Ugo Volli Corpo e Gioielli

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Immagine L'abbigliamento (con i suoi accessori) ci serve perché è lo strumento per la manipolazione che noi diamo della nostra immagine. Non ci vestiamo per coprirci dalle intemperie, ci vestiamo per comunicare. L'abbigliamento, in definitiva, non è più uno strumento di condizionamento atmosferico portatile com'è stato a lungo e non è neanche in questo mondo uno strumento di difesa dalle aggressioni dello sguardo, di pudore o di anonimato. Questi sono solo effetti secondari, che spesso vengono contrastati o usati al contrario (l'abbigliamento come strumento di infrazione del pudore, di uscita dall'anonimato, di cataòlizzazione dello sguardo). In ogni caso oggi l'abbigliamento è innanzitutto uno strumento di comunicazione . L'industria tessile e della confezione vende strumenti di comunicazione: comunicazione agli altri, nel senso che in una situazione pubblica tutti, col loro aspetto e dunque innanzitutto con gli abiti dicono silenziosamente e continuamente agli altri di essere persone serie, di appartenere a un certo mondo produttivo, alla tradizione italiana e così via. Ma si tratta anche di strumenti di comunicazione nei confronti di noi stessi. In qualche modo ci diciamo, vestendoci in una certa maniera, come intendiamo essere o come vorremmo cercare di essere o come effettivamente siamo: più o meno autorevoli, giovani seduttivi, eccentrici, ordinati, creativi... Da questo punto di vista l'abbigliamento è un importante strumento di figurativizzazione di quell'incessante autoracconto che è il segreto dell'identità. In sintesi, la nozione di immagine comprende almeno due aspetti: si può identificare un'immagine come ruolo sociale e un'immagine come rappresentazione della propria individualità . Nei regimi di abbigliamento di antico regime, quello cui erano sottoposti i contadini fino a qualche decina di anni fa, o tutta la società fino al tardo Medio Evo, quello che c'è stato in molti paesi di altre culture fino a tempi recenti e forse ancora oggi, l'immagine rappresenta dei ruoli sociali . Questo è il caso delle uniformi da noi, forse è anche il caso di certe caratteristiche di certi abiti che si indossano in determinate circostanze, come la giacca e la cravatta dei professionisti. I ruoli sociali richiedono uniformi. Un militare lo identifichiamo come tale dalla divisa. Un prete è definito dalla tonaca. Una donna indiana viene definita da una certa collanina scura come donna sposata: è la

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semiotica del corpo e della modaestratti dell'opera di Ugo Volli

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ImmagineL'abbigliamento (con i suoi accessori) ci serve perché è lo strumento per la manipolazione che noi diamo della nostra immagine. Non ci vestiamo per coprirci dalle intemperie, ci vestiamo per comunicare. L'abbigliamento, in definitiva, non è più uno strumento di condizionamento atmosferico portatile com'è stato a lungo e non è neanche in questo mondo uno strumento di difesa dalle aggressioni dello sguardo, di pudore o di anonimato. Questi sono solo effetti secondari, che spesso vengono contrastati o usati al contrario (l'abbigliamento come strumento di infrazione del pudore, di uscita dall'anonimato, di cataòlizzazione dello sguardo). In ogni caso oggi l'abbigliamento è innanzitutto uno strumento di comunicazione. L'industria tessile e della confezione vende strumenti di comunicazione: comunicazione agli altri, nel senso che in una situazione pubblica tutti, col loro aspetto e dunque innanzitutto con gli abiti dicono silenziosamente e continuamente agli altri di essere persone serie, di appartenere a un certo mondo produttivo, alla tradizione italiana e così via. Ma si tratta anche di strumenti di comunicazione nei confronti di noi stessi. In qualche modo ci diciamo, vestendoci in una certa maniera, come intendiamo essere o come vorremmo cercare di essere o come effettivamente siamo: più o meno autorevoli, giovani seduttivi, eccentrici, ordinati, creativi... Da questo punto di vista l'abbigliamento è un importante strumento di figurativizzazione di quell'incessante autoracconto che è il segreto dell'identità.

In sintesi, la nozione di immagine comprende almeno due aspetti: si può identificare un'immagine come ruolo sociale e un'immagine come rappresentazione della propria individualità. Nei regimi di abbigliamento di antico regime, quello cui erano sottoposti i contadini fino a qualche decina di anni fa, o tutta la società fino al tardo Medio Evo, quello che c'è stato in molti paesi di altre culture fino a tempi recenti e forse ancora oggi, l'immagine rappresenta dei ruoli sociali. Questo è il caso delle uniformi da noi, forse è anche il caso di certe caratteristiche di certi abiti che si indossano in determinate circostanze, come la giacca e la cravatta dei professionisti. I ruoli sociali richiedono uniformi. Un militare lo identifichiamo come tale dalla divisa. Un prete è definito dalla tonaca. Una donna indiana viene definita da una certa collanina scura come donna sposata: è la

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funzione che nella nostra cultura viene svolta dalla vera di matrimonio.Da un certo punto in poi, nella storia del costume occidentale, diciamo dalla fine del Medioevo e poi via via sempre di più, l'abbigliamento è stato usato non per rappresentare non semplicemente ruoli sociali, ma caratteristiche psicologiche, modi di essere, stili di vita. I quali però si identificavano fino a un certo punto all'interno di una griglia data e per lo più determinata in qualche modo dall'offerta. Nel senso alto della moda questo era il potere del grande couturier, a livello più basso è il potere dell'industria delle confezioni. Entrambi stabiliscono quali stili di vita siano rappresentabili per mezzo dell'abbigliamento, quali sentimenti e personaggi si possano facilmente rendere pubblici con gli abiti. Questa specie di comando dell'offerta sull'organizzazione dell'immagine ci autorizza ad assimilare la moda con la modernità. Fra le due non c'è semplicemente un'assonanza etimologica. La moda in senso classico è effettivamente il segno della modernità, perché si basa doppiamente sul progetto: non solo il disegno di un abito è progettato da un autore, ma anche la sua circolazione sociale è regolata da un piano di marketing. Noi oggi però viviamo in un tempo diverso, è cambiato qualche cosa, non viviamo più nella modernità. Continuo a pensare che lessicalmente sia un po' buffo parlare di post-moderno, ma ormai la parola è entrata nell'uso, e tanto vale usarla. Viviamo dunque in un periodo in cui l'espressione di sé passa ancora meno per il comando dell'offerta. C'è una ostinata volontà - per usare la terminologia che ho proposta sopra, c'è un interesse preciso - da parte di quelli che qui chiamiamo consumatori, di decidere loro come, quando e perché rappresentarsi. Il buono da indossare, il bello da vedere è sempre più rivendicato non dall'offerta, da quello che viene proposto (che è economicamente strategico, ma indifferente ai contenuti) ma sempre più l'offerta deve adeguarsi a quello che i consumatori desiderano e pensano che sia buono per loro, all'interesse che portano alla costruzione della loro immagine.Questo è successo per una serie di ragioni: perché c'è stata una compiuta stabilizzazione in asse in termini di abbigliamento, c'è stato un aumento della mobilità fisica e sociale e anche comunicativa per cui è possibile vedere tanti modelli diversi. C'è stata un'abitudine ormai acquisita in tutti i campi all'efficacia tecnologica per cui ci si è abituati alla obbligatorietà del funzionamento degli oggetti con cui ci troviamo ad avere a che

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fare. E' venuta fuori dal fatto che esiste un'esigenza generale che ormai pervade tutta la vita sociale, anche a livelli medio-bassi, di un ruolo di rappresentanza e di seduzione per cui anche il piccolo impiegato si aspetta non di essere semplicemente coperto, ma di essere bello da pensare, ai suoi occhi e agli occhi degli altri.

Tutti questi fattori hanno creato una forte pressione culturale, e non solo psicologica, nella direzione di una sorta di protagonismo da parte della domanda e del suo interesse a usare l'abbigliamento per rappresentarsi.

Corpo artificiale e ornamentoTuatuaggi. Piercing. Anelli sottili che spuntano da una narice o da un labbro. Capelli viola o verdi, tagliati a cresta o rasati cortissimi. Orecchie maschili decorate da pendenti che una volta erano riservati alle donne, magari in nimero esagerato. Capita sempre più spesso di incontrare per la strada, nelle discoteche e magari nelle sfilate di moda, persone che hanno realizzato sul loro corpo delle decorazioni che sembrano innaturali alla gente comune, e che magari lasciano un po' a disagio chi non c'è assuefatto. Operazioni che magari spesso sono fatte proprio apposta per creare questo disagio, per marcare una differenza, per farsi notare. Gruppi alternativi, punk, controculture artistiche musicali o sociali sono state in prima fila in questo tipo di trasformazioni corporee. La loro è stata talvolta una rivolta col corpo, un rifiuto fisico che ripeteva in forma più dura e radicale il vecchio gesto dei "cappelloni" di trent'anni fa. Basta pensare agli spilli da balia nelle guance o ai grandi anelli sulle labbra dei punk. Ma ormai anche il piercing e i tatuaggi sono diventati comuni e magari di moda, un po' com'era accaduto ai capelli lunghi dei ragazzi, all'inizio degli anni Settanta. E una volta che un certo territorio è conquistato alla moda, si può star sicuri che per qualche tempo verrà percorso in tutte le direzioni, suddiviso in vari modi, abbandonato e riconquistato nel corso degli anni. Così sta accadendo per queste decorazioni: per un certo perisodo l'anellino all'orecchio sinistro è un distintivo quasi esclusivo per i gay, l'anno dopo è adottato da tutti; ora si impone il tatuaggio più grande e decorativo, bene in vista, da sbattere in faccia a tutti (magari uno di quello provvisori, facili da cancellare, perché non si sa

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mai, domani la moda cambierà), ora si riserva a parti del corpo nascoste, lo si esibisce solo nella più segreta intimità.Viviamo nell'epoca del corpo artificiale, dunque? Sì e no. Sì, perché il nostro corpo è certamente molto artificiale, e non solo quello dei punk o delle modelle. No, perché la nostra epoca non ha nulla di speciale in questo. In effetti il corpo umano è sempre in certa misura artificiale. Possiamo dire facilmente quale sia la regola del corpo di un cane o di un uccello lasciato a se stesso (anche se gli allevatori sono intervenuti assai sulla forma degli animali domestici e noi ci permettiamo ancora spesso di tagliarli, rasarli, decorarli). Questo invece non è possibile per il corpo umano. Non c'è da nessuna parte un corpo naturale, che non sia passato attraverso qualche processo di trasformazione culturale. Non esiste una tribù, per primitiva che sia, che non metta gran cura nel manipolare il corpo dei suoi membri: dappertutto troviamo tatuaggi, cicatrici, pitture, acconciature dei capelli, colli, orecchie e labbra artificialmente allungate in certi popoli, piedi fasciati per tenerli piccoli, protesi che allungano il pene o aumentano il sedere, polveri che anneriscono i denti o imbiancano il volto, cibo per ingrassare, digiuni per dimagrire, trampoli per diventare più alti, strane acconciature, abiti sontuosi, acconciature e maquillage, prove dolorose superate per essere ammessi a pieno titolo nella tribù. Qualcuno potrebbe trarre da queste osservazioni l'idea che vi sia una qualche parentela fra l'uso del corpo di tutti gli "altri", quelli che sono diversi dalla nostra normalità occidentale: forse le sottoculture giovanili somigliano a certe tribù primitive, i punk sono come gli indigeni della Papuasia, i rappers come i pigmei della foresta pluviale? Sarebbe ridicolo pensarlo. Al di là delle ragioni storiche, il fatto è che il nostro corpo "normale" è altrettanto manipolato e artificiale di quelli che ci appaiono "strani", perché sovvertono i modelli interni alla nostra cultura, o perché sono stranieri. Noi per esempio abbiamo un rapporto abbstanza bizzarro con i nostri peli corporei: le donne sono più o meno obbligate a rasarseli quasi dappertutto (ma non sul pube e non sul capo, naturalmente), gli uomini invece non devono assolutamente toccare i peli del loro corpo, sotto pena di sembrare strani, mentre possono liberamente tagliare via quelli del viso, se vogliono (ma non devono toccare le sopracciglia, che invece le donne possono modificare come vogliono). Sempre sul viso, le donne normali nella nostra società fanno bene a dipingersi,

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beninteso secondo certe regole abbastanza strane (va benissimo un'ombra azzurrina nella parte alta della pelle intorno all'occhio, ma guai a dipingersi le guancie dello stesso azzurro; il rossetto è ottimo sulle labbra, proibito sulla fronte, eccetera.). Gli uomini al contrario non devono truccarsi, salvo che siano molto "di tendenza". Qualcosa del genere vale per i gioielli e altri accessori: gli uomini hanno incominciato a portare dei braccialetti e degli orecchini semplici, da sempre si sono concessi degli anelli; ma il filo di perle resta escluso.E che dire dell'abbronzatura, che tutti cercano di mantenere anche a costo di qualche rischio, facendo la lampada se non sono riusciti a stare al sole? Non è passato molto tempo da quando la ppelle bruciata dal sole era una cosa da comtadini (villani o cafoni, se preferite, il significato è lo stesso). Signore e gentiluomini della buona società dovevano avere un'epidermide bianchissima, trasparente, capace di esibire il "sangue blu" delle vene. La stessa differenza si nota per quanto riguarda la massa corporea. Franz Werfel ricorda, in un suo scritto diaristico, che fino alla Prima Guerra Mondiale un signore troppo magro, privo cioè di una confortevole pancetta e di un autorevole strato di pannicolo adiposto avvolto intorno al corpo, sarebbe stato considerato povero o malato, dunque in ogni caso un po' inquietante, non completamente affidabile. E se essere giovani alla fine dell'Ottocento era comune quanto lo è oggi e anche di più, in quel periodo non bisognava però sembrare troppo giovani: la quarantina era l'età più sexy, per uomini e donne. A quel tempo, del resto, gli studenti tedeschi non erano contenti se non riuscivano a farsi sfigurare le guance da qualche bella cicatrice, e portavano apposta delle maschere forate durante i loro duelli goliardici, per ottenere la sospirata decorazione... per cui oggi chiunque ricorrerebbe immediatamente alla chirurgia plastica. Che oggi sia obbligatorio essere giovani, abbronzati, muscolosi, magri e scattanti, è una scelta assolutamente artificiale, e magari altrettanto nevrotica. Ci è difficile rendercene conto, perché i nostri criteri estetici ci sembrano sempre "naturali", per definizione. Ma c'è un campo in cui questi cambiamenti non possono sfuggire, tanto vanno veloci nel nostro tempo: le forme propriamente femminili. Chi non ricorda, tre o quattro anni fa, l'esplosione della moda dei reggiseni push up? Sembrò per un momento che un petto monumentale fosse la garanzia indispensabile di ogni bellezza

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femminile, e che qualunque donna lo potesse ostentare, naturalmente usando l'opportuna protesi di pizzo. Anche quella era una manipolazione del corpo, o del modello ideale di corpo, come quelle dei primitivi. Senonché si è tornati rapidamente al seno piccolo, salvo riscoprire rapidamente le forme opulente in un prossimo futuro. Se facciamo l'elenco delle dive del cinema che hanno influenzato il gusto femminile, troviamo che quest'oscillazione è continua: Marlene Dietrich e Jane Harlow, Greta Garbo e Sofia Loren, Marylin Monroe e Brigitte Bardot. Non si tratta solo di grandi modelli, ma di pratiche del corpo, di reggiseni a balconcino e di diete dimagranti, di scollature e di punto vita. Lo stesso discorso si potrebbe fare per altri punti strategici del corpo femminile, come le gambe e il sedere. Gli uomini del resto non sono da meno: fra body building e mutande imbottite, giocano anch'essi a modo loro la partita del corpo artificiale.Una delle funzioni risconosciute dell'abbigliamento, del resto è quello di modificare il corpo, di dargli delle forme artificiali. Le spalline dei militari (o le spalle imbottite di tanti abiti anche femminili, simulano dei muscoli inesistenti. A lungo le donne hanno portato gonne con la crinolina e busti allacciati stretti, per cambiare le proporzioni fondamentali del petto e dell'addome, senza temere troppo i rischi connessi a queste allacciature innaturali. Si potrebbe continuare a lungo, enumerare dettagli, aggiungere particolari. Ma non è necessario. E' chiaro che il nostro corpo, dalle unghie dei piedi (curate, tagliate e magari dipinte) alle punte dei capelli (tagliati e magari arricciati e tinti anch'essi) è tutto manipolato, tutto artificiale. Il suo odore, il suo colore, la sua forma e dimensione, il modo in cui è coperto, noscosto o esibito, decorato, dipinto: tutto questo dipenda da scelte culturali che ci sembrano "ovvie" e "giuste", che seguiamo insomma senza discuterle, anche perché le usiamo per definire la nostra personalità e il nostro ruolo.Non c'è differenza allora fra il nostro uso del corpo e quello delle tribù "primitive"? Sostenerlo sarebbe eccessivo. Infatti nelle società tradizionali il linguaggio del corpo serve innanzitutto a trasmettere informazioni sul ruolo sociale delle persone: dice in maniera spesso esattissima se uno è un guerriero o un contadino, nobile o comune, se una donna è nubile o maritata, se ha dei figli, a che clan appartiene e così

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via. Insomma il corpo è in queste società soprattutto una scrittura sociale, che non è possibile inventare liberamente.

Nelle società moderne, a partire dal Rinascimento, questi vincoli sociali si sono gradualmente attenuati, pur senza scomparire del tutto. Oggi noi scriviamo più liberamente sul nostro corpo la nostra identità, le nostre passioni, il nostro ideale. L'apparenza è sempre più una questione individuale, un biglietto da visita personale esposto al mondo. Non che manchino le regole, come abbiamo visto; ma si tratta prevalentemente di esclusioni e proibizioni, non c'è un codice sociale che permetta di trasmettere con esattezza sul corpo la nostra città di provenienza e il nostro stato matrimoniale. Piuttosto siamo in grado di dire benissimo se ci sentiamo severi o allegri, giovanili o maturi, modaioli o conservatori. E' una libertà che si va ampiando, via via che i modi di vita si mescolano e si incrociano. Anche i tatuaggi, i cerchietti alle orecchie, il piercing da cui siamo partiti hanno questa caratteristica. Fino a qualche anno fa indicavano tribù urbane precise, punk o marinai, "contestatori" o giovani ribelli, gente della "mala" o stranieri. Oggi questi costumi servono a esprimersi, a cercare di presentare al mondo la faccia che ci va, m,agari intercambiabile a seconda delle circostanze. Un corpo mobile, platico, leggero. Come un'immagine televisiva o una costruzione virtuale che esce da qualche diavoleria elettronica. Questo è forse quello che ci aspetta. Perché ogni corpo, in ogni tempo, ha l'artificialità che si merita.

Universalità umana dell’ornamentoGli animali non manipolano il loro corpo. (Solo noi uomini,

eventualmente, lo facciamo per loro e su di loro: decoriamo e infiocchettiamo, tagliamo code e orecchie ai cani, spuntiamo le ali agli uccelli che non vogliamo far volare, ingrassiamo gli animali da carne, selezioniamo le forme che ci piacciono in bulldog e siamesi, canarini e cavalli "purosangue.)

Gli animali, anche i più evoluti, curano il loro corpo, lo leccano lo spidocchiano lo grattano, ma non lo modificano apposta. Non considerano uno scopo la sua forma. Mangiano perché hanno fame, digiunano perché sono sazi, non per ingrassare o dimagrire. Si grattano o si leccano per prurito, per sesso, per istinto, non per ottenerne degli effetti gradevoli alla vista altrui. Un gatto selvatico come un lupo, uno scimpanzé o una formica hanno un corpo naturale, la cui forma è determinata dal codice genetico e da un comportamento altrettanto genetico.

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Non esiste invece tribù umana che lasci il corpo come viene, che lo tratti come un pezzo di natura intatta. E' una differenza fondamentale, ciò per cui la vita umana è esistenza e non semplice realtà.

Tutte le società manipolano profondamente il corpo, ma ciascuna in maniera diversa dalle altre. Il movimento della manipolazione corporea è universale, ma la sua determinazione non è genetica, bensì culturale. Varia continuamente con lo spazio e col tempo, con le classi e coi generi, con le culture e coi gusti. Essa infatti specifica sempre significati sociali caratteristici di ogni società. L'uomo non è solo un animale genericamente culturale, staccato dall'immobilità genetica della natura; esso è anche sempre un individuo determinato dalla società in cui vive.

Ciascuna tribù degli umani sviluppa queste pratiche a modo suo, secondo regole peculiari e spesso capricciose. In questa parte della cultura materiale non esistono combinazioni costanti o universali - non più di quanto accada nella cucina o nella lingua. Regnano la contingenza e la storia. Le più diverse ragioni esterne influenzano i vari costumi del corpo in maniera in maniera del tutto imprevedibile. Gli occidentali si sono lavati moltissimo (con gli usi romani, facendo del bagno un luogo sociale), poi per niente (nella civiltà medievale e rinascimentale, per ragioni "morali"), poi hanno ricominciato a godere dell'acqua. Sempre nel corso della nostra storia, i capelli più belli sono diventati biondi, neri poi di nuovo biondi, lisci o ricciuti; le unghie sono state lunge e corte, variamente colorate; la barba è cresciuta ed è stata rasata, senza ragioni specifiche, la pelle candida, a lungo de rigoeur è stata sostituita da un'abbronzatura altrettanto obbligatoria.

Scrittura del corpoIl corpo è scritto. Esso è il primo e il più fondamentale

supporto di scrittura del mondo umano. Su di esso segniamo costantemente le tracce che ci permettono di organizzare il suo rapporto con gli altri corpi, con la natura non umana, con la società. Ogni modificazione del corpo, ogni sua cura, e naturalmente anche l'abbigliamento, lavora su queste tracce e le modifica. Truccandoci o facendo ginnastica, seguendo una dieta o spalmandoci una crema, noi scriviamo il nostro corpo. Come accade sempre alla scrittura, non vi possono essere in queste

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tracce né trasparenza né costanza di significato. La scrittura è sempre esposta al rischio dell'interpretazione che verrà. Non esiste una lettura autentica, né del corpo né di altri testi. La scrittura condivide con la lettura il rischio del malinteso.

Non solo le diverse società degli uomini usano pratiche diverse per iscrivere il corpo, ma attribuiscono sensi diversi a tracce che eventualmente risultassero analoghe. Il grasso può essere letto come benessere o malattia, l'abbronzatura può significare lavoro nei campi o vacanze esotiche, la nudità può implicare l'eroismo del guerriero, l'ascetismo dello yoghi o la sensualità commerciale della spogliarellista.

Di solito, messi di fronte a un corpo, non immaginiamo affatto di leggere una scrittura. Al contrario, viviamo l'illusione di una trasparenza o di un'evidenza: ecco il nostro amico che si fa avanti, ecco il sex appeal di una splendida ragazza, l'eleganza un po' carica di una signora che sfoggia il suo status, l'aspetto asciutto di un operaio, la vaga arroganza di un ragazzo ipervitaminico, il potere che promana dalle mani ben curate di un politico, l'estraneità del mendicante africano, la seduzione, violenta fino allo shock, dei corpi esposti in vendita di notte sui marcapiedi delle città, la dolcezza di un viso infantile. Impressioni che sembrano imporsi con la forza della verità immediata. Questa lettura che continuamente facciamo del corpo altrui non è mai neutra. Non si tratta di riconoscere semplicemente delle informazioni "oggettive". Come la scrittura del corpo è profondamente impregnata di quel processo essenziale e intensamente vissuto che è la costruzione della propria identità, così la lettura costruisce sempre una posizione passionale, tanto più intensa quanto più inconsapevole. La decifrazione del corpo altrui serve a collocarlo da subito nella rete dei nostri interessi: fra i nemici o fra gli amici, fra gli oggetti di timore o di desiderio, di ammirazione o di disgusto. Le emozioni precedono le informazioni. La lettura e l'interpretazione del corpo sono immediatamente trasferite sul piano emotivo. Per questo ci sembrano evidenti. Non vi è, nell'esperienza individuale, oggetto esterno più intessuto di passione del corpo altrui. Non vi è scrittura più impegnativa, né lettura più emozionante. Non vi è prosa del corpo, solo canto.

Le tracce funzionano per differenza. Possiamo scorgere solo ciò che è diverso dal suo contesto, ciò che fa contrasto. La differenza è condizione della lettura e anche del suo impatto emotivo. La differenza, e l'evidenza percettiva che ne viene,

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nasce già nel corpo biologico. Certe zone del corpo sono state rese perspicue dalla natura - il nome semplice con cui riassumiamo i complessi processi evolutivi che ci hanno portato dove siamo privilegiando: la fitness di Darwin, non salute ma adattamento. Sono questi i luoghi del sesso, ma anche quelli della nutrizione e della comunicazione. Il pube e la bocca, i glutei e il seno, gli occhi e i capelli...

Luoghi segnati da una differenza rispetto al resto del corpo, che ci permettono di fare differenza fra corpi diversi. Differenze naturali che, a loro volta, sono elettivamente esaltate dalle differenze artificiali, dalle pratiche corporee e dall'abbigliamento. Contrasti di colore degli occhi e dei capelli, forme che si stagliano sullo sfondo, turgori e rientranze nel seno e nella vita, nelle natiche e nello stomaco, profili del volto, superfici rilevate dei muscoli, linee di una clavicola o di un polpaccio, morbidezze della pelle, dolcezza di una guancia, scintillio di un occhio. Ciò che è naturale si incrocia con ciò che è "truccato", sostenuto, rivestito, esaltato dal lavoro sapiente dell'apparenza.

La scrittura sopra il corpo sostistuisce talvolta la scrittura del corpo, altre volte la integra, la sottolinea, la chiarisce. Tracce, tracce di tracce, tracce sopra tracce. Geografia di un corpo che si trasforma, al primo sguardo, in geroglifico: oggetto di lettura, di interpretazione. E di passione.

Il luogo di questa scrittura dell'identità è prevalentemente l'abito, o meglio la successione dei gesti di abbigliamento, che usano gli indumenti per incrostare sul corpo una scrittura che si adatta continuamente al tempo, al luogo, alle mode, alle stagioni, alle condizioni fisiche, mentali e sociali di chi si veste. Tutto ciò è fatto per essere letto con facilità dal di fuori. Vediamo una signora ingioiellata, un banchiere con il suo doppiopetto scuro, un punk coi suoi indumenti neri, una ragazza che va a ballare, un impiegato in vacanza, e via via precisando, fino alle microstorie complete che ci rivelano il corpo e l'abbigliamento intero: un signore sposato sulla quarantina, un po' ipocondriaco ma con un esagerato concetto di sé, che viene probabilmente dalla provincia, fa l'impiegato senza troppo successoe sta andando a una festa elegante, sentendosi un po' a disagio...

L'abbigliamento non è un sistema chiuso di segni, come si illudevano i primi semiologi della materia. Solo le divise si possono adeguatamente analizzare come collezioni di segni elementari: i gradi dei militari, i colori delle tonache dei preti e così via. Come il corpo, l'abbigliamento è invece quasi sempre

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un testo complesso, ricco di rimandi, potenzialmente inesauribile.

DiamantiNon c'è nessuna differenza di sostanza fra un diamante e il

sottile cilindro di grafite nella matita con cui scrivo i miei appunti. Entrambi sono fatti di puro carbonio, uno degli elementi più comuni nel nostro ambiente, lo stesso fra l'altro che costituisce una parte notevole della nostra massa corporea. In forma meno pura, tutti abbiamo avuto a che fare con la stessa sostanza sotto l'aspetto di carbone. Certo, la matita è nera e opaca, il diamante chiarissimo e trasparente; la grafite è abbastanza morbida per lasciare traccia sulla carta, un po' untuosa al tatto e informe, mentre il diamante è l'oggetto più duro che ci sia e normalmente lo incontriamo già tagliato in una regolare forma geometrica. I chimici ci spiegano che la differenza sta solo nella cristallizzazione: un po' come per la differenza fra acqua e ghiaccio, che sono la stessa sostanza chimica ma hanno proprietà e aspetti così diversi, perché l'acqua è in uno stato liquido mentre il ghiaccio è reso solido dalla sua organizzazione in cristalli regolari. I chimici ci spiegano anche che la cristallizzazione del diamante è un fenomeno assai raro, che avviene solo a temperature e pressioni altissime, tant'è vero che tutte le meraviglie della moderna tecnologia, applicate alla creazione di diamanti artificiali, hanno prodotto solo frammenti troppo piccoli, irregolari e pieni di impurità, adatti solamente ad usi industriali.

C'è dunque una differenza di apparenza, che annulla quasi, o rende solamente teorica l'identità di sostanza. E c'è una straordinaria differnza di valore: la grafite non costa nulla, mentre i diamanti, come tutti sanno, sono preziosissimi. Questa differenza di valore merita una riflessione. Perché i diamanti sono così preziosi? E' chiaro che l'utilità non c'entra. I diamanti sono molto utili per certe operazioni industriali, a causa della loro durezza, ma anche la grafite e il carbone sono utili per le loro diverse proprietà. E i diamanti più utili, quelli industriali, non sono certo i più preziosi. Anzi si usano per scopi industriali solo i diamanti che non possono servire in gioielleria, quelli che hanno meno valore. E neanche il lavoro che c'è dietro un diamante prezioso non è una risposta sufficiente: l'estrazione, la selezione, il taglio, la montatura sono compiti difficili, eseguiti da esperti che in certi casi possono essere autentici esploratori o

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veri artisti. Ma lo stesso vale per molti altri oggetti meno preziosi, incluse parecchie pietre.

Si risponde, allora, di solito: i diamanti sono preziosi perché sono rari. E' vero: a mettere assieme tutti i diamanti estratti finora sulla terra si arriva al peso di qualche tonnellata, il carbone che un minatore produce in poche ore. Per arrivare a un diamante di un carato (cioè 0,2 grammi, le dimensioni di mezzo grano di riso) le migliori miniere devono trattare centinaia di tonnellate di materiale. Ma il mondo è pieno di materiali rari. I manoscritti autografi di Mozart, i resti dei nostri avi più lontani, gli Australopitechi, il pallone della finale dell'ultimo Campionato del mondo di calcio, i capelli di Napoleone, perfino i denti di latte perduti da mia figlia: non è difficile trovare cose più rare dei diamanti. Ci sono materiali più instabili ed esotici, oggetti unici per ragioni storiche. A rigore ogni cosa del mondo è unica, molto più che semplicemente rara.

La verità è che il valore non sta nella cosa, ma nel nostro rapporto con essa. Georg Simmel ha scritto che esso risiede "nella distanza fra il desiderio puro e il piacere immediato" che deriva dalla soddisfazione del nostro desiderio. Questa soddisfazione richiede che noi "sacrifichiamo" qualche altra cosa per ottenere quel che vogliamo: è la legge della domanda e dell'offerta. Ma bisogna andare ancora più indietro. Non è il desiderio, ma la difficoltà di soddisfarlo che misura il valore. Ma questa difficoltà non si misurerebbe nemmeno se non ci fosse un valore del valore, se non ci fosse qualcosa che ci attrae immediatamente, direttamente nella cosa. O almeno in qualche cosa, che essendo direttamente desiderabile è in grado di fornire il suo valore di scambio al resto degli oggetti, così come il metro campione depositato in un museo di Parigi (una barra di iridio accuratamente conservata) fornisce il criterio teorico per la misura di tutte le cose.

Che cosa fornisce un crierio di valore a tutte le altre cose? E' come domandarsi: Che cos'ha valore in sé? Lo si vede bene nei momenti di crisi: certamente i beni indispensabili per vivere, il cibo, innanzitutto. E la terra che serve a produrli. Ma subito dopo questi beni essenziali, ci sono altre cose più astratte: l'oro, per esempio. E i diamanti. Per spiegare il potere di attrazione e dunque la capacità di valore di questi oggetti, gli antichi ricorrevano alle ambigue categoria del discorso religioso: "auri sacra fames" non significa solo che il nostro desiderio dell'oro (e dei diamanti) è sacro, ma anche che è pericoloso, travolgente.

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Questo è il punto: per questi beni c'è un'attrazione immediata, primitiva, a volte selvaggia (come mostrano le storie dei diamanti più famosi). Ci si potrebbe chiedere ancora: perché? La risposta diventa difficile, ci impone di entrare negli strati profondi della cultura e della personalità. Certo che è importante l'invariabilità, l'inattaccabilità. I metalli preziosi sono quelli che resistono all'azione corrosiva dell'ambiente e del tempo, i gas nobili sono quelli che non si combinano con altre sostanze. Il diamante è prezioso anche perché è la sostanza più dura, inscalfibile. Anche la purezza, l'assenza di ogni contaminazione estranea, rientra evidentemente nella stessa costellazione di valori. Un aspetto percepito della purezza (al di là di ogni valore chimico o gemmologico) è la chiarezza, il biancore. Nella nostra cultura tradizionale l'abito bianco delle nozze allude alla purezza, e non a caso proprio il bianchissimo diamante si usa per i fidanzamenti. Che i costumi sessuali siano cambiati non modifica l'apprezzamento fondamentale dei valori. Un altro punto, naturalmente, è la luce. C'è qualcosa di energetico, di magico, di potente nelle pietre che non sono opache come tutte le altre, ma brillano. Infinite fiabe, storie popolari, film raccontano questa storia: Aladino evocava i suoi geni con un anello, oppure con una lampada. Il compito delle lampade è di far luce, di splendere; e il gesto che Aladino doveva fare per richiamare il suo genio era di strofinare, dunque di rendere più brillante il suo oggetto. Tanto più splendente la pietra, tanto più prezioso il suo valore. Il fatto che il diamante sia bianco (o appena lievemente colorato, in certi casi perticolari) lo rende diverso dalle altre pietre preziose: la sua è luce pura, diversa da quella colorata di altri preziosi.

Tutto ciò, naturalmente è ben noto agli specialisti, agli appassionati, a coloro che per secoli hanno collezionato o anche solo desiderato i diamanti. A me interessa solo sottolineare qui che vi è del magico nel fascino dei diamanti: una magia che ha a che fare con i valori della purezza, della luce, dell'inalterabilità. Non a caso tante leggende parlano di influssi buoni e cattivi, ma sempre occulti dei nostri cristalli di carbonio. Non a caso tante leggende di sono formate intorno alle più cospicue fra queste pietre, non a caso esse sono state usate per adornare tante corone, tante spade, tante statue di dèi. Ancor più dell'oro, il diamante è vicino alla percezione che noi abbiamo del valore puro: un valore che va al di là dell'economia, perché la precede e la motiva.

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Lusso

Il lusso è un tema estremamente complicato, soggetto a giudizi economici, morali e politici estremamente controversi. Insomma è un oggetto polemico, il che lo rende ulteriormente interessante sul piano del consumo, sulla base dei criteri che ho appena enunciati. In effetti il consumo lussuoso ha una valenza micropolitica estremamente forte (non solo sul piano micro) che deriva certamente dall'imitazione che esso provoca, dal suo carattere contagioso e in un certo senso intollerante. Il lusso chiede altro lusso, in misura sempre crescente. C'è una tesi di storia dell'economia molto diffusa, legata al nome di Sombart, per cui il decollo delle principali economie occidentali, da quella italiana al Rinascimento al Grand Siècle francese fino a quella della rivoluzione industriale inglese, è partito dai beni di lusso, volano economico potentissimo. Come sostiene un altro antropologo importante contemporaneo, Arjun Appadurai, è sbagliato cercare di identificare il lusso con un complesso di merci o una certa tipologia di beni, siano diamanti o champagne o cachemire o seta.... Il lusso è un registro oggettuale. Nell'uso di un linguaggio si possono identificare diversi registri linguistici, completi di lessico specialistico, strutture sintattiche caratteristiche, morfologia più o meno sviluppata. Vale a dire che allo stesso parlante è possibile parlare in un certo momento secondo un registro più o meno ufficiale e colto, ma subito dopo secondo un registro familiare, o secondo un registro più secco, lavorativo ecc. Allo stesso modo, secondo Appaduraj il lusso è un registro di oggetti, è una certa tonalità nell'uso delle merci. Le caratteristiche fondamentali di questo registro, sempre secondo Appadurai sono la restrizione all'accesso di questi beni, la non universalità del loro possesso, la complessità di acquisizione di questi beni, la necessità di una sorta di virtuosismo comunicativo per usarli (secondo dei cerimoniali, delle etichette, dei rituali più o meno "raffinati" o magici ecc.), l'esistenza di una conoscenza specializzata sulla loro gestione e il fatto di essere in relazione con il corpo, con il piacere, con la soddisfazione. Tutti requisiti che l'abbigliamento di lusso realizza facilmente

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Il punto interessante è che in questo momento nella società si trova una richiesta di lusso di massa. Questo è il grande paradosso del consumo contemporaneo. Il lusso che per tutta la storia è stato legato alla definizione (e all'autopercezione) dei vertici sociali è divenuto nelle moderne società occidentali l'esigenza di base, la richiesta minima di tutti. La frase di Maria Antonietta "se non hanno pane, che mangino brioches" è diventato lo slogan universale del nostro tempo - anche se naturalmente il pane non manca. Sarebbe interessante indagare sulle radici di questo che è un grandissimo fenomeno sociale, capace di retroagire con forza sulle strutture sociopolitiche, come si è visto con forza in molte delle convulsioni storiche degli scorsi decenni (a partire dalla "fuga delle Trabant" che ha preceduto la caduta del Muro). Si possono indicare qui, senza un ordine gerarchico, diversi stimoli: il più superficiale, ma certo non ininfluente, è la realizzazione di una cambiale pubblicitaria che si è universalizzata, a forza di essere ribadita molte volte, quella dell'esclusività. Il più radicato in una dimensione materiale è il fatto che i consumatori dell'Occidente fanno in effetti parte oggi di un'aristocrazia economica, rispetto al resto della popolazione mondiale. Ma vi è anche la realizzazione di un concetto di democrazia come uguaglianza fondamentale delle opportunità, che si estende dal dominio del politico a quello dei consumi quotidiani.Sul piano dei registri oggettuali di Appadurai, questi sviluppi vogliono dire che dal lusso sparisce la restrizione all'accesso e la complessità di acquisizione. O piuttosto questa viene in qualche modo suggerita solo fittiziamente: si finge che ci sia ancora la restrizione, la difficoltà di acquisizione, la complessità dell'accesso, insomma quelle che una volta erano le leggi suntuarie e poi sono state le barriere economiche sui beni di lusso; ma una restrizione di principio naturalmente non c'è su nessun bene legale, e la barriera del prezzo quasi sempre non è posta troppo in alto rispetto alla capacità media di acquisto dei cittadini: sono pochissime le merci che una persona della classe media "non potrebbe permettersi". A delimitare il gusto resta dunque il virtuosismo comunicativo, la conoscenza specializzata, che però si è parecchio "involgarita", cioè rispetta codici non più tradizionali (chi rispetta più la vecchia grammatica dell'abbigliamento, le interdizioni sull'accoppiamento di colori o di disegni, le regole sul modo di abbigliarsi secondo l'ora del giorno e così via ?).

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E resta il rapporto piacevole con il corpo, l'euforia corporale che sono le caratteristiche delle cose che in qualche modo sono in questo momento "buone da indossare". E' importante che le cose buone da indossare sono cose che richiedono delle competenze in qualche modo esclusive di conoscenza, fossero pure i jeans. (Si tratta infatti, per i giovani, di avere quei jeans...) Il lusso richiede dunque una capacità comunicativa, un rapporto con il corpo che è tattile o polisensoriale. La sfida principale per il mondo tessile consiste dunque oggi nell'articolare questi concetti, nel trovare delle qualità che siano quelle buone per l'intuizione sociosemiotica del lusso di massa. Possono essere le qualità indicate da Calvino, nelle sue Lezioni americane: leggerezza, velocità, esattezza, molteplicità o differenziazione, visibilità. Sono passati quindici anni da quel testo, ma resta l'intuizione resta ancora perfettamente plausibile. Comunque sono dei valori che hanno a che fare con il piacere, con il desiderio e in particolare con la specifica modalità collettiva, non individuale, di articolare il desiderio che è quella emergente nel mercato, da parte di questa domanda un po' ostinata, un po' miope, che non ha progetti, ma sente nel corpo una spinta verso il lusso, un interesse a entrare in questo registro oggettuale.Come sintetizzare questo discorso? Forse il suggerimento più giusto è ritornare alla bellezza. Vi è un paradosso nella nostra società: una volta delegati a produrre bellezza erano gli artisti. Gli artisti si definivano socialmente come gli artefici della bellezza. A partire dall'inizio del Novecento nella storia della nostra cultura è avvenuta una svolta radicale , uno dei cui sintomi più vistosi si ritrova nella decisione degli artisti produrre più bellezza: la bellezza era una qualità un po' sospetta e gli artisti dovevano produrre piuttosto degli oggetti interessanti, ricchi di senso e magari un po' provocatori. Si può citare Duchamps e il Dada, come padre di questa rivoluzione estetica, ma il fenomeno è più profondo e generale di ogni singolo contributo, lo si ritrova in musica, nelle arti visive, nel teatro, in letteratura... Spesso gli oggetti interessanti e curiosi prodotti dall'arte del nostro secolo sono provocatoriamente e volutamente sgradevoli, il che non toglie nulla al loro interesse. Sul senso di questa svolta e sulla sua giustezza si può molto discutere. Il fatto è che non solo la sensibilità degli artisti, ma anche quella del pubblico specializzato e degli intellettuali si muove invariabilmente in questo senso.

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E resta il fatto che la produzione e la distribuzione della bellezza è passata all'industria. Cioè il consumo sociale di bellezza non viene più affidata alle manifestazioni artistiche, è più facile trovarla alle sfilate di moda o ai saloni dell'automobile. Bisogna aggiungere che la bellezza non va pensata idealisticamente come un criterio astratto, unico, impersonale, uguale oggi a come la concepivano i greci al tempo della Nike di Samotracia. La bellezza è quanto articola, complessifica, armonizza, sintetizza, una serie di valori sociali dominanti. A maggior ragione ancora del consumo, la pratica della bellezza è politica, esprime un punto di vista sociale o microsociale, investe quantomeno la definizione dei generi, dei rapporti di seduzione e di potere. Che oggi la definizione della bellezza dipenda fortemente dall'industria tessile e dell'abbigliamento è una grave responsabilità. Perché si tratta di interpretare quei valori o quegli ideali collettivi che danno luogo alla bellezza, o magari di crearli. Che oggi sono, se si vuole, quei valori, quei criteri, quei gusti che ci fanno vestire in una certa maniera piuttosto che in un'altra, definire la nostra immagine secondo certi modelli, una parola da intendere insieme in senso metaforico e letterale. Valori che ci fanno comprare certe cose di cui non abbiamo oggettivamente bisogno, ma che sono importanti per noi per il loro valore estetico. Alla base di ciò che sarà "bello da pensare" nei prossimi decenni ci saranno insomma scelte estetiche compiute dal sistema industriale e dai suoi esponenti stilistici. Ma queste scelte saranno efficaci solo se sapranno anticipare altre grandi tendenza sociali: politiche, relazionali, di immagine, ma in definitiva etiche.

Ornamenti e gioielliBisogna che in certa misura la decorazione del corpo (non solo l'abito dunque, ma la forma e il colore di barba e capelli, se ci sono, la cura del corpo, la presenza di cicatrici e tatuaggi,le calzature e last but not least anche gioielli e bijeaux) sia "trasparente", vale a dire leggibile nel nostro contesto sociale, secondo i codici disponibili per quel tempo e quello spazio come corrispondente a quel che noi siamo, o almeno alla figura pubblica che siamo chiamati a recitare. Si possono richiamare, a questo proposito, alcune teorie classiche sulla pragmatica dell'interazione comunicativa. Per esempio, la metafora di Erwin Goffman, che propone di guardare alla "vita quotidiana come rappresentazione". Se bisogna pensare allo spazio pubblico come

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una sorta di palcoscenico in cui ci muoviamo come i personaggi del teatro, certamente il nostro corpo è abbigliato in maniera analoga al costume teatrale, tale cioè da confermare il nostro ruolo secondo regole più o meno formalizzate. D'altro canto si può anche ricorrere, per caratterizzare il fenomeno che ci interessa, ai principi di cooperazione conversazionale di Grice, quando esse richiedono al parlante di dare "un contributo alla conversazione tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo e orientamento accettato dello scambio linguistico", e quindi in particolare di "dare un contributo informativo quanto richiesto" e non di più, di non mentire e di essere perspicuo, cioè non ambiguo, oscuro, prolisso o disordinato. Naturalmente queste sono le regole del discorso (per noi dell'abbigliamento) normale, che sono consapevolmente violate nel caso di una manipolazione discorsiva da parte del teleimbonitore come dell'innamorato implorante o del predicatore religioso (per noi dello snob, dell'arrivista, dell'esibizionista…) E' opportuno aggiungere anche che queste considerazioni non richiedono affatto che il campo dell'abbigliamento sia strutturato come un discorso, secondo quanto alcuni suppongono e altri negano. Il problema non è qui se esista o meno un "linguaggio della moda" ma se si possa usare il proprio corpo e i suoi ornamenti in maniera che produce effetti di senso sugli astanti. E di questo è difficile dubitare. Bisogna partire da queste considerazioni per cercare di comprendere il ruolo paradossale della bigiotteria nel nostro sistema dell'abbigliamento. Gioielli, bijeaux e oggetti analoghi sono limitati (a parte qualche limitatissima eccezione, come i fermacravatte, i gemelli, certi tipi di anello, assai di recente l'orecchino e la spilla sul bavero della giacca) del regime femminile dell'abbigliamento, e anzi lo caratterizzano in maniera tipica. Il diritto di portare addosso oggetti vistosi che non fingono alcuna utilità di copertura e servono semplicemente da ornamento più o meno prezioso, definisce una analoga condizione femminile: ornamento piuttosto che utilità, visibilità in luogo di efficienza, autorizzazione al narcisismo e al lusso, fragilità e valore di mercato. Oltre al gioiello femminile hanno avuto importanza nella storia quello religioso e quello regale, entrambi assai sfarzosi, a volte affidati a grandi artisti, oggi però di impatto limitato sul piano quantitativo come su quello estetico. C'è una grammatica del gioiello. Oggetti da mattina e da sera, da adolescente e da signora, da proletaria e da ricca, da nera e da bianca (almeno in una società che codifica l'aspetto estetico della contrapposizione fra etnie, come quella americana). Oggetti che

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si combinano con altri oggetti, che assieme ad essi fanno "parure", o che li negano. Luoghi del corpo che devono essere occupati (come mettere una collana "importante" senza orecchini? per esempio; oppure in una cultura del corpo del tutto diversa: come lasciare nuda la caviglia?), significati stabiliti (la fede all'anulare, la catenina indiana di pietre scure che ha la stessa funzione di definire lo stato matrimoniale…). C'è una stilistica: ornamenti realizzati in tempi diversi, secondo regole diverse, che si accordano seguendo principi estetici idiosincratici. Ma su tutto questo prevale il nudo criterio del valore.

Gioielli e BijouxRispetto al gioiello "vero" l'oggetto di bigiotteria ha uno statuto ambiguo. Da un lato lo si può considerare come un falso, o almeno come un'imitazione, come un oggetto di secondo livello. Dall'altro tutti quanti sappiamo che non è affatto questa la situazione reale, che mediamente gli oggetti di questo genere non si portano con l'intenzione di fingere una gioielleria inesistente (salvo per una particolare categoria di questi ornamenti, fabbricati esplicitamente a questo scopo) ma semplicemente di adornarsi secondo certe regole. I dizionari, che sono depositi importanti delle intuizioni fondamentali di ogni cultura, privilegiano fortemente l'"autenticità" degli ornamenti e dei gioielli: in italiano "gioia", "gioiello", "vezzo" e altri sinonimi sono intesi, senza ulteriori precisazioni come composti di materia preziosa. Non esiste un termine neutro che indichi tutto il campo degli oggetti che ci interessano, siano essi "preziosi" o meno; e anche il vocabolo che indica il campo dei "gioielli non preziosi" è recente e di importazione: "bigiotteria" è una voce che non compare prima della metà dell'Ottocento e si afferma solo dopo aver superato molte resistenze da parte de puristi. Dunque, anche se non esiste nessuna ragione funzionale per questo, la nostra cultura suppone in linea di massima che i gioielli siano "veri": valore economico e tesoro oltre che ornamento, garantiti in fondo più dal loro prezzo che dalla fattura. Il valore dei gioielli, dell'oro e delle pietre preziose è uno degli esempi più evidenti dell'astrattezza che domina le leggi dell'economia. E' la rarità che fa il loro valore, non certo l'utilità o la bellezza. Probabilmente è ancora la rarità (o se si vuole il rapporto squilibrato fra la domanda e l'offerta) che determina, marxisticamente, la bellezza che vediamo in essi. Ma il lavoro pietrificato (è il caso di dirlo) in questi oggetti non ne misura

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autenticamente il valore, perché deriva da esso: chi perforerebbe con immensa fatica le viscere della terra per cercare inutili pietruzze colorate, chi setaccerebbe i fiumi alla ricerca di pagliuzze d'oro, se esse non fossero già preziose, prima di questo lavoro? Eppure va detto che in questo carattere prezioso della gioielleria si nasconde una sorta di volgarità. L'accumulo di materia che si trova in certi gioielli di gala, quelli che per esempio si possono vedere sorvegliatissimi in certi palazzi reali, lascia un'impressione di peso, di mancanza di misura, di imposizione fisica, che certamente ha a che fare con la volgarità. La presenza concreta di un contenuto prezioso, il suo peso, la violenza del suo valore, vince sempre su ogni forma, la rende in qualche modo superflua, Ed è qui che si apre lo spazio culturale del bijou: oggetto di manipolazione invece che accumulo di materia, frutto di abilità che trasfigura il suo oggetto, stile che supera la cosa. Non è un caso che esso si sia affermato come genere a parte (anche se si può documentare che in certa misura è sempre esistito) solo nel mondo contemporaneo. Esso fa parte di quel grande movimento novecentesco che privilegia l'artificio sulla natura, la superficie sul contenuto, l'informazione alla materia, che trova valore anche nell'industria e nella dimensione di massa. In ciò il suo successo si apparenta al trasferimento della moda nel pret-à-porter, all'affermazione di un industrial design non solo funzionalista, al grande gioco dei mass media. E' difficile, da contemporanei, stabilirne definitivamente il valore. Una cosa è certa: in questo rifiuto dell'automatismo materiale dell'autentico la nostra cultura si riconosce profondamente.

AnelliNoi viviamo in due mondi allo stesso tempo. Il primo mondo è quello delle cose, delle azioni fisiche, della natura; il secondo mondo è quello delle cose che sappiamo e che crediamo, delle storie che raccontiamo, dei rappoorti con gli altri, dei significati che vediamo intorno a noi, insomma della cultura. I due mondi interferiscono continuamente. Quando usiamo un elettrodomestico o viaggiamo in automobile, tutto quel che succede è nel primo mondo, si tratta solo di una serie di complicati fenomeni fisici; ma quel che ha permesso agli ingegneri di progettare , o che spinge noi a usare quelle macchine secondo certi fini, sta nel mondo della cultura.

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Lo stesso vale per i rapporti fra gli uomini. Il matrimonio è una situazione perfettamente naturale, abbastanza diffusa nel mondo animale: due persone di sesso opposto si scelgono, si amano, associano le loro vite, si riporoducono. Quel che trasforma questa siruazione in qualcosa di culturale sono le credenze che vi associamo, le cerimonie con cui sanzioniamo l'unione, i simboli che usiamo per consacrarla.Il piú potente e diffuso di questi simboli è l'anello. Un oggetto materiale privo di utilità pratica, ma composto di metalli e di pietre preziose (che è già una caratteristica culturale, perchè ha a che fare con la rarità e con la bellezza, col lavoro di chi li produce e con l'esperienza estetica di chi li gode). Ma il valore dell'anello di matrimonio o di fidanzamento non sta certo nell'oro e nelle pietrio che lo arricchiscono: una spilla della stessa qualità non vorrebbe certo dire la stessa cosa. Quel che conta dell'anello è la sua forma e il rapporto col nostro corpo: l'anello lega, prende, afferra, e non si lascia portare via tanto facilmente; è l'ornamento piú tenace, quallo che quasi si unisce al corpo come un tatuaggio. Per questo è il piú adatto a indicare mutamenti di stato. Oltre all'anello di fi-danzamento e alla vera matrimoniale, la nostra cultura conosce l'anello vescovile e quello nobiliare: tutti simboli di una condizione permanente.Gli antropologi, che studiano i vari mondi culturali che si sovrappongono diversamente nella storia e nella geografia al mondo naturale, lo sanno bene. James Frazer, nel suo classico libro sulle credenze magiche di tutto il mondo intitolato Il ramo d'oro (tradotto in italiano dall'editore Boringhieri), racconta di un sacerdote romano antico, il "Flamen Dialis" che era obbligato a non indossare nessun abito che contenesse nodi, e a non portare anelli se non spezzati. "Allo stesso modo, continua Frazer,"i Mussulmani che vanno in pellegrinaggio alla Mecca sono in stato di santità o di tabú e non devono portare addosso nè nodi nè anelli". Ancora : pare che Pitagora proibisse ai suoi allievi di portare anelli. "Nessuno poteva entrare nell'antico santuario della Dominatrice a Lycosura in Arcadia con un anello al dito. Coloro che consultavano l'oracolo di Fauno dovevano essere casti, non mangiare carne e non portare anelli." Invece "nel Tirolo si dice che una partoriente non deve mai togliersi l'anello da sposa, perchè altrimenti spiriti e streghe avranno potere su di lei."

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Perchè queste limitazioni e queste regole? Fraser suggerisce che "l'anello, come il nodo, agisce da catena spirituale", è in grado di legare l'anima oltre che il corpo; e forse addirittura "l'uso di portare anelli alle dita è stato influenzato dalla cre-denza nella loro efficacia per tenere l'anima nel corpo." Il fatto è che in questo caso agisce una legge molto generale del mondo culturale, quella della cosiddetta "magia simpatica": il simile produce il simile. Così, se un anello stringe il corpo, prenderà anche l'anima; se esso è prezioso e inalyterabile, così sarà anche il vincolo che esso consacra. Qualcosa del genere vale anche per l'anello dei fidanzamento, che noi usiamo decorare con un diamante. Si legge nel Dizionario d'interpretazione dei simboli della natura di Jacques de la Rocheterie (Edizioni Red) che "il diamante, il piú delle volte incolore è la pietra preziosa piú brillante e piú dura fra tutte. Scalfisce, ma non puó essere scalfito. Fu consacrata a Osiride, ad Apollo, al Dio dei Cristiani [...] Vissuto come luce solida, il diamante dei Sogni puó essere l'immagine del Sè". Insomma, se l'anello lega, l'anello col diamante lega in maniera che non puó essere scalfita nè alterata, e contiene in sè anche un'idea di purezza, di luminosità, di cristallina e iridescente trasparenza. Senza che lo sappiamo, quando regaliamo o accettiamo un oggetto di questo genere, stiamo facendo un atto di magia, un incante-simo. Certo, rispetto al clima generlmente "scientifico" della nostra società, questa ritualità puó apparire sospetta, perfino su-perstiziona. Ma non occorre invocare il "non è vero ma ci credo" di Benedetto Crtoce per giustificarsi. Il fatto è che la cultura serve sempre a dar senso al mondo, ad arricchire e motivare i comportamenti e le cose. Anche se non ce ne rendiamo conto, il nostro modo di mangiare e di lasvorare, di unirci e di scontrarci sono intessuti di significati nascosti e "magici". Sapere che un anello è un legame dell'anima puó essere interessante. Ma se non vi piace, dite pure che è il pegno di una promessa.