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1 STORIE IN CORSO VI. Seminario nazionale dottorandi Catania, 26-28 maggio 2011 www.sissco.it Tra le acque, in Alta Valle Gesso. Turismo, ambiente e identità nel villaggio alpino di Entracque dal secondo dopoguerra a oggi 1. Presentazione. Il quesito centrale della ricerca, i risultati attesi e quelli conseguiti Nelle Alpi sud-occidentali la storia contemporanea ha trovato il suo limite diacronico nel lavoro di Nuto Revelli: le testimonianze raccolte ne Il mondo dei vinti (1977) e ne L’anello forte (1985) calano il sipario della ricerca storica sul tramonto della società alpina tradizionale. Così, a partire dagli anni ‟80 del Novecento, le scienze umane in montagna sono state rappresentate principalmente da geografi, sociologi e antropologi. Pur attingendo dai risultati pubblicati nei differenti ambiti di ricerca, la tesi ha un taglio antropologico 1 e si propone di indagare le trasformazioni avvenute e i cambiamenti ancora in atto in una piccola comunità di media montagna situata nel cuore del Parco delle Alpi Marittime: Entracque (904 m slm, circa 800 abitanti). Non si tratta di realizzare una sorta di impossibile “antropologia d‟emergenza” 2 volta a recuperare, prima che svaniscano del tutto, gli ultimi scampoli di una cultura contadina ormai pressoché estinta: quello che interessa sono le metamorfosi, gli stravolgimenti, gli elementi di continuità, i recuperi, le rifunzionalizzazioni che si sono verificati in paese negli ultimi sessant‟anni e che sono tuttora in corso. 1 Il dottorato in Storia dell‟Università di Genova fa parte della Scuola di dottorato “Società, culture, territorio” e comprende un curriculum in Antropologia, cui il presente lavoro afferisce. 2 Il termine urgent anthropology indica l‟etnografia di una cultura o di una manifestazione culturale prossima alla sparizione, che deve essere documentata tempestivamente prima che venga meno. Iniziatore dell‟antropologia urgente è considerato l‟etnomusicologo statunitense Alan Lomax, noto soprattutto per aver documentato il patrimonio del blues rurale americano.

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STORIE IN CORSO VI.

Seminario nazionale dottorandi

Catania, 26-28 maggio 2011

www.sissco.it

Tra le acque, in Alta Valle Gesso.

Turismo, ambiente e identità nel villaggio alpino di Entracque

dal secondo dopoguerra a oggi

1. Presentazione.

Il quesito centrale della ricerca, i risultati attesi e quelli conseguiti

Nelle Alpi sud-occidentali la storia contemporanea ha trovato

il suo limite diacronico nel lavoro di Nuto Revelli: le

testimonianze raccolte ne Il mondo dei vinti (1977) e ne

L’anello forte (1985) calano il sipario della ricerca storica sul

tramonto della società alpina tradizionale. Così, a partire dagli

anni ‟80 del Novecento, le scienze umane in montagna sono

state rappresentate principalmente da geografi, sociologi e

antropologi. Pur attingendo dai risultati pubblicati nei differenti

ambiti di ricerca, la tesi ha un taglio antropologico1 e si propone

di indagare le trasformazioni avvenute e i cambiamenti ancora

in atto in una piccola comunità di media montagna situata nel

cuore del Parco delle Alpi Marittime: Entracque (904 m slm, circa 800 abitanti). Non si tratta di

realizzare una sorta di impossibile “antropologia d‟emergenza”2 volta a recuperare, prima che

svaniscano del tutto, gli ultimi scampoli di una cultura contadina ormai pressoché estinta: quello che

interessa sono le metamorfosi, gli stravolgimenti, gli elementi di continuità, i recuperi, le

rifunzionalizzazioni che si sono verificati in paese negli ultimi sessant‟anni e che sono tuttora in corso.

1 Il dottorato in Storia dell‟Università di Genova fa parte della Scuola di dottorato “Società, culture, territorio” e

comprende un curriculum in Antropologia, cui il presente lavoro afferisce. 2 Il termine urgent anthropology indica l‟etnografia di una cultura o di una manifestazione culturale prossima

alla sparizione, che deve essere documentata tempestivamente prima che venga meno. Iniziatore

dell‟antropologia urgente è considerato l‟etnomusicologo statunitense Alan Lomax, noto soprattutto per aver

documentato il patrimonio del blues rurale americano.

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Il macro-tema della trasformazione è affrontato attraverso l‟analisi di tre aspetti principali intorno ai

quali si articola la tesi: turismo, ambiente e identità. L‟ipotesi di partenza è che ciascuno di questi

elementi influisca e venga a sua volta influenzato dagli altri due.

Il turismo infatti agisce sull‟ambiente in due modi: contribuendo in maniera massiccia alla

costruzione del territorio (strutture ricettive, cartellonistica didattica o escursionistica, infrastrutture

sportive, edilizia della seconda casa) e dando vita a nuove percezioni dell‟ambiente3, sia da parte di chi

risiede nella località convertita a sito turistico, sia da parte di chi vi giunge come visitatore, con il suo

bagaglio di aspettative più o meno stereotipate4. Il turismo non riveste soltanto un ruolo importante nel

modellare i luoghi e l‟immaginario dei luoghi, ma influenza anche le identità locali in due direzioni:

nel senso di distruggere antiche appartenenze e nel senso contrario di promuovere la nascita di nuove

autopercezioni, talvolta anche di inedite rivendicazioni identitarie.

La valle Gesso, in cui si trova Entracque, fa parte delle cosiddette “valli occitane”, protagoniste a

partire dagli anni ‟60 di un risveglio autonomistico su base linguistico-identitaria (cfr. Degioanni

1992; Borgna 2010). Ancora oggi i più accesi sostenitori del movimento promuovono (più o meno

velleitarie) istanze indipendentistiche: con il P.N.O. francese (Partit Nazionalista Occitan) sono fautori

di una grande nazione Occitana estesa sui due versanti delle Alpi (dalle vallate del cuneese alla Val di

Susa) e su tutta la parte meridionale della Francia fino alla Val d‟Aran, nei Pirenei, che riunisca le

popolazioni in cui accanto all‟italiano o al francese sopravvive ancora una delle lingue d‟Oc (da cui il

nome “Occitania”).

Chiudendo il cerchio e tornando dall‟identità al territorio, vale la pena notare come le politiche

identitarie possano sia contribuire a plasmare il paesaggio (per esempio dagli anni ‟90 molte valli

alpine hanno adottato una doppia cartellonistica – in italiano e in patois – e si scorgono sventolare

sulle facciate di molte case i simboli occitani) come anche costituire un patrimonio simbolico capace

di funzionare da richiamo turistico. La maggioranza dei militanti occitanisti ha infatti ripiegato oggi su

più miti rivendicazioni culturali raggiungendo una buona visibilità a livello nazionale (la lingua

occitana è tutelata dallo Stato italiano ai sensi della legge 482/99) e internazionale (l‟occitano è

candidato a patrimonio dell‟UNESCO). La riscoperta e la valorizzazione del patrimonio poetico e

musicale delle valli, affiancata da una complessa operazione di costruzione dell‟identità occitana

produce oggi nelle valli interessate dal fenomeno un notevole ritorno di immagine: i turisti si lasciano

sedurre volentieri dall‟ennesima invenzione della tradizione (Hobsbawn, Ranger 1994), ancora una

3 Impiego in questa sede le parole “ambiente” e “territorio” come quasi sinonimi. Etimologicamente “ambiente”

rimanda a all‟idea del mondo come sistema di relazioni in cui anche l‟uomo è inserito; “territorio” ha

un‟accezione più concreta, geografica, e indica quella porzione di spazio dai confini necessariamente imprecisi

in cui si svolge la maggior parte delle nostra esistenza quotidiana. 4 Sull‟immaginario, turistico e non, delle Alpi si è scritto moltissimo, cfr., a titolo di esempio: Bonesio (2000);

Camanni (2002); Canestrini (2002); Crettaz (2006); Cuaz (2002, 2005); Delfino, Giordano (2009); Schama

(1997).

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volta affascinati dal mito duro a morire di una presunta “autenticità montanara” (Delfino, Giordano

2009).

Il territorio della ricerca, sorta di “substrato” su cui si innestano il fenomeno turistico e le dinamiche

identitarie, è un ambiente di media montagna (compreso fra gli 800 e i quasi 3300 metri delle

culminazioni più elevate), su cui ha insistito dal 1857 al 1943 una delle riserve venatorie di Casa

Savoia, a lungo importante fonte di reddito per le magre entrate delle casse comunali della valle e per

quanti erano assunti come dipendenti della Riserva o traevano profitto dall‟indotto generato dalla

presenza dei reali. Al termine del secondo conflitto mondiale, il paese, provato da venti mesi di

occupazione e di guerra civile, è allo stremo. Gli entracquesi emigrano in America, in Australia, più

spesso nella vicina Francia o verso un posto in fabbrica alla Fiat di Torino, alla Michelin di Cuneo e

nelle industrie di fondovalle: si tratta di migrazioni permanenti, in cui chi parte non ha più intenzione

di tornare come un tempo con il sole di primavera. Diminuisce il numero degli entracquesi e ne

aumenta l‟età media:

Ciò che ha caratterizzato Entracque rispetto a altri piccoli centri alpini è stato l‟avvicendarsi di

istituzioni, talvolta concorrenti, che hanno determinato il destino del suo territorio: dall‟inizio degli

anni ‟60 all‟inizio degli anni ‟80 il paese si trasforma in un grande cantiere che ospita centinaia di

lavoratori da tutta Italia, arrivati in valle Gesso al seguito delle ditte che per conto dell‟Enel

costruiranno tre invasi e una centrale idroelettrica sotterranea immediatamente a monte di Entracque.

Il paese e il paesaggio si trasformano: declina una volta per tutte l‟economia alpina, Entracque

raddoppia il volume dei suoi alloggi e vive per due decenni all‟ombra dell‟ENEL come modesta

località turistica votata alle villeggiature estive a allo sci invernale. Gli anni ‟80 portano con sé la

chiusura dei grandi cantieri e nel contempo la fine di un certo turismo delle lunghe permanenze: il

paese affronta una fase di transizione in cui si cerca faticosamente di immaginare un futuro turistico

post-Enel. In quello stesso periodo si afferma l‟ultima delle istituzioni che hanno giocato un ruolo

fondamentale in valle Gesso: il Parco delle Alpi Marittime (fino al 1995 Parco dell‟Argentera), la cui

istituzione nel 1980, ha posto definitivamente un freno alle richieste di captazione idrica dell‟ENEL

che avrebbero modificato, prosciugandolo, il volto della valle.

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Entracque ha dunque attraversato una transizione rapidissima: in poco più di vent‟anni si è

trasformata da paese di agricoltori e contadini, prima in paese-cantiere e poi in località turistica

inserita in un‟area protetta. È stata teatro di una delle prime aspre “battaglie di costume civile”

dell‟Italia del boom economico, in cui per una volta le istanze ambientaliste hanno avuto la meglio

sulle mire di sfruttamento della grande industria.

Dal dopoguerra a oggi, attraverso le tappe principali appena menzionate, Entracque ha acquisito una

nuova fisionomia: intervistando residenti e turisti si è tentato di comprendere cosa vede chi guarda

Entracque, quanti paesi immaginati può ospitare uno stesso territorio.

I risultati della ricerca possono essere sintetizzati in prima battuta con una serie di osservazioni

provvisorie, eventualmente rivedibili nel caso in cui emergano ulteriori elementi dall‟elaborazione dei

dati, che procede in parallelo alla scrittura della tesi:

I. La percezione dell‟ambiente da parte della popolazione residente rivela tre aspetti interessanti.

In primo luogo, un elemento emerso dalle interviste è la distanza percettiva tra chi ha memoria del

paese prima del boom economico e chi è nato dopo la Grande Trasformazione. I primi (nati fino agli

anni ‟60) hanno una percezione articolata del territorio, con una padronanza complessa della

toponomastica locale e una conoscenza mediamente approfondita dei dintorni. In particolare gli

anziani tendono a utilizzare nelle descrizioni del paese le categorie contrapposte di

ordinato/bello/positivo e disordinato/brutto/negativo: dalle interviste emerge come il paesaggio rurale

coltivato delle vecchie fotografie sia ritenuto ordinato e “bello” di contro al paesaggio inselvatichito e

“disordinato” di oggi, dove, intorno all‟abitato cresciuto in maniera scomposta, alberi e arbusti

avanzano a spese dei campi, mentre mulattiere e terrazzamenti cadono in rovina. All‟opposto, per i

bambini, che apprendono a scuola e al Parco l‟importanza delle piante, Entracque è percepita oggi

come più “bella” perché più ricca di piante e quindi più “naturale”.

Un secondo elemento di interesse è la progressiva perdita della capacità di nominare i luoghi del

paese e dei dintorni da parte delle generazioni giovani. Per un principio che si potrebbe definire di

“economia della conoscenza” si tende a prestare attenzione e quindi a far rientrare nella percezione

cosciente soltanto ciò che in qualche modo “serve”. L‟attuale stile di vita della maggior parte degli

entracquesi è ormai svincolato dalla terra quanto quello di qualsiasi cittadino: la campagna è inutile se

non come sfondo ameno o meta di escursioni occasionali. Non è più indispensabile come lo era per i

contadini saper distinguere balze rocciose, alberi isolati, curve della strada, bivi o rivi secondari: questi

elementi smettono di essere riconosciuti, designati, percepiti; il paesaggio diventa muto per chi lo abita

perché (quasi) nessuno ha più bisogno di interpretarlo. Le cose che “servono” si trovano tutte in paese

o altrove, in città: servizi, negozi, luoghi di svago o di lavoro: la mappa dei luoghi e dei sentieri di un

entracquese diventa così sempre più simile a quella di un forestiero5.

5 Anzi, spesso i forestieri, se non sono turisti occasionali, ma nuovi abitanti trasferitisi in paese per scelta,

dimostrano un‟attenzione al territorio e una capacità di lettura maggiori rispetto a quella degli entracquesi stessi.

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Un ultimo aspetto interessante da rilevare è una sorta di ipo-percezione dell‟impatto delle strutture

della centrale idroelettrica dell‟ENEL (una diga immediatamente a ridosso dell‟abitato e i numerosi

tralicci dell‟alta tensione che si dipartono dall‟impianto sotterraneo) e dei condomini costruiti negli

anni ‟60-‟70 che svettano sulle vecchie case: molto spesso durante le interviste tutti questi elementi

estremamente evidenti sono stati commentati solo su sollecitazione. La ipo-percezione assume le

sembianze di una rimozione collettiva nel caso della mappa di comunità6 della valle Gesso, in cui i

valligiani che hanno preso parte alla realizzazione della mappa hanno scelto di non rappresentare e

quindi di non riconoscersi in nessuna delle strutture di maggiore impatto sul paesaggio (dighe, cave,

impianti di risalita). Senz‟altro persone diverse da quelle coinvolte nella stesura della mappa,

avrebbero dato luogo a rappresentazioni differenti, resta il fatto che quella attuale è il ritratto di una

valle e di una Entracque invisibili agli occhi. Più che quella di oggi si è scelto di rappresentare la valle

Gesso di ieri: i nipoti hanno disegnato una mappa molto simile a quella che avrebbero tracciato i loro

nonni. Ma mentre gli avi avrebbero rappresentato la realtà a loro contemporanea, i discendenti hanno

deciso di escludere gli elementi di rottura col passato e di riconoscersi in esso. Questo atteggiamento

può essere interpretato in due modi: disegnare una valle che non c’è sta a indicare o un‟u-topia, un

progetto, una rilettura intelligente e creativa del passato, oppure un‟a-topia, una perdita di contatto con

il luogo quale è ora in cui si mescolano il rimpianto per ciò che è stato, il rifiuto di ciò che è e

l‟incapacità di inventarsi un futuro.

II. Il turismo, che costituisce la principale risorsa economica del paese, è vissuto con moderato

entusiasmo, talvolta quasi come un male necessario, sempre come l‟unica via possibile per un paese

dove chi ha potuto, appena ne ha avuto la possibilità, ha abbandonato senza rimpianti l‟agricoltura e

l‟allevamento. L‟atteggiamento prevalente è di tipo semiassistenzialistico: l‟iniziativa personale

langue, quando non è addirittura osteggiata, e ci si affida per la promozione e lo sviluppo del territorio

a interventi dall‟alto, promossi dalle istituzioni in generale e in particolare dal Comune e dal Parco.

L‟analisi del fenomeno turistico ha permesso di indagare, attraverso questionari, la percezione

turistica del territorio, rivelando interessanti correlazioni tra modi di fruire il territorio e percezioni

dell‟ambiente, tra la presenza del Parco e l‟immagine del paesaggio. A un tipo di vacanza può essere

approssimativamente fatto corrispondere un modello mentale del paesaggio e di chi lo abita, più o

meno stereotipato: per esempio, agli occhi degli alpinisti il paese è poco più di un‟ipotesi, una tappa

aggirabile sul cammino per la montagna, per gli sciatori di giornata il territorio è una sorta di ameno

6 Le “mappe di comunità” sono la versione italiana delle “Parish maps” inglesi promosse dall‟associazione

Common Ground (cfr. www.commonground.org.uk). Una mappa di comunità è uno strumento con cui gli

abitanti di un determinato luogo scelgono di rappresentare il patrimonio, il paesaggio, i saperi in cui si

riconoscono e che desiderano trasmettere alle nuove generazioni. Evidenzia il modo con cui la comunità locale

vede, percepisce, attribuisce valore al proprio territorio, alle sue memorie, alle sue trasformazioni, alla sua realtà

attuale e a come vorrebbe che fosse in futuro. Consiste in una rappresentazione cartografica o in un qualsiasi

altro prodotto od elaborato in cui la comunità si può identificare (cfr. www.mappadicomunita.it). Nel caso della

Carto ‘d la gent d’isi (“Carta delle gente di qui”) della valle Gesso il risultato finale è stato un acquerello

realizzato da un‟artista locale.

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sfondo bidimensionale, per chi soggiorna più a lungo si danno invece modelli di conoscenza più vari e

approfonditi.

Un ulteriore elemento di interesse è costituito dalla convergenza tra gli slogan che pubblicizzano il

paese di Entracque (“paese tranquillo” in cui si può fare “un tuffo nella natura”) e la realtà: è ben vero

che il piccolo paese è un posto di fatto tranquillo inserito in una cornice ambientale di pregio, ma è

altrettanto vero che non si tratta senz‟altro delle uniche caratterizzazioni possibili del luogo, la cui

immagine finisce per rimanere impigliata nella rete simbolica ideata per promuoverlo.

Oltre alla ricostruzione storica del fenomeno turistico, mi sono soffermata sulla selezione degli

elementi che, consciamente o inconsciamente, viene operata in sede di costruzione del sito turistico: in

omaggio allo stereotipo della montagna rurale e statica, che inchioda i centri alpini in una dimensione

idealizzata di inizio secolo, l‟attuale immagine turistica di Entracque non mette in risalto gli aspetti

storici e culturali del piccolo borgo, dotato di una pluricentenaria storia di commerci e traffici (leciti o

meno) col versante francese delle Alpi, fiorente centro laniero fino alla fine dell‟Ottocento e terra di

pastori transumanti fin oltre la seconda metà del Novecento – oggi il paese si autorappresenta piuttosto

come un luogo senza storia o con una storia “dal fiato corto”, a breve raggio, che arriva a includere

appena i soggiorni reali della seconda metà dell‟Ottocento.

III. “Identità” è una parola tanto frequente nei dibattiti antropologici quanto pronunciata

malvolentieri dalla maggior parte degli studiosi. Infatti questa parola nitida, limpida, elegante, pulita,

che fa capolino dappertutto nella letteratura specializzata come nei discorsi di uomini politici e comuni

cittadini, gode ormai di pessima stampa. Infatti se fino a ieri si spiegavano i fenomeni sociali in

termini di identità ora si tratta piuttosto di capire perché tanti siano “posseduti dallo spirito

dell‟identità” (Remotti 2010: XX; cfr. anche Remotti 1996, Fabietti 1995, Maher 1994). L‟identità è

uno strumento che dalla cassetta degli attrezzi degli antropologi è passata sotto le luci del tavolo di

dissezione: invece che il modello di spiegazione dei fenomeni è diventata essa stessa ciò che deve

essere spiegato.

A Entracque ho affrontato dunque criticamente il tema dell‟identità da un lato indagando l‟adesione

in paese all‟identità collettiva occitana, che è risultata molto modesta, e dall‟altro cercando di

esplorare i meccanismi di auto-rappresentazione della comunità durante la riproposizione di un rito

che si svolge ogni cinque anni durante la settimana pasquale: le Parlate di Entracque, una

rappresentazione in forma drammatica della Passione.

2. Contesto della ricerca e collocazione del lavoro di dottorato al suo interno

La tesi è un caso di studio che si inserisce nell‟ambito dell‟antropologia alpina, disciplina inaugurata

nel secondo decennio del Novecento dal giovane antropologo francese Robert Hertz, con un articolo

sul culto alpestre di San Besso (Hertz, 1994). Bisogna però attendere la seconda metà del secolo

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scorso per veder nascere i primi studi etnografici scientificamente fondati dedicati al mondo alpino,

che mettono in relazione gli elementi tradizionali con le dinamiche del cambiamento. In particolare,

spetta al cosiddetto paradigma revisionista, a partire dagli anni Ottanta, il compito di liberare le Alpi

dall‟immagine di immobilità e arretratezza economica, sociale e culturale in cui erano state rinchiuse7.

Un tempo considerate una sorta di mondo statico-esotico dietro casa, le Alpi di oggi, contese fra aree

protette, turismo e cemento sono a pieno titolo inserite nei flussi (economici e simbolici) che

interessano ormai ogni area d‟Europa e del mondo. Gli antropologi alpini lo sanno bene già da tempo8

e guardano alle Alpi come a una realtà in divenire in cui si sono verificati e sono tuttora in corso

processi che vale la pena studiare proprio nella loro complessità e contemporaneità. La tesi si propone

dunque come l‟etnografia di una comunità alpina inserita in uno spazio transfrontaliero, sensibile ai

cambiamenti climatici, politici e economici in corso a livello nazionale e globale: la porzione di Alpi

di cui mi sono occupata è un piccolo mondo complesso, dove in controluce si possono leggere

fenomeni di scala maggiore. Il tentativo è quello di ricavare, confrontando persistenze e mutazioni, da

un passato “rispettabilmente esotico” e da un presente decisamente più familiare, un‟interpretazione

profonda (Geertz 1988) e – in certa misura – generalizzabile, della trasformazione del luogo e di chi lo

abita. L‟ambizione è che il contributo possa uscire dall‟ambito strettamente accademico e rivelarsi uno

strumento utile per le istituzioni che operano sul territorio nonché, magari, un‟occasione per gli

entracquesi di vedersi “da fuori”, secondo scorci e prospettive mai presi in considerazione prima d‟ora.

I temi che si è cercato si sviluppare, attualizzandoli e calandoli nel contesto, sono in parte quelli

“classici” dell‟antropologia (identità, percezione del territorio, immaginario alpino e turistico), in parte

temi comuni a altre discipline (rapporto uomini-parchi, evoluzione della relazione uomo-ambiente,

dinamiche demografiche). Pertanto, se l‟impostazione di fondo del paradigma revisionista informa

l‟intero lavoro, ho di necessità attinto ai lavori realizzati in ambiti disciplinari altri rispetto

all‟antropologia. Per quanto riguarda la percezione dell‟ambiente, i principali punti di riferimento sono

costituiti dall‟ecologia culturale di Tim Ingold (2000; 2001), dai lavori di Cristina Grasseni (2003;

2008; 2009) e dalla psicologia ambientale.

L‟analisi dei rapporti tra il Parco e la popolazione locale è avvenuta attraverso la lente di studi di

carattere geografico (Giacomini, Romani 1982), sociologico (Osti 1994, 1999) e di ecologia politica

(Robbins 2004).

7 Il testo di riferimento è il saggio di Pier Paolo Viazzo, Upland Communities. Environment, Population and

Social Structure in the Alps since the Sixteenth Century, pubblicato nel 1989 per la Cambridge University Press e

tradotto l‟anno seguente in italiano con il titolo Comunità alpine: ambiente, popolazione, struttura sociale dal

XVI secolo a oggi. Comunità alpine è oggi riconosciuto come il manifesto del paradigma revisionista, che mette

in discussione l‟immagine delle società alpine come isolate e arretrate economicamente e culturalmente rispetto

ai centri di pianura. 8 Nel 1974 l‟antropologo statunitense John Friedl, partito per studiare la società rurale del villaggio alpino di

Kippel, in Svizzera, scopre che ormai “non era possibile studiare le tradizionali pratiche agro-pastorali quando

nel villaggio rimanevano solo uno o due agricoltori, né pareva opportuno porre un‟enfasi indebita sugli elementi

tradizionali, ignorando gli evidenti mutamenti che si erano prodotti negli ultimi decenni attraverso

l‟industrializzazione” (Friedl: 1974: 3). Oggetto della sua ricerca divenne allora proprio il mutamento sociale e

economico a Kippel, definito non a caso “a changing village”.

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Lo studio delle trasformazioni del paesaggio ha preso le mosse dalle analisi semiotiche del geografo

Eugenio Turri (1974, 1979, 1998, 2002) e dalle suggestioni di Franco La Cecla (1988, 1995), per

approdare alle pubblicazioni interdisciplinari più recenti, curate da geografi, architetti e antropologi.

L‟antropologia del turismo e l‟antropologia del paesaggio sono ambiti dotati ormai di un‟autonomia

disciplinare, che mettono a disposizione un corpus di opere di riferimento e offrono contributi

aggiornati (cfr. rispettivamente Simonicca 1997, 2006 e Lai 2000).

Per quanto riguarda il tema della rifunzionalizzazione delle feste popolari, il punto di partenza è

costituito dagli studi di Gian Luigi Bravo (1983, 1984, 2001, 2005), con l‟intento manifesto di

muovere oltre il folklore (Clemente, Mugnaini 2001). La discussione critica dei concetti chiave di

tradizione e identità ha la sua base nei lavori classici di Hobsbawn e Ranger (1994) e Appadurai

(2001) e nelle ormai pluriennali riflessioni sull‟identità di Francesco Remotti (Remotti 1996, 2010) e

sugli “eccessi di culture” analizzati da Marco Aime (2004). Per quanto riguarda le analisi

specificamente linguistiche ho potuto fare affidamento sui molti lavori specialistici (Telmon 1992,

2004, 2006; Toso 2006, 2007) e utilizzare come fonte di dati preziosi una tesi di laurea in dialettologia

sul paese di Entracque (Fantino 2002).

3. La metodologia della ricerca.

a. Alcune osservazioni sul campo (dove è il campo a essere osservato)

Il lavoro sul campo è legato alla terra, intimamente

intrecciato con il paesaggio naturale e sociale.

James Clifford, Strade

Mentre il luogo della ricerca dello storico è per lo più l‟archivio, il sito della ricerca per eccellenza

dell‟antropologo che si cimenti in un‟etnografia è il campo, luogo e periodo ancora considerato da

molti come il banco di prova della teoria, insieme segno distintivo della disciplina e rito di passaggio

di ogni antropologo. La parola “campo”, come evidenzia James Clifford (1999: 70,73), evoca

immagini mentali di uno spazio sgombro, di coltivazione, di lavoro, di terreno. Il campo in cui ho

svolto la mia ricerca l‟ho trovato invece ingombro di elementi concreti, che non sapevo interpretare e

di modelli teorici appresi su libri e manuali che non sapevo se, come e con quale diritto avrei potuto

applicare. Non potevo fare piazza pulita di quasi nulla: non c‟era verso di eliminare i turisti perché

proprio la loro presenza caratterizzava il mio studio; non potevo permettermi di ignorare le industrie e

le infrastrutture perché erano parte integrante del processo di trasformazione del territorio e dei suoi

abitanti; avevo a che fare con “indigeni mobili”, che talvolta viaggiavano quanto e più di me e che in

nessun modo potevo identificare incatenandoli al luogo di residenza. Nelle parole di Clifford, il lavoro

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sul campo “aveva luogo in relazioni mondane, contingenti, di viaggio, non in un sito controllato di

ricerca” (Clifford 1999: 91).

Così, al primo viaggio di ricognizione nel paese di Entracque, ero decisamente disorientata. Dovevo

raccogliere dei dati, consapevole del fatto che racimolare interviste, materiale d‟archivio o fotografie

non costituisce una fase preliminare, puramente empirica, della ricerca antropologica, una fase distinta

dal momento successivo e più “alto” della elaborazione teorica. Si tratta invece di un‟attività

interpretativa, già impregnata di teoria (Scarduelli 2003: 7). Diventava allora fondamentale tenere

sotto controllo il mio sguardo affinché col suo “carico di teoria” non finisse per schiacciare luoghi e

persone, restituendo di essi un‟immagine deformata. Dovevo educare il mio regard poco éloigné e

molto “da vicino”, a mettersi a fuoco sulle cose importanti, con un occhio vigile aperto sulla teoria e

l‟altro critico spalancato sul mondo.

Nonostante avessi come guida il progetto di ricerca, non sapevo esattamente che cosa avrei dovuto

osservare e, degli oggetti che mi capitavano sotto gli occhi, che cosa ritenere interessante e cosa no.

Da un lato correvo il rischio di non vedere nulla, di trovarmi inserita in un contesto a tal punto simile

al mio da non riuscire a scorgervi alcunché di rilevante. Poiché i nostri sguardi sono addestrati a

prestare attenzione più agli scarti che alla norma, alle discontinuità piuttosto che all‟omogeneo, siamo

portati a cogliere l‟inusuale, l‟anomalo, più facilmente rispetto al lento trasformarsi che tuttavia

conduce a grandi modificazioni. Il quotidiano è per eccellenza l‟evidenza inosservabile, sempre

presente e mai percepita. D‟altro canto rischiavo di cadere nell‟errore opposto: quello di trovare tutto

interessante, tutto degno di nota o, peggio ancora, “pittoresco”. Come il protagonista de Il coraggio

del pettirosso in visita a Roma descritto dal romanziere Maurizio Maggiani, andavo in giro per le

poche vie del paese “perdendomi regolarmente dopo pochi passi, muovendomi come se avessi avuto

gli occhi immersi in una soluzione d‟oppio. Tutto aveva un significato e niente ne aveva uno preciso”.

Il mio “sguardo da vicino” antropologico era un poco presbite e tendeva a confondersi con l‟aumento

della prossimità. Così, non potendo fidarmi soltanto dei miei occhi, ho deciso di moltiplicare gli

sguardi. Per interpretare il territorio mi sono affidata alle cartoline d‟epoca e a quelle contemporanee

(sguardi turistici), alle carte topografiche (sguardi geografici), agli scatti di altri e miei (sguardi

documentari), all‟occhio della memoria che disegna la mappa di comunità e, soprattutto, agli occhi

degli entracquesi. Occhi bambini che conoscono solo il presente, occhi anziani già velati che ricordano

il passato e occhi di mezz‟età, nati con e dentro il mutamento. Attraverso interviste, racconti, disegni –

sovrapponendo cartine e memorie, ho cercato di descrivere la Grande Trasformazione della piccola

realtà alpina di Entracque. Va da sé che un altro antropologo sul medesimo campo forse avrebbe

incrociato e interrogato sguardi diversi e con ogni probabilità avrebbe infine scritto un‟etnografia

differente del medesimo paese: fatalmente complementare e incompleta, come questa e come ogni

tentativo di interpretazione della realtà.

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b. Fonti e tecniche della ricerca etnografica impiegate sul campo

La lunga permanenza sul campo, durata più di un anno, ha permesso di raccogliere una grande

quantità di dati, che alla vigilia della stesura della tesi, con discreto sgomento di chi scrive, ha assunto

le sembianze di un bazar di generi diversi. Il progetto di ricerca iniziale prevedeva il ricorso a un

numero limitato di fonti e metodi, le une e gli altri decisamente convenzionali: da un lato ricerca

bibliografica e d‟archivio, dall‟altro osservazione partecipante, interviste e questionari.

La valida bibliografia esistente su Entracque è stata la fonte principale dell‟introduzione alla storia

del paese: si è trattato di uno di quei casi fortunati in cui gli storici hanno già scritto “la storia di cui gli

antropologi hanno bisogno” (Viazzo 2001: 354). Dagli archivi matrimoniali della parrocchia e del

Comune di Entracque ho poi ricavato i dati necessari per verificare le dinamiche migratorie e

matrimoniali nel corso del „900 e per analizzare la struttura dei soprannomi famigliari entracquesi (i

cosiddetti stranòm, cognomi aggiuntivi che identificano una famiglia al di là del cognome anagrafico),

che oggi sopravvive solo in forma molto ridotta.

La scelta di circoscrivere la ricerca a un solo paese (dei due iniziali) ha tuttavia esteso il periodo da

trascorrere nella sola Entracque, consentendomi sia di individuarvi nuove fonti (ex-voto pittorici) sia

di sperimentarne di alternative e impreviste (la realizzazione di cartoline disegnate dai bambini della

scuola primaria per esplorare la loro percezione dell‟ambiente; l‟utilizzo di video realizzati dai ragazzi

delle scuole medie in cui gli alunni presentano lavori che esprimono l‟idea attuale e futura del loro

paese). Senza contare che il maggior tempo a disposizione ha permesso di accumulare una maggiore

documentazione fotografica.

Così la valigia – o meglio, lo zaino – del ritorno dal campo si è a poco a poco riempito di

registrazioni, questionari, tabelle di intervista, appunti, video, disegni, mappe, vecchie cartoline, scatti

contemporanei e fotografie di ex voto. L‟eterogeneità delle fonti utilizzate e il loro diverso modo di

impiego hanno posto alcune interessanti questioni sulle possibilità e sui limiti dell‟impiego dei vari

materiali, che vanno emergendo col procedere dell‟analisi e della stesura della tesi.

Esaminiamo ora una per una le tecniche della ricerca etnografica impiegate sul campo.

In primo luogo va considerata l‟osservazione diretta, di prima mano, della vita nel paese.

L‟osservazione partecipante ha assunto una forma poco appariscente, anzi “quotidiana”: pur non

avendo preso parte come co-protagonista agli eventi collettivi che hanno animato il paese durante

l‟intero ciclo annuale (le Parlate, le sagre di paese, le processioni), mi sono trovata a condividere

giorno dopo giorno con i miei informatori l‟esperienza di vivere e lavorare nello stesso luogo.

Osservazione partecipante ha voluto dire quindi far fronte davanti a un caffè alla solitudine autunnale

che segue l‟affollamento turistico di agosto, confrontarsi coi problemi tipicamente invernali della

mobilità e del freddo (lamentarsi perché la serratura dell‟auto è ghiacciata, gli autobus sono pochi e il

tempo atmosferico sempre e comunque diverso da quello che si vorrebbe): condividere, in altre parole,

la realtà di vivere e lavorare al paese per quattordici mesi.

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La durata della permanenza sul campo – un campo permeabile, da cui è stato possibile entrare e

uscire spesso in base agli impegni accademici e famigliari – ha permesso di abbracciare un anno intero

e addirittura di “doppiare” i primi mesi, quelli che – nella concitazione dell‟arrivo e dell‟insediamento

– erano risultati più opachi per la ricerca.

La seconda tecnica utilizzata sul campo è stata la conversazione sviluppata attraverso gradi differenti

di formalità: dalle chiacchiere quasi giornaliere che aiutano e stabilire e a mantenere i rapporti

all‟intervista, libera o strutturata. Per quanto riguarda la storia di Entracque e le singole storie

individuali di cui è intessuta la storia del paese, ho fatto ricorso per lo più a interviste libere, narrative.

Talvolta le interviste si sono trasformate in vere e proprie narrazioni di storie di vita. Queste interviste

sono state svolte spesso utilizzando materiale fotografico d‟epoca e attuale, in modo da suscitare negli

intervistati ricordi e impressioni, rendendo più agevole il confronto passato-presente. In un caso ho

ottenuto il permesso dai discendenti di leggere e utilizzare le memorie scritte di una ex

contrabbandiera entracquese.

I dati quantitativi relativi alla lingua locale li ho invece ricavati attraverso cento tabelle di intervista

formali e stampate, compilate al cospetto degli intervistati.

Per quanto riguarda i turisti, ho effettuato una cinquantina di interviste strutturate e utilizzato dei

questionari, in parte somministrati direttamente, in parte affidati a esercenti di alberghi e campeggi

che hanno provveduto a distribuirli ai loro clienti.

Ho inoltre deciso di tentare una via decisamente poco ortodossa, ovvero quella di proporre la

compilazione dei questionari in rete sul social network Facebook. A questo proposito ho creato

un‟apposita pagina aperta a tutti in cui ho esposto i termini della ricerca e insieme la richiesta di

collaborazione. Hanno aderito al mio appello cinque utenti, che hanno offerto il loro aiuto e messo a

disposizione anche materiale fotografico personale su Entracque: il risultato è stato modesto, ma se si

considera la ridotta frequentazione delle pagine dedicate al paese non si è trattato di un esito negativo.

L‟idea è nata dalla constatazione dell‟esistenza di ben due pagine dedicate a Entracque su Facebook,

una ormai in disuso e una moderatamente attiva, sulle quali scrivono frequentatori passati e presenti

del paese. Ho dunque lanciato un amo per sollecitare un “dono del tempo e del sapere” (Aime,

Cossetta 2010: 117) rivolto a soggetti il cui legame con Entracque era già stato sufficiente a indurli a

iscriversi al gruppo dedicato al paese. La buona conoscenza di Entracque e la decisione spontanea di

“abboccare” e dedicare un po‟ del proprio tempo alla compilazione ha fatto sì che i questionari

risultassero particolarmente completi e interessanti.

Mi sono poi avvalsa della collaborazione di informatori privilegiati, in possesso di particolari

competenze: un impiegato comunale, il responsabile dell‟Ecomuseo della Segale, una linguista

entracquese.

Particolarmente interessante è stato il confronto con una dottoranda antropologa oceanista, originaria

del paese e residente a Entracque. Di ritorno dal periodo di campo trascorso nel villaggio kanak di

Belep ha scoperto che il suo villaggio era a sua volta diventato oggetto di studio da parte di una

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collega: antropologa e nativa, è stata determinante come controparte competente e critica. Proprio il

feed-back tra etnografa straniera e collega nativa – un tempo impensabile, oggi sempre meno raro – ha

fatto emergere con tutta la sua forza l‟aspetto della restituzione e dell‟assunzione di responsabilità

epistemica e soprattutto morale di chi scrive nei confronti delle conseguenze di ciò che ha scritto, in

particolare verso le persone di cui, direttamente o indirettamente, ha scritto (cfr. infra, par. seguente).

4. La struttura della tesi di dottorato9

La tesi si articola in una breve presentazione e in una lunga introduzione di carattere metodologico,

in cui particolare attenzione è dedicata ai temi, strettamente legati alla ricerca sul campo, della

responsabilità e della restituzione del sapere. Da sempre, infatti, gli antropologi che fanno ricerca sul

campo accumulano un debito di riconoscenza verso la comunità che li accoglie, ma rispetto al passato

gli etnografi si trovano oggi sottoposti a un maggiore controllo da parte degli “studiati” circa la

conoscenza trasmessa e divulgata. Mentre difficilmente una donna o un uomo Ndembe avrebbero

potuto contattare Victor Turner per invitarlo a rivedere, per esempio, la sua teoria dei colori, è assai

più probabile che i “nativi” di Entracque leggano, commentino e mettano in discussione le conclusioni

presentate nella tesi. Non solo è probabile, ma è anche auspicabile: infatti “anche scrivere per il

pubblico locale” (in Viazzo 2003: 251) è una delle dimensioni della restituzione (la restituzione del

sapere) attraverso la quale l‟antropologo salda il suo debito di riconoscenza. Senza contare che

un‟antropologia per soli antropologi avrebbe senso quanto “un diritto per soli giuristi e una chiesa per

soli ecclesiastici (in Viazzo 2003: 251).

All‟introduzione segue una prima parte che descrive il paese prima e durante la trasformazione del

periodo degli anni ‟60-‟80 in particolare dal punto di vista demografico (andamento e distribuzione sul

territorio della popolazione, dinamiche migratorie) e economico-sociale (evoluzione delle attività

economiche, struttura famigliare). Il capitolo si chiude con la ricostruzione della battaglia contro i

canali di gronda portata avanti da molti valligiani e da numerose associazioni contro l‟ENEL: si trattò

di uno scontro che mise in luce i contrasti tra un neonato ambientalismo di estrazione cittadina e gli

interessi dell‟industria e di quella parte dei lavoratori locali che promuoveva lo sfruttamento delle

acque come mezzo per salvare la montagna dallo spopolamento. Il capitolo è preceduto da una

sommaria storia dell‟insediamento di Entracque dalle sue origini alle soglie del Novecento: ho ritenuto

necessario dedicare alcuni accenni ai secoli sottratti al ricordo diretto e al racconto perché a Entracque

non accadesse di finire inchiodata al solo passato della prima metà del Novecento, schiacciata su pochi

(benché decisivi) anni a fronte di una storia iniziata da due millenni. Infatti “quando uno studio

antropologico è centrato sul mutamento recente, la ricostruzione del passato tende a essere piuttosto

9 Se non il contenuto e l‟impostazione generale, l‟ordine dei capitoli e il titolo stesso della tesi sono da

considerarsi ancora provvisori.

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selettiva, venendo semplicemente intesa come uno sfondo necessario per una comparazione con gli

stili di vita contemporanei osservati e direttamente documentati dall‟antropologo” (Viazzo 2001: 82).

Il secondo capitolo è dedicato al tema del turismo nel paese: vengono analizzati la costruzione del

sito turistico e i modelli di turismo passati e si confronta l‟immaginario turistico locale con le

contemporanee Alpenanschauungen, i diversi modi di guardare alle Alpi.

Il terzo capitolo sviluppa il tema della percezione dell‟ambiente. Si prendono in esame le diverse

immagini del paese messe in relazione con l‟età e con la provenienza (locali/turisti) delle persone e si

tenta una sintesi dei risultati emersi. Si analizza il ruolo del Parco nella costruzione della percezione

dell‟ambiente.

Il quarto capitolo affronta i temi dell‟identità linguistica occitana e del recupero delle tradizioni.

A un quinto, breve, capitolo è affidato il compito di riassumere i risultati della tesi.

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