U M R G B E O TQ? Antonio Dias - benicomuni.unina.it · Comitato storico Umberto Eco, Maurizio...

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alfabeta Mensile di intervento culturale giugno 2013 numero 30 - anno III euro 5,00 2 30 UGO MATTEI : B IPOLARISMO SINCRONICO GISO A MENDOLA : LA SINISTRA DI R E GIORGIO - F RANCO B ERARDI B IFO: NON C È PIÙ E UROPA - V INCENZO OSTUNI : C HE FINE HA FATTO TQ? Antonio Dias PUNIRE I POVERI - DONO E BENI COMUNI - STORIE ALIMENTARI - SPATIAL TURN ANACRONISMI DELL IMMAGINE - NUOVO TEATRO ITALIANO S PECIALE ARTE E DISOBBEDIENZA alfa+più Quotidiano in rete

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alfabetaMensiledi interventoculturalegiugno 2013numero 30 - anno IIIeuro 5,00 230

UGO MATTEI: BIPOLARISMO SINCRONICOGISO AMENDOLA: LA SINISTRA DI RE GIORGIO - FRANCO BERARDI BIFO:

NON C’È PIÙ EUROPA - VINCENZO OSTUNI: CHE FINE HA FATTO TQ?

Antonio Dias

PUNIRE I POVERI - DONO E BENI COMUNI - STORIE ALIMENTARI - SPATIAL TURN

ANACRONISMI DELL’IMMAGINE - NUOVO TEATRO ITALIANO

SPECIALEARTE E DISOBBEDIENZA

alfa+piùQuotidiano in rete

Comitato storicoUmberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Pier Aldo RovattiRedazione Nanni Balestrini, Ilaria Bussoni, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa,Davide Di Maggio, Manuela Gandini,Andrea Inglese, Lucia TozziSegreteriaErica [email protected] editorialeSergio BianchiUfficio stampaNicolas [email protected] redazionePiazza Regina Margherita 27 00198 [email protected] graficoFayçal ZaoualiEditingDomenico Pertocoli, Anna Maria CasazzaDirettore responsabileGino Di MaggioEditoreAssoc. Culturale Alfabeta EdizioniVia Tadino 26 - 20124 [email protected]

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Comitato di indirizzoFranco Berardi Bifo, Paolo Bertetto, Achille Bonito Oliva, Alberto Capatti, Furio Colombo, Michele Emmer, Paolo Fabbri, Mario Gamba, Angelo Guglielmi, Letizia Paolozzi, Valentina Valentini, G.B. Zorzoli

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Progetto webJan ReisterRedazione Nicolas Martino, Giorgio Mascitelli,Stella [email protected]

Edizione digitale a cura di Jan ReisterProgetto e realizzazioneQuintadicopertinahttp://www.quintadicopertina.comebook: ISSN:2038-663X

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Sommario3. Ugo Mattei

Bipolarismo sincronico3. Giso Amendola

La sinistra di Re Giorgio4. Franco Berardi Bifo

Non c’è più Europa4. Vincenzo Ostuni

Che fine ha fatto TQ?

■ PUNIRE I POVERI5. Alessandro De Giorgi

La paura neoliberistaIl governo penale della miseria

6. Loïc WacquantIperincarcerazioneCome criminalizzare la povertà

7. Vittorio AntoniniNon conteremo più i nostri morti

8. Aldo BonomiFreedom roomDesign della cura per uscire dalla dark room carceraria

■ DONO E BENI COMUNI9. Ugo M. Olivieri

Tra metafora e concettiUna messa a punto terminologica

10. Alberto Lucarelli, Massimo ConteLa quarta dimensione del dirittoPer una teoria giuridica dei beni comuni

11. Fabio CiaramelliDonare quel che non si haLa logica dello scambio e il paradigma del dono

12. Alain CailléIl convivialismo al di là del neoliberalismo

12. Elena PulciniDalla tragedia alla cura

■ STORIE ALIMENTARI13. Antonella Campanini

Medioevo gastronomico14. Alberto Capatti

Solo il tempo presente

■ ANTONIO DIAS15. A vivência dá origem

Intervista di Ginevra Bria

■ POESIA18. Elisa Biagini

La gitaQui si va scalzi

■ SPATIAL TURN20. Giacomo Marramao

Alla ricerca dello spazio perdutoSpazio vissuto e segni dei tempi

21. Andrea CortellessaAlberto Boatto, dal di fuori del moderno

21. Camilla MiglioLa vita in una mappaDue libri e una rubrica

22. Sulla zattera della storiaUn bilancio dell’Atlante della letteratura italianaConversazione tra Gabriele Pedullà e Andrea Cortellessa

23. Nel nome di HumboldtConversazione tra Giovanna Silva e Alberto Saibene

23. Fantasmi del luogo (a.c.)

■ ANACRONISMI DELL’IMMAGINE24. Stefano Chiodi

Controtempi24. Rinaldo Censi

Pensare per immaginiHistoire(s) du cinéma

25. Marco BertozziUn balzo all’indietro e un incontro mancatoAnacronie malinconiche tra Walter Benjamin e Aby Warburg

26. Alexander Nagel, Christopher S. WoodSulla nave di TeseoLa temporalità plurale dell’opera d’arte

27. Alexander NagelLimiti del diafanoPer un medioevo moderno

■ NUOVO TEATRO ITALIANO28. Silvia Mei

Gli anni Dieci della nuova scena italianaUn tracciato in dieci punti

29. Matteo Antonaci, Chiara PirriNativi digitali e iperlinkOvvero perché non è auspicabile una terza avanguardia teatrale

30. Marco Valerio Amici / Gruppo NanouRealtà artistiche apolidi e bastarde

■ SEMAFORO32. Maria Teresa Carbone

mensile di intervento culturale

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alfabeta2.30DONO E BENI COMUNI

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A piene mani suonava il titolodi un bel libro di Jean Staro-binski di qualche anno fache descriveva le pratichedel dono fastoso. La politica

come ricerca del «bene comune» suona daqualche tempo uno slogan poi variamentedeclinato dalle varie forze politiche dellecoalizioni progressiste presenti nel mercatoelettorale. Cosa c’è di comune in questi dueconcetti e nelle metafore concettuali di cuisono portatori e, soprattutto, cosa può pro-dursi nel loro intreccio?

Metafore, sintomi, concetti Come studiosi del linguaggio dovremmosoffermarci sul ruolo della metafora nel lin-guaggio politico, un ruolo performativo im-portante che deve però essere liberato dallaconfusione talora sviante tra il ruolo che lametafora gioca come traduzione del sensocomune e viceversa come fondazione disenso del comune. Sono due cose diverse,naturalmente, e nel caso del «dono» e dei«beni comuni» l’indistinzione tra questi dueaspetti della metafora nel linguaggio dellapolitica rischia di mettere in circolazione ef-fetti puramente di superficie nell’agire poli-tico e nel discorso teorico. Il richiamo a unafrase di Benjamin può essere la chiave percomprendere il senso di tale attuale ambiva-lenza: «Il ricordo è complementare all’espe-rienza vissuta. In esso si deposita la crescen-te autoestraniazione dell’uomo che catalogail suo passato come un morto possesso».Cosa si deposita come «morto possesso» e alcontempo come esperienza «alienata» mareale nella metafora del dono, oggi, se nonuna messa in discussione di una società po-stmoderna centrata sull’esclusiva funzionedi socializzazione del mercato e dell’econo-mia di scambio e, al contempo, il richiamoa un paradigma che porta alla luce, invece,un tratto relazionale e non più solo di scam-bio mercantile della socializzazione?

Il dono – secondo la rappresentazione che neha dato Marcel Mauss1 – con il suo circuito didonare/ricevere/ricambiare può essere messo alcentro di una diversa socializzazione prima edopo la sintesi statuale sovrana che è luogo e ma-nifestazione, invece, dell’uguaglianza formale,dell’impersonalità del dato giuridico, delloscambio di merci e di corpi, di corpi trattaticome merci e di merci trattate come corpi (comeargomenta Marx nei Quaderni filosofici). Il donoquindi come sintomo di una oggi dimenticatacritica dell’economia politica che segnali la defi-nitiva estensione, nel capitalismo maturo, delrapporto mercantile ed economico dalla fabbri-ca all’intera società.

L’ambivalenza del dono e la critica dell’economia (politica) del soggettoEppure nella locuzione «A piene mani» è impli-cito anche il «ricordo» di un’ambivalenza deldono come categoria politica e culturale. Dipen-de, infatti, verso dove sono rivolte le mani: sesono mani che lasciano discendere dall’alto lamunificità incatenante del dono fastoso che san-cisce in maniera simbolica e reale la dissimmetriadei soggetti, o sono mani volte, invece, a lasciarcircolare da un soggetto all’altro oggetti ma so-

prattutto alleanze e cessioni d’individualismoproprietario in direzione di una diversa visionedella soggettività (politica). E qui la metaforadella gratuità può agire rievocando teoretica-mente la ripresa del concetto di dono avvenutasin dagli anni Ottanta del Novecento e concen-tratasi con pensatori come Nancy, Blanchot e lostesso Derrida sul lato decostruttivo del concet-to di dono.2

Se ci si ricorda delle teorizzazioni che daldono arrivavano al concetto di comunità inope-rosa, si riattiva nell’oggi l’idea di una comunitànon fondata sul mito dell’origine e dell’origina-rio, bensì sull’esposizione all’altro, sulla messa indiscussione del proprium e, quindi, sul ripensa-mento del soggetto della tradizione liberale. Ep-pure anche chi come il Movimento antiutilitari-sta per le scienze sociali (Mauss), in Francia, piùdi tutti si è rifatto al paradigma di Mauss cometestimonianza di una resistenza teorica all’onni-potenza della merce, non poteva che cominciarea sondare pure la degenerazione in senso pote-stativo o di supplenza rispetto alle funzioni so-ciali del welfare che il neoliberismo dagli anniNovanta delega al dono.3 L’esplorazione del ver-sante potestativo del dono, del munus come por-tatore di obblighi e quindi di leggi e d’interdet-

ti, apriva a un’attenzione all’immunitas e, comeha mostrato il lavoro di Roberto Esposito,4 atutte quelle pratiche difensive, autoimmunizzan-ti che la società attuale mette in opera per biso-gno securitario, per difendere privilegi ma so-prattutto per disciplinare l’insieme sociale.

Per un’antropologia del «comune»La via era così aperta a un’indagine sui dispositi-vi di controllo e di creazione del consenso che lasocietà neoliberista mette in campo come raffi-nata forma di mantenimento della propria ege-monia ideologica e sociale, ma anche, per con-verso, alla possibilità di un altro modello di svi-luppo e di un’altra organizzazione sociale.

Da tempo, infatti, la teoria giuridica in Italiaè stata capace di registrare e talora di anticiparele tendenze innovative del sociale: com’è accadu-to quando la metafora del «bene comune» ha in-crociato e conglobato la rappresentazione socia-le del referendum sull’acqua pubblica. Lì vera-mente senso comune e senso del comune sem-brano essersi saldati in un risultato per moltiversi sorprendente (e, per tanti altri, mancato nelsuo prosieguo). Non poco a quel successo hannocontribuito i risultati della Commissione Rodo-tà che ha designato come beni comuni quei beni

Tra metafora e concettiUna messa a punto terminologica

Ugo M. Olivieri

in cui si esplica un diritto umano fonda-mentale degno di una tutela costituzionale egiuridica forte: beni che, vuoi per la loroscarsità come l’acqua, vuoi per il loro carat-tere di incremento del benessere collettivocome la conoscenza, necessitano di un ac-cesso e di una gestione democratica e parte-cipata indipendentemente dalla loro pro-prietà pubblica o privata.5

L’intersezione tra questo concetto dibeni comuni e il concetto di dono, intuitivaed evidente dal punto di vista delle pratichee forse delle metafore, non è poi così pacifi-ca: e va quindi motivata, come si è visto, dalpunto di vista teorico. In altri termini, lateoria giuridica ha compreso che per dare unfondamento civile alle norme, per far dive-nire effettuale un discorso sulla trasforma-zione della democrazia formale in democra-zia partecipata, per far camminare nel socia-le una difesa attiva della Costituzione, oc-corre una riflessione anche filosofica e an-tropologica sul «comune», sui fondamentidel comunitario, in cui il paradigma deldono può essere importante. Pena la cristal-lizzazione del concetto in una serie di usi ge-nerici del termine, in quel vago unanimi-smo sul «bene comune» al singolare che,dietro un’irenica genericità dello slogan,censura il concetto di parte, di partizione, diparzialità «comune» che è nel plurale «benicomuni». Un plurale che scava il difficileconfine tra la codificazione giuridica delleforme di accesso ai beni e le pratiche desti-tuenti della sovranità statuale messe in operadai movimenti sui beni comuni. E non è uncaso che tutto ciò si misuri dentro i saperiuniversitari: luogo sempre più colonizzatoda un sapere tutto professionalizzante, daun modello di sapere tecnologico, questo sìpartigiano, ma naturalizzato e accreditatocome l’unico scientificamente ammesso.

1. Si veda l’ormai classico Marcel Mauss, Saggio sul dono, inTeoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965,ma anche la discussione sulla polimorfia delle forme economi-che in Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini econo-miche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino, 2010.2. Due testi per tutti: Jean-Luc Nancy, La comunità inopero-sa, Cronopio, Napoli, 2002, e Jacques Derrida, Donare iltempo. La moneta falsa, Cortina, Milano, 1986. Un paradig-ma della comunità che da metafora diviene concetto antro-pologico, com’è evidente nei due saggi qui di seguito di Cia-ramelli e Pulcini. 3. Non a caso nella diade teorica dei fondatori, nel 1981, delMauss, Serge Latouche sta calcando il tema della decrescitaladdove Alain Caillé, come nel testo qui ripreso, opera conl’idea del convivialismo un superamento della sola dimensio-ne donativa della teoria. 4. Importante per la nostra riflessione, il cammino teoricodi Roberto Esposito è percepibile attraverso una disaminadei suoi titoli da Categorie dell’impolitico (Il Mulino, Bolo-gna, 1999) sino a Immunitas. Protezione e negazione dellavita (Einaudi, Torino, 2002) e al recente Pensiero vivente.Origine e attualità della filosofia italiana (Einaudi, Torino,2010).5. Sui beni comuni la letteratura d’ambito giuridico è centra-le e spazia dall’antropologia giuridica dei lavori di StefanoRodotà (sino all’ultimo Il diritto di avere diritti, Laterza,Bari, 2012) a posizioni come quella di Andrea Lucarelli oveè più evidente, come nel testo qui presente, il collegamentocon i movimenti e le forme di democrazia locale (Benicomuni. Dalla teoria all’azione, Dissensi, Viareggio, 2010; Lademocrazia dei beni comuni, Laterza, Bari, 2013). Ma si vedain questa prospettiva anche Ugo Mattei, Beni comuni. Unmanifesto, Laterza, Bari, 2012.

Il Gruppo di ricerca interdisciplinare «A pienemani. Dono dis/interesse e beni comuni»(Fabio Ciaramelli, Francesco de Cristofaro,

Alberto Lucarelli, Ugo Maria Olivieri e altri)nasce come attività di studio e discussione pub-blica dentro l’istituzione universitaria (FedericoII, Napoli) su alcuni termini categoriali quali

«dono» e «beni comuni», che proprio per la lororicchezza semantica e concettuale possono darluogo a una riflessione teorica che coniughiun’esplicita valenza civile e politica con una ri-fondazione interdisciplinare dei saperi stessi. Così il richiamo al titolo del saggio classico diJean Starobinski, A piene mani. Dono fastoso e

dono perverso (Einaudi, 1995), nel nome del no-stro gruppo, è una voluta citazione per mettere inrilievo le possibili e cercate intersezioni tra un’eco-nomia dis/interessata del dono e un’antropologiadei beni comuni. Quindi momento del simbolicoe critica del diritto proprietario che possono in-contrarsi sugli oggetti della conoscenza e dell’arte,

come testimoniano i materiali dei nostri colloquipresenti in www.benicomuni.unina.it e ora nelvolume a più voci «A piene mani». Dono,dis/interesse e beni comuni, a cura di AlbertoLucarelli e Ugo M. Olivieri, Diogene, 2013.

U.M.O.

Antonio Dias, In Motion / Desert, 1969. Acrilico su tela, 160 x 130 cm. Collezione dell’artista. Foto Maura Parodi.

DONO E BENI COMUNIalfabeta2.30

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Fintanto che lo Stato ha gestito i benipubblici di sua proprietà non secon-do logiche estrattive e speculative, li-mitando il ricorso all’istituto dellaconcessione per i beni demaniali (ge-

stione) e impedendo facili processi di sdemania-lizzazione (circolazione), non risultava di imme-diata necessità distinguere i beni comuni daibeni pubblici. Ovvero, fintanto che il concettodi pubblico non fosse stato assorbito dal regimeproprietario riuscendo – pur con tutti i limitiburocratici, di autorità e segretezza (non parteci-pazione) – a conservare la funzione del «comu-ne». Una funzione del «comune», tuttavia, deter-minata e calata dall’alto.1

Il problema si acuisce allorquando la gestio-ne passa (attraverso concessioni, gare, affida-menti, processi di sdemanializzazione) progressi-vamente a soggetti privati o misti, e alle istituzio-ni pubbliche resta unicamente la mera titolaritàdel bene. Un passaggio relativamente semplicedal pubblico al privato che evidenzia tutti i limi-ti della logica proprietaria (anche formalmentepubblica) a difendere i diritti di appartenenzacollettiva sui beni comuni.

La percezione e la consapevolezza della debo-lezza della proprietà pubblica – anche nella suadimensione costituzionale – a garantire,secondo parametri di solidarietà ed egua-glianza, la tutela dei diritti fondamentali,spingono alla costruzione di una nuovacategoria giuridica, quella dei beni comu-ni, che nella sua applicazione e gestionesottende a un nuovo modello di demo-crazia alternativa alle logiche della rappre-sentanza e della dicotomia pubblico/pri-vato. E si riflette intorno alla configura-zione di una teoria giuridica relativa aibeni comuni, strettamente correlata alsoddisfacimento dei diritti fondamentalie ai nuovi modelli di democrazia: oltre lasovranità e la rappresentanza autoritarie.L’ambizione è di porre la centralità dei di-ritti fondamentali nell’ambito del gover-no dei beni comuni e così ricondurre ilbene, piuttosto che al dominio, al diritto:nel rispetto di principi quali la coesioneeconomico-sociale, la sostenibilità am-bientale, il servizio universale e la giusti-zia sociale.

Per costruire una nozione giuridicadei beni comuni occorre partire da unavisione universalista dei diritti (oltre po-polo, territorio e governo) per approdaree ancorarsi, sul piano della effettività, aregole certe. È necessario fissare (ma nelsenso di trovare e non provare) valori-prin-cipi-regole: per oggettivizzare sul pianodell’effettività principi che mirino – po-nendo in collegamento funzionale bene efunzioni – alla sopravvivenza e alla convi-venza. Un unico ordinamento giuridicoaltermondialista che nasce dal basso, frut-to di conflitti e di differenti istanze socia-li e di diverse soggettività, che contribui-sce alla configurazione della quarta di-mensione del diritto pubblico (oltre quel-la amministrativa, politico-costituzionalee sociale) svincolata dal binomio autorita-rio sovranità/proprietà, oltre la dimensio-ne sociale.

I beni comuni sono beni che – al di làdella proprietà, che è tendenzialmentedello Stato o comunque delle istituzionipubbliche – assolvono, per vocazione na-turale ed economica, all’interesse socialeservendo, quali beni di appartenenza col-lettiva, immediatamente non l’ammini-strazione pubblica ma gli stessi cittadini.2

Si è in presenza di beni destinati a un usocomune cui sono ammessi tutti indistin-

versale, collettivo. Tuttavia la prospettiva univer-salista va «messa in sicurezza» attraverso un pro-cesso di positivizzazione del diritto naturale, dioggettivizzazione di alcuni valori radicati inprincipi e regole.

Alla base del bene comune vi è dunque il pri-mato della funzione sociale sul titolo, il primatodell’ordine fenomenico e sociale sull’individuo.La comunità di riferimento è una pluralità disoggetti consapevoli di non poter esercitare dirit-ti individuali esclusivi, e che non si rapportano aun bene in comunione in chiave concorrenzialecon gli altri: l’interesse generale cede dinanzi aldiritto di proprietà. Le istituzioni devono rap-portarsi al bene con la consapevolezza che essova governato nell’interesse generale; il principiodella coesione si pone in una posizione prevalen-te rispetto ai diritti individuali. In questo senso ibeni comuni possono essere utilizzati, ma nonposseduti in via esclusiva da un soggetto, ancor-ché pubblico. Le istituzioni pubbliche sono te-nute a servire i beni comuni in quanto beni pro-pri dei cittadini; sono responsabili del governodei beni comuni in proporzione del loro potere,che rappresenta la fondazione perpetua delloStato sociale,5 di uno Stato sempre da costruire esempre in via di dissolvimento.

La scissione dell’appartenenza delbene (appartenenza universale) dal titolodi proprietà (proprietà pubblica) evite-rebbe quel fenomeno che in dottrina èstato definito abuso del diritto: la conver-sione del diritto soggettivo (diritto diproprietà) in funzione (socio-economica)del bene apre la strada del controllo sul-l’esercizio del diritto e sull’eventualeabuso.6

Si ragioni, allora, intorno a un’ipotesidi modifica della Costituzione, tale da ri-conoscere e garantire i beni comuni al dilà del vincolo posto dalla disciplina sotto-stante al rapporto proprietario. E si riflet-ta intorno all’ipotesi di modifica degli ar-ticoli 822 ss. del Codice civile relativi allaproprietà pubblica, ormai anacronistici, eintorno all’idea di inserire nel Codice ci-vile la nozione di bene comune.

Dopo la vittoria referendaria del 12-13 giugno 2011 contro la privatizzazioneforzata dei servizi pubblici locali, e dopola recente sentenza della Corte costituzio-nale (199 del 2012) che ha riconosciutoil vincolo referendario annullando lanorma che aveva tentato di negare l’esitodel referendum, occorre che il Parlamen-to, sotto la spinta della democrazia parte-cipativa, approvi una legge sui beni co-muni e sui servizi pubblici locali cheabbia quale suo prius la tutela dei dirittifondamentali. Ricordiamoci che il gover-no dei beni comuni non ha tra le sue fi-nalità quella di generare profitti, ma sol-tanto di garantire la tutela dei diritti fon-damentali attraverso la qualità delle poli-tiche pubbliche.

1. Cfr. Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, La-terza, Bari, 2012; Alberto Lucarelli, La democraziadei beni comuni, Laterza, Bari, 2013.2. Cfr. Aldo Maria Sandulli, L’attività normativadella pubblica amministrazione, Jovene, Napoli,1959.3. Cfr. Luigi Capogrossi Colognesi, Proprietà in ge-nerale. Diritto romano, in Enciclopedia del diritto,XXXVII, Giuffrè, Milano, 1988.4. Cfr. Alberto Lucarelli, Diritti sociali e principi«costituzionali» europei, in Studi sulla Costituzioneeuropea. Idee e percorsi, a cura di Alberto Lucarelli eAndrea Patroni Griffi, Edizioni Scientifiche Italiane,Napoli, 2003.5. Cfr. Bernard de Jouvenel, La sovranità [1955], acura di Enzo Sciacca, Giuffrè, Milano, 1971.6. Cfr. Pietro Rescigno, L’abuso del diritto, in «Rivi-sta di Diritto Civile», n. 1, 1965.

La quarta dimensione del dirittoPer una teoria giuridica dei beni comuni

Alberto Lucarelli, Massimo Conte

tamente, senza bisogno di un particolare attoamministrativo; anzi, sono beni che non sareb-bero, fisiologicamente, oggetto né di concessio-ni, né di gare per la gestione. Più che il titolo diproprietà (pubblico o privato), dunque, rileva lafunzione e l’individuazione dei diritti; rileva lasituazione di fatto piuttosto che il titolo forma-le; risultano più importanti, appunto, per la tu-tela effettiva del diritto, il momento possessorio(accessibilità e fruibilità) e la fase gestionale cheil titolo di proprietà del bene.3 Si arriva all’iden-tificazione dei beni comuni dal basso: ovvero at-traverso le pratiche, i conflitti sociali e soprattut-to attraverso la percezione diffusa che quel benedebba soddisfare esigenze collettive. Non potràmai trattarsi di una categoria merceologicaastrattamente definibile dall’alto.

Non si è in presenza, di fatto, di un bene de-maniale o patrimoniale dello Stato, o comunquedi un bene riconducibile all’istituzione pubblica;si è in presenza invece di una res communis om-nium che, al di là del titolo di proprietà, è carat-terizzata da una destinazione a fini di utilità ge-nerale; si è in presenza di un bene orientato alraggiungimento della coesione economico-socia-le e territoriale e al soddisfacimento di dirittifondamentali. Un bene del quale il pubblico può

disporre soltanto per soddisfare esigenze colletti-ve e diritti fondamentali.

Le istituzioni pubbliche devono solo garanti-re di evitare fenomeni corporativi di lobbismo odi confusionismo sociale, devono garantire l’im-parzialità e l’inclusività dei processi.4 Il soggettopubblico deve esercitare quel minimo essenzialedi potere al fine di garantire che le comunità diriferimento che accedono al bene, per soddisfareloro fasce d’utilità, non assumano di fatto neltempo atteggiamenti escludenti tipici del regimeproprietario.

Le virtuose esperienze locali di fruibilità deibeni comuni devono progressivamente assumereuna portata «universale», proprio perché si parladi diritti fondamentali. L’analisi sui beni comu-ni, dunque, andrebbe sradicata dal classico rap-porto che lega il dominus al bene e sviluppata se-condo un’ottica universalistica e funzionale, inquanto mediata dall’adozione di specifiche poli-tiche pubbliche. Governare i beni comuni, inparticolare le risorse naturali, impone una pro-spettiva universalistica in base alla quale il sog-getto titolare del diritto di fruire dei beni comu-ni è l’umanità nel suo intero, concepita come uninsieme di individui eguali. Il dominus si tra-sforma da soggetto individuale in soggetto uni-

Antonio Dias, Two Towers, 2002. Bronzo, 89 x 15 cm, 87 x 13 cm. Collezione privata. Foto Francisco Baccaro.

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Donare quel che non si haLa logica dello scambio e il paradigma del dono

Fabio Ciaramelli

Più originariamente, il dono instaura la differen-za e al tempo stesso la somiglianza – cioè la possi-bile reciprocità – tra i soggetti sociali. E così ciòche esso fa circolare non è la merce prodotta, ilprofitto ricercato o l’incremento di felicità presodi mira, ma le condizioni stesse del desiderio.

Il dono come iniziazione all’ordine del desiderioQui s’impone un riferimento decisivo a JacquesLacan, per il quale il dono è fondamentalmentedono d’amore. La celebre formula lacaniana –«amare significa donare quel che non si ha» – de-finisce il dono più che l’amore o, per megliodire, determina la struttura del dono attraversol’amore erotico.2 In realtà, l’eros è desiderio: equest’ultimo, a differenza dei bisogni, non ha unoggetto predeterminato che possa costituirne ilnecessario complemento naturale. Perciò, peraccedervi, occorre essere iniziati all’ordine al de-siderio. Ed è esattamente questa la «funzione»socio-antropologica del dono.

Forma originaria di socializzazione, il deside-rio umano prende di mira ciò di cui manca. Nel-l’amore erotico è in gioco la dimensione deldono, ma ciò che passa tra gli amanti – ossia, ciòstesso che gli amanti si donano – non sono cose,oggetti, promesse o progetti. Risvegliandosi reci-procamente dall’illusione di pienezza, l’amoreerotico consiste nel donarsi la mancanza, quel«vuoto» che ciascuno avverte dentro di sé e dalcui avvertimento si scopre desiderante.

(che vediamo di fatto istituirsi e prevalere nellasocietà capitalistica). Questa era esattamente laprospettiva attribuita alla cosiddetta «economianaturale», che in realtà proiettava sullo schermoimmaginario delle origini l’esperienza storicadell’economia di mercato.

L’instaurarsi del dono precede invece la logi-ca del calcolo economico. Il dono infatti nonnasce dall’applicazione della regola dello scam-bio, intesa come regola universale della socializ-zazione. Al contrario, affinché un qualunquetipo di scambio possa realizzarsi tra individui na-turalmente diversi e tra loro separati, è necessa-rio che abbia avuto luogo una prima forma so-ciale di contatto che possa renderli commensu-rabili e reciproci e che si riveli indispensabile al-l’instaurazione della socializzazione. Quest’ulti-ma precede dunque la ricerca economica dell’in-teresse privato degli individui singoli.

Il triplice movimento che Mauss individuavaalla base del legame sociale – dare, ricevere e ri-cambiare – contrariamente alle apparenze si sot-trae alla necessità dello scambio economico.Come ha scritto Claude Lefort, sottolineandol’implicazione filosoficamente decisiva dell’an-tropologia del dono, quest’ultimo è «l’atto pereccellenza attraverso cui l’uomo conquista la suasoggettività» inaugurando la relazione sociale:sicché, conclude Lefort, «non si dona per riceve-re, ma si dona affinché l’altro doni».1

La logica del dono non «serve» dunque né aprodurre né a far circolare la ricchezza economica.

I bisogni individualistici dell’homo oeconomicusL’età moderna e l’età globale appaiono accomu-nate dallo stabilizzarsi della motivazione econo-mica come vettore tendenzialmente unico di so-cializzazione. Ne consegue che i rapporti socialiirriducibili al rigore funzionale dell’economiavengano per principio esclusi dallo spazio pub-blico e limitati all’ambito della vita privata. Latendenza dominante del nostro tempo compor-ta perciò la riduzione delle complesse articola-zioni del sociale all’autoposizione di individuiisolati e ai loro bisogni illimitati, regolati esclusi-vamente dall’astrazione del mercato e del diritto.Pertanto solo i bisogni individualistici dell’homooeconomicus risultano degni d’attenzione sullascena pubblica. Ecco perché l’unica logica chenella società dei consumi il sistema sociale aval-la, perché vi vede la molla efficace del propriofunzionamento, è la logica dello scambio: chemira all’incremento indefinito del profitto e pro-mette l’espansione altrettanto indefinita dei con-sumi individuali.

Un simile modello di socializzazione è co-struito sull’interesse economico come moventefondamentale della vita privata e protagonistaindiscusso della scena pubblica. Nasce da qui laricerca d’una tendenziale autarchia da parte deisingoli: individui che si autorappresentano comepotenze solitarie, protese al raggiungimentodella felicità attraverso l’appagamento immedia-to dei propri desideri, il che concretamente si-gnifica l’espansione dei consumi. In quest’ulti-ma la cultura dominante vede l’unico mezzoplausibile e sensato per incrementare la felicitàindividuale, benché nella prospettiva del sistemaeconomico-finanziario l’incremento dei consu-mi sia in realtà finalizzato alla massimizzazionedei profitti.

La crisi del modello economicisticoNon è una differenza da poco. Quando la con-nessione tra i due punti di vista viene meno,quando cioè la massimizzazione dei profitti nonha più come ricaduta nella vita quotidiana l’in-cremento dei consumi, come accade nelle fasi direcessione e depressione, crolla anche l’adesioneapparentemente spontanea e incondizionatadegli individui al sistema economico.

La logica dello scambio perde così la sua pre-sunta necessità, che in realtà le proveniva dall’es-sere considerata base «naturale» dell’economia eperciò molla fondamentale della produzione diricchezza e benessere. Visti i risultati cui è giun-to il modello economicistico nell’attuale fase re-cessiva che caratterizza le società occidentaliavanzate, non stupiscono la messa in discussionedella logica dello scambio e la crescente popola-rità del dono. Beninteso, non si tratta d’una po-polarità ristretta agli addetti ai lavori, poichésempre più intercetta un vissuto condiviso. Allasua base occorre riconoscere una logica alternati-va al primato assoluto dell’economia di mercato,che ci ha condotti alla fase attuale.

Il dono e la soggettivazioneIndagato negli anni Venti del secolo scorso daMarcel Mauss, che vi vedeva la fonte del legamesociale, il paradigma del dono sfugge al primatodell’economia e si sottrae alla rigorosa contabili-tà dello scambio. Mauss mostra che il dono vacompreso come «fatto sociale totale». Non biso-gna perciò scorgervi soltanto una pratica socialeparziale, che in alcune economie «primitive»svolgeva un ruolo centrale, perché al contrariol’intera rete delle relazioni tra i soggetti socialideriva proprio dal dono.

Viene così messo in discussione il pregiudi-zio moderno secondo il quale le relazioni umanesiano in sé stesse strutturate in conformità allalogica individualistica degli interessi economici

L’eros come «verità» del donoIl dono erotico, in tal modo, costituisce la «veri-tà» di ogni tipo di dono, giacché lumeggia laportata filosofica radicale del dono come para-digma alternativo allo scambio economico. Inrealtà ciò che il «dono» – proprio il dono studia-to dall’antropologia novecentesca come formaoriginaria dello scambio – davvero dona o co-munica è la coazione a desiderare: cioè l’avverti-mento della mancanza costitutiva che apre do-natore e donatario all’avventura sociale della sog-gettivazione.

Trasformando il presunto corrispettivo natu-rale del bisogno in oggetto sociale del desiderioumano, il dono precede l’economia e la rendepossibile. In tal modo l’evento del dono instaural’esperienza soggettiva come esperienza sociale,giacché in fin dei conti il suo compito consistenello strappare il desiderio psichico all’illusionedel suo appagamento immediato, resa possibiledalla sua riduzione al bisogno. Ecco perché oggila riflessione filosofico-politica sul dono puòcontribuire a risvegliare gli individui sociali dalsonno dogmatico della soggezione alla logica as-solutizzante dello scambio.

1 Claude Lefort, Les formes de l’histoire, Seuil, Parigi, 1978,pp. 25 e 27. 2 Rinvio all’eccellente messa a punto di Bruno Moroncini, «Ildono di Lacan», in La questione della fobia nell’insegnamentodi Jacques Lacan, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma,1993, pp. 37-50.

Antonio Dias, Cabeças / Heads, 1968. Legno dipinto, 10 elementi, 30 x 30 x 30 cm. Collezione dell’artista. Foto Vicente de Mello.

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DONO E BENI COMUNI

Ovunque un altro mondo, unmondo post-neoliberale prova ainventarsi. Attraverso moltepli-ci esperienze, molteplici corren-ti di pensiero, sotto molteplici

appellativi: un’altra economia, economia socialee solidale, postsviluppo, sobrietà volontaria, ab-bondanza frugale, decrescita, indicatori alterna-tivi di ricchezza, commercio equo, microcredito,responsabilità sociale e ambientale, impresa so-ciale, politica dell’associazione, democrazia radi-cale, ecologia politica, antiglobalizzazione ecc. Oancora, di recente, sotto la forma di una rivendi-cazione della dignità che si manifesta attraversole rivolte del mondo arabo, o con il movimentodegli indignados in Spagna, in Grecia o in Por-togallo e ormai anche negli Stati Uniti.

Quale bandiera, quale significato sarebbe piùin grado di simboleggiare questa unità e aggrega-re le passioni e le energie? Ci sono buone ragioniper pensare che l’appellativo più promettente siaquello di convivialismo. Un convivialismo cheprenderà veramente consistenza solo se assumeràuna sua dimensione di ideologia politica del no-stro tempo. Un’ideologia politica che nel contem-po sintetizzi e superi le quattro grandi ideologiedella modernità: il liberalismo, il socialismo,l’anarchismo e il comunismo. Se è necessario su-perarle è perché, a causa del loro fondamento uti-litaristico ed economicistico comune, tutte equattro, fatta eccezione per le loro varianti margi-nali, presuppongono che solo una crescita econo-mica infinita, o indefinita, sia suscettibile di disin-nescare il conflitto tra gli uomini e i popoli, e por-tare il Progresso.

Gestire l’odioIl punto di partenza del convivialismo intesocome dottrina politica e sociologica è la constata-zione che la storia di ogni società fino a oggi nonè in primis la storia della lotta di classe ma, ancorprima, quella delle soluzioni che sono state inven-tate per rispondere alla domanda principale, quel-la da cui tutte le altre dipendono: quali regole divita adottare in società per permettere agli uomi-ni di vivere insieme «opponendosi senza massa-crarsi», come diceva Marcel Mauss. O, ancora,quella di sapere come gestire l’odio.

Rispetto a questa domanda l’umanità ha ela-borato tre risposte più una: la proiezione, l’intro-iezione o la dialettizzazione dell’odio. Nel primocaso l’odio di tutti è proiettato sia su un nemicoesterno (attraverso la guerra), sia su un nemicointerno che si configura come un capro espiatorio.Nel secondo caso l’odio è arginato stabilendo unagerarchia di legittimità e dignità, di riverenza edisprezzo. Il dono agonistico o la democrazia dia-lettizzano l’odio – terza soluzione – instaurandouna reversibilità dell’amicizia e dell’inimicizia,del potere e del non-potere. La modernità capita-listica ha inventato, con il fordismo e i compro-messi socio-democratici del dopo guerra mon-diale, una quarta modalità particolarmente effi-cace durante il boom postbellico: la proiezione suquello che potremmo chiamare il circolo espiato-rio della crescita. Quella che permetteva di spera-re che tutto sarebbe andato di meglio in meglio,non più condannando a morte una vittima sacri-ficale responsabile di tutti i mali, ma convincen-dosi che la situazione materiale e morale di tuttisarebbe progressivamente migliorata di anno in

anno. L’adesione alla democrazia ha ampiamentefatto affidamento a questa prospettiva di una cre-scita indefinita.

Ora quest’ultima è ormai ampiamente scom-parsa. Siamo ormai al limite dell’esplosione diquesta logica mortifera. Dobbiamo quindi affida-re le nostre speranze a un ritorno al tenore di cre-scita di ieri? Molto verosimilmente no, in quantonon ci sarà crescita possibile in Europa o negliStati Uniti e, in ogni caso, tale crescita non sarà inalcun modo universalizzabile. Noi sappiamoormai, in effetti, che ci vorrebbero tre o quattropianeti per generalizzare un’American way of lifelontana dall’essere paradisiaca.

Dobbiamo quindi imparare a guardare conserenità e con fiducia alla prospettiva di uno statoeconomico stazionario dinamico, cioè riformula-to in termini marxisti, di un regime economico esociale nel quale continueremo a inventare e in-novare, tecnicamente, socialmente, politicamentee culturalmente, e senza dubbio di più e in modopiù ampio rispetto a oggi. Dove, per formularloin termini marxisti, la quantità dei valori d’uso sa-rebbe in crescita costante, ma il valore (di scam-bio) prodotto non crescerebbe affatto.

Abbozzo di un convivialismo praticoUna politica convivialista deciderebbe di orientar-si progressivamente, a un ritmo variabile a secon-da delle regioni del globo, verso uno stato econo-mico stazionario dinamico, cioè quantitativamen-te e materialmente stabile, ma qualitativamenteevolutivo in quanto sistematicamente orientatoverso il progresso sociale, etico e culturale. Versola realizzazione delle persone in quanto soggetti

pienamente umani e non solo come uomini eco-nomicamente efficaci.

Il che presuppone tre condizioni principali:una lotta deliberata contro l’eccesso, fonte di tuttele corruzioni, da attuare mediante la criminalizza-zione della ricchezza estrema e della povertà estre-ma, mediante l’instaurazione congiunta di un red-dito massimo e di un reddito minimo, ed estro-mettendo la finanza speculativa. La ridefinizionedegli Stati-nazione in un’ottica transnazionale etransculturale la quale assuma come principio re-golatore l’obiettivo di favorire il massimo del plu-ralismo culturale che sia compatibile con il loromantenimento. O, ancora, mirare alla più grandecompatibilità possibile, in ogni comunità politica,tra diritto al radicamento e diritto allo sradicamen-to, tra l’uguaglianza di diritto delle diverse culturee le loro disuguaglianze di fatto. La conquista daparte della società civile associazionista, locale, re-gionale, nazionale o transnazionale, della sua pienaautonomia e della sua sovranità politica.

Liberalismo e socialismo sono stati i campio-ni, rispettivamente, del mercato e dello Stato. Ilconvivialismo parla in nome della società stessa:così come rappresentata, modellata e messa inatto attraverso il fiorire delle associazioni.

Traduzione di Salvatore Principe

Una versione più ampia del testo è in «A piene mani». Dono,dis/interesse e beni comuni, a cura di Alberto Lucarelli e UgoMaria Olivieri, Diogene, Napoli, 2013. Il manifesto del con-vivialismo pubblicato in Francia (Alain Caillé, Pour un mani-feste du convivialisme, Editions du Bord de l’Eau, Parigi, 2011)è in corso di traduzione in Italia con una prefazione di Fran-cesco Fistetti.

Il convivialismoal di là del neoliberalismo

Alain Caillé

Da quando, negli anni Sessantadel secolo scorso, Garrett Har-din segnalava con precoce dia-gnosi la «tragedia dei beni co-muni»,1 il problema si è ulte-

riormente aggravato. Ne è prova il fiorire di unacrescente letteratura stimolata dalla pubblicazio-ne nel 1999 del libro seminale di ElinorOstrom,2 che ha riportato l’attenzione sulla ur-gente necessità di farsi carico sia della loro pre-servazione sia della loro gestione. Se è vero che ladefinizione del concetto di «beni comuni» è tut-tora in progress (basti pensare alla distinzione trabeni materiali, come acqua, aria, energia, clima,biodiversità, e beni immateriali, come conoscen-za, cultura, informazione, sicurezza), è però in-dubbio che essi sono esposti a un duplice ri-schio: da un lato, il rischio del loro esaurimentoo irreversibile degrado a causa di uno sfrutta-mento insensato e senza limiti che comprometteil futuro stesso dell’umanità e del pianeta; dal-l’altro, una gestione sempre più esclusiva daparte dei poteri forti, globali e locali, e un’iniquadistribuzione che approfondisce le nuove disu-guaglianze prodotte dalla globalizzazione. Sem-bra esserci, inoltre, una sostanziale convergenzanella diagnosi delle cause che hanno prodottoquesti rischi, ricondotte per lo più a un modellodi sviluppo fondato sull’imperativo della crescitaillimitata e sulla dinamica anarchica e rapace delmercato: un modello di sviluppo insostenibile,di cui la globalizzazione ha prodotto un’eviden-te radicalizzazione, favorendo l’imporsi di un ca-pitalismo predatorio, ottusamente cieco e indif-ferente sia verso il problema del limite naturale

delle risorse sia verso il problema della loro frui-bilità collettiva.

Fermarsi a questa diagnosi, di per sé condivi-sibile, significa tuttavia circoscrivere la questioneentro i limiti dell’economico, trascurando quelleche sono le radici antropologiche, sociali edemotive della «tragedia» che si sta consumandosotto i nostri occhi. A monte di quanto accadeoggi c’è, indubbiamente, l’egemonia incontra-stata dell’homo oeconomicus: questo però è soloin parte identificabile con la figura, peculiaredella tradizione liberale, dell’individuo utilitari-sta e razionale, preoccupato della soddisfazionedei propri interessi e della massimizzazione del-l’utile. Si tratta piuttosto, fin dalle origini dellamodernità, di un individuo motivato da passio-ni acquisitive e da una hybris prometeica, che lospinge fatalmente a esiti che possiamo senza esi-tazione definire patologici.

Il primo esito è la tendenza paradossale aignorare il proprio stesso interesse in nome diuna illimitata autoaffermazione. Basti pensarealla cecità di fronte ai possibili effetti della tecni-ca e di un agire che, a dispetto delle sue promes-se seduttive, non solo sembra aver perso ognisenso e scopo, ma appare responsabile di queglieffetti «imprevisti e indesiderati»3 – dalle cata-strofi ecologiche, al climate change, all’erosionedelle risorse naturali – che mettono a repenta-glio, come vediamo ormai quotidianamente, lasopravvivenza stessa dell’umanità e del pianeta:così da smentire ogni illusorio mito del progres-so e del benessere su cui la modernità ha da sem-pre legittimato se stessa. Il secondo esito consistein quella che potremmo definire l’erosione del co-

mune, o meglio dell’essere-in-comune: le cui mol-teplici declinazioni vanno dall’indifferenza versotutto ciò che riguarda la sfera pubblica e colletti-va all’ostilità verso l’altro e alla violazione del-l’ambiente.

Abbiamo bisogno dunque di quella che conElias Canetti possiamo definire una metamorfosiantropologica: che alla hybris autodistruttiva eall’individualismo illimitato dell’homo oecono-micus sostituisca la percezione del limite e la ne-cessità dell’agire comune.

Ho suggerito altrove4 che l’età globale con-tiene potenzialmente questa chance: poiché invirtù dell’esposizione ai rischi planetari ci ponedi fronte alla nostra fragilità e vulnerabilità e,in virtù dell’interdipendenza delle vite e deglieventi che la caratterizza, ci trasforma oggettiva-mente in un’unica umanità esposta allo stessodestino.

Si può sperare, a questo proposito, che abbiaragione Jeremy Rifkin5 quando sostiene che l’etàglobale può favorire l’emergere di quella nuovafigura antropologica che è l’homo empaticus, ca-pace, al contrario dell’homo oeconomicus, dipassioni solidali che fondano l’essere-in-comu-ne. È infatti dalla cura dell’essere-in-comune chederiva l’attenzione e la protezione di ciò che ab-biamo in comune. E ciò equivale a dire, per con-vocare un concetto emerso di recente nella rifles-sione contemporanea, che la cura dei «beni rela-zionali» prelude alla cura dei «beni comuni». Ibeni relazionali infatti (come fiducia e amore,amicizia e generosità) sono quelli in cui la rela-zione tra le persone costituisce essa stessa il beneperseguito. Essi si fondano cioè su una motiva-

zione intrinseca e su una peculiare qualità dellarelazione: che è disinteressata in quanto contie-ne in sé la propria ricompensa.6

Siamo così approdati inevitabilmente alla lo-gica del dono, così come viene da tempo ripropo-sta dagli autori di ispirazione maussiana.7 Solorecuperando un’attitudine donativa, che riabilitala gratuità del legame e la dimensione del comu-ne contro la logica strumentale dell’individuali-smo utilitaristico, saremo capaci di cura dei benicomuni.

1. Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons, in «Science»,n. 162, 1968.2. Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Vene-zia, 2006.3. Come li ha chiamati l’Ulrich Beck de La società del rischio,Carocci, Roma, 2000.4. Cfr. Elena Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabi-lità in età globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009.5. Cfr. Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, Mondadori,Milano, 2010.6. Cfr. Benedetto Gui, Robert Sugden, Economics and SocialInteractions, Cambridge University Press, Cambridge, 2005;Stefano Zamagni, L’economia del bene comune, Città Nuova,Roma, 2007.7. Cfr. Alain Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofi-ca del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.

Dalla tragedia alla curaElena Pulcini