U Il grande - ibs.it · “Una storia epica che unisce il pathos della tragedia greca ... non aveva...

53
KRISTIN HANNAH Il grande inverno Dall autrice del bestseller internazionale L’Usignolo Romanzo

Transcript of U Il grande - ibs.it · “Una storia epica che unisce il pathos della tragedia greca ... non aveva...

“Una storia epica che unisce il pathos della tragedia grecaal tormento di Romeo e Giulietta.”

Kirkus

“Lo straordinario legame tra una madre e una figlia.”Library Journal

“La bellezza e le insidie dell’Alaska fannoda specchio al drammatico ritratto di una famiglia in crisi.”

Booklist

Dell’Usignolo hanno detto:

“Grandi personaggi, grandi vicende, grandi sentimenti:cosa chiedere di più a un romanzo?”

Isabel Allende

“Kristin Hannah si immerge nella storia fin quasia consumarla e intanto celebra il coraggio delle donne.

Eroine loro malgrado e sante senza altari.” D - Repubblica

I N S O V R A C C O P E R TA : E L A B O R A Z I O N E G R A F I C A D A F O T O © G E T T Y I M A G E S

Quando Ernt Allbright torna dalla guerra del Vietnam è un uomo profondamente instabi­le. Dopo aver perso l’ennesimo posto di lavo­ro, prende una decisione impulsiva: trasferir­si con tutta la famiglia nella selvaggia Alaska, l’ultima frontiera americana, e cominciare una nuova vita. Sua figlia Leni, tredici anni, è nel pieno del tumulto adolescenziale: soffre per i continui litigi dei genitori e spera che questo cambiamento porti a tutti un futuro migliore. Mentre Cora, sua moglie, è pronta a fare qual­siasi cosa per l’uomo che ama, anche se que­sto vuol dire seguirlo in un’avventura scono­sciuta. All’inizio l’Alaska sembra la risposta ai loro bisogni: in un remoto paesino, gli All­bright si uniscono a una comunità di uomini e donne estremamente temprati, fieri di essere autosufficienti in un territorio così ostile. Però quando l’inverno avanza e il buio invade ogni cosa, il fragile stato mentale di Ernt peggiora e il delicato equilibrio della famiglia comincia a vacillare. Ora, i tanto temuti pericoli esterni– il ghiaccio, la mancanza di provviste, gli orsi – sembrano nulla in confronto alle minac­ce che provengono dall’interno del loro nu­cleo famigliare. Chiusi in un rifugio angusto, ricoperto di neve e immerso in una notte che può durare fino a diciotto ore, Leni e sua ma­dre devono affrontare una cruda verità: sono sole. In quel luogo feroce, ai confini del mon­do, non c’è nessuno che possa salvarle. Kristin Hannah ci regala ancora una volta un’epica storia d’amore e sopravvivenza, un ritratto intimo di una famiglia messa a dura prova nel disperato tentativo di salvarsi da se stessa. Scritto con una prosa elegante e avvol­gente e animato da personaggi vivissimi che arriviamo a conoscere nel profondo, Il grande inverno ci conduce in una terra dove bellezza e pericolo sono una cosa sola, per raccontarci la storia di una madre e una figlia, due eroine indimenticabili in lotta con una natura selvag­gia e le paure più grandi dell’animo umano.

Dopo l’enorme successo dell’Usignolo, best­seller internazionale che solo negli Stati Uni­ti ha venduto più di due milioni di copie ed è stato pubblicato in trenta paesi, Kristin Han­nah torna al primo posto della classifica del “New York Times” con Il grande inverno, con­fermandosi come una delle scrittrici più atte­se dell’anno.

€ 20,00

K R I S T I NH A N N A H

Il grandeinverno

Dall’autrice del bestseller internazionaleL’Usignolo

Romanzo

KR

IS

TI

N H

AN

NA

HIl grande inverno

FO

TO

© C

HA

RL

ES

BU

SH

Kristin Hannah

IL GRANDE INVERNO Traduzione di Federica Garlaschelli

Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

ISBN 978-88-04-70202-3

Copyright © 2018 by Kristin HannahAll rights reserved

Originally published by St. Martin’s Press, New York© 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano

Titolo dell’opera originaleThe Great Alone

I edizione settembre 2018

anobii.comlibrimondadori.it

31

«Leni, tesoro, svegliati. Siamo quasi arrivati!»Leni sbatté le palpebre; sulle prime non vide altro che le pro-

prie gambe cosparse di briciole di patatine. Accanto a lei c’era-no un vecchio giornale coperto di carte di dolciumi e la sua co-pia della Compagnia dell’Anello, con le pagine ingiallite aperte a mo’ di tenda. Quanto aveva di più prezioso, la Polaroid, era appesa al suo collo con un cordino.

Il viaggio verso nord lungo l’autostrada per lo più sterrata dell’Alaska era stato meraviglioso. La loro prima vera vacan-za di famiglia. Giorni trascorsi viaggiando sotto uno splendido sole, per poi di notte accamparsi nei pressi di fiumi impetuosi e placidi ruscelli, all’ombra di montagne frastagliate come seghe, radunati intorno a un fuoco, a sognare un futuro che appariva ogni volta più vicino. Cuocevano hot dog per cena, preparava-no dolci fatti di biscotti, marshmallow e cioccolato, e fantasti-cavano su ciò che avrebbero scoperto in fondo alla strada. Leni non aveva mai visto i suoi genitori così felici. Papà soprattut-to. Rideva, era di buonumore, raccontava barzellette e promet-teva loro la luna. Ricordava il padre del Prima.

Di solito, quando viaggiavano, Leni se ne stava con il naso affondato in un libro, ma stavolta il panorama aveva spesso re-clamato la sua attenzione, in particolare fra le incantevoli mon-tagne della Columbia Britannica. Mentre fuori il paesaggio mu-tava in continuazione, sul sedile posteriore del furgone Leni immaginava di essere Frodo o Bilbo, sentendosi l’eroina della sua personale ricerca.

3

32

Il furgone urtò qualcosa, un cordolo forse, e tutto quanto all’interno volò per aria, cadde per terra e rotolò sugli zaini e gli scatoloni accatastati nel retro. Si fermarono con uno strido-re di freni, lasciandosi dietro un odore di gomma bruciata e gas di scarico.

La luce del sole filtrava dai finestrini sporchi e coperti di zanzare spiaccicate. Leni scavalcò la montagna formata dai sacchi a pelo piegati alla bell’e meglio e aprì lo sportello late-rale. Il loro cartello con il disegno di un arcobaleno e la scritta ALASKA O NIENTE sbatteva nel vento freddo, fissato ai lati con del nastro adesivo.

Leni scese dal furgone.«Ce l’abbiamo fatta, Peldicarota.» Papà si mise accanto a lei

e le posò una mano sulla spalla. «La Fine della Terra: Homer, Alaska. La gente viene qui da ogni dove per fare provviste. È una specie di ultimo avamposto della civiltà. Si dice che qui finisca la terra e cominci il mare.»

«Wow» commentò mamma.Malgrado tutte le foto che Leni aveva visto e tutti gli artico-

li e i libri che aveva letto, la bellezza selvaggia e spettacolare dell’Alaska la colse di sorpresa. Era una terra in un certo sen-so soprannaturale, magica nella sua immensità, un paesaggio ineguagliabile costellato di svettanti cime bianche coperte di ghiacciai che correvano lungo tutto l’orizzonte, con sommità aguzze come coltelli stagliate in un limpido cielo blu fiordaliso. Sotto la luce del sole la baia di Kachemak era una distesa d’ar-gento battuto, punteggiata di imbarcazioni. L’aria aveva un forte odore salmastro, di mare. Gli uccelli marini si libravano nel vento, tuffandosi per poi alzarsi nuovamente in volo sen-za alcuna fatica.

Il famoso Homer Spit di cui aveva letto era una striscia di ter-ra di sette chilometri protesa nel mare. Lungo la riva, un guaz-zabuglio variopinto di baracche appollaiate su palafitte faceva pensare a un luna park: l’ultima tappa di viaggiatori in cerca di avventura, che si riempivano gli zaini prima di addentrarsi nel cuore selvaggio dell’Alaska.

Leni alzò la Polaroid e cominciò a scattare a tutta la velocità consentitale dal rivelatore. Staccò dalla macchina una foto dopo l’altra, guardando le immagini svilupparsi davanti ai suoi occhi.

33

Gli edifici, appoggiati su pali sopra l’acqua, presero forma sul-la carta bianca e lucida riga dopo riga.

«La nostra terra è laggiù» disse papà indicando una collana di dolci rilievi verdeggianti in un punto lontano e fosco dal lato opposto della baia di Kachemak. «La nostra nuova casa. No-nostante si trovi sulla Penisola di Kenai, non ci sono strade per raggiungerla. Kaneq è isolata dalla terraferma da enormi ghiac-ciai e montagne, quindi dovremo andare via aria o via mare.»

Mamma si spostò accanto a Leni. Con i suoi jeans a vita bas-sa e a zampa, la canotta con il bordo di pizzo, la pelle pallida e i capelli biondi, sembrava dipinta nei colori freddi di quel po-sto, un angelo sceso su un lido che attendeva il suo arrivo. Per-sino la risata pareva nel proprio ambiente lì, un’eco dei campa-nelli che tintinnavano all’ingresso dei negozi. Un vento freddo le faceva aderire la canotta al petto senza reggiseno. «Che te ne pare, bambina mia?»

«Stupendo» rispose Leni. Scattò un’altra foto, ma non sareb-bero bastati tutto l’inchiostro e la carta del mondo a catturare la maestosità di quella catena montuosa.

Papà si girò verso di loro con un sorriso così largo da incre-spargli il volto. «Il traghetto per Kaneq parte domani. Perché non esploriamo un po’ la zona? Poi potremmo accamparci sul-la spiaggia e fare una passeggiata.»

«Sì!» esclamarono all’unisono Leni e mamma.Mentre si allontanavano dallo Spit attraversando la città, Leni

tenne il naso premuto contro il finestrino per guardare fuori. Vide un accostamento eclettico di abitazioni: grandi case con finestre lucide accanto a piccole catapecchie rese abitabili gra-zie a plastica e nastro adesivo. C’erano edifici dal tetto spioven-te, baracche, case mobili e roulotte. Alcuni autobus parcheg-giati sul ciglio della strada avevano tende ai finestrini e sedie sistemate all’esterno. Si vedevano giardini curati e recintati, al-tri zeppi di rottami arrugginiti, auto abbandonate e vecchi ar-nesi. La maggior parte sembrava incompiuta, per un motivo o per l’altro. C’erano negozi in ogni tipo di struttura: dal vec-chio caravan Airstream tutto ruggine all’edificio fatto di tron-chi nuovo di zecca, alla catapecchia sul ciglio della strada. Era un posto abbastanza selvaggio, ma a Leni non parve diverso e remoto come aveva immaginato.

34

Papà accese la radio mentre si dirigevano verso una lunga spiaggia grigia. Le gomme affondarono nella sabbia, che li co-strinse a rallentare. Ovunque erano parcheggiati dei veicoli: pick-up, furgoni e auto. Evidentemente la gente viveva su que-sta spiaggia all’interno di qualsiasi riparo riuscisse a trovare: tende, macchine sgangherate, baracche costruite con legname trasportato dall’acqua e tele cerate. «Li chiamano “i ratti dello Spit”» disse papà cercando un posto in cui parcheggiare. «La-vorano nei conservifici della zona e per i noleggi di barche.»

Con una manovra si infilò in uno spazio tra un Ford Serie E coperto di schizzi di fango con targa del Nebraska e una Gremlin color verde lime con pezzi di cartone fissati con il nastro adesivo al posto dei finestrini. Montarono la loro tenda sulla sabbia, legan-dola al paraurti del furgone. Il vento salmastro era forte laggiù.

La risacca produceva un dolce sciabordio, avanzando per poi ritirarsi. Tutt’intorno a loro la gente si godeva la giornata, lanciando frisbee ai cani, accendendo falò sulla spiaggia e pa-gaiando sui kayak. Il chiacchiericcio delle voci umane suonava piccolo ed effimero nella vastità di quel mondo.

Trascorsero la giornata come turisti, spostandosi da un po-sto all’altro. Mamma e papà comprarono delle birre al Salty Dawg, mentre Leni si prese un cono gelato da un chiosco sullo Spit. Poi rovistarono nei cassonetti dell’Esercito della Salvez-za fino a quando trovarono stivali di gomma delle loro misu-re. Leni acquistò quindici vecchi libri (la maggior parte rovinati e con macchie d’acqua) per cinquanta centesimi. Papà comprò un aquilone da far volare in spiaggia, mentre mamma passò di nascosto dei soldi a Leni dicendole: «Comprati della pellicola, bambina mia».

In un ristorantino proprio all’estremità dello Spit, si sedet-tero a un tavolo da picnic e mangiarono granchio Dungeness: Leni si innamorò del gusto dolce e al contempo salato di quella carne bianca intinta nel burro fuso. I gabbiani gracchiavano, li-brandosi nel cielo e puntando le loro patatine e le loro baguette.

Non ricordava giorno più bello, né le era mai sembrato di avere un futuro radioso così a portata di mano.

Il mattino successivo condussero il furgone sull’imponen-te Tustamena (chiamato Tusty dalla gente del posto), che faceva parte dell’Alaska Marine Highway System. Il vecchio traghet-

35

to tarchiato serviva città remote come Homer, Kaneq, Seldovia, Dutch Harbor, Kodiak e le incontaminate Isole Aleutine. Dopo aver parcheggiato il furgone nella propria corsia, si precipita-rono tutti e tre in coperta e corsero verso il parapetto. C’era pa-recchia gente, soprattutto uomini con capelli lunghi e barbe folte, che indossavano cappellini da camionisti, camicie di fla-nella a quadri, gilet super imbottiti e jeans sporchi infilati den-tro stivali di gomma marrone. C’erano anche alcuni hippie in età universitaria, riconoscibili per gli zaini, le magliette psiche-deliche e i sandali ai piedi.

L’enorme traghetto lasciò la banchina sbuffando fumo. Leni notò quasi subito che le acque della baia di Kachemak non era-no così calme come apparivano al sicuro sulla riva. Là fuori, il mare era impetuoso, spumeggiante. Le onde si agitavano e si infrangevano sui fianchi del traghetto. Era una scena meravi-gliosa, magica, selvaggia. Leni scattò almeno una decina di foto e se le infilò in tasca.

Quando un piccolo branco di orche emerse dalle onde, i leoni marini radunati sulle rocce si misero a schiamazzare. Le lontre si nutrivano fra i banchi di laminaria lungo le coste impervie.

Alla fine, il traghetto virò e costeggiò lentamente una collina di terra verde smeraldo, che offrì loro riparo dal vento che sfer-zava la baia. Isole verdeggianti con litorali rocciosi dissemina-ti di alberi li accolsero nelle loro acque calme.

«Siamo in arrivo a Kaneq!» annunciò una voce dall’altopar-lante. «Fermata successiva: Seldovia!»

«Forza, famiglia Allbright. Torniamo al furgone!» esclamò al-legramente papà. Zigzagando tra le file di veicoli, ritrovarono il furgone e salirono a bordo.

«Non vedo l’ora di scoprire com’è la nostra nuova casa» dis-se mamma.

Quando il traghetto attraccò, scesero e imboccarono un’ampia strada sterrata in salita che attraversava un bosco. Sulla som-mità della collina sorgeva una chiesa di assi di legno bianche con un campanile a cupola blu, sormontato da una croce rus-sa a tre bracci. Lì accanto c’era un piccolo cimitero recintato da una staccionata e fitto di croci in legno.

Arrivati in cima, scesero sull’altro versante e il loro sguardo si posò per la prima volta su Kaneq.

36

«Un momento» disse Leni guardando fuori dal finestrino sporco. «Dobbiamo esserci sbagliati.»

Vide diverse roulotte parcheggiate nell’erba con sedie siste-mate sul davanti, e case che nello Stato di Washington chiunque avrebbe definito catapecchie. Di fronte a una di queste, tre cani macilenti incatenati abbaiavano e ululavano senza posa dai tet-ti delle loro cucce sgangherate. Il prato erboso era costellato di buche che gli animali dovevano aver scavato per noia.

«È una città antica, con una storia eccezionale» spiegò papà. «I primi a insediarvisi furono i nativi, seguiti dai commercian-ti di pellicce russi; poi la città fu occupata dagli esploratori che cercavano oro. Nel 1964 fu colpita da un terremoto così violen-to che la terra si abbassò di un metro e mezzo in un solo secon-do. Le case crollarono e finirono in mare.»

Leni rimase a fissare quei pochi edifici fatiscenti con le faccia-te coperte di bolle di vernice, collegati gli uni agli altri da una passerella che aveva conosciuto giorni migliori; la città pog-giava su palafitte sopra distese di fango. Oltre il fango c’era un porto pieno di barche da pesca. La via principale era brevissi-ma e sterrata.

Alla sua sinistra, Leni vide un locale chiamato Kicking Moose. Rivestito di una patina bruciacchiata e annerita, era stato chia-ramente vittima di un incendio. Attraverso il finestrino sporco, scorse i clienti all’interno: gente che beveva alle dieci di un gio-vedì mattina nello scheletro bruciato di un edificio.

Sul lato della strada che dava sulla baia, si trovava una pen-sione chiusa che, a detta di papà, doveva essere stata costruita più di un secolo prima per i commercianti di pellicce russi. Lì accanto una tavola calda delle dimensioni di uno sgabuzzino chiamata Fish On accoglieva gli avventori con una porta aper-ta. Dentro, Leni intravide alcune persone ammassate davanti a un bancone. Vicino all’ingresso del porto erano parcheggiati un paio di vecchi pick-up.

«Dov’è la scuola?» domandò Leni, presa dal panico.Quella non era una città. Un avamposto, magari, il genere di

luogo nel quale ci si sarebbe potuti imbattere viaggiando in ca-rovana diretti verso ovest cent’anni prima, il genere di luogo in cui nessuno si fermava. Ci sarebbe stato lì qualche suo coetaneo?

Papà accostò davanti a una casa stretta in stile vittoriano, con

37

il tetto a punta, che un tempo doveva essere stata azzurra, ma che ora mostrava soltanto chiazze colorate sparse qua e là sul le-gno sbiadito e scrostato. Sulla finestra, sotto una scritta a caratte-ri dorati e svolazzanti che recitava UFFICIO DELL’ASSAGGIATORE, qualcuno aveva attaccato con del nastro adesivo un cartello sul quale era stato scritto a mano STAZIONE COMMERCIALE/EMPORIO. «Andiamo a chiedere indicazioni, famiglia Allbright.»

Mamma scese subito dal furgone, precipitandosi verso il pic-colo barlume di civiltà rappresentato da quella bottega. Quando aprì la porta, un campanello tintinnò sopra le loro teste. Leni sgu-sciò dentro insieme a mamma, mettendole una mano sul fianco.

Il sole che entrava dalle finestre alle loro spalle illuminava giu-sto una piccola porzione del negozio, sul davanti; l’unica altra fonte di luce era costituita da una lampadina nuda che penzo-lava dal soffitto. Il retro del negozio era un groviglio di ombre.

L’interno odorava di cuoio vecchio, whisky e tabacco. File di scaffali correvano lungo tutte le pareti. Leni vide seghe, asce, zappe, stivali da neve di pelliccia e stivali da pesca di gomma, montagne di calze e scatoloni pieni di lampade frontali. C’era-no trappole d’acciaio e rotoli di catene appesi dappertutto, e al-meno dieci animali imbalsamati appoggiati sugli scaffali e sui banconi. Un salmone reale gigante era stato fissato per l’eter-nità a una placca di legno lucido, così come teste d’alce, corna e teschi bianchi di animali. C’era persino una volpe rossa im-pagliata relegata in un angolo a impolverarsi. Sul lato sinistro erano collocati i generi alimentari: sacchi di patate e ceste di ci-polle, pile di scatolette di salmone, granchio e sardine, sacchi di riso, farina e zucchero, barattoli di grasso Crisco; poi ecco il reparto preferito di Leni, quello degli snack, dove meraviglio-se confezioni colorate la fecero sentire a casa: patatine, budini al caramello e scatole di cereali.

Sembrava un negozio che avrebbe potuto frequentare Laura Ingalls Wilder.

«Clienti!»Leni udì un battito di mani. Una donna nera con una volu-

minosa acconciatura afro emerse dall’ombra. Era alta, con le spalle larghe, e talmente in carne che dovette girarsi di lato per uscire da dietro il bancone di legno lucido. Il suo viso era co-stellato di piccoli nei neri.

38

Le raggiunse in fretta, accompagnata dal suono dei braccia-letti d’osso che sbatacchiavano intorno ai suoi grossi polsi. Non era giovane: cinquant’anni almeno. Indossava una lunga gon-na patchwork di denim, calze di lana spaiate, sandali spunta-ti e una lunga camicia blu sbottonata con sotto una maglietta sbiadita. In vita portava un’ampia cintura di cuoio con un col-tello infilato nel fodero. «Benvenuti! Lo so, sembra tutto così in disordine che uno potrebbe lasciarsi prendere dallo sconforto, ma so esattamente dove si trova ogni singola cosa, guarnizioni O-Ring e batterie AAA comprese. Qui mi chiamano tutti Large Marge, comunque» disse tendendo la mano.

«E tu li lasci fare?» chiese mamma sfoderando il suo mera-viglioso sorriso, quello che affascinava tutti, spingendoli a ri-cambiarlo. Strinse la mano della donna.

La risata di Large Marge risuonò fragorosa, simile all’abbaia-re di un cane, come se non riuscisse a prendere fiato a sufficien-za. «Adoro le donne dotate di senso dell’umorismo. Allora, chi ho il piacere di conoscere oggi?»

«Cora Allbright» rispose mamma. «E questa è mia figlia Leni.»«Benvenute a Kaneq, signore. Non abbiamo molti turisti qui.»Papà entrò nel negozio giusto in tempo per dire: «Siamo

gente del posto, o almeno, stiamo per diventarlo. Siamo appe-na arrivati».

Quando Large Marge abbassò la testa, il suo doppio mento divenne triplo. «Gente del posto?»

Papà le tese la mano. «Bo Harlan mi ha lasciato la sua pro-prietà. Siamo venuti per restare.»

«Per la miseria, sono la vostra vicina, Marge Birdsall, abito sulla strada a meno di un chilometro dalla vostra casa. C’è un cartello. In queste zone la maggior parte della gente vive isola-ta da tutto, nel bush, ma noi abbiamo la fortuna di essere sul-la strada. Allora, avete tutto ciò che vi serve? Se volete, potete aprire un conto qui all’emporio. E pagarmi in denaro oppure offrire qualcosa in cambio. È così che ci regoliamo qui.»

«È proprio la vita che cercavamo» disse papà. «Sarò sincero, coi soldi siamo un po’ tirati, quindi lo scambio andrà benissi-mo. Sono un meccanico coi controfiocchi. So aggiustare prati-camente qualunque motore.»

«Buono a sapersi. Spargerò la voce.»

39

Papà annuì. «Bene. Potrebbe farci comodo della pancetta. E magari anche un po’ di riso, e del whisky.»

«Laggiù» disse Large Marge facendo segno con il dito. «Die-tro la fila di asce e accette.»

Papà seguì le sue indicazioni e sparì nella penombra.Large Marge si girò verso mamma e la squadrò dalla testa

ai piedi con un’unica occhiata, soppesandola. «Immagino che quello sia l’uomo dei tuoi sogni, Cora Allbright, e che siate ar-rivati fin quassù senza pianificare granché.»

Mamma sorrise. «Noi facciamo tutto d’impulso, Large Marge. Così non ci annoiamo mai.»

«Bene, dovrai essere tosta quassù, Cora Allbright. Per te e per tua figlia. Non potrai contare soltanto sul tuo uomo. Dovrai es-sere in grado di salvare te stessa e questa bellissima ragazza.»

«Sei piuttosto melodrammatica» commentò mamma.Large Marge si chinò verso un grosso scatolone e lo trascinò

verso di sé. Rovistò al suo interno, muovendo le dita nere come una pianista, e tirò fuori due grandi fischietti arancione fosfore-scente legati a cordicelle nere, che mise intorno al collo di entram-be. «Questo è un fischietto per orsi. Ne avrete bisogno. Lezione numero uno: mai camminare senza far rumore – o disarmati – in Alaska. Non in una zona remota come questa e non in que-sto periodo dell’anno.»

«Stai cercando di spaventarci?» domandò mamma.«Puoi scommetterci il culo. La paura equivale al buonsenso

quassù. Molta gente viene qui, Cora, con macchine fotografiche e sogni di una vita più semplice. Ma ogni anno in Alaska cin-que persone su mille spariscono nel nulla. Senza lasciare trac-ce. E i sognatori... be’, la maggior parte non supera nemmeno il primo inverno. Non vedono l’ora di tornare nella terra dei drive-in e del riscaldamento che si accende alzando semplice-mente una levetta. E della luce del sole.»

«Da come parli sembra che siamo in un posto pericoloso» os-servò mamma a disagio.

«Ci sono due tipi di persone che si spingono fino in Alaska, Cora: quelle che inseguono qualcosa e quelle che fuggono da qualcosa. Dal secondo tipo... è meglio stare in guardia. E non è soltanto alla gente che bisogna stare attenti. La stessa Alaska può essere la Bella Addormentata un attimo prima e una caro-

40

gna armata di fucile a canne mozze quello dopo. Abbiamo un detto che recita: “Quassù puoi commettere un solo errore. Il se-condo ti ucciderà”.»

Mamma si accese una sigaretta con la mano che tremava. «Come comitato di benvenuto lasci un po’ a desiderare, Marge.»

Large Marge rise di nuovo. «Puoi dirlo forte, Cora. Qui nel bush le mie competenze sociali sono andate a farsi benedire.» Sorrise, poi posò una mano sulla spalla esile di mamma come a volerla confortare. «Ecco qualcosa che ti farà piacere sentire: la comunità di Kaneq è molto unita. Siamo in meno di trenta a vivere in questa parte della penisola per tutto l’anno, ma ci prendiamo cura gli uni degli altri. La mia proprietà è vicina alla vostra. Se doveste avere bisogno di qualcosa – qualunque cosa – chiamatemi via radio e io arriverò di corsa.»

Papà mise sopra il volante un foglio sul quale Large Marge ave-va disegnato una mappa. Kaneq era un grosso cerchio rosso dal quale si dipartiva una sola linea. Quella era la Strada (“Ce n’era davvero una soltanto” aveva detto Large Marge) che collega-va la cittadina a Otter Cove. Lungo la linea retta c’erano tre X. La prima indicava la proprietà di Large Marge, sulla sinistra, poi veniva quella di Tom Walker sulla destra e infine la vecchia casa di Bo Harlan, proprio in fondo alla linea.

«Allora, oltre tre chilometri il fiume Icicle incontreremo la proprietà di Tom Walker, che è segnalata da un cancello di me-tallo. Casa nostra è giusto un po’ più avanti, alla fine della stra-da» disse papà lasciando cadere la mappa mentre si dirigeva-no fuori città. «Marge assicura che non possiamo non trovarla.»

Attraversarono un ponte dall’aria traballante che disegnava un arco sopra le acque cristalline di un fiume. Superarono alcuni terreni paludosi e umidi cosparsi di fiori gialli e rosa, e poi l’ae-rodromo, dove erano assicurati quattro piccoli aerei malridotti.

Subito dopo l’aerodromo, la strada di ghiaia divenne sterra-ta e rocciosa. Gli alberi crescevano fitti su entrambi i lati. Fan-go e zanzare inzaccherarono il parabrezza. Pozzanghere grosse come piscine facevano sussultare e sferragliare il vecchio fur-gone. «Porca miseria» imprecava suo padre ogni volta che ve-nivano sbalzati dai loro sedili. Non incontrarono abitazioni o altri segni di civiltà fino a quando raggiunsero una stradina pie-

41

na zeppa di rottami arrugginiti e veicoli marcescenti. Un car-tello scritto a mano recitava BIRDSALL. Lì abitava Large Marge.

Dopodiché la strada peggiorava, diventando ancora più ac-cidentata. Un miscuglio di granito e pozze di fango. A destra e a sinistra, l’erba era altissima, e c’erano rovi e alberi così impo-nenti da impedire di vedere qualunque altra cosa.

Adesso erano davvero in mezzo al nulla.Dopo un altro tratto di strada deserto, videro un teschio di

mucca sbiancato appeso al cancello di metallo arrugginito che segnalava la proprietà dei Walker.

«Devo ammettere che mi inquieta un po’ il pensiero di avere dei vicini che usano animali morti per decorare casa» osservò mamma aggrappandosi alla maniglia della portiera, salvo poi ritrovarsela in mano quando presero una buca.

Cinque minuti dopo, papà inchiodò. Altri cinquanta metri e sarebbero volati giù da una scogliera.

«Santo cielo!» esclamò mamma. La strada era sparita; al suo posto, sterpaglia e una sporgenza di granito. La Fine della Ter-ra, nel vero senso della parola.

«Eccoci arrivati!» Papà saltò giù dal furgone e chiuse con de-cisione la portiera.

Mamma guardò Leni. Stavano pensando entrambe la stes-sa cosa: in quel posto non c’era nulla se non alberi, fango e una scogliera che, con la nebbia, avrebbe potuto ucciderli. Scesero dal furgone e si strinsero l’una all’altra. Da un punto poco di-stante, probabilmente sotto la scogliera davanti a loro, giunge-va il fragore delle onde.

«Visto che spettacolo?» Papà spalancò le braccia come se voles-se stringere tutto quanto. Sembrava che stesse crescendo davan-ti ai loro occhi, come un albero che allargava i rami e diventava possente. A lui piaceva davvero il nulla che lo circondava, quel vuoto sconfinato. Era proprio per questo che era venuto fin lì.

L’accesso alla loro proprietà era costituito da una striscia stretta di terra con strapiombi su entrambi i lati, le cui basi era-no flagellate dall’oceano. Leni pensò che un lampo o un terre-moto avrebbe potuto staccare quella porzione di terreno dalla terraferma e mandarla alla deriva, come una fortezza galleg-giante su un’isola.

«Questa è la strada d’accesso a casa nostra» disse papà.

42

«Strada?» ripeté mamma fissando il sentiero fra gli alberi. Sembrava inutilizzato da anni, considerato che vi erano cre-sciuti alcuni ontani dal tronco sottile.

«Bo è stato lontano per molto tempo. Dovremo sgomberar-la dalla nuova vegetazione, ma per ora andremo a piedi» ri-spose papà.

«A piedi?» ripeté mamma.Lui cominciò a scaricare il furgone. Mentre Leni e mamma

rimanevano a scrutare fra gli alberi, papà distribuì l’indispen-sabile in tre zaini. «Okay, si va» dichiarò infine.

Leni fissò gli zaini con espressione incredula.«Qui, Peldicarota» esclamò papà sollevandone uno che sem-

brava grosso come una Buick.«Vuoi che porti quel coso?» domandò Leni.«Sì, se vuoi avere del cibo e un sacco a pelo una volta raggiunta

la casa.» Fece un largo sorriso. «Forza, Peldicarota. Puoi farcela.»Leni lasciò che papà le sistemasse lo zaino sulle spalle. Si sen-

tiva come una tartaruga con un guscio gigante. Se fosse caduta, non sarebbe mai riuscita a rialzarsi. Si spostò lateralmente con estrema cautela mentre papà aiutava mamma con il suo zaino.

«Okay, famiglia Allbright» annunciò papà mettendosi il suo zaino sulle spalle. «Andiamo a casa!»

Si incamminò, dondolando le braccia al ritmo dei suoi pas-si. Leni sentiva i suoi vecchi stivali militari che scricchiolava-no e scivolavano sul terreno fangoso. Fischiettava, come Gio-vannino Semedimela.

Mamma gettò uno sguardo carico di desiderio al furgone. Poi si girò verso Leni e le rivolse un sorriso, che però a Leni non parve un’espressione di felicità, quanto piuttosto di terro-re. «Okay, allora. Andiamo.»

Leni prese la mano di mamma.Attraversarono una terra ombrosa e fitta d’alberi, lungo uno

stretto sentiero tortuoso. Sentivano il mare infrangersi tutt’in-torno a loro. Più avanzavano, più il suono delle onde si attenua-va e la terra si espandeva. Più alberi, più terreno, più ombra.

«Oddio» fece mamma dopo un po’. «Quanta strada dobbia-mo fare ancora?» Inciampò in una roccia e cadde pesantemen-te a terra.

«Mamma!» Leni si chinò d’istinto verso di lei e fu trascina-

43

ta a terra dal peso dello zaino. Il fango che le riempì la bocca la costrinse a sputare.

Papà fu accanto a loro in un attimo e le aiutò ad alzarsi. «Qui, ragazze, aggrappatevi a me.» E si rimisero in marcia.

Gli alberi, addossati gli uni agli altri, gareggiavano per con-quistarsi un po’ di spazio e rendevano il sentiero cupo e buio. La luce del sole si insinuava tra le fronde, cambiando colore e intensità man mano che avanzavano. Il terreno coperto di li-cheni era così molle che sembrava di camminare su un tappe-to di marshmallow. In un istante, Leni si accorse di essere im-mersa nell’oscurità. Non sembrava che stesse tramontando il sole, ma che stesse sorgendo il buio. Come se lì il buio fosse l’ordine naturale.

Incespicando, con i rami che gli sbattevano in faccia, conti-nuarono ad avanzare sul terreno spugnoso; poi, finalmente, il mondo tornò a essere illuminato, e sbucarono in uno spiazzo d’erba alta fino alle ginocchia e fiori selvatici. Scoprirono che i loro quaranta acri erano una penisola: un’enorme impronta digitale di terra erbosa sospesa sull’acqua che la circondava su tre lati, con una piccola spiaggia semicircolare al centro. Lì, l’ac-qua era calma, serena.

Leni procedette barcollando in quello spiazzo, si tolse lo zai-no e lo lasciò cadere per terra. Mamma la imitò.

Ed eccola lì, la casa di cui erano venuti a prendere posses-so. Una piccola abitazione fatta di tronchi di legno anneriti dal tempo, con un tetto spiovente coperto di muschio e decine di teschi di animali sbiancati. Sul davanti, la veranda marcescen-te era ingombra di sedie di plastica ammuffite. Verso sinistra, fra la casetta e gli alberi, si trovavano recinti fatiscenti per ani-mali e un pollaio diroccato.

Ovunque, sparpagliati tra l’erba alta, c’erano rottami: una grossa catasta di barre di legno, fusti di benzina, rotoli di filo metallico rossastro, un’antiquata macchina di legno per il bu-cato con uno strizzatoio a manovella.

Papà si piazzò le mani sui fianchi, buttò la testa all’indietro e ululò come un lupo. Quando smise e calò di nuovo il silenzio, trascinò mamma fra le sue braccia, facendole fare una piroetta.

La lasciò andare e mamma barcollò all’indietro; stava riden-do, ma c’era una specie di terrore nei suoi occhi. La casa sembra-

44

va un posto in cui soltanto un vecchio eremita sdentato avreb-be scelto di vivere, e per di più era piccola.

Avrebbero vissuto stipati in una sola stanza?«Guardate» disse papà con un ampio gesto del braccio. Di-

stolsero lo sguardo dalla casa e lo volsero verso il mare. «Quel-la è Otter Cove.»

A quell’ora tarda del pomeriggio la penisola e l’oceano sem-bravano risplendere dall’interno, come la terra incantata di una fiaba. Leni non aveva mai visto colori tanto accesi. Le onde che lambivano la spiaggia di ciottoli si lasciavano dietro una patina luccicante. Sulla riva opposta, le montagne erano di un colore viola deciso e intenso alla base e di un bianco candido sulle cime.

La spiaggia sotto la casa – la loro spiaggia – era un riccio-lo di ciottoli grigi e lucenti, bagnato da una tranquilla risacca schiumosa. Una rampa di gradini traballanti disposti a zigzag conduceva dal prato erboso alla spiaggia. Il legno era ingrigi-to dagli anni e annerito dalla muffa; una rete metallica copriva ogni gradino. La scala aveva un’aria fragile, come se un vento un po’ troppo forte potesse distruggerla.

In quel momento, con la bassa marea, il fango rivestiva ogni cosa e fluiva lungo la riva, che era orlata di alghe e laminaria. Sulle rocce si scorgevano gruppi di cozze nere e lucide.

Leni ricordò di quando suo padre le aveva raccontato che i mascheretti nella parte settentrionale della baia di Cook crea-vano onde così alte da poterle cavalcare; anche le maree erano estreme lassù: nel mondo, solo la baia di Fundy le superava in altezza. Tuttavia Leni non aveva capito realmente la portata di quel fenomeno prima di vedere con i propri occhi fino a quale gradino della scala poteva arrivare l’acqua. La baia doveva es-sere meravigliosa con l’alta marea, ma ora che era bassa e c’era fango dappertutto, Leni comprese quali erano le implicazio-ni: con la bassa marea, la proprietà era inaccessibile via mare.

«Forza» disse papà. «Andiamo a vedere la casa.»Prese Leni per mano e fece strada a lei e a mamma fra l’erba

e i fiori selvatici, oltre le varie cianfrusaglie, tra cui barili rove-sciati, pile di bancali di legno, vecchi frigo portatili e trappole per granchi rotte. Le zanzare la pungevano, succhiando sangue e diffondendo un sonoro ronzio.

Sui gradini della veranda, mamma esitò. Papà mollò la mano

45

di Leni, salì saltellando i gradini cadenti e aprì la porta d’in-gresso per poi sparire dentro casa.

Mamma rimase ferma un momento e respirò a fondo. Si die-de una forte pacca sul collo, lasciandosi dietro una macchia di sangue. «Be’, non è quello che mi aspettavo.»

«Nemmeno io» ribatté Leni.Seguì un altro lungo silenzio. «Su, andiamo» la esortò poi

mamma sottovoce.La prese per mano mentre salivano i gradini pericolanti ed

entravano nella casa buia.La prima cosa che Leni notò fu l’odore. Escrementi. Qualche animale (o almeno sperava che si trat-

tasse di animali) l’aveva fatta dappertutto. Leni si coprì la boc-ca e il naso con la mano.

La casa era piena di ombre, sagome e forme scure. Le ragna-tele che penzolavano dalle travi sembravano gomitoli. La pol-vere era così tanta che si faticava a respirare e, dal momento che il pavimento era un tappeto di insetti morti, ogni passo produ-ceva uno scricchiolio.

«Che schifo» disse Leni.Mamma aprì le tende sporche e la luce del sole si riversò nel-

la stanza, densa di granelli di polvere.Una volta dentro, l’abitazione si rivelò più grande di quanto

sembrasse dall’esterno. Le tavole di compensato grezzo diver-se l’una dall’altra, che erano state inchiodate a terra per realiz-zare il pavimento, componevano un motivo che ricordava una coperta patchwork. Alle pareti di tronchi scortecciati erano ap-pese trappole per animali, canne da pesca, ceste, padelle, secchi d’acqua e reti. La cucina, se la si poteva definire tale, occupava un angolo della stanza principale. Leni vide un vecchio fornel-lo da campeggio e un lavandino senza rubinetto con sotto una tendina. Su un bancone di legno era posato un vecchio apparec-chio da radioamatore, che probabilmente risaliva alla Seconda guerra mondiale, coperto di polvere. La stanza era dominata da una stufa a legna nera collocata al centro, con il tubo di metallo che si innalzava verso il soffitto come un dito di latta snodato puntato verso il cielo. Un divano logoro, una cassa di legno ro-vesciata con la scritta BLAZO sul fianco e un tavolino pieghevole con quattro sedie di metallo costituivano l’unico arredamento.

46

Una scala stretta e ripida fatta di tronchi conduceva a un sotto-tetto con un lucernario, mentre sulla sinistra una tenda di perli-ne dai colori psichedelici riempiva lo stretto vano di una porta.

Leni scostò le perline impolverate ed entrò nella stanza, gran-de praticamente quanto il materasso macchiato e bozzoluto ap-poggiato per terra. Anche lì c’erano oggetti appesi a ganci alle pareti. Nella stanza aleggiava un vago odore di escrementi di animali e polvere di vecchia data.

Leni si tenne la mano sulla bocca per timore di vomitare men-tre tornava in soggiorno (crac, crac sugli insetti morti). «Dov’è il bagno?»

Mamma sbarrò gli occhi, si diresse verso la porta d’ingresso, la spalancò e corse fuori.

Leni la seguì sul pavimento ricurvo della veranda e giù per i gradini mezzi rotti.

«Là» rispose mamma indicando un piccolo edificio di legno circondato dagli alberi. Lo si riconosceva dalla mezzaluna in-tagliata sulla porta.

Un bagno esterno.Un bagno esterno.«Oh, merda» sussurrò mamma.«Nel vero senso della parola» disse Leni. Si appoggiò a sua

madre. Sapeva come si sentiva mamma in quel momento, quin-di doveva essere forte. Era così che facevano, loro due. Si da-vano il turno a essere forti. Era così che avevano superato gli anni della guerra.

«Grazie, bambina mia. Ne avevo bisogno.» Mamma cinse le spalle di Leni con un braccio e la attirò a sé. «Andrà tutto bene, vero? Non ci serve la televisione, e nemmeno l’acqua corrente. O l’elettricità.» Concluse la frase con una voce acuta, stridula, che suonava disperata.

«Riusciremo ad ambientarci, vedrai» disse Leni sforzandosi di apparire sicura anziché preoccupata. «E stavolta lui sarà felice.»

«Lo credi davvero?»«Lo so.»

47

Il mattino seguente si rimboccarono le maniche e si misero al la-voro. Leni e mamma pulirono casa, spazzarono, sfregarono e la-varono. Scoprirono che il lavandino era “asciutto” (non c’era ac-qua corrente), per cui l’acqua doveva essere portata in casa con il secchio da un fiumiciattolo poco distante e bollita prima di po-terla bere oppure utilizzare per cucinare o lavarsi. Non c’era elet-tricità, ma luci a propano appese alle travi e appoggiate a pia-ni di compensato. Sotto la casa c’era un seminterrato di almeno due metri e mezzo per tre, con una sfilza di mensole imbarca-te e polverose, piene zeppe di barattoli vuoti e sudici e di ceste ammuffite. Pulirono anche tutto il seminterrato, mentre papà si occupava di sgomberare il vialetto d’accesso in modo da riusci-re a portare in casa il resto della loro roba con il furgone.

Il secondo giorno (che, per la cronaca, durò un’eternità, vi-sto che il sole non voleva saperne di tramontare) erano ormai le dieci di sera quando smisero di lavorare.

Papà accese un falò sulla spiaggia – la loro spiaggia – e si se-dettero tutti e tre intorno alle fiamme su alcuni tronchi cadu-ti a mangiare sandwich al tonno e bere Coca-Cola calda. Papà trovò cozze e vongole, e mostrò loro come aprirle. Divorarono ciascuno di quei morbidi molluschi in un sol boccone.

La notte non scese. Il cielo divenne di un intenso color lavan-da, senza stelle. Leni guardò di là dalle fiamme arancioni che danzavano e gettavano scintille verso l’alto, scoppiettando come una musica, e vide i suoi genitori stretti l’uno all’altra, avvolti in una coperta di lana, la testa di mamma sulla spalla di papà,

4

48

la mano di papà amorevolmente posata sulla coscia di mam-ma. Leni scattò una foto.

Al flash e al rumore della Polaroid, papà alzò la testa e sorri-se. «Saremo felici qui, Peldicarota. Lo senti anche tu?»

«Sì» rispose lei, e per la prima volta in vita sua lo credeva davvero.

Leni fu svegliata dal rumore di qualcuno – o qualcosa – che pic-chiava contro la porta di casa. Uscì svelta dal sacco a pelo e lo spinse da parte, rovesciando la sua pila di libri nella fretta. Di sotto, sentì le perline frusciare e il tonfo dei passi di mamma e di papà che correvano alla porta. Leni si vestì in un attimo e si precipitò giù per la scala.

In cortile c’era Large Marge in compagnia di altre due donne; dietro di loro Leni vide una moto da cross arrugginita, sdraia-ta su un fianco nell’erba con accanto un quad carico di rete me-tallica arrotolata.

«Salve, famiglia Allbright!» esclamò raggiante Large Marge agitando la mano delle dimensioni di un piatto. «Ho porta-to un paio di amiche» disse indicando le due donne che erano con lei. Una, che sembrava un folletto, era così minuta da po-ter essere scambiata per una bambina, e aveva lunghi capelli grigi che assomigliavano a stelle filanti spray; l’altra era alta e magra. Indossavano tutte e tre camicie di flanella e jeans mac-chiati, infilati dentro stivali marroni di gomma alti fino alle gi-nocchia. Ciascuna di loro aveva in mano un attrezzo: una mo-tosega, un punteruolo e un’accetta.

«Siamo venute per darvi una mano a sistemarvi» annunciò Large Marge. «E vi abbiamo portato un po’ di cose che vi fa-ranno comodo.»

Leni vide suo padre accigliarsi. «Credete che siamo degli in-capaci?»

«Siamo abituati così da queste parti, Ernt» ribatté Large Marge. «Credetemi, per quanto possiate aver letto e studiato, non sare-te mai abbastanza preparati al vostro primo inverno in Alaska.»

Il folletto fece un passo avanti. Era una donna piccola e ma-gra, con un naso così affilato che avrebbe potuto affettare del pane. Un paio di guanti di pelle le spuntava dalla tasca della camicia. A dispetto della sua figura esile, aveva decisamente

49

l’aria di una che sapeva il fatto suo. «Io sono Natalie Watkins. Large Marge mi ha detto che non siete molto informati su come funziona la vita quassù. Anch’io ero così dieci anni fa. Mi sono trasferita qui per amore. Un classico. Ho perduto l’amore e ho trovato la mia vita. Adesso ho una barca da pesca tutta mia. Capisco bene il sogno che vi ha spinti fin qui, ma non è suffi-ciente. Dovrete imparare in fretta.» Natalie si infilò un paio di guanti gialli. «Non ho mai incontrato un altro uomo cui vales-se la pena di legarmi. Lo conoscete il detto sulle probabilità di trovare un uomo in Alaska, no? Le buone occasioni non sono rare, ma gli uomini buoni sono una rarità.»

La donna più alta aveva una treccia biondo scuro che le ar-rivava quasi ai fianchi e occhi talmente chiari che sembravano dello stesso colore del cielo sbiadito. «Benvenuti a Kaneq. Io sono Geneva Walker. Gen, Genny, la Generatrice, chiamatemi pure come volete.» Quando sorrise, le si formarono delle fos-sette sulle guance. «La mia famiglia è originaria di Fairbanks, ma io mi sono innamorata della terra di mio marito, quindi ho scelto di rimanere. Vivo qui da vent’anni.»

«Avete bisogno almeno di una serra e di un deposito antiorso» dichiarò Large Marge. «Il vecchio Bo aveva grossi progetti per questo posto quando l’ha comprato, ma poi è partito per la guerra... e per di più era un’autorità assoluta in fatto di cose lasciate a metà.»

«Un deposito anti che?» fece papà. Large Marge annuì bruscamente. «Si tratta di un piccolo edi-

ficio su pali. Ci si conserva la carne per tenerla al riparo dagli orsi, che in questo periodo dell’anno sono affamati.»

«Vieni, Ernt» disse Natalie raccogliendo la motosega ai suoi piedi. «Ho qui una sega portatile. Tu abbatti gli alberi e io ne faccio delle tavole. L’essenziale prima di tutto, giusto?»

Papà tornò in casa, si mise il gilet imbottito e si incamminò verso il bosco con Natalie. Di lì a poco, Leni udì il ronzio di una sega e il tonfo di un’ascia che si conficcava nel legno.

«Io comincio a darmi da fare con la serra» annunciò Geneva. «Bo dovrebbe aver lasciato un groviglio di tubi di plastica da qualche parte...»

Large Marge si avvicinò a Leni e a mamma.Si alzò un vento che raffreddò l’aria in un batter d’occhio.

50

Mamma incrociò le braccia. Stava sicuramente congelando, con la sua maglietta dei Grateful Dead e i jeans a zampa. Una zan-zara le si posò sulla guancia e lei si diede uno schiaffo, lascian-dosi una macchia di sangue sulla pelle.

«Le nostre zanzare sono feroci» disse Large Marge. «La pros-sima volta vi porterò del repellente.»

«Abiti qui da molto?» domandò mamma.«Da dieci anni, i migliori della mia vita» rispose Large Marge.

«Vivere nel bush è una bella fatica, ma non esiste nulla di me-glio del sapore del salmone che hai pescato con le tue mani al mattino, cosparso di burro preparato con la tua panna fresca. Qui non c’è nessuno che ti dica cosa fare o come farlo. Ciascu-no sopravvive a modo suo. Per chi è abbastanza tosto, è il pa-radiso in Terra.»

Leni fissò quella donna dall’aspetto rozzo con una specie di soggezione. Non aveva mai visto una donna così alta o dall’aria così forte. Large Marge sembrava in grado di abbattere un ce-dro possente, caricarselo sulle spalle e continuare a camminare.

«Avevamo bisogno di ricominciare da capo» disse mamma sorprendendo Leni. Era il genere di verità nuda e cruda che mamma tendeva a evitare.

«È stato in Vietnam?»«Prigioniero di guerra. Da cosa l’hai capito?»«Si vede. E poi... Bo vi ha lasciato questo posto.» Large Marge

gettò uno sguardo fugace verso sinistra, dove papà e Natalie stavano abbattendo gli alberi. «È cattivo?»

«N-no» rispose mamma. «Certo che no.»«Flashback? Incubi?»«Non ne ha avuto nemmeno uno da quando siamo partiti

per il Nord.»«Sei ottimista» commentò Large Marge. «È un buon inizio.

Bene, è meglio che ti cambi la maglietta, Cora. Gli insetti im-pazziranno con tutta quella pelle bianca scoperta.»

Mamma annuì e si girò, tornando verso casa.«E tu, qual è la tua storia, signorina?» chiese Large Marge a Leni.«Io non ho nessuna storia.»«Tutti ce l’hanno. Magari la tua comincerà quassù.»«Magari.»«Cosa sai fare?»

51

Leni si strinse nelle spalle. «Mi piace leggere e scattare foto-grafie.» Indicò la macchina fotografica che portava appesa al collo. «Nulla che possa esserci utile.»

«Allora imparerai» disse Large Marge. Si avvicinò a Leni, chi-nandosi per sussurrarle qualcosa all’orecchio con aria complice. «Questo posto è magico, tesoro. Devi solo essere pronta ad ac-coglierne la magia. Capirai cosa intendo. Ma è anche pieno di insidie, non dimenticarlo mai. Se non sbaglio fu Jack London ad affermare che ci sono cento modi per morire in Alaska. Sta’ in guardia.»

«Da cosa?»«Dal pericolo.»«Da dove arriverà? Dal clima? Dagli orsi? Dai lupi? Che altro?»Large Marge guardò di nuovo verso papà e Natalie in fondo

al cortile. «Può arrivare da qualunque direzione. Con il nostro clima e l’isolamento, alcune persone perdono la testa.»

Prima che Leni potesse domandare altro, mamma tornò con addosso un paio di jeans e una felpa, pronta per lavorare.

«Cora, puoi preparare del caffè?» domandò Large Marge.Mamma scoppiò a ridere e diede un colpetto con il fianco a

Leni. «Be’, Large Marge, pare che tu abbia trovato l’unica cosa che so davvero fare.»

Large Marge, Natalie e Geneva lavorarono tutto il giorno in-sieme a Leni e ai suoi genitori. Le tre donne del posto faticava-no in silenzio, comunicando a suon di borbottii, cenni del capo e dita puntate. Natalie mise la motosega dentro una specie di gabbia e tagliò da sola i tronchi che papà aveva abbattuto, ri-cavandone delle tavole. Ogni albero caduto lasciava spazio a un’altra lama di luce.

Geneva insegnò a Leni a segare la legna, piantare chiodi e costruire un orto rialzato. Insieme iniziarono ad assemblare la struttura di tubi di plastica e tavole di legno che sarebbe di-ventata la serra. Leni aiutò Geneva a trasportare un enorme e pesantissimo rotolo di fogli di plastica che avevano trovato nel pollaio distrutto. Lo lasciarono cadere a terra.

«Caspiterina» esclamò Leni ansimando. Aveva la fronte im-perlata di sudore e i capelli ricci che le ricadevano flosci lun-go i lati del viso arrossato. Tuttavia cominciare a intravedere la

52

struttura di un orto la colmò di orgoglio e determinazione. Non vedeva l’ora di piantare le verdure di cui si sarebbero nutriti.

Mentre lavoravano, Geneva le spiegò quali verdure semina-re e come raccoglierle, sottolineando quanto sarebbero state im-portanti una volta sopraggiunto l’inverno.

“Inverno” era una parola che quelle donne ripetevano spes-so. Sebbene fosse solo maggio, quindi quasi estate, la gente del posto era già concentrata sull’inverno.

«Riprendi fiato, tesoro» disse alla fine Geneva alzandosi in piedi. «Devo andare al bagno.»

Leni uscì barcollando dalla futura serra e trovò sua madre da sola, con una sigaretta in una mano e una tazza di caffè nell’altra.

«Mi sembra di essere caduta nella tana del coniglio» disse mamma. Accanto a lei, sul tavolino pieghevole malfermo che avevano trovato in casa, c’erano i resti del pranzo preparato da mamma: della pasta biscotto tagliata a pezzi e mortadella fritta.

Si sentiva odore di legno bruciato, fumo di sigaretta e legna appena tagliata, e nell’aria risuonavano il ronzio della moto-sega, il tonfo delle tavole che cadevano l’una sopra l’altra e il tamburellio del martello che piantava i chiodi.

Leni vide Large Marge venire verso di loro. Sembrava stan-ca e sudata, eppure stava sorridendo. «Non è che potrei avere un sorso di quel caffè?»

Mamma le porse la sua tazza.Fissarono tutte e tre la proprietà che si trasformava davan-

ti ai loro occhi.«Il tuo Ernt è un gran lavoratore» commentò Large Marge.

«Ci sa fare. Ha detto che suo padre possedeva un ranch.»«Ah-ah. Nel Montana» rispose mamma.«Ottima notizia. Posso vendervi un paio di capre da ripro-

duzione non appena avrete riparato i recinti. Vi farò un buon prezzo. Le capre vi serviranno per avere latte e formaggio. E potrete imparare un sacco di roba dalla rivista “Mother Earth News”. Ci penso io a portarvene un po’ di numeri.»

«Grazie» rispose mamma.«Geneva ha detto che è stato un piacere lavorare con Leni.

Molto bene.» La pacca che le assestò sulla spalla fu talmente forte che Leni incespicò in avanti. «Però, Cora, ho dato un’oc-chiata alle vostre provviste, spero che non ti dispiaccia. Non

53

sono sufficienti, neanche lontanamente. Come siete messi con i soldi?»

«Piuttosto male.»Large Marge annuì mentre sul suo viso comparivano solchi

severi. «Sai sparare?»Mamma scoppiò a ridere.Large Marge restò impassibile. «Dico sul serio, Cora. Sai spa-

rare?»«Con un fucile?» domandò mamma.«Sì, con un fucile» rispose Large Marge.La risata di mamma si spense. «No» replicò spegnendo la si-

garetta su una roccia.«Bene, non siete certo i primi cheechako che arrivano fin quas-

sù con un sogno e senza un piano decente.»«Cheechako?» intervenne Leni.«Sì, novellini. In Alaska non ha alcuna importanza ciò che

eravate prima; qui conta soltanto ciò che diventate. Siete in una terra selvaggia, ragazze. Questa non è una favola né una fiaba. È la realtà. Ed è tosta. Presto arriverà l’inverno e, credetemi, un inverno così non l’avete mai provato. I più deboli saranno ab-battuti, e in fretta. Dovete imparare a sopravvivere. Dovete im-parare a sparare, a uccidere per nutrirvi e a proteggervi. Qui non siete in cima alla catena alimentare.»

Natalie e papà vennero verso di loro. Natalie, con la motose-ga in mano, si stava asciugando la fronte con una bandana ap-pallottolata. Era davvero esile, alta poco più di Leni; sembrava impossibile che riuscisse a trasportare quell’attrezzo pesante come se niente fosse.

Arrivata accanto a mamma, si fermò e appoggiò l’estremità arrotondata della motosega sulla punta dei suoi stivali di gom-ma. «Bene, io devo andare a dar da mangiare alle mie bestie. Ho lasciato a Ernt un bello schizzo per il deposito antiorso.»

Geneva li raggiunse a grandi passi. Aveva i capelli, la faccia e il davanti della camicia macchiati di terra nera. «Leni ha il giusto atteggiamento verso il lavoro. Buon per voi, genitori.»

Papà mise un braccio intorno alle spalle di mamma. «Non potrò mai ringraziarvi abbastanza» disse lui.

«Sì, il vostro aiuto significa moltissimo per noi» aggiunse mamma.

54

Il sorriso che apparve sulle labbra di Natalie la fece assomi-gliare ancora di più a un elfo. «È un piacere, Cora. Ricorda: sta-sera, quando andate a dormire, chiudete la porta e non uscite fino a domattina. Se vi serve un vaso da notte, prendetene uno all’emporio di Large Marge.»

Leni si rese conto di essere rimasta con la bocca leggermente aperta. Volevano che facesse pipì in un secchio?

«Gli orsi sono pericolosi in questo periodo dell’anno. So-prattutto quelli neri. A volte attaccano soltanto perché possono farlo» spiegò Large Marge. «E poi ci sono i lupi, gli alci e Dio sa cos’altro. Qui non si esce di casa senza un fucile, nemme-no per andare al bagno.» Marge prese la motosega di Natalie e se la mise sulla spalla come se fosse un bastone di abete bal-samico. «Qui non c’è la polizia e nemmeno il telefono, se non in città, quindi, Ernt, dovrai insegnare alle tue donne a spara-re, e in fretta. Ti fornirò un elenco delle provviste minime di cui avrete bisogno prima di settembre. Sicuramente dovrete abbattere un alce in autunno. È meglio cacciarli quand’è sta-gione, ma... insomma, l’importante è avere carne a sufficien-za nella ghiacciaia.»

«Ma noi non abbiamo una ghiacciaia» fece notare Leni.Per qualche ragione, le donne scoppiarono a ridere.Papà annuì gravemente. «Ricevuto.»«Okay, ci si vede» dissero le donne all’unisono. Salutando,

si diressero ai loro veicoli e si allontanarono lungo il sentiero che portava alla strada principale. Nel giro di pochi attimi era-no sparite.

Nel silenzio che seguì, un vento freddo fece frusciare le cime degli alberi sopra di loro. Un’aquila passò nel cielo, con un pe-sce argentato grande quanto uno skateboard che si dimenava fra i suoi artigli. Leni notò il collare di un cane penzolare dai rami più alti di un sempreverde. Probabilmente un’aquila ave-va preso un cagnolino e se l’era portato via. Era possibile che un’aquila ghermisse una ragazza magra come un grissino?

Stare in guardia, imparare a sparare.Vivevano su un appezzamento di terra che con la bassa ma-

rea non era accessibile via mare, su una penisola popolata da una manciata di persone e centinaia di bestie selvatiche, con un clima così rigido da lasciarci la pelle. Non c’erano né una sta-

55

zione di polizia né la linea telefonica, e nemmeno qualcuno che potesse sentire le grida di un altro essere umano.

Per la prima volta, Leni capì davvero ciò che intendeva suo padre quando parlava di una terra remota.

Tre giorni dopo Leni fu svegliata da un profumino di pancetta fritta. Quando si sedette, sentì un dolore correrle lungo le gam-be e le braccia.

Aveva male dappertutto. La pelle le prudeva per via delle punture di zanzara. Tre giorni (e lassù erano infiniti, visto che la luce persisteva fin quasi a mezzanotte) di duro lavoro aveva-no rivelato l’esistenza di muscoli che prima di allora Leni non sapeva nemmeno di possedere.

Uscì dal sacco a pelo e si infilò i jeans a vita bassa. (Aveva dormito con la felpa e le calze.) Avvertiva in bocca un sapore disgustoso: la sera prima si era dimenticata di lavarsi i den-ti. Stava già cominciando a fare economia di quell’acqua che non usciva dai rubinetti, ma doveva essere portata in casa con un secchio.

Scese la scala.Mamma era nella nicchia della cucina, davanti al fornello da

campeggio, e stava versando la farina d’avena in una pento-la d’acqua bollente. La pancetta sfrigolava e scoppiettava den-tro una delle casseruole nere di ghisa che avevano trovato ap-pese a un gancio.

Leni sentì il rumore distante di un martello. Quel battito ritmico era già diventato la colonna sonora delle loro vite. Papà lavorava dall’alba al tramonto, il che equivaleva a molte ore. Aveva già riparato il pollaio e sistemato i recinti delle capre.

«Devo andare in bagno» disse Leni.«Divertiti» le rispose mamma.Leni si mise gli scarponi e uscì. Il cielo era limpido, e i colo-

ri così intensi che il mondo sembrava quasi irreale: erba verde e ondeggiante nella radura, fiori selvatici viola, i gradini grigi che scendevano zigzagando verso un mare blu che inspirava ed espirava lungo la spiaggia di ciottoli. Oltre tutto questo, un fiordo di una magnificenza incredibile, scolpito millenni prima dai ghiacciai. Leni sarebbe voluta tornare indietro a prendere la sua Polaroid per scattare, di nuovo, qualche foto del cortile,

56

ma stava già imparando a non sprecare la pellicola. Procurar-sene altra non sarebbe stato facile lassù.

Il bagno esterno si trovava nei pressi della scogliera a stra-piombo, in mezzo a un boschetto di abeti rossi dal tronco sotti-le e affacciato sulla costa rocciosa. Sul copriasse qualcuno aveva dipinto la scritta I NEVER PROMISED YOU A ROSE GARDEN, accom-pagnata da adesivi floreali.

Leni alzò il coperchio usando la manica per proteggersi le dita e badò bene a distogliere lo sguardo dal buco mentre si sedeva.

Quando ebbe finito, tornò verso casa. Un’aquila di mare le passò sopra la testa, descrivendo un ampio cerchio per poi sa-lire verso l’alto e allontanarsi. Leni vide la carcassa di un pe-sce enorme fra i rami più alti di un albero, che rifletteva la luce del sole come una decorazione natalizia. Doveva essere sta-ta un’aquila a lasciarla cadere lì, dopo aver tolto tutta la car-ne dalle ossa. Alla sua destra, il deposito era quasi ultimato: quattro tronchi scortecciati che portavano a una piattaforma di legno di un metro per uno sospesa a cinque metri da terra. Sotto c’erano sei aiuole vuote rialzate, coperte da una strut-tura simile a una crinolina di tubi e legno, che attendeva una copertura di plastica per diventare una serra.

«Leni!» esclamò suo padre andando verso di lei con i suoi so-liti passi lunghi ed esuberanti. Aveva i capelli arruffati, sporchi e impolverati, macchie d’olio sui vestiti e le mani sudicie. Un velo di segatura rosa gli ricopriva i capelli e la faccia. La salutò con la mano, sorridendo.

La gioia dipinta sul volto la fece arrestare di colpo. Non ricor-dava quand’era stata l’ultima volta che l’aveva visto così con-tento. «Per Dio, è meraviglioso qui» disse papà.

Pulendosi le mani su una bandana rossa che teneva appallot-tolata nella tasca dei jeans, le mise un braccio intorno alle spal-le ed entrò in casa insieme a lei.

Mamma stava giusto servendo la colazione.Dal momento che il tavolino pieghevole traballava all’inve-

rosimile, rimasero in piedi nel soggiorno a mangiare il porridge dalle loro ciotole da campeggio di metallo. Papà ne prese una cucchiaiata mentre stava ancora masticando la pancetta. Ulti-mamente sembrava che nutrirsi fosse una perdita di tempo per lui. Fuori casa c’era moltissimo da fare.

57

Subito dopo colazione, Leni e mamma ricominciarono a pu-lire. Avevano già eliminato parecchi strati di polvere, sporcizia e insetti morti. Tutti i tappeti erano stati appesi alla ringhiera della veranda e battuti con scope che sembravano altrettanto sporche. Mamma tirò giù le tende e le portò fuori, mettendole in uno dei grandi fusti di benzina nel cortile. Leni andò a pren-dere acqua al fiume e riempirono l’antica macchina per il bu-cato, aggiungendovi del sapone. Dopodiché Leni rimase per un’ora a sudare sotto il sole, mentre girava e rigirava le tende nell’acqua saponosa. Poi portò il pesante ammasso di tessu-to inzuppato in un fusto pieno d’acqua pulita per sciacquarlo.

Ora stava passando le tende impregnate d’acqua nell’anti-quato strizzatoio. Era un lavoro duro, massacrante, sfibrante.

Leni sentiva mamma cantare nel cortile, non molto distan-te da lei, mentre lavava un altro carico di biancheria nell’acqua saponosa.

Poi udì un motore. Si raddrizzò, massaggiandosi la schiena dolorante. Dapprima sentì dei sassi scricchiolare, del fango schiz-zare... poi dagli alberi spuntò il vecchio furgone Volkswagen, che si fermò nel cortile. Finalmente la strada era sgombra!

Papà suonò il clacson e gli uccelli volarono via dagli alberi, schiamazzando irritati.

Mamma smise di rimestare il bucato e alzò lo sguardo. La bandana che le copriva i capelli era bagnata di sudore, mentre punture di zanzara le disegnavano un reticolo rosso sulle guance chiare. Si riparò gli occhi con la mano. «Ce l’hai fatta!» esclamò.

Papà scese dal furgone e fece cenno a Leni e a mamma di raggiungerlo. «Basta lavorare, famiglia Allbright. Andiamo a farci un giro.»

Leni emise un gridolino di gioia. Era più che pronta a pren-dersi una pausa da quella faticaccia che le stava spezzando la schiena. Raccolse il tessuto strizzato e lo portò alla corda ricur-va per il bucato che aveva teso fra due alberi. Appese le tende ad asciugare.

Leni e mamma stavano ridendo mentre salivano sul vecchio furgone. Avevano già scaricato tutta la loro roba (parecchi viag-gi avanti e indietro cariche di pacchi pesanti); sui sedili erano rimaste soltanto alcune riviste e qualche lattina vuota di Coca.

Papà lottò con la leva del cambio molle e ingranò la prima.

58

Il furgone emise un rumore che ricordava l’accesso di tosse di un anziano e, vibrando, girò intorno al cortile erboso accom-pagnato da un cigolio metallico e dai tonfi delle ruote che fini-vano nelle buche.

Leni riuscì a vedere il vialetto d’accesso che papà aveva sgom-berato. «C’era già» disse lui gridando per farsi sentire al di so-pra del ronzio del motore. «Ci erano cresciuti sopra dei salici. Ho soltanto dovuto liberarlo.»

Era un percorso accidentato, un sentiero appena più largo del furgone. I rami sbattevano contro il parabrezza, graffian-do i fianchi del mezzo. Il loro cartello fu strappato via e volò in alto, rimanendo incastrato fra gli alberi. La strada era fatta più di buche e pietre che non di terra: per il vecchio furgone era un continuo sollevarsi e ricadere. Gli pneumatici scricchiolavano lentamente sopra radici scoperte e rocce di granito sporgenti mentre procedevano nella fitta ombra gettata dagli alberi.

Arrivati in fondo, furono investiti dalla luce del sole e prose-guirono su una vera strada sterrata.

Superarono il cancello di metallo dei Walker e il cartello con scritto BIRDSALL. Leni si protese in avanti, entusiasmata dalla vista dei terreni paludosi e dell’aerodromo che annunciavano l’arrivo alla periferia di Kaneq.

Città! Soltanto pochi giorni prima quel luogo le era sembra-to peggio di un avamposto, ma non occorreva molto tempo nel bush dell’Alaska per rivedere le proprie opinioni. A Kaneq c’era un negozio. Leni avrebbe potuto comprare della pellicola e ma-gari una barretta di cioccolato.

«Reggetevi» disse papà mentre svoltava a sinistra fra gli alberi.«Dove stiamo andando?» domandò mamma.«A ringraziare la famiglia di Bo Harlan. Ho portato un paio

di litri di whisky per suo padre.»Leni guardò fuori dal finestrino sporco. La polvere avvolge-

va tutto in una nebbia. Per diversi chilometri non ci furono al-tro che alberi e scossoni. Di tanto in tanto vedevano un veicolo lasciato a marcire fra l’erba alta sul ciglio della strada.

Non c’erano case né cassette delle lettere, ma soltanto qualche sparuto sentiero sterrato che si tuffava tra gli alberi. Se qualcu-no viveva lì, di sicuro non voleva essere trovato.

La strada era accidentata: due tracce battute di pneumatici

59

su un terreno roccioso e irregolare. Man mano che salivano, gli alberi cominciavano a diventare più fitti, ostruendo sempre di più la luce del sole. Videro il primo cartello dopo circa cinque chilometri: DIVIETO D’ACCESSO. TORNATE INDIETRO. SÌ, PROPRIO VOI. PROPRIETÀ PROTETTA DA CANI E FUCILI. NIENTE HIPPIE.

La strada finiva in cima a una collina con un cartello che reci-tava: CHI PROVA A ENTRARE È UN UOMO MORTO. SE IL PRIMO SPARO NON BASTERÀ, CE NE SARANNO ALTRI.

«Santo cielo» commentò mamma. «Sei sicuro che siamo nel posto giusto?»

Davanti a loro apparve un uomo armato di fucile, che si mise a gambe divaricate. Indossava un cappellino da camio-nista sporco dal quale spuntavano riccioli castani. «Chi siete? Cosa volete?»

«Secondo me è meglio tornare indietro» suggerì mamma.Papà sporse la testa fuori dal finestrino. «Siamo qui per ve-

dere Earl Harlan. Ero un amico di Bo.»L’uomo aggrottò la fronte, poi annuì e si fece da parte.«Non lo so, Ernt» disse mamma. «Ho la sensazione che stia-

mo facendo qualcosa di sbagliato.»Papà armeggiò con la leva del cambio. Il vecchio furgone bor-

bottò per poi avanzare sobbalzando sopra rocce e cumuli di terra.Si addentrarono in un vasto appezzamento di terreno pia-

neggiante e fangoso con qualche chiazza d’erba ingiallita qua e là. Sul limitare del campo, sorgevano tre case... be’, capanni, più che altro. Sembrava fossero stati costruiti con qualunque materiale capitato a tiro: fogli di compensato, plastica ondula-ta e tronchi scortecciati. Uno scuolabus con le tende ai finestri-ni poggiava su cerchioni senza gomme, sprofondato nel fango. Parecchi cani smagriti tiravano all’estremità delle loro catene, ringhiando e abbaiando. Il fuoco acceso dentro alcuni barili dif-fondeva un fumo dall’odore nocivo, di gomma.

Da altre costruzioni di tronchi e dai capanni uscirono diver-se persone che indossavano vestiti sporchi: uomini con teste ra-sate e code di cavallo, e donne con cappelli da cowboy, tutti ar-mati o di fucile o di coltello infilato in un fodero.

Dritto davanti a loro, da una costruzione con il tetto spio-vente, emerse un uomo canuto con una pistola dall’aria anti-quata. Era magrissimo, con una lunga barba bianca e uno stuz-

60

zicadenti in bocca. Avanzò nel terreno fangoso. Nel vederlo, i cani impazzirono, e cominciarono a ringhiare, azzannare l’aria o sdraiarsi per terra. Alcuni salirono in cima alle loro cucce, ab-baiando senza sosta. Il vecchio puntò l’arma contro il furgone.

Papà mise la mano sulla maniglia.«Non scendere» disse mamma afferrandogli il braccio.Papà si liberò dalla sua presa. Recuperò il whisky che ave-

va portato, aprì la portiera e scese nel fango. Lasciò la portie-ra aperta dietro di sé.

«Chi sei?» gridò l’uomo dai capelli bianchi con lo stuzzica-denti che si muoveva su e giù.

«Ernt Allbright, signore.»L’uomo abbassò l’arma. «Ernt? Sei davvero tu? Io sono Earl,

il padre di Bo.»«Sì, sono io.»«Che mi prenda un colpo. E chi c’è lì con te?»Papà si voltò e fece cenno a Leni e a mamma di scendere dal

furgone.«Sì, buona idea» disse mamma aprendo la portiera dal suo lato.Leni la imitò. Quando scese, sentì il fango avvolgere comple-

tamente i suoi scarponi.Nel resto della proprietà, gli altri fissavano la scena, immobili.Papà attirò Leni e mamma verso di sé. «Queste sono mia mo-

glie Cora e mia figlia Leni. Ragazze, lui è Earl, il padre di Bo.»«Tutti mi chiamano Earl il Pazzo» disse l’anziano. Strinse loro

la mano, poi agguantò la bottiglia di whisky e li accompagnò dentro casa sua. «Venite, venite.»

Leni dovette farsi coraggio per entrare in quello spazio buio e angusto. Puzzava di sudore e muffa. C’erano provviste am-monticchiate contro tutte le pareti: viveri, fusti d’acqua e casse di birra, scatoloni pieni di cibo in scatola e pile di sacchi a pelo. Lungo una parete, armi: fucili, coltelli e scatole di munizioni. Ad alcuni ganci erano appese balestre d’altri tempi e mazze.

Earl il Pazzo si lasciò cadere su una sedia fatta con le assi di legno delle casse di carburante Blazo. Aprì la bottiglia di whisky e se la portò alla bocca, bevendo un gran sorso. Poi la porse a papà, che bevve lungamente prima di passarla di nuo-vo a Earl il Pazzo.

Mamma si chinò e prese una vecchia maschera antigas da

61

una scatola che ne era piena. «C-collezioni cimeli di guerra?» domandò con un senso di disagio.

Earl il Pazzo bevve di nuovo, tracannando un’incredibile quan-tità di whisky in un solo sorso. «No. Non sono lì per bellezza. Il mondo è uscito di testa. Bisogna proteggersi. Io sono arrivato quassù nel ’62. L’America continentale era già nel caos. Comu-nisti dappertutto. La crisi dei missili di Cuba ha fatto cagare sot-to tutti quanti. La gente si costruiva rifugi antiaerei nei giardini dietro casa. Io invece ho portato la mia famiglia quassù. Ave-vamo giusto un fucile e un sacco di riso integrale. Pensavamo che nel bush saremmo stati al sicuro e saremmo sopravvissuti all’inverno nucleare che stava arrivando.» Bevve di nuovo e si protese in avanti. «Laggiù le cose non stanno migliorando, anzi. Quello che hanno fatto all’economia... ai nostri poveri ragazzi che sono andati in guerra. Quella non è più la mia America.»

«È ciò che sostengo da anni» intervenne papà. Sul suo viso era comparsa un’espressione che Leni non aveva mai visto. Una specie di ammirazione. Era come se aspettasse di sentire quelle parole da una vita.

«Fuori dell’Alaska» proseguì Earl il Pazzo «la gente si mette in coda per la benzina mentre l’OPEC si sfrega le mani. E pensa-te che la cara vecchia Unione Sovietica si sia dimenticata di noi dopo Cuba? Fareste bene a ripensarci. I negri hanno comincia-to a chiamarsi Pantere Nere e ad alzare i pugni contro di noi, e gli immigrati clandestini ci fregano il lavoro. E la gente come reagisce? Protesta. Si siede. Lancia bombe contro gli uffici po-stali vuoti. Marcia per le strade sollevando dei cartelli. Be’, io no. Io ho un piano.»

Papà si protese in avanti con un luccichio negli occhi. «Quale?»«Siamo preparati. Abbiamo fucili, maschere antigas, frecce,

munizioni. Siamo pronti.»«Non crederai davvero che...» fece per dire mamma.«Oh, sì» la interruppe Earl il Pazzo. «L’uomo bianco sta per-

dendo e la guerra è imminente.» Poi guardò papà. «Tu sai che intendo, vero, Allbright?»

«Certo che lo so. Lo sappiamo tutti. In quanti siete?» doman-dò papà.

Earl il Pazzo bevve un lungo sorso e si asciugò un rivolo di whisky dalle labbra coperte di macchie. Strinse gli occhi umidi,

62

spostando lo sguardo da Leni a mamma. «Ecco, soltanto la no-stra famiglia, ma prendiamo la faccenda molto sul serio. E non ne parliamo agli sconosciuti. L’ultima cosa che vogliamo è che la gente sappia dove ci troviamo quando scoppierà il finimondo.»

Qualcuno bussò alla porta ed Earl il Pazzo disse: «Avanti». Apparve una donna piccola, dal fisico atletico, con addosso un paio di pantaloni mimetici e una maglietta con uno smile giallo. Doveva avere almeno quarant’anni, eppure si era raccolta i ca-pelli in due codini. L’uomo accanto a lei era grosso come un ar-madio, con una lunga coda di cavallo castana e una frangia che gli bersagliava gli occhi. La donna aveva una pila Tupperware in mano e una pistola nella fondina.

«Non fatevi spaventare da mio padre» disse la donna con un ampio sorriso. Quando avanzò, una bimba sui quattro anni con i piedi scalzi e la faccia sporca sgusciò dentro casa accanto a lei. «Io sono Thelma Schill, la figlia di Earl. Bo era mio fratello mag-giore. Questo è mio marito, Ted. Lei è Marybet; tutti la chiamia-mo Bimba.» Thelma posò una mano sulla testa della bambina.

«Io sono Cora» disse mamma porgendole la mano. «E lei è Leni.»Leni fece un sorriso titubante. Ted, il marito di Thelma, la fis-

sò strizzando gli occhi.Il sorriso di Thelma era cordiale, sincero. «Andrai a scuola

lunedì, Leni?»«Perché, c’è una scuola?» domandò lei.«Certo. Non è grande, ma credo che riuscirai a farti qualche

amico. Gli studenti arrivano fin da Bear Cove. Penso che ci sia ancora una settimana di lezioni. Da queste parti la scuola fini-sce presto in modo che i ragazzi possano lavorare.»

«Dov’è?» si informò mamma.«In Alpine Street, appena dietro il locale, ai piedi della collina

della chiesa. Non potete non trovarla. Lunedì mattina alle nove.»«Ci saremo» disse mamma rivolgendo un sorriso a Leni.«Bene. Siamo davvero felici di darvi il benvenuto qui, Cora,

Ernt e Leni.» Thelma li guardò con un’espressione radiosa. «Bo ci ha scritto moltissimo dal Vietnam. Ti voleva un gran bene. Sono tutti ansiosi di conoscerti.» Attraversò la stanza, prese Ernt sottobraccio e lo portò fuori.

Mentre li seguivano, Leni e mamma sentirono Earl il Pazzo

63

alzarsi faticosamente in piedi e borbottare contro Thelma, che gli aveva rubato la scena.

Fuori, un gruppo di persone in abiti logori – uomini, donne, bambini, adolescenti – li stava aspettando, ciascuno con qual-cosa in mano.

«Io sono Clyde» disse un uomo con la barba da Babbo Nata-le e sopracciglia che sembravano tergicristalli. «Il fratello mino-re di Bo.» Porse loro una motosega con la lama protetta da una custodia di plastica arancione. «Ho appena affilato la catena.» Una donna e due giovanotti, entrambi sulla ventina, fecero un passo avanti insieme a due bambine con la faccia imbrattata che avranno avuto sette o otto anni. «Lei è Donna, mia moglie, poi ci sono i gemelli Darryl e Dave e le nostre figlie Agnes e Marthe.»

Non erano in molti, tutti cordiali e accoglienti. Ognuno di loro offrì qualcosa in dono ai nuovi arrivati: un seghetto da fer-ro, un rotolo di corda, fogli di plastica pesante, rotoli di nastro adesivo, un coltello d’argento lucente chiamato ulu che aveva la forma di un ventaglio.

Non c’era nessuno dell’età di Leni. L’unico adolescente, Axle, che aveva sedici anni, quasi non la guardò. Se ne stava in di-sparte da solo, a lanciare coltelli contro il tronco di un albero. Aveva lunghi capelli neri e sporchi, e occhi a mandorla.

«Dovete allestire subito un orto» disse Thelma mentre gli uo-mini si dirigevano lentamente verso uno dei barili con il fuo-co e cominciavano a passarsi la bottiglia di whisky. «Il clima è imprevedibile da queste parti. Certi anni giugno è primave-ra, luglio è estate, agosto è autunno e tutto il resto è inverno.»

Thelma accompagnò Leni e mamma fino a un grande orto. Un recinto fatto di reti da pesca flosce fissate a pali di metallo teneva lontani gli animali.

Le verdure erano per lo più piccole, grumi verdi su monta-gnette di terra scura. Viluppi di qualcosa di disgustoso, simi-le a laminaria, erano posati ad asciugare ai piedi delle reti ac-canto a cumuli di carcasse puzzolenti di pesci, gusci d’uovo e fondi di caffè.

«Sei capace di tenere un orto?» chiese Thelma.«So capire quando un melone è maturo» rispose mamma. «Ti insegno volentieri. Qui la stagione di crescita dura poco,

quindi dobbiamo sfruttarla al massimo.» Afferrò un secchio di

64

metallo ammaccato. «Ho un po’ di patate e cipolle che posso dare a voi. Per quelle c’è ancora tempo. E poi posso darvi qual-che carotina e anche qualche pollo vivo.»

«Oh, davvero, non devi...»«Credimi, Cora, non hai idea di quanto sarà lungo l’inver-

no né di quanto in fretta arriverà. Per gli uomini è un conto, vi-sto che molti di loro partiranno per lavorare al nuovo oleodot-to. Noi madri invece resteremo a casa con il compito di tenere i nostri figli in vita e in salute. Non è sempre facile; ci riusciamo unendo le forze. Ci aiutiamo ogni volta che possiamo. Ci scam-biamo cose. Domani ti mostrerò come inscatolare il salmone. È adesso che bisogna cominciare a riempire il seminterrato di provviste per l’inverno.»

«Mi stai spaventando» confessò mamma.Thelma le posò una mano sul braccio. «Ricordo ancora quan-

do arrivammo quassù da Kansas City. Mia madre non faceva altro che piangere. Morì al nostro secondo inverno qui. Conti-nuo a credere che sperasse di morire. Non sopportava il buio e il freddo. Una donna deve essere una roccia per vivere quassù, Cora. Non si può contare sull’aiuto di nessuno per salvare se stessi e i propri figli. Dovrete essere pronti a salvarvi. E impa-rare in fretta. In Alaska puoi commettere un solo errore. Uno. Il secondo ti ucciderà.»

«Temo che non siamo molto preparati» ammise mamma. «For-se abbiamo già commesso un errore venendo quassù.»

«Ti aiuterò» promise Thelma. «Lo faremo tutti.»

65

Il fatto che ci fosse sempre luce ricaricava in continuazione l’o-rologio interiore di Leni, dandole la strana sensazione di non essere al passo con l’universo, come se in Alaska persino il tem-po – la sola cosa su cui contare – fosse diverso. Era giorno sia quando andava a dormire sia quando si svegliava.

Adesso era lunedì mattina.Alla finestra, Leni cercava di distinguere il proprio riflesso

nel vetro appena pulito. Uno sforzo vano. Troppa luce.Sebbene vedesse soltanto uno spettro di se stessa, sapeva di

non presentarsi bene, nemmeno per l’Alaska.Anzitutto c’erano i suoi capelli, lunghi, ribelli e rossi. Poi la

pelle color latte, dotazione standard di chi aveva i capelli come i suoi, e le lentiggini sul naso che sembravano una spruzzata di peperoncino. Per giunta, le ciglia color cannella non mette-vano certo in risalto il suo tratto migliore, che erano gli occhi verde acqua.

Mamma la raggiunse e le posò le mani sulle spalle. «Sei bel-lissima e sono sicura che ti farai degli amici nella nuova scuola.»

Leni avrebbe voluto trovare conforto in quelle parole già sen-tite, ma in quante occasioni si erano rivelate false? Era stata la nuova arrivata a scuola parecchie volte, e non aveva mai tro-vato un posto in cui si sentisse a proprio agio. Il primo giorno c’era sempre qualcosa che non andava in lei: i capelli, i vesti-ti, le scarpe. Alle medie la prima impressione era importante, e lei l’aveva imparato a sue spese. Era difficile recuperare ter-reno con delle tredicenni dopo aver commesso uno sbaglio in materia di moda.

5

66

«Probabilmente sarò l’unica femmina in tutta la scuola» dis-se sospirando in modo melodrammatico. Non voleva sperare che sarebbe andato tutto bene: era meglio non avere speranze che rimanere delusi.

«Sarai sicuramente la più carina» rispose mamma sisteman-dole i capelli dietro l’orecchio con una dolcezza che ricordò a Leni che, qualunque cosa fosse successa, non sarebbe mai sta-ta sola. Aveva sua madre.

La porta di casa si aprì, portando con sé una folata d’aria fred-da. Papà entrò tenendo in mano due anatre selvatiche, con i col-li spezzati che penzolavano e i becchi che sbattevano contro la sua coscia. Mise il fucile nella rastrelliera accanto alla porta e posò le sue prede sul bancone vicino all’acquaio.

«Ted mi ha portato al suo capanno per la caccia prima dell’al-ba. Stasera anatra!» Scivolò accanto a mamma e le diede un ba-cio sul collo.

Ridendo, lei lo spinse via. «Vuoi del caffè?»Quando mamma andò in cucina, papà si rivolse a Leni. «Sem-

bri triste per essere una che sta andando a scuola.»«Va tutto bene.»«Forse so qual è il problema» disse papà.«Ne dubito» ribatté Leni con un tono di voce che rivelava

tutto il suo sconforto.«Vediamo...» disse papà aggrottando la fronte in modo pla-

teale. La lasciò lì e andò in camera sua. Qualche attimo dopo tornò con un sacco nero della spazzatura e lo posò sul tavolo. «Forse questo ti aiuterà.»

Certo, dei rifiuti erano proprio ciò di cui aveva bisogno.«Aprilo» disse papà. Controvoglia, Leni aprì il sacco.Dentro trovò un paio di jeans a zampa a righe rosso ruggi-

ne e nere, e un maglione di lana color avorio modello pesca-tore che sembrava essersi ristretto rispetto alla sua taglia ma-schile originaria.

“Santo cielo.”Leni non sarà stata un’esperta di moda, ma quelli erano si-

curamente pantaloni da uomo, e il maglione... doveva essere già fuori moda prima che lei nascesse.

Leni incrociò lo sguardo di mamma. Sapevano entrambe che

67

papà ce l’aveva messa davvero tutta, ma aveva fatto un fiasco colossale. A Seattle, uscire di casa vestita così sarebbe equival-so a un suicidio sociale.

«Leni?» fece papà rannuvolandosi, deluso.Lei si sforzò di sorridere. «È perfetto, papà. Grazie.»Lui sospirò e sorrise. «Oh, meno male. Sono stato una vita a

rovistare nei cassonetti.»“L’Esercito della Salvezza.” Quindi papà aveva pianificato

tutto, aveva pensato a lei l’altro giorno quand’erano andati a Homer. Ora quei vestiti orribili sembravano quasi belli.

«Forza, mettili subito» la esortò papà.Lei riuscì in qualche modo a sorridere, poi andò in camera

dei suoi genitori e si cambiò.Il maglione irlandese era troppo stretto e la lana così spessa

che faceva fatica a piegare le braccia.«Sei stupenda» disse mamma.Leni abbozzò un sorriso.Mamma andò verso di lei con un portapranzo di metallo di

Winnie the Pooh. «Thelma ha pensato che ti sarebbe piaciuto.»Con ciò, il destino sociale di Leni era segnato, e non c’era nul-

la che lei potesse fare per cambiarlo.«Bene» disse a suo padre «è meglio che ci diamo una mossa.

Non voglio arrivare tardi.»Mamma la strinse forte e sussurrò: «Buona fortuna».Fuori, Leni salì sul sedile del passeggero del loro furgone

Volkswagen e partirono. Fra uno scossone e l’altro, percorsero il sentiero accidentato, imboccarono la strada principale ver-so la città e superarono l’area che si definiva un aerodromo. Al ponte, Leni gridò: «Ferma!».

Papà frenò e si girò verso di lei. «Cosa c’è?»«Posso continuare a piedi?»Lui la guardò con espressione ferita. «Davvero?»Era troppo nervosa per rassicurarlo. Se c’era una verità co-

mune a tutte le scuole che aveva frequentato era questa: finite le elementari, i genitori dovevano sparire. Le probabilità che ti mettessero in imbarazzo erano altissime. «Ho tredici anni e sia-mo in Alaska; qui bisogna essere tosti. Dài, papà. Ti preeego.»

«Okay, lo faccio per te.»Leni scese dal furgone e si incamminò da sola per la città, pas-

68

sando davanti a un uomo seduto sul ciglio della strada con le gambe incrociate e un’oca in grembo. Mentre superava a passo svelto la tenda sudicia del noleggio di barche da pesca, lo sen-tì dire all’animale: «No, Matilda».

L’edificio scolastico con una sola aula sorgeva su un appez-zamento di terra pieno di erbacce in fondo alla città. Alle sue spalle si estendeva un’area paludosa verde e gialla, con un fiu-me che serpeggiava in diagonale tra l’erba alta. L’edificio di forma triangolare fatto di tronchi scortecciati aveva un tetto di metallo molto spiovente.

Davanti alla porta aperta, Leni si fermò e sbirciò dentro. La stanza era più grande di quanto ci si immaginasse da fuori, al-meno quattro metri per quattro. Sulla parete in fondo era ap-pesa una lavagna con le parole LA FOLLIA DI SEWARD scritte in maiuscolo.

Una donna nativa sedeva dietro un’enorme cattedra rivolta verso l’entrata. Dava un’impressione di solidità, con spalle lar-ghe e grandi mani abili. Due trecce morbide di lunghi capelli neri incorniciavano un viso color caffè chiaro. Linee nere ver-ticali tatuate le correvano dal labbro inferiore al mento. Indos-sava un paio di Levi’s sbiaditi infilati dentro stivali di gomma, una camicia di flanella da uomo e un gilet scamosciato a frange.

«Ciao! Benvenuta!» esclamò vedendo Leni.Gli studenti si voltarono con uno stridore di sedie.Erano sei in tutto. In prima fila sedevano due bambine pic-

cole, che Leni aveva già visto da Earl il Pazzo: Marthe e Agnes. Riconobbe anche Axle, il ragazzino dall’aria scontrosa; poi c’erano due bambine native di otto o nove anni che ridacchia-vano, sedute a banchi accostati; indossavano entrambe una co-rona di denti di leone appassiti. Infine, sul lato destro dell’au-la, Leni vide due banchi uniti di fronte alla lavagna. Uno era vuoto, mentre all’altro sedeva un ragazzino segaligno all’incir-ca della sua età, con capelli biondi lunghi fino alle spalle. L’u-nico che sembrava interessato a lei, dal momento che era rima-sto girato sulla sedia e continuava a fissarla.

«Io sono Tica Rhodes» disse l’insegnante. «Io e mio mari-to abitiamo a Bear Cove, quindi ogni tanto d’inverno mi capi-ta di non riuscire ad arrivare a scuola, ma faccio del mio me-glio. Ed è ciò che mi aspetto anche dai miei studenti.» Sorrise.

69

«Tu devi essere Lenora Allbright. Thelma mi ha detto che sa-resti venuta.»

«Leni.»«Quanti anni hai, undici?» domandò la signora Rhodes men-

tre la studiava.«Tredici» rispose Leni sentendosi avvampare. Se solo le fos-

se spuntato un po’ di seno! La signora Rhodes annuì. «Perfetto, anche Matthew ha tre-

dici anni. Vai a sederti laggiù.» Indicò il ragazzino biondo. «Coraggio.»

Leni stava stringendo così forte il suo stupido portapranzo di Winnie the Pooh che le facevano male le dita. «C-ciao» disse ad Axle mentre passava di fianco al suo banco. Lui la guardò con un’espressione che sembrava voler dire “Che cavolo vuoi?” e si rimise a disegnare qualcosa che assomigliava a un’aliena pettoruta sulla sua cartellina Pee-Chee.

Leni si lasciò cadere sgraziatamente sulla sedia accanto al suo coetaneo. «Ehi» mormorò sbirciandolo con la coda dell’occhio.

Lui sorrise, rivelando una chiostra di denti storti. «Dio ti rin-grazio» disse dopo essersi scostato i capelli dal viso. «Credevo di dover stare seduto di fianco ad Axle per il resto dell’anno. Secondo me quello finisce in prigione.»

Leni si trovò a ridere suo malgrado.«Da dove vieni?» le domandò.Lei non sapeva mai come rispondere a quella domanda, poi-

ché implicava una stabilità, un Prima che per Leni non era mai esistito. Non c’era mai stato un luogo che avesse considerato come una casa. «L’ultima scuola che ho frequentato era vici-no a Seattle.»

«Allora ti sembrerà di essere finita a Mordor.»«Hai letto Il Signore degli Anelli?»«Sì, lo so. È patetico. Ma qui siamo in Alaska. D’inverno c’è

un buio che non hai idea, e non abbiamo la TV. Io non riesco ad ascoltare per ore i vecchi che blaterano alla radio come fa mio padre.»

Leni sentì nascere un’emozione così nuova che non sapeva classificarla. «Io adoro Tolkien» disse sottovoce. Era strana-mente liberatorio poter essere sincera con qualcuno. Nell’ul-tima scuola che aveva frequentato, la maggior parte dei suoi

70

compagni era più interessata ai film e alla musica che ai libri. «E Herbert.»

«Dune è stupendo. “La paura uccide la mente.” È proprio vero, cavolo.»

«E anche Straniero in terra straniera. È così che mi sento qui.»«Non mi stupisce. Non c’è nulla di normale nell’ultima fron-

tiera. Su a nord c’è una città che ha un cane come sindaco.»«Non ci credo.»«Giuro. Un malamute. L’hanno eletto i cittadini.» Matthew

si appoggiò una mano sul petto. «Non si può inventare una ca-volata del genere.»

«Venendo qui ho visto un uomo seduto per terra con un’oca in grembo. Mi è sembrato che ci stesse parlando.»

«Era Pete il Matto con Matilda. Sono sposati.»Leni rise ad alta voce.«Hai una risata strana.»Le sue guance si infuocarono per l’imbarazzo. Non gliel’a-

veva mai detto nessuno prima di allora. Era vero? Com’era la sua risata? “Oh, santo cielo.”

«Io... ecco, mi dispiace. Non so perché l’ho detto. Con i rap-porti sociali sono una frana. È da un sacco che non parlo con una ragazza della mia età. Voglio dire, sei carina. Tutto qui. Sto farneticando, vero? Probabilmente adesso scapperai a gambe levate gridando e implorando di poterti sedere vicino ad Axle, il futuro omicida, e per te sarà di sicuro meglio. Okay. Adesso chiudo il becco.»

Leni non aveva sentito più niente dopo la parola “carina”.Cercò di dire a se stessa che non significava nulla, ma quan-

do Matthew la guardò, avvertì un fremito di speranza. “Po-tremmo diventare amici” pensò. E non semplicemente amici che prendono lo stesso autobus o pranzano allo stesso tavolo.

Amici.Di quelli che hanno davvero qualcosa in comune. Come Sam

e Frodo, Anna e Diana, Ponyboy e Johnny. Chiuse gli occhi per una frazione di secondo, lasciando correre l’immaginazione. Avrebbero potuto ridere, parlare...

«Leni?» fece lui. «Leni?»Oh, no. L’aveva chiamata due volte. «Sì, ti capisco. Anch’io mi perdo sempre nei miei pensieri.

71

Mia madre sostiene che è quello che succede quando vivi den-tro la tua testa insieme a un mucchio di persone immaginarie. D’altra parte, lei sta leggendo Uno zoo lungo la strada da Natale.»

«È vero, ho questo vizio» confessò Leni. «A volte... finisco in un mondo tutto mio.»

Lui si strinse nelle spalle, come a dire che non c’era nulla di strano in lei. «Ehi, hai sentito della grigliata di stasera?»

“Allora, che ne dici della festa? Puoi venire?”Leni continuò a rivivere la scena nella sua mente mentre

aspettava che suo padre venisse a prenderla a scuola. Avrebbe voluto sul serio rispondere di sì. Era da tempo che non deside-rava qualcosa così ardentemente.

Ma i suoi genitori non erano tipi da grigliata di gruppo. Be’, in realtà non facevano nulla in gruppo. Gli Allbright non erano quel genere di persone. Le famiglie del loro vecchio quartiere organizzavano sempre grigliate nei cortili sul retro, con i papà che indossavano maglioni con lo scollo a V, bevevano scotch e giravano hamburger, e le donne che fumavano sigarette, sor-seggiavano Martini e portavano vassoi di fegato di pollo av-volto nella pancetta, mentre i bambini correvano e schiamaz-zavano. Leni lo sapeva perché una volta aveva sbirciato oltre la staccionata dei vicini e aveva visto tutto quanto: hula hoop, scivoli ad acqua e spruzzatori.

«Allora, Peldicarota, com’è andata a scuola?» domandò papà alla fine della giornata quando Leni salì sul furgone e si chiuse lo sportello alle spalle. Era stato l’ultimo genitore ad arrivare.

«Abbiamo imparato che gli Stati Uniti hanno comprato l’A-laska dalla Russia. E abbiamo parlato del monte Alyeska nel-la catena Chugach.»

Con un borbottio di assenso suo padre ingranò la marcia.Leni rifletté su come formulare ciò che voleva dire. “A scuo-

la c’è un ragazzo della mia età. È un nostro vicino.”No, menzionare un ragazzo non era la strada giusta.“I nostri vicini hanno organizzato una grigliata e hanno in-

vitato anche noi.”Ma papà odiava quel genere di cose, o almeno, le aveva sem-

pre odiate in tutti gli altri posti in cui avevano vissuto.Procedettero rumorosamente lungo la strada sterrata, solle-

72

vando nuvole di polvere su entrambi i lati, e poi svoltarono nel loro vialetto d’accesso. Arrivati a casa, trovarono una piccola folla radunata in cortile, composta dalla famiglia Harlan qua-si al completo. Erano tutti intenti a lavorare e si muovevano in completa armonia senza bisogno di parlare, avvicinandosi e al-lontanandosi come ballerini. Clyde in quella specie di gabbia stava ricavando delle tavole dai tronchi, mentre Ted ultimava il deposito antiorso fissando le assi ai paletti laterali. Donna sta-va accatastando legna da ardere.

«I nostri amici sono arrivati a mezzogiorno per darci una mano con i preparativi per l’inverno» le spiegò papà. «Anzi no, sono più che amici, Peldicarota. Sono compagni.»

Compagni?Leni aggrottò la fronte. Adesso erano diventati comunisti?

Era piuttosto certa che suo padre li odiasse tanto quanto il si-stema e gli hippie.

«È così che dovrebbe essere il mondo, Peldicarota. Popolato da persone che si aiutano a vicenda anziché ammazzare le loro madri per un tozzo di pane.»

Leni non poté non notare che quasi tutti portavano una pi-stola in una fondina.

Papà aprì lo sportello del furgone. «Questo fine settimana an-dremo tutti a Sterling a pescare salmoni al Farmer’s Hole sul fiume Kenai. Pare che pescare questi salmoni reali sia davvero un’impresa.» Scese sul terreno umido.

Con la mano coperta da un guanto Earl il Pazzo salutò suo padre, che si incamminò all’istante verso l’anziano.

Leni superò una nuova struttura alta circa tre metri e larga uno, con i lati coperti di spessa plastica nera (sacchi della spaz-zatura srotolati, ne era abbastanza sicura). Una porta aperta ri-velò che l’interno era pieno di salmoni rossi tagliati a metà lun-go la spina centrale e appoggiati ad alcuni rami a mo’ di tenda. Inginocchiata per terra, Thelma stava badando a un fuoco ac-ceso dentro a una scatola di metallo. Nubi scure di fumo arri-vavano fino ai salmoni sistemati sopra il fuoco.

Mamma, che stava sviscerando un salmone su un tavolo in cortile, alzò lo sguardo. Aveva una macchia rosa di interiora sul mento. «È un affumicatoio» spiegò indicando Thelma con un cenno del capo. «Thelma mi sta insegnando ad affumicare

73

il salmone. A quanto pare è un’arte: con troppo calore si finisce per cuocere il pesce, che invece deve affumicarsi ed essiccar-si al tempo stesso. Che bontà! Com’è andato il primo giorno di scuola?» Un fazzoletto rosso le teneva i capelli lontani dagli occhi.

«Bene.»«Niente suicidio sociale per via dei vestiti e del portapranzo?

Niente prese in giro da parte delle compagne?»Leni non riuscì a non sorridere. «Non ci sono compagne del-

la mia età. Però... c’è un ragazzo...»Quella parola catturò l’interesse di sua madre. «Un ragazzo?»Leni arrossì. «Un amico, mamma. Si dà semplicemente il caso

che sia un maschio.»«Ah. Ah-ah.» Mamma si stava sforzando di non sorridere

mentre si accendeva una sigaretta. «È carino?»Leni la ignorò. «Ha detto che c’è una grigliata stasera, e io

vorrei tanto andarci.»«Va bene, andiamo.»«Sul serio? Fantastico!»«Sì, te l’avevo detto che qui sarebbe stato tutto diverso» ri-

spose mamma con un sorriso.

Quando giunse l’ora di vestirsi per la grigliata, Leni perse il lume della ragione. Non sapeva proprio cosa le stesse succedendo.

Non aveva molti vestiti fra cui poter scegliere, ma questo non le impedì di provare una sfilza di abbinamenti diversi. Alla fine – principalmente perché il desiderio di apparire carina quan-do questo era impossibile l’aveva sfinita – optò per un paio di pantaloni di poliestere a quadri con il fondo a zampa abbinati a un dolcevita verde a costine con un gilet con le frange in fin-ta pelle scamosciata. Malgrado tutti gli sforzi, per i suoi capel-li non c’era speranza. Se li scostò dal viso pettinandoli con le dita e si fece una treccia crespa e larga un palmo.

In cucina, mamma stava riponendo grossi quadrati di pane di mais in un contenitore Tupperware. Si era pettinata i lunghi capelli fino a farli brillare sotto la luce. Si era chiaramente ve-stita con l’intento di fare colpo, con un paio di jeans aderenti e scampanati, un maglione bianco attillato e un’enorme collana navajo di turchesi con motivo a fiori di zucca che si era com-prata alcuni anni prima.

74

Sembrava distratta mentre faceva uscire l’aria dal contenitore.«Sei preoccupata, vero?»«Cosa te lo fa pensare?» Mamma le rivolse un fugace sorriso

radioso, ma l’espressione dei suoi occhi non era altrettanto fa-cile da mascherare. Si era truccata per la prima volta dopo gior-ni, e aveva un aspetto vivace, incantevole.

«Ti ricordi la fiera?»«Era diverso. Quel tipo aveva cercato di fregarlo.»Leni ricordava una storia diversa. Si stavano divertendo alla

fiera statale, fino a quando papà aveva iniziato a bere birra. Poi un tale aveva cominciato a fare il cascamorto con mamma (e lei era stata al gioco) e papà aveva perso la testa. Gli aveva dato uno spintone così forte che l’uomo aveva battuto la testa con-tro un palo del padiglione della birra e aveva cominciato a gri-dare. Quando era arrivata la sicurezza, papà era così fuori di sé che avevano dovuto chiamare la polizia. Per Leni era stato umiliante vedere che due dei suoi compagni di classe aveva-no assistito alla scena, con gli agenti che trascinavano suo pa-dre verso la volante.

Papà aprì la porta di casa ed entrò.«Le mie donne sono pronte a far festa?»«Puoi scommetterci» rispose in fretta mamma con un sorriso.«Allora andiamo» disse papà sospingendole verso il furgone.In un batter d’occhio – in linea d’aria erano meno di cinquecento

metri – raggiunsero il cancello di metallo con il teschio di muc-ca sbiancato, che era aperto in segno di benvenuto.

La proprietà dei Walker: i loro vicini più prossimi.Papà avanzò lentamente. Il vialetto d’accesso (due strisce d’er-

ba appiattita che seguivano l’andamento ondulato del terreno coperto di licheni) disegnava una pigra S in mezzo a gruppetti di sottili abeti rossi dal tronco nero. Di tanto in tanto, attraver-so uno spazio fra gli alberi alla sua sinistra, Leni scorgeva uno sprazzo distante di blu, ma fu soltanto quando arrivarono alla radura che vide il panorama.

«Wow» esclamò mamma.Sbucarono su un crinale pianeggiante situato sopra un’inse-

natura dalle tranquille acque blu. L’enorme appezzamento di terra era completamente sgombro e messo a fieno con l’ecce-zione di alcuni alberi selezionati con cura.

75

Una grande casa di tronchi a due piani poggiava come una corona sul punto più elevato del terreno. La facciata triangola-re aveva enormi finestre a trapezio e una veranda a punta che girava tutt’intorno alla casa. Sembrava la prua di una gran-de nave, gettata a riva da un mare infuriato e arenatasi a ter-ra, destinata a guardare per sempre le acque cui apparteneva. In veranda, sedie male assortite erano rivolte verso lo spetta-colare panorama. Al lato opposto della casa erano situati molti recinti di animali con all’interno mucche, capre, polli e anatre. Nell’erba che arrivava fino alle ginocchia erano sparpagliati ro-toli di filo spinato, scatole e bancali di legno, un trattore rotto e la pala arrugginita di un’escavatrice, oltre alle carcasse di pa-recchi pick-up inservibili o quasi. Gli alveari erano addossati gli uni agli altri non lontano da una piccola struttura in legno che sbuffava fumo. Uno spazio tra gli alberi lasciava intrave-dere il tetto molto appuntito di un bagno esterno.

Giù a riva, una banchina grigia si protendeva nell’acqua blu. Alla sua estremità, su un arco segnato dalle intemperie, campeggiava la scritta WALKER COVE. Nei pressi della banchi-na erano ormeggiati un idrovolante e due barche da pesca co-lor argento lucido.

«Un idrovolante» mormorò papà. «Devono essere ricchi.»Parcheggiarono il furgone e passarono davanti a un tratto-

re giallo con una pala nera e a un quad rosso fiammante. Dal-la cima dell’altura, Leni vide alcune persone sulla spiaggia: erano almeno una decina, tutte radunate intorno a un enorme falò. Le fiamme si levavano nel cielo color lavanda, schioccan-do come dita.

Leni scese le scale fino alla spiaggia al seguito dei suoi ge-nitori. Da lì, riuscì a vedere tutti i presenti alla festa. Un uomo dalle spalle larghe con lunghi capelli biondi sedeva su un tron-co caduto a suonare una chitarra. Large Marge aveva capovol-to due secchi di plastica bianca per utilizzarli come bonghi e l’insegnante di Leni, la signora Rhodes, sviolinava con foga. Natalie stava facendo faville con una fisarmonica, mentre Thelma cantava King of the Road. Al momento del ritornello, si unirono tutti a lei.

Clyde e Ted si stavano occupando del barbecue, che sembra-va costruito con vecchi barili di latta. Earl il Pazzo era lì vicino

76

a bere da una brocca di terracotta. Le due bambine piccole che Leni aveva visto a scuola, Marthe e Agnes, erano chine sulla battigia a raccogliere conchiglie con Bimba.

Mamma arrivò in spiaggia con il suo Tupperware pieno di pane di mais. Papà era subito dietro di lei con un litro di whisky.

Il tizio imponente dalle spalle larghe che stava suonando la chi-tarra posò lo strumento e si alzò. Nonostante fosse vestito come la maggior parte degli uomini del posto, con una camicia di fla-nella, jeans sbiaditi e stivali di gomma, non passava certo inos-servato. Sembrava nato per quella terra aspra, come se potesse correre tutto il giorno, abbattere un albero secolare con un’ac-cetta e attraversare agilmente un fiume impetuoso su un tron-co caduto. Persino Leni pensò che fosse affascinante per la sua età. «Piacere, Tom Walker» si presentò. «Benvenuti a casa mia.»

«Ernt Allbright.»Papà e Tom si strinsero la mano.«Questa è mia moglie, Cora.»Mamma sorrise a Tom, gli strinse la mano e poi si voltò. «Lei

è nostra figlia, Leni. Ha tredici anni.»Tom le sorrise. «Ciao, Leni. Mio figlio Matthew mi ha par-

lato di te.»«Davvero?» fece Leni. “Non sorridere così. Che figura da im-

branata.”Geneva Walker comparve accanto al marito. «Ciao» disse

sorridendo a Cora. «Vedo che avete conosciuto mio marito.» «Ex marito.» Tom Walker mise un braccio intorno alle spal-

le di Geneva, attirandola a sé. «Amo questa donna come l’aria, ma non riesco a vivere con lei.»

«E nemmeno senza di me.» Geneva sorrise, inclinando la te-sta a sinistra. «Il mio Romeo è laggiù. Calhoun Malvey. Non mi ama quanto Tom, ma gli piaccio mooolto di più. E poi non rus-sa.» Diede una gomitata scherzosa al signor Walker.

«Ho sentito dire che non siete molto preparati» disse Tom Walker a papà. «Dovrete imparare in fretta. Non fatevi proble-mi a chiedermi una mano. Io sono sempre disponibile. Qualun-que cosa vi serva in prestito, io ce l’ho.»

Leni avvertì qualcosa che la mise in allerta nel «Grazie» di papà. D’un tratto sembrava irritato, offeso. Se ne accorse anche mamma, che lo guardò con espressione preoccupata.

77

Earl il Pazzo avanzò con passo instabile. Indossava una ma-glietta con la scritta CACCIATORE DOC: STRAGE DI POLLASTRE ASSICURATA. Un sorriso da ubriaco stampato in faccia, ondeg-giò da una parte all’altra, incespicando. «Stai offrendo aiuto a Ernt, Big Tom? Proprio generoso da parte tua. Un po’ come re Giovanni che promette di aiutare i suoi poveri servi. Magari il tuo amico governatore potrebbe darti una mano.»

«Per carità, Earl, non ricominciare» disse Geneva. «Cantia-mo un po’. Ernt, sai suonare qualche strumento?»

«La chitarra» rispose papà. «Ma l’ho venduta...»«Fantastico!» esclamò Geneva prendendolo per un braccio e

portandolo via da Earl il Pazzo, verso Large Marge e la band improvvisata sulla spiaggia. Allungò a papà la chitarra che il si-gnor Walker aveva posato. Earl il Pazzo tornò barcollando ver-so il falò e recuperò la sua brocca di terracotta.

Leni si domandò se mamma sapesse di essere incantevo-le, con quei pantaloni che le mettevano in evidenza le forme e i capelli biondi che svolazzavano nella brezza marina. La sua bellezza era limpida come una nota cantata alla perfezio-ne e al tempo stesso fuori posto come un’orchidea, lì dove si trovavano.

Sì, ne era perfettamente consapevole. E anche il signor Walker la notò.

«Posso portarti qualcosa da bere?» domandò a mamma. «Ti va una birra?»

«Certo, Tom. Ne ho proprio voglia» rispose mamma lascian-do che il signor Walker la accompagnasse al tavolo con le pie-tanze e al frigorifero portatile pieno di birre Rainier.

Mamma camminò con passo leggero accanto al signor Walker, ancheggiando a tempo di musica. Gli sfiorò appena l’avambrac-cio con le dita e lui la guardò, sorridendo.

«Leni!» Sentendo il suo nome, Leni si girò.Matthew era sul promontorio sopra di lei, non lontano dalle

scale, e le stava facendo segno di raggiungerlo.Salite le scale, Leni scoprì che aveva una birra in ciascuna

mano. «Ne hai mai bevuta una?» le domandò.Lei scosse la testa.«Nemmeno io. Forza.» Si tuffò nel boschetto alla sua sini-

78

stra. Seguirono un sentiero sinuoso in discesa superando alcu-ne rocce sporgenti.

Matthew la condusse in una piccola radura con chiazze di licheni sparse qua e là. Da un’apertura nel muro nero di abe-ti rossi riuscivano a vedere la festa. La spiaggia distava giusto una manciata di metri, ma si sarebbe potuta benissimo trova-re in un altro universo. Gli adulti ridevano, chiacchieravano e suonavano. I bambini piccoli scavavano tra i ciottoli in cerca di conchiglie integre. Axle era in disparte a piantare il coltello in un tronco marcescente.

Matthew si sedette e allungò le gambe, appoggiando la schie-na contro un tronco. Leni gli si sedette accanto, vicina ma non al punto da toccarlo.

Lui aprì una birra – pffff – e gliela porse. Arricciando il naso, lei ne bevve un sorso. La birra le sfrigolò in gola e non le piac-que neanche un po’.

«Che schifo» fece Matthew, e Leni scoppiò a ridere. Altri tre sorsi e si appoggiò a sua volta al tronco. Dalla spiaggia arrivava un vento fresco, che portava con sé l’odore salmastro del mare e l’intenso profumo della carne arrostita. Il brusio e il movimen-to della festa erano appena di là dagli alberi.

Rimasero lì seduti in un silenzio amichevole, cosa che a Leni parve incredibile. Di solito era un fascio di nervi quando vole-va diventare amica di qualcuno.

Giù, sulla spiaggia, la festa era entrata nel vivo. Attraverso lo spazio tra gli alberi, vedevano tutto quanto. Un barattolo stava passando di mano in mano. La madre di Leni ballava agitan-do i fianchi e scuotendo i capelli. Era come una fata delle fore-ste, che risplendeva di una luce interiore, e danzava per la po-polazione di alberi tarchiati e pesanti.

Leni era stordita dalla birra: le girava la testa e si sentiva pie-na di bollicine.

«Come mai vi siete trasferiti qui?» domandò Matthew. Prima che Leni potesse rispondere, lui lanciò la lattina di birra vuo-ta contro un masso.

Lei non riuscì a non ridere. Soltanto un maschio poteva fare una cosa del genere. «Mio padre è una specie di... avventurie-ro» scelse di rispondere. “Mai dire la verità, mai rivelare che papà non era in grado di tenersi un lavoro e stabilirsi in un po-

79

sto, che beveva troppo e spesso alzava la voce.” «Si era stufa-to di Seattle, immagino. E voi? Da quanto tempo vivete qui?»

«Mio nonno, Eckhart Walker, venne in Alaska durante la Gran-de Depressione. Diceva di non volersi mettere in fila per man-giare zuppa acquosa. Così preparò i bagagli e arrivò in autostop fino a Seattle. Da lì si fece strada verso nord. Pare che abbia at-traversato a piedi l’Alaska da una costa all’altra, e che abbia scalato persino il monte Alyeska con una scala legata dietro la schiena in modo da superare i crepacci sui ghiacciai. A Nome conobbe mia nonna Lily, che gestiva una tintoria e una tavola calda. Si sposarono e decisero di stabilirsi qui.»

«Quindi siete cresciuti tutti in quella casa, tu, tuo padre e i tuoi nonni?»

«Be’, la casa grande fu costruita molto più tardi, ma siamo cresciuti tutti su questa terra. La famiglia di mia madre vive a Fairbanks. Mia sorella si è trasferita da loro perché frequenta l’università lì. I miei si sono separati qualche anno fa, quindi la mamma si è costruita una nuova casa sulla proprietà, dove abi-ta con il suo nuovo fidanzato, Cal. Un vero idiota.» Sogghignò. «Ma collaboriamo tutti. D’inverno lui e il papà giocano insieme a scacchi. È strano, lo so, ma questa è l’Alaska.»

«Wow, io non riesco nemmeno a immaginare di vivere nello stesso posto per sempre.» Con imbarazzo si rese conto che nel-la sua voce vibrava una punta di desiderio. Inclinò la lattina di birra e bevve gli ultimi sorsi schiumosi.

La band improvvisata ci stava dando dentro: chi batteva le mani sui secchi, chi strimpellava la chitarra, chi suonava il vio-lino.

Thelma, mamma e il signor Rhodes scuotevano i fianchi a tempo di musica mentre cantavano a squarciagola «Ro-cky Moun-tain high, Color-ado...».

Dal barbecue, Clyde gridò: «Gli hamburger d’alce sono pron-ti! Chi vuole del formaggio?».

«Andiamo» disse Matthew «sto morendo di fame.» La prese per mano con naturalezza e la guidò tra gli alberi fino alla spiag-gia. Sbucarono alle spalle di papà ed Earl il Pazzo, che erano in disparte da soli a bere; i due brindarono con un gesto così deci-so che l’incontro fra i loro barattoli produsse un sonoro tintinnio. «Quel Tom Walker è convinto di farla profumata» disse papà.

80

«Quando scoppierà il finimondo, verrà da me strisciando, perché io sono preparato» biascicò Earl il Pazzo.

Leni si paralizzò, mortificata, e guardò Matthew. Aveva sen-tito anche lui.

«È nato ricco» aggiunse papà. Aveva cominciato a parlare len-tamente, strascicando le parole. «È quello che hai detto, vero?»

Earl il Pazzo annuì, cadendo addosso a papà. I due si sorres-sero a vicenda. «Crede di essere migliore di noi.»

Leni si staccò da Matthew; la vergogna la fece sentire picco-la, sola.

«Leni?»«Mi dispiace che tu l’abbia sentito» disse lei. E come se le

cattiverie biascicate da suo padre non fossero bastate, mamma era troppo vicina al signor Walker e gli stava sorridendo in un modo che rischiava di creare guai.

Esattamente come le altre volte. Fortuna che in Alaska sarebbe stato tutto diverso! «Qual è il problema?» domandò Matthew.

Leni scosse la testa mentre una tristezza familiare si faceva strada dentro di lei. Non poteva raccontargli cosa significasse vivere con un padre che a volte incuteva paura e una madre che lo amava troppo e usava strategie pericolose per spingerlo a dimostrare il suo amore per lei. Come flirtare con altri uomini.

Quelli erano i segreti di Leni, i suoi fardelli. Non poteva con-dividerli con nessuno.

Per tutto quel tempo, durante quegli anni, aveva sognato di avere un vero amico, qualcuno che le raccontasse tutto. Com’era possibile che non avesse capito ciò che era ovvio?

Leni non poteva avere un vero amico perché lei non poteva essere un’amica. «Scusa» mormorò. «Non è niente. Forza, an-diamo a mangiare. Ho una fame da lupi.»