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traduzione, adattamento e regia Andrée Ruth Shammah

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traduzione, adattamento e regiaAndrée Ruth Shammah

Cita a ciegas (Appuntamento al buio)

di Mario Diamenttraduzione, adattamento e regiaAndrée Ruth Shammah traduzione dallo spagnolo Maddalena Cazzaniga

con Gioele Dix – Laura Marinoni Elia Schilton – Sara BertelàRoberta Lanave

scene Gian Maurizio Fercioni costumi Nicoletta Ceccolini luci Camilla Piccioni musiche Michele Tadini

aiuto regista Benedetta Frigerioassistente alla regia Tommaso Bernabeiassistente allo spettacolo Beatrice Cazzaro

direttore dell’allestimento Alberto Accalaipittore scenografo Santino Croci direttore di scena Marco Pirolamacchinista Riccardo Scanarotti, Paolo Rodaelettricista Gianni Gajardofonico Matteo Simonetta sarta Caterina Airoldi

scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti e FM Scenografia

costumi realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni

Produzione

Uno spettacolo che svela il gioco del destino che gioca sempre allo stesso gioco.Una scena vuota. Una panchina. Di fronte alla panchina dove il tempo determina giorni e stagioni, la sfida della regia – al culmine della sua esperienza – è di mettere in scena frammenti di vita. Lo attua con coraggio, attraverso un linguaggio che ci ricorda una tela giapponese – piccoli gesti, invisibili che confondono lo spettatore, poche distrazioni, pochi oggetti. E le parole sono corpo.

Sulla panchina è seduto lo scrittore cieco. Sarà lui il testimone attorno al quale la regia spingerà da subito i personaggi che si racconteranno attratti dal suo silenzio. Arriveranno a lui come api sul miele. È lui il soggetto e allo stesso tempo il testimone degli incontri mancati. Lui, lo scrittore che presta il suo corpo cieco all’avvicendarsi di racconti che denunciano lo stesso irrinunciabile desiderio. Panchina e testimone sono una sola cosa.Quello che deve succedere viene svelato subito come se non succedesse nulla oltre ai pensieri che si pensano. E qui si attua senza concessioni il rigore della regia. Tutto può accadere dietro alle apparenze.

E nulla ha veramente importanza. Dare vita a cose destinate a essere buttate via, popolare un mondo fatto di pensieri che si ripetono. L’atmosfera è quella di una lunga meditazione.

Fino a che il muro dietro alla panchina si apre come il libro che Borges sta scrivendo. La panchina si sdoppia in un interno dove due donne si affrontano. Tra verità e finzione accennate.Una messa in scena che non ha segreti da celare. Ci lascia intuire un profondo, irrinunciabile rispetto per le diversità individuali, che qui in Cita a ciegas vengono rese simili da un destino che le unisce. Una ruota che gira senza sosta. Ritorna la panchina, come all’inizio. E ci si domanda: l’uomo sarà capace di arrivare a se stesso senza dover passare da montagne gelate, percorsi perversi, anni impietosi che annunciano la vecchiaia? Una regia senza sconti. Un inno al potere del teatro.

Charlotte Satie

Cos’è la regia? È prima di tutto una responsabilità, perché non vuol dire solo dare vita a un testo, a tutti i significati e al mondo di valori che rac-chiude, ma vuol dire scegliere quali significa-ti veicolare e come farlo, scegliere dei punti di vista. Mai come in questo spettacolo ho sperimentato una responsabilità simile, una responsabilità pazzesca.

Gioele Dix sostiene che in questo spettacolo lei tenta di difendere tutti i suoi personaggi. È per questo tentativo di giustificare ciò che sembra ingiustificabile che sente il peso della responsabilità? Non si tratta semplicemente di questo. Lavorare a Cita a ciegas è stata una vera e propria indagine nella psiche umana. Non volevo far vedere un unico aspetto dei perso-naggi, dar loro un solo colore senza mostrar-ne le sfumature. È per questo che mi sono divertita anche a giocare con i colori dei loro costumi. Un co-lore esce e ne segue un altro che poi ritorna con una lieve differenza di tonalità. Tutti i personaggi hanno una ferita inte-riore e le loro azioni, anche le più abiette e pericolose, hanno delle motivazioni profon-de, nascono da quella ferita. Ho tentato di dare una chance, una possibilità di riscatto. Ho provato a nobilitare tutti i miei personag-gi, anche perché era il testo che me lo sug-geriva, e così ho dato uno spessore diverso ai loro caratteri, e un valore nuovo alle loro azioni.

Cosa intende quando dice che ha tentato di nobilitare i personaggi? Tutti i miei personaggi hanno una gran-de qualità umana, ad esempio il personaggio interpretato da Elia Schilton sembra avere qualcosa di perverso, ma questa perversio-ne è l’altra faccia dell’amore disperato, folle. Quando l’irrazionale prende il sopravvento

viene fuori il lato più oscuro di lui. Per cer-ti versi questa storia è anche, insieme, un elogio e un monito alla potenza dell’immagi-nazione che ci può portare altrove, in mondi paralleli, ma bisogna stare attenti a dove ci lasciamo condurre. Per questo, il muro alle loro spalle si apre e si richiude proprio come fosse un libro. Come se fosse il confine tra l’immaginazione e la realtà, quella realtà da cui un po’ tutti i personaggi tentano di fug-gire e che può metaforicamente schiacciarli, richiudendosi.

Com’è arrivata alla costruzione di questa duplicità, ambiguità dei personaggi? Ho dovuto scavare nel loro animo, trova-re il luogo metaforico in cui si sono originate le loro ferite emozionali. L’Uomo (Elia Schil-ton) è un uomo maturo che sperimenta per la prima volta l’amore disperato. Non è solo passione o ossessione, lui segue la Ragazza perché ne è innamorato, perché vuole veder-la anche solo da lontano, vuole vedere pro-prio lei, lei che non fa altro che nascondersi. La Ragazza tenta disperatamente di mascherarsi con il trucco, l’abbigliamento. Anche dietro le sue sculture astratte c’è al-tro: c’è lei che non vuole mostrarsi. Non è solo una “stronzetta” che si diverte a gioca-re con i sentimenti di un uomo; è una donna che ama il rischio, ama osare. Sperimenta le droghe, si lascia seguire dall’Uomo, ma lo fa mossa da una paura profonda. È terrorizzata dal pensiero di sprecare la sua vita, di diven-tare come la madre, e per di più il ragazzo che ama sta morendo. Così, quando diven-ta l’ossessione di un uomo che la insegue e la cerca, si sente finalmente importante per qualcuno. E alla fine, in qualche modo, non che ne sia innamorata, ma prova tenerezza e, come afferma lei stessa, potrebbe anche aver provato qualcosa di reale per lui.

Intervista a Andrée Ruth Shammah

Qual è stata la difficoltà maggiore nell’approcciarsi a questo testo? Cita a ciegas è un testo che richiede di andare dentro la vita. L’abilità sta nel tra-sformare tutte quelle cose che non sono vi-sibili, tangibili, che non hanno corpo – come i pensieri, le intenzioni del personaggio – in qualcosa di concreto, riconoscibile nei corpi, nell’intonazione. La vera difficoltà è stata trovare il modo di piegare le battute per portare alla luce l’al-tro lato dei personaggi, quell’emozione, quel mondo interiore che doveva uscire dalla loro interiorità e diventare percepibile, insomma farsi carne, corpo, voce. Bisognava trovare il modo di rivelare tut-to quello che non si dice. I personaggi parlano molto, non fanno altro che parlare, ma la loro vera interiorità è nascosta in quello che non dicono, che lasciano intuire. Trovare il modo di permettere al pubblico di arrivare a queste

intuizioni e di mostrare un altro lato dei per-sonaggi, la qualità umana che io vedevo in loro, è stata sicuramente la parte più difficile. Ha richiesto un duro lavoro, soprattutto sul tono e il ritmo delle battute. Ho dato molte più battute – rispetto a quelle che prevedeva il testo – al Cieco, lo scrittore, perché volevo che il pubblico riconoscesse in lui l’abilità di capire, intuire, conoscere l’animo umano. Lo scrittore cieco, in cui è facile ricono-scere il celebre Borges, parla delle realtà pa-rallele, dei due mondi, fa teoria ma parla di sé, della sua realtà. Quando non vedi, vedi altre cose, dunque c’è un’altra realtà, e lui la abita nella sua cecità, una cecità che lo ren-de intuitivo. Questa sua peculiarità doveva venir fuori dal tono delle sue domande.

Note sull’autore

Mario Diament Drammaturgo, romanziere, autore di saggi, traduttore e sceneggiatore. Nato a Buenos Aires il 17 aprile 1942, ha vissuto a New York e in Israele prima di stabilirsi a Miami dove insegna all’Università di Giornalismo e Comunicazione dell’Universi-tà Internazionale della Florida. Ha vinto diver-si premi per le sue oltre trenta opere teatrali e ha lavorato per importanti quotidiani come la Opiniòn, El Cronista, Expreso, Clarin e il Nuevo Herald di Miami.

Cita a Ciegas è il testo di Mario Diament più rappresentato nel mondo. Considerato il suo capolavoro è stato per cinque anni in cartellone a Buenos Aires e in molti teatri del Sud America (Venezuela, Repubblica Domenicana, Perù, Panama, Colombia, Messico). Negli Stati Uniti è andato in scena a Miami, Washington, Dallas, Arizona e New York, mentre in Europa è stato rappresentato a Parigi, Stoccolma e in Ungheria al Teatro Nazionale di Miskolc. Nel 2019 è prevista una produzione spagnola a Madrid. Con la messa in scena firmata da Andrée Ruth Shammah Cita a ciegas viene presentato per la prima volta in Italia.

Come ha lavorato perché venisse fuori questa intuitività del Cieco? Ho operato un vero e proprio rovescia-mento. Tutte le domande hanno già in sé la ri-sposta. Chi chiede è un passo avanti, sa già. Le domande non servono a chi le pone ma a chi le subisce per scoprire qualcosa di sé.

La parte più impegnativa del lavoro è quindi stata intervenire sulla recitazione? Ho lavorato molto sulla recitazione, sull’intenzione. Si tende a recitare l’emozione nel momento in cui si pronuncia, ma l’emozio-ne in realtà c’è da prima. L’attore vede la pa-rola “mi terrorizza” e recita il terrore quando arriva alla parola, ma il terrore non puoi sen-tirlo quando lo dici, c’è già da prima. Bisogna andare a ricercare una frase precedente che appartiene a quell’emozione e terrorizzarsi. Nella vita c’è sempre prima il pensiero, e an-che un certo pudore nel rivelarlo. Riusciamo a spiegarlo solo dopo che l’abbiamo già vis-suto.

Ha firmato lei la traduzione del testo. Come mai? Ha operato una riscrittura? Non bastava tradurre il testo dall’ingle-se. Ho confrontato le varie versioni rappre-sentate nel mondo, le varie traduzioni in di-verse lingue e rimesso insieme i pezzi. Cita a ciegas è un testo che è stato rap-presentato ovunque. Mario Diament, che io amo chiamare “Diamante Diabolico”, ha co-struito questa storia con un rigore assoluto, in un insieme di rimandi, coincidenze. Costru-isce un meccanismo perfetto, un mondo che prende forma al di là delle parole, della pagi-na. Volevo sottolineare questa capacità del testo di andare dentro la vita, e oltre la realtà.

Qual è il valore, la novità di questo spettacolo secondo lei? Credo che questa storia sia molto vicina alla nostra esperienza quotidiana. Guardando lo spettacolo, chiunque può sentire in qual-che modo che questa vicenda lo riguarda. In molte affermazioni e riflessioni dei personag-gi si può intravedere qualcosa di sé, qualcosa in cui riconoscersi.

#prove rubatedi Mathia Pagani

#CiecoAndrée Ruth Shammah al Cieco: «La tua espressione è perfetta così, laterale e immobi-le, con lo sguardo rivolto verso l'interno.» L'interno comprende l'esterno. Il contrario non accade. Del resto il buio è un'ombra del-la luce. I ciechi hanno tanti specchi dentro, che riflettono tutto, e non una parte. I loro pensieri sono piani sequenza infiniti racchiu-si in un istante. Lo sguardo del cieco è un infinito presente. Il palco è vuoto. La panchina, il bastone, lo sguardo fisso, iro-

nico. Quando si apre il sipario in scena c'è solo lui. Sembra scrivere poesie nell'aria.

Ha una malinconia nel corpo, forse gli fa male un pensiero. Il tango è il ritmo del suo mondo dentro.Il Cieco è un prisma. Attraverso di lui com-prendiamo la Ragazza e l'intera storia.Come un triangolo: il terzo angolo siamo noi. Il pubblico è in scena. Gli altri personaggi potrebbero non esistere se non nella sua mente. E non farebbe alcu-na differenza.

#UomoA.R.S. all’Uomo: «Ricorda che il tuo corpo ha dentro tutto quello che gli è successo e gli suc-cederà. L’incontro di stasera, gli inseguimenti, il tormento. La rivelazione di vedere per la prima volta un fiore, sedersi su una panchina. Devi essere nel disagio. Mani e gambe non sanno più come mettersi, hanno la forma della scriva-nia. Sei il calco di una vita sedentaria, di uomo d’ufficio.»

L’Uomo si muove verso la panchina, guardando un punto oltre. Il suo spazio sta per fondersi con quello del Cieco, in una casuale intimità. Scompaiono i suoni di prima, il tango, i rumo-ri. Ci si ascolta.Lo sguardo assente del Cieco ha il suo con-trappeso prima nella frenesia poi nella fissità dello sguardo dell’Uomo. La tensione si eleva e si risolve nella parola: «Scusi, sa che albero è?» Come dire: «Sa dare un nome all’ignoto che ho di fronte?» La metafora è reale. L’igno-to non è solo fuori.

#DonnaLa scena inizia con superficiali commenti sul tempo. Siamo sulla superficie di una profondità vasta, non solo temporale.A.R.S. alla Donna: «Tu senti il suo sguardo ad-dosso, anche se non ti vede. Sei sconvolta. Lui non ti riconosce dal profumo ma dalle vibra-zioni che emetti. Sei pura emozione in questo momento.»

Una voce, un profumo: non sono che la tradu-zione di una unica onda. Come un’impronta esistenziale che attraversa il tempo e resta, in uno spazio sospeso. In questo varco può rivelarsi il senso di una vita?

#PsicologaLa panchina: sembra una sola, lunga. Ma si può dividere, come ora. Due donne, una di fronte all’altra, e in mezzo una terza, assente. L’assenza è alle volte il segno di una presenza? La Donna si trova di fronte alla Psicologa for-se per avvicinarsi qualche centimetro di più a se stessa. Oltre quella soglia di buon senso che anestetizza le gravità familiari.Più è vicina al suo centro di dolore perma-nente, più vorrebbe essere lontana. E nella lacerazione fra vicino e lontano avviene il crol-lo. La Psicologa segna rapida sul quaderno: “pianto nel parlare della figlia. È lei che vuole salvare, non se stessa”. Possono poche righe toccare un centro di si-gnificato permanente?

In un’altra scena la Psicologa rimane sola dopo la rivelazione dell’Uomo, suo marito. La luce sull’uomo che esce di scena (sulla sua oscenità?) serve a creare il buio che schiac-cerà la Psicologa.A.R.S. alla Psicologa: «Prova a uscire in modo naturale. Il risultato è estetico ma il movimento non deve essere estetico. Le pareti ti stanno per schiacciare. Insieme al buio.»La Psicologa è un personaggio per certi aspetti speculare al Cieco. Come lui comprende tutto subito, ma più attraverso la ragione e l’espe-rienza che l’intuito. Anche lei ha dimestichez-za con l’ombra, con il buio. Ma la ragione, da sola, non l’aiuta. Il buio che per il Cieco è strumento di elevazione, è per lei infine con-danna.

#RagazzaHa vasti pantaloni da uomo. Aspettavamo una strafiga ed entra un maschiaccio. A.R.S.: «Tu rifiuti tutto, anche il fatto scontato di essere bella. La donna in versione maschio ha un suo senso provocatorio, quasi autodistrutti-vo.»Più avanti: «Devi avere la tua voce dentro di te, senza colorarla e senza sorridere. Sei terroriz-zata al pensiero di diventare come tua madre: fredda, rassegnata, una vita sprecata. Tu odi Madame Arnoux, odi la gente che non ha co-raggio. Odi i vincoli borghesi, non solo matrimo-niali. Ma fai fatica a stare fuori dai vincoli.»La Ragazza legge lo stesso libro che leggeva la donna incontrata dal Cieco a Parigi un’antichità

fa. L’educazione sentimentale, oltre il senti-mento, diventa un marchio. Sua madre dirà: «io sono Madame Arnoux». Tu odi tua madre. E provi tenerezza per tuo padre. La stessa che proverai per il bancario e che sarà forse amore. Riprendiamo.La Ragazza è un’artista. Fa “sculture astratte”. A.R.S. ride: «Dentro “astratte” c’è lei che non si vuole rivelare, che ha paura di affrontare la realtà».Fra poco la Ragazza porgerà la sua mano per provare l’intuito del Cieco. A.R.S. le dice di dargli la mano aperta. Lui gliela girerà: per chi non vede con gli occhi ogni parte del corpo è nuda e rivelatrice; non solo il palmo.

www.teatrofrancoparenti.com