U a Ug allo olin o sp no: pecc l'o chio dio o. o

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p o p s t e s s s Q h c e v r p m p h d p p a c d d in a c m c il U n r g m U a Conc Introduz Da sempre l pari con il real o meno felice, prediletti, e qui Solo pochi c storico, ed off tradurre in imm esiti davvero f senza alcuna co sua immaginaz Un episodio suoi lettori, co Questo non di ha ispirato il p creare storie e e insieme sapp Spesso i test vedere tanti t rintracciarvi qu pensato; ogni a maniera person Forse non è più di tutti ha ha saputo ispir di artisti, non d Di molti ep pluralità di tem proprie gemme abbiamo scelto così contrasta diversissime, ch della morte. Quello che n n molte rappr all’affetto verso cifra dell’odio manca è la sua convenzionale. Tutte le rapp l fondo dell’I Ugolino; e se D nascere dall’am rappresentare germogliato; d monologo in c Ug allo corso nazion zione la letteratura è le; moltissime , più o meno indi nelle sue o capolavori han frire ad artisti magini. Molte ortunati; ma p ommissione, s zione, un testo o, o un person on il passare d pende dal luog pensiero di chi figure realmen iano esprimerl ti migliori son emi, tante int ualcosa che gl artista può ved nale, secondo i è azzardato ipo saputo avere rare il lavoro d di illustratori), isodi si posso mi che Dante s e di umanità, n o quello del co anti che nel he vanno dallnon manca ma resentazioni, è o i figli e in c è ciò che dist a assenza a dar . presentazioni f Inferno, e che Dante ci ha m more paterno ogni espress dell’odio che d cui l’odio trova olin o sp nale “Dante è una delle prin opere hanno celebre. Ogni opere ha interp nno saputo sug i di movimen opere letterar perché un artis olo perché l’ep deve avere ca naggio, deve e egli anni o de go o dal period scrive; dipend nte umane, che lo in modo no no quelli meno terpretazioni, li sembra di a dere l’episodio i dettami della otizzare che si queste caratter di artisti di tutt ma ha anche d ono trovare le seppe toccare nel senso di q onte Ugolino lle varie rap amore alla foll ai, però, è l’od immerso Ugo ui si riflettono tingue il conte e un senso allfanno in qualc e, come vedre ostrato in que o, gli artisti sione umana domina Ugolin a sé stesso com no: pecc nella Scuola ncipali fonti di avuto trasposi movimento a pretato alcuni ggestionare let nti anche dive rie sono state sta decida di f pisodio si pres aratteristiche ch ssere capace d ei secoli, di ada do in cui è amb de solamente d e abbiano in s on banale. o espliciti, i pi tanti livelli d aver sempre sa o in modo unic a sua poetica. ia la Commedia ristiche; si trat to il mondo e d dato vita a ope più varie inte in ognuno, tr qualità che ren perché il pers ppresentazioni lia, dallo smarr dio: l’odio in c olino, ma anch o e si perdono e Ugolino, e n immagine, in u che modo da s emo, è la vera sto canto com che l’hanno di quest’odio no, e del dolor me se fosse dav l’o c hio a| Elaborat Copertina i ispirazione d izioni grafiche artistico ha avu testi letterari. ttori di ogni p rsissimi fra lo illustrate, in a arne oggetto d sta a diventare he sono più ra di dire sempre attarsi allo spi bientato, né da da quanto lo s é ciò che tutti iù allusivi, in c di lettura. Ogn aputo, pur sen co, e tradurlo a di Dante il c tta di un’opera di tutti i tempi ere nuove ed o erpretazioni, e rasformandoli de l’uomo que sonaggio ha in i ha preso rimento alla lu cui, nel canto d he l’odio che o tutti gli altri nelle opere in una lettura del pecchio all’odi a pena a cui me l’odio più p interpretato o e del dolo re che Ugolino vanti allo specc dio o . to di gruppo degli artisti, alla e, con esito più uto i suoi tem aese e periodo oro episodi da alcuni casi con della sua opera il veicolo della re da trovare. nuove cose a irito dei tempi alla cultura che scrittore sappia noi pensiamo cui si possono ni lettore può nza averlo ma in immagini in capolavoro che a che non solo i (e qui si parla originali. e questo per la in delle vere e ello che è. No n sé sentiment caratteristiche ucida coscienza dantesco come fa da specchio sentimenti. La cui quest’odio ll’episodio non io che pervade è condannato rofondo possa hanno saputo ore da cui è o racconta, ne chio. o o a ù mi o a n a a ai i. e a o, o ò ai n e o a a e oi ti e a e o a o n e o a o è el Ca Somm - Il Con - Il cant - Il com - La nos Un con - Raffig - La for LicSe Pro anto X mario te Ugolino, to e la parafrmmento, stra interprentrappasso fe urazioni delltuna nei seco Gli A Beatric Federic Katia B Guglielm Francesca Cameo Scientifico Gaezione Class Tel 0383 Docente ofessoressa P XXXII asi, tazione: erreo, episodio, oli. Autori ce Bosi, co Rossi, onvicini, mo Gioia, Melchionni: la pana” o Statale “Ga lilei” sica, Classe I 3/643377, referente: Patrizia Bern II alileo I A nini.

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pensiero di chi figure realmeniano esprimerlti migliori sonemi, tante intualcosa che glartista può vednale, secondo iè azzardato iposaputo avere

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Concorso Nazionale “Dante nella Scuola” Pagina 1

UGOLINO: L’ODIO ALLO SPECCHIO

Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi.

bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a' capelli del capo ch'elli avea di retro guasto. 3 Poi cominciò: "Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme già pur pensando, pria ch'io ne favelli. 6 Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, parlare e lagrimar vedrai insieme. 9 Io non so chi tu se' né per che modo venuto se' qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand'io t'odo. 12 Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, e questi è l'arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino. 15 Che per l'effetto de' suo' mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri; 18 però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s'e' m' ha offeso. 21 Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha 'l titol de la fame, e che conviene ancor ch'altrui si chiuda, 24 m'avea mostrato per lo suo forame più lune già, quand'io feci 'l mal sonno che del futuro mi squarciò 'l velame. 27 Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ' lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno. 30 Con cagne magre, studïose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s'avea messi dinanzi da la fronte. 33

Quel peccatore sollevò la bocca dal pasto bestiale, pulendola con i capelli della testa che egli aveva roso nella parte posteriore. Poi incominciò a dire: «Tu vuoi che io rinnovi un dolore lancinante che mi opprime il cuore al solo pensarci, prima ancora che io ne parli. Ma se le mie parole devono essere causa di infamia per il traditore che io rodo, mi vedrai al contempo parlare e piangere. Non so chi sei né in quale maniera sei arrivato quaggiù, ma quando ti sento parlare mi sembri davvero fiorentino. Devi sapere che fui il conte Ugolino, e questo è l’arcivescovo Ruggieri: adesso ti dirò perché sono per lui un vicino siffatto. Non occorre che io rac-conti come, avendo fiducia in lui, fui fatto prigioniero e poi ucciso, in conseguenza dei suoi intendi-menti malvagi; ma udrai quello che non puoi avere udito, cioè co-me la mia morte fu crudele, e po-trai giudicare se egli non è stato colpevole nei miei riguardi. Una piccola feritoia nel luogo chiuso (dentro dalla muda: muda era chiamato il luogo chiuso dove venivano tenuti gli uccelli nel pe-riodo in cui cambiavano le pen-ne) che a causa mia è sopranno-minato torre della fame, e nel quale altri devono ancora essere chiusi, mi aveva già mostrato at-traverso la sua apertura più lune (erano passati diversi mesi), quando io feci il sogno cattivo che mi svelò il futuro. Costui (l’arcivescovo Ruggieri) mi sem-brava capocaccia e signore degli altri cacciatori, mentre, cacciava

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Concorso Nazionale “Dante nella Scuola” Pagina 2

UGOLINO: L’ODIO ALLO SPECCHIO

In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ' figli, e con l'agute scane mi parea lor veder fender li fianchi. 36 Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli ch'eran con meco, e dimandar del pane. 39 Ben se' crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli? 42 Già eran desti, e l'ora s'appressava che 'l cibo ne solëa essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; 45 e io senti' chiavar l'uscio di sotto a l'orribile torre; ond'io guardai nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto. 48 Io non piangëa, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". 51 Perciò non lagrimai né rispuos'io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l'altro sol nel mondo uscìo. 54 Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, 57 ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia di manicar, di sùbito levorsi 60 e disser: "Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia". 63 Queta' mi allor per non farli più tristi; lo dì e l'altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t'apristi? 66 Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gittò disteso a' piedi, dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?". 69 Quivi morì; e come tu mi vedi, vid'io cascar li tre ad uno ad uno tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi, 72 già cieco, a brancolar sovra ciascuno,

il lupo e i suoi piccoli su per il mon-te (San Giuliano) a causa del quale i Pisani non possono vedere Lucca. Egli aveva messo davanti a sé, sul fronte dello schieramento degli inse-guitori, Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi (le tre principali fa-miglie ghibelline di Pisa) insieme con cagne fameliche (simbolo, secon-do il Buti, del popolo minuto, "che comunemente è magro e povero"), sollecite a cacciare ed esperte. Dopo una breve corsa il lupo e i lupicini mi sembravano stanchi, e mi sem-brava di vedere lacerati i loro fian-chi dalle zanne affilate. Quando fui sveglio prima dei mattino, udii piangere nel sonno i miei figli (Ugolino chiama così anche i suoi nipoti Anselmuccio e Nino), che erano con me, e chiedere del pa-ne. Sei davvero crudele, se fin da questo momento non provi dolore immaginando quello che il mio cuore presagiva a se stesso; e se non piangi, per che cosa sei solito piangere? Erano ormai svegli, e si avvicinava l’ora in cui il cibo soleva esserci portato, e a causa del proprio sogno ciascuno aveva timore; e udii inchiodare la porta inferiore della spaventosa torre; allora guardai negli occhi i miei figli senza pronunciare parola. o non piangevo, a tal punto l’animo divenne impietrito: piangevano loro; e il mio Anselmuccio disse: "Tu guardi in modo così strano, padre! che hai ?" Perciò non piansi né risposi tutto quel giorno e la notte successiva, finché non spuntò un’altra alba. Non appe-na un po’ di luce riuscì a penetra-re nella cella dolorosa, ed intravi-di su quattro volti il mio stesso aspetto, mi morsi entrambe le mani per il dolore; ed essi, cre-dendo che lo facessi per desiderio di mangiare, si alzarono imme-diatamente in piedi, e dissero: "Padre, sarà per noi un dolore assai minore se tu ti cibi delle nostre membra: tu (generandoci)

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UGOLINO: L’ODIO ALLO SPECCHIO

e due dì li chiamai, poi che fur morti. Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno". 75 Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese 'l teschio misero co' denti, che furo a l'osso, come d'un can, forti. 78 Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove 'l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti, 81 muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch'elli annieghi in te ogne persona! 84 Che se 'l conte Ugolino aveva voce d'aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. 87 Innocenti facea l'età novella, novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata e li altri due che 'l canto suso appella. 90 Canto XXXIII, gli ultimi versi. Noi eravam partiti già da ello, 124 ch'io vidi due ghiacciati in una buca, sì che l'un capo a l'altro era cappello; e come 'l pan per fame si manduca, 127 così 'l sovran li denti a l'altro pose là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca: non altrimenti Tidëo si rose 130 le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l'altre cose. "O tu che mostri per sì bestial segno 133 odio sovra colui che tu ti mangi, dimmi 'l perché", diss'io, "per tal convegno, che se tu a ragion di lui ti piangi, 136 sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi, se quella con ch'io parlo non si secca". 139

ci facesti indossare queste carni infelici, tu privacene". Allora mi quietai per non renderli più tri-sti; rimanemmo in assoluto silen-zio quel giorno e il giorno succes-sivo: ahi, terra crudele, perché non ci inghiottisti? Quando giun-gemmo al quarto giorno, Gaddo si gettò disteso ai miei piedi, di-cendo: "Padre, perché non m’aiuti?" Morì lì; e così come tu vedi me, vidi cadere gli altri tre uno dopo l’altro tra il quinto e il sesto giorno; per cui incominciai, ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno di loro, e li chiamai per due giorni, dopo che furono mor-ti: poi, più del dolore, ebbe potere su me il digiuno ". Ciò detto, con gli occhi biechi, afferrò nuova-mente il misero cranio coi denti, i quali furono, sull’osso, forti come quelli di un cane. Ahi Pisa, onta dei popoli appartenenti all’Italia (del bel paese là dove ‘1 sì sona: dove la lingua usa come particel-la affermativa il "sì"), dal mo-mento che le città vicine tardano a punirti, si muovano la Capraia e la Gorgona (due isole del Tirre-no, situate in corrispondenza del-la foce dell’Arno), e formino uno sbarramento allo scorrere dell’Arno nel punto in cui si versa nel mare, in modo che esso som-merga tutti i tuoi abitanti! Poiché se correva voce che il conte Ugoli-no ti aveva tradita riguardo ai castelli (ceduti a Lucca e a Firen-ze), non dovevi sottoporre ad un tale supplizio i suoi figli. La gio-vane età rendeva innocenti, o nuova Tebe (per la ferocia dei de-litti in te perpetrati, non meno orribili di quelli compiuti dai di-scendenti di Cadmo), Uguccione e il Brigata e gli altri due che il mio canto ha menzionato in pre-cedenza.»

La Seconda Parafrasi,

Ci eravamo già allontanati da lui, quando vidi due dannati

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nella stessa buca, messi in modo tale che il capo di uno ricopriva come un cappel-lo quello dell’altro; e con la stessa avidità con cui si mangia il pane da affamati, così quello che stava sopra addentava l’altro nel collo: non diversamente da Tide-o, che rosicò per odio la testa di Menalippo, faceva costui con il cranio e tutto il resto. Io dissi: «O tu che attraverso un gesto così bestiale manifesti il tuo odio per colui che stai mangiando, dimmi il perché, con questo patto che se tu ti duoli con ragione di lui, venendo a conoscere chi siete voi e quale sia la sua colpa, io possa ancora ricompensartene sulla terra, se non mi si secchi la lingua con cui parlo»

Il conte Ugolino della Gherardesca Ugolino nacque a Pisa da una famiglia di origine sarda, i della Gherardesca, che grazie alle con-nessioni con la casata degli Hohenstaufen godeva di possedimenti e titoli in quella regione (allora territorio della Repubblica di Pisa) e difendeva le posizioni dei ghibellini in Italia. Questo ben si adattava alle esigenze politiche di una città come Pisa, che storicamente appoggiava l'Impero contro il Papato. Egli era però passato alla fazione guelfa grazie a una serie di frequen-tazioni e a un'amicizia profonda col ramo pisano dei Visconti, tanto che una delle sue figlie andò in sposa a Giovanni Visconti.

Nel 1284 era uno dei comandanti della flotta della repubblica marinara, e ottenne piccole vittorie militari contro Genova nella guerra per il controllo del Tirreno che era scoppiata quello stesso anno. Partecipò anche alla battaglia della Meloria dove Pisa fu pesantemente sconfitta e in segui-to alla quale perse territorio e influenza. Secondo alcune testimonianze dell'epoca, durante la battaglia Ugolino non riuscì a concludere alcune manovre navali, in particolare il ritiro di alcuni vascelli da una parte dello specchio d'acqua per rinforzarne altri: si disse che Ugolino stesse cer-cando di scappare con le forze a sua disposizione, e si generò il sospetto che fosse null'altro che un disertore.

Conclusa l'esperienza con la marina, e nonostante le accuse che gli venivano rivolte, Ugolino fu nominato prima podestà (1284) e poi capitano del popolo (1286) assieme a Nino, il figlio di Giovanni Visconti. Egli ricopriva questa carica in un momento difficilissimo per la Repubblica: infatti approfondimento della semidistruzione della flotta pisana, Firenze e Lucca, tradizional-mente guelfe, attaccarono la città.

Avere un vertice guelfo a capo di una città ghibellina avrebbe aumentato le possibilità di dialo-go e smorzato i contrasti tra i governi, a patto di poter contare su una personalità forte. Ugolino prese per prima cosa contatti con Firenze, che pacificò corrompendo, per mezzo delle sue co-spicue amicizie, alcune alte cariche della città. In qualità di uomo più influente di Pisa prese poi contatti coi Lucchesi, che desideravano la cessione di alcuni castelli; pur sapendo che per Pisa si trattava di una concessione troppo ampia, essendo tali piazzeforti una serie di punti chiave del sistema difensivo cittadino, Ugolino acconsentì alle pretese di Lucca, e con questa convenne in segreto di lasciarle senza difesa; anche quest’atto, tuttavia, fu interpretato dai suoi concittadini come un tradimento.

Inoltre i negoziati con Genova per la restituzione dei prigionieri ebbero esito negativo: Ugoli-no decise non cedere alle richieste genovesi – il passaggio di mano della rocca di Castro, in Sar-degna – in cambio dei prigionieri pisani per impedire il rientro di alcuni capi ghibellini imprigio-nati a Genova.

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L'insieme delle trattative riuscì ad accontentare tutti all'infuori dei Pisani; i ghibellini comincia-vano a guardare Ugolino come un traditore, in battaglia come in politica, per essere passato alla parte guelfa in gioventù, per la "diserzione" della Meloria e per il sacrificio dei capi ghibellini a Genova; i guelfi lo consideravano ambiguo, privo di una vera affidabilità per le proprie origini ghibelline, dalla concessione facile nei confronti dei nemici e troppo avido di ricchezze e potere per costituire una guida sicura per la città.

Nel 1287 il nipote Nino decise di appropriarsi del titolo di podestà insediandosi nel palazzo comunale; si avvicinò alla maggioranza ghibellina entrando in contatto con l'arcivescovo, capo-fazione del patriziato e dei sostenitori dell'Impero: Ruggieri degli Ubaldini.

Il conte reagì con assoluta fermezza: scacciò e fece demolire i palazzi di alcune famiglie ghibel-line prominenti, occupò con la forza il palazzo del Comune, esiliò il nuovo podestà e si fece proclamare signore di Pisa. Per scongiurare che il nipote diventasse una minaccia all'unità del proprio potere, fece rientrare in città alcune delle famiglie ghibelline scacciate (i Gualandi, i Si-smondi e i Lanfranchi).

Esiliato il nipote, sistemata la questione con Genova e pacificate Firenze e Lucca, il conte U-golino godeva di un potere ormai quasi assoluto; la Repubblica, tuttavia, si trovava in un mo-mento delicatissimo: dopo una serie di lotte intestine che impedirono la ricostruzione di una flotta militare, e dopo che per questa ragione si era indebolita quella mercantile, nel 1288 Pisa soffriva di un drammatico caroviveri, che limitava al minimo la circolazione delle merci e soprat-tutto impediva l’approvvigionamento della popolazione.

Le tensioni che si crearono tra le grandi famiglie pisane causarono una serie di rivolte e scon-

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tri, nei quali le famiglie della maggioranza ghibellina appoggiata da Ruggeri degli Ubaldini (Gualandi, Sismondi, Lanfranchi), si opposero con le armi alle famiglie della minoranza guelfa appoggiata dal conte.

Ugolino si ritrovò coinvolto coi suoi in una serie di violenti attacchi, in cui morì Balduccio della Gherardesca, un figlio naturale del conte. Dopo un'accanita resistenza, fu sopraffatto coi suoi dai ghibellini.

La Muda, una torre di proprietà dei Gualandi, fu una durissima prigione per Ugolino, i figli Gaddo e Uguccione, e i nipoti Anselmuccio e Lapo. Per ordine dell'arcivescovo, nel frattempo autoproclamatosi podestà, nel marzo 1289 fu dato ordine di gettare la chiave della prigione nell'Arno, e di lasciarli morire di fame, cosa che avvenne dopo pochi giorni.

La presentazione del personaggio

canto XXXII, vv.124-39

Dante fa del conte Ugolino una figura esemplare di come l’umanità possa raggiungere i suoi limiti, assumendo i tratti della bestialità. Nelle fonti dell’epoca (Annales Pisani; Cronaca Fiorentina) la morte del conte è trattata in poche righe, mentre si dà molto più spazio all’avventura politica del personaggio. A Dante, invece, evidentemente non interessa la colpevolezza di Ugolino, tant’è vero che al presunto tradimento è riservato solo un breve accenno (se ‘l conte Ugolino aveva voce / d’aver tradita te delle castella) e solo alla fine del Canto XXXIII.

Ugolino appare nell'Inferno sia come un dannato, sia co-me un demone vendicatore, che affonda i denti per l'eterni-tà nel capo dell'arcivescovo Ruggeri, e questo perché è un personaggio che si è macchiato di colpe ma anche che è stato vittima di un crimine orrendo. Gli Annales Pisani scri-vono che “Proditor proditus est a proditore”; al poeta non inte-ressa il conte come traditore, ma come tradito.

Per compiere questo spostamento di prospettiva, Dante ricorre ad un espediente geniale: im-merge Ugolino in una buca insieme a colui che l’ha tradito, l’arcivescovo, cui il conte è legato in eterno dall’odio, creando un gruppo quasi scultoreo che attira immediatamente l’attenzione del lettore. De Sanctis paragona i due dannati a Paolo e Francesca, sottolineando che, come costoro erano legati eternamente dall’amore anche all’inferno, così il conte e l’arcivescovo sono legati per sempre dall’odio, anche nell’Aldilà.

Il poeta ci presenta i due dannati inaspettatamente, staccandosi all’improvviso dall’episodio precedente (noi c’eravam partiti già da ello / ch’io vidi due ghiacciati in una buca) e subito descrive in poche parole la struttura del gruppo: sì che l’un capo a l’altro era cappello. Era cappello? In che sen-so? Dante lo spiega subito, e con dovizia di macabri particolari (così ‘l sovran li denti a l’altro pose / là ‘ve ‘l cervel s’aggiugne con la nuca): il dannato che sovrasta l’altro gli sta rodendo il cranio, laceran-dogli il cervello e strappandogli il midollo spinale.

Il poeta non indugia certo su questi dettagli per semplice gusto dell’orrido; lo fa per creare quel clima di bestialità che farà da contraltare alla commozione per la tragedia del conte. Prima ancora, inoltre, Dante introduce un paragone (e come ‘l pan per fame si manduca) il cui scopo va ben al di là del descrivere la famelica ferocia di Ugolino: il tema della fame e del pane tornerà infatti nel canto seguente come autentica chiave di lettura di tutto l’episodio.

Segue un paragone mitologico, che accosta Ugolino a Tideo, uno dei sette re che assediarono Tebe, il cui odio lo portò a rodere il cranio di Menalippo, il nemico che l’aveva ferito a morte,

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con una bestialità tale da far inorridire la stessa Atena; allo stesso modo il dannato ancora anoni-mo strazia il teschio e l’altre cose del suo nemico mortale. Il riferimento a Tebe non è casuale: ve-dremo alla fine dell’episodio la città sarà di nuovo citata come luogo in cui l’uomo ha abdicato all’umanità.

La ferocia di Ugolino è tale che Dante chiede al ghiacciato cosa lo abbia portato a quell’odio (O tu che mostri per sì bestial segno / odio sovra colui che tu ti mangi): se il motivo sarà giusto, Dante pro-mette di contraccambiarlo e vendicarlo parlando di lui quando tornerà tra i vivi. In questo modo Dante fa ad Ugolino la sola offerta che questi avrebbe potuto accettare; il conte, infatti, vive nel-la sola dimensione del suo odio, non sa ricordare altro. Il dolore gli consente di concentrarsi so-lo sulla sua vendetta, ed esclusivamente in prospettiva di essere vendicato ancora più profonda-mente sospende il fiero pasto per soddisfare la curiosità di Dante.

La domanda del poeta è la nota di cupa attesa su cui si chiude il canto, in un clima di commo-zione appena trattenuta nel modo in cui Dante si è rivolto al dannato e nella solennità nel suo giuramento (se quella con ch’io parlo non si secca).

L’avvio del racconto di Ugolino canto XXXIII, vv.1-21

Il nuovo canto, il trentatreesimo, si apre su un gesto terribile, sintesi di tutta la bestialità della fine del precedente: Ugolino che solleva il capo dallo strazio del suo nemico, un capo che è definito bocca con una metonimia che è anche tutto ciò che lo spettatore può vedere. Ugolino è tutto bocca, anima e corpo, in quanto tutto ciò che rima-ne in lui è il desiderio o l’istinto di vendicarsi, affondando i denti nel suo traditore. In questa bocca è anche il pensiero di Dante e del let-tore, nella bocca che non a caso è collocata così a inizio verso.

Il secondo gesto, quello di pulirsi la bocca dai residui del pasto, sem-brerebbe riportare il personaggio ad una condizione più umana, un dettaglio quasi di buone maniere. Ma con cosa se la forbisce? Ecco il colpo magistrale del poeta: a’ capelli / del capo ch’elli avea di retro guasto; un dettaglio, quello dei capelli usati come tovagliolo, che fa ripiom-bare di nuovo il conte nella bestialità.

Dante non si abbandona neanche ad un’esclamazione di orrore, ma prosegue, cedendo la pa-rola al suo personaggio. Il modo in cui l’inizio del canto si lega al precedente non può non ricor-dare la soluzione formale che lega i libri I e II dell’Eneide. L’analogia è particolarmente evidente nelle parole con cui Ugolino esordisce:

…Tu vuo’ ch’io rinnovelli disperato dolor che ‘l cor mi preme già pur pensando, pria ch’io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, parlar e lacrimar vedrai insieme.

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Il testo virgiliano, invece, dice:

Infandum, regina, iubes renovare dolorem Mi chiedi, regina, di rinnovare un dolore

indicibile

…Sed si tantus amor casus cognoscere nostrum …Ma se tanto grande è l’amore di cono-scere le nostre sventure

…quamquam animus meminisse horret luctuque refugit, …benché l’animo inorridisca di aver ricor-dato e si abbandoni al pianto,

incipiam. comincerò.

Si può confrontare anche un altro passo della Commedia, dal canto V, in cui Francesca da Ri-

mini risponde così a una domanda di Dante:

…Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice nella miseria; e ciò sa il tuo dottore. Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto dirò come colui che piange e dice.

Tra questi tre passi c’è una rete di analogie, in quanto evidentemente Dante in entrambi i casi prende esempio dal modello virgiliano. Commentando il passo dal canto V, Boccaccio vide ad-dirittura un riferimento diretto ai versi riportati di Virgilio in quell’e ciò sa il tuo dottore. I due esor-di danteschi, tuttavia, hanno accenti diversi tra di loro ed un diverso rapporto con il modello. Francesca mantiene il tono malinconico di Enea, rendendolo anzi ancor più accorato e dolce. Ugolino, al contrario, abbandona il registro elegiaco per assumere un tono duro e opprimente, gravato da parole pesanti come lapidi (disperato, preme, infamia, traditor). Il conte trova accenti di notevole potenza nel descrivere quel dolore che gli preme il cuore ancora prima di parlarne. Per Ugolino, a differenza di Francesca, non c’è un passato felice da ricordare contrapponendolo al presente: passato e presente sono pervasi dallo stesso odio doloroso.

Proprio qui si riscontra la principale differenza tra il nostro passo e gli altri due: Enea e Fran-cesca sono entrambi spinti a parlare dalla curiosità pietosa dell’interlocutore, che chiamano quasi con le stesse parole amore o affetto, e si decidono a narrare, pur fra le lacrime. Ugolino giunge alla stessa conclusione (parlar e lacrimar vedrai insieme), ma in conseguenza di un processo opposto, che ha radice nell’odio di cui s’è detto. Il conte parla nella speranza che le sue parole siano seme di un’infamia che sia una vendetta ancora peggiore dello strazio cui già sta sottoponendo il suo nemico, colui che l’ha tradito.

Ecco, quindi, che Dante chiede al conte di mettere il proprio odio di fronte ad uno specchio, tornando a rievocare i motivi che lo tengono in vita; e per Ugolino rievocare sarà rivivere; ma ciò che dà al conte la forza di tornare a provare affetto e dolore è proprio l’odio.

Nella sua ottica esclusiva di odio, Ugolino non si sofferma neanche su come faccia Dante, vi-vo, ad essere in quel luogo: l’unica cosa che gli interessa del suo interlocutore è il suo essere fio-rentino. Conoscerà quindi già la parte nota della sua vicenda, basterà dargli un paio di nomi per-ché Dante capisca di chi si tratta, e si ricorderà di come, tradito dall’arcivescovo mentre si fidava

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di lui, fu fatto prigioniero e poi ucciso (per l’effetto de’ suo’ mai pensieri / fidandomi di lui, io fossi pre-so / e poscia morto). Quello che Dante deve sapere per capire perché Ugolino si comporta con tan-ta ferocia insaziabile (perch’i son tal vicino) è ciò che non può aver sentito, i particolari della sua morte che solo il conte può conoscere, e che la rendono cruda.

Questo darà l’idea di come l’arcivescovo l’ha offeso per meritarsi quel terribile castigo, un ca-stigo che è divino oltre che umano: non è solo Ugolino a punire il suo nemico, ma anche la giu-stizia di Dio; la legge del contrappasso spiega perfettamente come, avendo condannato un uomo ed i suoi figli e nipoti a morire di fame, l’arcivescovo diventi fiero pasto.

Se Ugolino non accenna neppure al suo tradimento ed ai motivi della sua condanna (forse fu accusato di aver affamato Pisa, e per questo fu decisa la morte per inedia), l’arcivescovo, che per Dante è il vero traditore, non si difende per un altro motivo: è completamente privo di ogni ca-ratteristica umana. Non solo non ha parola, ma non grida, non si lamenta, non dà alcun segno di una coscienza; forse la mancanza di umanità del suo comportamento terreno si traduce nell’atteggiamento attuale, non solo disumano ma inerte; uno stato vegetativo, da uomo pietrifi-cato.

La rievocazione della prigionia canto XXXIII, vv.22-42

Il racconto del conte non è una narrazione precisa e ogget-tiva, ma è la descrizione di una serie di stati d’animo, emo-zioni ed allucinazioni, che segue un debole filo cronologico ma per il resto ha i caratteri della libera concatenazione di pensieri. Ecco, quindi, che il primo particolare che viene in mente a Ugolino è la feritoia della torre; il tono è ancora quello del disprezzo, un disprezzo che ironicamente defini-sce titolo, quasi fosse un nobile appellativo araldico, il so-prannome di “torre della fame”, derivato dal macabro ruo-lo. Del resto la torre mancherà di esercitare ancora il terri-bile compito: e ’n che conviene ancor ch’altrui si chiuda!

Questo è l’ultimo guizzo di amara ironia, d’ora in poi il tono diverrà malinconico e angoscio-so. Ci troviamo in fondo all’inferno, in un luogo dove esiste solo un odio che rende i dannati via via meno umani (fino ad arrivare ai dannati dell’ultima zona, del tutto sommersi, di cui si in-tuirà solo la presenza, o ai traditori massimi, che non avranno neanche la parola); ebbene, pro-prio qui Dante ha inserito una vicenda di grandissima pietà, forse la vicenda più umanamente sentita di tutta la Commedia.

Ugolino accenna alla feritoia perché attraverso essa contava le lune, cioè i mesi della sua pri-gionia: questo atteggiamento ci informa implicitamente sull’ansia del personaggio che aspettava che succedesse qualcosa, giorno dopo giorno, forse con una debole speranza di sopravvivere. Al buio oppressivo della torre, che simboleggia la mancanza di speranza, si contrappone la luce che viene dalla feritoia; vedremo come in seguito sarà proprio questa luce a mettere Ugolino di fron-te alla tragica realtà della prossima morte.

A rendere impossibile ogni residua speranza, tuttavia, arriva il sogno, che proprio per questo è definito mal sonno, con un’imprecazione che ci lascia immaginare quante illusioni abbia fatto ca-dere. Il sogno squarciò ‘l velame del futuro. La grandezza dell’inventiva dantesca in questo sogno non è solo nella perfezione dell’allegoria, delle cagne magre in cui si identifica il popolo minuto che aiutò i ghibellini e l’arcivescovo contro Ugolino; le cagne sono descritte con estrema effica-cia come “vere”, ma allo stesso tempo hanno questo significato, e così Dante attraverso il sogno

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rievoca l’episodio della cattura di Ugolino, chiarendo chi ne sono i responsabili: oltre all’arcivescovo, le famiglie ghibelline, il cui nome all’epoca era ben noto, e il popolo.

Il genio di Dante, però, si vede nella mescolanza di immagini oniriche, ricordi reali del conte e suoi presenti timori, che porta Ugolino a confondere il lupo e’ lupicini con sé stesso ed i propri figli. Ecco quindi che il conte li definisce padre e’ figli e descrive il loro inseguimento e la loro fine con una partecipazione tutta particolare. Si sente l’ansia dell’inseguimento, e si sente altrettanto bene, attraverso l’allitterazione della –r- che si chiude con uno “schiocco” nel verso mi parea lor veder fender li fianchi, il rumore delle agute scane che fanno parte del campo semantico del mangiare e del dilaniare.

Se il sogno ha i caratteri di un’oscura minaccia (morire), sentire i figli piangere nel sonno è un autentico lugubre presagio (morire per fame!); quando nel silenzio dell’alba risuonano i colpi della serratura che viene inchiodata, il presagio diventa orribile certezza. Prima ancora, però, con la comparsa dei figli nel racconto, c’è già un apice della commozione. Sentendo i figli che dor-mendo chiedono disperatamente pane (ed ecco il tema del pane che già si preannunciava dal canto precedente), Ugolino capisce (ciò che ‘l mio cor s’annunziava); comprende quale sarà la loro sorte, e al ricordare il terribile momento della comprensione il dannato che racconta si interrom-pe, sconvolto, aspettandosi di trovare la stessa angoscia anche in Dante che l’ascolta (e se non piangi, di che pianger suoli?). Il poeta al momento rimane muto, solo alla fine commenterà e sarà un’invettiva indimenticabile.

Il dramma di un padre canto XXXIII, vv.43-58

I figli fino a questo momento non erano stati citati; d’ora in poi saranno i protagonisti del rac-

conto paterno. E’ chiaro, infatti, che è il supplizio inferto ai figli la vera offesa sentita da Ugoli-no; mentre della propria condanna non gli importa nulla, così come non importa nulla a Dante, sull’ingiusta morte di quegli innocenti il poeta stesso si soffermerà nella celebre invettiva. E’ per la presenza dei figli che il racconto può continuare, mentre se Ugolino fosse stato solo potrebbe anche fermarsi qui. Ad opprimere il disgraziato conte non è la prospettiva di morire, ma di ve-der morire i suoi figlioli.

Vale la pena qui di fare un’osservazione. Sappiamo da altre fonti (Annales Pisani) che Ugolino era ormai un settantenne mentre figli e nipoti, macchiati della condanna per aver complottato con lui, erano molto giovani e probabilmente di corporatura robusta. Considerando queste due variabili è quasi logico pensare che il conte sia stato il primo a morire. Dante certo era a cono-scenza di questi particolari; ma cosa poteva essere più drammatico di un padre che vede morire davanti a sé i propri figli, bambini (e quindi innocenti facea l’età novella), senza poter fare nulla per salvarli? Tuttavia c’è dell’altro, e presto lo vedremo: il rapporto padre-figli verrà straniato e del tutto rovesciato.

Quando il conte sente che la serratura viene inchiodata, la sua prima reazione è quella di guar-dare in volto i suoi figlioli; in questa circostanza si vede in controluce l’Ugolino padre affettuoso, senza di cui non si potrebbe comprendere veramente l’Ugolino dell’odio bestiale ed eterno (scrive De Sanctis:“Quest’uomo odia molto, perché ha amato molto. L’odio è infinito, perché infinito è l’amore, e il dolore è disperato, perché non c’è vendetta uguale all’offesa”).

Solo conoscendo questo amore e il dolore che ancora deve colpire il conte si può capire vera-mente il suo odio; nel monologo del conte, è come se l’odio trovasse sé stesso allo specchio, lo specchio cui Dante l’ha messo di fronte, e ricordasse le proprie cause, tornando a provare i sen-timenti di quand’era in vita con la stessa forza con cui, alla fine del racconto, riprenderà a stra-

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ziare Ruggieri.

Ugolino rimane talmente sconvolto dal rumore della porta inchiodata che impietrisce. In que-sto momento non dice nulla perché semplicemente non ne è in grado; più avanti, invece, il suo silenzio sarà una decisione provocata dall’amore paterno. Il racconto ad ogni modo si configura come successione di parole e silenzi, di momenti in cui la tensione è trattenuta all’interno dei personaggi e di improvvise battute, quasi liberatrici, in cui esplode la tragedia.

La prima di queste battute è quella di Anselmuccio: poche parole (Tu guardi sì, padre! che hai?) che con la loro ingenuità infantile creano un fortissimo contrasto con la terribile consapevolezza di Ugolino. Già qui c’è un primo rovesciamento dei ruoli: è il figlio a preoccuparsi del genitore.

Anselmuccio ha intuito il dolore paterno semplicemente dalla sua espressione: quel sì indica un modo particolare di guardare, particolarmente intenso, che Anselmuccio non sa descrivere. Detto questo, la domanda è di un’innocenza spaventosa.

E’ qui che il padre tace, per non guastare questa innocenza; l’inconsapevolezza impedisce ai figli di provare i sentimenti che lacerano Ugolino, che lo spingono ad un gesto incontrollato: quello di mordersi le mani. Ciò che sconvolge Ugolino è vedere per quattro visi il mio aspetto stesso; ancora un elemento visivo, nel gioco di sguardi tra i prigionieri che supplisce alle parole; ad esse, infatti, si fa ricorso solo nei momenti-culmine della tensione drammatica.

L’offerta unanime dei figli canto XXXIII, vv.59-63

L’atto di mordersi le mani è interpretato dai

figli nel modo più semplice: come un segno di fame. Qui succede qualcosa di straordinario: i figli, che certo erano riversi a terra, immedia-tamente si alzano, offrendo al padre il sacrifi-cio di sé stessi. E’ un completo rovesciamento dei ruoli: di nuovo, sono i figli a preoccuparsi del genitore, non viceversa; ma soprattutto, il gesto è di una nobiltà incredibile che contrasta intensamente con la “volgarità” del manicar precedente, e nello stesso tempo, paradossal-mente, suggerisce un qualcosa di orribile. Pro-prio il contrasto tra il sublime e l’orrido ha portato alcuni commentatori ad ipotizzare che i figli non offrano l’orrore, ma la redenzione.

Le loro parole, infatti, (tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia) riecheggiano un passo delle Sacre Scritture, (libro di Giobbe, “Il Signore dà e il Signore toglie”); da questo momento gli echi biblici si moltiplicheranno, fino all’invettiva dantesca. Il sacrificio dei figli, in particolare, rientra in un insieme di riferimenti al sacrificio di Cristo che troveranno l’espressione più esplicita nel verso non dovei tu i figliuoi porre a tal croce e nell’invocazione di Gaddo morente.

L’interpretazione di questi segni ha portato Freccero ad ipotizzare che il sacrificio dei figli fos-se una possibilità di redenzione e che la colpa di Ugolino consista nella sua “incapacità di afferrare il significato spirituale sotto la lettera delle parole dei figli”. Parte della critica ha quindi letto tutto l’episodio in chiave simbolica, vedendo l’offerta dei figli come richiamo simbolico alla crocifis-

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sione; l’interpretazione, supportata dai detti elementi, si può estendere a tutto il canto.

Il tema del “masticamento”, infatti, pervade tutto il fondo dell’inferno, a partire dal supplizio dell’arcivescovo, fino al sogno di Ugolino, con le scane, fino al mordersi le mani e alla stessa morte per fame; e non ci si ferma qui, visto che in seguito ci sarà frate Alberigo, che uccise i suoi ospiti nel corso di un banchetto, e d’altra parte l’inferno culminerà con i traditori massimi stritolati nelle tre bocche di Lucifero. In questo insistere sul mangiare è stata vista una dissacra-zione dell’Ultima Cena che porta l’estremo inferno ad essere il rovescio dell’essenza del cristia-nesimo.

A questa interpretazione religiosa e simbolica delle parole dei figli si contrappone quella in chiave realistica di De Sanctis, che legge l’offerta non come sublima prova d’amore filiale, “sentimento troppo virile ne’ teneri petti”, ma come conseguenza della loro sofferenza; in particolare il critico, soffermandosi di più sulla prima parte della loro battuta (Padre, assai ci fia men doglia / se tu mangi di noi), ipotizza che, più che d’un’offerta, si tratti di invocazione della morte, invito a met-tere fine alla loro agonia.

Gallardo, invece, vede il gesto come ispirato dall’amore filiale, ma un amore in cui “si riflette istintiva la loro stessa fame, che li rende crudeli verso sé stessi e verso il misero padre al quale offrono le loro car-ni”.

Borges, dal canto suo, scrive che si tratta di “una delle pochissime falsità che la Commedia ammette… Dante, mi dico, non può non sentirne la falsità, aggravata senza dubbio dalla circostanza quasi corale che i quat-tro bambini all’unisono offrono il convito famelico”. Borges si spinge addirittura ad insinuare (ma rima-nendo proprio a livello di insinuazione) che si tratti “di una menzogna di Ugolino, tramata per giustifi-care (per insinuare) il crimine anteriore”.

Qui abbiamo un’interpretazione geniale, anche se molto ardita; c’è un richiamo alla psicanalisi: che Ugolino non abbia inventato, ma si sia convinto “inconsciamente” dell’offerta dei figli per giustificare il proprio orrendo crimine e mettere un freno al rimorso? Inoltre quel “suggerire” tra parentesi rimanda al gioco dei narratori, per cui dietro ad Ugolino si nasconde Dante, che inizia a creare quel campo d’incertezza e ambiguità da cui nascerà il tremendo dubbio sull’antropofagia del conte.

Forse i figli fanno la loro offerta di sé sopratutto per placare il padre, per fermare quel gesto terribile di mordersi le mani che fa loro tanto paura. E’ chiaro che quel gesto per loro è più spa-ventoso dello stesso pensiero di morte, che in qualche modo la giovane età aveva loro nascosto. E’ altrettanto chiaro, tuttavia, che il dolore di Ugolino non dipende dalla fame ma dallo strazio di non poterli aiutare; l’offerta quindi non fa che accrescere la sua disperazione.

La morte dei prigionieri

canto XXXIII, vv.67-75

Con un supremo sforzo di autocontrollo, Ugolino riacquista la padronanza di sé per non acui-

re il dolore dei quattro innocenti che esaspera il suo: Queta’ mi allor per non farli più tristi; / lo dì e l’altro stemmo tutti muti. Questo ennesimo lungo silenzio è interrotto dall’Ugolino-narratore con un’amara esclamazione (ahi dura terra, perché non t’apristi?) come precedentemente era accaduto in un punto focale (e se non piangi, di che pianger suoli?). In entrambi i casi è un’espressione molto na-turale dei sentimenti che sopraffanno Ugolino interrompendo il suo racconto, ma è anche un espediente del Dante auctor, per aumentare la suspense in un momento fondamentale.

Qui è degno di nota l’aggettivo dura riferito alla terra. Evidentemente per Ugolino è la terra

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UGOLINO: L’ODIO ALLO SPECCHIO

intera ad essere in qualche modo responsabile della sua tragedia; Dante, invece, più realistica-mente indirizzerà la sua invettiva ai soli pisani, veri colpevoli della orrenda crudeltà, almeno nei confronti dei figli innocenti.

L’esclamazione, inoltre, richiama un passo di Seneca; si tratta delle parole di Tieste quando questi si rende conto di essersi cibato delle carni dei suoi figli; difficile che sia un caso, data la cultura di Dante e l’apprezzamento che la cultura medievale riversa su Seneca; del mito di Tieste e dell’omonima tragedia latina avremo occasione di parlare anche in seguito.

Il primo a morire è Gaddo, e lo fa in modo drammatico e quasi teatrale, gettandosi ai piedi del padre e rompendo finalmente il silenzio con un grido, ancora una volta palesemente biblico (“Padre mio, ché non m’aiuti?”). E’ un richiamo fortissimo alle parole di Cristo crocefisso, e abbia-mo già parlato delle interpretazioni della morte dei figli come sacrificio e occasione mancata di redenzione per Ugolino. Anche se non si vogliono accettare tali interpretazioni, è innegabile che Dante nell’invettiva paragoni il supplizio degli innocenti a quello di Cristo, e che proprio questo motivi la maledizione, che è davvero di dimensioni bibliche.

Poi muoiono gli altri, e Dante sintetizza le tre morti in un verso lapidario (vid’io cascar li tre ad uno ad uno) che le sbriga velocemente ma insieme fa una specie di fermata su quell’uno ad uno che comunica chiaramente al lettore la tragedia; senza contare l’effetto della narrazione in prima per-sona, sottolineata dalla precisazione di Ugolino come tu mi vedi che ci ricorda che in questo mo-mento qualcuno sta rievocando, e questo qualcuno è il padre.

Il dramma non è ancora finito; manca la sua morte, ma non è questo che conta: sulla propria fine Ugolino non spenderà nemmeno una parola (a meno che non si voglia interpretare in que-sto senso il verso poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno, ma di questo si parlerà a breve). L’elemento che chiude degnamente la vicenda è un altro: qualcosa di veramente inquietante ed altrettanto controverso.

Ugolino, ormai cieco, per due giorni si dà a brancolar sopra i cadaveri dei figli, chiamandoli inu-tilmente: è un elemento straziante, ma soprattutto, nel complesso gioco di parole e silenzi che abbiamo visto, è significativo che solo ora lo sventurato possa dar sfogo chiamando a tutto il suo dolore, a quell’angoscia fino a quel momento faticosamente trattenuta nel silenzio.

La cecità che affligge Ugolino nei momenti in cui è più prossimo alla morte, in particolare, è un elemento che in due sole parole (già cieco) sa essere di incredibile efficacia. La perdita della vista, infatti, è una reale conseguenza del digiuno, ma aggiungendo questa nota Dante sottolinea anche la lacerazione dell’anima del conte; il particolare, insomma, ha un fortissimo effetto sul lettore: due semplici parole proiettano nella sua mente immagini crude e sconfortanti.

A questo punto c’è il verso già citato, poscia, più che ‘l dolor, potè ‘l digiuno, che è uno di quei versi danteschi su cui si sono versati fiumi d’inchiostro. Il significato letterale è chiarissimo: ciò che non poté fare il dolore, lo fece la fame. Il dolore non poté uccidere il conte, lo fece la fame. Questa è l’interpretazione storicamente più accreditata, e l’unica accettata dai commentatori anti-chi; ma il verso è talmente fitto di sottintesi che limitarsi a questo sembra quasi banale. Moltissi-me sono le ipotesi, più o meno convincenti.

Per averne un’idea, si può ricorrere al solito De Sanctis:“Forse invoca la morte, e si lamenta che il dolore non basti ad ucciderlo, e deve attendere la morte lenta della fame: è un sentimento di disperazione. Forse non cessa di chiamare i figli, se non quando la fame più potente del dolore gliene toglie la forza, mancatagli prima la vista e poi la voce. E’ un sentimento di tenerezza. Forse, mentre la natura spinge i denti sulle misere carni, in quell’ultimo delirio della fame e della vendetta quelle sono nella sua immaginazione le carni del suo nemico, e Dante ha realizzato il delirio nell’inferno, perpetuando quell’ultimo atto e quell’ultimo pensiero. E’ un sentimen-to di furore canino”; ipotesi, quest’ultima, che ai nostri occhi moderni appare davvero eccessiva.

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Sulla sospetta antropofagia di Ugolino L’interpretazione del verso poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno che ha influenzato di più la fanta-

sia di generazioni di lettori è certamente quella del cannibalismo; secondo questa teoria il digiu-no avrebbe vinto su ogni sentimento, spingendo il padre a cibarsi delle carni dei figli morti; e poco importa se in questo senso sarebbe stato più logico dire che il digiuno poté più dell’amore, visto che l’amore paterno più del dolore avrebbe dovuto impedire a Ugolino una simile barbarie.

L’ipotesi che il verso abbia questo significato è sensata, perché già nelle fonti storiche dell’epoca (Cronica fiorentina del secolo XIII) si dice che si trovò che ll’uno mangiò dele carni all’altro. Queste parole fanno pensare ad una sorta di cannibalismo reciproco, che fa ben altro effetto dell’atto di un padre nei confronti delle sue creature, ma sta di fatto che il riferimento all’antropofagia c’è.

Più ancora, pesa a favore di questa interpretazione la voce di Dante, che in tutto il canto e a partire dal precedente ha insistito sul tema della fame e del masticamento, come già più volte notato; e in particolare non bisogna dimenticare la straordinaria offerta di sé dei figli, che, para-dossalmente, con la sua nobiltà aveva insinuato nel lettore il sospetto della barbarie.

Ma perché Dante avrebbe dovuto inserire questo ele-mento macabro? Forse per mostrare come, ad opera della giustizia terrena, l’uomo possa ridursi alla bestialità di un padre che si ciba delle carni dei figli; è la stessa disumanità che porta Ugolino a straziare l’arcivescovo, e avremo occa-sione di parlarne più approfonditamente a proposito dell’invettiva. Ma c’è una spiegazione anche migliore.

Questa spiegazione si deve al Contini, che legge l’antropofagia del conte in una chiave anticonvenzionale: quella di topos letterario. Certamente non è necessario ri-cordare tutti i casi di tecnofagia presenti nel mito, che van-no da quello di Crono a quello di Tieste, senza contare il cannibalismo generico che, tanto nel mito quanto nella sto-ria (fin dalle Storie di Erodoto), non è mai mancato, a parti-re dagli albori dell’umanità.

Ad essere veramente significativa, tuttavia, nota Contini, è la definizione di “tragedia” che troviamo nelle Magnae derivationes di Uguccione da Pisa, uno dei più importanti e noti libri di etimologie del medioevo; in esso per definire la tragedia si dice che essa si occupa “di fatti atroci, come quello di colui che uccide il padre, o di colui che si ciba del proprio figlio, oppure il contrario”. Ora, la definizione e l’etimologia di com-media e tragedia delle Derivationes sono le stesse che Dante riporta nell’Epistola a Cangrande, quindi è certo che il poeta conoscesse l’opera di Uguccione.

Inoltre non bisogna dimenticare, continua Contini, la Tebaide di Stazio, in cui è presente l’antropofagia nell’episodio di Tideo e Menalippo; abbiamo già visto come Dante, che evidente-mente conosce l’opera di Stazio, per descrivere la ferocia di Ugolino lo paragoni proprio a Tide-

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UGOLINO: L’ODIO ALLO SPECCHIO

o; ancora in seguito, quando verrà ripresa la descrizione di Ugolino che rode il cranio dell’arcivescovo, negli occhi torti, biechi, si sentirà l’eco dei lumina torva di cui parla Stazio nell’episodio corrispondente.

Nell’Ars poetica di Orazio, poi, come esempio di tragedia si parla del mito di Atreo che imbandì a Tieste le carni dei suoi figli; Dante citerà l’opera di Orazio ancora nell’Epistola a Cangrande, in-sieme, guarda caso, alle tragedie di Seneca, come il già citato Tieste, da cui deriverebbe l’esclamazione di Ugolino ahi dura terra ecc.

Anche nella letteratura medievale non mancano casi di tecnofagia; Contini cita come esempio quello contenuto in una chanson de geste, Ami et amile, molto nota ai tempi di Dante. Quindi, con-clude Contini, in questo contesto non sembrerebbe affatto strano che Dante abbia scelto l’antropofagia per concludere la tragedia di Ugolino. Non sarebbe semplice suggestione, o come scrive De Sanctis “una bruttezza, un fatto fuor del naturale e del verosimile” ma al contrario, sostiene Contini, si tratterebbe di un elemento ben codificato nella tradizione letteraria, “un topos preesisten-te, inserito e quasi intarsiato come caso limite entro una vicenda proverbialmente estrema”.

Borges, dal canto suo, sottolineò come non sia importante il problema storico, chiaramente irrisolvibile, ma quello estetico e letterario: “Dante ha voluto che pensassimo che Ugolino si sia dato al cannibalismo? (…) Dante ha voluto non che lo pensassimo, ma che lo sospettassimo”; anzi, prosegue Borges, lo stesso Dante non sapeva più di quello che ha scritto nelle sue terzine: “Con due possibili agonie lo ha sognato Dante e così lo sogneranno le generazioni future!”.

Studi scientifici hanno ormai scongiurato il mito dell’antropofagia, una leggenda metropolita-na, come si direbbe oggi, che ha imperversato nelle città fiorentine sino agli ultimi anni del nove-cento. Secondo alcune ricerche condotte da un famoso paleo-dietologo, infatti, né Ugolino né i suoi figli si cibarono l’uno dell’altro. Le analisi condotte vertono su riscontri ben precisi.

Un primo studio si è tenuto sulle presunte ossa delle vittime della torre della Fame, dalle quali si è notato della carenza dei segni di morsicature che denoterebbero il tentativo da parte delle vittime di mangiarsi a vicenda. Un secondo studio si è tenuto tramite analisi chimiche che hanno confermato che al momento della morte nessuno dei Gherardesca si era cibato di carne per al-meno un anno.

L’ipotesi del cannibalismo, quindi, sarebbe solo una trasfigurazione popolare; probabilmente lo stesso Dante ne era cosciente, e per questo lasciò il velo di mistero volontariamente; quello di Dante sarebbe vero e proprio desiderio di suggestionare il lettore tramite l’avanzamento di ipo-tesi macabre.

A questo proposito, Contini sottolinea come il verso concluda la tragedia con “un nodo di reti-cenza nella strozza, uno psicologico “colpo di glottide” pari a “Quel giorno più non vi leggemmo avante” o a “Iddio si sa qual poi mia vita fusi””. Su questa reticenza il racconto di Ugolino si conclude.

La fine dell’episodio e l’invettiva canto XXXIII, vv.76-90

Ugolino, senza più parola, ritorna a straziare l’arcivescovo, rimanendo in una posa di eternità

davvero indimenticabile. Dopo aver provato dolore e un disperato amore per i suoi figli, è di nuovo l’odio a possederlo; è anche logico, se si pensa che per il conte raccontare a Dante la pro-pria fine è stato rivivere: l’odio di Ugolino continua ad alimentare sé stesso.

Dopo essere ridiventato uomo per qualche momento, il conte è di nuovo la bestia che lacera le carni di Ruggieri in un furore che lo stesso Dante descrive come non più umano ma canino

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(Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti / riprese ‘l teschio misero co’ denti / che furo all’osso, come d’un can, forti). E’ lo stesso atto in cui l’avevamo visto alla sua appari-zione, ma dopo aver sentito la sua storia ha tutto un al-tro sapore; la descrizione, inoltre, è particolarmente effi-cace: gli occhi torcendosi sembrano testimoniare la per-dita di coscienza di Ugolino, che torna a mordere quasi per istinto, e pare di sentire il rumore dei denti che ro-sicchiano l’osso. Il duro teschio dell’arcivescovo, defini-to “misero”, cessa per un attimo di essere una cosa, la-sciando intravedere la presenza d’una creatura umana che soffre; è il massimo grado di umanità concesso a Ruggieri.

Dante per tutto il canto fino a questo punto ha lasciato la parola al suo personaggio, senza fare alcun commen-to; ora la sua indignazione si esprime in un’invettiva for-tissima. L’esordio ha una grande enfasi retorica, che in Dante non è mai fuori misura e qui si indirizza contro Pisa, con una personificazione di grande effetto, invece

che contro ai suoi abitanti (Ahi Pisa, vituperio de le genti), e si accompagna con una perifrasi per indicare l’Italia (del bel paese là dove ‘l sì suona, secondo la teoria linguistica esposta nel De Vulgari Eloquentia).

La vera e propria maledizione è il culmine degli echi biblici: quello di Dante è autentico biblico furore, che si rivolge contro un’intera città, come una nuova Sodoma, augurando un castigo smi-surato per sottolineare come enorme era stata la colpa nei confronti dei quattro piccoli innocen-ti; “una colpa”, scrive Gallardo, “che consiste nell’avere spinto esseri umani ad una degradazione, ad uno sta-to disumano: fino a rendere possibile anche il solo pensiero che un padre possa cibarsi delle carni dei figli”.

Per Dante la colpa dei Pisani è particolarmente grave perché la giustizia umana si è resa colpe-vole di un crimine tale da ridurre un uomo a bestia; la decisione dei Pisani, infatti, ha condanna-to Ugolino ed i suoi figli e nipoti a una fine terribile e inumana, al punto da far degenerare il conte allo stato, appunto inumano, in cui lo vediamo nell’inferno.

Inoltre alla terribile fine, già riprovevole per la sua immoralità, sono stati destinati anche degli innocenti. Il civile consorzio umano è diventato un nido di odio che fa strazio anche di vittime innocenti: la giustizia dell’uomo ha agito in modo disumano, andando quindi contro natura e di conseguenza contro Dio. Dante non può sopportare questa aberrazione, anche più grave dell’orrore della fine di Ugolino in sé; ecco quindi la condanna durissima del poeta.

Come già abbiamo sottolineato a proposito delle letture in chiave simbolico-religiosa del can-to, l’orribile condanna della torre della Fame è definita croce; a questa croce Pisa non doveva por-re anche coloro che per l’età novella non potevano essere colpevoli.

Per quanto riguarda il padre, si può notare che Dante scrive se ‘l conte Ugolino aveva voce / d’aver tradita te de le castella, mostrandosi scettico riguardo al suo tradimento; ma allora come mai Ugoli-no è all’inferno? E’ stato ipotizzato che il conte sia punito in quanto traditore della parte ghibel-lina; rimane, però, un motivo piuttosto debole, anche perché il fatto stesso che il conte fosse passato dalla parte guelfa non è per nulla provato.

C’è ancora una cosa da notare: Dante apostrofa Pisa come novella Tebe, e la figura retorica della replicazione, fondata sull’uso equivoco dell’aggettivo (innocenti facea l’età novella / novella Tebe), conforme allo stile eloquente dell’invettiva, accentua il paragone fra le due città.

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Alcuni commentatori hanno sottolineato come il mitico fondatore di Pisa fosse Pelope, figlio di Tantalo re di Tebe; è lo stesso Pelope da cui discendono Atreo e Tieste, e non bisogna di-menticare che proprio durante la guerra dei sette contro Tebe è ambientato l’episodio già citato di Tideo e Menalippo.

La città di Tebe, insomma, è il centro della mitologia dell’orrido che fa da sfondo a questo canto; Dante quindi la cita come luogo di crimini efferati e orribili, ma non è tutto: la città infatti è anche l’ambientazione dell’Antigone, la tragedia che più d’ogni altra opera ha dato voce al con-trasto tra la legge umana e quella di natura o divina. Anche se Dante non aveva letto Sofocle, è probabile che conoscesse la vicenda che presenta lo stesso contrasto che ha portato il poeta all’aspra condanna di Pisa.

La nostra interpretazione: un contrappasso ferreo

Il trattamento riservato da Dante al conte Ugolino presenta un’apparente eccezionalità: il con-

te ha il privilegio di potersi vendicare sul suo nemico mortale; inoltre, come abbiamo visto, non è neanche chiaro come mai Ugolino sia all’inferno, visto che Dante si mostra scettico sul suo tradimento. Certamente il conte aveva delle colpe, ma colpe che nella realtà politica del Duecen-to rispondevano alla norma.

Inoltre non bisogna dimenticare che è Dante a decidere se condannare o meno un’anima; se il poeta ha scelto di destinare Ugolino all’inferno, ci deve essere un forte motivo. Le colpe politi-che di Ugolino non sembrano sufficienti per giustificare questa scelta. Per giustificare queste apparenti incongruenze bisogna analizzare il contrappasso dantesco.

Per quanto riguarda il supplizio dell’arcivescovo, indubbiamente si tratta di un unicum: nessun altra anima dell’inferno è punita da un dannato e, cosa ancor più importante, dalla sua vitti-ma. Attraverso il contrappasso, tuttavia, diventano evidenti i motivi di questa scelta di Dante.

La colpa dell’arcivescovo, come abbia-mo visto, consiste non solo nell’aver tra-dito il conte, ma soprattutto nell’averlo destinato a una fine immorale, che ha annullato la sua umanità, riducendolo allo stato in cui lo vediamo all’inferno.

Proprio per questo, secondo noi, l’arcivescovo è condannato ad essere eternamente straziato in modo ferino; il contrappasso non consiste semplicemente nel fatto che un uomo che ha fatto morire di fame venga divorato, e neppure che a “saziarsi” di Ruggieri sia proprio la sua vittima; la punizione è architettata da Dante in modo particolarmente raffinato.

Il senso del contrappasso dantesco, a nostro parere, è questo: Ruggieri, destinando Ugolino a quella fine, lo ha condannato a diventare bestia (ed ecco l’immoralità della torre della Fame); all’inferno subisce su di sé gli effetti di questa bestialità, venendo martoriato in modo davvero animalesco. Il modo migliore per fargli subire lo stesso (il contrappasso) è farlo straziare da chi è

diventato davvero una bestia, la sua vittima, che però è là non solo come vittima, ma per l’appunto come bestia.

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Anche i motivi della condanna di Ugolino all’inferno si possono spiegare agevolmente attra-verso l’interpretazione del contrappasso; il disgraziato conte, infatti, è punito nel Cocito da quel-lo che, secondo noi, è un particolare tipo di supplizio: l’odio che lo ossessiona per l’arcivescovo.

Il contrappasso, infatti, consiste essenzialmente in questo: all’inferno ogni dannato viene desti-nato a una condizione che corrisponde, per analogia o per contrasto, alla sua colpa sulla terra; ora, la vera colpa di Ugolino, secondo noi, è nella sua cecità (si riferiva forse a questo la defini-zione di cieco?), nell’incapacità di capire il ruolo della vita ultraterrena, nell’ottica dantesca l’unica veramente importante.

Questa nostra interpretazione deriva da quella simbolico-religiosa che, come abbiamo visto, legge nel sacrificio dei figli una possibilità di redenzione, un valore di sacralità che Ugolino non ha saputo capire. E’ innegabile che la morte dei figli sia continuamente accostata a quella di Cri-sto, e infatti in entrambi i casi si tratta del supplizio di innocenti; Ugolino non ha saputo vedere questa sacralità che attraverso la fede gli avrebbe potuto dare la salvezza.

Ugolino non ha la fede, che nella torre avrebbe potuto dargli conforto, trasformando la fine dei prigionieri quasi in martirio, in quel sacrificio analogo a quello di Cristo a cui abbondano i riferimenti. La mancanza della fede è la vera colpa del disgraziato conte.

Forse ipotizzare la punizione di Ugolino per mancanza di fede può sembrare avventato, ma gli elementi a favore di questa teoria sono parecchi: prima di tutto il fatto che Ugolino in tutto il suo monologo non faccia mai riferimento a Dio. La sua unica invocazione è rivolta alla dura ter-ra, quasi a sottolineare la mancanza di conforto spirituale e come per il conte non esista altro che questa terra.

Di fronte alla sua impotenza nei confronti dei figli, Ugolino non reagisce come avrebbe dovu-to secondo la teologia, rimettendo il destino suo e degli innocenti nelle mani di Dio: manca del tutto la consolazione spirituale. Ugolino reagisce in modo già quasi animalesco, mordendosi le mani.

La fede, infatti, per la teologia di Dante è l’elemento che distingue l’uomo dagli animali. Infatti Ugolino, in mancanza di fede, regredisce alla condizione di bestia, la stessa condizione a cui sarà ridotto per sempre all’inferno.

Non riuscendo a staccarsi dall’ottica terrena, il conte nel Cocito, con un contrappasso talmen-te ferreo che è strano che nessuno dei commentatori più noti lo sottolinei, è condannato all’odio; l’odio, infatti, opposto del principio alla base del cristianesimo, il comandamento dell’amore, è il sentimento terreno per eccellenza.

Proprio per questo l’ultimo cerchio dell’inferno è immerso in un’atmosfera di odio che, in epi-sodi come quello grottesco di Bocca degli Abati, influenza lo stesso Dante; quest’odio è il capo-volgimento della dottrina cristiana dell’amore, così come l’antropofagia e il “masticamento” so-no la dissacrazione, fondata appunto sull’odio, della cena di cristo, supremo atto d’amore.

Il conte, che nella torre non ha avuto la fede, il pentimento ed il perdono divino, è condanna-to ad essere eternamente preda di un odio ferino e implacabile, odio che scarica brutalmente sull’arcivescovo; ecco quindi che entrambi i dannati sono puniti, con un’applicazione magistrale del contrappasso che, a nostro parere, è la chiave dell’intero episodio.

Il personaggio nella cultura moderna

Digitando “Ugolino” su un motore di ricerca in Internet si trova un elenco la cui prima voce

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non riguarda il conte della Gherardesca, ma il “Circolo del Golf dell’Ugolino”; si tratta addirittura del primo golf club in Italia, fondato con questo nome nel 1933 ma risalente al 1889. Ugolino è an-che il nome d'arte di Guido Lamberti, cantautore italiano che è stato attivo negli anni settanta e ottanta, considerato uno dei padri del rock demenziale.

Golf e rock demenziale a parte, il personaggio di Dante ha avuto una fortuna di pubblico che non si vede solo dalle molte illustrazioni della Commedia o opere ad essa ispirate, ma anche dai molti riferimenti che vanno dalla letteratura alla cultura pop.

La figura di Ugolino ha assunto una valenza differente da quella originale, soprattutto con la crescente diffusione dell’ipotesi dell’antropofagia, che fece passare alla storia il personaggio co-me il conte cannibale; anche oggi è chiamato così, specialmente al di fuori dell’Italia (Cannibal Count nei paesi di lingua inglese).

Questa connotazione assunta dal personaggio (diventato via via cannibale, orco o vampiro) emerge bene dalla seguente poesia del poeta francese Jules Laforgue (1860-87), non a caso citata ne Il paradiso degli orchi di Daniel Pennac:

Il était un petit navire C’era una volta una piccola nave

Ou Ugolin mena ses fils, su cui Ugolino condusse i figli

Sous prétexte, le vieux vampire ! con il pretesto, vecchio vampiro,

De les faire voyager gratis. di farli viaggiare gratis. Au bout de cinq à six semaines, Ma dopo cinque, sei settimane,

Les vivres vinrent à manquer, i viveri vennero a mancare,

Il dit : »Vous mettez pas en peine ; lui disse:“Non vi preoccupate;

Mes fil m’ont jamais dégoûté !» i miei figli non m’hanno mai disgustato! On tira z’à la courte paille, Quindi si tirò a sorte,

Formalité ! Raffinement ! formalità! raffinatezza!

Car cet homme, il n’avait d’entrailles perché quest’uomo aveva stomaco

Qu’pour en calmer les tiraill’ments. Solo per placare i morsi della fame. Et donc, stoïque et légendaire, E quindi, stoico e leggendario,

Ugolin mangea ses enfants, Ugolino si mangiò i figli,

Afin d’leur conserver un père… per conservare loro un padre…

Oh ! quand j’y song’ mon cœur se fend. Oh! Quando ci penso il cuore mi si spezza.

La popolarità del conte fuori dagli ambienti “culturali” è attestata anche da due film, entrambi in bianco e nero, intitolati allo stesso modo, “Il conte Ugolino”; il primo, mu-to del 1908, fu diretto da Giuseppe de Liguoro che interpretò anche il protagonista; il secondo, del 1949, ebbe regia di Riccardo Freda e sceneggiatura di Stefano Vanzina e Mario Monicelli.

Ma la notorietà del nostro Ugolino non si ferma qui: ha avuto anche una versione per bambini, in Topolino del 1950 (a quanto pare nel secondo dopoguerra il conte ebbe un momento di particolare celebrità). In quel fumetto le vignette erano accompagnate

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da una serie di terzine di endecasillabi rime incatenate, ad imitazione della Commedia, ed ecco un Dante-Topolino:

Io chiesi ad un di lor:“Quali peccata devi scontare, immerso in questo vasto pantano freddo come una cassata?” La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, poi disse:“Topolino, ora tu tocchi un doloroso tasto! Tu dei saper ch’io fui ConteUgolino e arbitravo in Pisa una partita

ecc., perché si tratta di un Ugolino-arbitro che si dichiara “una vitti-ma del foot-ball” e, al posto del cranio dell’arcivescovo, affonda i denti … in un pallone da calcio! L’arbitro dannato racconta di essersi ven-duto (e non si può dire che la satira non sia ancora attuale), di aver finto di non vedere “un fallo della squadra preferita” (“Cosa vuoi? Quella squadra m’era molto cara! Mi aveva regalato un milione!”). E quindi:

“Tutti gridavan:“Arbitro venduto! Vai all’inferno! Crepa d’accidenti!” E come vedi qui sono piovuto!”

Ed ecco l’invettiva:

“Ahi, Foot-ball, vituperio delle genti! Se i calci altrui ancor non t’han sfondato, io ti distruggerò con questi denti”

e l’arbitro dannato affonda i denti nel pallone, che naturalmente gli scoppia in faccia con un boato terribile…e come parodia, bisogna ammetterlo, non c’è male! Le raffigurazioni dell’episodio

L’episodio del conte Ugolino è stato rappresentato in decine di illustrazioni che vanno dalle miniature dei codici medievali alle opere di arte d’avanguardia e contemporanea; noi abbiamo fatto una scelta delle più significative, seguendo il filo cronologico e impostando il nostro lavoro sul confronto. Le immagini possono essere raggruppare intorno a due centri tematici: le raffigu-razioni di Ugolino che strazia l’arcivescovo nel Cocito e quelle dei prigionieri nella torre della Fame.

La prima opera in assoluto ad esserci giunta è la miniatura di un codice del quattordicesimo secolo, quindi di poco posteriore alla Commedia; rappresenta la scena del Cocito, che evidente-mente era considerata più significativa rispetto a quella della Torre, che nei secoli successivi pre-varrà; o forse semplicemente nel Trecento non si poteva ancora concepire la rappresentazione di un episodio narrato da un personaggio, e ci si limitava a raffigurare il viaggio di Dante.

Rispetto agli esempi posteriori, è interessante notare come del ghiaccio del Cocito si veda solo

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un piccolo specchio color giallo pallido, che testimonia una certa difficoltà a rappresentare il ghiaccio, mentre la buca in cui sono immersi il conte e l’arcivescovo sembra una grotta nella roccia.

Anche nella rappresentazione della figura umana c’è molta incertezza; i due personaggi sulla sinistra, in particolare, seguono lo schema fisso e piuttosto stilizzato delle miniature dei codici religiosi, in modo tale che Dante e Virgilio sembrano figure di santi; quello più a sinistra, identi-ficato come Dante, ha le mani in posizione di preghiera; l’altro, identificato come Virgilio ha un braccio teso, ed è interessante notare che in questa posizione vedremo successivamente più vol-te Dante.

Un’altra particolarità di questa raffigurazione è che Ruggeri indossa la mitra della sua carica di arcivescovo, elemento che nelle rappresentazioni successive non comparirà più. Si può ipotizza-re che nel Trecento fosse più sentito il contrasto tra i due ruoli di conte-arcivescovo, mentre oggi, e nelle opere dei secoli successivi, si dà più importanza all’aspetto umano che a quello poli-tico.

A dare un’intrinseca bellezza a quest’immagine sono i colori, che sono particolari, sia per il verde venato di rosso del terreno che fa contrasto col blu del “cielo” (colori insoliti per l’inferno!), sia per il rivolo rosso di sangue che corre lungo il corpo accasciato dell’arcivescovo, dando forza all’intera rappresentazione.

Il sangue successivamente non comparirà più; la maggior parte delle illustrazioni, inoltre, sa-ranno in bianco e nero, o monocromatiche (cioè con un solo colore in diverse sfumature).

Priamo della Quercia

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Nell’esempio successivo, una miniatura del secolo successivo attribuita a un certo Priamo della

Quercia, vediamo come accanto alla scena del Cocito entri per la prima volta nella rappresenta-zione il racconto di Ugolino.

Anche in quest’opera vediamo un’oggettiva difficoltà a rappresentare il ghiaccio, reso con co-me delle fiamme color giallo ocra, tonalità che è la stessa dei corpi nudi dei dannati. Sul generale ocra spiccano Dante e Virgilio, vestiti con abiti di foggia medievale di colori vivaci. Virgilio, in particolare, ha un volto che segue lo schema dei filosofi antichi, con barba; questo risponde alla considerazione che si aveva di lui in età medievale, quando il poeta dell’Eneide era visto come saggio o come profeta; dante, invece, ha un copricapo che ricorda quello poi diventato celebre, anche se in azzurro in luogo del consueto rosso.

Azzurro e rosso sono gli unici due colori oltre al giallo ocra; per quanto riguarda la scena del Cocito, si vede l’arcivescovo riverso, con la bocca spalancata come in un grido di dolore, mentre Ugolino ha le braccia curiosamente alzate come in un drammatico gesticolare.

Quello che rende unica questa miniatura, tuttavia, è il fatto che al centro ci sia la raffigurazione della torre della Fame, con tanto di porta sbarrata; all’interno si vedono due distinte scene: in quella superiore si vede Ugolino che si morde le mani in un gesto intenso anche se molto stiliz-zato e i figli raggruppati dall’altro lato, evidentemente spaventati dal gesto paterno.

Tutti i personaggi sono già nudi, come i dannati, anche se per i figli non i può presupporre implicazione morale; nella scena sottostante vediamo Ugolino steso a terra sopra i corpi degli altri già morti, in una soluzione compositiva davvero unica.

Giovanni Stradano

La raffigurazione che Giovanni Stradano, pittore fiammingo vissuto nella seconda metà del Cin-quecento, realizzò nel 1587 per illustrare il canto di Ugolino è divisa orizzontalmente in due sce-ne.

In quella inferiore c’è la rappresentazione del Cocito; tutta l’opera è composta di toni di che vanno dal rossic-cio al giallo-ocra, e per questo il ghiaccio non si ricono-sce a prima vista come tale, ma il trattamento della super-ficie è raffinato, neanche paragonabile agli esempi dei secoli precedenti visto che in prossimità della buca dei due dannati il ghiaccio è reso in trasparenza.

Ci sono vari dannati di cui emerge solo il capo; i loro volti sono lasciati come privi di espressione, come ele-menti secondari (vedremo come in altre opere gli altri dannati acquisiranno una maggiore importanza composi-tiva). A destra ci sono Dante e Virgilio; entrambi sono rivolti verso Ugolino; l’Alighieri è chino verso il dannato ed ha la mano destra tesa in un gesto che potrebbe essere interrogativo oppure, dato che dall’immagine sovrastante si capisce che siamo alla fine del racconto di Ugolino, potrebbe preludere all’invettiva.

Il gesto è lo stesso in cui nella nostra prima illustrazio-ne si vedeva Virgilio, che qui non si mostra coinvolto e rimane piuttosto marginale (così come nel canto dante-

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sco, dove la guida scompare per tutta la durata dell’episodio).

Gli sguardi di Virgilio e soprattutto di Dante formano una linea-forza che guida l’osservatore alla sinistra, dove c’è il centro, se non compositivo, almeno emotivo della rappresentazione. Stradano immerge i due dannati in una buca larga e piuttosto profonda, in cui si vede il corpo, prostrato e inanimato, dell’arcivescovo; su di esso, in una posizione fortemente dinamica, c’è la figura spaventosa del conte.

La forza di questa illustrazione sta prima di tutto nell’aspetto di Ugolino, rappresentato nella torsione con cui, chino sul suo nemico, alza lo sguardo a raggiungere Dante; del conte si vede la muscolatura stravolta, e la schiena e le braccia sono in una posizione quasi innaturale; il volto, anche se stilizzato o forse proprio per questo, è particolarmente espressivo di quella bestialità che abbiamo individuato commentando il canto e che rende la postura del conte davvero animalesca.

Nella parte superiore dell’immagine c’è invece, evocata dalle parole di Ugolino, la scena della torre, in una nuvola come di sogno. In un ambiente molto semplice, appena movimentato da alcune catene, vediamo un Ugolino anco-ra umano, ma già avviato verso la dannazione della bestia-lità, che brancola alla cieca sopra i cadaveri dei figli.

Heinrich Füssli

Come abbiamo già accennato, con il passare dei secoli la scena del Cocito perse progressivamente importanza, mentre i prigionieri nella torre della Fame divennero il soggetto della maggior parte delle rappresentazioni dell’episodio.

Ne è un esempio questa illustrazione di Heinrich Füssli, pittore svizzero attivo tra ‘700 e ‘800; un artista di tenden-ze romantiche che, pur traendo ispirazione dall'arte anrica e su Michelangelo, come i neoclassici, scelse soggetti di ispirazione romantica, ricchi di pathos e di immaginazione, di gesti violenti e atmosfere magiche, spesso tratti dagli episodi più visionari delle grandi opere poetiche; ed eccone un esempio.

Questa immagine ci mostra come a inizio ‘800 al centro dell’interesse non ci sia più la funzio-ne edificante, cioè la punizione del dannato, ma il dramma umano di Ugolino. Ecco quindi che il conte non è più genericamente un dannato, nudo anche nella torre come all’inferno (che qui non è neppure rappresentato); ora l’importante è Ugolino come uomo, nella sua unicità.

Füssli rende la personalità di Ugolino attraverso uno sguardo intensissimo rivolto verso l’osservatore, in cui si vede –ed è questa la chiave del fascino di quest’opera- sia l’odio futuro, sia l’umanità, la mancanza di luce e di speranza che non riesce a rassegnarsi e, di fronte alla morte dei figli, brucia di impotenza e rimorso.

La caratteristica peculiare di questo Ugolino è la lucidità, che si rispecchia nel suo sguardo: a differenza di molte altre rappresentazioni che vedremo, qui il conte è perfettamente cosciente, non ha in sé la follia che prelude alla dannazione.

Il buio del futuro del conte, come già in Dante, si esprime nel buio della torre. Ugolino è in una posa statuaria; regge tra le braccia il cadavere di un figlio, riverso in una posa innaturale che rende subito chiaro come non potrebbe che essere morto. La presenza di questo figlio morto dà

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allo sguardo, in sé quasi arcigno, di Ugolino una luce diversa: una grande dignità. Un altro figlio è sulla sinistra, in ombra, con un’espressione di sofferenza che non dà addito a dubbi sul suo destino, completando una composizione di forza non comune.

William Blake

William Blake fu poeta e pittore di straordinaria grandezza, celebre soprattutto per la sua valo-

rizzazione del ruolo dell’immaginazione, considerata l’essenza dell’esistenza umana. Difficilmen-te ricollegabile ad un movimento artistico preciso, Blake è l’artista del sublime e della visione.

Incaricato nel 1826 di illustrare la Commedia, vi lavorò fino all’anno successivo, quando morì, e si dice che vi abbia lavorato fino all’ultimo anche il giorno stesso della morte, tanto il suo impe-gno nelle illustrazioni era febbrile. Della scena nella torre dà un’interpretazione in chiave roman-tica e tormentata, con figure visionarie e molto espressive.

Per le sue peculiarità sceniche, l’episodio non sarebbe potuto sfuggire all’artista. Blake costruisce una composizione perfetta-mente simmetrica ed equilibrata, lasciando che la poetica ro-mantica ed espressiva si esprima dolo nei colori tipici del suo stile e della sua poetica.

Al centro della scena c’è il conte, con un’espressione intensa e quasi solenne e lo sguardo fisso sull’osservatore; da ogni lato, un primo figlio abbracciato dal padre e un secondo abbandona-to contro una parete. Questa parete funge anche da parete di fondo, e questo crea un’incertezza nella rappresentazione spa-ziale che accentua l’effetto di visione.

La composizione è di forte impatto visivo; la colorazione crea un’atmosfera mossa che bilancia la staticità della composizione perfettamente simmetrica, appa-re studiata accuratamente anche in particolari come le gambe del Conte e degli altri due fanciulli, rannicchiati in quello che sembra, più che morte, un tranquillo sonno.

La tecnica impiegata è quella dell’acquerello, che con i suoi colori diafani sostituisce il buio naturale, in cui nelle altre raffigurazioni è immerso l’interno della torre, con una luce leggera e sfumata che cade angelica sui poveri affamati.

Oltre ai prigionieri, ci sono nella parte superiore dell’acquerello due angeli, che rispettano la simmetria compositiva e danno all’opera una prospettiva soprannaturale e divina. I contorni de-gli angeli sono percorsi da una linea di luce, e fra le due teste, esattamente al di sopra del capo di Ugolino, la luce si condensa in un alone color fuoco.

L’episodio, quindi, più che di tragicità, è visto in una prospettiva di assoluzione divina. Rimane dubbio se lo spiraglio di salvezza, l’occhio divino che punta sulla scena sia per i figli e basta, vi-sto che poi Ugolino ricompare all’Inferno, oppure se la misericordia di Dio sia concessa a tutti i prigionieri e sia poi il conte a non essere in grado di salvarsi.

Questa seconda possibilità appare più probabile; è interessante, anzi, come questa immagine si ricolleghi all’interpretazione simbolica dell’episodio di cui abbiamo parlato nel commento, che vede nel sacrificio dei figli innocenti un’analogia con quello di Cristo che trasforma la morte in qualcosa di sacro, e in possibilità di redenzione per Ugolino.

Indubbiamente la presenza dei due angeli eleva l’episodio dal piano del macabro a quello del sacro, più congeniale alla poetica di Blake. A questo proposito, si può notare come il conte strin-

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ga i figli più vicini in un gesto affettuoso che non si trova per nulla nel canto dantesco. Blake svuota la scena del suo contenuto tragico per creare una visione affascinante e dai toni intensi ma delicati, in cui il dolore è trasfigurato nel sacro e nel sublime.

Eugène Delacroix

Un uso sapiente della luce è la cifra distintiva dell’opera del principale esponente del Romanticismo figurativo, il pittore Eugène Delacroix; l’opera, del 1856, è intitolata “Ugolino e i suoi figli nella torre” (è da notare che a partire dall’Ottocento non manca mai il riferimento ai figli nel titolo).

Della prigione si vedono solo una grande colonna, alcune catene ed i gradini su cui sono riversi i perso-naggi; la luce che penetra da una feritoia evidenzia i volumi del padre e di tre figli (il quarto è visibile sullo sfondo), che formano una composizione triangolare molto calibrata, il cui vertice è formato dal-la testa di Ugolino, che ha lo sguardo rivolto verso uno dei figli: Gaddo, che sta implorando aiu-to per l’ultima volta.

La composizione triangolare, insieme agli effetti della luce, fa in modo che Ugolino, pur non essendo il centro prospettico dell’opera, ne sia il centro compositivo, insieme alla linea-forza, una delle tre che formano il triangolo, che lega il padre al figlio Gaddo.

In quest’opera il volto del conte non esprime un tormento di emozioni contrastanti, bensì ras-segnazione, la stessa che si vede nei figli accasciati a terra, anche se non ancora morti (il primo a morire sarà Gaddo), in posizione di totale abbandono; in fondo la rassegnazione che è il tema di quest’opera si esprime anche nel figlio implorante: la fame gli ha tolto tutte le forze, tanto che non riesce che ad abbozzare il movimento del braccio con cui chiede aiuto.

Gustave Doré

Arrivati alla seconda metà dell’Ottocento, non si può tralasciare di parlare dell’illustratore “canonico” della Commedia, Gustave Doré. Alla base della sua fama sta l’arte della litografia, che, a differenza della miniatura, permise la grande diffusione delle illustrazioni dell’artista francese in un gran numero di copie.

Nelle mani di Doré, la litografia si trasformò in un metodo rapido ed efficace per la riprodu-zione multipla; la tecnica, che in futuro avrebbe favorito l’invenzione della pubblicità e della pro-paganda, sostituì presto le miniature che rendevano le edizioni illustrate troppo costose per le classi sociali più basse.

Tra le illustrazioni dell’episodio di Ugolino due litografie sono particolarmente espressive ed interessanti dal punto di vista compositivo. La prima è quella raffigurante il momento dell’incontro tra Dante e Virgilio con i due dannati.

La particolarità di questa rappresentazione sta nel modo in cui i dannati sono immersi nel ghiaccio, con una soluzione che dà al Cocito un’apparenza quasi acquitrinosa. In questa rappre-sentazione i dannati anonimi, immersi quasi completamente, hanno un’importanza compositiva molto maggiore delle illustrazioni precedenti. Non sono per niente rappresentati nei dettagli, ma la loro funzione è quella di creare un piano affollato e caotico da cui si stacca fortissimamente il

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gruppo Ugolino-Ruggieri. La rappresentazione sollevata dei due ghiacciati fa in modo che, oltre che spazialmente, siano al centro anche compositivamente. Le figure di Dante e Virgilio perdo-no importanza davanti al gruppo, dall’aspetto scultoreo, che rispetto agli altri dannati ha una po-sizione inconsueta e di preminenza, data anche dall’uso della luce.

Anche la posizione dei due dannati avrà importanti influssi sulle rappresentazioni successive; in particolare, il braccio teso dell’arcivescovo è una linea-forza che guida lo sguardo dell’osservatore direttamente alla bocca di Ugolino.

La seconda illustrazione rappresenta la scena della torre, in corrispondenza col verso Quieta’mi allor per non farli più tristi; anche in questa gioca un ruolo cardine la luce, che in Doré ha particola-re importanza perché, dall’Inferno al Paradiso, è usata con un climax cromatico dalle tenebre del peccato al bianco della visione di Dio.

In questa litografia la luce, penetrando da una piccola finestra, crea un effetto particolare in-torno al capo di Ugolino, al centro della scena; si vede chiaramente l’influenza della tela di Dela-croix, nella luce che sottolinea il cpo del padre e nella composizione triangolare di cui esso è il vertice.

Intendendo la luce allegoricamente, come sguardo divino (come nell’opera di Blake, altro mae-stro per Doré), si può vedere nell’immagine una sorta di occhio, che rappresenterebbe la miseri-cordia di Dio nei confronti dei prigionieri.

Varrebbero, allora, le stesse considerazioni fatte a proposito di Blake; forse, però, è più corret-to vedere la luce solo come elemento compositivo, e non simbolico, che evidenzia il centro della rappresentazione: il volto di Ugolino, la sua espressione che manifesta tutto lo sforzo di tratte-

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nere il proprio dolore e la propria frustrazione per non turbare i disgraziati figli.

Le Statue Jean-Baptiste Carpeaux

Oltre a miniature, dipinti, disegni, incisioni e acquerelli c’è anche una produzione scultorea di rilievo che ha come soggetto il nostro conte. Un primo grande esempio è il gruppo scultoreo “Ugolino e i suoi figli morenti di fame” di Jean-Baptiste Carpeaux, del 1861; in quest’opera si vedono gli influssi della statuaria greca ellenistica, evidenti soprattutto nella struttura della composizione e nell’espressione di sofferenza dei volti, che ricordano il gruppo del Laocoonte che l’artista ebbe modo di studiare quando era a Roma.

Carpeaux era nella città dei papi dopo aver vinto il Prix de Rome con una statua di chiaro stampo neoclassico, ma nell’opera sul conte Ugolino emerge la vena romantica dell’artista, sia nella scelta del soggetto che nella resa dei corpi, con torsioni che oltre all’ellenismo ricordano l’altro grande modello di Carpeaux, Michelangelo.

Il gruppo al contempo rompe coi modelli tradizionali, tanto che Carpeaux per questa scultura venne considerato artista d’avanguardia; la struttura piramidale del gruppo crea una rete di stretti rapporti fra i suoi componenti e guida lo sguardo dello spettatore verso il suo vertice, il volto di Ugolino. La composizione piramidale ricorda quella triangolare di Delacroix, che probabilmente

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l’artista ben conosceva, ma mentre nella tela Ugolino ha un’espressione costernata e semplice-mente prostrata dal dolore, nella scultura di Carpeaux il conte ha nel volto i segni di una passio-ne intensissima, che si esprime anche nelle dita strappate a morsi delle mani.

La posa del conte ricorda quella del Pensatore (Le penseur) di Auguste Rodin, che vedremo come autore di un altro grande gruppo scultoreo sull’episodio di Ugolino. Le due sculture sono più o meno contemporanee, e non è da escludersi che un artista abbia influenzato il lavoro dell’altro.

Il conte ha lo sguardo fisso nel vuoto ed un’espressione che ad un tempo porta in sé i segni dello strazio e della ferocia, come se l’odio che lo dominerà all’inferno prevalesse già sull’amore per i figli. Questi hanno un’espressività indipendente, che nelle altre opere spesso era venuta a mancare, visto che in genere erano accasciati a terra privi di vita o morenti.

In questa scultura, invece, uno solo, il più piccolo, è riverso, mentre gli altri hanno si avvin-ghiano al padre con una torsione vitale che, insieme alla muscolatura evidente, rende evidente la lota contro la morte (tematica presente solo in quest’opera), con uno stile romantico improntato alla massima espressività.

Auguste Rodin

Un’altra scultura di particolare bellezza è il gruppo di Auguste Rodin, il più importante sculto-re francese dell’Ottocento, che l’artista realizzò nel decennio successivo al 1880 come parte del grandioso complesso della Porta dell’Inferno ispirata alla Commedia.

La porta avrebbe dovuto essere una grande allegoria della dannazione attraverso la rappresen-tazione del nudo, un romantico e caotico insieme di figure che prendevano spunto, oltre che dal Giudizio Universale di Michelangelo, delle illustrazioni di Doré e dell'opera di Blake.

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Dopo diverse opere sul tema di Ugolino e i figli nella torre, nella prima metà del ‘900 ritorna la rap-presentazione del ghiaccio del Cocito con quest’opera di Alberto Martini, esponente di spicco del simboli-smo e del surrealismo italiani; l’opera, intitolata “Il conte Ugolino e l'arcivescovo Ruggeri” è una china su car-toncino.

In questa illustrazione il surrealismo dell’artista si tinge di horror. Le figure sono grottesche, deformate in modo espressionista e portatrici di una sofferenza che è la chiara rappresentazione della dannazione.

Il conte è un volto terrificante, realizzato con un effetto di straniamento che deforma ogni linea trasformando il suo viso in quello di un demone che di umano ha ancora ben poco. Ad accentuare questa impressione di inumanità c’è l’attaccatura del braccio alla spalla, innaturale e scheletrica.

Si tratta di un braccio cadaverico, la cui deformazione potrebbe alludere alla morte per fame di Ugolino; forse, però, è semplicemente l’effetto della ricerca del grottesco di Martini.

Il braccio, curvo in una posizione anormale che crea a partire dalla spalla una linea-forza dall’effetto davvero inquietante, termina in dita adunche serrate attorno al cranio dell’arcivescovo; le dita dell’altra mano si vedono sulla spalla di Ruggeri, ma passano del tutto inosservate.

L’attenzione dell’osservatore, infatti, è interamente catturata dallo sguardo di assoluta follia del conte e più ancora dai suoi denti che lacerano visivamente i capelli e le carni dell’arcivescovo, creando una piaga che s’intuisce nella sua nuca.

Il volto dell’arcivescovo è anch’esso grottesco, deformato in una bruttezza che è lo specchio della dannazione, anche se in questa immagine non si ravvisa un criterio morale quanto piutto-sto la ricerca di un effetto di orribile deformazione.

Le due figure, le uniche presenti, sono immerse in un ghiaccio reso con grande maestria; nella parte inferiore dell’opera c’è una cosa piuttosto curiosa, una rappresentazione della città di Pisa (s’intravede anche la cupola del Duomo); la città si trova in corrispondenza con una voragine nel ghiaccio: forse a sottolineare come la città debba sprofondare nell’abisso, punita come nell’invettiva dantesca?

Salvator Dalì

Un’interpretazione molto particolare dell’episodio è quella del principale artista del Surrealismo, Salvador Dalì, che tra il 1951 ed il 1960 illustrò la Commedia secondo i canoni della sua arte origi-nalissima.

Di quest’opera non si può proporre che una descrizione ed un tentativo di interpretazione; l’arte surrealista, d’altra parte, ha il suo centro proprio nel sogno e nella fantasia soggettiva, e Dalì desiderava proprio che l’osservatore si lasciasse suggestionare dall’opera.

In primo piano ci sono due ombre strette ed allungate, quelle di due personaggi che idealmen-te si trovano nella posizione dell’osservatore: quasi sicuramente Dante e Virgilio. Al centro c’è una grande roccia dalla forma che ricorda in modo inquietante un teschio, un teschio da cui, a destra, parrebbe che uscisse un volto ad esso sovrapposto.

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Le due teste ravvisabili in questa forma potrebbero essere quelle del conte o dell’arcivescovo; secondo questa interpretazione, le linee convergenti rappresenterebbero la strada di Dante; in questo caso la figura sullo sfondo sarebbe Lucifero, e la linea dell’orizzonte la fine dell’Inferno.

Questa interpretazione, però, non tiene conto degli insetti, come delle formiche, che ricopro-no le due porzioni di roccia al centro. In Dalì, le formiche sono spesso presenti su forme in pu-trefazione, e rappresenterebbero il tempo che divora ogni cosa.

Le due forme, quindi, sarebbero il conte (la roccia più grande) ed i figli, tormentati dalla fame che li porterà a morte. Il “secondo volto” che sembra uscire dal conte potrebbe essere l’anima che esce dal corpo, per andare all’Inferno oppure, viceversa, per abbandonare Ugolino che ri-marrà l’essere bestiale che ben conosciamo.

Le linee che convergono verso il centro dello sfondo rappresenterebbero l’evolversi della vi-cenda, guidando l’osservatore verso il destino ultimo di Ugolino (che, in caso corrispondesse al teschio di roccia centrale, sarebbe il protagonista dell’immagine, lasciando i figli al ruolo di com-parse). Nel gruppo al centro dello sfondo, infatti, sembra di riconoscere il conte immerso nel ghiaccio, col capo chino verso qualcosa che potrebbe essere l’arcivescovo, di cui si intravede la figura con le braccia aperte.

Questa figura di dannato, pur essendo rappresentata in piccolo, ha una sua monumentalità, accentuata dalla corona di fiamme verdastre che sembrano rappresentare la dannazione eterna.

Aligi Sassu

Una originale interpretazione della scena nella torre è quella dell’artista italiano del ‘900 Aligi Sassu, pittore e scultore poliedrico che dopo gli inizi come futurista ebbe una parabola artistica molto ampia che lo portò ad esplorare una pittura mai realizzata in precedenza.

L’opera dedicata al conte Ugolino è caratterizzata dai colori forti e antinaturalistici che Sassu era solito utilizzare per interpretare lo spirito della contemporaneità. I colori accesi, utilizzati in modo irreale, vogliono conferire una forte carica espressiva e ci riescono perfettamente, indivi-duando figure che nella loro deformazione rendono l’innaturale della condanna di Ugolino in una maniera del tutto innovativa.

La figura è ridotta e come sintetizzata in alcune parti; i due figli accasciati ai margini rappresentano la morte, una morte che non conosce pace e deforma i volti, specie quello del figlio nell’angolo inferiore sinistro che è davve-ro una maschera macabra. A dare questo effetto è ancora la colorazione, che con gli accostamenti duri e “sporchi” crea un’impressione di pelle morta.

L’interpretazione dell’episodio è sofferta, e questo si vede nel corpo del conte volutamente sproporzionato: ancora una volta, vediamo la rappresentazione dello stato inumano cui la condanna ha ridotto Ugolino. In questo caso nel suo volto non c’è ferocia animalesca, ma solo una stranita tristezza, una sofferenza esistenziale e uno smarrimento che ricorda quello della scultura di Rodin ed è anche perdita della ragione.

La postura del conte ricorda modelli che abbiamo visto, come il gruppo scultoreo di Carpeaux; a differenza da quest’ultimo, però, lo sguardo del conte non ha in sé fe-rocia, ma solo un’espressione che sembra un’eterna do-manda.

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La figura umana ha gli stessi colori espressionistici dello sfondo, che è costruito come un fon-dale ad incastro e si inserisce nel disegno generale di comunicazione di un’intensa espressività; anche la luce crea effetti che con i loro toni “sporchi” e quasi violenti sottolineano la brutale drammaticità del destino di Ugolino.

Conclusione Come l’inizio anche l’addio è un momento delicato, se all’inizio non si sa come cominciare

così alla fine è difficile concludere. Facendo comunque una stima sul nostro lavoro possiamo sinceramente dire che ne siamo soddisfatti perché tramite questo impegno, e dico impegno per-ché è stato per tutti noi veramente pesante da fare insieme alla scuola, abbiamo in parte miglio-rato noi stessi. Non possiamo dire di non aver fatto esercizio di scrittura … E pensare che a-vremmo potuto approfondire maggiormente, magari sollazzandoci in tematiche molto interes-santi, ma, come è solito dire “Tempus fugit!”. Vi ringraziamo per averci dato questa motivazio-ne di lavoro, questo stimolo, che perché no, ci ha anche dato l’occasione di passare anche più tempo insieme.

“Ai giudici l’ardua sentenza”