesca (oggi Carducci), dominio dell’anticaschiatta longobarda da tempi immemorabili. L’i-potesi è certo la più plausibile, ma non è nemme-no da scartare che possa trattarsi di un Castagne-to ubicato nei pressi di Palaia, nel pisano, e quin-di non distante da quel «Rivo Cavo» e da quel«Padule Actioni» che incontreremo fra breve. Viè poi anche un «Castagnetro»9 presso Vecchiano,lungo il corso inferiore del fiume Serchio, doverisultarono ubicate alcune arimannie longobardenelle vicinanze di «Arsola» ed «Arena» che puremenzioneremo in seguito. Anche in questi di-stretti i Gherardesca ebbero rocche e domini [in-serto 2].

CALDANA. Questo toponimo può essere identi-ficato con due località diverse che conservanotutt’oggi tale denominazione. Il Repetti, nella suaopera più volte citata, ed il Pieri nel suo trattatosulla Toponomastica della Toscana meridionale, in-dividuano Caldana con quella, di origini romane,sita presso Campiglia, nel distretto populoniense.Non è però da trascurare, a mio avviso, che sipossa trattare della Caldana, presso Gavorrano,nell’antico distretto grossetano di Roselle. In en-trambi detti territori i Gherardesca vantarono do-mini documentati sin dal 1004, come attesta l’attodi fondazione del monastero di S. Maria di

200 I della Gherardesca

Serena10 ed il documento n. 113 dell’anno 1028,riportato dallo Schneider nel suo Regesto Volter-rano.

CORNIA. Il Cornia è un piccolo fiume dellaMaremma massetana, di cui il già citato «Rivo Ur-sajo» è un affluente. Per quanto attiene ai Ghe-rardesca, essi dominarono, come abbiamo vistoalla voce «Palatiiolo», numerosi castelli nella valledel Cornia, alla cui foce, nel 1022, fondarono ilmonastero di San Giustiniano di Falesia11. Del re-sto, già nel 1004, Gherardo 2°, conte di Frosini,aveva donato al monastero, da lui fondato, di S.Maria di Serena vari beni nel distretto populo-niense, limitrofo al Cornia.

GAGIO GHUTOTI. Il Pieri individua tale topo-nimo con «Gagio Cuttoli», ubicato nei pressi diMassa Marittima, e quindi in territorio che i Ghe-rardesca dominarono con le roccheforti prece-dentemente elencate12.

RIVO ORSARIO. Per ciò che riguarda questo to-ponimo si rinvia a quanto detto per «Palatiiolo» e«Cornia».

RAOSSANO. Viene generalmente identificatocon Rezzano presso Calci, nel pisano, dove il do-minio dei Gherardesca è attestato da un docu-mento datato 93913. Il Pieri, a p. 127 della sua o-pera già citata, individua invece tale toponimocon altra località sita presso la «Caldana» nelgrossetano. Da segnalare inoltre che esiste un Ru-sciano presso Capannoli in Val d’Era, dove i Ghe-rardesca ebbero dominio nel Medio Evo.

SALINAS IN LOCO VADA. Nessuna difficoltà adindividuare questo toponimo che ancor oggi con-serva la sua originaria denominazione e che si lo-calizza a nord di Cecina, nel livornese. Già nel1042, un manoscritto, conservato fra le carte delmonastero di S. Paolo all’Orto di Pisa, riporta lavendita di alcuni terreni limitrofi al castello di Va-da, ad opera di personaggi che apparirebbero ri-conducibili senz’altro alla schiatta dei Gherarde-sca. Comunque un altro documento più tardo, eprecisamente del 1177, conservato nell’archiviodella casata comitale, oggi depositato presso l’A-

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14 CECCARELLI LEMUT, I conti Gherardeschi, cit., pp. 165-90. 15 SCHWARZMAIER, Lucca und das Reich bis zum Ende des XI Jahrhunderts, cit., p. 239. 16 CATUREGLI, op. cit., doc. 91; e SCHNEIDER, L’ordinamento pubblico della Toscana medievale, cit., p. 252, n. 157. 17 REPETTI, op. cit., vol. V, p. 290-92. 18 AAP, doc. del 1076 nel quale il conte Gherardo vende suoi beni nel distretto. 19 REPETTI, op. cit., vol. II, pp. 425-26. 20 SCHNEIDER, L’ordinamento pubblico della Toscana medievale, cit., p. 248, n. 137. 21 CATUREGLI, op. cit., doc. 181; e Mensa di Pisa, doc. 38. 22 PIERI, Toponomastica della Toscana Meridionale, cit., p. 98.

SF, cita donazioni fatte al monastero di S. Felicein Vada da parte dei conti e fratelli Gherardo eRanieri, figli di Gherardo, e relative a loro beni si-ti in Rosignano, Montecuccari, Riparbella, castel-lo delle Mele e Castelgiustri di Linaglia. Nel XIIIsecolo i Gherardesca inoltre possedevano ancorale «saline tedicinghe» lungo il litorale di Cecina,non lontano da Vada14.

POTIOLO. Dopo accurate indagini ho potuto i-neditamente concludere che si tratta certamentedi Pozzolo, sito non lontano da Castelfalfi nel vol-terrano [→ Castello Foalfi]. Da sottolineare chenei pressi di questo Pozzolo, antico insediamentoromano e, forse, ancor prima etrusco, vi sono va-rie rocche che furono dei Gherardesca e fra que-ste quella di Orzale. La mia ipotesi è fra l’altro a-vallata da un documento del 1161, citato da M.L.Ceccarelli Lemut nel suo Un inedito documentodell’archivio arcivescovile di Pisa riguardante il mo-nastero di Monteverdi e i conti della Gherardesca.Il manoscritto riporta proprio una vertenza insor-ta fra i due soggetti al riguardo di alcune terredell’Orzale, vicine a Pozzolo, di cui il monasterorivendicava la proprietà avverso ad analoga prete-sa dei conti. Meno attendibile, a mio avviso, la tesidello Schwarzmaier15 che, nel suo studio citato inbibliografia, sostiene trattarsi di Poziostolli, inlucchesia, che nel XI secolo era dominio del conteUgo, figlio di Tedice 1°, così pure come altri pos-sedimenti in località non lontane, quali Marlia,Segromigno, Lammari e Lunata.

SEPTARE. Di problematica localizzazione. Po-trebbe peraltro coincidere con il «Septere», pres-so Orciano Pisano, citato in un documento del101716, che viene indicato come «terra comitorumo terra ghisolfinga». Altra eventualità è quella chesi tratti di Settimo, presso S. Casciano nel pisano,di cui i Gherardesca furono signori per secoli, fre-giandosi anche del relativo titolo nobiliare17.

CASTELLO FOALFI. Senza ombra di dubbio trat-tasi dell’odierno Castelfalfi, nel distretto volterra-no di Montaione. Questa roccaforte fu dominatadai Gherardesca unitamente ad altri castelli della

zona, quali Mitiano, Orzale, Tenda, Collegalli eBarbialla.

LATINIANO. Secondo lo Schiapparelli è identi-ficabile con Latignano, presso Cascina nel pisa-no, dove i Gherardesca vantarono domini nelMedio Evo18. Il Barsocchini, nelle sue Memorie edocumenti per servire all’Istoria del Ducato di Luc-ca, accenna invece a Latiano, vicino a Segromi-gno, dove sono segnalati altri domini dei Ghe-rardesca [→ Potiolo].

AGELLO. Gello, derivato dal latino «agellum»(piccolo campo), è un toponimo molto diffuso inToscana, dove pare se ne contino oltre sessanta.È pertanto problematico individuare a quale del-le tante località omonime si sia riferito S. Walfre-do. Secondo il Repetti19 potrebbe trattarsi diGello, presso Casaglia in Val di Cecina, mentre ilBarsocchini, nella sua opera già citata, propende-rebbe per Gello di Lavaiano, nella Val d’Arno in-feriore. A mio giudizio potrebbe allora tenersianche in evidenza, sempre nel pisano, sia Gello,presso Palaia o che Gello, presso Montione oGello presso S. Giuliano Terme. In tutti i precita-ti distretti i Gherardesca ebbero comunque roc-che e possessi già nel X secolo e in quelli succes-sivi [inserto 2].

CISIANO. Lo Schneider20 lo identifica con Ci-sano o Cesana, in territorio pisano, dove i Ghe-rardesca ebbero domini sin dal 101521. Esisteperò un Ciciano fra Chiusdino e Montieri22, an-tico distretto volterrano che fu pure dominatoper vari secoli dai Gherardesca, conti di Frosini.Da segnalare peraltro anche un Cisciano in Gar-fagnana, menzionato da L. Angelini nel suo Pro-blemi di storia longobarda in Garfagnana. Comevedremo in seguito, alla Garfagnana ci ricondu-cano del resto altre donazioni di S. Walfredo. Atale proposito è forse opportuno segnalare che,già nel 1000, erano signori della Garfagnana iGherardenghi, stirpe di ceppo longobardo di-scendente da un Gherardo che potrebbe identi-ficarsi con il figlio di Ildebrando, comes di Luc-ca, che appare nel 996 nella genealogia dei Ghe-

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23 S. PIERI, Toponomastica del Val d’Arno, Accademia Lincei, Roma 1912, p. 161. 24 REPETTI, op. cit., vol. II, pp. 663-64, e vol. V, p. 623. 25 MURATORI, Antichità del Medio Evo, vol. III. 26 SCHNEIDER, Regestum Volterranum, cit., doc. 187. 27 AAP, Archivio segreto. 28 REPETTI, op. cit., vol. V, p. 792; e PIERI, Toponomastica del Val d’Arno, cit., p. 198. 29 SCHIAPPARELLI-BRUHL, Codice diplomatico longobardo, cit., p. 347, n. 7. 30 BRUNETTI, op. cit., p. 552. 31 CATUREGLI, op. cit., doc. 50. 32 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 273. 33 Ivi, vol. II, p. 953. 34 PIERI, Toponomastica della Toscana Meridionale, cit., p. 70. 35 PIERI, Toponomastica del Val d’Arno, cit., p. 102.

rardesca tracciata dallo Schwarzmaier nel testoprima citato.

MASSIANO. Identificabile con una località omo-nima situata fra Vicopisano e Cascina, in territoriopisano23, dove, come noto, i Gherardesca ebberoantichi domini.

UARIANO. Secondo il Repetti24, coincide conquello che oggi è detto Lavaiano, nella Val d’Arnoinferiore, dove appunto i Gherardesca dominaro-no la rocca di Vajano, come è attestato da un ma-noscritto del 115625 in cui il conte Walfredo, figliodi Enrico di Donoratico, vendette alla Mensa diPisa la sua quota parte di detto castello. Da segna-lare anche che nel 1159 il conte Tedice, con attorogato a Biserno, vendette a Galgano, vescovo diVolterra, alcuni suoi possedimenti fra cui un Va-liano26.

RIVO CAVO. Quasi sicuramente corrispondentead una località sita lungo il torrente Ricavo, ches’immette nella sinistra dell’Arno all’altezza delpadule, un tempo, formato dall’Usciana sulla rivaopposta del fiume [→ Padule Actioni]. Il castellodi Ricavo, che potrebbe forse coincidere con l’at-tuale Castel del Bosco, era dei Gherardesca e fuceduto ad Attone, arcivescovo di Pisa, dal conteRanieri di Forcoli nel 112127.

UEXINIANO. Dovrebbe trattarsi di Visignano,presso Cascina nel pisano28, zona nella quale iGherardesca dominarono le rocche di Rapida eSettimo. Anche lo Schiapparelli29 lo identificacon il predetto Visignano e così pure il Brunet-ti30. Da non trascurare peraltro una possibilecoincidenza con Usigliano, presso Cascina, in uncomprensorio in cui i Gherardesca signoreggia-rono varie roccheforti.

PITTULE. Di non facile identificazione. Potreb-be trattarsi di Pieve di Pitti, presso Laiatico in Vald’Era o di Casa Pectuli, presso Camaiano suimonti livornesi del Gabbro31. In entrambi tali di-

stretti i Gherardesca ebbero castelli e possedi-menti.

CASAS IN CIVITATE. Si tratta certamente di casein Pisa, di cui erano cittadini sia Walfredo che suopadre Ratcauso. L’area su cui sorgevano tali caseera probabilmente quella stessa sulla quale, piùtardi, i Gherardesca eressero le proprie torri ed ipropri palazzi. Quest’area era il quartiere di Chin-seca, il cui terreno, secondo alcuni storici, prove-niva da una donazione di Liutprando, re dei Lon-gobardi.

BARGA. Lo Schipparelli immagina che si trattidi Barga in Garfagnana e così pure il Repetti32

(Vedere in proposito quanto scritto alla voce Ci-siano). È pure del Repetti l’ipotesi che possa trat-tarsi di un paese omonimo, un tempo situato nonlontano da Pietrasanta in Versilia ed andato com-pletamente distrutto nel corso dei secoli. Da nondimenticare che, a Pitignano in Versilia, S. Wal-fredo fondò il monastero di S. Salvatore dove siritirarono a vita conventuale sia sua moglie che leloro figlie e sua sorella, sposa del nobile luccheseGunvaldo, che invece divenne monaco con Wal-fredo a S. Pietro in Palazzuolo.

GHERMIO. Il Repetti accosta questo toponimo aGhermio, vicino a Barga in Garfagnana33, e la suaipotesi appare plausibile. Il Pieri34 lo individua in-vece in Germano, presso Scansano nel grossetano.In quest’ultimo distretto i Gherardesca ebberodomini, come ci conferma l’atto di fondazione delmonastero di S. Maria di Serena nel 1004.

LUPINARIA. Sia lo Schiapparelli che il Repetti i-dentificano questo toponimo con Lupinaia, in altaVal di Serchio presso Gallicano.

GLACENTIIANO. Secondo il Pieri35 si tratta diuno dei due Glutzano, siti l’uno in Val d’Era el’altro nella Maremma grossetana. Sappiamo chein entrambi detti comprensori i Gherardesca eb-bero domini nell’Alto Medio Evo. Il Guidi e il

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36 E. FALASCHI, Carte dell’Archivio Capitolare di Pisa, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1971, pp. 114-15. 37 Si vedano, infra, le voci Arsula e Arina. 38 NANNIPIERI D’ALESSANDRO, Carte dell’Archivio di Stato di Pisa, cit., docc. 22 e 88. 39 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 273. 40 CATUREGLI, op. cit., doc. 55. 41 REPETTI, op. cit., vol. II, pp. 566-67. 42 M. TIRELLI CARLI, Carte dell’Archivio Capitolare di Pisa, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1977, p. 226.43 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 111. 44 Ivi, p. 112 del Supplemento; e SCHIAPPARELLI, op. cit., p. 349, n. 4.

Parenti, nel loro Regesto del Capitolo di Lucca, ri-portano, al n. 1336, un documento del 1176, re-datto a Guzzano, nel quale, a mio avviso, appaia-no personaggi riconducibili alla genealogia deiGherardesca. Inoltre fra i vari toponimi citati inun lavoro di E. Falaschi36, è riportato il docu-mento n. 40 nel quale si menziona un Glatitiano,forse identificabile con Ghezzano, in comune diS. Giuliano Terme nel pisano37. Infine un Glatia-no, confinante con un «prato Teudici», è menzio-nato in due documenti, uno del 1020 e l’altro del107438, i cui attori, nonché un sottoscrittore, par-rebbero riconducibili alla genealogia dei Gherar-desca.

SARACHANIANO. Il Repetti lo identifica con Sa-ricagnana in Garfagnana39. Non è però da esclu-dersi che possa trattarsi di Sarchiano che il Piericita nella sua Toponomastica della Valle dell’Arno.

PADULE ACTIONI. È individuabile con il paduleformato un tempo dal torrente Usciana, tributariodestro dell’Arno in vicinanza di Castelfranco diSotto40 Come più volte ripetuto, in tale distretto iGherardesca ebbero varie rocche. Da segnalare

che nel 1068, la contessa Matilde di Toscana con-fermò al conte Ranieri di Forcoli il feudo su alcu-ni terreni ubicati in Usciana41.

ARSULA. Probabilmente identificabile con unsubburbio settentrionale di Pisa42. Lo Schiappa-relli la fa coincidere infatti con Arsole in bassa Valdi Serchio, vicino a Vecchiano, dove un tempo in-sistevano varie arimannie longobarde. Il Repettiinvece la individua in Arsiccioli, vicino a Castel-franco di Sotto, nella zona di Ricavo e Uscianadove furono domini dei Gherardesca.

ARINA. Sia il Repetti43 che lo Schiapparelli nonhanno incertezze nel farla corrispondere ad Are-na, in bassa Val di Serchi [→ Arsula].

UERRIANA. Dovrebbe identificarsi con Pieve diS. Gervasio, in Val d’Era, detta, un tempo Verria-na e citata in varie membrane a partire dal IX se-colo44. A mio avviso potrebbe anche trattarsi diVeriana in Val di Fine, presso S. Luce, nelle cui vi-cinanze, nel IX secolo, era citata la «Sala di Teudi-cio». Nella medesima zona insistevano le roccheGherardesca di Montevaso, Mele e Strido.

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1 Nell’Alto Medio Evo la proprietà fondiaria in Toscana era molto frazionata e il dominio su di una rocca od un castellonon implicava necessariamente il possesso, da parte del castellano, di tutto il territorio di cui lui curava la difesa. Peraltro i li-beri coloni, usufruendo della sua protezione, dovevano versargli tributi.

2 Fino al secolo XI il termine servus corrispondeva in pratica a quello di schiavo. Negli atti di vendite effettuate in queisecoli si trova frequentemente che un determinato fondo viene ceduto assieme ai suoi abitanti e questo conferma che il ser-vus rappresentava proprietà alienabile dal padrone e ne costituiva parte del patrimonio così come i campi ed il bestiame.

Nell’Alto Medio Evo, la denominazione di «ca-stello» o di «rocca» stava ad indicare un appresta-mento difensivo, generalmente non molto grande,costruito quasi sempre sul cucuzzolo di un’altura,nonché corredato da una cinta muraria e da una opiù torri, ma per il resto dotato di pochissimi, epoco confortevoli, locali destinati all’alloggio deisoldati messi a guardia del fortilizio.

Il castellano, quando risiedeva nella roccaforte,dedicava gran parte del proprio tempo alla curadel drappello di armati alle sue dipendenze. Inol-tre provvedeva al controllo dei lavori nelle circo-stanti terre di suo eventuale dominio diretto1, chegeneralmente venivano coltivate da «servi»2. Uni-co suo svago era la caccia, dalla quale, oltre allacarne per l’alimentazione sua e dei suoi soldati, ri-cavava anche trofei che, appesi poi alle pareti, co-stituivano spesso il maggior ornamento del suospoglio e mal illuminato alloggio. Con il trascorre-re dei secoli, il «castello» si andò identificandocon una costruzione assai più grande che, pur nonvenedo meno alla propria destinazione guerresca,privilegiava anche la parte abitativa che fu semprepiù riccamente addobbata, via via che l’edificioandava perdendo le sue originarie finalità militariper assumere, per il proprietario, più pacifici sco-pi di rappresentanza.

Quando dunque si parla di castelli nell’AltoMedio Evo si debbono immaginare dei fortilizidel primo tipo, quasi sempre disposti secondo unpreciso schema che li voleva a vista fra di loro equindi in grado di intercomunicare con segnali difumo, di giorno, o con fuochi, di notte. Del restoera proprio questo il tipico apparato di difesa chei Longobardi apprestavano all’atto stesso della lo-ro conquista di ogni nuovo territorio.

La logica di tale assunto ha notevolmente facili-tato l’opera di chi scrive, nell’individuazione piùesatta possibile dell’articolata e potente rete difen-siva storicamente controllata dai Gherardesca frail X e il XII secolo. La cartina geografica in allega-to, evidenzia tale peculiarità, mostrandoci il carat-teristico allineamento o raggruppamento dei cas-seri dominati dalla casata comitale, a mezzo deiquali, procedendo da nord verso sud, essa con-trollava i seguenti territori strategici: Val d’Arnoinferiore (da S. Miniato a Pisa); Val d’Egola e Vald’Era (dal loro sbocco verso l’Arno alla loro origi-ne volterrana); Val di Merse (nell’antico distrettovolterrano, oggi divenuto senese); litorale tirreni-co (dall’odierno Livorno al fiume Cornia); la Valdi Fine e la Val di Cecina (dal litorale alle vicinan-ze di Volterra) ed infine tutta la Val di Cornia. In-spiegabilmente isolati ed avulsi da un qualsiasischema organico, apparivano invece il castello diBisenzio, sul lago di Bolsena, e le rocche di Alma,Giugiano e forse Vicinatico, tutte dislocate nel di-stretto grossetano di Roselle. Un’ulteriore consi-derazione, che ci aiuta a fare la precitata cartinageografica, è quella che, mano a mano che nelcontado circostante alle città, rafforzarono la pro-pria influenza prima la Chiesa, sostenuta daiFranchi, e poi le emergenti realtà comunali, iGherardesca furono costretti ad abbandonaregradatamente le loro posizioni più esposte a talipressioni, per finire con l’arroccarsi in quell’encla-ve «bunker», situata fra i fiumi Cecina e Cornia,che in seguito fu denominata «la Gherardesca» eche, per essere collocata sufficientemente distantedalle mire espansionistiche dei comuni di Pisa,Volterra, Siena e, da ultimo, Firenze, ebbe la pos-sibilità di essere mantenuta praticamente indipen-

INSERTO 2

Castelli e rocche che furono dominati dai Gherardesca per breve o lungo periodo

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3 BERTINI, Memorie e documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, cit., vol. IV, p. 46. 4 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 69; e NANNIPIERI D’ALESSANDRO, op. cit., doc. 89. 5 REPETTI, op. cit., vol. V, p. 150. 6 SCHNEIDER, Regestum Volterranum, cit., doc. 145. 7 AF, f. 98, a. 1132 e f. 99, a. 1132. 8 AF, f. 95, nn. 1 e 13, a. 1117; e ROSSETTI, Pisa nei secoli XI e XII, cit., p. 37, n. 282. 9 AF, f. 150, n. 30.

10 SCHNEIDER, L’ordinamento pubblico della Toscana medievale, cit.

dente per tutto il Medio Evo e, in forma partico-lare, anche nell’Evo Moderno.

Per concludere, è opportuno segnalare che de-gli antichi casseri dei Gherardesca, oggi rimango-no o delle ristrutturazioni che ne hanno incorpo-rato e stravolta l’antica struttura o solo qualcherudere e talvolta nemmeno quello. È da ricordareinfatti che quando vari di essi vennero rasi al suo-lo a seguito di eventi bellici, questi furono letteral-mente smontati per riutilizzarne le ben squadratepietre nella costruzione di altri edifici o di caratte-re religioso o, soprattutto, di destinazione agrico-la. In quest’ultimo caso non è infrequente rinveni-re in qualche podere l’antico nominativo del ca-stello dal quale furono germinati. Del resto anchemio nonno Walfredo, quando, nel 1929, fece eri-gere una torre campanaria al lato della chiesa par-rocchiale di Castagneto, pensò bene di riutilizzarele pietre sparse attorno alla diruta torre del castel-lo di Donoratico. Una lapide, murata su di unadelle pareti esterne del campanile, ricorda appun-to tale evento.

Da segnalare infine che le ubicazioni dei varicastelli indicati nella cartina geografica non pre-tendono di essere assolutamente esatte, poichétalvolta i casseri, distrutti da un qualche attacconemico, anche se vennero riedificati, come nel ca-so di Bolgheri, lo furono in posizione diversa daquella originaria. Per poter oggi localizzare l’anti-co sito delle roccheforti andate distrutte, occorrespesso riferirsi a toponimi che si riscontrano fre-quentemente in Toscana e che suonano, ad esem-pio, come: «il castellare», il «colle del castelluc-cio», il «poggio della rocca» o simili.

ACQUAFREDDA. Fu uno dei castelli che i Ghe-rardesca costruirono e dominarono in Sardegna eche persero nel 1326, dopo la pace fra Pisa e il reGiacomo II d’Aragona. Le rovine della roccafortesono ancora ben visibili sulla vetta di un’altura aforma di pan di zucchero, che si erge ai marginioccidentali del Campidano di Cagliari.

ACQUAVIVA. È menzionato nel 1004 nell’atto difondazione del monastero di S. Maria di Serenaed in un altro manoscritto del 1109 con cui il con-

te Ugo, figlio di Tedice 2°, dona alcuni suoi beni aRangerio, vescovo di Lucca3. Il Repetti, nel suoDizionario, così descrive questa rocca: «Castellarenei monti della Gherardesca, alle sorgenti del RioAcquaviva che sbocca in mare presso la torre di S.Vincenzo. Fu dominato dai Gherardesca. Ogginon ne rimane alcuna traccia». Il conte Fazio No-vello, signore di Pisa, nel suo testamento menzio-na il monastero di Acquaviva, che era forse ubica-to su quello che è oggi detto «Poggio del Romito-rio» a nord est di S. Vincenzo.

ALMA. Rocca situata sui monti di Tirli che so-vrastano Pian d’Alma, nel grossetano. Oggi nonne rimangono neppure le rovine ma doveva essereubicata non distante dalla Badia di Sestinga allaquale Ugo, conte di Suvereto, vendette nel 1074la propria metà di questo castello con il relativoporto e distretto4.

ASCI o ASCHI. Una prima memoria di questocastello si rintraccia in un documento del 9755. Larocca, nel 1109, è menzionata come dominio deiGherardesca6 ed in altro manoscritto del 1132 èpure citata come Signoria comune fra i Gherarde-sca medesimi e i Cadolingi7. L’ubicazione del ca-stello potrebbe coincidere con Asciano, alle faldeorientali del Monte Pisano, nei cui pressi è situatoVicascio, un tempo detto Vico d’Asci.

BARBIALLA. → Scopeto.

BELLORA. Un tempo ubicato nella Val di Ceci-na inferiore, non distante dalle rocche di Casagliae Buveclo. Oggi non ne rimane alcuna traccia. Nel1117 Ermingarda, vedova del conte Ugo, donò al-la Mensa di Pisa le proprie quote della rocca inparola, come pure quelle di Buveclo, ricevute in«margincap» dal consorte8. Nel 1121 anche ilconte Gherardo di Gherardo, vendette all’arcive-scovo di Pisa la propria parte dei predetti due ca-stelli9.

BIBBONA. Di questa roccaforte, situata all’im-bocco di una delle vallate che dal litorale di Ceci-na conducono verso Volterra, rimangono oggi soloalcune mura ed un tozzo torrione. F. Schneider10

riporta che, dopo l’anno 840, questo cassero fu

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11 ROSSETTI, op. cit., p. 37, n. 282. 12 Archivio Generale di Volterra. 13 AF, f. 102, n. 11. 14 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 328. 15 La gariganga, da wergango e cioè straniero, era un istituto fondiario longobardo, sviluppato in particolar modo nel di-

stretto pisano, con il quale, a scopo di difesa e non a titolo ereditario, alcune terre coltivabili venivano assegnate ad alleatistranieri che si fossero distinti in guerra e, per la loro affidabilità, fossero quindi meritevoli di una ricompensa.

16 Codex Carolinus, docc. 51, 57 e 58. 17 Appendice, doc. 3. 18 DAVIDSOHN, op. cit., vol. I, p. 601.

Signoria dei Gherardesca. Nell’Alto Medio Evo,infatti questa località era inglobata nella cosidetta«terra tedicinga» che si estendeva, approssimati-vamente, da Collesalvetti, a nord, al fiume Ceci-na, a sud. Successivamente il dominio passò al ve-scovo di Lucca; un documento, conservatonell’AAP, segnala che nell’XI secolo il conte Ugoe suo figlio Tedice ricevettero nuovamente Bibbo-na in enfiteusi. Nel 1117 questa rocca è ancoramenzionata fra i possedimenti dei Gherardesca11.Nel 1156 i fratelli Gherardo e Ranieri della Ghe-rardesca cedettero quanto loro apparteneva inBibbona al vescovo di Volterra12. Nel 1395 i Ghe-rardesca, che avevano rioccupato la rocca ormaidivenuta da tempo dominio pisano, la restituiro-no a Iacopo d’Appiano, signore di Pisa13, ma nel1405 se la fecero abusivamente riassegnare dallaRepubblica Fiorentina nelle «Capitolazioni in Ac-comandigia» sottoscritte fra quest’ultima e la ca-sata comitale. Comunque pochi anni dopo tale e-vento, Bibbona non figurava già più fra i possessidella famiglia.

BISENZIO. Castello ubicato sulla sponda occi-dentale del lago di Bolsena, di fronte all’isola Bi-sentina. Oggi ne rimangono solo alcuni ruderi.Apparteneva ai Gherardesca già nel 1002 e nel1004 figura nell’atto di fondazione del monasterodi S. Maria di Serena, fra i tanti beni che Gherar-do 2°, conte di Frosini, assegnò al convento da luifondato [doc. 2].

BISERNO. Rocca antichissima, oggi del tuttoscomparsa, eretta fra i monti che furono detti«della Gherardesca». Identificò uno dei rami del-la casata comitale. Se ne hanno notizie già dal-l’801 da un atto che fu redatto in tale rocca14. Nel1004 è menzionata nell’atto di fondazione del mo-nastero di S. Maria di Serena. Nel 1296 e poi nel1304, subì pesanti assedi da parte della Repubbli-ca Pisana e, forse, anche da parte dei conti di Do-noratico, alleati di Pisa. Non risulta se la roccavenne distrutta dopo l’assedio del 1304, né oggi sene conosce con esattezza l’originaria ubicazioneda individuarsi peraltro fra le alture ad oriente di

S. Vincenzo, in provincia di Livorno. Il territorioattorno alla rocca rimase in parte ai Gherardescaanche dopo l’estinzione del loro ramo familiare diBiserno.

BOLGHERI. Situato a sud di Cecina e collocatosu un modesto rilievo, fu probabilmente un anti-co «castrum» romano successivamente trasforma-to dai longobardi in una «gariganga»15 per merce-nari bulgari. Da tale ipotesi è dunque possibileche sia proceduta la denominazione di questo ca-stello che ancor oggi esiste in versione profonda-mente ristrutturata. Bolgheri fu fra i domini deglieredi di S. Walfredo, ma, per breve periodo nellaseconda metà dell’VIII secolo, fu usurpato da Al-lone, duca longobardo di Lucca, che lo ribattezzò«Sala di Allone». Per diretto intervento di papaAdriano I, Carlo Magno restituì Bolgheri a Gun-fredo, figlio di S. Walfredo nonché secondo abatedel monastero di S. Pietro in Palazzuolo, pressoMonteverdi16. Il castello vero e proprio dovrebbeessere stato costruito dai Gherardesca attorno al1000; in un’epoca di poco successiva, il monaste-ro di S. Maria di Serena vi vantava infatti propripossedimenti17. Nel 1128, in concomitanza con u-na delle innumeri guerre fra Pisa e Lucca, Bolghe-ri venne assediato e conquistato dal margravioCorrado, rappresentante in Tuscia del potere im-periale ed alleato di Lucca. In tale frangente alcu-ni Gherardesca furono fatti prigionieri e reclusi inuna torre presso Siena18. Incendiato da truppefiorentine nel 1393, allorché stava ormai per con-cludersi il secolare contrasto fra Pisa e Firenze,venne poi definitivamente raso al suolo nel 1496ad opera di soldatesche germaniche al soldodell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo. Il ca-stello fu successivamente riedificato, forse un po-co più a monte della sua originaria collocazione(riconducibile al non lontano toponimo detto og-gi «Castelvecchio»), ma i lavori per la sua rico-struzione, avviata ai primi del Millecinquecento, siprotrassero a lungo e procedettero in più fasi suc-cessive, per concludersi alla fine del Milleottocen-to nell’attuale veste neogotica.

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19 Per altre notizie sul castello, si rinvia a quanto già detto per quello di Bellora ed a ciò che riporta REPETTI, op. cit., allavoce Bovecchio.

20 MONTE DEI PASCHI DI SIENA, I castelli del Senese, Electa Editrice, Venezia s.a., 34. 2. 21 ASP, Pergamena Colletti. 22 AF, f. 95, n. 1, a. 1240; e CATUREGLI, op. cit., doc. 371. 23 SCHNEIDER, Regestum Volterranum, cit., doc. 113. 24 BERTINI, op. cit., vol. IV, Raccolta di documenti, p. 6, doc. III.25 Appendice, doc. 5. 26 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 192.

BUVECLO o BOVECCHIO. Di questa rocca, ubi-cata nella Val di Cecina inferiore poco distante daquella di Casaglia, non rimangono oggi nemmenole rovine19.

CAMPETROSO. Sito nella vallata della Cornia,fra i fiumiciattoli Pecora e Milia, nella località det-ta «Castello», ad est dell’odierno Capetroso20.Nel 1040 risultava in possesso dell’Abbazia diMonteverdi, ma nel corso del XIII secolo il domi-nio del convento si sfaldò. Campetroso è infattimenzionato in una sentenza del 1283 pronunziataa Pisa in favore di Paganello, Gualando e Pelluc-cio, conti di Castagneto, per la quale vennero adessi restituite sette parti del castello medesimo cheera invece reclamato dal comune di Massa Marit-tima21. Da questo fatto si potrebbe evincere l’anti-ca originaria Signoria dei Gherardesca. Ulteriorinotizie su Campetroso, datate 1296, si rintraccia-no nel Regesto Passerini, citato alle pp. 77 e 78della Difesa del dominio dei conti Gherardesca diM. Maccioni.

CAMPIGLIA. Collocato sulle ultime alture versomare che dominano la vallata della Cornia, questocastello è citato come Signoria dei Gherardescanel 1004 nell’atto di fondazione del monastero diS. Maria di Serena. È ricordato, successivamente,in un contratto di vendita fatto dal conte Ilde-brandino di Biserno e da sua moglie Matilde Lan-franchi22. Un ramo dei Gherardesca si richiamò altitolo di «conti di Campiglia» fra il XIII ed il XVsecolo.

CAMPORBIANO. Situato fra Volterra e Castelfal-fi, questo castello fu di originaria Signoria dei Ca-dolingi e probabilmente pervenne ai Gherardescaquale dote di Adelagita, figlia del conte Cadolo,andata sposa al conte Tedice 2°. Il castello è men-zionato in un manoscritto del 102823.

CAPANNOLI. Roccaforte ubicata nella Val d’Eravicino all’attuale paese che ancor oggi ne conservail nome. Per qualche tempo fu dominata da Gui-do 2°, conte di Forcoli, come ci conferma un«placito» della contessa Matilde di Toscana, con il

quale ella, nel 1099, ingiunse a detto conte Guidodi restituire la rocca al vescovo di Lucca che ne ri-sultava il legittimo proprietario24.

CASAGLIA. Rocca eretta a nord di Montescu-daio, su di un’altura lungo la riva destra del fiumeCecina. Fu Signoria dei Gherardesca da tempiimmemorabili e come tale è citata in molti docu-menti, fra i quali quello della Capitolazioni in Ac-comandigia del 140525. Nel trattato in parola siprecisa anzi che, a quell’epoca, Casaglia non erapiù fortificata. Oggi la rocca è stata ristrutturatain villa signorile.

CASALAPPI. Castello ubicato presso il fiumeCornia, su di una altura (forse quella detta oggiPoggio Castellaccia) non distante dalla localitàche tutt’ora ne conserva il nome; viene citato nel1055 come usurpato dal conte Tedice 2°. Succes-sivamente il conte Ugo, figlio di detto Tedice, ri-nunziò, nel 1101, ai suoi diritti sul castello in favo-re dell’abate della Badia di Sestinga26. Nel 1109,lo stesso conte Ugo vendette la «curte» di Casa-lappi, a Rangerio, vescovo di Lucca. Oggi di que-sta roccaforte non esistono nemmeno i ruderi.

CASALE. Castello collocato a nord di quello diBibbona, con cui sbarrava la medesima vallataverso Volterra. Di antichissima Signoria dei Ghe-rardesca, fu già menzionato nel 1004 nell’atto difondazione del monastero di S. Maria di Serena.Da una lettera di Filippo Belforti, vescovo di Vol-terra, indirizzata nel 1344 al conte Bernabò diDonoratico, che si trovava in Sardegna, si appren-de che Gherardo, fratello di detto Bernabò, si tro-vava malato nel suo castello di Casale. Nel 1405 laRepubblica Fiorentina riconobbe questo castellofra i domini dei Gherardesca. Pochi decenni dopoesso fu però smantellato, forse a seguito di una ri-bellione dei conti. Oggi ne rimangono solo alcunetracce alla sommità del pittoresco borgo medieva-le di Casale Marittimo.

CASTELL’ANSELMO. Rocca ubicata presso Par-rana fra i monti livornesi. Fu rasa al suolo dai fio-rentini nel 1432 per punirne gli abitanti che si era-

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27 CATUREGLI, op. cit., doc. 291. 28 Archivio del convento di S. Paolo all’Orto di Pisa. 29 NANNIPIERI D’ALESSANDRO, op. cit., p. 109, doc. 41. 30 AF, f. 99, a. 1213. 31 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 590.32 ASF, Carte di Vallombrosa. 33 MACCIONI, op. cit., pp. 79-81 [Sommario]; E. CRISTIANI, Per l’accertamento dei più antichi documenti riguardanti i conti

della Gherardesca, in «Bollettino Storico Pisano», XXIV-XXV, p. 16. 34 Forse il reintegro nel dominio dei Gherardesca avvenne in osservanza ai dettami della legge longobarda in materia di

doti matrimoniali.

no ribellati alla repubblica in occasione della di-scesa in Toscana del visconteo capitano di venturachiamato il Piccinino. Anche se non vi sono preci-se prove documentali, è possibile che, attorno al1000, questa roccaforte fosse Signoria dei Gherar-desca che nelle vicinanze possedevano beni inParrana e non lontano vari castelli come quelli diMonte Massimo, Planzano e Tripalle. Il documen-to del 1101, infatti, ricordato per le voci di Casa-lappi e Vicinatico, cita anche un Monte Anselmo.Del resto un documento del 1121 ci segnala cheproprio in Castell’Anselmo, il conte Gherardo, diGherardo, procedette alla vendita delle sue quotedi posseso dei castelli di Belora e Buveclo27.

CASALGIUSTRI. Ubicato in località Linaglia, nel-la Val di Cecina inferiore, non ne rimangono ogginemmeno le rovine. È citato come «castrum» inun documento del 117728. Stante la sua colloca-zione in pianura, era forse destinato a difendere ilguado principale del Cecina. Le Capitolazione inAccomandigia del 1405 ci dicano che, all’epoca,era ancora dei Gherardesca, ma che non era piùfortificato.

CASTAGNETO. Antichissimo cassero collocato, asud di Cecina, su di un’altura non distante sia dalcastello di Donoratico che da quello di Segalari.Da tempi immemorabili fu Signoria dei Gherar-desca che ne sono ancor oggi i proprietari. Dall’o-riginario bastione difensivo fu ricavato, alcuni se-coli or sono, l’attuale «palazzo baronale», come lodefinisce il Repetti nella sua opera più volte men-zionata. Nell’atto di fondazione, nel 754, del mo-nastero di S. Pietro in Palazzuolo, S. Walfredodonò al suo convento anche suoi beni siti in Ca-stagneto. Uno dei rami dei Gherardesca si fregiòdel titolo di «conti di Castagneto».

CASTELFALFI. Situato nel distretto Volterrano,nell’alta Val d’Era, questo castello tuttora esisten-te, anche se ampiamente ristrutturato, fu citatonel 754 nell’atto di fondazione del monastero diS. Pietro in Palazzuolo. A quanto pare fu Signoriacomune di varie casate di origine longobarda fra

cui i Gherardesca e i Cadolingi. Secondo il Repet-ti i primi vendettero la loro quota di possesso nel1139.

CASTELLO NOVO. Questa roccaforte, citata an-che nel 1004 nell’atto di fondazione del monasterodi S. Maria di Serena, dovrebbe corrispondereall’attuale Castelnuovo della Misericordia, ubicatofra i monti livornesi del Gabbro, e dominato, untempo, dal conte Fazio Novello della Gherarde-sca, signore di Pisa. Egli infatti lasciò per testa-mento alla Pia Misericordia pisana, le proprietàche aveva in Camaiano e un documento del 104129

riporta testualmente: «castello de Camaiano quidicitur novo». Altri invece identificano questo ca-stello con Castelnuovo Val di Cecina; che il casse-ro potesse essere ubicato in territorio volterrano,lo confermerebbe un documento del 1213, a firmadi Rinaldo, figlio di Alberto conte di Segalari30.

CASTIGLIONCELLO. Forse denominato un tem-po «Oliveto»31, è tuttora collocato sulla vetta di unalto colle a sud est di Bolgheri. Fu Signoria deiGherardesca sin dal X secolo32. Ai primi del Mille-quattrocento il castello fu acquistato dai Soderinidi Firenze, che si erano imparentati con i Gherar-desca stessi. Poi il cassero passò nelle mani deiPannocchieschi della Sassetta, quindi in quelle de-gli Incontri di Volterra ed infine, nel 1801, tornòin possesso dei Gherardesca. A seguito del matri-monio di Clarice della Gherardesca con il marche-se Mario Incisa della Rocchetta, oggi il castello èdivenuto proprietà di quest’ultima famiglia.

CASTIGLION MONDIGLIO. Ubicato lungo l’at-tuale litorale livornese, a nord di Rosignano, è og-gi conosciuto come Castiglioncello (da nonconfondersi con l’omonimo castello prima men-zionato). Giovanna, figlia del conte Arrigo, ebbequesto castello in dote quando, attorno al 1328,andò sposa a Gherardo degli Upezzinghi33. Il ca-stello poi rientrò fra i domini dei Gherardesca34

ed è infatti citato nelle Capitolazioni in Accoman-digia del 1405, che ci fanno sapere, fra l’altro, chenon si trattava più di una roccaforte.

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35 AF, f. 95, n. 2, a. 1053, e f. 150, n. 11. 36 MACCIONI, op. cit.,pp. 29-31 [Sommario]. 37 Appendice, inserto 1, alla voce Uerriana. 38 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 764; PIERI, Toponomastica del Val d’Arno, cit. 39 CATUREGLI, op. cit., doc. 292. 40 AAL, AD 73 e 74. 41 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 796. 42 Atto redatto nel 1147 nel castello di Montecuccari e sottoscritto dal conte Lotario Pannocchieschi e da sua moglie A-

delasia. 43 MACCIONI, op. cit., pp. 37-38 [Sommario]; e AF, f. 150, n. 36, a. 1177. 44 AF, f. 155, n. 16. 45 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 837. 46 CATUREGLI, op. cit., docc. 77 e 94; e Appendice, docc. 2 e 4. 47 F.M. FIORENTINI, Memorie della gran contessa Matilde, Giuntini, Lucca 1756.

CAUCICCIO o CUCICCIO. È citato in vari docu-menti35 ma non è facile localizzarlo. Unica labiletraccia di un tale bizzarro toponimo, forse la for-nisce il documento n. 98 dell’anno 1024 riportatoda N. Caturegli nel suo «Regesto della chiesa pi-sana», in cui si menziona la località di «Casiscio».

CHIUSDINO. Questo castello parrebbe risultaredi dominio dei Gherardesca quando, nel 1133, sistipulò la pace fra Crescenzo, vescovo di Volterra,e Gena Visconti, vedova del conte Ugolino diForcoli, la quale interveniva nell’atto in nome deisuoi quattro figli minori e degli altri componentidella casata comitale36. Da ricordare del resto chenelle immediate vicinanze la casata comitale do-minava o aveva dominato i castelli di Miranduoloe di Serena.

COLCARELLI. Rocca situata, fra la Val d’Era e laVal d’Arno inferiore, forse sulla vetta del poggioS. Lucia presso S. Gervasio37. Fu Signoria con-giunta dei Cadolingi e dei Gherardesca38. In que-sto castello fu redatto il documento con il quale ilconte Ranieri, figlio di Guido 2°, e sua moglie A-delasia cedettero all’arcivescovo di Pisa il castellodi Ricavo, ubicato poco distante. Colcarelli è an-che citato in un manoscritto del 1121 con il qualefu raggiunto un accordo fra il precitato conte Ra-nieri ed Attone, vescovo di Lucca39.

COLLEGARLI o COLLECHARLI. Dovrebbe trat-tarsi dell’odierno Collegalli, situato nei pressi diBarbialla, nella Val d’Egola. Viene citato in un at-to del 1123 con il quale il conte Ranieri, già ricor-dato per Colcarelli, giura al vescovo Benedetto diLucca che, nel caso di vendita o pegno della roc-ca, egli, prima di altri, si sarebbe rivolto al vesco-vo stesso40.

CORAZZANO. Non è chiaro se si trattasse di uncastello. Il Repetti41, parlando di Corazzano (giàQuaratiana), racconta che dopo il 1000 i beni e i

tributi della pieve di detta località furono dati inenfiteusi ai conti della Gherardesca dai vescovi diLucca e furono poi rilasciati liberi al vescovo Ran-gerio dal conte Ugo il 18 settembre 1109.

CUCCARI o MONTECUCCARI. Di questa rocca, u-bicata in Val d’Era non distante da Fabrica, nonrimane oggi traccia alcuna. Nella prima metà delXII secolo una porzione del possesso di questocastello passò forse ai Pannocchieschi che la rice-vettero quale apporto dotale di Adelasia, figlia diUgolino conte di Forcoli, andata sposa a LotarioPannocchieschi42. Peraltro nel 1177 parte dellarocca risultava ancora dei fratelli conti Gherardoe Ranieri, figli di Gherardo, che ne fecero dona-zione al monastero di S. Felice in Vada43. Monte-cuccari è citato nuovamente in un documento del129344.

CUMULO. Rocca ubicata non distante da S. Mi-niato, al disopra della valletta del torrente Chieci-nella45. Viene citata sia nel 1004 nell’atto di fon-dazione del monastero di S. Maria di Serena chenel 1022 nell’atto di fondazione del monastero diS. Giustiniano di Falesia46. Il dominio dei Gherar-desca su tale roccaforte non fu peraltro privo dicontrasti, se è vero che la contessa Matilde di To-scana, con un suo «placito» del 1100, dovette in-giungere ai conti Gherardo e Ugone, figli di Tedi-ce 1°, di restituire al convento di S. Maria di Sere-na la metà del castello da essi usurpata47.

DONORATICO. Castello ubicato poco a sud diCastagneto. Fu Signoria dei Gherardesca da tempiimmemorabili e fu sempre considerato la dimoracomune principale di tutta la casata comitale che,in origine, venne infatti conosciuta come quella dei«conti di Donoratico». La grande fortezza venneprobabilmente eretta fra il X e l’XI secolo e si con-servò intatta fino al 1447 o 1448 quando, a seguitodi una ribellione a Firenze del conte Fazio della

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48 CATUREGLI, op. cit., docc. 303 e 363. 49 CATUREGLI, op. cit., docc. 379 e 558. 50 MONTE DEI PASCHI DI SIENA, op. cit., 16. 4. 51 ASF, Carte di S. Agostino di Siena. 52 AF, f. 98, a. 1108, e Carte di S. Ottaviano di Volterra. 53 CATUREGLI, op. cit., doc. 218. 54 PIERI, Toponomastica della Toscana meridionale, cit., p. 110. 55 Acta Pontif. Romanorum Inedita, J. von Pflugk, Tübingen 1881-88, parte II, p. 309.

Gherardesca (e forse anche di altri suoi congiunti)venne rasa al suolo da truppe fiorentine. Oggi diquesto castello e del borgo che gli si era arroccatoattorno, rimangono solo il troncone di una delletorri, un grande portale di accesso a quello che erastato il fabbricato principale, una delle porte dellaprima cinta muraria e tracce delle cinte murariestesse che apparirebbero essere state più d’una.All’esterno di queste, è ancora visibile la facciatadella chiesetta del castello, rimasta incorporata inun edificio rurale ristrutturato ora in albergo.

FORCOLI. Detto nell’antichità «castrum de Fur-culae», ebbe probabilmente origini romane. Il ca-stello, certamente eretto più in alto rispetto al ca-strum, risultò in ottima posizione strategica, tro-vandosi allo sbocco della Val d’Era nella Vald’Arno. Fu a lungo dominato dai Gherardesca,un ramo dei quali si fregiò del titolo di «conti diForcoli». Nel 1123 e nel 1137 parte della roc-caforte e del borgo furono acquistati dagli arcive-scovi di Pisa dal conte Guido 3°, detto Malapar-te, e da sua moglie Galliana da Uzzano48. Nel1141, anche il conte Ermanetto, figlio di dettoconte Guido, cedette la propria parte del castelloe nel 1182 il conte Gherardo di Ranieri vendettedefinitivamente anche la sua quota49. L’originariafortezza, secondo quanto dice il Repetti, è statapoi riattata in quella bella villa signorile che fudei Niccolai Gamba Castelli. Considerato peral-tro che era presupposto di ogni apprestamentodifensivo dell’Alto Medio Evo di trovarsi colloca-to in modo da risultare in vista con altre roc-cheforti collegate (Colcarelli, Ricavo, Marti, ecc.),è più probabile che quella che fu la rocca Ghe-rardesca di Forcoli, si trovasse ubicata più in altodi detta villa, e più precisamente nel sovrastantepaese di Montacchita.

FROSINI. Castello trasformato oggi in villa; è u-bicato nel senese ad uno degli imbocchi alla Valdi Merse. Del primitivo complesso rimane solo u-na torre al centro del fabbricato, una base a scar-pa ad una delle cantonate ed ampi tratti del muroesterno che sovrasta la scarpata50. Quando Ghe-rardo 2° della Gherardesca fondò nel 1004 il mo-

nastero di S. Maria di Serena, nel manoscritto siqualificò quale conte di Frosini. Molti documentimenzionano questo castello. Di particolare inte-resse è quello del 1133, con il quale fu sancita lapace fra Crescenzo Pannocchieschi, vescovo diVolterra e i Gherardesca. Nel 1186 i conti di Fro-sini si sottomisero al comune di Siena. Essi sonopoi ricordati anche in un documento del 1204conservato presso l’ASS. Altro manoscritto del124351 accenna ad una controversia fra un Ghe-rardo, conte di Frosini, e i conti Ranieri e Ilde-brandino, fratelli fra di loro e figli di altro Ranieri.

GERMAGNANA. Questa rocca venne donata, nel1101, alla canonica di Volterra da un conte Ugo52.In quell’epoca, tale nominativo è rintracciabile sianella genealogia dei Gherardesca, conti di Suvere-to, che in quella dei Cadolingi, ma, in quest’ulti-mo caso dovrebbe trattarsi di Ugo, figlio di Uguc-cione, e non già di Ugo come riportato nel docu-mento. L’ubicazione del castello potrebbe essereindividuata nei pressi di una località omonima asud di Montaione, nel volterrano.

GIOIOSA GUARDIA. Denominato oggi Villamas-sargia, fu uno dei tre castelli che i Gherardesca e-ressero e dominarono nella loro zona d’influenzain Sardegna e fu forse l’unico di essi che rimase inloro possesso dopo la pace del 1326 con re Giaco-mo II d’Aragona. Della rocca rimangono ancoroggi le rovine.

GIUCIANO. È citato dal Caturegli53. Se fosse ac-costabile al toponimo «Iuniano»54, potrebbe esse-re identificato con Iuniano, presso Roselle, nelgrossetano55, distretto nel quale i Gherardesca eb-bero domini attorno al 1000, come ci confermal’atto di fondazione di S. Maria di Serena. Fra Ri-bolla e Civitella Paganico esiste tutt’oggi il «moli-no di Giugnano».

GONNESA. Fu il terzo dei castelli Gherardescain Sardegna. Era ubicato a sud di Villa di Chiesa,detta oggi Iglesias, dove ancor ora essite il paeseomonimo.

GUALDA o GUALDO. Localizzabile forse sul«poggio del castelluccio», nei pressi dei due po-

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56 AF, f. 95, n. 13, a. 1053; e TARGIONI TOZZETTI, op. cit., vol. IV, p. 204. 57 AGV. 58 SCHNEIDER, Regestum Volterranum, cit., doc. 145.59 REPETTI, op. cit., vol. II, pp. 668-69. 60 PIERI, Toponomastica della Val d’Arno, cit., p. 242.61 PIERI, Toponomastica della Toscana meridionale, cit. 62 MACCIONI, op. cit., pp. 37-38 [Sommario]. 63 MONTE DEI PASCHI DI SIENA, op. cit., 16. 6. 64 SCHNEIDER, Regestum Senese, cit., doc. 286. 65 SCHNEIDER, Regestum Senese, cit., doc. 364.

deri «Gualda di sopra» e «Gualda di sotto», lun-go la strada collinare che da Sassetta conduce aMonteverdi. Ugo, figlio di Rodolfo 2°, conte diSuvereto, vendette questa rocca nel 1053 al mona-stero di S. Pietro in Palazzuolo56.

GUARDISTALLO. Denominazione che deriva for-se dal longobardico «werdem stabulum», che si-gnificava «residenza di guardia». Questo castello,ubicato sulle alture ad est di Cecina, fu dei Ghe-rardesca da tempi immemorabili. Nel 1155 i contiGherardo e Ranieri, donarono a Galgano, vesco-vo di Volterra, una porzione dei loro beni nel di-stretto di Guardistallo57. Altro documento del1160 cita ancora Guardistallo e i predetti due fra-telli Gherardesca. Il castello fu tolto alla famigliacomitale con la firma delle Capitolazioni in Acco-mandigia del 1405, ma, attorno al 1447, fu da essariconquistato, con l’aiuto delle truppe di re Alfon-so V d’Aragona. Dopo che la roccaforte venne ri-presa dalla repubblica gigliata, i Dieci di Balia nedeliberarono lo smantellamento nel 1448. Oggi diessa, nell’omonimo paese, rimangono solo alcunevestigia in via di Castello.

LAIATICO. Situato, poco distante da Volterra,quasi all’inizio della Val d’Era, è menzionato qua-le dominio dei Gherardesca dallo Schneider58.

LAVAIANO. → Vajano.

LECCIA. Rocca situata in alta Val di Cornia, nondistante da Serazzano. Ghisla, vedova di un contedi Suvereto, era signora di tale castello quando,con il consenso del figlio Uguccione, lo donòall’Abbazia di Monteverdi il 20 gennaio 110559.

LUCAGNANO. Dovrebbe coincidere con l’omo-nima località del pisano, ubicata fra Perignano eCapannoli. Un conte Gherardo di Donoraticovendette questo castello con atto redatto, il 29 a-gosto 1121, in Castell’Anselmo, presso Parrana.

MARTI o MARTA. Viene citato nel 1004 nell’attodi fondazione del monastero di S. Maria di Sere-na. Ubicato in Val d’Arno, ad ovest di S. Miniato,questo castello fu forse Signoria comune dei Ghe-

rardesca e dei Cadolingi. Il Repetti, nella sua ope-ra più volte citata, dice che, dopo il 1100, appar-tenne ai Cadolingi e, alla loro estinzione avvenutapochi decenni dopo, passò agli Upezzinghi. Nonè da escludersi che la rocca sia pervenuta ai Cado-lingi quale dote di Adelasia, figlia del conte Gui-do di Forcoli, quando essa, secondo il Litta, sposòUgone Cadolingi, il quale poi, in seconde nozze,si unirà con Cecilia Upezzinghi.

MEGRANO. È citato nel 1004 nell’atto di fonda-zione del monastero di S. Maria di Serena e do-vrebbe coincidere con il castelletto di Mengrano si-to in Val d’Egola60 dove i Della Gherardesca domi-narono molte altre roccheforti. Potrebbe peraltrocorrispondere anche al toponimo «Melagrano»61

individuabile sia presso Chiusi che presso Sartea-no; entrambi dette località, site nel distretto senese,non risultano troppo lontane da quel castello di Bi-senzio che il conte di Frosini, Gherardo 2°, donò alprecitato convento da lui fondato.

MELE. Situato sulle alture a nord ovest di Vol-terra, potrebbe coincidere con l’odierno castellodi Miemo, che sorge nei pressi del colle delle Me-le. È citato in un documento del 1177 con il qualei conti Gherardo e Ranieri, già varie volte menzio-nati, effettuarono alcune donazioni al monasterodi S. Felice in Vada62.

MIRANDUOLO. Rocca eretta alla confluenza didue piccoli torrenti sulla destra del fiume Merse,in un bosco detto Costa Castagnoli. Ne rimango-no oggi solo alcuni ruderi63. Era già Signoria deiGherardesca nel 1004 quando Gherardo 2° fondòil non lontano monastero di S. Maria di Serena.Nel 1178, il conte Tedice, figlio di Ugolino contedi Forcoli, donò il castello al comune di Siena64;altro documento del medesimo anno riporta cheil predetto conte Tedice fece donazione al mona-stero di Serena della propria metà di tale cassero;la donazione fu convalidata nel 1187 da papa Ur-bano III. Nel 119365, Ildebrandino, vescovo diVolterra, giura di restituire ad Ugolino, conte diStrido, quanto i suoi avi avevano posseduto in Mi-randuolo, che, se il conte voleva, poteva anche es-

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66 SCHNEIDER, Regestum Senese, cit., doc. 410. 67 TARGIONI TOZZETTI, op. cit., vol. I, p. 44.68 SCHNEIDER, Regestum Volterranum, cit., doc. 27. 69 DAVIDSOHN, op. cit., vol. I, p. 783. 70 CATUREGLI, op. cit., doc. 94; e Appendice, doc. 4. 71 G. VILLANI, Cronica, B. Zanetti, Venezia 1537, col. V-27 [Rizzoli, Milano 1935]. 72 Documento conservato fra le carte della Certosa pisana di Calci. 73 BARSOCCHINI, Memorie e documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, cit., t. V, p. II, doc. 919.74 SCHNEIDER, Regestum Volterranum, cit., doc. 145.75 REPETTI, op. cit., vol. III, p. 432. 76 CATUREGLI, op. cit., doc. 234. 77 CATUREGLI, op. cit., doc. 371 e AF, f. 95, a. 1240. 78 ASF, Carte del monastero di S. Lorenzo alla Rivolta di Pisa.

sere riedificato. Nel 1202, Ugolino, conte di For-coli, s’impegnò a non cedere i propri diritti su Mi-randuolo senza il preventivo assenso del comunedi Siena66. Un documento della comunità diMontieri riporta che, nel 1257, il conte Ildebran-dino, figlio di Ranieri, vendette la terza parte deipossedimenti suoi e di suo fratello Ranieri, fra cuile «argentiere» situate presso Miranduolo67.

MITIANO. Può identificarsi con una località o-monima citata in un documento del 94768, ubica-ta nei pressi dell’odierno Vignale nel distretto vol-terrano. Questo castello è elencato fra quelli che ilconte Gherardo 2° donò al monastero di S. Mariadi Serena.

MONTEBICCHIERI. Forse denominato antica-mente Vetrugnano69. È ubicato poco distante da S.Miniato, sulla sommità di un’altura che, da un lato,domina la Val d’Egola e, dall’altro, la valletta deltorrente Chiecina. Nel 1022, in questo castello furedatto il documento con il quale sei fratelli Ghe-rardesca fondarono il monastero di S. Giustinianodi Falesia, presso Piombino70. Montebicchieri, oVetrugnano che dir si voglia, fu a lungo conteso frai Gherardesca ed il comune di S. Miniato. G. Villa-ni, nella sua Cronaca71, cita un primo accordo fra leparti nel 119872 ed un secondo nel 1211. Nel 1261,il comune di S. Miniato fu costretto a restituire an-cora una volta ai Gherardesca i diritti su tale ca-stello che i fiorentini avevano invece unilateral-mente assegnati ai sanminiatesi. Poco più tardiperò la roccaforte passò definitivamente sotto ilcontrollo del summenzionato comune.

MONTEBURLI. Rocca segnalata in Val di Cornia,presso Cornino, detta anche Monte Buruli73 e do-minata dai Della Gherardesca74.

MONTECALVO. Rocca situata poco distante daquella di Acquaviva; era probabilmente eretta sul-l’altura che ancor oggi è denominata Monte Calvi,ubicata fra Castagneto e Campiglia Marittima, in

quelli che furono detti «monti della Gherarde-sca». È citata, nel 1004, nell’atto di fondazione delmonastero di S. Maria di Serena.

MONTECASTELLO. Antica rocca situata fra iltorrente Cecinella e l’Era. Secondo la PescagliniMonti questo fortilizio era dominato dai Gherar-desca. La notizia non troverebbe peraltro confer-ma da parte di altri ricercatori storici, sempre,ben inteso, che il toponimo non abbia subito me-tamorfosi nei secoli.

MONTECUCCARI. Vedere Cuccari.

MONTEMASSIMO. Castello un tempo situato sudi una propaggine settentrionale dei monti livor-nesi, non distante da Limone75; corrisponde forseall’odierno Monte Masso, sito in quei paraggi. Ilcassero doveva sorgere non troppo lontano dallarocca di Planzano della quale parleremo fra bre-ve. Montemassimo è citato in un atto di vendita,redatto a Parrana, dai fratelli Gherardesca, contiRanieri e Guido, detto Malaparte76.

MONTE S. LORENZO. Castello nel distretto diMassa Marittima, situato non lontano da quello diCampetroso. Fu dominio dei Gherardesca77. Undocumento del 1315 riporta che in quell’anno ilconte Tige di Donoratico riacquistò una terzaparte di questo castello dai Della Rocca.

MONTESCUDAIO. La denominazione di questaroccaforte può derivare da «monte dello schuld-heis»; lo schuldheis o sculdascio era un funziona-rio minore dell’ordinamento pubblico longobar-do. Situata non lontano da Guardistallo, fu Signo-ria dei Gherardesca da tempi immemorabili ed u-no dei rami della casata si richiamò al titolo di«conti di Montescudaio e Guardistallo». Nel 1091,il conte Gherardo 5° fondò a Montescudaio il con-vento di S. Maria per monache benedettine, che e-siste ancor oggi ma che ora è delle Piccole SuoreMissionarie di Livorno. Vari documenti attestanola continuità della Signoria dei Gherardesca78 fino

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79 TARGIONI TOZZETTI, op. cit., vol. IV, p. 438. 80 MURATORI, Antichità de Medio Evo, vol. III, p. 1169. 81 TARGIONI TOZZETTI, op. cit., vol. III, p. 187. 82 G. VOLPE, Medio Evo Italiano, Sansoni, Firenze 1961, p. 340. 83 SCHNEIDER, Regestum Volterranum, cit., doc. 157. 84 AF, f. 95, n. 14. 85 M.L. CECCARELLI LEMUT, Un inedito documento dell’Archivio Arcivescovile di Pisa, riguardante il Monastero di Monte-

verdi e i conti di Castagneto (Pisa, 1161 novembre 9), in «Bollettino Storico Pisano», XL-XLI, 1971-72, pp. 31-37. 86 AF, cartapecora n. 23 bis. 87 REPETTI, op. cit., vol. II, pp. 698-99. 88 SCHWARZMAIER, op. cit., p. 211. 89 Annali camaldolesi, vol. III.

alle Capitolazioni in Accomandigia del 1405. Do-po tale trattato, Montescudaio subì le vicende e lasorte del vicino castello di Guardistallo.

MONTEVASO. Situata a cavallo delle valli delloSterza, affluente dell’Era, e del Fine79, questa roc-ca era ubicata poco distante da quelle di Strido edi Mele. È citata dal Muratori80 sulla base di unmanoscritto del 1156, che riporta la vendita fattadi tale cassero dal conte Walfredo, figlio di Enricodi Donoratico, all’arcivescovo di Pisa81.

MONTIERI. Questo castello, collocato ad ovestdi Chiusdino nell’antico distretto volterrano, alprincipio del XII secolo risultava dominio del ve-scovo di Volterra. Precedentemente però vi aveva-no vantato propri diritti anche i Gherardesca82 eciò almeno fino al 1133, anno in cui, grazie anchealla mediazione di papa Innocenzo II83, fu trovatoun accordo fra la casata comitale e Crescenzo, ve-scovo di Volterra.

ORZALE. Rocca ubicata fra il castello di Castel-falfi e quello di Tonda. È menzionata in un mano-scritto con il quale i Gherardesca, conte Guido daun lato e conti Tancredi e Tedice dall’altro, ven-dono le loro quote parti di tale castello84. Ne ac-cenna anche una sentenza del 1161, relativa ad u-na controversia insorta fra i precitati Gherardescaed il monastero di S. Pietro in Palazzuolo, circa ilpossesso di alcune terre dell’Orzale85.

PAPENA. Era probabilmente una piccola roccaubicata, non lontano da Frosini, dove oggi esisteun podere omonimo o, piuttosto, nella vicina lo-calità del Castelletto che appunto sovrasta la valledi Papena. Vi fu redatto un documento del 1007[retro, cap. I, n. 40].

PERETA. Situato presso Manciano, nel grosseta-no, questo castello, tuttora esistente, era dominiodella Chiesa di Roma. Il conte Fazio Novello dellaGherardesca, signore di Pisa, lo ricevette in donoda papa Giovanni XXII che volle con tale atto e-sprimergli la propria riconoscenza per l’opera

svolta da Fazio Novello onde far sì che l’antipapaNiccolò V facesse atto di sottomissione al legitti-mo pontefice. Il Gherardesca, alla propria morte,restituì per testamento alla Chiesa detto castello86.

PIETRACASSA. Situato presso Orciatico, in Vald’Era. Per questo castello vale quanto detto perquello di Camporbiano.

PIETRAROSSA. Piccola rocca ubicata sulle alturesovrastanti il castello di Donoratico, non distantedalla rocca di Montecalvo. Un fabbricato agricolosemidistrutto ne conserva ancor oggi la denomi-nazione. Fu dominio dei Gherardesca da tempiremotissimi. Alcuni membri della casata si fregia-rono occasionalmente del titolo di «conte di Pie-trarossa». La rocca è menzionata nel documenton. 204 riportato da N. Caturegli nel suo «Regestodella Chiesa pisana».

PLANZANO. Localizzabile nei dintorni dell’o-dierno Livorno, viene citato nel 1004 nell’atto difondazione del monastero di S. Maria di Serena epoi in altro manoscritto del 100687 in cui vienedetto «Platiano» e collocato poco a sud da VillaLimone (forse su quello che oggi è detto Poggiodel Castello presso Montenero), che nel 949 fuconcessa in livello al conte Rodolfo, figlio di Ghi-solfo88. Nella medesima zona il Repetti parla di«terra dei conti» e di «selva dei figli di Ghisolfo».Del resto G. Volpe a p. 396 del suo Studi sulle isti-tuzioni comunali di Pisa, cita un documento divendita fra i Gherardesca e i Sismondi dei dirittisul castello di Montenero. Il Pieri nella sua Topo-nomastica del Val d’Arno, segnala peraltro ancheun «Pianzano» presso Cedri di Peccioli, in Vald’Era, dove i Gherardesca ebbero pure domini.

PORCARI. Castello situato in lucchesia, vicino aipossedimenti che i Gherardesca ebbero a Lunata,Lammari, Segromigno e Marlia. Nel 1047, Guido,detto «Bacherello», vendette al conte Ranieri unaporzione del castello di S. Giusto a Porcari89. Nel1051 un accordo fra Giovanni, vescovo di Lucca,

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90 AF, f. 95, n. 13. 91 CATUREGLI, op. cit., doc. 277; e ROSSETTI, op. cit., p. 37, n. 282. 92 REPETTI, op. cit., vol. IV, pp. 635-36. 93 PESCAGLINI MONTI, Un inedito documento lucchese della marchesa Beatrice e alcune notizie sulla famiglia dei «domini»

di Colle, cit., pp. 150-51. 94 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 192. 95 Ivi, vol. IV, p. 705. 96 ROSSETTI, op. cit., p. 68. 97 CATUREGLI, op. cit., docc. 284 e 290. 98 CATUREGLI, op. cit., doc. 13. 99 ASP, doc. 76; e VOLPE, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa, cit., p. 80.

100 AF, f. 102, n. 11, a. 1395. 101 VOLPE, op. cit., p. 396.

e i conti Ugo e Tedice 3°, figli di Tedice 2°, sancìche, senza preventivo assenso dell’alto prelato,questi ultimi non avrebbero dovuto far pace conloro zio Guido, conte di Forcoli, né con sua mo-glie Adelaide né con i loro figli e ciò in tutto il ter-ritorio «compreso fra Porcari e il fiume Bruna neldistretto di Roselle».

PORTO BARATTORI. Denominato oggi Baratti, èubicato a nord di Piombino. Da segnalare che fuforse da questo piccolo golfo che salpava il longo-bardo Walfredo per le sue supposte spedizioni mi-litari in Corsica prima che, nel 754, egli fondasse ilsuo monastero a Monteverdi. Il castello fu Signo-ria dei Gherardesca da tempi remotissimi e un do-cumento del 1032 riporta che la contessa Ermin-garda, vedova del conte Tedice 2°, previo assensodi suo figlio Ugo, donò la città di Populonia, chesovrasta Baratti, all’Abbazia di S. Quirico, sita inPopulonia medesima90. Il 25 aprile 1117, i contiTedice, Gottifredo e Roberto cedettero il castelloin usufrutto a loro madre Mingarda, vedova delconte Ugone91. La roccaforte, certo notevolmenteristrutturata nel corso dei secoli, è forse quella cheancor oggi sovrasta l’abitato di Populonia.

PRATIGLIONE. Questa roccaforte è ricordata nelmedesimo documento del 1123 di cui è stato fattocenno parlando di Collegarli. Doveva essere ubi-cata in Val d’Era, nel territorio oggi comune diMontopoli92. La Pescaglini Monti, dopo averladetta di dominio dei Gherardesca, la colloca inve-ce nella vicina Val d’Egola93. Vi è poi chi, a mioavviso erroneamente, la identifica con Portiglione,sito presso il padule di Scarlino94.

RAPIDA o RABIDA. Castello ubicato nella Vald’Arno inferiore, presso Calcinaia, fra Vicopisanoe Cascina95. Ranieri, figlio di Guido conte di For-coli, e sua moglie Dina Marignani, lo vendetterol’1 ottobre 114596.

RICAVO. Il Repetti colloca questo castello nella

Val di Fine, a nord di Cecina, ma, al tempo stesso,ammette che possa invece essere situato nel pivie-re di Montopoli, nel Val d’Arno pisano. È proba-bile che quest’ultima sia la collocazione giusta eche possa farsi coincidere con l’odierno Castel delBosco. Ranieri, figlio del conte Guido di Forcoli,vendette questa rocca ad Attone, arcivescovo diPisa, il 30 settembre 112097, dopo averla prece-dentemente venduta a Ridolfo, vescovo di Lucca,il 2 agosto 1118.

ROSIGNANO. Castello ubicata a nord di Cecina,che conserva tutt’oggi il suo antico toponimo. Nel783 ne era signore il longobardo Perprando, figliodi Walperto duca di Lucca e fratello di Walpran-do vescovo della medesima città98. Il 6 luglio1071, il conte Ranieri, figlio di Guido, detto il Si-gnoretto, promise a Pietro, abate di S. Felice inVada, di non molestarlo a causa di una casa chequesti possedeva sotto le mura del castello99. Laroccaforte, unitamente a quella di Vada, passò inseguito sotto la giurisdizione del comune di Pisama i Gherardesca la riconquistarono a più ripre-se. L’ultima volta fu nel 1395, come risulta dal fat-to che in quel medesimo anno essi la restituironoa Iacopo d’Appiano, signore di Pisa100.

RUSTICA. Questa rocca era situata di fronte aCapannoli. Non risulta se sia stata mai dominatadai Gherardesca. Si sa solo che vi fu redatto queldocumento già citato parlando di Porcari e che fufirmato da Giovanni, vescovo di Lucca, e dai con-ti Ugo e Tedice 3°.

SALVIANO. Il castello, ubicato secondo S. Pieri(Top. Tosc. Merid.) nei pressi di Livorno, è citatoin due documenti del 949 e del 1006. Anterior-mente al 1243, una Gherardesca cedette ai Si-smondi di Pisa i suoi diritti sul castello101.

SAVIOLI. Questa rocca è menzionata nel 1004nell’atto di fondazione del monastero di S. Mariadi Serena. Non se ne conosce l’esatta ubicazione,

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102 AAL. 103 SCHNEIDER, Regestum Volterranum, cit., doc. 172. 104 CATUREGLI, op. cit., doc. 122. In questo documento dell’anno 1048 il Castello è detto insistere nella terra tedicinga e i

conti di Segalari discendevano appunto da Tedice 2° della Gherardesca, fondatore con i suoi fratelli del monastero di S.Giustiniano di Falesia, presso Piombino.

105 MONTE DEI PASCHI DI SIENA, op. cit., 16. 11. 106 FALASCHI, op. cit., doc. 24. 107 SCHNEIDER, Regestum Volterranum, cit., doc. 187.

ammenoché non la si voglia accostare all’odiernalocalità di Salivoli, subito a nord di Piombino, ri-cordando che i Gherardesca, nel 1022, fondarononei pressi il monastero di S. Giustiniano di Falesia.

SCOPETO. Anche questo castello è menzionatonel 1004 nell’atto di fondazione di S. Maria di Se-rena. È ubicato nella Val d’Egola, nei pressi diBarbialla. Fu Signoria congiunta dei Cadolingi edei Gherardesca. A questi ultimi appartenevaquel conte Ugo di Tedice che, nel 1109, dette inpegno al vescovo di Lucca, la metà dei suoi posse-dimenti in quel distretto102. Nel 1151, MatildeLanfranchi, vedova del conte Ildebrandino di Bi-serno, vendette a Galgano, vescovo di Volterra, laparte del castello e delle terre circostanti che era-no appartenute a suo marito103.

SEGALARI. Rocca situata di poco a nord est diCastagneto. Risulta Signoria dei Gherardesca sindai primi dell’XI secolo104 ed uno dei rami dellacasata si fregiò del titolo di «conti di Segalari». Ri-cordano questo castello numerosi documenti con-servati sia nell’ASP (carte del monastero di S. Lo-renzo alla Rivolta) che nell’archivio generale diVolterra. Il castello uscì dai domini dei Gherarde-sca fra il XV e il XVI secolo, per divenire di pro-prietà dei nobili Ceuli (o Cevoli) di Pisa, dai quali,più tardi fu ripreso in affitto dagli originari pro-prietari. Nel 1887, fu riacquistato dal conte Wal-fredo della Gherardesca che intraprese una ristrut-turazione in stile neogotico dell’edificio ancora esi-stente all’epoca, il quale già aveva subito radicaliinterventi nel corso dei secoli onde adattarlo alle e-sigenze di palazzo signorile, prima, e poi di piùmodesta casa colonica. Oggi della primitiva roc-caforte rimane integra solo una bella torre isolata.

SERRAZZANO. Questo cassero, divenuto nel tem-po un omonimo paese, era ed è posto a cavallo frala Val d’Orcia e la Val di Cornia, sulla cresta di al-cune alture collegate a quelle di Monte Rufoli. IlRepetti, nel suo noto Dizionario, ci dice che «è inu-tile cercare notizie storiche di questo luogo innanzial 1102». Lo contraddice invece un documento del1001 riportato al n. 93 del Regestum Volterranumdello Schneider e redatto proprio a Serrazzano. Ta-

le manoscritto ci parla di Berta (Aldobrandeschi),vedova del conte Tedice 1°, comes di Volterra, e didue dei suoi tanti figli, Gherardo 3° e Tedice 2°. Sipotrebbe quindi ipotizzare che la rocca fosse domi-nata dai Gherardesca, che poco distante vantavanoSignoria anche sulla rocca di Leccia.

SERENA. Questo castello era ubicato vicino aChiusdino, nell’odierna località detta Poggio dellaBadia105. Fu Signoria dei Gherardesca e nel 1004fu donato da Gherardo 2°, conte di Frosini, al mo-nastero da lui fondato proprio a Serena. Venne di-strutto nel 1133 da Crescenzo Pannocchieschi, ve-scovo di Volterra

SETTIMO. Situato presso S. Frediano, nel Vald’Arno pisano, fu antica Signoria dei Gherardescaed un ramo della casata si contraddistinse con iltitolo di «conti di Settimo». In un documento del1002 è citata la «terra comitorum» presso Setti-mo106. Il castello è anche menzionato in altri ma-noscritti del 1159 e del 1178 conservati pressol’ASF fra le carte del monastero di S. Lorenzo allaRivolta di Pisa. Settimo venne confiscato dalla Re-pubblica Pisana al conte Ugolino dopo il suo in-carceramento e mai più rientrò fra i possedimentidella casata comitale.

SILIQUA. Questo castello è menzionato comeSignoria dei Gherardesca da Francisco de Vitonella sua Historia de la isla de Sardeña di cui un e-stratto si conserva nell’AF. È peraltro assai proba-bile che lo storico spagnolo equivochi con il vici-no castello di Acquafredda.

STRIDO. Rocca eretta su di un’altura dominan-te il primo tratto del corso del torrente Sterza,affluente dell’Era. Alcuni Gherardesca furonoconosciuti come «conti di Strido» ma non risultache un ramo ben definito della schiatta si sia maifregiato di tale titolo con continuità. Il conte Te-dice 3° vendette la sua quota parte di questa roc-caforte a Galgano, vescovo di Volterra107. Attor-no al 1130, altra quota del castello fu vendutadai conti Walfredo e Aliotto, figli di Enrico diDonoratico.

SUVERETO. Castello sovrastante la Val di Cor-nia, lungo la strada collinare che da Pisa condu-

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108 REPETTI, op. cit., vol. V, p. 490.109 Regesto di L. Passerini alle date 1851-60. 110 MONTE DEI PASCHI DI SIENA, op. cit., 28. 12. 111 AF, f. 95, n. 13, a. 1099; e REPETTI, op. cit., vol. V, p. 490; e TARGIONI TOZZETTI, op. cit., vol. IV, p. 122. 112 REPETTI, op. cit., vol. V, p. 600. 113 FALASCHI, op. cit., doc. 1. 114 TARGIONI TOZZETTI, op. cit., vol. IV, p. 422. 115 MACCIONI, op. cit., p. 144 [Sommario]. 116 MURATORI, Antichità del Medio Evo, cit., vol. III. 117 PIERI, Toponomastica della Toscana meridionale, cit., p. 138. 118 REPETTI, op. cit., vol. I, p. 192.119 SCHNEIDER, L’ordinamento pubblico della Toscana medievale, cit., p. 248, n. 137; e Mensa di Pisa, doc. 38. 120 CATUREGLI, op. cit., doc. 181; e Appendice, inserto 1, Cisano.

ceva a Roma. Tuttora ne esistono notevoli rovineal culmine del paese omonimo. Fu antichissimaSignoria dei Gherardesca ed, in tempi successivi,degli Aldobrandeschi. Nel 1080 il conte Ugo, fi-glio di Rodolfo 2°, assieme a sua moglie Giulitta,dette questo castello in pegno ad Anselmo, ve-scovo di Lucca108.

TONDA. Castello ubicato in Val d’Egola, a circacinque chilometri a nord ovest di Montatione. Ilfortilizio, ristrutturato, esiste tutt’oggi e fa parte diun complesso destinato all’agriturismo. Parrebbeche la roccaforte sia pervenuta ai Gherardesca peruna dote matrimoniale. Nel 1221, il conte Ranieridi Donoratico, detto «il Piccolino», cedette a S.Miniato la sua quarta parte del castello109.

TRICASE. Ubicato in Val di Cornia, nei pressi deltorrente Milia, questo castello è già ricordato nel754 nelle carte della chiesa di S. Regolo in Gual-do110. Nel 1099, il conte Ugo di Suvereto, figlio diRodolfo 2° vendette metà di questa roccaforte allachiesa di S. Cerbone di Massa Marittima111.

TRIPALLE. Rocca situata fra Crespina e Fauglia,fra le colline pisane sovrastanti la valle del torren-te Tora112. Già menzionato nell’VIII secolo quan-do tre nobili pisani fondarono, presso Calci, laBadia di S. Savino e, fra altri loro beni, le assegna-rono una quota della corte di Tripalle113. I Ghe-rardesca ebbero Signoria su tale rocca e uno di es-si, il conte Ildebrandino, ne cedette la propriaquota parte alla Repubblica Pisana nel 1276. Suc-cessivamente, nel 1385, i Gherardesca conti diMontescudaio e Guardistallo, istigarono vana-mente gli abitanti di Tripalle a rivoltarsi contro larepubblica medesima.

VADA. Dopo essere stato nell’antichità territo-rio, almeno in parte, dominato dai Gherardesca,questo castello cadde sotto la giurisdizione di Pi-sa. In concomitanza con gli avvenimenti che de-terminarono il desautoramento del conte Ugoli-no, nel 1288, Inghiramo, conte di Biserno, nell’in-

tento di marciare su Pisa per dar aiuto al disgra-ziato congiunto, occupò nuovamente il castelloper breve periodo di tempo, ma poi, fallito il suointento, restituì la roccaforte a Pisa114. In seguitofu il conte Niccolò di Montescudaio a riconqui-stare il castello allorché, nel 1368, mosse guerra aPisa115. Alcuni anni più tardi, la roccaforte fuperò restituita dai Gherardesca a Iacopo d’Appia-no, signore di Pisa, unitamente ai castelli di Rosi-gnano e Bibbona.

VAJANO. Situato nella Val d’Arno inferiore, neipressi dell’odierno Lavaiano. Un documento del1156 attesta il dominio dei Gherardesca su questocastello, allorché il conte Walfredo, figlio di Enri-co di Donoratico, vendette la propria metà dellaroccaforte alla Mensa di Pisa116.

VARIANELLO. Di difficile localizzazione. Forseubicato nel grossetano117. È citato nell’atto di fon-dazione del monastero di S. Maria di Serena[1004].

VETRUGNANO o VENTRIGNANO. Vedere Mon-tebicchieri.

VICINATICO. Castello ubicato nelle vicinanze diGavorrano, nell’antico distretto di Roselle nelgrossetano. È citato nel 1004 nell’atto di fonda-zione del monastero di S. Maria di Serena, e poi,più tardi, in un documento del 1101, con cui ilconte Ugo, figlio di Tedice 2°, rinunziò ai suoi di-ritti su detta rocca in favore dell’abate di Sestin-ga118. E. Repetti accenna invece ad un castello diVicinatico in Val d’Era fra Palaia, Montecastello eMontopoli.

VICOPISANO o VICO ASSERISSULE. Castello si-tuato alle falde orientali dei monti pisani. Risulta-va fra i domini dei Gherardesca già attorno al1015119. Nel 1075 il conte Tedice vendette i pro-pri diritti sulla rocca, unitamente ai suoi possedi-menti in «Cisano»120. Tre cartapecore, probabil-mente apogrife, indicano il conte Ranieri Novello,

Appendice 217

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121 AF, cartapecore 25 e 251/2. 122 AF, f. 95, n. 1, a. 1240; e CATUREGLI, op. cit., doc. 371.

signore di Pisa, come «domino» di detto castel-lo121, nel quinto decennio del XIV secolo.

VIGNALE. Ubicato a sud di Campiglia ed eret-to, forse, su di una modesta altura, detta VignaleVecchia, che domina la piana alluvionale del fiu-

me Cornia. Oggi non ne rimangono nemmeno lerovine. Nel 1139, il conte Ildebrandino di Bisernoe sua moglie Matilde Lanfranchi vendettero leproprie quote di detto castello122.

218 I della Gherardesca

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1405Capitolazioni in Accomandigia con la RepubblicaFiorentina [Appendice, doc. 6] e varie ratifichedel trattato da parte dei diversi membri della ca-sata Gherardesca [AF, f. 63, n. 2 e f. 18, n. 3 e f.64, n. 1].

1407Statuto della comunità di Donoratico [ASF, Arch.della Repubblica, Dieci di Balia, Statuti comunitàautonome, p. 15, n. 299].

1409Particolari esenzioni e immunità concesse ai contidella Gherardesca dai Dieci di Balia fino al 1414[AF, f. 64, n. 2 e Libro del Comitatus Pisano, Ar-ch. Riformagioni di Firenze].

1419I governatori del Sale e delle Saline di Firenze di-chiarano che i Gherardesca, in virtù delle Capito-lazioni del 1405, non sono tenuti a prendere ocomprare il sale dal comune di Firenze, per l’usoed il consumo dei loro castelli, sudditi e bestie mapossono comprarlo ovunque a loro piaccia a con-dizione però che non ne vendano, donino od alie-nino a persone soggette alla giurisdizione fiorenti-na [AF, f. 64, n. 3].

1421Statuto della comunità di Castagneto [AF, f. 11, n.4; ASF, Libro del Comitatus Pisano, Arch. Rifor-magioni di Firenze].

1444In relazione alle Capitolazioni del 1405 i contidella Gherardesca non sono tenuti a pagare al co-mune di Firenze le gabelle per il pedaggio delleloro mercanzie (bestie e robe) che traggano dal lo-ro territorio o dal territorio volterrano [AF, f. 12,n. 2 e f. 58, n. 4 e f. 64, n. 6].

1461Strumento di riconferma delle Capitolazioni [AF,f. 109, a. 1461 e cartap. n. 880 della Strozzina].

1461Esenzione dall’Estimo (Catasto) per i sudditi deiGherardesca [AF, f. 64, n. 7].

1466Le Capitolazioni vengono riconfermate come vali-de dai Priori della Libertà della Repubblica Fio-rentina [AF, f. 18, n. 4 e f. 64, nn. 8 e 10].

1483Gli uomini e le comunità della Contea, per il trat-tato del 1405, non sono tenuti a concorrere ad unbalzello imposto dal capitano di Campiglia [AF, f.12, n. 3 e f. 109, a. 1483].

1492Elenco delle gabelle che debbono essere pagate aiGherardesca sul grano, vino ecc [AF, f. 27, n. 1].

1497I Dieci di Balia dichiarano che i conti della Ghe-rardesca possono riscutere gabelle sulle mercanzieche transitino sui loro territori [AF, f. 64, n. 15].

1509Statuto della comunità di Bolgheri [ASF, Librodel Comitatus Pisano, Arch. Riformagioni di Fi-renze].

1512I priori e il gonfaloniere di Firenze invitano i Con-soli di Mare di Pisa ad attenersi ai disposti delleCapitolazioni del 1405 [AF, f. 64, n. 18].

1515Convenzione fra la Repubblica Fiorentina e iGherardesca con cui si conferma la validità delleCapitolazioni del 1405 [AF, f. 109, a. 1515].

1521La magistratura degli Otto di Pratica ordina aiConsoli di Mare di Pisa di restituire ai Gherarde-sca un «liuto» (un vascello) che era naufragatosulle spiagge della Contea [AF, f. 62, n. 2].

1534Supplica del conte Simone 2°, figlio di Ugo 1°, af-

INSERTO 3

Compendio di documenti, tratti dall’Archivio della Gherardesca, che possono fornire un quadro del grado di autonomia

della Contea dal 1405 al 1775

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finché sia concesso a lui ed ai suoi discendenti difare acquisto di beni immobili posti nel dominiofiorentino [AF, f. 2, n. 4]. I Gherardesca, pur libe-ri di fare eventuali acquisti nel proprio territorio,per quanto afferiva a quello della repubblica era-no equiparati a «stranieri».

1536La magistratura degli Otto di Pratica ordina allaDogana di Pisa di restituire ai Gherardesca unvascello naufragato sulle loro spiagge [AF, f. 62,n. 3].

1544Istanza del conte Simone 2° agli Otto di Praticaaffinché, in virtù delle Capitolazioni, venganoconfermati i privilegi dei Gherardesca relativi allegabelle sui generi che dalla Contea vengono nelgraducato. La supplica, presentata da Angelo de’Medici, vescovo di Assisi, viene accolta [AF, f.109, a. 1544].

1545La Dogana di Firenze dichiara che il territoriodella Contea Gherardesca non fa parte del conta-do di Pisa [AF, f. 63, n. 1].

1546Lettere di Cosimo I ad Alfonso Capponi, prov-veditore di Pisa, ed al capitano di Campiglia, perinvitarli a rispettare, in fatto di gabelle, la vali-dità delle Capitolazioni del 1405 [AF, f. 64, nn.25 e 26].

1557La Pratica Segreta sentenzia che certe gabellecompetano ai Gherardesca e non già a Pisa [AF, f.65, n. 3].

1559Gli Otto di Pratica sentenziano che i quattro pro-curatori eletti dalla comunità di Castagneto senzail consenso del conte Gherardo della Gherardesca,sono stati nominati in disaccordo con quanto sta-bilito dalla convenzione del 1514 [AF, f. 58, n. 21].

1561I conti della Gherardesca sono nuovamente di-chiarati franchi da gabelle fiorentine nei luoghi lo-ro [AF, f. 27, n. 4].

1562Per le cause civili a loro carico, i Gherardescapossono solo essere convenuti dinanzia alla Magi-stratura dei Nove [AF, f. 65, n. 10].

1564Il conte Ugo 2°, di Simone 1°, chiede ed ottieneche, in virtù delle Capitolazioni, sia a lui avocata

quella parte della giurisdizione indebitamente esercitata dal capitano di Campiglia [AF, f. 65, n. 11].

1569I Gherardesca non possono essere convenuti ingiudizio senza previa autorizzazione degli Otto diPratica [AF, f. 65, n. 17].

1577Viene ribadito che i Gherardesca sono proprietaridi tutte le acque dei loro territori e possono impe-dire ad altri di erigere mulini [AF, f. 64, n. 10, a.1577].

1577Vincenzo da Filicaia, magistrato della Sanità, chie-de che s’ingiunga ai Gherardesca di provvederead una più stretta sorveglianza delle loro spiagge,essendovi un pericolo di pestilenza provenientedal meridione italiano e che in caso contrario ven-gano inviate guardie della Signoria fiorentina aspese dei conti stessi [AF, f. 64, n. 29].

1589Il granduca Ferdinando I riconferma ai Gherar-desca la validità del trattato del 1405 [AF, f. 12, n.6 e f. 18, n. 4, a. 1588].

1592Tutti i diritti di macello nella loro Contea appar-tengono ai Gherardesca [AF, f. 65, n. 27].

1597I Gherardesca e i loro sudditi non sono tenuti apagare le gabelle fiorentine sui contratti e sulledoti [AF, f. 12, n. 7].

1611Rescritto del granduca che ribadisce che i naufra-gi avvenuti sulle loro spiagge, spettano ai contidella Gherardesca [AF, f. 62, n. 5].

1614Le gabelle di «transito» sulla Contea, debbono es-sere pagate al conte di Bolgheri da chi procedaverso sud ed al conte di Castagneto da chi proce-da verso nord [AF, f. 27, n. 7].

1622Sentenza degli Otto di Pratica che conferma che iGherardesca non sono soggetti alle leggi grandu-cali in fatto di taglio dei boschi [AF, f. 109, a.1622].

1623Vertenza relativa al recupero di un vascello pirate-sco turco naufragato sulle spiagge della Contea. IGherardesca dichiarano di aver il diritto di tratte-

220 I della Gherardesca

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nere il relitto con tutte le sue pertinenze, ivi inclu-se le artiglierie [AF, f. 62, n. 6].

1635Rescritto degli Otto di Pratica e di S. A. S. favore-vole alla tesi dei Gherardesca relativamente allavertenza di cui sopra [AF, f. 16, n. 5].

1639Facoltà concessa dal conte Ugo 3° a dodici fami-glie di Castagneto di chiamarsi «uomini del co-mune». Solo fra di esse potranno essere eletti ilcamerlingo ed uno dei consoli, previo comunquel’assenso del conte [AF, f. 13, n. 1].

1644Elenco delle gabelle da pagare ai Gherardesca[AF, f. 27, n. 8].

1654Sentenza del capitano di Campiglia con la qualese ne annulla altra pronunciata dal suo predeces-sore, che, in contrasto con quanto stabilito dalleCapitolazioni del 1405, dichiarava non ricaderesotto la giurisdizione dei Gherardesca, le pene re-lative ad un certo danno arrecato all’osteria dei si-gnori Serristori. Viene sancito che detti signorinon possono possedere alcuna osteria in quantotali esercizi sono di esclusiva competenza dei con-ti [AF, f. 60, n. 1].

1658Lettere degli Otto di Pratica ai Consoli di Mare diPisa per ordinare la restituzione ai Gherardesca deivascelli naufragati sulle loro spiagge dal 1520 al1658. I naufragi oggetto della rivendica erano dieci,avvenuti dal 1521 al 1656 [AF, f. 16, nn. 1 e 2].

1661Nuovo statuto della comunità di Donoratico [AF,f. 61, n. 2].

1661Rescritto con il quale si dichiara che i conti dellaGherardesca possono promulgare leggi sotto laprotezione del granduca [AF, f. 109, a. 1661].

1663Processo Gherardesca-Bussotti che si protrarrà fi-no al 1673. Vi si legge: «I conti si trovano costrettia reprimere le consumate insolenze di un propriosuddito che con il suo comportamento aveva arre-cato pregiudizio, non solo agli interessi dei contistessi ma anche della loro giurisdizione» [AF, f.49, n. 1].

1664Bando per il pagamento di alcune gabelle nellaContea [AF, f. 63, n. 7, a. 1664].

1695Il conte Giulio Cesare della Gherardesca e i suoifratelli eleggano cinque famiglie di Castagnetoquali «uomini del comune» [AF, f. 19, n. 36].

1696I conti della Gherardesca reclamano presso gliOtto di Pratica per un abuso giurisdizionale com-messo dal capitano di Campiglia riguardo ad unloro suddito castagnetano [AF, f. 63, n. 8].

1699Relazione del senatore Filippo Buonarroti checomprova che i Gherardesca potevano emanareleggi sull’Estimo [Catasto].

1700Sentenza sfavorevole a un Casanova che intende-va costruirsi un mulino su terreno di sua pro-prietà. Si conferma che tutte le acque sono in pos-sesso dei Gherardesca [AF, f. 58, n. 32].

1704Bando dei conti della Gherardesca per le voltureagli Estimi nella Contea [AF, f. 61, n. 5].

1707Gli Otto di Pratica riconfermano la giurisdizionedei Gherardesca su di un determinato caso [AF, f.63, n. 12].

1716Supplica dei Gherardesca al granduca Cosimo IIIaffinché venga loro concesso di amministrare lagiustizia nella loro Contea nelle cause civili, crimi-nali e miste. I supplicanti ricordano la loro liberapadronanza sui propri domini prima del 1405. Lagrazia è concessa per una durata di quindici annirinnovabile [AF, f. 14, nn. 1 e 2 e f. 109, a. 1716].

1716Bando dei conti della Gherardesca per il rinnovodelle licenze di porto d’armi [AF, f. 61, n. 6].

1717Divieto di caccia fatto a chiunque dai Gherarde-sca per il periodo intercorrente fra la Quaresimaed il 31 agosto [AF, f. 109, a. 1717].

1717Supplica presentata dagli «Uomini di Castagneto»ai conti della Gherardesca per ottenere che sianoaccettate alcune modifiche allo statuto della co-munità in vigore dal 1421 [AF, f. 61, n. 7].

1717Viene sancito che anche il cav. Serristori è sogget-to alla giurisdizione dei Gherardesca in base altrattato del 1405 [AF, f. 63, n. 15].

Appendice 221

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17 [??]Vertenza fra i Gherardesca ed un tale Vivarelli inmerito alle gabelle da pagare su legna e carboneche transitino attraverso il territorio della Contea[AF, f. 63, n. 17].

1719Si ribadisce che qualunque suddito dei Gherarde-sca che divenisse cittadino fiorentino, rimane pursempre completamente soggetto alla giurisdizionedei conti. Il granduca avalla [AF, f. 14, n. 6].

1722Rescritto granducale che ribadisce il diritto deiGherardesca su tutti i naufragi che avvengonosulle loro spiagge [AF, f. 62, n. 11].

1722Bando dei conti della Gherardesca affinché i lorosudditi facciano la guardia in armi durante le festedi S. Guido [AF, f. 109, a. 1722].

1725Sotto pena della sospensione dei sacerdoti e dellascomunica dei laici, si proibisce di mettere pan-che nella chiesa di Castagneto senza licenza deiconti della Gherardesca e decreto del vescovo diMassa Marittima [AF, f. 4, n. 44].

1725Controversia con il Fisco granducale, nella qualesi afferma che i Gherardesca e i loro sudditi sonoesenti dal pagare la gabella fiorentina sui contrattifatti nella Contea; si sottolinea la «Signoria parti-colare» vigente nella medesima. La sentenza è fa-vorevole ai conti [AF, f. 14, n. 8 e f. 55, n. 6].

1727Lettera del senatore Buonarroti in cui si precisache i Gherardesca non sono compresi nell’ordinedei feudatari [AF, f. 63, n. 24].

1728Alcune imbarcazioni naufracate, fra il 1724 e il1728, sulle spiagge della Contea, vengono restitui-te ai legittimi proprietari «per grazia» dei conti[AF, f. 62, n. 12].

17 [??]Si ribadisce il dirittodei Gherardesca a pretenderegabelle per il transito di bestiame sul loro territo-rio [AF, f. 63, n. 9].

1737Dai Gherardesca viene richiesta la proroga diquanto loro concesso dal granduca nel 1716 circala giurisdizione nella Contea [AF, f. 14, n. 10].

1744Sono riconfermate le esenzioni dei Gherardesca e

dei loro sudditi dalle gabelle fiorentine sul bestia-me [AF, f. 14, n. 11].

1746Tale Andrea Perelli, per ordine del governatore diPiombino, viene consegnato ai confini della Con-tea della Gherardesca perché soggetto alla giuri-sdizione della medesima [AF, f. 14, n. 16].

17 [??]Trattative con le autorità di Siena per la estradi-zione del bandito Giuliano Paolini, catturato nellaContea della Gherardesca [AF, f. 14, n. 17].

1749Promulgazione della Legge sui Feudi da parte delgranduca Francesco I.

1749Supplica dei Gherardesca a Sua Maestà Cesarea aVienna, affinché si degni di dichiarare che la loroContea, in base alle Capitolazioni del 1405, resta-va esclusa dai dettami della nuova legge [AF, f.67, n. 1].

1749Ricorso alla Reggenza di Toscana fatto dai casta-gnetani contro il governo dei conti della Gherar-desca che risulterebbe in contrasto con la nuovaLegge sui Feudi. Serie lunghissima di lamentele[AF, f. 60, n. 17].

1759Elenco di tutti i processi criminali celebrati a Ca-stagneto sotto la giurisdizione dei Gherardesca,ad iniziare dal 1716 [AF, ff. 122, 123 e 124].

1760Ancora a quell’epoca i Gherardesca imponevanogabelle [AF, f. 63, n. 26].

1768Supplica dei castagnetani ai conti della Gherarde-sca affinché intervengano nei confronti di taleGiovacchino Tonnerini che «tiene comportamentipoco propri e disdicevoli» [AF, f. 60, n. 22].

1768Lettera di supplica che richiede ai Gherardesca direvocare l’esilio da loro inflitto a tale Mario Cec-carelli, uomo della loro Contea. Nella medesimafilza si trovano varie lettere dal cui tenore traspa-re chiaro che i castagnetani mal sopportano di es-sere ancora governati dai Gherardesca [AF, f. 60,n. 23].

1769Motu proprio del granduca Pietro Leopoldo Icon cui egli ingiunge che tutte le leggi granducali,

222 I della Gherardesca

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inclusa quella sui feudi, vengano immediatamentepubblicate nella Contea e che contemporanea-mente vengano abrogate tutte quelle emanate daiconti della Gherardesca [AF, f. 67, n. 4].

1769-75Si svolge l’accanita ed incerta controversia fra il Fi-sco granducale ed i Gherardesca che si oppongo-no al motu proprio granducale [AF, ff. 67 e 68].

1775Secondo motu proprio del granduca Pietro Leo-poldo I con cui egli ordina che i territori dellaContea Gherardesca «da allora in poi venganoconsiderati come i rimanenti del Granducato»[AF, f. 67, n. 30]. Conferma implicita che primadi allora tali territori erano ritenuti distinti, sottovari aspetti, da quelli del dominio fiorentino.

Appendice 223

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Documento 1

Pisa, luglio 754. Atto di fondazione del mona-stero di S. Pietro in Palazzuolo [da L. SCHIAPPA-RELLI, Codice diplomatico longobardo, versione B].

In nomine domini nostri Iesu Christi adquebeate semper uirginis Marie et beatissimi aposto-lorum principis sancti Petri, regnante piissimo ad-que excellentissimo pro salute totiius catholicegentis nostre Longobardorum donno nostro Ai-stulfo rege, anno regni eius Deo protegente sexto,mense iulio, indictione septima. Uualfredus filioquodam Rathcausi, civis Pisane, recolente me istiusmundi caduca ac transitoriam uitam, et quot o-portet huius mundi uana gloria contemnere perChristum dominum sequi eiusque sacra preceptainplere et promissione suscipere et eternam uitacum eum fruere, et quod peccatoribus aditus re-gni celorum non intercluditur si toto corde ad mi-sericordiam Dei confugerit, et dum pro mea faci-nora et spatiio uite quam neglegentur duxi me a-nimi tedio inficere, et non inueni per quo me inamgustiis conuertere, tunc protectorem quesiui,ut quod non meis meritis ad illa ualeo peruenireuita, per qua commissa deleatur, illius protectio,cui ligandique et soluendi est concessa potestas, inouile eius reducatur; tunc in eius honore disposuimonasterio hedificare in que regulariter uitam du-cere, et me una cum filiis et res mea offero, ubi etnostras ad aliorum anime saluarentur. item nam-que ego qui supra Uulfredi cum magna deoutiio-ne et conpunctione cordi offero meipso et filiismeis, id est Ratchis, Gumfredi, Taiso et Benedicto,domine Deo deseruire et usque ad uirtutem etpossibilitate, auxiliante pius Deus, sancte et regu-lariter uitam peragere in monasterio beatissimi etapostolorum principi Sancti Petri, quas presentitempore in proprio territorio meo ob hamore Chri-sti et pro remedio peccatorum meorum hedificareuisus sum locus qui uocatur Palatiiolo, iudicariaLucense; in eo uero tenore meus disposuit animo,

ut nullus episcoporum aut iudicum ibi perueniat in-perio, neque aliquis de filiis uel heredum meorumtipo superbie inflati quacumque possit in fratibusinibi congregati uel in res monasterii huius gene-rare superbiam, set ita uolo adque per huius mu-nimine cartula cinfirmaui, ut in supra memoratomonasterio Sancti Petri congragatiio monachorumfiat de illis fratribus quos pios Deus et ipse eius a-postolus ad suum seruitium uocatus dignare fue-re. et filiis meis una cum ipsis, pariter adiuuanteomnipotenti Dei misericordia, sancte et regulari-ter uitam peragantur, et pro mei peccatis die noc-tunque suis orationibus omnipotenti Dei non ces-sent obsecrari misericordia. et tamen ordinationeabbati quam et alias ordinationes, quod oportunasunt in monasterio fieri, ita agant et perficiant se-cundum instituta regula ad sanctum patrem no-strum Benedictum. et si aliquo error pro ordina-tiione abbati ortus fuerit, aut prauo akiquo ui-tiium repertum inter fratribus, quod ipse inter sead rectitudinem aut regule instituta corrigere ne-clexerint, tunc accedant in ipso monasterio sanctipatres quoepiscopi, id est sedi ecclesie Populo-niensis seo et abbas monasterii domini Saluatorisloco Pontiiano, item et abbas monasterii SanctiFrediani ubi et eius corpus quiescit umatum ciui-tatem Lucense. his sanctissimi quattuor hac uene-rabiles uiri in omnibus habeant licentiiam maluaut prauum uitiium, quod ortus fuerit istigantediabulo, ad Domini reuocare precepta, ut malumuitiium resecetur et anime fratrum corrigat ad sa-lute. et si, decedente abate, in electiione abbatis a-liquo ortus fuerit scandalo, sicut solet fieri per in-sidia ostis nostri, ipsi quidem supra memoratisancti patres una cum fratribus ipsius monasteriipreuideant qui dignus fuerit preesse, ita eligant etconfirment dine ullo munere aut alio aliquo inpe-rio, nisi tantum at his prauis uitiis se corrigendum,ut sancte et regulariter uiuant. nam si ipsi se corri-gere potuerint, ut sancte et regularis uite agant, su-pra memorati quoepiscopi uel abbati nullo cogeantinperio in ipso monasterio aliquo ordinandi aut iu-

DOCUMENTI

I corsivi indicano le parole e le frasi citate nel testo

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dicandi; set liceat eos instituta patrum seruare etuita peragere. de supra memoratis uero filiis meis,uolo ego qui supra Uualfridi, ut si aliquis de ipsispeccatis fatiscentibus in aliquo lapso ceciderit, autaliquo prauumo egerit, tunc abbas, qui ordinatusfuerit, eum penitentiiam et disciplinam corrigat etintro monasterio reteneant, ut anima eius saluaripossint, nam foris monasterio nullo modo eus ex-pellant, ut anima eius depereant; set quot forteuoluntarie bene agere neglexerint, faciant inuiti. indotis uero supra memorati monasterii Sancti Petri,una con prefatis filiis meis, id est Ratchis, Gumfre-do, Taiso et Benedicto, in primis trado et offeroportionem meam de supradicto casale Palatiiolo,ubi et ipse monasterio fundatum est, una cum por-tione mea de basilica Sancti Filippi, uel res ad eampertinentes, cum casas massaricias, familias, uel a-diacentiia eorum, peculias donicatas cum pastoresqui eam depascunt, cum uineas, oliuetas et territu-rias per fines una cum siluas sicut nobis pertinereuidetur in integro. item et curtis iuris meis in Ca-stagnieto cum edificias suas, peculias donicatas etpastores qui eam depascunt, uineas, oliuetas, pra-tas, territurias, siluas seo et casas massaricias cumfamilias suas que nobis pertinent. quanti exinde li-beri non dimiserimus, cum omne adiacentiia ad i-pse case uel curte pertenente, in integro abeat ipsemonasterio. item et abeat portionem meam de mo-lino et casa de Caldana cum Helaro seo Dominicopueri nostri, et omnem adiacentiiam ad ipsa casauel molino parte meam in integro pertenentes. si-mili modo et abeat ipse prefatus monasterio por-tionem meam de curte super Cornia, cum edificiassuas, uineas, territurias, cultas et incultas, siluas,pergaias, pascuas, una cum casas massaricias, cumfamilias suas, et omne adiacentiam ad ipse(case)uel curte pertenente in integro; anteposito portio-nem meam de gagio Ghutoti et portionem meam,hoc est medietatem, de casa Candidi de Riuo Or-sario cum familo et omne adiacentiiam ad ipse ca-se pertenente. item abeat ipse monasterio SanctiPetri portionem meam de casale in Raossano, tamde monasterio quod inibi est seo et de case masse-ricie, cum adiacentiia ad ipsa case pertenente, por-tionem meam in integro. item uolo et abeat ipsemonasterio medietatem salinas in loco Uada, et inPotiiolo area quod emit a quodam Anfridi, meaportione. simili modo et offero in supradicto mo-nasterio portionem meam de curtis iuris mei in lo-co qui uocatur Septare, cum edificias, uineas, o-liuetas, siluas, territurias cultas et incultas, unacum casas massaricias uel omne adiacentia ad ipsecasa uel curte pertenente. at abeat insimul casa

Magniacioli, et casa Teudiperti, et casa UUipertu-li, et casa qui fuit Pasquali in fundo Magno, cumomne adiacentiia ad ipse case pertinentem. item-que do et offero ad ipsum predictu monasterioportionem meam de curte mea castello Foalfi, cumuineas, oliuetas, hedificias, territuria cultas et in-cultas seo et case massericie ad ipsa curte perte-nente, cum omne adiacentiia et familie, quanteexinde libere non dimiserimus, abeai ipse mona-sterio Sancti Petri. simili modo offero in predictomonasterio portionem meam de cagio de Latinia-no in integro et casa Teoduri de Agello et casaOinculi de Cisiano, cum omne adiacentiia ad ipsecase pertinente et familie eorum. item abeat ipsemonasterio Sancti Petri casa Gumfridi de Massia-no, et medietate de casa quodam Mauri in Uaria-no et de filiis eius. et abeat casa Gheduli in RiuoCauo, et casa de filii quodam Anscausi de Uexu-niano, et casa de filii quodam Pincioli in Pisiniano,et casa Prandi in Pittule. item in civitate casa Cu-nandi, et casa Gadiperti, casa Fridicausi, casaCauperti, casa Sichimundi; hec autem case cumomne adiacentiiam ad eas pertinente et familie eo-rum abeat ipso sanctum et uenerabile locum. simi-liter uolo ut abeat in loco Cotiano casa Barduli, etcasa Mincioli, cum adiacentiia sua et familie eo-rum, quante exinde liberi non dismiserimus. simulet habeat ipse monasterio medietatem de meaportione de case quem abemus in loco que uoca-tur Barga, Ghermio, Lupinaria, Glacentiiano, cumfamilie sue et adiacentiiam sua. et abeat casa in lo-co qui uocatur Sarachaniano, quem emimus da Ta-niperto, cum adiacentiia sua. in tale enim tinoreuolo ego qui supra Ualfridi res superius conpreen-sa omnia abere monasterio supra memorati SanctiPetri, ut ita persoluant ad ipso monasterio tam li-beri quam et serui vel aldioni qui in ipse case rese-derint. itemque do et offero ad suprescritto mona-sterio portionem meam de pecunia nostra in insulaCorsica, tam casas, familias, territurias, et omne a-diacentiia ad ipse case pertinente, et res donicata,mouilia et inmouilia; ut dixi, mea portione dequantum in ipsa insula Corsica (habeo), et omnia inintegrum. simul et abeat ipse monasterio portio-nem meam de prato ad padule Auctioni. et abeatportionem meam ad Arsula, et orto que uocaturad Prato iuxta padule Auctioni, et portione meade terra in Arina, medietate de mea portione. si-mul et abeat portione mea de oliueto in Uerriana,et portione mea de casa Brunuli in ipso loco Uer-riana, cum familia uel omne adiacentiia ad ipse ca-se pertinente, mea portione. itemque do et offeroad prefatum et sepius nominato monasterio beatis-

226 I della Gherardesca

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simi Sancti Petri id est ecclesia et monasterio SanctiPetri in Accio, que est fundatum et constructo iniam predista insula Corsica, cum omnia adiacentiiaque ad ipsa eclesia et monasterio est pertinente, inintegro abeat et possideat ipse sanctissimo et ue-nerabile locu. hec omnia superius conpreensa doet offero ego qui supra Uualfridi pro redemtiioneanime mee in predicto monasterio Sancti Petri etabbas cum fratribus inibi congregatis, peto ut promeis peccatis suis orationibus et uigiliis intecederedignetur, ut michi Dominus ignoscat quod negle-gentur gessi, et eorum pro me peccatorum Domi-nus retribuat mercedem. ecce qualiter meus com-placuit animus. per huius uoluminis cartule con-firmo sic, ita ut si aliquis de filiis aut heredes prohe-redes meos contra hanc dotis mei pagina ire quan-doque presumpserit, aut aliquid subtraere aut mo-lestare per se aut supposita persona de omnia quesuper. legitur et adprobatum fuerit, conponat adpars ipsius monasterii Sancti Petri uel eius congre-gationis auri solidos quignenti, et presens cartuladotis mee in sua maneat firmitate et robore. Undetres cartule pari tenore Asperto, notarium scriuererogaui. Actum Pisa; per indictione suprascripta;feliciter. Una de ista cartule reseruamus in predic-to monasterio nostro Sancti Petri, alia uero de istecartula dedimus ad conseruandum in domo sanc-te ecclesie Pisane, ubi domnus Andreas episcopusesse uidetur, tertia dedimus ad conseruandummonasterio domini Saluatoris, ubi abbas Gadisteoesse uidetur.

[Seguono le firme di Walfredo, di vari testimo-ni e del notaio].

Documento 2

Puliciano, anno 1004. Atto di fondazione delmonastero di S. Maria di Serena [da copia del sec.XII di Ildebrandus not.a.s., in A. MURATORI, An-tichità del Medio Evo, vol. III, p. 1067].

A. MIV, ind. II. Gerardus (comes f. qd...) q.fuit similiter comes, et uxor sua Guil(l)a reme-dium (anime sue et par) entum suorum atque re-missionem omnium peccatorum suorum offerreunanimi voto provident Deo et eccl. mon. S. Ma-rie infra castello de Serena omnia sua bona et cer-tas suas possessiones cum curtibus, ecclesiis, ca-stellis, cultis et incultis, loci habitantibus et sinehabitationibus, infra comitatu et territorio Voliter-rensis, Lucensis, Populoniensis, Rosellensis, infracomitato et territorio Orbivieto, infra comitato et

territorio Toscana, infra comitatu et territorio Ca-stro seu super aliis Comitatis. Nominant: castellode Serena, cum curte et pertinentia cum ecclesiis;eccl. S. Andree de Padule medietate cum curte;castello de Mirandolo cum eccl. S. Iohannis Evan-geliste cum curte; castello de Soveioli cum eccl. S.Michaelis Archangeli cum curte; Scopetulo castellocum curte; medietate de castello de Cumulo cumcurte; castello de Vicinatico cum eccl. et curte; ec-cl. S. Marie de Bosseto; eccl. S. Margharite de Ta-vernule; eccl. S. Marie de Salario; eccl. S. Lucie dePerignano cum curte; eccl. S. Marie de Pulveraiocum XIII mansis q. sunt in curte de Casale; eccl.S. Blasii de Islarto cum curte; eccl. S. Michaelis deNoctule medietate; medietate de Linalia; castellode Campilia medietate cum eccl. et curte; castellode Acquaviva; quarta parte q. Colle Godimari voc.cum eccl. S. Cassiani; rocca de Bizerno q. Finiculovoc., cum eccl. S. Angeli, medietate, curtem etsuam portionem de rivo de Gualdo; castello u. d.Montecalvo suam portionem; medietate et suamportionem q. iam fuit Castello Novo; castello deMitiano medietate cum curte; castello de Megranosuam portionem medietatem; castello de Varianel-lo medietatem cum curte; castello de Planzanosuam portionem medietate cum curte; castello u;d; Bizenzo medietate cum curte et cum eccl. S.Michaelis; castello de Martha cum sua portione.Promittunt abbatibus q. in eccl. et mon. fuerinthec inviolabiliter conservare cum stipulationesubnixa. Intus castellum suprascrittum mon. S.Marie, territorio Voluterrensis.

[Seguono le firme del conte Gherardo e dellamoglie, dei testimoni e del notaio].

Documento 3

Pisa, 19 febbraio 1158. Elenco di possessi delmonastero di S. Maria di Serena [da minuta origi-nale presso ASP, fondo Roncioni].

A. MCLVIII, XI kal. mart., ind. VI. Guido ab-bas mon. S. Marie de Serena, communi concordiasuorum confratrum, presentia Ansaldi monaci sui,presb. Rolandi cappellani sui S. Blasi de Biboni,pro melioratione et utilitate sui mon. concedit,tradit Villano Pis. archiep., ad opus eccl. et archie-piscopatus S. Marie de Pisa, medietatem integramomnium rerum inmobilium et possessionum adsuprascriptum mon. pertinentium, cum castellis,vineis, pratis, pascuis, silvis, salinis, omni eorumiure a Cecina usque ad Ombrone sicut in mare de-rivantur, videlicet: medietatem de hoc quod su-

Appendice 227

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prascripto mon. pertinet in Biboni et eius confini-bus, in confinibus de Casale, in Montalto et eiusconfinibus, in Palatino, in Canpomagiore, in curiade Bolgari ad S. Victorem, in finibus Rivo Gualdiq. est in Castagnetum et Sagalare, in rocca de Biser-no et in eius confinibus et curia q. est medietasrocca et eius curie, in Acquaviva et eius confini-bus, in Canpilia q. est medietas de castello et cu-ria, in Finoketo, in curia de Suvereto, in CastilioneBernardi et eius curia, confinibus et curia de Mon-teritondo, scilicet villa de Cangna, villa de Pater-no, villa de Burriano, in curte de Marciliana, incurte de Topario supra Castellina, in Casalasci, inBurgugnano, in Acquanigra, in Aquilaia, infra ple-bem de Noni in Cornino, scilicet curia de S. Vito,q. tenet c. in Cerrosuvera, aliud c. in piscina pre-sb. Lei, aliud ad murum longum, aliud in Petrafic-ta, uno l. in via Lacamadula, et aliud c. in piscinade Selice et Perogebulo, sic redit per Silicem u-sque ad Corniam, aliud c. ad fossam Lupaiam, sicvadit per Prunetam usque ad Varicum, vadit perArnisanum usque ad fossam Kunici, in curte Casa-lappi, in curte de Sanbuketa, in villa de Burgo, incurte de Montioni.

[omissis]

Documento 4

Vetrungnano, 1° novembre 1022. Atto di fonda-zione del monastero di S. Giustiniano di Falesia [dauna copia dell’XI secolo del not. d. i. Gerardus].

Ugo comes, Gerardus, Guido, Teudici, Rodul-fus gg. ff. qd. Teodorici, q. fuit comes, pro anima-rum suarum remedio edificant monasterium in ho-nore s. Iustiniani infra comitatum et territorio Po-poloniense u. d. Falesia iuxta mare. Supradicta ec-cl. videtur esse sub regimine et potestate Aposto-lorum principis urbis Rome. Suprascritti gg. offer-re et dare volunt: curtem suam de Cumulo cumdonicatis, angaris, olivetis, silvis, cultis vel inculm-tis; IX casis et rebus massariciis in l. Fisulanum: Iregere videtur per Principio massario, II per Leo,III per Berizo, IV per Petro, V per Martino, VIper Iohannes, VII per Petrus, VIII per Vuinizio,IX per Carello presb. ; medietate de S. Perpetuacum terris, vineis, silvis; curte de S. Cristina in l. A-quaviva. Omnia offerre prevident tali ordine, ut u-sque dum ipsi vel suis eredibus hac proeredibuspredicta eccl., q. in monasterium edificant, a pon-tefice Beati Petri eccl. urbis Rome apostolice sedisabere et detinere videntur, supradictis rebus in i-

psius eccl. permaneat potestate. Si ullus futurorumpontifices a se vel a suis eredibus ac proeredibussupradicta eccl. abstulerit, res q. concedunt in suadeveniant potestate. Ordinant ut, quandoque ab-batem constitutus regulariter in predicto monaste-rio ab oc seculo migraverit, uno consilio supradic-te congregationis ipsi q. s. gg. vel suis eredibus acproeredibus ibidem abbatem congreget. Si inter q.s. gg. vel suis eredibus intetio orta fuerit, quodcommuniter abbatem congregare non voluerint,cum consilio suprascriptorum fratrum, tunc preci-piunt, ut ep. Vulturensis ibidem congreget abbascum consilio et electione suprascrpt. fratrum...

[omissis] [Si conclude con la firma dei fratelli Ugo, Ghe-

rardo, Tedice, Guido, Rodolfo e Enrico, con quel-le dei testimoni ed infine quella del not. d. i. Fla-gipertus].

Documento 5

Firenze, 28 gennaio 1405. Capitolazioni in Ac-comandicia fra i Gherardesca e la Repubblica Fio-rentina [da M. MACCIONI, Difesa del dominio deiconti della Gherardesca, Riccomi, Lucca 1771].

In Dei nomine amen. Anno Incarnationis Do-mini Nostri Jesu Christi Millesimo quadrigentesi-mo quinto Indictione quartadecima, secundumcursum, & morem Florentinorum die vigesimooctavo Mensis Januari coram Nobilibus & Pru-dentibus Viris Domino Laurentio de Ridolfis de-cretorum Doctore, Niccolas Joannis de Uzzano,Domino Philippo de Magalottis Milite, FranciscoCecis de Pulcis, Antonio Vannis Mannucci, Do-mino Rainaldo de Gianfigliazzis Milite, DominoCristofano de Spinis Milite, Bartolomeo NiccolaiTaldi Valoris & Paulo Berti Grazzini de Carnesec-chis, Civibus honorabilibus Florentinis, novem exdecem Baliae Magnifici, & potentis Comunis Flo-rentiae absente tunc Lodovico della Badessa eo-rum Collega personaliter costituti Nobiles & pru-dentes Viri, Comes Gabriel Filius olim Domini U-gonis, & Comes Joannaes Filius olim ComitisNiccolai de Comitibus della Gherardesca Comita-tus Pisarum, facientes & qui fecerunt omnia &singula infrascripta eorum propris nominibus, acetiam vice & gestorio nomine Comitis Arrigi filiiolim dicti Domini Ugonis & Germani dicti Comi-tis Gabriellis & Niccolai & Fratrum filiorum olimdicti Comitis Niccolai & Comitis Vincislai olimDomini Napoleonis Comitis de Doneratico, & fi-

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liorum, & descendentium Masculorum legittimo-rum, & naturalium in perpetuum tam natorumquam nasciturorum ipsorum Comitum Gabriellis,& Johannis, & aliorum praedioctorum, quorumnomine faciunt & seu fecerunt pro quibus omni-bus de rato observantia & ratihabitione promise-runt dictis novem de decem baliae, & mihi Vivia-no Notario infrascripto ut publicae personae reci-pienti, & stipulanti, videlicet pro dicto, & vice, &nomine dicti Comunis Floretiae & pro omnibus& singulis, quorum interest, vel intererit quoquomodo; Reverenter esposuerunt ipsis Novem deDecem baliae quod ipsi tenent, & hactenus tenue-runt Castra & loca quae erunt infra specificata &nominata, & quod ipsi sunt dispositi puro animo& recta intentione velle se esse in perpetuum veri& devoti filii servitores & obbedientes dicti Magni-fici, & potentis Comunis Florentiae & hoc osten-dere per effectum, & petierunt se cum Castris &locis, & aliis de quibus infra scribetur & pro eo-rum successoribus recipi ad gratiam, & filiatio-nem & obbedientiam ipsius Comunis, cum illismodis, deliberationibus, Capitulis, ordinamentis,gratiis, privilegiis, favoribus, concessionibus, one-ribus, obligationibus, permissionibus, & aliis dequibus pro ut & sicut placeret ipsi officio Domi-norum decem baliae & se eis & dicto ComuniFlorantiae recomendaverunt offerentes se paratosomnia facere quae ipsi mandabuntur. Qui Novemde dicto Officio Decem Baliae auditis praedictis& conoscentes ut dixerunt hoc caedere ad hono-rem, & exaltationem dicti Comunis Florentiae &suae libertatis & status, & ad exterminium inimi-corum dicti Comunis, & volentes etiam ostederemagnificentiam dicti Comunis, & dictos Comitesbenigne recipire & tractare ipsos Comites Gabrie-lem & Johannem modis & nominibus quibus su-pra receperunt sub filiatione, gratia & obbedien-tia dicti Comunis Florentiae cum capitulis, dispo-sitionibus, modis, & pactibus, conventionibus &aliis infra scribendis, quae omnia ipsi novem dedecem baliae retenta prius pratica, & facta exami-natione per duos de ipsis decem baliae & cumdictis Comitibus Gabrielle & Johanne dicti nomi-nibus, deliberaverunt, ordinaverunt, providerunt,& disposuerunt & pro dicto Comuni Florentiaeconvenerunt, firmaverunt, & fecerunt omni modovia forma, & causa quibus melius, & efficaciuspotuerunt pro ut & sicut infra per scripturas &Capitula apparebit, videlicet.

I. – In primis quod ipsi Comites Gabriel, Arri-gus, & Johannes, & Niccolaus, & alii filii dicti Co-mitis Niccolai ejus Fratres, & Comes Vincislaus,

& eorum filii Masculi, & descendentes Masculi,& per lineam Masculinam tam nati quam nascitu-ri in perpetuum, intelligantur esse, & sint facti, &solemniter constituti perpetui Vicarii Comunis &pro Comuni Florentiae, cum omni administratio-ne, & jurisdictione, ac gubernatione & sic ipsosfecerunt, & constituerunt in perpetuum infrac-sriptorum Castrorum cum eorum Curiis homini-bus & personis videlicet, Castri Casalis, Castri Bi-bonis, Castri Bogori, Castri Castagneti, & CastriDonoratici, Comitatus Pisarum.

II – Item quod infrascripta loca cum eorumCuriis pro ut infra nominabuntur, pertineat addictos Comites, & eorum filios & descendentespraedictos cum Juribus quae in eis habent & prout ad eos pertinent ad praesens, & hactenus perti-nerunt, & possint ipsa tenere, possidere & usu-fructuare pro ut hactenus fecerunt & potuerunt,& de illis disponere pro ut hactenus potuerunt,quae loca sunt ista videlicet. Colmezzanum, Parsad eos pertinens loci dictae le Mele, Casaglia, Ca-sa giusti, Castillione, Olivetum, Segalari, PetraRossa, Pars eorum in Biserno, Castiglione Mandi-gli prope & extra Curiam Rusignani. In quibus lo-cis non est aliqua Fortilitia, ut dictum & assertumfuit per dictos Comitem Gabrielem, & Johannemdd. nominibus.

III – Item quod in dictis Castris & locis, & eo-rum Curiis, hominibus & personis dicti Comitesut Vicarii praedicti possint in perpetuo exercereomnem Jurisdictionem, salvo tamen quod de ma-leficiis & delictis pro quibus venire de jure comu-ni imponenda poena mortis vel abscisionis mem-bri, jurisdictio & cognitio pertineat ad ComunemFlorentiae & non ad dictos Comites, & pro dictoComuni, & quolibet tali casu ad illum Officialemcui fuerit comissum semel aut pluries, & quando-cumque per officium Dominorum decem BaliaeComunis Florentiae vel non existenti decem Ba-liae per magnificos Dominos Dominos Priores ar-tium, & Vexilliferum Justitiae Civitatis Florentiae& eorum Collegia vel duas partes eorum, hoc ta-men declaro quod executiones condennationumipsorum maleficiorum & delictorum in persona &membro fiant & fieri debeant per Officialem cuifuerit commissum in dictis locis, vel quocumqueex eis.

IV – Item quod dicti Comites & Eorum Filii &Descendentes praedicti percipiant & perciperepossint in perpetuum fructus & redditos dicto-rum Castrorum & locorum, & ad eos ipsi fructus,& redditus pertineant pro conservatione, custo-dia, & manutentione ipsorum Castrorum, & pro

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aliis expedientibus pro praedictis. V – Item quod dicti Comites Vicarii praedicti,

& eorum filii & descendentes praedicti, cum dic-tis Castri & locis sint & esse intelligantur sub Pro-tectione dicti magnifici Comunis Florentiae ut suiVicarii, ut supra dictum est, & Protectionis bene-ficio gaudeant dicti Communis eorum Domini &Protectoris.

VI – Item quod dicti Comites Vicarii praedicti,& eorum filii & descendentes praedicti pro reco-gnitione dictae concessionis, & Vicariatus, & in si-gnum reverentiae & obedientiae teneantur & de-beant quolibet anno in perpetuum per unum eo-rum Procuratorem vel familiarem quel voluerintequestrem offerri facere in Civitate Florentiae adEcclesiam Sancti Johannis Baptistae, in die festisSancti Johannis praedicti de Mense Junii, unumPalium de Sirico, pro ut eorum honori viderintconvenire, exstimationis ad minus florenorum de-cem auri.

VII – Item teneantur & debeant pro ComuniFlorentiae facere exercitus & Cavalcatas, & de fa-mulis mittere & tenere in servitium dicti Comunissecundum eorum posse quotiens eis fuerint man-datum per dictum Comune & eius officiales.

VIII – Item quod in dictis Castris & locis nonpossint nec debeant retineri vel receptari nec mo-rari aliquis, vel aliqui presentes, vel futuri conden-nati ad morte, vel in membris, aut in pecunia adugentis libris supra Comunis Florentiae aut quiessent condennati Comunis Vulterrae in praedic-tis vel aliquo praedictorum; salvo quod possint re-ceptare Comitem Niccolam, & Matteum de Stri-do & ibidem in dictis Castris & locis ipsi duo sta-re, & habitare possint.

IX – Item quod dicti Comites Vicarii praedicti,& eorum filii & descendentes praedicti, debeantcum dictis Castris & locis facere omni tempore admandatum Comunis Florentiae Guerram & Pa-cem pro ut ipsis mandatum fuerit, ut Vicarii dictiComunis, & in talibus ipsi Comuni Florentiae ob-bedire.

X – Item quod directe, vel indirecte, tacite velexpresse, non possint nec debeant alicui InimicoComunis Florentiae dare auxilium, vel favorem,& in omnibus tractare amicos Comunis Florentiaepro amicis, & inimicos dicti Comunis pro inimi-cis, & sic in omnibus casis observare.

XI – Item quod in dictis Terris, & locis de-beant ad omne mandatum Comunis Florentiaereceptari omni tempore Gentes armorum dictiComunis, Equestres & Pedestres contra quo-scumque & quibuscumque causa & c.

XII – Item quod dicti Comites Vicarii, & eo-rum filii & discendentes praedicti, debeant dictaCastra & Loca salvare & custodire, ad honoremComunis Florentiae, ut veri Vicarii dicti Comunis.

XIII – Item quod census, feuda, & alia Jura,quae pertinent in dictis Castris & locis ad praedic-tos Comites, possint per eos teneri, & usufructua-ri pro ut hactenus potuerunt, & ad eos pertinue-runt, & pertinent cum solitis Juribus, quae habue-runt, & habent, & sic ipsis uti possint.

XIV – Item quod Patronatus Abbatiarum, Ec-clesiarum & Hospitalium, & aliorum Beneficio-rum pertineant ad dictos Comites pro ut de Juread eos pertinent, excepto tamen quod aliquo JurePatronatus non possint uti in aliquo Beneficio velLoco Ecclesiastico existente infra Castrum Guar-distalli, & seu infra Castrum Montiscudaii.

XV – Item quod in Bonis, Censibus, aut feudisquos vel quae dicti Comites tenerent, quae essentalicujus Praelati, vel Personae Ecclesiasticae &Beneficii Ecclesiastici Comunis Florentiae, aut ali-quis Officialis dicti Comunis, non debeant ipsosvel aliquem ipsorum molestare; Et quod ComuneFlorentiae debeat eis dare illum favorem qui estjustus & honestus.

XVI – Item quod praedicti Comites possint insuprascripti Castri & locis supra nominatis & eisconcessis exigere, & exigi facere Pedagium prouthactenus potuerunt; Salvo quod a Civibus, velComitatinis Civitatis Florentiae seu de eorum be-stiis aut pro eorum equis vel aliis animalibus, autpersonis, aut pro eorum, vel de eorum Mercantiis,vel aliis rebus nullum Pedagium, vel Gabella acci-piatur, vel exigatur, quod ad aliis ultra solitumnihil exigatur.

XVII – Item quod in his, quae dicti Comitestenent & possident ad praesens, ipsi possint utiomnibus eorum Juribus, & prout de Jure de dic-tos spectat, & pertinet.

XVIII – Item quod ipsi Comites & Comunia &Loca supra eis concessa, & ipsorum Comunium& locorum homines, & personae intelligantur es-se & sint absoluti ab omni debito, ad quod propraeterito tenentur Comuni Pisarum, & propte-rea non possint, nec debeant gravari vel molestari.

XIX – Item quod pro aliquo debito ad quoddicti Comites, vel homines & Personae de dictisCastris, & locis supra eis concessis vel aliquis i-psorum, vel dicta Comunia, & loca tenentur alicuide Civitate aut Comitatu, vel districtu Pisarum, i-psi vel dicti homines & Personae, aut dicta Co-munia non possint gravari infra decem Annosproxime futuros.

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XX – Item quod dicti Comites, & quilibet eo-rum possint caricare & discaricare in Plaggis dellaGherardesca Granum & Bladum, quod recollige-rent in dictis Castris, & locis supra eis concessissine solutione alicujus Datii, vel Gabellae.

XXI – Item quod dicti Comites possint uti om-nibus eorum Juribus in omnibus possessionibusquas habent, vel ad eos spectant ad praesens, sal-vo & excepto quam in Castris, & ComunibusGuardistalli & Montis Scudari, & quod omne se-questrum factum ad petitionem officii supradicto-rum Dominorum Decem Baliae tollatur & revoce-tur. Et insuper quod de, & pro omni, & quocum-que debito ad quod ipsi Comites, vel aliquis eo-rum teneantur cuicumque de Civitate aut Comita-tu seu Districtu Florentiae, vel aliunde praeter-quam de Civitate Comitatu, vel districtu Pisarum,stetur cuicumque declarationi, & diffinitioni quaeinfra tres annos facta fuerint semel seu pluries &simul, & separatim per illum Officialem, & seu il-lum Officium cui commissum erit infra dictumtempus per Dominos Decem Baliae, vel duas par-tes eorum, & non existentes decem Baliae perDominos Priores & Vexilliferum Justitiae CivitatisFlorentiae vel duas partes eorum, & quaelibet ta-lis deffinitio, & declaratio observetur.

XXII – Item quod dicto Comitem Vincislao li-ceat usufructuare Bona quae habet in ComuniCastellinae estra Castrum; sed Domus concessaComuni & Palatium in Castro existens remaneatComuni Florentiae cum suis pertinentis.

XXIII – Item quod dicti Comites, & homines& personae de Locis & Castris supra eis conces-sis, & quilibet eorum intelligantur esse & sint exnunc absoluti & liberati ab omnibus, & singolisroberiis, maleficiis, & delictis hactenus usquenunc commissis factis & perpetratis, & proptereanon possint nec debeant aliqualiter molestari.

XXIV – Item quod dicti Comites, & quilibet i-psorum intelligantur esse & sint ex nunc absoluti,& plenissime liberati ad omnibus & singulis con-demnationibus & bannis de eis vel contra eos, &quemcumque ex eis dati latis seu factis hactenuspro quibuscumque maleficiis excessibus & delic-tis ubicumque, & quaecumque condennationes,& banna, intelligantur esse & sint annullatae &revocate & pro cassis & cancellatis habeantur &censeantur, & pro ipsis vel contentis in eis nonpossint nec debeant molestari, & si expediens es-set fiant quaecumque Provisiones, Reformationes& Deliberationes, & idem intelligantur de homi-nibus Locorum & Castrorum supradictis Comiti-bus concessorum.

XXV – Item quod dicti Comites, & quilibeteorum, & ipsorum, & cujuscumque eorum filii &descendentes Masculi & per lineam masculinampossint & cuilibet eorum liceat omni tempore inperpetuum per Civitatem, Comitatum, & Distric-tum Florebtiae, & per Civitatem, Comitatum, &Districtum Pisarum & in omni loco in quo Comu-ne Florentiae habet Praheminentiam, vel Superio-ritatem portare omnia & quaecumque Arma of-fendibilia, & defendibilia licite & impune. Nomi-na dictorum Comitum pro Armis, qui ad praesensnominantur, sunt ista videlicet. Comites Arrigus,& Gabriel praedicti, & Nicolaus & Johannes olimComitis Nicolai & eorum fratres Vincislaus Do-mini Napoleonis, Bernabos, Laurentius, & Fra-tres filii dicti Comitis Arrigi & filii praedictorumComitum.

XXVI – Item quod quando ipsi Comites essentin Civitate Florentiae, possint decem eorum Fa-miliares, qui vere essent eorum familiares, non ta-men sint de Civitate Florentiae, & quilibet ipso-rum familiarim possint portare Arma offendibilia& defendibilia per Civitatem Florentiae, & ejusComitatum & Districtum licite & impune, & i-dem intelligatur quando ipsi Comites essent in Ci-vitatem Pisarum, aut in quacumque Civitate inqua Comune Florentiae haberet Superioritatem,vel Praeheminentiam, & quando essent duo autplures ex dictis Comitibus in quacumque ex dictisCivitatibus etiam decem familiares, & quando es-set solus unus ex ipsis Comitibus possint octo suisFamiliares licite & impune ipsa arma portare, &quod nullos de dictis familiares possint esse deCivitate Florentiae, & debeant esse veri familiareseorum & non alterius.

XXVII – Item quod per dicta, vel aliquodpraedictorum non derogeretur aliquibus Capitu-lis, vel Concessionibus factis per Officium ipso-rum Dominorum Decem Baliae.

XXVIII – Item quod sopradicti Comites Arri-gus & Nicolaus & Vincislaus & alii Comites supe-rius nominati qui sunt aetatis debeant hinc ad pertotum Mensem Februarii proxime futuri, ratifica-re & jurare ea, quae preadicti Comites Gabriel &Johannes pro ipsi promiserunt ut infra apparebit,& ad quae obligantur per Capitula suprascripta &infrascripta, & mittere infra tempus praedictumOfficio Dominorum dictorum Decem Instrumen-tum publicum Ratificationis.

XXIX – Item quod dicti Comites Gabriel &Johannes dictis nominibus debeant promittere, &Jurare se esse & perseverare in futurum boni recti& legales servitores Comuni Florentiae & contra

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haec nullo modo facere, vel actentare & Juxtaposse operari & facere quod Civitas Pisarum ve-niat sub obbedientia & dominatione dicti Comu-ni Florentiae. Quibus omnibus sic factis praedictiNovem de dictis Dominis Decem Baliae praedictiComites Gabriel & Johannes ibidem praesentesauditis omnibus suprascriptis, & ipsis omnibusdictis nominibus consensuerunt & promiseruntdictis nominibus ipsis Novem de Decem Baliae &mihi Viviano Notario Pubblico officio pubblicostipulanti, & recipienti pro dicto, & vice & nomi-ne dicti Comunis Florentiae, & omnium quoruminterest seu intererit suprascripta omnia fideliterbono animo, & recta fide effectualiter observare& contra aliquo modo, de Jure, vel de facto nonfacere vel venire, & sic promiserunt pro aliis Co-

mitibus suoradictis, & pro ipsorum & dictorum a-liorum Filiorum & Descendentium per lineamMasculinam, & sic a delationem mei Viviani inpraesentia dictorum Novem de Decem Baliae dic-tis modis & nominibus Juraverunt ad Sancta DeiEvangelia manu tactis scripturis de recta & per-fecta observantia praedictorum & de non facien-do, vel aliqualiter actendo.

Acta fuerunt praedicta in Civitate Florentiae inPalatio Populi Florentini praesentibus strenuo Vi-ro Sforza Johannis de Cutignola, uno ex Caporali-bus gentium armorum Comunis Florentiae, SerPaulo Ser Landi, Ser Nicolao Andreae Gucci, &Ser Martino Lucae Notariis Florentinis, testibusad praedicta adhibitis & vocatis.

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Premessa 7

PARTE PRIMAUna grande casata guerriera del Medio Evo

CAPITOLO PRIMOLe origini leggendarie e storiche della famiglia 11

CAPITOLO SECONDOI rami genealogici minori della famiglia 35

CAPITOLO TERZOLe prime generazioni dei conti di Donoratico 57

CAPITOLO QUARTOL’epopea dei Gherardesca in Sardegna 65

CAPITOLO QUINTOI conti di Donoratico e la loro Signoria su Pisa 81

CAPITOLO SESTOLa pace con Firenze e le vicende che ne seguirono 115

PARTE SECONDADal Granducato dei Medici al Regno d’Italia

CAPITOLO PRIMOI della Gherardesca diventano fiorentini 131

CAPITOLO SECONDOSotto l’ala protettrice dei Medici 141

CAPITOLO TERZOI Lorena e la controversia sull’autonomia della contea 169

CAPITOLO QUARTOSotto il dominio napoleonico in Toscana 177

CAPITOLO QUINTODalla restaurazione dei Lorena ai primi anni del Regno d’Italia 183

APPENDICE

INSERTO 1Ricerca toponomastica dei possedimenti di S. Walfredoe loro accostamento con i domini dei Gherardesca 199

INDICE

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INSERTO 2Castelli e rocche che furono dominati dai Gherardesca per breve o lungo periodo 205

INSERTO 3Compendio di documenti, tratti dall’Archivio della Gherardesca, che possono fornire un quadro del grado di autonomia della Contea dal 1405 al 1775 219

DOCUMENTI 225

Bibliografia 233

186 I della Gherardesca

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FINITO DI STAMPAREDALLA LITOGRAFIA VARO

IN PISAIL GIORNO DEI SS. PIETRO E PAOLO

29 GIUGNO 1996PER CONTO

DELLE EDIZIONI ETS

IL PRESENTE ESEMPLAREAPPARTIENE ALLA PRIMA RISTAMPA

DI CINQUECENTO COPIE

IL CASTELLO DI WILLEHALMMINIATURA DEL MANOSCRITTO VIENNESE, FOL. 106r