Tratto da “IL MIO VIAGGIO metà giornata, visto l’arrivo delle prime nuvole, io e Nives avevamo...

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Sergio Virginio Itinerari sulla neve -A scuola di sci -Sappada d’inverno -I weekend sulla neve -Dalle Dolomiti al monte Bianco -Sciare in Colorado -Uno sport per tutte le età Tratto da “IL MIO VIAGGIO

Transcript of Tratto da “IL MIO VIAGGIO metà giornata, visto l’arrivo delle prime nuvole, io e Nives avevamo...

Sergio Virginio

Itinerari sulla neve

-A scuola di sci -Sappada d’inverno -I weekend sulla neve -Dalle Dolomiti al monte Bianco -Sciare in Colorado -Uno sport per tutte le età

Tratto da “IL MIO VIAGGIO

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A scuola di sci

In un freddo gennaio di tanti anni fa, avevo iscritto mio figlio a un corso di sci del dopolavoro ferroviario. La domenica mattina, con la mia famigliola, partivo da Udine col treno diretto delle nove. Sul treno, avevo trovato altri colleghi di lavoro con mogli e figli. Così si era formato un bel gruppetto di famigliole giovani e piene di energie. Scesi dal treno, si faceva una bella camminata con bagagli e sci in spalla. Si arrivava sui campi da sci verso le dieci e mezza. Le sei lezioni domenicali, della durata di tre ore ciascuna, erano collettive e si svolgevano sulle nevi dei Campi Duca D’Aosta di Tarvisio. Ogni maestro di sci aveva preso in consegna un gruppetto di otto bambini. Io, mia moglie e altri genitori, passavamo il tempo fra un rifugio e l’altro. Dopo un paio di domeniche, stanchi di stare ad attendere la fine delle lezioni, avevamo fatto l’acquisto di sci e scarponi e deciso di vincere le prime timidezze sulla neve, iscrivendoci al corso sci per principianti adulti.

Anche per noi, le lezioni erano collettive. Prima di muoversi con gli sci, bisognava prendere confidenza con dei pesantissimi scarponi di plastica che venivano bloccati sugli attacchi degli sci. Le racchette servivano a mantenere l’equilibrio. L’esercizio fondamentale, imparato nella prima lezione, si chiamava “scaletta“. Era utile per risalire, in posizione laterale, dei brevi tratti di pendio e per prendere confidenza con gli sci. Poi, si facevano le prime discese a “spazzaneve”, con le punte degli sci che convergevano in avanti e le code allargate. All’inizio, qualche caduta aveva contribuito a farmi prendere maggior confidenza con la neve. Durante la discesa, era necessario piegarsi sulle ginocchia e bilanciare il peso del corpo in avanti, verso il basso. Sembrava impossibile prendere quella posizione. L’istinto naturale mi portava ad assumere una posizione arretrata. Così facendo, aumentava la velocità della corsa a discapito della sicurezza: paure da brivido!

Fu così che, nella mia famiglia, nacque la passione per lo sci e per la montagna. Praticare uno sport sano in un ambiente fantastico, dove la bellezza della natura ci coinvolgeva e ci faceva stare bene tra di noi e in compagnia. In occasione del corso di sci, avevo fatto la conoscenza di Bepi, un collega ferroviere, e di alcuni suoi amici. Sin dalle prime domeniche, le nostre piccole famiglie si erano ben affiatate. Avevamo i figli della stessa età e avevano fatto amicizia.

Quando si faceva ritorno dallo sci, ci si fermava a cena fuori tutti assieme. Di solito, per la gioia dei nostri bimbi, facevamo la sosta in una nota pizzeria udinese. Ma, qualche volta, ci si fermava in un’osteria della periferia udinese. Dopo le fatiche sugli sci, eravamo tutti attirati da un bel piatto di spaghetti e una profumata grigliata mista di carni. Il tutto era accompagnato da un merlot del Collio. Poi Bepi e il suo amico Elio intonavano una canzone e, con voci squillanti, trascinavano nel canto tutti gli altri commensali. Così, fra una canzonetta e l’altra, arrivava mezzanotte, mentre i bambini dormicchiavano rannicchiati dentro le auto. E poi via veloci verso le rispettive case, perché i figli l’indomani dovevano andare a scuola, e i genitori a lavorare. Sappada d’inverno

Finito il primo corso di sci, nella seconda metà febbraio eravamo partiti per Sappada. Avevo prenotato la settimana bianca nello stesso albergo che avevo avuto l’occasione di conoscere durante la precedente estate.

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Dal nostro albergo, con gli sci ai piedi, si raggiungeva la partenza dell’impianto skilift dei “campetti”, dove c’erano le piste riservate ai principianti. Chi se la cavava meglio di tutti sugli sci, era mio figlio. Nonostante i suoi otto anni, era il più agile e disinvolto nei movimenti, senza alcun timore di incorrere in eventuali cadute. Io e mia moglie, invece, eravamo troppo tesi e assumevamo una posizione eccessivamente rigida sugli sci. Nonostante questi limiti e il clima invernale gelido ma secco, ci trovavamo bene in mezzo alla neve e alla natura di quella bella valle innevata circondata dal verde dei boschi di conifere spruzzate di bianco.

Da mezzogiorno all’una, gli impianti si fermavano per l’ora di pranzo. Si rientrava all’albergo affamati: primo, secondo, contorno e dolce. Sandra e Ugo, i proprietari, si davano da fare per far trovare i clienti a proprio agio. Nel pomeriggio, si ritornava in pista fino all’imbrunire anche se nevicava. Verso la fine di quella settimana, la signora Sandra, sappadina e sciatrice esperta, ci accompagnò con la sua auto sulle piste del monte Sierra. Avevamo preso l’impianto di risalita, alla partenza ubicata subito fuori Cima Sappada. Allora c’era ancora in funzione la vecchia seggiovia a un posto. Era lentissima: ci metteva più di un quarto d’ora a fare il percorso fino al rifugio monte Siera.

La sola vista di quelle piste tenebrose mi aveva impressionato. Durante la stagione invernale, la luce del sole non arrivava mai sul versante di quella montagna. Il primo impatto con quelle piste ripide e la scarsa visibilità, fu alquanto difficoltoso. Mi ricordo che, dopo le prime discese sotto le impressionanti cime appuntite del Siera, ci siamo fermati un bel po’ all’interno del rifugio, mentre la signora Sandra si faceva le sue belle serpentine. Poi, ci siamo decisi a scendere lentamente sulla pista farinosa che arrivava fin giù, in mezzo a un bosco di abeti e larici imbiancati dalla neve fresca.

Alla fine di quell’inverno sulla neve, tutti e tre eravamo rimasti indenni dalle consuete malattie da raffreddamento. Molto probabilmente, le fatiche sugli sci e l’aria fine di montagna avevano giovato anche alla nostra salute.

Nell’inverno seguente, finito il secondo corso di sci, siamo nuovamente partiti per Sappada. Quell’anno, era venuto con noi anche Doriano, un cugino di mia moglie. Lui, sugli sci, se la cavava discretamente. Il primo giorno, eravamo andati a sciare sulla cosiddetta “pista nera”. Negli impianti sciistici europei, le difficoltà delle piste sono indicate da tre diversi colori. Azzurro: pista facile; rosso: difficoltà intermedia; nero: pista difficile.

Il giorno successivo, ci eravamo spinti sulle piste del Sierra, nella vicina Cima Sappada. Per Doriano fu una giornata proprio sfortunata: un maestro di sci gli era piombato addosso in piena velocità, rovinandogli un ginocchio. Il medico del paese aveva ritenuto opportuno farlo ricoverare all’ospedale di Tolmezzo.

Mi ricordo che, verso la fine di quella settimana bianca, erano venuti a trovarci una coppia d’amici coi propri figli. Ma, dal venerdì in poi, gli impianti sciistici rimasero chiusi a causa di una bufera di neve. Imperversavano dei veri e propri temporali con tuoni e lampi, nevicando di continuo.

La domenica, prima della partenza per il rientro, avevo sudato un bel po’ con una pala per liberare la mia auto dalla neve. Eravamo partiti con le catene, mentre continuava a nevicare. Ogni tanto, sulla strada, ci si doveva fermare per lasciar passare lo spazzaneve. Ai lati della strada si erano formati due

altissimi muraglioni bianchi. A Villa Santina, dopo diversi chilometri di marcia lenta, avevamo trovato la pioggia e l’asfalto pulito. Così, dopo una fermata per smontare le catene, abbiamo proseguito veloci sulla strada del rientro.

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Anche le domeniche di gennaio e di febbraio dell’anno successivo, le avevamo dedicate al corso di sci sulle nevi di Tarvisio. In quella circostanza c’erano stati dei piccoli progressi tecnici con l’apprendimento della discesa in “diagonale” e della curva in “cristiania”.

Verso la fine di febbraio, avevo fatto ritorno a Sappada con la mia famiglia. Io e mia moglie avevamo comprato gli sci nuovi, a causa di un furto che avevamo subito una domenica sera dall’auto lasciata in sosta a Udine. I nuovi materiali erano meno pesanti e mi sentivo più disinvolto nei movimenti. Avevo imparato a mettere in pratica il cosiddetto “slalom speciale”: curva contro curva. Negli anni Ottanta, la località turistica di Sappada attirava sciatori provenienti da diverse regioni. Fra i frequentatori invernali del “Venezia” c’erano dei clienti romani abitudinari coi quali avevamo fatto amicizia.

Nel ristorante dell’albergo c’era una brava cameriera, con la quale io e mia moglie avevamo preso una certa confidenza. Lei si chiamava Mariangela. Sappadina di lingua tedesca, era piuttosto alta di statura. Un po’ riccia di capelli, quando serviva i clienti aveva sempre un aspetto solare. Una sera, ci aveva invitato a casa sua per farci conoscere la famiglia. Era sposata e aveva due figli. Suo marito si chiamava Claudio e faceva il boscaiolo. Una persona alla mano, molto cordiale e vivace. Abitavano all’ultimo piano di un condominio della centrale via Lerpa, sulla strada che porta verso il Cadore.

Un pomeriggio, assieme a Claudio e Mariangela, eravamo andati a sciare sulle piste di Sappada 2000. Il primo troncone di seggiovia per raggiungere il rifugio, partiva dalle prime case del paese, subito dopo l’albergo Corona Ferrea. In alto, avevamo lasciato la seggiovia nei pressi del rifugio, per percorrere la pista fino in fondo alla conca e prendere uno dei due skilift che portavano verso i laghi d’Olbe, nascosti dal ghiaccio e dalla neve.

In quota, il posto era stupendo e, col bel tempo, era piacevole sentirsi scaldare dal sole. La vista della cresta rocciosa del Ferro spolverata di bianco, era molto suggestiva coi contrasti dell’azzurro del cielo. Le piste erano brevi, adatte per sciatori principianti. I nostri amici sappadini sciavano bene e, ogni tanto, Claudio mi dava una dritta. Era un piacere cercar di imitare le loro curve a

slalom. Dopo una sosta al rifugio, abbiamo percorso con timore la pista di rientro piena di gobbe. Con gli sci ai piedi, c’era sempre il rischio d’incappare in strettoie dal fondo rovinato. Ma la bellezza del paesaggio innevato e quel scivolare sulla neve, mi mettevano frenesia, facendomi ritornare un bambino spensierato.

Lo sci era uno sport pericoloso, ma avevo vinto le mie prime paure, affrontando con dovuta prudenza tutte le difficoltà. Così, cominciai a frequentare anche i vicini comprensori sciistici carinziani di Arnoldstein e di Pramollo. Tra le mie avventure sciistiche di allora, mi è rimasto il ricordo di una giornata sugli sci, passata assieme alle famiglie dei miei amici Bepi e Elio. Ci trovavamo a Passo Pramollo, il comprensorio sciistico a cavallo del confine austriaco, raggiungibile percorrendo la tortuosa strada in salita che parte da Pontebba.

Nella prima parte della giornata, c’eravamo inoltrati sul pendio esposto al sole che si trovava subito dopo il confine. Le piste, battute dal gatto delle nevi, erano molto larghe e di una lunghezza media. A metà giornata, visto l’arrivo delle prime nuvole, io e Nives avevamo deciso di smettere di sciare, fermandoci a pranzo in un rifugio. Mio figlio Enrico aveva preferito proseguire sulle piste da sci coi suoi amici e gli altri del gruppo.

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Nel pomeriggio, era sopraggiunta una perturbazione con vento forte e nuvole basse che impedivano la visibilità. Ad una certa ora, visto che gli altri tardavano ad arrivare, avevamo cominciato a preoccuparci. Quando, verso l’imbrunire, ci siamo decisi di andare a chiedere informazioni, li abbiamo visti scendere dallo skibus.

Ci raccontarono di essersi imbattuti in una forte bufera di neve. A causa del vento e della mancanza di visibilità, non era stato possibile tornare indietro. Così, furono costretti a percorrere sugli sci una lunghissima pista di tredici chilometri, fino alla località di Tröpolach. Fu una brutta avventura che spaventò molto i bambini. Successivamente, mio figlio aveva fatto molta fatica a rimettere gli sci ai piedi.

I weekend sulla neve

Nei primi anni Novanta, io e mia moglie avevamo iniziato a frequentare i weekend sciistici del dopolavoro ferroviario. Verso la metà del mese di gennaio, eravamo partiti in pullman verso la Val Gardena. Dopo aver trascorso la prima giornata sulla montagna panettone di Plan de Corones, nelle giornate successive, il nostro pullman parcheggiava nei pressi degli impianti sciistici di Santa Cristina. Da lì si partiva con gli sci ai piedi per percorrere il giro dei quattro passi. Inoltre, c’era la possibilità di raggiungere gli impianti del monte Cerneda. Dalla sua cima,

scendendo sulla lunghissima pista che portava a Ortisei, si poteva prendere la via del ritorno dal versante dell’Alpe di Siusi, dove c’erano piste più adatte ai principianti.

Durante l’ultimo fine settimana di febbraio, eravamo andati a sciare sulle Dolomiti del Brenta di Madonna di Campiglio. Gli impianti di quel comprensorio erano collegati alle località di Folgarida e Marileva. In alternativa alle impegnative piste rosse, c’erano quelle azzurre, meno pericolose e più rilassanti. Mi ricordo che, un sabato sera, dalla piazza del paese, avevamo assistito a uno spettacolo originale e suggestivo. I maestri da sci erano scesi in fiaccolata sulla pista principale, formando sulla neve una serpentina di fuoco.

Fra i miei primi weekend austriaci del dopolavoro, mi è rimasto il ricordo di Gmünd, che s’incontrava sulla vecchia strada statale per Salisburgo a una sessantina di chilometri dal confine. La località era conosciuta soprattutto per il suo museo di automobili Porche, ma anche per il suo castello medievale adibito a ristorante. Per andare a sciare, il bus percorreva una stretta valle che portava al passo dove si trovava Innerkrems, un tranquillo comprensorio sciistico di modeste dimensioni.

Il sabato sera, in occasione del carnevale, si andava nella caserma dei vigili del fuoco dov’erano state allestite due sale da ballo: una discoteca per giovani e un salone con orchestrina folk per i meno giovani. Io e mia moglie facevamo una sauna che durava qualche ora, ballando interminabili polke fino a mezzanotte. Di quei tempi, per chi voleva sciare anche il mese di aprile, il dopolavoro organizzava un breve weekend in una graziosa vallata del Salisburghese. Si soggiornava in un confortevole quattro stelle sulla riva del lago di Zell am See. A pochi chilometri dal lago, c’era Kaprun col suo eterno ghiacciaio innevato. Si saliva fino a quota tremila, attraversando una galleria col treno a cremagliera e poi si prendeva una funivia fin sulla vetta del Kitzsteinhorn.

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Erano gli anni in cui ero andato a sciare la prima volta sulla pista Varmost di Forni di Sopra, nella carnica alta Val Tagliamento. Si partiva dai 2100 metri del monte Crusicalas, arrivando fino ai 907 del fondovalle. Da quella pista, lunga sei chilometri e mezzo, si poteva ammirare il panorama incantevole delle Dolomiti friulane. In quel periodo avevo avuto l’opportunità di scoprire i primi paradisi bianchi austriaci. Nella stazione sciistica di Obertauern, situata in una graziosa vallata a oltre 1500 metri di altitudine, la neve era garantita. Con gli sci ai piedi si faceva il Tauernrunde, il giro completo di quella affascinante località turistica del Salisburghese.

Poi avevamo raggiunto Schlatming, località rinomata anche per il turismo estivo e sede di gare sciistiche di coppa del mondo di slalom speciale. Percorrendo l’ultima discesa che portava nel parcheggio del bus, mi ero deciso ad affrontare la pista nera denominata Planai, che si concludeva con una pendenza quasi perpendicolare. L’avevo superata, derapando lateralmente per poi lanciarmi a tutta velocità. Paura da brivido! Di Flachau, un vasto comprensorio situato subito dopo la seconda galleria dei monti Tauri, ho serbato un brutto ricordo. Era una bellissima giornata di sole dei primi giorni di marzo del 1997. La neve caduta durante la notte aveva imbiancato pini e larici, rendendo il paesaggio più suggestivo. Ma quella neve marzolina soffice e la mia imprudenza avevano provocato una rovinosa caduta in un falsopiano, con una distorsione al ginocchio destro. Fortunosamente non ci furono rotture, ma quell’incidente mi aveva fatto passar la voglia di sciare per un bel po’ di tempo.

Dalle Dolomiti al monte Bianco

Col Duemila, il mio cuore era tornato a palpitare verso le Dolomiti orientali: avevo ripreso a frequentare la mia amata Sappada. L’arrivo del nuovo anno, l’avevo festeggiato all’albergo Venezia assieme alla famiglia. Con noi c’era mio figlio con la sua ragazza e una coppia di amici, Graziano e sua moglie Adriana. Avevano accettato di trascorrere assieme a noi la settimana bianca sappadina, a cavallo del capodanno.

Durante quella vacanza, c’era stata una gran nevicata. Mi ricordo che io e Graziano avevamo costruito davanti all’albergo un curioso pupazzo di neve. Tutti i turisti che passavano di lì, si fermavano a fotografare quel fantoccio bianco seduto, con un cilindro nero sulla testa. Col primo giorno di sole, eravamo andati tutti assieme a prendere la seggiovia che portava al rifugio di Sappada 2000. Io e mio figlio Enrico avevamo deciso di andare a sciare. Era la prima volta che rimettevo gli scii ai piedi dopo il mio infortunio al ginocchio. La neve fresca esposta al sole, non si era ben compattata e avevo affrontato le prime discese con molta prudenza. Tuttavia, l’ampia e luminosa visibilità con sullo sfondo le incantevoli croste rocciose del Ferro tutte spolverate di bianco, mi fecero dimenticare l’incidente del passato. Dopo un paio d’ore di divertimento, abbiamo raggiunto gli altri che ci attendevano al rifugio per il pranzo. Da quel giorno, iniziarono per me le più belle ed entusiasmanti esperienze sciistiche.

A dire il vero, devo riconoscere a un mio ex collega ferroviere il merito di avermi fatto rimettere gli sci ai piedi. Lui aveva subito un infortunio ben più grave del mio. Poi, una volta guarito, aveva ripreso a sciare. Mi aveva colpito il suo entusiasmo, quando mi descriveva le ultime avventure sciistiche.

Avevo fatto anche delle riflessioni sui benefici che derivavano, praticando questo sport. Oltre all’esercizio di gambe, busto e braccia, muoversi all’aria aperta, faceva bene e non aveva età. Una

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vacanza invernale attiva portava effetti molto positivi al metabolismo e alla mente, grazie al maggior trasporto d’ossigeno nel sangue. E poi c’erano quelle bellissime sensazioni che si potevano provare solo scivolando con gli sci da discesa, ritornando un po’ bambini. Così, quando in un febbraio avaro di neve, mi ero recato nella vicina Carinzia ai bagni termali di Bad Kleinkirchheim, avevo portato anche l’occorrente per sciare, decidendo con un po’ di timore di farmi una sciatina sulle piste innevate che scendevano dal Kaiserburg.

La mia ripresa ufficiale dello sci con gli amici del dopolavoro ferroviario, era avvenuta nel 2002 in Val d’Aosta con la mitica discesa del monte Bianco: un’impresa sciistica sognata da anni. Eravamo verso la metà del mese di marzo. Quella mattina il cielo era terso e il sole splendeva sulla case della stretta valle di Courmayeur. Avevo salutato mia moglie sul bus che ci aveva accompagnato fino alla partenza della funivia, dove ci stava attendendo la nostra guida. Facevo parte di un gruppetto di otto persone. Dopo circa mezz’ora di tragitto con gli impianti a fune, ci siamo ritrovati sul terrazzo di Punta Helbronner, a 3462 metri di altitudine, a contemplare il

panorama mozzafiato di tutte quelle cime spettacolari, spolverate di bianco e baciate dal sole. Su un lato, svettava il Dente del Gigante. A nord l’Aiguille de Midi stagliava contro l’azzurro turchino del cielo. Infine lui, il monte Bianco, la cima più alta d’Europa, tutta coperta da neve candida.

Durante la notte, erano caduti trenta centimetri di neve fresca. Davanti a noi si apriva la vasta vallata innevata del versante francese che dovevamo percorrere. Verso il basso, si vedevano dei piccolissimi sciatori che stavano scendendo in fila indiana. In lontananza, erano ridotti a puntini colorati che formavano una lunga scia a esse.

La guida ci aveva raccomandato di seguirlo con attenzione. Siamo partiti sul ripido pendio con la neve fresca, con gli sci che sprofondavano. Per me, abituato alle piste rigorosamente battute dal gatto delle nevi, l’impresa sembrava impossibile. Le prime curve avevano provocato delle inevitabili cadute. Per rialzarsi e rimettere gli sci, si

faceva una fatica tremenda. Poi un tranquillo falso piano ci aveva accolto senza incertezze. Dopo un altro tratto, discretamente ripido a gobbe, avevamo visto i primi seracchi. Di tanto in tanto, una breve sosta per riprendere il fiato, mi consentiva di usare la mia digitale. Ma nessuna foto sarebbe stata in grado di riprodurre uno spettacolo così grandioso: muri impressionanti e spaccature profonde del ghiaccio tra alte e aguzze guglie di roccia.

In certi tratti, il percorso diventava una specie di labirinto. Scendendo ancora tra spaccature di ghiaccio e crepacci, la pista aveva finalmente cominciato ad allargarsi in un vastissimo falsopiano circondato da gigantesche vette: eravamo di fronte al Mer de Glace. Qui la sosta era d’obbligo per rifocillarsi. Mi ricordo che, prima di ripartire, avevamo sentito un impressionante rimbombante rumore che proveniva dal ghiacciaio: era lui che ci salutava. Poi avevamo proseguito fino al punto di ristoro francese. Dopo una breve sosta, abbiamo ripreso la interminabile discesa fino a Chamonix.

Avevo fatto una fatica enorme. Ma avevo completato tutto il lungo tracciato, percorrendo uno scenario da capogiro. Era proprio vero. La passione per lo sci poteva diventare un sentimento intenso e travolgente! Quando arrivai giù, avevo levato gli sci dai piedi e, sollevati con le mani, li avevo baciati entrambi.

Il fatto di aver superato senza conseguenze quella difficile ed entusiasmante esperienza, mi aveva galvanizzato. Così, col sopraggiungere della successiva stagione invernale, mi sono unito ad

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alcuni amici che frequentavano con assiduità i long weekend del dopolavoro ferroviario udinese: quattro giornate sulle nevi dei migliori comprensori sciistici di tutto l’arco alpino. I gruppi erano magistralmente coordinati da alcuni soci, esperti sciatori: i gemelli Franco e Danilo, Giancarlo, Marina e il mio amico Renato.

Di quei tempi, mia moglie non se la sentiva più di sciare. Per me, invece, la pratica dello sci era un’opportunità di svolgere un’attività sportiva, mantenendo il contatto con le persone amiche e la natura incontaminata. La palestra era la montagna, ricca d’ossigeno e di candidi paesaggi invernali uno più bello dell’altro. Tra le varie gite sciistiche del dopolavoro, quella della Val Gardena era senz’altro la più richiesta e gradita dagli appassionati. Si svolgeva ogni anno, verso la metà di gennaio. C’ero andato più volte per la vastità delle piste di quel comprensorio sciistico che collegava fra loro ben quattro passi in uno scenario incantevole e unico per la bellezza delle cime dolomitiche.

Nel mese di febbraio dell’anno successivo alla mia riconciliazione con gli sci, dopo un fine settimana sulle nevi sappadine, avevo partecipato al long weekend sciistico del dopolavoro a Madonna di Campiglio. Mi accompagnava anche mia moglie che, col bel tempo, era salita a prendere il sole al rifugio di Pradalago. Mi ricordo che nei pressi c’era una pista riservata agli allenamenti del mitico campione di slalom Alberto Tomba. Nella stagione seguente, coi miei amici del dopolavoro, avevo trascorso una giornata sulle nevi della Bassa Austria: da Annaberg, avevamo

raggiunto i tranquilli paesini di Russbach e di Gosau. Poi fu la volta della svizzera Sankt Moritz dei vip. Lo skipass giornaliero costava caro, ma le piste del comprensorio di Corviglia erano battute a meraviglia. Dal ghiacciaio del Corvatsch eravamo scesi più volte con gli sci da 3303 di quota sulla lunga pista farinosa che raggiungeva il fondovalle. Negli anni che seguirono, avevo scoperto anche il Tirolo austriaco. Dopo una giornata sulle nevi di Sesto e Moso, in Alta Pusteria, avevamo sciato nel vastissimo comprensorio Silvretta Arena. Dall’elegante e vivace località austriaca di Ischgl, situata a 1400 metri di altitudine, si saliva con le ovovie fin sulla cima del Palinkopf, a 2864 di quota. Da lì, si poteva scendere sul versante svizzero sino alla località di Samnaun, preceduta da un fornito duty free esentasse. Nelle due successive giornate di cielo sereno ci eravamo cimentati sulle soleggiate e interminabili piste di Zürs e di Serfaus. Durante quella stagione, per proteggermi da eventuali incidenti, mi ero comprato alcuni accessori: casco, maschera antinebbia e paraschiena.

In Austria avevamo sciato anche sulla parte più orientale, nei meravigliosi comprensori sciistici di Dachstein-West: Saalbach, Bad Gastein e nella famosa Kitzbühel, sede di competizioni sciistiche mondiali. Nel pomeriggio, quando si faceva ritorno al parcheggio, stanchi e affamati, c’era sempre uno spuntino all’aperto nei pressi del pullman: salame, mortadella, formaggio e assaggi di vini friulani.

Sciare in Colorado

Il percorso “Sciare in Colorado e le meraviglie dell’Ovest” era stato illustrato ai soci del dopolavoro ferroviario di Udine in autunno, in occasione della presentazione del programma sciistico invernale. L’organizzazione tecnica dell’iniziativa era stata affidata all’agenzia turistica del dopolavoro, con il

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supporto tecnico americano di Marco Tonazzi, il noto campione friulano componente della squadra nazionale di sci da discesa, trasferitosi in Colorado. Quell’itinerario di viaggio era molto affascinante e avevo deciso di aderire all’iniziativa.

La partenza in bus da Udine era avvenuta nel cuore della notte dell’ultimo giorno di marzo del 2008. Eravamo un gruppo di venticinque persone, quasi tutti appassionati dello sci. Ci siamo alzati in volo dall’aeroporto di Venezia per fare scalo a Francoforte. Dopo qualche ora d’attesa e un lungo volo parabolico verso il Nord, siamo atterrati a Denver.

Una forte nevicata ci aveva costretto a fare un pernottamento di fortuna in un motel lungo l’autostrada. Stavo pensando a un bel pesce d’aprile, ma non si trattava di uno scherzo: l’autostrada era rimasta chiusa diverse ore, a causa di un tamponamento a catena provocato dal maltempo. Nella mattinata dell’indomani avevamo raggiunto in coach, il nostro bus riservato, la località sciistica di Vail, sulle Montagne Rocciose del Colorado, a 2500 metri di altitudine. Marco ci stava aspettando fuori dell’Evergreen Lodge, per salutarci e fare la nostra conoscenza. Dopo aver ritirato le chiavi alla reception, abbiamo preso possesso delle nuove camere. Stava per iniziare la nuova esperienza sciistica americana e, dopo aver indossato frettolosamente la tenuta da sci, ci siamo ritrovati tutti alla fermata dello skibus. Il bus non si pagava: il costo era compreso nel prezzo dello skipass, tra i più cari al mondo. Durante il tragitto fino alla partenza degli impianti, avevamo dato un’occhiata al complesso residenziale, che era stato ampliato ed abbellito in occasione dei campionati mondiali di sport invernali. Molte costruzioni erano di tipo tirolese, esteticamente ben curate. Il centro di Vail sembrava la fotocopia del centro di Kitzbühel, la nota località sciistica austriaca. Al ritiro degli sci, Marco ci aveva presentato Franco e Chicco che, assieme a lui, ci avrebbero guidato sulle piste del più grande comprensorio sciistico americano. Comprendeva tre diversi settori di piste: quelli per principianti, quelli di difficoltà intermedia e un gran numero di piste per sciatori esperti. Qui, la stagione sciistica invernale, coincideva con la nostra. L’unica differenza era la copiosità della neve, favorita dalle elevate altitudini. Eravamo nel primo giorno d’aprile e, dopo l’eccezionale nevicata notturna, era comparso il sole che splendeva sul comprensorio tutto imbiancato. La temperatura era gradevole e la vista di tutta quella neve ci trasmetteva la frenesia di sciare. Dalla seggiovia, il paesaggio appariva molto diverso dalle nostre montagne. Guardando il versante frontale, si aveva l’impressione di vedere un paesaggio collinare pieno di boschi. In mezzo agli alberi, le piste innevate sembrano strade bianche che s’intersecavano tra loro, scendendo verso valle. Nella parte più bassa, si notavano molti alberi spogli, simili alle betulle. Erano boschi di pioppo tremolo, un albero tipico della zona. Proseguendo

con l’impianto di risalita, a circa tremila metri di quota, era apparsa una fitta vegetazione di abeti. Qui, per via della latitudine, le piante ad alto fusto vivevano anche in altitudini molto elevate. Le nostre guide ci avevano informato che, a causa del clima secco, era necessario bere molta acqua: almeno due litri al giorno per evitare di disidratarsi. Per questo motivo, tutti i rifugi in quota erano dotati di un distributore automatico d’acqua potabile. L’aria molto secca e la mancanza di umidità, favorivano la formazione di una neve particolarmente soffice e leggera, molto adatta per fare discese spericolate.

Eravamo scesi dalla seggiovia nei pressi di un rifugio a 3400 metri di altitudine. Avevamo formato tre gruppi e iniziato a fare la prima discesa sugli sci, seguendo le rispettive guide. Avevo qualche dubbio sull’uso degli sci di tipo carving presi a noleggio, un po’ più larghi di quelli che

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usavo abitualmente. Nonostante i timori e la stanchezza del viaggio, mi sono avventurato sulle piste per prendere confidenza con la neve. La larghissima pista che avevamo preso, aveva un fondo ben battuto, simile al tappeto di un bigliardo. Al seguito della guida, avevamo proseguito a sciare per circa quattro ore. Verso l’imbrunire, c’eravamo ritrovati tutti nel centro del paese, nella boutique della moglie di Marco per un cocktail di benvenuto. Nella seconda giornata di sci, dopo aver percorso le piste che scendevano in mezzo ai boschi di abeti, avevamo raggiunto in seggiovia l’area denominata Blue Sky Basin. Quando si scia fra gli alberi, si percepisce maggiormente la velocità e il divertimento è garantito. All’ora di pranzo, durante la sosta al rifugio Wildwood Smokehouse avevo preso una Goulashsoupe. Ma il suo sapore era molto diverso dalla minestra di origine tirolese. Sapeva troppo di curry, una miscela di spezie poco gradevole per i miei gusti. Nel pomeriggio avevamo raggiunto le larghe piste per sciatori esperti del settore Back Bowls. Le piste non erano tutte battute: c’era la possibilità di sciare anche sulla neve fresca e dissestata. Quelle piste facevano impressione, sembrano campi di neve arata. All’inizio c’era timore a percorrerle, temendo di incappare in rovinose cadute. Ma, su incoraggiamento delle guide, avevamo constatato che sulla quella neve molto soffice, i nostri sci galleggiavano a meraviglia. Curve a slalom e discese libere ci avevano fatto provare l’ebbrezza della velocità. A ogni curva, gli sci provocavano delle nuvolette bianche, facendo divertire il bambino che era in ciascuno di noi!

Anche il tempo era trascorso velocemente costringendoci a fare ritorno al punto di partenza. La seconda giornata sulle nevi, dopo le timidezze della prima, era stata molto impegnativa. Avevamo percorso diversi chilometri. Verso l’imbrunire, ci eravamo ritirati a riposare nelle nostre camere, stanchi, ma soddisfatti.

La sera ci siamo ritrovati per la cena in una tipica trattoria del centro di Vail. Subito dopo aver preso posto a tavola, i camerieri ci avevano servito delle grandi brocche d’acqua naturale, con molto ghiaccio. L’acqua era gratuita, i prezzi di bibite e birra non erano cari, ma quelli del vino erano meno invitanti. Il menù all’italiana era stato scelto con l’aiuto di Marco: antipasti, carne, contorni di verdure e dolce.

Dopo l’ottima cena, avevamo deciso di percorrere a piedi la strada fino all’hotel. Verso la fine del tragitto, aveva iniziato a nevicare. Dopo aver dato sfogo alle macchine fotografiche, ci siamo seduti sulle comode poltrone della spaziosa hall, vicino al fuoco di un caminetto a metano. Era un posto tranquillo, dove ci siamo scambiate opinioni e sensazioni sulle prime avventure sciistiche americane. Dalla zona bar ci giungevano in sottofondo allegre note di musica country.

Alle otto della mattina successiva stava ancora nevicando. Assieme al gruppetto dei rinunciatari allo sci, avevo deciso di fare una salutare camminata sul sentiero innevato che attraversava un fitto e interminabile bosco di pioppo tremolo. Per camminare agevolmente sulla neve fresca, senza sprofondare né scivolare, ci eravamo attrezzati di ciaspole. Erano di materiale plastico e si calzavano con facilità, direttamente sopra gli scarponi da trekking.

Durante la passeggiata sulla neve fresca, nel silenzio profondo del bosco si percepivano i rumori dell’acqua del brook, il rio che scivolava trasparente a valle in mezzo a pietre e detriti. Ogni tanto, sul manto soffice della neve, apparivano in fila piccole orme di animali. Nel frattempo, il cielo si era rasserenato, ma era percorso da nuvoloni grigi e scuri che si rincorrevano velocissimi, come sciatori sulla neve. Dopo un break per un sandwich, avevamo fatto ritorno al nostro lodge, per dedicare la seconda parte della giornata al riposo e al recupero di qualche ora di sonno.

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Venerdì 4 aprile era prevista la giornata sciistica a Beaver Creek, una delle sedi dove si svolgevano, ogni anno, le gare sciistiche da discesa della coppa del mondo. Il comprensorio, situato a una ventina di chilometri da Vail, era riservato per gli sciatori di un club. Il villaggio mi era parso un luogo tranquillo, dove la modernità e l’eleganza erano stati pensati e realizzati per soddisfare la voglia di distinguersi. L’intero villaggio era zona pedonale e la sua piazza principale, la Market Square, era in stile tirolese. L’atmosfera era molto suggestiva, circondata da bar, ristoranti, negozi e una pista di pattinaggio sul ghiaccio all’aperto. Dalla piazza, avevamo preso una delle scale mobili che conducevano direttamente agli impianti di risalita. La giornata era soleggiata e l’azzurro del cielo faceva da sfondo al comprensorio sciistico, ben innevato e ricco di vegetazione. Il versante frontale era composto da collinette a forma di panettone, ricoperte da estensioni di pioppo tremulo e di abete. Anche dall’alto, le cime e i pendii spruzzati di neve fresca apparivano dolci. Le piste erano larghe, in perfette condizioni, e molto invitanti. Verso il basso, si diramavano in disparate direzioni. Attirati da quelle piste incantevoli, avevamo dato sfogo a discese facili e divertenti. Marco ci aveva portato a pranzo al Beno’s Cabin, un cottage in mezzo alle piste innevate, delimitate da boschi di pioppo tremulo. Era un club super esclusivo di soci miliardari. Nella sala da pranzo, i tavoli erano rivestiti da candide ed eleganti tovaglie, con posate d’argento e bicchieri in cristallo. L’arredamento era sobrio ed elegante. Sulle pareti interne spiccavano preziosi quadri d’autore. A seguito dell’aperitivo a base di champagne, ci avevano servito dei vini francesi e della California con piatti prelibati: scampi, aragosta e succose bistecche di montone innaffiate di champagne. Dopo quel lauto pranzo, era stato un po’ faticoso riprendere la via del ritorno sugli sci. Ma ce l’abbiamo fatta! Siamo ritornati alla base tutti sani e salvi. Sabato, di primo mattino, avevamo caricato i bagagli sul nostro pullman. L’autista aveva preso la strada principale in direzione sud-ovest per percorrere i cento chilometri che ci separavano da Aspen, la nota località turistica americana che aveva preso il nome dall’albero più diffuso nella zona: pioppo tremolo. La cittadina, situata a 2410 metri di altitudine, aveva origini antiche: era stata fondata dai cercatori di minerali. Dopo la seconda guerra mondiale, la città mineraria si era trasformata in una moderna stazione turistica di lusso, diventata celebre per lo sci invernale e per gli eventi culturali estivi. L’area sciistica era formata da quattro stazioni: Aspen Mountain, Aspen Higlands, Buttermilk e Snowmass, collegate tra loro da un servizio di shuttle bus. Qui venivano a sciare i vip più famosi al mondo. Se la neve non era di loro gradimento, volavano con il loro jet privato a Sankt Moritz, in Svizzera. Qui, gli sceicchi arabi facevano le settimane bianche, prendendo in affitto un intero comprensorio sciistico. Ad Aspen si svolgevano anche importanti competizioni a livello mondiale. Marco aveva deciso di portarci a sciare sulle piste della stazione di Buttermilk, che aveva la partenza dell’impianto di risalita principale a due passi dal centro e dal nostro bus. Su queste piste,

il mitico Zeno Colò, ai campionati mondiali del 1950, aveva conquistato l’oro nella “discesa libera”, nello “slalom gigante”, e l’argento nello “slalom speciale”. Dall’alto della cabinovia, avevo fotografato la vista panoramica della vallata. Si notavano molte costruzioni in mattone rosso, dalla forma rettangolare, con le coperture a terrazzo imbiancate dalla neve. Le strade erano molto larghe e disposte tutte perpendicolarmente tra loro. La vegetazione era formata prevalentemente dai bianchi pioppi spogli. La giornata era un po’ nuvolosa, ma la visibilità era buona. Al seguito di Marco,

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avevamo iniziato a zigzagare sulla pista principale che ci portava nuovamente alla partenza della cabinovia. Non capita spesso di sciare assieme a un ex campione dello sci. Avevo approfittato dell’occasione per seguire la sua scia, cercando di copiare l’eleganza dei suoi movimenti. Dopo aver percorso tutte le piste del comprensorio, avevamo deciso di fare una sosta di ristoro in quota, al rifugio The Cliffhouse. Dopo aver preso posto al centro del locale, ci siamo soffermati ad assaporare l’accogliente tepore della vivace fiamma del caminetto. Dentro si notava l’eleganza di molti sciatori e sciatrici che sfoggiavano completi da sci dai colori smaglianti. Finito lo spuntino, eravamo usciti sul terrazzo. Le nuvole avevano lasciato spazio all’azzurro del cielo, e il sole si stava preparando a fare capolino sulle creste delle montagne rocciose. Uno sfondo ideale per le nostre foto di gruppo, prima di scendere definitivamente al punto di partenza e fare ritorno al nostro coach. Per festeggiare la conclusione della nostra esperienza sciistica americana, c’eravamo ritrovati tutti a cena al ristorante italiano “Hostaria”. Lì, avevo notato un giovane che stava parlottando in friulano con il titolare del locale. Quando mi avvicinai, avevo constatato con stupore che si trattava di un mio paesano, amico di mio figlio. Anche lui mi riconobbe e, sorpresi da quell’incontro inverosimile, ci siamo trattenuti un po’ assieme. Lui si era laureato da poco e, per poter approfondire la conoscenza della lingua inglese, era venuto ad Aspen a fare il cameriere.

L’indomani mattina avevamo proseguito col nostro coach l’itinerario di viaggio lungo il percorso del fiume Colorado.

Uno sport per tutte le età

Negli anni della pensione, il tempo che avevo a disposizione mi permetteva di meglio soddisfare la mia passione per la montagna. Di quei tempi, le tecniche dello sci da discesa avevano subito delle modifiche importanti. L’introduzione del nuovo modello carving, permetteva di curvare senza dover derapare. In questo modo, la sciata diventava più semplice e meno faticosa.

La pratica stagionale dello sci, ormai faceva parte del mio modus vivendi. Non c’era stagione invernale che non mi vedesse mettere gli sci ai piedi, almeno per una quindicina di giorni. Dopo un’adeguata preparazione ginnica presciistica, di solito si iniziava a sciare subito dopo le feste natalizie. Assieme a un gruppetto di sciatori coetanei, col bel tempo, si raggiungevano saltuariamente i comprensori sciistici delle nostre montagne. Si andava spesso sul vicino monte Zoncolan. Un po’ meno sul monte Lussari, vicino a Tarvisio, e sul Canin di Sella Nevea. Renato, che faceva da capogruppo ai long weekend del dopolavoro ferroviario, era diventato

il mio maestro; ci teneva a vedermi pennellare sui miei nuovi sci carving. Con Ettore, amico dai tempi ferroviari, ogni tanto espatriavo nel vasto comprensorio austriaco di Passo Pramollo. Coi fratelli Benito e Gino ero stato anche a Piancavallo, un modesto comprensorio sciistico in provincia di Pordenone, adatto per principianti e per famiglie. Di quei tempi, avevo partecipato per la prima volta al long weekend del dopolavoro che portava sui comprensori alpini lombardi di Aprica per poi raggiungere Bormio, Livigno e Santa Caterina Valfurva. C’ero ritornato anche negli anni successivi, con la fermata del primo giorno a Montecampione. Oltre che per lo sci, Bormio era conosciuta per le sue antiche terme dalle origini romane che avevo avuto modo di frequentare in occasione di una giornata perturbata. Un modo singolare per godersi il suggestivo panorama di quella vallata, mentre stava nevicando,

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immergendosi fino al collo nell’acqua calda della vasca che sporgeva fuori da un dirupo. L’indomani, si partiva per Livigno che, per la sua posizione alle porte della Svizzera, era considerata una zona franca. Noi sciatori, oltre a prodigarci in velocità su dolci e aspri pendii innevati, potevamo soddisfare la voglia di fare shopping esentasse: apparecchiature elettroniche, macchine fotografiche, cineprese e cioccolato svizzero. La domenica, sulla via del ritorno, si faceva sosta a Santa Caterina Valfurva per salire sugli impianti della Cresta Sobretta e scendere con gli sci sulla pista di casa della mitica campionessa dello sci Debora Compagnoni.

Negli anni che seguirono, avevo aderito a un long weekend sulla neve che mi aveva fatto scoprire le più belle cime delle Dolomiti trentine. Dall’alto del Paganella, nei pressi di Andalo, c’era un panorama a trecentosessanta gradi: si riusciva a vedere da lontano persino il lago di Garda. Poi mi ricordo di San Martino di Castrozza, con la vista delle sue magnifiche pale spolverate di bianco, e del soleggiato passo del Tonale dove avevo sciato in buona compagnia. Poco distante dal nostro albergo di Belmonte si prendeva la seggiovia che portava sul comprensorio sciistico dell’Alpe Lusia, collegato col passo San Pellegrino e con

altre valli. Appena fuori di Predazzo partivano gli impianti per raggiungere le piste di Obereggen, sotto le stupefacenti fitte torri rocciose del Latemar, ripide e graziose. E poi l’affascinante itinerario che da Vigo di Fassa saliva fin sulla sella Brunech, sepolta da metri di neve, per poi ridiscendere nella valle sulla pista nera Ciampac, in mezzo a un bosco ammantato di bianco. Le Dolomiti innevate erano dovunque sovrastate da cime rocciose aguzze, simili a torri e campanili, dove luce e colori mutavano coi giorni e le stagioni. Queste cime regalavano a noi sciatori spettacoli di incommensurabile bellezza! Dopo la discesa del monte Bianco, ero ritornato a vedere le cime più maestose della Val d’Aosta. Il primo pomeriggio, lo avevamo trascorso sulle piste ombreggiate del comprensorio di Pila. Eravamo arrivati, dopo venti minuti di cabinovia, direttamente dal caldo afoso del centro di Aosta. Il nostro albergo era a Saint Vincent, nei pressi del famoso casinò. Il giorno successivo, eravamo partiti con gli sci da sotto il Cervino per raggiungere Plateau Rosà, la famosa terrazza dell’Europa a quota 3.480. Poi, tra discese spericolate, impianti a fune e un trenino, avevamo raggiunto Zermatt, in Svizzera, un fantastico paese ecologico situato in una stupenda vallata. Il sabato avevamo percorso le piste molli e a tratti faticose di Courmayeur, soffermandoci sulla Cresta Youla a godere la vista mozzafiato della maestosa vetta del Bianco, la cima più alta della catena alpina. La domenica, dulcis in fundo sulle Cime Bianche della Valtournanche, a quota Tremila, con sciate da sogno sulle piste farinose illuminate dal sole. E poi il felice rientro, dopo l’ormai tradizionale spuntino offerto dal Dlf, a base di formaggio e salame, accompagnati da vini friulani e dolcetti fatti in casa dalle sciatrici del nostro gruppo. Col tempo, ero arrivato sino ai monti piemontesi di Sestiere, completando il mosaico dei principali comprensori sciistici dell’arco alpino. Dagli impianti olimpionici di Bardonecchia, dopo la galleria del Frejus, avevamo sconfinato sulle montagne francesi, raggiungendo con delle guide locali il più grande comprensorio sciistico europeo de Les 3 vallée: panorami mozzafiato di cime bianche baciate dal sole, interminabili piste battute con neve compatta e leggermente farinosa. Un’esperienza da incorniciare!

Ultimamente, avevo imparato ad apprezzare le sciate marzoline. Le giornate erano più lunghe e le temperature meno rigide. Il periodo era più adatto per raggiungere i ghiacciai dell’Alto Adige.

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Da Cima Undici, a due passi dal territorio svizzero, avevo fotografato il lago di Resia con in mezzo il campanile imprigionato dalla morsa del ghiaccio. Poi da lì avevamo sconfinato sul versante austriaco di Nauders. Sulla strada in salita della stretta Val Senales, ogni tanto s’incontrava il tipico maso di legno col tetto di lastre intagliate dalle rocce. Indimenticabile l’esaltante esperienza sulle nevi del suo ghiacciaio, nel cuore di un paesaggio più unico che raro. Delle valli altoatesine, mi è rimasto anche il ricordo di una tranquilla domenica trascorsa sulle nevi di Solda, un ridente paesino al capolinea della Val Venosta dove, assieme ad alcuni del gruppo, avevo visitato il museo Ortles per immergermi tra libri e filmati delle mitiche avventure dell’alpinista esploratore Reinhold Messner. I comprensori sciistici più vasti e meno affollati del versante austriaco, si trovavano sotto le cime bianche del Tirolo: sopra la tranquilla Seefeld e la modernissima Mayrhoffen; dal vastissimo comprensorio del Zillertal allo spettacolare paesaggio naturalistico intorno al paesino di Obergurgl. Col bel tempo, ero riuscito a sciare anche sulle bellissime piste di Sankt Anton, frequentate da sciatori provenienti da tutto il mondo. Ma le nevi più farinose si trovavano sui ghiacciai innevati che superavano i tremila metri di quota. Quando si arriva a quelle altitudini con la luce abbagliante del sole, si resta senza fiato davanti a uno spettacolo della natura così emozionante a trecentosessanta gradi: un immenso mare chiaro a macchie scure dove catene di cime bianche si alternano alle valli. Sopra la località tirolese di Sölden avevo percorso le candide nevi dei ghiacciai Rettenbach e Tiefenbach. Dove finisce l’immensa vallata del Zillertal, nel silenzio profondo dell’Hintertuxer Gletscher immerso in un luccicante scenario di cime rocciose spolverate di bianco, si sentiva solo il rumore della neve soffice e ghiacciata che croccava sotto gli sci. Ma non sempre il tempo è amico. A causa delle perturbazioni in quota, avevo dovuto rinunciare per ben tre volte di raggiungere il ghiacciaio dello Stubai, nei pressi di Innsbruck, dove si poteva sciare sino a primavera inoltrata. In tempi recenti, avevo raggiunto con un gruppo di sciatori la partenza della funivia che portava sul Pitztaler Gletscher, il più elevato ghiacciaio austriaco. Ma a causa di mancanza della visibilità, avevo preferito rinunciare di raggiungere i 3440 metri della nuova piattaforma panoramica. Così mi sono unito a un gruppetto di buongustai della cucina tirolese, raggiungendo a piedi una calda Gasthaus della vallata. Dentro, c’era un invitante profumino di Knödel, Gulaschsuppe e Apfelstrudel. Sciare è bello! Ma in fin dei conti, c’è sempre l’alternativa.