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TITOLO ORIGINALE

Bushidi5. The Soul of ]apan

TRADUZIONE DI

Monica A marillis Rossi

© 2003 Orientai Press s.r.l. - Milano

ISBN 88-7435-028-7

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Indice

Prefazione alla prima edizione 7 Prefazione alla decima edizione 9 Il Bushido come sistema etico 13 Le fonti del Bushido 18 La rettitudine, o giustizia 24 Il coraggio, lo spirito dell'audacia e della sopportazione 27 La benevolenza, o empatia 32 La cortesia 40 La veracità, o sincerità 46 L'onore 52 Il dovere di lealtà 57 L'educazione e l'addestramento di un samurai 63 Il dominio di se stessi 68 Le istituzioni del suicidio e della riparazione 73 La spada, anima del samurai 85 L'educazione e la posizione delle donne 89 L'influenza del Bushido 100 Il Bushido è ancora vivo? 105 Il futuro del Bushido 1 13

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Prefazione alla prima edizione

Circa dieci anni fa, mentre trascorrevo qualche giorno sotto l'accogliente tetto dell'eminente giurista belga, il rimpianto M. de Laveleye, la nostra conversazione si spostò, durante una delle no­stre passeggiate, all'argomento della religione. «Intende dire che non avete istruzione religiosa nelle vostre scuole?», chiese il pro­fessore. Quando risposi di no, sorpreso, egli si arrestò brusca­mente e, con una voce che non dimenticherò facilmente, ripeté: «Niente religione! E come impartite l'educazione morale? >> . La domanda mi stordì, a quel tempo. Non potevo dare una risposta pronta, perché i precetti morali che avevo appreso durante la mia infanzia non venivano impartiti nelle scuole; e fu solo quando ini­ziai ad analizzare i differenti elementi che formavano le mie no­zioni morali che scoprii di averle assorbite come l'aria che respi­ravo grazie al Bushido.

L'idea di scrivere questo libretto è venuta grazie alle frequen­ti domande di mia moglie, che voleva capire perché certe idee e abitudini siano tanto diffuse in Giappone.

Tentando di dare risposte soddisfacenti a de Laveleye e a mia moglie, mi sono reso conto che senza una comprensione del Feu­dalesimo e del Bushido1 le idee morali dell'attuale Giappone re­stano un libro sigillato.

Approfittando dell'ozio forzato dovuto a una prolungata ma­lattia ho messo per iscritto, nell'ordine che ora presento al pub-

1 Nel trascrivere le parole e i nomi in italiano si è seguito il metodo Hepburn: le vocali sono pronunciate come in italiano, e le consonanti come in inglese.

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Prefazione

blico, alcune delle risposte suscitate dalle nostre conversazioni ca­salinghe. Trattano principalmente ciò che mi fu insegnato duran­te l'infanzia, quando il Feudalesimo era ancora vivo.

Con Lafcadio Hearn e Hugh Fraser da una parte, e Sir Erne­st Satow e il professor Chamberlain dall'altra, è davvero scorag­giante scrivere qualsiasi cosa sul Giappone in inglese. Il solo van­taggio che ho su di loro è che posso assumere l'atteggiamento di un avvocato difensore coinvolto personalmente, mentre questi autorevoli scrittori possono essere paragonati, nel migliore dei ca­si, ad avvocati e procuratori legali. Ho spesso pensato: «Se aves­si la loro proprietà di linguaggio, potrei presentare la causa del Giappone in termini più eloquenti!». Ma chi parla in una lingua presa in prestito dovrebbe essere già grato quando riesce a ren­dersi intelligibile.

Per tutto il testo ho cercato di illustrare ogni punto preso in considerazione tramite esempi tratti dalla storia e dalla letteratu­ra europee, credendo che essi aiuteranno ad avvicinare l'argo­mento alla comprensione dei lettori stranieri.

Dovessero le mie allusioni ad argomenti religiosi e ai missio­nari essere considerate sprezzanti, confido che il mio atteggia­mento verso il Cristianesimo non possa essere messo in dubbio. Ho poca simpatia per i metodi ecclesiastici e per le forme che oscurano gli insegnamenti del Cristo, ma non per gli insegnamenti stessi. Credo nella religione da Lui insegnata e trasmessaci trami­te il nuovo Testamento, come nella legge scritta dentro il cuore. Credo inoltre che Dio abbia lasciato un testamento che può es­sere chiamato «antico» da ogni popolo e nazione, Gentili o Ebrei, Cristiani o pagani. Per quanto riguarda il resto della mia teologia, non ho bisogno di approfittare della pazienza del pubblico.

In conclusione, desidero esprimere i miei ringraziamenti al­l'amica Anna C. Hartshone per i molti validi suggerimenti e per la copertina tipicamente giapponese da lei creata per questo libro.

lnazo Nitobe Malvern, Pa., Dodicesimo mese, 1899

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Prefazione alla decima edizione

Dal tempo della prima edizione, pubblicata a Philadelphia più di sei anni fa, questo piccolo libro ha avuto un successo inaspet­tato. In Giappone è passato attraverso otto edizioni, e l'attuale è la decima apparizione in lingua inglese. Simultaneamente a que­sta usciranno un'edizione americana e una inglese, grazie alla ca­sa editrice George H. Putnam's Sons di New York.

Nel frattempo, Bushido è stato tradotto in mahratti dal signor Dev di Khandesh, in tedesco dalla signora Kaufmann di Ambur­go, in boemo dal signor Flora di Chicago, in polacco dalla Società delle Scienze e della Vita di Lemberg - anche se questa edizione polacca è stata censurata dal governo russo. Sta per uscire in lin­gua norvegese e francese, e stiamo valutando una traduzione in cinese. Un ufficiale russo, attualmente prigioniero in Giappone, ha un manoscritto in lingua russa pronto per la stampa. Una par­te del volume è stata resa disponibile al pubblico ungherese e una recensione dettagliata, quasi un trattato, è stata pubblicata in giap­ponese. Sono stati compilati dei commenti accademici a uso de­gli studenti dal mio amico H. Sakurai, al quale devo molto per avermi aiutato in vari modi.

Sono stato più che gratificato dal sapere che il mio umile la­voro ha trovato lettori entusiasti in ambiti molto diversi, dimo­strando che l'argomento ha suscitato un interesse generale. Estre­mamente lusinghiera è la notizia, giuntami tramite fonti ufficiali, che il presidente Roosevelt mi abbia reso un onore immeritato leg­gendolo e distriquendone diverse decine di copie tra i suoi amici.

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Prefazione alla decima edizione

Nel correggere e ampliare la presente edizione, ho in gran par­te limitato i cambiamenti agli esempi concreti. Continuo tuttora a rammaricarmi (né ho mai cessato di farlo) per non essere riu­scito ad aggiungere un capitolo sulla pietà filiale, che considero una delle due ruote del carro dell'etica giapponese, insieme alla lealtà. La mia incapacità è dovuta alla mia ignoranza del senti­mento occidentale nei confronti di questa particolare virtù, piut­tosto che all'ignoranza dell'atteggiamento giapponese nei suoi confronti, e non sono in grado di trovare dei parallelismi che mi soddisfino a sufficienza. Spero un giorno di poter inserire questo e altri argomenti. Tutti i soggetti trattati in queste pagine sono passibili di ulteriori amplificazioni e discussioni; ma non vedo per ora come potrei ampliare questo volume.

Questa prefazione sarebbe incompleta e ingiusta, se omettes­si di menzionare il debito di gratitudine verso mia moglie, per aver letto le bozze, per i suoi utili suggerimenti e, soprattutto, per il suo costante incoraggiamento.

I. N. Kyoto

Ventiduesimo giorno del quinto mese, 1905

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«Di quella via per le montagne, colui che vi si inerpica potrebbe dubitare invero che sia una strada; ma se la osservasse dall'immensità stessa, ecco che in alto sale la linea, semplice, dalla base alla cima, non vaga, né confondibile! Che cosa sono mai una deviazione o due, viste dall'ininterrotto deserto a entrambi i suoi lati? E se poi (per apportare filosofia fresca) le deviazioni stesse dovessero alla fine rivelarsi i più abili degli espedienti per allenare l'occhio dell'uomo, per insegnargli cos'è la fede?».

. Robert Browning L'Apologia del Vescovo Blougram

<<Ci sono, se così posso dire, tre potenti spiriti, che si sono, di tem­po in tempo, mossi sulla superficie delle acque, dando impulso poten­te ai sentimenti morali e alle energie del genere umano. Sono gli spi­riti della libertà, della religione e dell'onore».

Hallam L'Europa nel Medio Evo

«La cavalleria è essa stessa la poesia della vita».

Schlegel La filosofa della storia

Dedico questo libro al mio amato zio Tokitoshi Ota, che mi inse­gnò a onorare il passato e ad ammirare le gesta dei samurai.

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Il Bushido come sistema etico

La Cavalleria è un fiore indigeno del suolo giapponese, un fio­re non meno originario di quanto sia il suo emblema, il bocciolo di ciliegio; non si tratta dell'esemplare disseccato di un'antica virtù conservata nell'erbario della nostra storia, poiché essa è tut­tora ai nostri occhi simbolo di potere e bellezza; e, pur non aven­do più forma o modello tangibili, diffonde ancora il suo profumo nell'atmosfera morale, rendendoci consapevoli che ci troviamo ancora sotto l'influsso della sua potente magia. Le condizioni del­la società che fecero nascere e sviluppare la Cavalleria sono scom­parse ormai da tempo ma, come quelle stelle remote estinte da millenni che continuano a diffondere i loro raggi fino a noi, la lu­ce della Cavalleria, figlia del Feudalesimo, illumina ancora il no­stro sentiero morale, essendo sopravvissuta alla sua istituzione madre. È per me un vero piacere riflettere ·su questo argomento nel linguaggio di Burke, che espresse il noto e appassionato elo­gio sopra la bara trascurata del suo prototipo europeo.

Quando uno studioso tanto erudito come il dottor George Miller non esita ad affermare che la Cavalleria, o altre istituzioni analoghe, non sono mai esistite tra le nazioni orientali, antiche o modernet, egli rivela una triste mancanza di informazioni sull'E­stremo Oriente. Tale ignoranza, tuttavia, è ampiamente scusabi­le, poiché la terza edizione dell'opera del buon dottore apparve lo stesso anno in cui il Commodoro Perry bussò alle porte del no-

'History Philosophically Illustrated, 3" edizione, 1853, Vol. Il, p. 2.

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Bushidi5. L'anima del Giappone

stro esclusivismo. Oltre dieci anni più tardi, all'epoca in cui il no­stro Feudalesimo stava ormai estinguendosi, Karl Marx, nella sua opera I l Capitale, richiamò l'attenzione dei suoi lettori sullo spe­cifico vantaggio che presentava lo studio delle istituzioni sociali e politiche del Feudalesimo, allora riscontrabili ancora in vita so­lamente in Giappone. Anch'io vorrei suggerire agli studenti di storia e di etica occidentale lo studio della Cavalleria nel Giappo­ne odierno.

Per quanto allettante sia, addentrarsi in un dibattito storico sui parallelismi tra Feudalesimo e Cavalleria europea e giapponese non è scopo di questo libro. Il mio tentativo vorrebbe piuttosto spiegare, in primo luogo, l'origine e le fonti della nostra Cavalle­ria; in secondo luogo, il suo carattere e il suo insegnamento; trat­terò poi della sua influenza sulle masse; e, infine, della continuità e del sussistere della sua influenza. Di questi diversi punti, il pri­mo sarà affrontato solo in modo breve e superficiale, altrimenti dovrei condurre i miei lettori per i sentieri tortuosi della nostra storia nazionale; il secondo sarà descritto con maggiore ampiez­za, poiché interesserà con più probabilità gli studenti che voglia­no comprendere le nostre maniere di pensare e di agire; il resto sarà trattato come corollario.

La parola giapponese che ho rozzamente tradotto come «Ca­valleria» è, nella sua forma originale, molto più espressiva. «Bu­shi-do» significa, letteralmente, «militare-cavaliere-vie»: si tratta delle azioni che i nobili combattenti dovevano osservare nella lo­ro vita quotidiana e nella loro professione o, in una parola, i «pre­cetti della Cavalleria>> , il noblesse oblige della classe guerriera. Ora che ho tradotto il suo significato letterale, mi ritengo di cui in avanti in diritto di usare l'espressione originale. L'uso del termi­ne originale è infatti consigliabile, perché un insegnamento tal­mente circoscritto e unico, fonte di una mentalità e di un caratte­re tanto specifici, tanto locali, deve fare ben mostra della propria singolarità. Alcune parole hanno un timbro nazionale così rive­latore delle caratteristiche della razza, che la miglior traduzione non potrebbe in nessun caso rendere loro giustizia, anzi potreb­be addirittura fare loro un torto. Chi potrebbe migliorare, tradu-

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Il Bushido come sistema etico

cendolo, il significato del termine tedesco «Gemiith», o chi non sentirebbe la differenza tra due parole pur tanto simili come l'in­glese «gentleman» e il francese «gentilhomme»?

Il Bushido è l'insieme dei princìpi morali che i Cavalieri do­vevano osservare o che veniva richiesto loro di imparare. N o n si tratta di un codice scritto; al massimo consiste di poche massime trasmesse oralmente, o provenienti dalla penna di qualche famo­so guerriero. Più frequentemente è un codice inespresso e non scritto, che manifesta la forza ben più potente degli esempi con­creti e di una legge scritta sulle tavole del cuore. Non fu partori­to da una singola mente, per quanto geniale, né nel corso di una singola generazione, ma si sviluppò organicamente durante de­cenni e addirittura secoli di storia, con il concorso di vari guer­rieri. Forse occupa, nella storia dell'etica, la stessa posizione del­la Costituzione inglese nella storia della politica; eppure non ha nulla di paragonabile allà Magna Carta o all'Habeas Corpus Act. È vero che nel XVII secolo furono promulgati degli Statuti Mili­tari (Buké H atto), ma i loro brevi tredici articoli trattavano prin­cipalmente di matrimoni, castelli, unioni ecc., e ai regolamenti di­dattici non dedicavano che scarni accenni. Non possiamo, dun­que, indicare alcun tempo e spazio definito dicendo: «Ecco l'ori­gine del Bushido». Certo, mettendolo in relazione all'epoca feu­dale e alle sue origini, possiamo vedere quanto intimamente sia connesso con il Feudalesimo. Ma il Feudalesimo stesso è intessu­to di vari fili, e il Bushido condivide la sua natura complessa. Se in Inghilterra le istituzioni politiche del Feudalesimo si possono far risalire alla Conquista normanna, in Giappone il costituirsi del Feudalesimo coincise con l'ascesa al potere da parte di Yoritomo, nella seconda parte del XII secolo. Ma come in Inghilterra gli ele­menti sociali del Feudalesimo erano già presenti nel periodo pre­cedente a Guglielmo il Conquistatore, anche in Giappone i ger­mi del Feudalesimo esistevano in realtà da molto prima rispetto al periodo poc' anzi menzionato.

Naturalmente, in Giappone come in Europa, quando il Feu­dalesimo fu inaugurato formalmente, la classe dei guerrieri di pro­fessione divenne la casta predominante. Essi erano noti come «sa-

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Bushido. L'anima del Giappone

murai», che letteralmente significa, come l'antico termine ingle­se «cniht» ( «knecht», «knight» - «cavaliere»), «guardie» o «at­tendenti», e assomigliavano molto nel carattere ai «soldurii», di cui Cesare ricorda la presenza in Aquitania, o ai «comitati», che, secondo Tacito, seguivano i capi germanici del suo tempo; o, per prendere un esempio più tardo, ai «milites medii» di cui si legge nella storia dell'Europa medievale. Nell'uso comune fu adottata anche la parola sino-giapponese «Bu-ké» o «Bu-shi» («cavalieri in armi»). Essi erano una classe privilegiata, e dovevano origina­riamente essere stati degli uomini rozzi che avevano fatto della battaglia la propria vocazione. Questa classe sociale si formò na­turalmente durante un lungo periodo di guerre costanti tra gli uomini più validi e avventurosi e, mentre venivano eliminati i ti­midi e i deboli, sopravvisse solo, per prendere in prestito un'e­spressione di Emerson, «una razza rude e virile, dalla forza bru­ta», per formare le famiglie e i ranghi dei samurai. Conquistando grandi onori e grandi privilegi, e di conseguenza grandi respon­sabilità, essi sentirono presto l'esigenza di adottare delle regole comuni di comportamento, soprattutto perché la loro era una vi­ta di guerra permanente ed essi appartenevano a clan differenti. Come i medici regolano al loro interno le questioni di deontolo­gia professionale, come gli avvocati chiedono a un giurì d'onore di dirimere i casi di violazione della loro professione, anche i guer­rieri possiedono un qualche tipo di tribunale che si pronunci sul­le loro infrazioni.

Combattere secondo regole leali! Quali fertili germi di mo­ralità giacciono in questa massima che suona feroce e ingenua al­lo stesso tempo! Non rappresenta forse questo concetto la radi­ce di tutte le virtù militari e civiche? Noi sorridiamo (come se fossimo ormai troppo cresciuti per questo!) del desiderio fan­ciullesco del piccolo inglese Tom Brown «di lasciare dietro di sé il nome di qualcuno che non ha mai maltrattato un bambino più piccolo e non ha mai voltato le spalle a uno più grande». Ma chi non ammette che questo desiderio è la pietra angolare su cui pos­sono essere erette strutture morali di dimensioni imponenti? Non potrei addirittura spingermi tanto lontano da affermare che

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Il Bushido come sistema etico

tale aspirazione è approvata dalla più mite e pacifica delle reli­gioni? Il desiderio di Tom è la base su cui è in gran parte costruita la grandezza dell'Inghilterra, e non mi ci vorrà molto per dimo­strare che il Bushido non si trova su un piedistallo inferiore. No­nostante che il combattimento sia di per sé (che sia ingaggiato per offesa o per difesa) brutale e sbagliato, come lo definiscono giustamente i Quaccheri, possiamo dire, con Lessing, che «co­nosciamo le debolezze da cui deriva la nostra virtÙ»2• «Spie» e «codardi>> rappresentano epiteti della peggiore specie per le na­ture sane e semplici. Già nell'infanzia apprendiamo le nozioni di «onore>> e «lealtà», così come le apprendevano sin dai loro esor­di i cavalieri; ma quando, crescendo, la vita si espande e le sue relazioni assumono varie sfaccettature, la fede retta da queste no­zioni elementari va alla ricerca di un'autorità più elevata che la regoli e di fonti più razionali per giustificare, soddisfare e svi­luppare se stessa. Se i sistemi militari avessero agito autonoma­mente, senza essere sostenuti da ideali più elevati, l'idea del «Ca­valiere» sarebbe crollata in ben poco tempo! In Europa il Cri­stianesimo, su cui la Cavalleria si era convenientemente innesta­ta, infuse in quest'ultima i suoi elementi spirituali. «La religio­ne, la guerra e la gloria erano le tre anime del perfetto cavaliere cristiano», dice Lamartine.

In Giappone il Bushido si sviluppò grazie a un insieme di fon­ti più complesso.

2 Ruskin fu uno degli uomini più gentili e pacifici di tutte le epoche. Eppu­re egli credeva nella guerra con tutto il fervore di un adoratore della vita. «Quan­do ti dico», dice in Crown o{ the Wild Olive, «che la guerra è il fondamento di tutte le arti, intendo anche dire che essa è il fondamento di tutte le virtù e delle facoltà supreme dell'uomo. È per me molto strano e orribile scoprire questa ve­rità, ma ho costatato che è un fatto innegabile . . . ho scoperto, in breve, che tut­te le grandi nazioni appresero la loro verità di parola e di forza di pensiero nel­la guerra; che furono nutrite dalla guerra e indebolite dalla pace; che appresero dalla guerra e furono illuse dalla pace; addestrate dalla guerra e tradite dalla p a­ce; in una parola, che esse nacquero nella guerra e spirarono nella pace».

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Le fonti del Bushido

Potrei iniziare con il Buddhismo. Esso infondeva un senti­mento di tranquilla fiducia nel Fato, una quieta sottomissione al­l'inevitabile, una stoica compostezza di fronte al pericolo o alla calamità, un certo disprezzo per la vita e una familiarità con la morte. Uno dei principali maestri di spada, quando vide il suo pu­pillo padroneggiare definitivamente quest'arte, gli disse: «D'ora in poi, il mio insegnamento deve lasciare il posto all'insegnamen­to zen». Lo Zen è l'equivalente giapponese del «Dhyana», inteso come il «potere umano di raggiungere tramite la meditazione zo­ne di pensiero che oltrepassano l'ordinaria facoltà di espressione verbale»1• Il suo metodo di contemplazione e il suo intento, per quanto ne capisco, consistono nel cercare di comprendere il prin­cipio che sottende tutti i fenomeni, e forse l'Assoluto stesso, met­tendo così l'individuo in armonia con l'Assoluto. Definito in que­sti termini, l'insegnamento valeva ben più del dogma di una set­ta, poiché chiunque ottenga la percezione dell'Assoluto innalza se stesso sopra le cose terrene e si risveglia, «a un nuovo Cielo e a una nuova Terra».

Ciò che mancava al Buddhismo veniva offerto abbondante­mente dallo Shintoismo: la lealtà al sovrano, il rispetto per la me­moria ancestrale e la pietà filiale erano infatti inculcati dalle sue dottrine come da nessun altro credo, insegnando al samurai, il cui carattere sarebbe stato altrimenti estremamente arrogante, la

' Lafcadio Hearn, Exotics and Retrospectives, p. 84.

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Le fonti del Bushido

passività. La teologia dello Shinto non lascia spazio al dogma del «peccato originale». Anzi, crede nell'innata bontà e purezza di­vina dell'anima umana, adorata come il santuario più intimo at­traverso cui vengono trasmessi gli oracoli divini. Chiunque può rilevare che gli altari shinto sono eccezionalmente sgombri di og­getti e di strumenti di devozione, e che un semplice specchio ap­peso nel santuario forma la parte essenziale del suo arredamen­to. La presenza di questo oggetto è facilmente spiegabile: rap­presenta il cuore umano, il quale, quando è perfettamente calmo e chiaro, riflette l'immagine della Divinità. Di fronte all'altare da onorare, dunque, si vede la propria immagine riflessa sulla sua superficie scintillante, e l'atto di culto è equivalente all'ingiun­zione delfica «Conosci te stesso». Ma la conoscenza di sé non implica, nell'insegnamento greco né in quello giapponese, la co­noscenza della parte fisica dell'uomo, della sua anatomia o del­la sua componente psico-fisica; la conoscenza doveva essere di tipo morale, era un'analisi della nostra natura etica. Mommsen, paragonando i Greci ai Romani, dice che quando i primi onora­vano gli dèi alzavano gli occhi al cielo, poiché la loro preghiera era contemplativa, mentre i secondi si velavano la testa, poiché la loro preghiera era riflessiva. Essenzialmente simile alla con­cezione romana della religione, la nostra riflessione portava in preminenza non tanto la coscienza morale, quanto quella na­zionale dell'individuo. Il culto della natura rendeva caro il Pae­se alla nostra anima più intima, mentre il culto degli antenati, ri­salendo di generazione in generazione, faceva della famiglia im­periale la sorgente dell'intera nazione. Per noi il Paese è ben più della terra e del suolo da cui estrarre l'oro o su cui mietere il gra­no: è la sacra dimora degli dèi, degli spiriti dei nostri antenati; per noi l'Imperatore vale assai più di chi regge uno Stato di di­ritto o di chi presiede un Kulturstaat: è il rappresentante in car­ne e ossa del Cielo, che regna sulla terra e che fonde nella pro­pria persona il potere e la misericordia del Cielo. Se ciò che M. Boutmy2 dice della concezione inglese della sovranità è vero, co-

2 The English People, p. 188.

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Bushido. L'anima del Giappone

me credo che sia, e cioè che «essa non è solo l'immagine del­l'autorità, ma la creatrice e il simbolo stesso dell'unità naziona­le», a maggior ragione lo stesso si può dire della sovranità impe­riale in Giappone.

Le credenze dello Shintoismo favorirono lo sviluppo delle due caratteristiche predominanti della vita emotiva della nostra raz­za: il patriottismo e la lealtà. Arthur May Knapp affermò una profonda verità quando scrisse: «Nella letteratura ebraica è so­vente arduo capire se lo scrittore stia alludendo a Dio o allo Sta­to, al Cielo o a Gerusalemme, al Messia o alla Nazione»3• La me­desima confusione può essere ravvisata nella terminologia della nostra religione nazionale. Parlo di confusione perché così sarà giudicata da un intelletto logico sulla base della sua ambiguità ver­bale, benché, costituendo l'ossatura di un istinto nazionale e dei sentimenti di una razza, non si atteggi mai a filosofia sistematica o a teologia razionale. Questa religione - o, non sarebbe più cor­retto dire, le emozioni della razza espresse da questa religione? -impregnò totalmente il Bushido della sua lealtà al sovrano e del suo amore per il Paese. Questi concetti presero più forma di im­pulsi che non di dottrine; perché lo Shintoismo, a differenza del­la Chiesa cristiana medievale, prescrisse ai suoi adepti ben pochi credenda, fornendo loro invece molti agenda, di un tipo diretto e semplice.

Per la loro severa moralità, gli insegnamenti di Confucio fu­rono la fonte cui attinse principalmente il Bushido. L'enunciazio­ne delle cinque relazioni tra padrone e servo (governante e sud­diti), padre e figlio, marito e moglie, fratelli maggiori e minori, e tra amici, non era che una conferma di ciò che l'istinto di razza aveva riconosciuto molto prima che gli scritti del pensatore cine­se fossero introdotti dalla Cina. Il carattere distaccato, benevolo e generoso di questi precetti etico-politici era particolarmente adatto ai samurai, che formavano la classe governante. Il loro to­no aristocratico e conservatore ben si adattava ai requisiti di que­sti guerrieri-statisti. Dopo Confucio, fu Mencio a esercitare

' Feudal and Modem]apan, Vol. I, p. 183.

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Le fonti del Bushido

un'immensa influenza sul Bushido. Le sue teorie potenti, e spes­so del tutto democratiche, risultavano estremamente seducenti ed erano persino considerate sovversive, e dunque pericolose per l'ordine sociale esistente; per questo le sue opere furono a lungo censurate. Eppure le parole di questo maestro del pensiero tro­varono un posto permanente nel cuore dei samurai.

Gli scritti di Confucio e di Mencio costituivano i libri di testo principali per i giovani, e nelle discussioni degli anziani le loro massime erano considerate la massima autorità. Una semplice co­noscenza teorica dei classici di questi due saggi non era, tuttavia, tenuta in gran conto. Un proverbio metteva in ridicolo colui che aveva solo una conoscenza intellettuale di Confucio, in quanto, pur continuando a studiare gli Analecta, non sarebbe mai riusci­to a comprenderli. Un tipico samurai avrebbe chiamato un dot­to studioso: «uno che puzza di libri». Un altro detto paragonava l'istruzione a un ortaggio dal cattivo odore che doveva essere bol­lito e ribollito prima di poter diventare commestibile. Un uomo che abbia letto poco sa un po' di pedante, mentre chi ha letto mol­to si porta addosso un odore molto più forte, ma entrambi sono sgradevoli. Lo scrittore intendeva dire che la conoscenza diventa davvero tale solamente quando è assimilata dallo studente con­cretamente e si palesa nel suo carattere. Un puro intellettuale era considerato una macchina. L'intelletto stesso era considerato su­bordinato alla sensibilità etica. L'uomo e l'universo erano consi­derati sullo stesso piano, sia spiritualmente, sia eticamente. Il Bu­shido non potrebbe accettare il giudizio di Huxley, secondo cui il processo cosmico ha un carattere amorale.

Secondo il Bushido la conoscenza non doveva essere perse­guita come fine a sé stante, ma come mezzo per ottenere saggez­za. Conseguentemente, colui che non aspirava a tale fine era con­siderato alla stregua di una macchina in grado di sfornare poesie e massime su comando. In questo modo il sapere non era separa­to dalla sua applicazione pratica nella vita; questa dottrina di tipo socratico aveva trovato il suo massimo esponente nel filosofo ci­nese Wan Yang Ming, che non si stancava mai di ripetere: «Sape­re e agire sono la stessa cosa».

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Bushido. L'anima del Giappone

In seno a questo argomento mi si conceda una breve di­gressione, sicuramente utile, visto che alcuni dei bushi più no­bili furono fortemente influenzati dagli insegnamenti di que­sto saggio. I lettori occidentali riconosceranno facilmente nei suoi scritti molte affinità con alcuni precetti del Nuovo Testa­mento.

Osservando i passi affini dei due insegnamenti, il celebre «Cer­cate solo il regno di Dio e la sua giustizia; e tutto il resto vi sarà dato in più», riporta alla mente concetti che si possono trovare in quasi tutte le pagine di Wan Yang Ming. Un suo discepolo giap­ponese• dice: «Il signore del Cielo e della Terra e di tutti gli esse­ri viventi dimora nel cuore dell'uomo e ne diventa la mente ( «kokoro» ): per questo una mente è una cosa vivente, sempre lu­minosa»; e ancora: «La luce spirituale della nostra essenza è pu­ra, e non è influenzata dalla volontà dell'uomo. Sorgendo spon­taneamente nella nostra mente, mostra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato: è quindi chiamata "coscienza", ed è la luce che deri­va dal dio del cielo». Quanto assomigliano queste parole ad alcu­ni brani scritti da lsaac Pennington o da altri filosofi mistici! So­no incline a pensare che la mente giapponese, come evidenziano le semplici credenze della religione shintoista, fosse particolar­mente ricettiva nei confronti dei precetti di Yang Ming. Egli portò la dottrina dell'infallibilità della coscienza a un trascendentalismo estremo, attribuendole la facoltà di percepire non solo la distin­zione tra giusto e sbagliato, ma anche la natura dello spirito e dei fenomeni fisici. Arrivò al punto di negare, al pari dell'Idealismo di Berkeley e di Fichte, l'esistenza dei fenomeni al di fuori del do­minio gnoseologico umano. Se il suo sistema incorreva in tutti gli errori logici imputabili al solipsismo, manteneva però una vigo­rosa efficacia persuasiva, e non si può negare il suo apporto mo­rale allo sviluppo dell'individualità del carattere e di un tempera­mento giusto.

A prescindere dalle fonti, i princìpi essenziali di cui era im­pregnato il Bushido erano pochi e semplici. Per quanto semplici,

'Miwa Shissai.

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Le fonti del Bushido

essi furono sufficienti a ispirare un saldo stile di vita persino at­traverso i giorni incerti del periodo più turbolento della storia del­la nostra Nazione. La natura assolutamente semplice dei nostri antenati guerrieri traeva ampio nutrimento per lo spirito da un fa­scio di insegnamenti sparsi e frammentari, raccolti sulle strade principali e secondarie del pensiero antico; stimolati dalle esigen­ze dell'epoca, tali insegnamenti diedero forma a un nuovo e uni­co tipo di virilità. Un acuto studioso francese, de la Mazelière, co­sì riassume le sue impressioni sul XVI secolo: «Verso la metà del XVI secolo tutto è confuso in Giappone, nel governo, nella so­cietà, nella chiesa. Ma le guerre civili, i costumi tornati alla bar­barie, la necessità di ognuno di farsi giustizia da sé, tutto ciò con­tribuì a formare uomini paragonabili a quegli italiani del XVI se­colo di cui Taine loda "l'iniziativa vigorosa, l'abitudine alle pron­te decisioni e alle imprese disperate, la grande capacità di agire e di soffrire". In Giappone, come in Italia, "i rudi costumi del Me­dio Evo" fecero dell'uomo un animale superbo, "totalmente mi­litante e assolutamente resistente". E questo è il motivo per cui il XVI secolo esaltò al massimo grado la qualità principale della raz­za giapponese, quella grande differenziazione che si può trovare tra le menti (esprits) e tra i temperamenti. Mentre in India, e per­sino in Cina, gli uomini sembrano differire principalmente nei gradi di energia o di intelligenza, in Giappone essi differiscono anche per originalità di carattere. Ora, l'individualità è il segno delle razze superiori e delle civiltà già sviluppate. Se usiamo l'e­spressione cara a Nietzsche, potremmo dire che in Asia parlare di umanità significa parlare delle sue pianure, mentre in Giappone e in Europa essa è rappresentata soprattutto dalle sue montagne».

Mi occuperò ora delle caratteristiche dominanti degli uomini di cui scrive de la Mazelière, iniziando dalla rettitudine.

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La rettitudine, o giustizia

La giustizia è il precetto che maggiormente contraddistingue lo stile del samurai. Niente, infatti, ripugna più all'anima di co­stui di un comportamento subdolo e di un agire scorretto. Il con­cetto di «rettitudine» può talvolta portare a deviazioni o a limita­zioni. Un famoso bushi definisce la rettitudine come la capacità di prendere decisioni: «La rettitudine è il potere di decidersi per una determinata linea di condotta che sia in accordo con la ra­gione, senza tentennamenti: morire quando è giusto morire, col­pire quando è giusto colpire». Un altro guerriero ne parla nei ter­mini seguenti: «La rettitudine è l'ossatura che conferisce stabilità e statura. Così come senza ossa la testa non può stare in cima al­la spina dorsale, e le mani non possono muoversi, né i piedi so­stenerci, senza rettitudine non esiste alcun talento o apprendi­mento che possa fare di un uomo un samurai. Quando invece è presente la rettitudine, non occorrono altre qualità». Mencio de­finisce la benevolenza come la mente dell'uomo e la rettitudine o giustizia come il suo sentiero. «Com'è esecrabile» esclama, «che si trascuri questo sentiero e non lo si persegua, perdendo la men­te e non sapendo più come ritrovarla! Quando gli uomini perdo­no un uccello o un cane sanno come ritrovarli, ma quando per­dono la loro mente non sanno dove cercarla». Non abbiamo qui, «come in un vetro annerito>> , la stessa parabola proposta trecen­to anni prima in un altro clima e da un altro grande Maestro, da colui che chiama se stesso «la Via della giustizia», attraverso cui ciò che è perduto può essere ritrovato? Ma sto deviando dal mio

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La rettitudine, o giustizia

discorso. La giustizia, secondo Mencio, è un sentiero stretto e di­ritto che l'uomo dovrebbe percorrere pt;r riconquistare il paradi­so perduto.

Persino negli ultimi giorni del Feudalesimo, quando il lungo periodo di pace introdusse nella vita della classe guerriera l'ozio, e con esso le dissipazioni di ogni tipo, oltre alla dedizione alle ar­ti, il titolo di «gishi» («uomo di rettitudine») fu considerato su­periore a qualsiasi altro, e indicava la padronanza di una cono­scenza o di un'arte. I Quarantasette Ronin, che ebbero tanta in­fluenza nella nostra educazione popolare, sono noti nel parlato comune come i «Quarantasette Gishi».

In tempi in cui si giustificavano subdoli tranelli con la scusa della tattica militare, e la falsità vera e propria era considerata una ruse de guerre, questa virtù fondamentale, franca e onesta, era un gioiello dei più brillanti ed era il più lodato. La rettitudine è ge­mella del valore, un'altra virtù marziale. Ma, prima di continua­re a parlare del valore, concedetemi di divagare un poco su ciò che potrei chiamare una derivazione della rettitudine che, deviando leggermente dall'originale, se ne allontanò sempre più, finché il suo significato degenerò completamente nell'accezione popolare. Parlo di «gi-ri», letteralmente «ragione giusta», concetto che con il tempo assunse il significato di un vago senso del dovere cui l'o­pinione pubblica considerava obbligatorio adempiere. Nel suo si­gnificato originale implica il dovere, puro e semplice, e con esso intendiamo il «giri» che dobbiamo ai genitori, ai superiori, agli inferiori, alla società nel suo insieme e così via; in questi esempi, dunque, «giri» è soltanto il dovere; perché cos'altro è il dovere, se non ciò che la ragione giusta richiede e ci comanda di fare? Non dovrebbe essere la ragione giusta il nostro imperativo categorico?

«Giri» primariamente non significava niente più «di dovere», e oserei dire che la sua etimologia derivi dal fatto che nel nostro comportamento, per esempio nei confronti dei genitori, occorre­va, benché l'amore dovesse essere la nostra sola motivazione, qualche altra autorità che rafforzasse la pietà filiale; e questa au­torità fu formulata come «giri». E molto giustamente, perché se l'amore non basta come motivazione alle azioni virtuose bisogna

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Bushido. L'anima del Giappone

ricorrere all'intelletto dell'uomo e alla sua ragione, che deve esse­re stimolata per convincerlo della necessità di un'azione corretta. Lo stesso si applica a qualsiasi altro obbligo morale. Il dovere im­mediato diventa oneroso, la giusta ragione entra in scena per im­pedire la nostra tendenza a evitarlo. In questa concezione «giri» è un severo maestro con un bastone in mano per costringere i fan­nulloni a fare la loro parte. È tuttavia una forza secondaria nel­l'ambito etico, e come motivazione è infinitamente inferiore alla dottrina cristiana dell'amore, che dovrebbe essere la legge. La giu­dico un prodotto delle condizioni di una società artificiale, una società in cui l'evento della nascita e i privilegi immeritati istitui­vano distinzioni di classe, in cui la famiglia era l'unità sociale, in cui l'età contava più della superiorità dei talenti e in cui le affinità naturali dovevano spesso soccombere di fronte a costumi arbi­trari istituiti dall'uomo. A causa di questa artificiosità «giri» con il tempo degenerò in un vago senso della convenienza, invocata per spiegare questo e proibire quell'altro, come, per esempio, spiegare perché una madre dovesse, se necessario, sacrificare tut­ti gli altri figli per salvare il maggiore; o perché una figlia doves­se vendere la sua castità per trovare il denaro necessario a pagare i debiti del padre, e altri casi simili. Pur esordendo come giusta ragione, «giri», secondo la mia opinione, si è spesso inchinato al­la casuistica, degenerando anche, talora, nel vile timore di susci­tare il biasimo altrui. Potrei dire di «giri» ciò che Scott scrisse del patriottismo, ovvero che «mentre è il più leale dei sentimenti, è al contempo il più equivoco di tutti, potendo essere utilizzato per mascherarne altri meno nobili». Trasferito su un piano che è al di là o al di sotto della giusta ragione, «giri» divenne una mostruo­sa definizione non appropriata. Ha accolto sotto le sue ali ogni sorta di sofismo e ipocrisia. Avrebbe potuto facilmente trasfor­marsi in un nido di codardia, se il Bushido non avesse avuto un senso del coraggio vivo e corretto, lo spirito del coraggio e della sopportazione.

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Il coraggio, lo spirito dell'audacia

e della sopportazione

Il coraggio non era considerato degno di essere annoverato tra le virtù, a meno che non fosse al servizio della rettitudine. N egli Analecta Confucio definisce il coraggio spiegando, come faceva spesso, il concetto opposto: «Avere coscienza di ciò che è giusto», disse, «e non farlo, denota mancanza di coraggio». Traducendo questo epigramma in un'affermazione positiva, esso diventa: «Il coraggio è fare ciò che è giusto». Incorrere in ogni tipo di peri­colo, mettere a repentaglio la propria vita, precipitarsi tra gli ar­tigli della morte, sono azioni troppo spesso identificate con il va­lore, e nella professione delle armi tale temerarietà - ciò che Shakespeare chiama «valore illegittimo» - è ingiustamente ap­plaudita; ma non nei Precetti della Cavalleria. Morire per una cau­sa per cui fosse indegno morire era infatti definita la «morte di un cane». «Precipitarsi nel cuore della battaglia per essere fatti a pez­zi», disse un Principe di Mito, «è piuttosto facile, ed è un compi­to alla portata persino di un villico». Ma, continua poi il princi­pe: «vero coraggio è vivere quando è giusto vivere, e morire so­lamente quando è giusto morire». La distinzione tra coraggio mo­rale e fisico, valida in Occidente, era già da tempo operante anche tra noi. Quale giovane. samurai non aveva sentito parlare del «grande valore» e del «valore di uno scriteriato?».

Essendo il valore, la forza d'animo, l'audacia, la mancanza di paura e il coraggio le qualità spirituali che più facilmente attrag-

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gono le menti dei giovani e che, potendo essere allenate grazie al­l'esercizio e all'esempio, erano anche le virtù più popolari, i gio­vani cercavano al più presto di emularle. Le storie delle gesta mi­litari venivano ripetute a ogni bambino prima ancora che fosse svezzato. I bambini giapponesi, che facendosi male scoppiavano in lacrime, venivano così rimproverati dalle loro madri: «Che viltà piangere per una sciocchezza! Cosa farai quando ti taglieranno un braccio in battaglia? E cosa, quando poi dovrai fare haraki­ri?». Noi giapponesi conosciamo tutti la forza d'animo di quel principino del Sendai che, tormentato dalla fame, nel dramma di­ce al suo piccolo paggio: «Guarda quei passerotti nel nido, come aprono i loro becchi gialli! Ed ecco la madre che arriva con dei chicchi di grano per sfamarli! Come sono eccitati e felici i picco­lini! Ma per un samurai con lo stomaco vuoto è una disgrazia da­re ascolto alla fame». Gli aneddoti riguardanti la forza d'animo e il coraggio abbondano nei racconti per i bambini, ma questo ge­nere di storie non è il solo metodo per inculcare già in giovane età lo spirito dell'audacia e la mancanza di paura. I genitori, con una severità che rasentava a volte la crudeltà, assegnavano ai loro figli compiti per cui era necessario raccogliere tutto il proprio corag­gio. Si diceva infatti che «gli orsi scagliano i loro cuccioli nei bur­roni». I figli dei samurai erano dunque abbandonati ad affronta­re difficoltà ripide come valli e spronati ad affrontare fatiche de­gne di Sisifo. Li si privava occasionalmente del cibo o li si espo­neva al freddo, prove considerate altamente efficaci per allenare i ragazzi alla sopportazione. I bambini ancora in tenera età veni­vano mandati da estranei con messaggi da consegnare, venivano svegliati prima dell'alba, e già prima di colazione dovevano eser­citarsi nella lettura, recandosi dai loro maestri a piedi nudi in pie­no inverno; frequentemente, una o due volte al mese, durante le feste per celebrare una divinità protettrice del sapere, si riuniva­no in gruppetti e trascorrevano la notte senza dormire, leggendo a voce alta, a turno. I pellegrinaggi a ogni sorta di luogo inquie­tante, come patiboli, cimiteri e case infestate dai fantasmi, erano i passatempi preferiti dai giovani. Ai tempi in cui la decapitazio­ne era uno spettacolo pubblico, non solo i ragazzini venivano

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Il coraggio, lo spirito dell'audacia e della sopportazione

mandati a osservare la scena spaventosa, ma si imponeva loro di tornare a visitare il luogo con l'oscurità della notte e da soli, per lasciare un segno della propria visita sulla testa decapitata.

Questo sistema esageratamente spartano per «esercitare il controllo dei nervi» riempie i pedagogisti moderni di orrore e di dubbi: non avrà tutto ciò il risultato di brutalizzare il carattere dei giovani, tagliando in boccio le tenere emozioni dei loro cuori? Ve­dremo in un altro capitolo quali altri concetti il Bushido aveva ol­tre al valore.

L'aspetto spirituale del coraggio è evidenziato dalla compo­stezza, da una calma presenza mentale. La tranquillità è il corag­gio in fase di riposo, ne costituisce la manifestazione statica, co­me le azioni coraggiose ne rappresentano la fase dinamica. Un uo­mo veramente coraggioso è sempre sereno; non viene mai colto di sorpresa, nulla scompiglia l'imperturbabilità del suo spirito. Nel­l' ardore della battaglia rimane freddo, in mezzo alla catastrofe do­mina la sua mente; i terremoti non lo fanno tremare, e ride delle tempeste. Ammiriamo come veramente grande colui che, davan­ti alla minaccia di un pericolo o della morte, domina le proprie emozioni; colui che, per esempio, riesce a comporre una poesia sotto il pericolo incombente, o a cantare una canzone di fronte al­la morte. Questa calma che non viene tradita da un tremito della mano o della voce è indice infallibile di una nobile natura, di ciò che chiamiamo una mente capace ( «yoyu») che, l ungi dal venire oppressa o angosciata, ha sempre spazio per qualcosa di più.

Tra di noi è stato tramandato come autentico un episodio sto­rico di cui fu protagonista Ota Dokan, il grande costruttore del castello di Tokyo. Trapassandolo con una lancia, il suo assassino, conoscendo la sua predilezione per la poesia, accompagnò il col­po con il verso:

«Ah! Quanto, in momenti come questi, il nostro cuore rimpiange la luce della vita!».

A queste parole l'eroe morente, come se non fosse per nulla abbattuto dalla ferita mortale nel proprio fianco, aggiunse:

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Bushido. L'anima del Giappone

«Esso apprese, se già non lo aveva fatto nelle ore di pace, a guardare alla vita con leggerezza».

Cogliamo un elemento sportivo in una natura coraggiosa. Le cose che agli uomini ordinari paiono serie possono sembrare gio­cose ai valorosi. Ecco perché nelle vecchie guerre non era per nul­la raro che le parti in conflitto si impegnassero in scambi arguti di battute o in discussioni retoriche. Il combattimento non era esclu­sivamente una dimostrazione di forza bruta; era anche una gara tra intelletti.

Di questo tipo fu la battaglia combattuta sulle rive del fiume Koromo, nella seconda metà del secolo XI. L'armata orientale fu sconfitta e il suo comandante, Sadato, fuggì. Quando il generale all'inseguimento lo ebbe quasi raggiunto, gli gridò:./«È una di­sgrazia, per un guerriero, mostrare la schiena al nemico». Sadato arrestò il cavallo, al che il comandante vincitore improvvisò un verso:

«A brandelli è ridotto l'ordito della veste ("koromo")».

Aveva appena pronunciato queste parole, che il guerriero sconfitto, senza mostrare segni di paura, completò il verso:

«Perché il tempo, con l'uso, ne ha consumato i fili».

Yoshiie all'improvviso abbassò l'arco che aveva sempre tenu­to teso e se ne andò, lasciando libera la sua potenziale vittima di fare come voleva. Quando gli si chiese la ragione del suo strano comportamento, rispose che non poteva gettare vergogna su una persona la cui presenza mentale era rimasta intatta nonostante fosse inseguita con tanto ardore dal nemico.

Il dolore che pervase Antonio e Ottavio alla morte di Bruto era il genere di sentimento che coglieva generalmente gli uomini coraggiosi. Kenshin, che aveva combattuto per quattordici anni contro Shingen, quando venne a conoscenza della morte di que­st'ultimo, pianse senza ritegno per la perdita del «migliore dei ne-

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Il coraggio, lo spirito dell'audacia e della sopportazione

miei». Lo stesso Kenshin si comportò sempre nobilmente nei confronti di Shingen, le cui province si estendevano in una regio­ne montuosa lontana dal mare e dipendevano conseguentemente dalle province di Hojo del Tokaido per procurarsi il sale. Il prin­cipe di Hojo, desiderando indebolirlo, aveva deviato da Shingen tutto il commercio di questo importante articolo. Kenshin era ve­nuto a conoscenza del problema del nemico, ed essendo in grado di ottenere il sale dai propri domini sulla costa scrisse a Shingen che secondo la sua opinione il signore di Hojo aveva commesso un atto vile e che, anche se era in guerra con lui (Shingen), aveva ordinato ai suoi sudditi di rifornirlo di sale, aggiungendo: «Non combatto con il sale, ma con la spada». Queste parole riecheg­giano quelle di Camillo: «Noi romani non combattiamo con l'o­ro, ma con il ferro». Nietzsche parlò a nome dei samurai, quan­do scrisse: «Dovete provare orgoglio per il vostro nemico, per­ché il suo successo è anche il vostro». Il valore e l'onore, infatti, esigono che siano nemici in guerra solo coloro che si rivelano de­gni di essere amici in pace. Quando il coraggio arriva ai massimi livelli, si congiunge alla benevolenza.

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La benevolenza, o empatia

L'amore, la magnanimità, l'affetto per gli altri, la simpatia e la pena sono sempre state considerate virtù supreme, gli attributi più nobili dell'anima umana. Queste virtù erano giudicate doppia­mente nobili: nobili come qualità dello spirito e nobili in quanto particolarmente adatte a una professione nobile. Non abbiamo avuto bisogno di Shakespeare per capire - anche se, probabil­mente come il resto del mondo, avevamo bisogno di lui per espri­mere tale sentimento - che la compassione rappresentava un mo­narca meglio di quanto facesse la sua corona, e che essa era supe­riore alla sua autorità e al suo scettro. Quanto spesso Confucio e Mencio hanno ripetuto che il più nobile requisito di un gover­nante consiste nella benevolenza! Confucio ha affermato: «Fate in modo che un principe coltivi la virtù e il popolo si stringerà in­torno a lui; assieme al popolo gli verranno le terre; le terre gli por­teranno ricchezza; la ricchezza gli permetterà di amministrare con giustizia. La virtù è la radice, e la ricchezza è un frutto». Oppu­re: «Mai c'è stato il caso di un sovrano amante della benevolenza, il cui popolo non ami la giustizia»; Mencio lo segue dappresso, dicendo: «Vi sono esempi di individui che hanno ottenuto pote­re supremo in un singolo Stato pur essendo privi di benevolenza, ma mai ho sentito di un intero impero che sia caduto nelle mani di una persona che manchi di questa virtÙ>> . Inoltre è impossibi­le che qualcuno diventi il governante di un popolo se non ne ha conquistato il cuore. Ecco come entrambi i filosofi definivano

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La benevolenza, o empatia

questo indispensabile requisito di un governante: «La benevo­lenza . . . la benevolenza è l'uomo».

Sotto il regime del Feudalesimo, che facilmente poteva dege­nerare nel militarismo, fu grazie alla benevolenza che si evitò di scadere nel dispotismo della peggiore specie.

Una totale sottomissione della «vita e del braccio» da parte dei sudditi lasciava al governante la completa facoltà di decisione, e questo ebbe come conseguenza lo sviluppo di quell'assolutismo così spesso chiamato «dispotismo orientale», quasi che non ci fos­sero despoti nella storia occidentale!

L ungi da me sostenere il dispotismo di qualsiasi sorta, ma è un errore identificarlo con il Feudalesimo. Quando Federico il Grande scrisse che «i re sono i primi servitori dello Stato», i giu­risti pensarono giustamente che si fosse entrati in una nuova èra dello sviluppo della libertà. Per una strana coincidenza, nella stes­sa epoca, nelle foreste del Giappone settentrionale, Yozan di Yo­nezawa pronunciò più o meno le stesse parole, mostrando che il Feudalesimo non era solo tirannia e oppressione. Un principe feu­dale, anche se immemore del dovere e degli obblighi reciproci nei confronti dei vassalli, sentiva un estremo senso di responsabilità nei confronti degli antenati e del Cielo. Egli era considerato co­me un padre per i suoi sudditi, che il Cielo aveva affidato alle sue cure. Secondo l'antico Libro della Poesia cinese «Finché la casa di Yin non perse la fiducia del popolo, essa poté apparire innanzi al Cielo». E Confucio, nel suo Grande Insegnamento, affermava: «Quando il principe ama ciò che il popolo ama e odia ciò che il popolo odia, allora è chiamato padre del popolo». Così l'opinio­ne pubblica e la volontà monarchica, ovvero la democrazia e l'as­solutismo, si fusero l'una nell'altro. Quindi, in un senso non usualmente connaturato al termine, il Bushido accettava e soste­neva un governo paterno - paterno anche in quanto opposto al governo meno interessato di uno zio (lo Zio Sam, tanto per fare una battuta!). La differenza tra un governo dispotico e uno pa­terno sta nel fatto che nel primo il popolo obbedisce in modo ri­luttante, mentre nel secondo lo fa con «quella sottomissione or­gogliosa che rendeva nobile l'obbedienza, con quella subordina-

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Bushido. L'anima del Giappone

zione del cuore che manteneva in vita, persino nell'asservimento, lo spirito esaltato della libertà»1• Il vecchio detto che definiva il re d'Inghilterra «re dei demoni, a causa delle frequenti insurrezioni dei sudditi e delle deposizioni dei principi» non è interamente fal­so; lo stesso proverbio definiva il monarca francese «re dei soma­ri», «a causa delle infinite tassazioni e imposizioni», mentre dava il titolo di «re degli uomini» al sovrano di Spagna, «per via del­l'obbedienza spontanea dei suoi sudditi». Ma basta così!

La relazione tra virtù e potere assoluto potrebbe sembrare, per la mentalità anglosassone, una contraddizione in termini. Pobye­donostseff ha espresso con chiarezza il contrasto tra le fonda­menta della comunità inglese e quelle delle altre comunità euro­pee: queste ultime erano organizzate sulla base di un interesse co­mune, mentre quella inglese era contraddistinta da una persona­lità fortemente sviluppata e indipendente. Ciò che questo statista russo sostiene della subordinazione personale degli individui a qualche alleanza sociale, e in fin dei conti allo Stato tra le nazio­ni continentali europee, e in particolare tra i popoli slavi, è anco­ra più vero per i giapponesi. Non solo, infatti, in Giappone il li­bero esercizio del potere monarchico è ampiamente accettato molto più che in Europa, ma è generalmente moderato dalla sen­sibilità paterna per i sentimenti del popolo. «L'assolutismo - dis­se Bismarck - richiede al governante imparzialità, onestà, devo­zione al dovere, energia e umiltà». Se mi si consente di citare al­tri brani su questo argomento, vorrei proporre il discorso del­l'imperatore tedesco a Coblenza, in cui parlò di «Sovranità per grazia di Dio, con i suoi pesanti doveri, con le sue terribili re­sponsabilità verso il Creatore, dalle quali nessun uomo, nessun ministro, nessun parlamentare può sollevare il monarca>> .

Sapevamo che la benevolenza è una virtù tenera e materna. La rettitudine e la giustizia, entrambe severe, sono virtù peculiar­mente mascoline, mentre la compassione possiede la sensibilità e la capacità di persuasione di una natura femminile. Ci veniva in­segnato a non indulgere però in una carità indiscriminata, che non

' Burke, French Revolution.

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La benevolenza, o empatia

fosse accompagnata anche da giustizia e rettitudine. Masamune espresse bene questo concetto tramite un aforisma spesso citato: «La rettitudine portata all'eccesso si indurisce e diventa rigidità; la benevolenza spinta oltre misura naufraga nella debolezza».

Fortunatamente la compassione non è così rata quanto bella; è infatti una verità universalmente valida quella che insegna che «i più coraggiosi sono i più teneri, e coloro che amano sono co­loro che sanno osare». L'espressione «Bushi no nasake», ovvero la sensibilità del guerriero, risvegliava immediatamente quanto in noi vi era di nobile; non perché la compassione di un samurai fos­se genericamente diversa da quella di qualsiasi altro essere, ma perché esigeva che non fosse dettata da un impulso cieco, che te­nesse in dovuta considerazione la giustizia e ch6 non rimanesse solamente uno stato mentale; essa doveva infatti essere il fonda­mento del potere di salvare o di uccidere. Prendendo in prestito il gergo degli economisti, che parlano di domanda efficace o inef­ficace, potremmo chiamare la compassione del bushi «efficace», poiché implicava il potere di agire a beneficio o a svantaggio di colui verso il quale era rivolta.

Pur orgogliosi com'erano della loro forza bruta e dei privi­legi di cui godevano, i samurai abbracciavano pienamente l'in­segnamento di Mencio che riguardava il potere dell'amore. «La benevolenza», aveva detto il filosofo, «sottomette alla sua in­fluenza qualsiasi cosa impedisca il suo potere, come l'acqua sot­tomette il fuoco: l'acqua risulta inefficace nello spegnere le fiamme solo quando si cerca di estinguere con una tazza un in­tero carro in fiamme carico di fascine di legna». Egli disse an­che che «il sentimento della compassione è la radice della bene­volenza». Ecco dunque che un uomo benevolo si accorge sem­pre di chi sta soffrendo ed è compassionevole. Mencio antici­pava così di molti secoli Adam Smith, che fonda la sua filosofia etica sull'empatia.

·

È sorprendente quanto il codice dell'onore cavalleresco di un Paese coincida con quello di altri, o in altre parole, quanto le idee morali dell'Oriente, di cui tanto si parla, trovino riscontro nelle più elevate massime della letteratura europea. Se la nota frase:

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Bushido. L'anima del Giappone

«Hae tibi erunt artes -pacisque imponere morem, parcere subjectis, et debellare superbos»,

fosse stata mostrata a un gentiluomo giapponese, egli avrebbe po­tuto immediatamente accusare il bardo di Mantova di plagio dal­la letteratura del suo Paese.

Si esaltava la benevolenza nei confronti dei deboli, degli op­pressi o dei vinti come una caratteristica particolarmente adatta a un samurai. Gli amanti dell'arte giapponese conoscono sicura­mente la rappresentazione del famoso monaco che cavalca una mucca rivolto all'indietro. Il cavaliere era una volta un guerriero che in gioventù aveva fatto del suo nome un sinonimo di terrore. Nella terribile battaglia di Sumano-ura (1 184) che fu una delle più decisive della nostra storia, egli sorprese uno dei nemici da solo e lo intrappolò tra sé e le file del proprio enorme esercito. Ora, le regole della guerra dettavano che in occasioni simili non si do­vesse versare alcun sangue, a meno che la parte più debole non provasse di essere un uomo di rango o di abilità eguale a quella del più forte. Il feroce combattente voleva sapere il nome del­l'uomo che aveva catturato, ma siccome questi si rifiutava di dir­glielo, gli tolse a forza l'elmo e, alla vista di un viso imberbe e de­licato, il guerriero sorpreso rilasciò la presa. Aiutando il giovane a rialzarsi, in tono paterno offrì all'adolescente di andarsene: «Vai, giovane principe, torna da tua madre! La spada di Kumagaye non sarà macchiata dal tuo sangue. Affrettati, e scappa lontano prima che i tuoi nemici arrivino!». Il giovane guerriero si rifiutò di an­darsene, e pregò Kumagaye di ucciderlo lì sul posto, per l'onore di entrambi. Il veterano alzò sopra la testa canuta la fredda lama, che tante altre volte in precedenza aveva spezzato le corde della vita, ma il suo cuore intrepido cedette allo sgomento; nella sua mente guizzò fulminea l'immagine del proprio figlio, che quello stesso giorno stava marciando al suono delle trombe per sotto­porsi alla prova delle armi per la prima volta. La forte mano del guerriero tremò; di nuovo egli chiese alla sua vittima di fuggire per salvarsi la vita. Trovando vane tutte le proprie suppliche, e sentendo avvicinarsi i compagni, esclamò: «Se sarai catturato po-

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tresti cadere per mano di qualcuno ben più ignobile di me. Oh su­blime Infinito! Ricevi la sua anima!». Fulminea la spada fendette l'aria, e quando ricadde era rossa del sangue dell'adolescente. Una volta finita la guerra, ritroviamo il nostro soldato che torna a ca­sa trionfante, ma poco oramai gli importa dell'onore e della fama; rinuncia alla carriera militare, si rade la testa, indossa un abito mo­nacale e dedica il resto dei suoi giorni al pellegrinaggio ai luoghi sacri, che compie senza mai girare la schiena a ovest, dove si tro­va il paradiso da cui proviene la salvezza e dove il sole si dirige

. . ogm g10rno per nposars1. I critici potrebbero trovare delle pecche in questa storia, tan­

to vulnerabile dal punto di vista casuistico. Pazienza: essa dimo­stra che la tenerezza, la pietà e l'amore erano elementi che ador­navano anche le gesta più sanguinarie dei samurai. Tra loro circo­lava un antico detto: «Non si uccide l'uccello che ci si rifugia in grembo». Questo spiega in larga misura perché il movimento del­la Croce Rossa, considerato peculiarmente cristiano, si radicò presso di noi tanto velocemente. Decenni prima che udissimo par­lare della Convenzione di Ginevra, Bakin, il nostro più grande ro­manziere, ci aveva familiarizzato con le cure mediche da prestare a un nemico ferito. Nel principato di Satsuma, rinomato per lo spirito e l'educazione marziali, i giovani solevano esercitarsi nel­la musica; e non imparavano a soffiare nelle trombe, o a battere i tamburi, «quei messaggeri reboanti di sangue e di morte», che in­citano a sentirsi feroci come tigri, bensì a suonare tristi e tenere melodie sul biwa2, canzoni che addolcivano i fieri spiriti e che ave­vano il potere di scacciare i pensieri dall'odore del sangue e dalle scene di carneficina. Anche Polibio racconta della costituzione dell'Arcadia, che richiedeva che tutti i giovani sotto i trent'anni si esercitassero nella musica, affinché quella dolce arte alleviasse i ri­gori della regione inclemente. Egli attribuisce alla sua influenza l'assenza di crudeltà in quella parte delle montagne arcadiche.

Ma Satsuma non era il solo luogo del Giappone in cui la sen­sibilità venisse inculcata negli esponenti della classe guerriera. Tra

' Strumento musicale, simile alla chitarra.

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gli appunti di un principe degli Shirakawa, che era solito scrivere di getto i suoi pensieri occasionali, troviamo: «Anche se dovesse­ro accostarsi furtivi al tuo letto nelle ore silenti della notte, non scacciare la fragranza dei fiori, il suono delle campane distanti, o gli insetti ronzanti di una notte gelida, anzi affrettati ad acco­glierli». O ancora: «Anche se sono in grado di turbare i nostri sen­timenti, non si può fare a meno di perdonare la brezza che scom­piglia i nostri fiori, la nube che nasconde la luna ai nostri occhi e l'uomo che cerca di attaccar briga».

Si incoraggi11va il tentativo di esprimere questi sentimenti gen­tili tramite la scrittura di versi poetici, e in realtà le poesie stesse servivano a col,ivare queste emozioni. Ecco dunque perché la no­stra poesia ha qna forte tendenza al pathos e alla delicatezza. Un noto aneddoto riguardante un rozzo samurai illustra un episodio del genere. Quando gli fu imposto di imparare a scrivere versi, e gli fu dato «Il canto dell'uccello canoro»3 come soggetto del suo primo tentativo poetico, il suo fiero spirito si ribellò ed egli gettò ai piedi del suo maestro questa goffa produzione:

'

«Il guerriero coraggioso chiude l'orecchio che potrebbe ascoltare la canzone dell'usignolo».

Il suo maestro, senza farsi scoraggiare dal rozzo sentimento dimostrato dal giovane, continuò a incoraggiarlo finché un gior­no la musica dell'anima di quest'ultimo fu risvegliata dai dolci tril­li dell'uguisu, e scrisse:

«Si erge il guerriero, duro e forte, per ascoltare il canto dell'uguisu, che risuona dolce tra gli alberi».

Noi ammiriamo e ci commuoviamo di fronte al momento eroico nella breve vita di Korner, quando, giacendo ferito sul

' I:uguisu, o uccello canoro, chiamato anche «usignolo del Giappone».

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campo di battaglia, scrisse il suo famoso Addio alla vita. Casi di questo genere non erano affatto insoliti nemmeno nelle nostre guerre. Le nostre poesie, concise ed epigrammatiche, erano par­ticolarmente adatte all'espressione improvvisata di un forte sen­timento. Chiunque avesse una qualche educazione era un poeta, anche dilettante. Non era insolito vedere un soldato in marcia fermarsi, prendere gli attrezzi per la scrittura dalla cintura e com­porre un'ode; fogli scritti con composizioni di questo genere ve­nivano trovati in seguito negli elmi o nelle corazze nel momen­to in cui venivano spogliati i corpi senza vita di chi li aveva in­dossati.

Ciò che il Cristianesimo ha realizzato in Europa risvegliando la compassione nel mezzo degli orrori commessi dai belligeranti, in Giappone è stato compiuto dall'amore per la musica e per le lettere. Coltivare i sentimenti teneri fa crescere l'attenzione nei confronti delle sofferenze degli altri. La modestia e la gentilezza, messe in pratica per rispetto dei sentimenti altrui, sono alla radi­ce della cortesia.

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La cortesia

La cortesia e l'educazione dei modi sono state notate da ogni turista straniero come un tratto caratteristico dei giapponesi. La cortesia è una piccola virtù, se praticata solo per paura di offen­dere il buon gusto, mentre dovrebbe essere la manifestazione esterna dell'empatia nei confronti dei sentimenti altrui. Da noi es­sa implica anche una doverosa considerazione per le convenien­ze, e quindi per le posizioni sociali; queste non derivano da dif­ferenze economiche, ma da distinzioni originariamente attribui­te grazie a meriti effettivi.

Nella sua forma più elevata, la cortesia si avvicina all'amore. Potremmo dire reverentemente che la cortesia «è a lungo tolle­rante e gentile; non porta invidia, non mena vanto a se stessa, non esibisce se stessa, non si comporta in modo sconveniente, non persegue il proprio interesse, non si lascia provocare facilmente, non prende in considerazione le cattiverie». Non desta dunque stupore che il professor Dean, parlando dei sei elementi dell'u­manità, accordi alla cortesia una posizione preminente, in quan­to essa rappresenta il frutto più maturo dei rapporti sociali.

Pur esaltando la cortesia in questo modo, lungi da me l'idea di metterla ai vertici dei valori più nobili. Se la analizziamo, infatti, la troveremo correlata ad altre virtù di ordine più elevato; ma, del resto, quale virtù è coltivabile da sola? Essendo considerata con­veniente alla professione delle armi, ed essendo in quanto tale sti­mata più di quanto non meritasse, veniva di conseguenza sotto­lineato il pericolo derivante dalle sue contraffazioni. Confucio

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La cortesia

stesso aveva ripetutamente insegnato che i suoi orpelli esteriori fanno parte del decoro quanto i suoni sgradevoli della musica.

Non c'è da stupirsi che quando il decoro fu elevato al sine qua non dei rapporti sociali, fu introdotto un elaborato sistema di eti­chetta per educare i giovani a intrattenere corrette relazioni so­ciali. Si cominciò a insegnare e ad apprendere in modo estrema­mente accurato come ci si doveva inchinare quando si incontra­vano altre persone, come camminare e come sedersi. Le buone maniere a tavola divennero una scienza. Servire e bere il tè furo­no elevati al rango di cerimonia. Da un uomo educato, natural­mente, non ci si poteva aspettare altro che una grande padronan­za di tutti questi comportamenti. Molto opportunamente Veblen, nel suo interessante libro' definisce il decoro «Un prodotto e una manifestazione della vita delle classi agiate».

Ho sentito esprimere commenti sprezzanti da parte di alcuni europei sulla nostra elaborata disciplina della cortesia, criticata in quanto assorbirebbe esageratamente le nostre energie; sarebbe dunque una follia osservarla strettamente. Ammetto che nell'eti­chetta cerimoniosa si sviluppino finezze non necessarie, ma non saprei dire se sia più folle aderire alla nostra etichetta o alle mode in continuo cambiamento dell'Occidente. Non che io consideri le mode solo come capricci della vanità, tutt'altro; osservo questi fenomeni considerandoli una ricerca incessante della bellezza da parte della mente umana. E ancor meno posso bollare le compli­cate cerimonie come triviali nel loro complesso, perché esse rap­presentano il risultato di una lunga osservazione alla ricerca del metodo più appropriato per ottenere certi risultati. Qualsiasi co­sa si debba fare, esiste sicuramente il modo migliore per farla, e il modo migliore è di solito anche il più economico e il più elegan­te. Spencer definisce l'eleganza la maniera più economica di muo­versi. La cerimonia del tè ha codificato con precisione come si ma­nipolano una tazza, un cucchiaio, un tovagliolo ecc. A un novi­zio tutto ciò può sembrare noioso, ma egli scoprirà presto che il modo prescritto è, dopo tutto, quello che permette di risparmia-

' Theory of the Leisure Class, N.Y., 1899, p. 46.

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re più tempo e fatica; in altri termini, è l'uso più economico del­la forza; ecco perché, secondo la teoria di Spencer, è anche il più elegante.

Il significato spirituale del decoro sociale, o, per prendere in prestito il vocabolario della «Philosophy of Clothes», della disci­plina spirituale di cui l'etichetta e la cerimonia non sono che gli ornamenti esteriori, è di gran lunga superiore a quello che le sue espressioni apparenti ci spingono a credere. Potrei seguire l'e­sempio di Spencer, e rintracciare nelle nostre istituzioni cerimo­niali le loro origini e le componenti morali che contribuirono a formarle, ma ciò non rientra negli scopi di questo libro. Mi pro­pongo invece di esaltare solo l'educazione morale, che richiede la stretta osservanza del decoro.

Ho già ricordato come l'etichetta fosse elaborata nei minimi dettagli, tanto da far nascere scuole diverse, fautrici di sistemi dif­ferenti; tutte, comunque, si basavano sull'essenziale fondamento, espresso da un grande esponente della più rinomata scuola di buo­ne maniere - l'Ogasawara - nei termini seguenti: «Il fine di qual­siasi norma di cortesia è coltivare la mente in modo che persino quando siete seduti tranquillamente nessuno oserà assaltarvi, nemmeno il più rozzo dei ribaldi». Ciò significa che, esercitan­dosi costantemente nelle buone maniere, si portano tutte le parti e le facoltà del corpo a funzionare secondo un ordine perfetto, e si arriva a una tale armonia con se stessi e con il proprio ambien­te da esprimere la padronanza dello spirito sulla carne. Quale nuovo e più profondo significato viene ad assumere la parola francese «bienséance»!

Se è vera la premessa che l'eleganza risulta dall'economia del­la forza, ne consegue logicamente che praticare costantemente un contegno elegante deve portare a immagazzinare e conserva­re la forza. Le belle maniere, dunque, rappresentano la potenza nella quiete. Sentendo la storia dei barbari Galli che durante il sacco di Roma irruppero nel Senato riunito e osarono tirare la barba ai venerabili senatori, noi pensiamo che quei vecchi gen­tiluomini fossero da compatire, poiché non dimostrarono di­gnità e modi decisi. È dunque possibile realizzare un'elevata spi-

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ritualità attraverso l'etichetta? E perché no? Tutte le strade por­tano a Roma!

Come esempio di come la cosa più semplice possa essere tra­sformata in arte e diventare poi cultura spirituale, posso prende­re il cha-no-yu, la cerimonia del tè. Fare del sorseggiare il tè un' ar­te! Ma perché poi non dovrebbe essere così? Le raffigurazioni dei bambini nella sabbia, o le primitive incisioni sulla roccia, rac­chiudevano la promessa di un Raffaello o di un Michelangelo. Quanto più degna di svilupparsi in una sfaccettatura della reli­gione e della moralità è dunque un'azione come il bere una be­vanda nata dalla contemplazione trascendentale di un anacoreta indiano? Quella calma della mente, quella serenità di tempera­mento, quella compostezza nel contegno che sono le basi essen­ziali del cha-no-yu, sono senza dubbio anche le prime condizio­ni del retto pensare e del retto sentire. La scrupolosa pulizia del­la stanza del tè, senza finestre e separata dalla confusione della pazza folla, ha lo scopo di distogliere i pensieri dal mondo. I suoi spogli interni non assorbono l'attenzione come fanno le innume­revoli immagini e le anticaglie poste nei salotti occidentali; la pre­senza dei kakemono richiama la nostra attenzione sulla grazia del disegno più che sulla bellezza del colore. L'obiettivo verso cui si tende è l'estrema raffinatezza del gusto, ma qualsiasi esibizione è bandita con orrore religioso. Il fatto di essere stata inventata da un anacoreta contemplativo, in un'epoca in cui le guerre e i sen­tori di guerra erano incessanti, è rivelatore di quanto questa isti­tuzione fosse ben più di un passatempo. Prima di entrare nei quie­ti confini della sala da tè, la compagnia riunita per partecipare al­la cerimonia metteva da parte, deponendo le spade, la ferocia del campo di battaglia, o le preoccupazioni del governo, per trovare pace e amiCIZia.

Il cha-no-yu è ben più di una cerimonia; è un'arte raffinata; è poesia che armonizza gesti e ritmi: è un modus operandi per di­sciplinare l'anima. Il suo più grande valore risiede in quest'ulti­ma fase. Non è infrequente che le altre fasi siano preponderanti per i suoi adepti, ma questo non prova che la sua essenza non sia di natura spirituale.

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La cortesia è una grande conquista della cultura umana, anche quando serve solamente a conferire grazia ai modi di fare; ma la sua funzione non si esaurisce in questo, perché il decoro, deri­vando da motivazioni di benevolenza e moderazione, diviene, se animato da un sentimento di rispetto verso la sensibilità altrui, un'espressione di simpatia piena di grazia. Esso richiede la capa­cità di piangere con chi piange e di rallegrarsi con chi ha motivo di essere felice. Questa esigenza didattica, quando si riduce ai det­tagli della vita di ogni giorno, si esprime in azioni difficili da no­tare e che, se rilevate, sono, come mi disse una missionaria dopo vent'anni di residenza in Giappone: «terribilmente comiche». Per esempio, siete sotto un sole cocente e abbagliante, senza ombra intorno a voi. Un conoscente giapponese vi passa accanto; vi ac­costate a lui, e istantaneamente questi si toglie il cappello: bene, questo è perfettamente normale, ma l'azione «terribilmente co­mica» è che, mentre parla con voi, tiene il parasole chiuso e an­ch'egli rimane esposto al sole cocente. Che cosa stupida! Sì, è ve­ro, eppure la motivazione che si cela dietro questo gesto è: «Sei sotto il sole e io simpatizzo con te; ti prenderei volentieri sotto il mio parasole, se fosse abbastanza grande o se fossimo amici inti­mi; dunque, poiché non posso farti ombra, condividerò il tuo di­sagio». Piccole azioni di questo tipo, altrettanto divertenti o an­che più, non sono solo semplici gesti o formalità, bensì l' espres­sione di sentimenti pieni di considerazione per il benessere altrui.

Un'altra abitudine «terribilmente comica» è dettata dai nostri canoni di cortesia in materia di regali; molti scrittori superficiali che si sono occupati del Giappone l'hanno liquidata, consideran­dola parte del generale scompiglio della nazione. Gli stranieri avranno di certo provato una sensazione di disagio nel non saper rispondere in modo appropriato in tali occasioni. In America, quando si fa un regalo, se ne cantano le lodi al destinatario; in Giappone invece lo si svaluta o lo si sminuisce. L'idea dell'Occi­dente è: «Questo è un bel regalo: se non fosse bello non te lo avrei donato, perché sarebbe un insulto darti qualcosa che non sia de­gno di te». Al contrario, la nostra logica dice: «Sei una persona talmente superiore che nessun dono ti renderà abbastanza onore.

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La cortesia

Non potresti accettare niente che io possa deporre ai tuoi piedi a meno che non sia semplicemente un pegno della mia buona vo­lontà. Sarebbe un insulto al tuo valore definire il mio dono degno di te». Mettendo le due idee a confronto, si potrà capire facilmente che il concetto dietro i due diversi atteggiamenti è lo stesso. Nes­suno di essi è «terribilmente comico>> . Gli americani parlano del materiale di cui è fatto il regalo. I giapponesi parlano dello spiri­to che il regalo suggerisce.

È in ogni caso un ragionamento distorto dedurre che, poiché il nostro senso del decoro si manifesta in tutte le più sottili rami­ficazioni della nostra condotta, se si estrae la meno importante di queste e la si fa assurgere a paradigma di tutte le altre, si possa ri­ferire al principio generale la stessa valutazione che riguarda l' at­to particolare. Che cosa è più importante, mangiare o osservare le regole del decoro che riguardano il cibo? Un saggio cinese ri­sponde in questi termini: «Se considerate un caso in cui il cibo sia più importante e uno in cui l'osservare le regole del decoro sia meno importante e li mettete a confronto, perché non dire più semplicemente che mangiare assume un'importanza maggiore?». «Il metallo è più pesante delle piume>> ; verissimo, ma cosa dire nel caso in cui una singola fibbia di metallo sia messa a confronto con un carro di piume? Prendete un pezzo di legno delle dimensioni di trenta centimetri e ponetelo sopra la cima di un tempio; chi sa­rebbe così stolto da definirlo più alto del tempio? Alla domanda se sia più importante dire la verità o essere gentili, si dice che i giapponesi risponderebbero in modo diametralmente opposto a come farebbero gli americani, ma sospendo ogni commento fino a che non parlerò della veracità e della sincerità.

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Senza veracità la cortesia è una farsa. «Il decoro che oltrepas­sa i giusti limiti - dice Masamune - diventa menzogna». Un no­stro antico poeta ha superato Polonio quando consigliava: «Sii fedele a te stesso, e se il tuo cuore non devia dalla verità, anche senza preghiere gli dèi ti proteggeranno». L'apoteosi della since­rità cui dà espressione Confucio nella Dottrina del Mezzo, le at­tribuisce poteri trascendenti, quasi identificandola con il divino. «La sincerità è la fine e l'inizio di tutte le cose; senza sincerità non ci sarebbe nulla». Egli poi insiste con eloquenza sulla sua natura, che va ben oltre i limiti di tempo di spazio, sul suo potere di pro­durre cambiamenti senza provocare turbamenti e sulla sua capa­cità, in virtù della sua mera presenza, di portare a termine lo sco­po prefisso senza sforzo. Dall'ideogramma cinese di «sincerità», che è una combinazione di «parola» e di «perfetto», si è tentati di trarre un parallelo tra esso e la dottrina neoplatonica del logos,

tanto elevata è l'altezza cui il saggio si eleva nel suo insolito e mi­stico volo.

La menzogna o l'equivoco erano considerati azioni egual­mente vili. Il bushi credeva che la nobiltà del proprio rango so­ciale imponesse uno stile di verità più severo rispetto a quello del commerciante o dell'agricoltore. Il «Bushi-no ichi-gon» - la pa­rola di un samurai - era una garanzia sufficiente per provare la verità di un'affermazione. La sua parola aveva un peso tale che le promesse erano generalmente pronunciate e mantenute senza che ci fosse bisogno di un impegno scritto, che avrebbe leso la sua di-

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gnità. Si raccontavano aneddoti sensazionali su coloro che espia­vano con la morte un «ni-gon», una lingua biforcuta.

La veracità era tenuta in così alta considerazione che, a diffe­renza della maggioranza dei cristiani - che persistentemente vio­lano i semplici comandamenti del loro Signore di non giurare - il migliore dei samurai considerava un giuramento come lesivo del proprio onore. So bene che essi giuravano su varie divinità o sul­le loro spade; ma mai il gii.Iramento è degenerato in forme arbi­trarie o in esclamazioni irriverenti. Per enfatizzare la parola tal­volta si ricorreva alla pratica di sigillarla letteralmente con il san­gue. Per spiegare tale pratica, mi basta indirizzare i miei lettori al Faust di Goethe.

Uno scrittore americano ha recentemente affermato che se si chiede a un comune giapponese cosa è preferibile tra dire una menzogna o essere scortese, questi non esiterà a rispondere «di­re una menzogna!». Il dottor Peeri in parte ha ragione e in par­te no; ha ragione in quanto un giapponese comune, anche un sa­murai, potrebbe rispondere nel modo attribuitogli, ma sbaglia nell'attribuire un peso eccessivo al termine tradotto come «men­zogna». Questa parola («uso» in giapponese) è impiegata per in­dicare qualsiasi cosa che non sia una verità ( «makoto») o un fat­to ( «honto» ). Lowell ci dice che Wordsworth non sapeva distin­guere tra verità e fatto, e un giapponese comune è in questo sen­so altrettanto in buona fede di Wordsworth. Se chiedete a un giap­ponese, o persino a un americano di una certa cultura, di dirvi se vi disprezza oppure se ha male allo stomaco, egli non esiterà a dir­vi una falsità, rispondendovi «No, vi apprezzo molto», o «Sto piuttosto bene, grazie». Sacrificare la verità per essere gentili era considerata una «forma vuota» ( «kyo-re») e «illudere con parole dolci».

Sto parlando ora dell'idea di veracità del Bushido; ma credo che occorra dedicare qualche parola alla nostra integrità com­merciale, di cui ho sentito molte lagnanze sui libri e sui giornali stranieri. Ci è stata attribuita una dubbia moralità affaristica, il che

' Peery, The Gist of ]apan, p. 86.

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Bushido. L'anima del Giappone

ha leso la nostra reputazione nazionale; ma prima di esagerare l'importanza di questo fatto o di condannare tutta la nostra raz­za basandoci su questo, studiamo la questione seriamente e ne trarremo benefici per il futuro.

Di tutte le grandi occupazioni della vita, nessuna era più lon­tana dalla professione delle armi di quella del commercio. Il mer­cante era il mestiere al rango più basso nella scala sociale: prima veniva il guerriero, poi il coltivatore della terra, indi l'artigiano, e infine il mercante. Le rendite dei samurai provenivano dalle ter­re, ed egli poteva addirittura indulgere, se gli fosse piaciuto, a fa­re l'agricoltore per hobby; ma aborriva i libri contabili e il pal­lottoliere. Sappiamo che vi era della saggezza in questo ordina­mento sociale. Montesquieu ha chiarito il motivo per cui la no­biltà era esclusa dalle occupazioni mercantili, e l'ha definita una politica sociale ammirevole, in quanto impediva che la ricchezza si accumulasse nelle mani dei potenti. La separazione tra potere e ricchezza assicurava che la distribuzione di quest'ultima fosse più equa. Il professor Dill, autore dell'opera La società di Roma nel­l'ultimo secolo dell'Impero d'Occidente, ci ha ricordato che una delle cause di decadenza dell'Impero romano fu il permesso da­to ai nobili di occuparsi di commercio, con il conseguente accu­mularsi di ricchezza e potere nelle mani di una minoranza di fa­miglie appartenenti al Senato.

Il commercio nel Giappone feudale, dunque, non raggiunse il grado di sviluppo che avrebbe ottenuto se fosse stato sottoposto a condizioni più libere. Il disonore relativo a questo mestiere re­legò naturalmente entro il suo ambito coloro cui non importava molto della reputazione sociale. «Se chiami qualcuno ladro, que­sti comincerà a rubare». Se si mette un marchio d'infamia su un mestiere, coloro che lo professano adegueranno la loro morale a esso. È superfluo aggiungere che nessuna attività commerciale può essere intrapresa senza un codice morale che la regoli. I mer­canti giapponesi dell'epoca feudale ne condividevano uno, e in­fatti senza di esso non avrebbero mai potuto sviluppare, come fe­cero, istituzioni mercantili quali le corporazioni, le banche, la borsa, le assicurazioni, gli assegni, le cambiali eccetera; ma quan-

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La veracità, o sincerità

do intrattenevano relazioni con persone al di fuori della loro pro­fessione, i commercianti si comportavano all'altezza della loro re­putazione.

In questa situazione, quando il Paese si aprì al commercio con l'estero, solamente i personaggi più avventurosi e senza scrupoli si affrettarono ai porti convenzionati, mentre le imprese com­merciali rispettabili declinarono per qualche tempo le offerte ri­petute da parte delle autorità di fondare filiali. Il Bushido non ave­va forse abbastanza autorevolezza da contrapporsi al flusso del disonore commerciale? Ora lo vedremo.

Chi conosce bene la nostra storia ricorderà che solamente po­chi anni dopo l'apertura dei nostri porti al commercio estero il Feudalesimo fu abolito; quando i feudi furono confiscati, venne­ro emessi dei titoli per compensare i feudatari della perdita, ed es­si ebbero la libertà di investirli in transazioni mercantili. Ora, ci si potrebbe chiedere: «Perché i samurai non riuscirono a trasfe­rire la loro tanto decantata veracità nelle nuove relazioni d'affari, riformando così le vecchie abitudini?». Coloro che avevano oc­chi per vedere non poterono piangere abbastanza, e coloro che avevano cuore per sentire, non poterono compiangere a suffi­cienza il fato di tanti nobili e onesti samurai che inevitabilmente fallirono nel campo, per loro nuovo e sconosciuto, del commer­cio e dell'industria: mancava loro la perspicacia necessaria a com­petere con rivali plebei e pieni di astuzie. Ebbene, se l'ottanta per cento delle aziende fallisce in un Paese industriale come l' Ameri­ca, non stupisce che a malapena uno su cento tra i samurai che en­trarono nel commercio riuscì nella nuova professione. Ci vorrà ancora molto tempo prima di venire a sapere quante fortune nau­fragarono nel tentativo di applicare l'etica del Bushido al mondo degli affari; ma divenne subito palese che le vie della ricchezza non erano le vie dell'onore. In quali ambiti erano dunque differenti?

Delle tre motivazioni alla veracità elencate da Lecky, quella industriale, quella politica e quella filosofica, la prima era del tut­to assente nel Bushido. La seconda poteva svilupparsi poco in un sistema feudale. Era nell'ambito filosofico - che secondo Lecky è anche il suo aspetto più nobile - che l'onestà raggiungeva un

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Bushido. L'anima del Giappone

rango elevato nel nostro catalogo delle virtù. Pur provando sin­cera considerazione per l'integrità commerciale della razza an­glosassone, quando chiedo i veri motivi della loro onestà mi si ri­sponde che «l'onestà è la miglior politica», ovvero che paga es­sere onesti. N o n è la virtù, dunque, la sola ricompensa dell' one­stà? No, essa viene seguita solo perché porta più soldi rispetto al­la menzogna, e ho paura che il Bushido in questo caso preferi­rebbe la bugia!

Se il Bushido rigetta una tale dottrina del quid pro quo, il com­merciante astuto, invece, l'accetterà prontamente. Lecky ha ri­marcato in modo veritiero che la veracità deve in gran parte la sua crescita al commercio e alla manifattura; in altre parole, è figlia dell'industria. Senza questa madre la veracità era come un'orfana di sangue blu che solo la mente più coltivata poteva adottare e nu­trire. Tali menti si trovavano in genere tra i samurai ma, per man­canza di una madre più democratica e utilitaristica, la figlioletta non riuscì a crescere. Con lo sviluppo delle industrie, la veracità si rivelerà una virtù facile, anzi, vantaggiosa da praticare. Basti pensare che solo nel novembre 1 880 Bismarck inviò una circola­re ai consoli commerciali dell'impero germanico, avvisandoli di «una spiacevole mancanza di fiducia nei confronti dei carichi di merce tedeschi inter alia, sia per quanto riguarda la qualità che la quantità». Al giorno d'oggi sentiamo parlare ben poco dell'inaf­fidabilità e della disonestà tedesca nel commercio. Nel giro di vent'anni i mercanti di questo Paese hanno imparato che alla fine l'onestà paga. I nostri mercanti hanno già scoperto questa verità. Per il resto raccomando al lettore il giudizio equilibrato di due scrittori su questo punto2• È interessante notare, a questo riguar­do, che l'integrità e l'onore erano le garanzie migliori che anche un debitore poteva presentare sotto forma di «pagherÒ». Era ab­bastanza usuale inserire clausole del tipo: «In mancanza della re­stituzione della somma che mi è stata prestata, non avrò nulla in contrario all'essere ridicolizzato in pubblico»; o, «Nel caso non

2 Knapp, Feudal and Modem ]apan, Vol. I, cap. IV, e Ransome, Japan in Transition, Cap. V III.

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La veracità, o sincerità

riuscissi a ripagarvi, potrete chiamarmi «stupido»», e altre frasi analoghe.

Spesso mi sono chiesto se la veracità del Bushido avesse moti­vazioni più elevate del coraggio. In assenza di qualsiasi coman­damento positivo che ammonisse contro la falsa testimonianza, la menzogna non era condannata come peccato, ma era sempli­cemente denunciata come debolezza e, in quanto tale, era alta­mente disonorevole. Di fatto, l'idea di onestà è così intimamente affine all'onore, e la sua etimologia latina e tedesca si identificano talmente con esso, che è tempo che io indugi un poco a esamina­re questa caratteristica dei Precetti dei Cavalieri.

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L'onore

Il senso dell'onore, che implica una piena consapevolezza del­la dignità e del valore personali, non poteva che caratterizzare il samurai, educato alla valutazione dei doveri e dei privilegi della sua professione e a rispettarne la coerenza. Il vocabolo che ai no­stri giorni si usa per indicare il senso dell'onore non era utilizza­to normalmente; si utilizzavano invece termini come «na» («no­me»), «men-moku» («non mostrare i propri sentimenti») e «guai bun» («condotta esterna»), i quali evocano rispettivamente i cor­rispondenti, nella tradizione biblica e greco-romana, di «nome», «personalità» (come derivazione dal termine «persona», nel sen­so di «maschera») e «fama». Essendo un buon nome un dato di fatto, qualsiasi infrazione alla sua integrità era sentita come una vergogna, e il senso di vergogna ( «ren-chi-shin») era una delle pri­me lezioni nell'educazione del giovane samurai: «Rideranno di te», «Questo ti disonorerà», «Non ti vergogni?» erano gli ultimi richiami a un comportamento corretto rivolti a un giovane dal contegno inquieto. Questo appello al suo senso dell'onore inten­deva raggiungere il luogo più sensibile del cuore del giovane, co­me se egli fosse stato nutrito di onore sin da quando era nel ven­tre materno; l'onore è un'influenza prenatale vera e propria, es­sendo strettamente legata a una forte coscienza familiare. «Smar­rendo la solidarietà familiare» dice Balzac, «la società ha perduto quella forza fondamentale che Montesquieu chiamava onore». In effetti, mi sembra che provare vergogna sia il primo segno del­l'insorgere di una coscienza morale della razza. La prima e peg-

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L'onore

giore punizione ricaduta sull'umanità in conseguenza dell'aver assaggiato «il frutto dell'albero proibito» fu, secondo me, non la sofferenza del parto, né la fatica di dover lavorare, bensì il risve­gliarsi del senso della vergogna. Pochi avvenimenti nella storia su­perano il pathos della scena che vede Eva, col petto sospirante e le dita tremanti, infilare un rozzo ago tra le foglie di fico, che l'af­franto marito aveva raccolto per lei in modo che potesse confe­zionare i loro primi abiti. Questo primo frutto della disobbe­dienza ci è rimasto incollato con una tenacia pari a nient'altro. E il genere umano, con tutto l'ingegno sartoriale di cui è capace, non è ancora riuscito a cucire un vestito che possa nascondere in mo­do efficace il nostro senso della vergogna. Aveva ragione quel gio­vane samurai a rifiutare di compromettere il suo carattere accet­tando una pur lieve umiliazione, perché, come disse, «il disono­re è come una cicatrice su un albero: il tempo, invece di cancel­larla, l'aiuta ad allargarsi».

Mencio aveva insegnato secoli prima, usando una frase quasi identica, ciò che Carlyle ha espresso in seguito, ovvero che «la vergogna è il terreno di tutte le virtù, delle buone maniere e del­la morale».

La paura della disgrazia era tale che, anche se la nostra lette­ratura è priva di quell'eloquenza che Shakespeare mette sulla bocca di Norfolk, non per questo era meno diffusa: come la spa­da di Damocle pendeva sulla testa di ogni samurai, finendo spes­so con l'assumere un carattere morboso. In nome dell'onore si perpetravano azioni che non trovano alcuna giustificazione nel codice del Bushido. Al più lieve, o persino immaginario, insulto lo spaccone dal sangue bollente si offendeva e ricorreva all'uso della spada; si dava inizio a molti combattimenti inutili, che spes­so finivano con la perdita di molte vite innocenti. Un cittadino in buona fede richiama l'attenzione di un bushi su una pulce che sta saltando sulla sua schiena e viene immediatamente tagliato in due, per la semplice e opinabile ragione secondo cui, poiché le pulci sono parassiti che si nutrono degli animali, è un imperdo­nabile insulto paragonare un nobile guerriero a una bestia: ecco, storie come questa sono troppo assurde per potervi credere. Ep-

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Bushidi5. L'anima del Giappone

pure il fatto che circolassero aveva tre significati: 1 ) erano state inventate per intimorire la gente comune; 2) talvolta venivano davvero commessi abusi da parte dei samurai; 3) si era diffuso tra i samurai un acuto senso della vergogna. In ogni modo, è in­giusto isolare un caso abnorme e utilizzarlo per scagliarsi con­tro i precetti, esattamente come è ingiusto giudicare i veri inse­gnamenti di Cristo basandosi sui frutti del fanatismo e della stra­vaganza religiosi, come per esempio l'Inquisizione e l'ipocrisia. Ma, come la monomania religiosa conserva qualcosa di intatto e di nobile, se paragonata con il delirium tremens di un ubriaco­ne, così in questa esagerata sensibilità del samurai nei confronti del suo onore non possiamo che riconoscere il sostrato di una virtù genuina.

L'eccesso morboso in cui il delicato codice dell'onore era in­cline a cadere era fortemente controbilanciato dall'esortazione a essere magnanimi e pazienti. Chi si offendeva alla minima pro­vocazione veniva ridicolizzato come «collerico>> . Un adagio po­polare diceva: «Sopportare ciò che pensi di non riuscire a sop­portare è vera sopportazione». E il grande Iyeyasu lasciò alla po­sterità alcune sagge massime, tra cui: «La vita dell'uomo è para­gonabile al percorrere una lunga distanza con un carico pesante sulle spalle. Non ti affrettare». «Non rimproverare nessuno, ma bada invece ai tuoi stessi difetti». «La tolleranza è il fondamento della lunghezza della tua vita». Egli mise in pratica ciò che predi­cava. Un letterato arguto attribuì a tre noti personaggi della no­stra storia un epigramma caratteristico. Tipica di Nobunaga la fra­se: «Ucciderò l'usignolo se non canta al momento giusto»; Hi­deyoshi nella stessa circostanza avrebbe detto: «Costringerò l'u­signolo a cantare per me»; mentre la reazione di Iyeyasu sarebbe stata: «Aspetterò finché non si decide a cantare».

Anche Mencio raccomandava la pazienza e la tolleranza. In un brano scrive: «Anche se mi denudate e mi insultate, che impor­tanza può avere per me? Non potete contaminare la mia anima con i vostri oltraggi>> . In un altro brano insegna che arrabbiarsi per un'offesa stupida è cosa indegna di un uomo superiore, ma che indignarsi per una grande causa è una giusta collera.

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L'onore

Si può vedere a quali livelli di civile e irresistibile benevolen­za arrivasse il Bushido nelle espressioni di alcuni dei suoi devoti. Prendete, per esempio, questo detto di Ogawa: «Quando gli altri rovesciano su di te ogni sorta di insulti, non restituire male per male, ma rifletti piuttosto se tu sia stato più leale di loro nell'a­dempiere i tuoi doveri». Ed ecco ciò che disse Kumazawa: «Quando gli altri ti rimproverano, non avertene a male; quando sono arrabbiati con te, non restituire la collera. La gioia arriva so­lo quando passione e desiderio se ne vanno». Posso citare anche Saigo, che disse: «La Via è la via del Cielo e della Terra; compito dell'uomo è seguirla: perciò fai del riverire il Cielo l'obiettivo del­la tua vita. Il Cielo ama te e gli altri con amore equanime; perciò ama gli altri come te stesso. Non renderti amico l'uomo, ma il Cie­lo, e rendendo il Cielo tuo amico, agisci nel modo migliore. N o n condannare mai gli altri, ma cerca invece di non venir meno al tuo compito». Alcune di queste massime ci ricordano gli insegna­menti cristiani, dimostrandoci quanto i precetti morali delle di­verse religioni possano in pratica risultare affini. Queste esorta­zioni poi non rimasero mere espressioni, ma vennero veramente tradotte in azioni.

Bisogna riconoscere, però, che pochi tra i samurai raggiunse­ro vette sublimi nel praticare la magnanimità, la pazienza e il per­dono. È un vero peccato che nulla di chiaro e preciso sia stato fis­sato su quanto costituisce l'onore, e che soltanto poche menti il­luminate fossero consapevoli che «esso non deriva da nessuna condizione particolare», ma che dimora tra le persone che svol­gono bene i loro compiti; perché non c'era niente di più facile per i giovani che dimenticare nell'ardore dell'azione ciò che avevano appreso da Mencio nei momenti di meditazione. Questo saggio diceva: «È proprio di ogni animo umano amare l'onore; ma in po­chi alberga la visione che il vero onore risieda dentro di sé e in nessun altro luogo. L'onore conferito dagli uomini non è vero onore. Coloro che Chao il Grande nobilita, possono per sua vo­lontà tornare a essere persone comuni». Era consuetudine risen­tirsi immediatamente per un insulto, che si voleva vendicato con la morte, come vedremo più avanti, mentre l'onore - che troppo

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spesso veniva confuso con l'approvazione mondana - era lodato come il summum bonum dell'esistenza terrena. La fama, e non la ricchezza o il sapere, era lo scopo che i giovani dovevano perse­guire. Molti ragazzi giuravano tra sé e sé, attraversando la soglia della casa paterna, di non farvi ritorno finché non si fossero fatti un nome nel mondo: e molte madri ambiziose rifiutavano di ri­vedere il figlio, a meno che egli non potesse «tornare a casa rico­perto di broccato». Per evitare la vergogna, o per farsi un nome, i giovanissimi samurai si sarebbero sottoposti a qualsiasi priva­zione e alle più dure prove, fisiche o mentali. Essi sapevano che l'onore acquistato in gioventù era destinato a crescere con gli an­ni. Nel memorabile assedio di Osaka, un giovane figlio di Iyeya­su, a dispetto delle sue ardenti richieste di essere messo nelle pri­me file, fu posto nelle retroguardie. Quando il castello cadde, egli fu così avvilito e pianse tanto amaramente, che un vecchio consi­gliere cercò di consolarlo come poteva. «Fatevi animo, Signore», gli disse, «al pensiero del futuro che vi attende. Nel corso dei lun­ghi anni in cui vivrete, ci saranno diverse occasioni per distin­guervi)), Il ragazzo fissò indignato l'uomo, e gli disse: «Come po­tete parlare in modo tanto sconsiderato? Quando mai potranno tornare i miei quattordici anni?». Si pensava che la vita stessa va­lesse ben poco, se si poteva conquistare onore e fama perdendo­la, ma se una causa appariva più elevata della propria vita, si ab­bandonava quest'ultima senza indugi e con estrema serenità. Tra le cause di fronte alle quali si poteva sacrificare con gioia la vita, c'era il dovere di lealtà, che era la pietra angolare dell'arco sim­metrico delle virtù feudali.

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Il dovere di lealtà

La moralità feudale condivide vari valori con altri sistemi eti­ci e altre classi sociali, ma questa virtù, la devozione e la fedeltà a un superiore, è la sua caratteristica distintiva. Sono consapevole che la fedeltà rappresenta un principio morale esistente tra tutte le categorie umane - anche una banda di borsaioli deve obbe­dienza a un Fa gin - ma è solo nel codice dell'onore cavalleresco che la lealtà assume importanza suprema.

A dispetto del giudizio critico di Hegelt, secondo cui la fedeltà dei vassalli feudali, essendo un obbligo verso un individuo e non verso uno Stato, è un legame stabilito su princìpi totalmente in­giusti, un suo grande connazionale si vantò che la lealtà personale fosse una virtù tedesca. Bismarck aveva buone ragioni per asserire ciò, non perché la « Treue» («fedeltà») di cui si vantava fosse mo­nopolio del suo Paese o di qualsiasi altra singola nazione o razza, ma perché questo frutto favorito della Cavalleria indugia tra i po­poli in cui il Feudalesimo è durato a lungo. In America, dove «ognuno vale quanto qualsiasi altra persona» e, come un irlande­se ha aggiunto, «anche di più», l'esaltazione di una lealtà come la nostra nei confronti del sovrano potrebbe essere giudicata «eccel­lente, ma entro certi limiti>> , mentre portata ai vertici cui noi la in­nalziamo viene considerata assurda. Montesquieu si lamentava già tempo fa che ciò che era ritenuto giusto da una parte dei Pirenei fosse considerato sbagliato dall'altra, e il processo Dreyfus ha di-

' La filosofia della storia, Parte IV, sez. II, Cap. I.

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mostrato la verità delle sue osservazioni, salvo per il fatto che i Pi­renei non costituivano il solo confine oltre cui la giustizia france­se non si trovasse d'accordo con altre. Analogamente, la lealtà co­me noi la concepiamo potrebbe trovare pochi sostenitori in altre regioni del mondo, non perché la nostra concezione sia sbagliata, ma perché - temo - è stata dimenticata, e anche perché noi la in­nalziamo a un grado che non è stato raggiunto da nessun altro Pae­se. Griffis2 aveva ragione nell'affermare che, mentre in Cina l'etica confuciana faceva dell'obbedienza ai genitori il dovere primario dell'uomo, in Giappone veniva data la precedenza alla lealtà verso lo Stato o verso il proprio signore. A rischio di scioccare alcuni dei miei buoni lettori, narrerò di uno «che a tutto poté resistere per se­guire il proprio signore in rovina» e che in tal modo, ci assicura Shakespeare, «si guadagnò un posto nella storia».

La narrazione riguarda uno dei più grandi personaggi della no­stra storia - Michizane - il quale, vittima di gelosie e calunnie, vie­ne esiliato dalla capitale. Non contenti di ciò, i suoi irriducibili nemici sono decisi a estinguere la sua famiglia. Cercando accani­tamente suo figlio, ancora piccolo, scoprono che è nascosto nel­la scuola di un villaggio diretta da Genzo, un ex vassallo di Mi­chizane. Quando viene ordinato al maestro di scuola di conse­gnare la testa del bambino per un determinato giorno, la prima idea che gli viene in mente è di trovare un sostituto adatto. Me­dita sull'elenco dei suoi alunni, analizza attentamente i ragazzi mentre entrano in classe, ma nessuno tra i bambini, figli di con­tadini, assomiglia minimamente al suo protetto. La sua dispera­zione, tuttavia, dura per poco, perché viene annunciato un nuo­vo scolaro, un bel ragazzo della stessa età del figlio del suo pa­drone, scortato da una madre di nobile portamento.

Né di tale somiglianza erano all'oscuro la madre e il ragazzo stesso. Nell'intimità della loro casa entrambi si erano consacrati sull'altare; l'uno aveva offerto la propria vita, l'altra il proprio cuore, senza darne segnale al mondo esterno. Il maestro è ignaro di ciò che essi stessi avevano deciso in segreto.

2 Religions of ]apan.

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Il dovere di lealtà

Ecco il capro espiatorio! Il resto della storia è presto detto. Il giorno dell'appuntamento arriva l'ufficiale che ha il compito di identificare e prendere in consegna la testa del giovinetto. Si ac­corgerà della sostituzione? La mano del povero Genzo è sull'el­sa della spada, pronta a colpire l'uomo o se stesso se il suo piano fallisse. L'ufficiale prende il macabro referto che ha davanti, os­serva con calma ogni tratto del viso e, in tono intenzionalmente professionale, dichiara la testa autentica. Quella sera, in una casa solitaria, la madre che abbiamo visto a scuola è in attesa. Cono­sce il destino del suo figlioletto? N o n è il suo ritorno che sta aspet­tando impazientemente, ma quello del marito: suo suocero è sta­to a lungo beneficiario della generosità di Michizane e, dopo che questi era stato bandito, suo marito è rimasto al servizio del ne­mico del benefattore della sua famiglia. Egli stesso non poteva es­sere infedele al suo crudele padrone; ma suo figlio poteva servire la causa del signore del nonno. In quanto intimo con la famiglia dell'esiliato, gli era stato dato il compito di identificare la testa del ragazzo. Ora, il lavoro più duro che gli sia capitato in tutta la sua vita è compiuto: torna a casa e, oltrepassando la soglia, dice: «Ral­legrati, moglie, il nostro caro figlio ha reso un grande servizio al suo signore!».

«Che storia atroce!» sento già esclamare i miei lettori. «Dei ge­nitori che deliberatamente sacrificano il figlioletto innocente per salvare la vita del figlio di un altro!». Ma questo bambino era una vittima cosciente e volontaria: è la storia di una morte per sosti­tuzione, altrettanto significativa e non più rivoltante della storia del sacrificio che Abramo intendeva fare di !sacco. In entrambi i casi l'obbedienza al richiamo del dovere esprime la sottomissio­ne al comando di una voce superiore, sia che provenga da un an­gelo, visibile o invisibile, o che sia udito da un orecchio, esterno o interiore; ma voglio astenermi dalle prediche.

L'individualismo dell'Occidente, che riconosce interessi auto­nomi per padre e figlio, per marito e moglie, necessariamente met­te in contrasto i doveri degli uni verso gli altri, mentre il Bushido riteneva che l'interesse della famiglia e dei suoi membri fosse in­scindibile, unico e inseparabile. Questo interesse poggia sugli af-

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fetti naturali, istintivi, irresistibili: è solo naturale morire per qual­cuno che amiamo di tale amore naturale (sentimento che possie­dono del resto anche gli animali). «Quale merito avete se amate co­loro che vi amano? Non fanno forse lo stesso anche i pubblicani?».

Nella sua grande storia, Sanyo racconta con linguaggio toc­cante la lotta cruciale che si svolse nell'animo di Shigemori per la condotta ribelle di suo padre. «Se rimarrò fedele al sovrano, mio padre ne uscirà sconfitto; se obbedisco a mio padre, vengo meno al mio dovere nei confronti del sovrano». Povero Shigemori! Lo vediamo poi pregare con tutto il cuore che il dolce Cielo gli do­ni la morte, per poter essere liberato da questo mondo dove è dif­ficile far convivere la purezza e la giustizia.

Furono molti gli Shigemori cui si spezzò il cuore nel conflit­to tra il dovere e gli affetti. In realtà, né Shakespeare né l'Antico Testamento contengono un adeguato corrispondente di «ko», il nostro concetto di pietà filiale, eppure in tali conflitti il Bushido non vacillò mai dalla propensione verso la lealtà. Anche le donne incoraggiavano i loro figlioli a sacrificarsi per il sovrano e, riso­luta quanto la vedova Windham e il suo illustre consorte, la ma­trona samurai era pronta a sacrificare tutti i suoi figli maschi alla causa della lealtà.

Poiché il Bushido, come Aristotele e alcuni moderni sociolo­gi, concepiva lo Stato come precedente rispetto all'individuo, es­sendo quest'ultimo nato all'interno dello Stato come una sua par­te, è per esso naturale che l'individuo debba vivere e morire in funzione dello Stato e obbedendo alla sua legittima autorità. I let­tori del Critone ricorderanno il brano in cui Socrate immagina che le leggi della città discutano con lui della sua fuga. Egli fa fa­re alle leggi, o allo Stato, tra le altre, le seguenti affermazioni: «Poi­ché fosti generato e nutrito da noi, come potresti osare afferma­re che non sei nostro figlio e servo, tu e i tuoi padri prima di te?». Queste parole non ci impressionano particolarmente, perché gli stessi concetti sono stati espressi per bocca del Bushido, con l'u­nica eccezione che le leggi e lo Stato erano incarnati in un essere personale e la lealtà non era altro che il risultato etico di questa teoria politica.

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Il dovere di lealtà

Non ignoro totalmente il pensiero di Spencer, secondo cui l'obbedienza politica - o la lealtà - ha semplice valore di funzio­ne contingente3• Potrebbe essere, e possiamo compiacentemente ripeterlo, specialmente se crediamo che l'oggi sia uno spazio di tempo lunghissimo, durante il quale, come dice il nostro inno na­zionale, «i sassolini crescono fino a diventare rocce grandiose ri­coperte di muschio».

Potremmo a questo proposito ricordare che anche per un po­polo democratico come quello inglese, «il sentimento di fedeltà personale verso un uomo e i suoi discendenti, sentimenti che gli antenati germanici tributavano ai loro capi», come Boutmy ha scritto recentemente, «si è solo più o meno trasfuso nella profon­da lealtà alla razza e al sangue dei suoi principi, come provato nel­lo straordinario attaccamento alla dinastia regnante».

Il lealismo politico, predica Spencer, lascerà spazio ai dettami della coscienza. Supponiamo che la sua causa si realizzi: la lealtà e il suo conseguente istinto di reverenza spariranno per sempre? Noi trasferiamo la nostra fedeltà da un padrone a un altro, senza essere infedeli a nessuno dei due: dall'essere sudditi di un gover­nante che brandisce lo scettro temporale diventiamo servi del mo­narca che siede in trono nei penetrali del nostro cuore. Pochi an­ni fa una stupida controversia, iniziata da alcuni discepoli dege­neri di Spencer, turbò la classe intellettuale del Giappone. Nel lo­ro zelo nel sostenere una lealtà totalitaria e incondizionata al so­vrano essi accusarono i cristiani di propensione al tradimento, col loro voto di fedeltà contemporaneamente al loro Signore e al lo­ro sovrano. Essi si appellavano ad argomenti sofistici senza ave­re l'arguzia dei sofisti, e a tortuosità scolastiche senza avere le fi­nezze della Scolastica, ignorando che possiamo «servire due pa­droni senza attaccarci eccessivamente all'uno o disprezzare l'al­tro», «rendendo a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». E Socrate, pur rifiutando fermamente di tradire il suo dae­mon, non obbedì forse con altrettanta fedeltà ed equanimità al­l'ordine del suo primo padrone, lo Stato? Egli seguiva consape-

' Principles of Ethics, Vol. l, parte II, cap. X.

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Bushido. L'anima del Giappone

volmente la propria coscienza; morendo egli serviva il proprio Paese. Guai al giorno in cui uno Stato diventasse tanto potente da imporre ai suoi cittadini di deviare dai dettami della loro co­scienza!

Il Bushido, tuttavia, non richiedeva di fare della coscienza la schiava di un signore o di un re. Thomas Mowbray avrebbe po­tuto essere il nostro portavoce, quando disse:

«Mi getto, temibile sovrano, ai tuoi piedi, ciò che vuoi della mia vita puoi fare, non del mio onore. La mia vita ti appartiene, ma non userai il mio nome onorato in modo disonorevole, nonostante la morte mi aspetti già sulla tomba a me destinata».

Colui che sacrificava la propria coscienza al volere o alle ca­pricciose fantasie di un sovrano era considerato dai Precetti un uomo di basso livello. Un uomo del genere era disprezzato, in quanto «nei-shin», un vile adulatore senza scrupoli, o «cho-shin», uno che si accaparra l'affetto del suo padrone grazie a un basso servilismo; questi due tipi di sudditi corrispondevano esattamen­te a quelli descritti da lago: l'uno un briccone sottomesso e pron­to a inginocchiarsi, consenziente all'ossequio e intento a trascor­rere il tempo in occupazioni simili a quelle dell'asino del suo pa­drone; l'altro un sapiente simulatore di ogni forma e apparenza di dovere, ma in realtà preoccupato solo di fare i propri interessi. Se si era in disaccordo con il padrone, era dovere di un suddito leale persuader lo con ogni mezzo a propria disposizione che egli era in errore, come fece Kent con Re Lear. Non riuscendoci, il sa­murai doveva lasciare che il padrone agisse come voleva, ma in casi del genere non era insolito che il guerriero si appellasse un'ul­tima volta all'intelligenza e alla coscienza del suo signore e dimo­strasse la sincerità delle sue parole versando il proprio sangue.

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L'educazione e l'addestramento di un samurai

Il primo punto da osservare nell'addestramento cavalleresco era lo sviluppo della forza di carattere, mentre si lasciavano in ombra facoltà più sottili, come la prudenza, l'intelligenza e le ca­pacità dialettiche. Abbiamo visto quale importante ruolo gio­cassero i talenti estetici nell'educazione del guerriero. Indispen­sabili com'erano per un uomo di cultura, questi erano però ac­cessori, piuttosto che essenziali, all'addestramento dei samurai. La superiorità intellettuale era naturalmente stimata, ma la pa­rola «chi», utilizzata per indicare l'intellettualità, significava in prima istanza saggezza, e poneva la conoscenza in un ruolo su­bordinato. Si diceva che il tripode che sosteneva l'ossatura del Bushidi5 fosse costituito da «chi», «jin», «yu» o, rispettivamen­te: «saggezza», «benevolenza» e «coraggio». Un samurai era es­senzialmente un uomo d'azione, e le scienze si trovavano al di fuori dell'ambito delle sue attività: egli se ne avvantaggiava fin­ché erano utili alla professione delle armi. La religione e la teo­logia erano lasciate ai preti, ed egli se ne occupava fintanto che lo aiutavano a nutrire il proprio coraggio. Come per un poeta inglese, anche per il samurai valeva il detto: «Non è il credo che salva l'uomo; ma è l'uomo che giustifica il credo». La filosofia e la letteratura costituivano la parte principale della sua istruzio­ne intellettuale, ma persino mentre le studiava il suo sforzo non era volto verso la verità obiettiva: la letteratura era praticata so­prattutto come passatempo, e la filosofia come aiuto pratico nel-

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la formazione del carattere, e non per risolvere qualche proble­ma militare o politico.

Da ciò che ho detto, non sorprenderà notare che il program­ma di studi, secondo la pedagogia del Bushido, consisteva princi­palmente delle seguenti discipline: scherma, tiro con l'arco,ju-jit­su o yawara, equitazione, uso della lancia, tattica, calligrafia, eti­ca, letteratura e storia. Di questi, il ju-jitsu e la calligrafia potreb­bero richiedere qualche parola di spiegazione. Veniva data gran­de importanza alla bella scrittura, probabilmente perché i nostri ideogrammi, partecipando della natura delle immagini, possiedo­no un valore artistico, e anche perché la chirografia era accettata come indicativa del carattere personale. Il ju-jitsu potrebbe esse­re definito come l'applicazione della conoscenza anatomica a sco­po di offesa o difesa. Differisce dalla lotta, in quanto non dipen­de dalla forza muscolare, e da qualsiasi altra forma di attacco in quanto non usa armi. La sua azione consiste nell'afferrare o col­pire le parti del corpo del nemico in modo da tramortirlo e ren­derlo incapace di resistenza. Il suo obiettivo non è uccidere, ma inibire temporaneamente l'azione dell'avversario.

Una materia di studio che ci si aspetterebbe di trovare nell'e­ducazione militare, e che invece brilla per la sua assenza nell'ad­destramento del Bushido, è la matematica. Ciò può immediata­mente essere spiegato in parte dal fatto che le guerre feudali non venivano intraprese con precisione scientifica. E non solo: l'inte­ro addestramento del samurai non favoriva lo sviluppo delle no­zioni numeriche.

La Cavalleria è antieconomica: si gloria della sua povertà e di­ce con Ventidius che «l'ambizione, la virtù del soldato, preferisce perdere che guadagnare con disonore». Don Chisciotte si esalta più per la sua lancia arrugginita e per il suo ronzino che non per l'oro e le terre, e un samurai proverebbe una sincera simpatia per il suo esagerato confratello de La Mancha. Anch'egli disdegna il denaro, l'arte di accumularlo e il gloriarsene. Secondo il samurai, ogni guadagno materiale era ignobile. Per descrivere la decaden­za di un'epoca si diceva che «i borghesi amavano il denaro e i sol­dati temevano la morte>> . Essere avari di denaro o della propria

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vita suscitava tanta disapprovazione quanto veniva esaltato l'uso generoso dell'uno e dell'altro. «Gli uomini devono rimpiangere il denaro meno di ogni altra cosa», diceva un precetto corrente, «perché la ricchezza limita la saggezza». Ecco perché i bambini venivano educati a non occuparsi di economia: era considerato di cattivo gusto parlarne, e ignorare il valore delle diverse monete era il segno che si proveniva da una buona famiglia. La conoscenza dei numeri era indispensabile nella suddivisione delle forze mili­tari e nella distribuzione di prebende e di feudi; ma la conta dei soldi era un atto lasciato a mani servili. In molti feudi la finanza pubblica era amministrata da un samurai di rango inferiore o dai preti. Ogni bushi dotato di intelletto sapeva bene che era il dena­ro a dare sostegno alla guerra, ma non gli sarebbe mai passato per la mente di elevare l'apprezzamento del denaro a virtù. È vero an­che che la parsimonia era apprezzata dal Bushido, ma non tanto per ragioni economiche, quanto come esercizio di astinenza. Si pensava che il lusso fosse la più grave minaccia alla virilità, e alla classe guerriera era richiesta la più severa semplicità di vita, tanto che in molti clan vennero emanate leggi suntuarie.

Abbiamo letto che nell'antica Roma gli agricoltori di un cer­to censo e altri individui arricchitisi tramite il commercio venne­ro gradualmente elevati al rango di Cavalieri; in questo modo lo Stato mostrava apprezzamento per i loro servigi e per il loro de­naro. Si può ben immaginare quanto strettamente ciò fosse con­nesso con il lusso e l'avarizia dei Romani. I Precetti dei samurai, invece, consideravano pervicacemente e sistematicamente le ma­terie finanziarie qualcosa di basso, qualcosa che non poteva per nulla competere con le occupazioni morali e intellettuali.

Pur essendo il denaro e l'amore per esso diligentemente igno­rati, il Bushido stesso non poté a lungo rimanere libero dai mille e uno mali di cui il denaro costituisce la radice. Questo è suffi­ciente a spiegare perché i nostri uomini di Stato sono stati a lun­go liberi dalla corruzione; ma ahimè, quanto velocemente la plu­tocrazia si fa strada nel nostro tempo e tra le nostre generazioni!

L'istruzione superiore, che al giorno d'oggi comprenderebbe principalmente lo studio della matematica, nel Bushido prevede-

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va soprattutto studi letterari e la trattazione di questioni di ordi­ne morale. Le menti dei giovani venivano esercitate ben poco nel­le materie astratte, essendo lo scopo principale della loro istru­zione, come ho detto, l'acquisire un carattere deciso. Le persone che assorbivano passivamente informazioni e nozioni non ri­scuotevano grande ammirazione. Dei tre obiettivi cui tendono gli studi secondo la classificazione di Bacone, ovvero procurare di­letto, vanità e affinamento delle capacità, il Bushido preferiva de­cisamente quest'ultimo: l'educazione -fosse mirata al servizio de­gli affari pubblici o all'esercizio dell'autocontrollo - aveva sem­pre un fine pratico. «Apprendere senza saper pensare», diceva Confucio, «è fatica sprecata; saper pensare senza avere un'istru­zione è pericoloso».

Quando un insegnante sceglie di sviluppare il carattere e non l'intelligenza, di lavorare sull'anima e non sul cervello dei suoi pu­pilli, la sua professione acquisisce un carattere di sacralità. «Sono i genitori che mi hanno dato la vita, ma è il maestro che ha fatto di me un uomo». Questa era l'idea che si aveva del proprio mae­stro o tutore, e la stima che si nutriva per lui era altissima. Un uo­mo che sapesse evocare una tale fiducia e un tale rispetto da par­te dei giovani doveva necessariamente essere dotato di una per­sonalità superiore, oltre che di una notevole erudizione. Egli era un padre per l'orfano e un consigliere per colui che perdeva la strada. «Tuo padre e tua madre», così recita una massima, «sono come il cielo e la terra; il tuo maestro e il tuo signore sono come il sole e la luna».

Il sistema moderno, secondo cui ogni tipo di servizio deve es­sere pagato in denaro, non era in voga tra gli adepti del Bushido. Essi pensavano che certi servizi avessero un valore incommensu­rabile: il servizio spirituale, fosse quello di un prete o quello di un maestro, non poteva essere ripagato con oro o argento, non per­ché fosse privo di valore, ma proprio perché inestimabile. Qui il senso dell'onore istintivo del Bushido, antitetico all'economia, impartisce una lezione molto profonda alla moderna politica eco­nomica: paghe e salari possono essere fissati solamente per servi­zi i cui risultati sono definiti, tangibili e misurabili, mentre l'ine-

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L'educazione e l'addestramento di un samurai

stimabile servizio reso dall'educazione, in particolare per quanto riguarda lo sviluppo dello spirito (e qui si includono anche i ser­vizi di un sacerdote) non può essere definito, non è tangibile né misurabile, e dunque il denaro - la misura manifesta del valore -è una ricompensa inadeguata. Il costume prescriveva che gli al­lievi recassero ai loro maestri denaro o beni in certe stagioni del­l'anno; non si trattava di pagamenti, bensì di offerte, che in verità erano ben accolte dai destinatari poiché, essendo solitamente uo­mini austeri, orgogliosi della loro onorevole povertà, erano tut­tavia troppo nobili per lavorare con le proprie mani e troppo or­gogliosi per chiedere la carità. Essi erano le personificazioni se­vere dello spirito nobile che non si piega mai alle avversità. Era­no l'incarnazione di ciò che era considerato il fine di tutta l'istru­zione, un esempio vivente della più elevata tra le discipline: il do­minio di se stessi, il sommo requisito del samurai.

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Il dominio di se stessi

La disciplina da un lato, con lo sviluppo di una forza d'animo tale da sopportare tutto senza un lamento, e l'insegnamento del­la cortesia dall'altro, con l'imposizione di non guastare il piacere o la serenità degli altri esprimendo loro il dolore o la sofferenza personali, si sono combinati nel generare un orientamento appa­rentemente stoico del nostro carattere nazionale. Lo definisco «apparentemente stoico» perché non credo che il vero stoicismo possa mai essere in grado di contraddistinguere un'intera nazio­ne, e anche perché alcune delle nostre abitudini e dei nostri co­stumi nazionali possono sembrare spietati a un osservatore stra­niero. Eppure siamo sensibili alle emozioni e alla dolcezza degli affetti quanto ogni altra razza vivente sotto il cielo.

Sono propenso a pensare che in un certo senso siamo persino più sensibili di altri - sì, doppiamente sensibili - poiché lo sforzo di controllare le sollecitazioni naturali del cuore acuisce la capa­cità di soffrire. Immaginate infatti dei ragazzi - e anche delle ra­gazze - educati a ricacciare le lacrime o a non esprimere un solo lamento per dare sollievo ai propri sentimenti: possono insorgere problemi di tipo fisiologico, sia nel caso in cui tale sforzo induri­sca i loro nervi sia nel caso in cui li renda ancora più sensibili.

Era considerato indegno di un samurai tradire le proprie emo­zioni lasciandole trapelare sul volto. La frase «non mostra segni di gioia o di collera», era usata per descrivere un uomo di grande carattere. Persino l'espressione degli affetti più naturali era tenu­ta sotto controllo. Un padre poteva abbracciare suo figlio solo a

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Il dominio di se stessi

spese della propria dignità; un marito non avrebbe baciato sua moglie in presenza di altre persone, ma solo in privato! Ci po­trebbe essere del vero nella scherzosa osservazione di un giova­ne, che disse: «l mariti americani baciano le loro mogli in pubbli­co e le picchiano in privato; i mariti giapponesi picchiano le loro mogli in pubblico e le baciano in privato».

La compostezza di comportamento e la calma della mente non dovrebbero essere turbate da passioni di alcun tipo. Ricordo quando, durante l'ultima guerra con la Cina, un reggimento la­sciò una certa città e una gran folla di gente invase la stazione per salutare il generale e la sua armata. In quell'occasione un ameri­cano residente in Giappone si recò sul posto, aspettandosi di es­sere il testimone di grandi dimostrazioni d'affetto, dal momento che la nazione intera era coinvolta nella guerra incombente e c'e­rano padri, madri, mogli e fidanzate dei soldati tra la folla. L'a­mericano rimase deluso: quando il treno cominciò a muoversi, migliaia di persone si tolsero silenziosamente il cappello, e le lo­ro teste si abbassarono in un reverente addio; non ci fu alcuno sventolare di fazzoletti, non venne pronunciata alcuna parola; ci fu solo un profondo silenzio, in cui orecchie attente poterono co­gliere qualche sospiro spezzato. Anche nella vita domestica im­pera questo atteggiamento: conosco un padre che trascorse notti intere ad ascoltare il respiro di un figlio malato, rimanendo die­tro la porta per non essere colto in un atto di tale debolezza pa­terna! So anche di una madre che, durante i suoi ultimi attimi di vita, si trattenne dal mandare a chiamare il figlio perché non vo­leva che fosse distolto dai suoi studi. La nostra storia e la nostra vita quotidiana sono piene di esempi di matrone eroiche che pos­sono reggere il paragone con i protagonisti di alcune delle pagine più toccanti di Plutarco. Tra i nostri contadini, un Ian Maclaren avrebbe di sicuro trovato molte Margaret Howe.

Questa stessa disciplina di autocontrollo è responsabile del fatto che le chiese cristiane non siano fiorite più rigogliosamente in Giappone. Quando un uomo o una donna sentono la loro ani­ma rimescolarsi, il loro primo istinto è quello di sopprimerne con calma ogni manifestazione. Raramente ci si concede di dare com-

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Bushido. L'anima del Giappone

pleta libertà alla propria lingua, pur possedendo l'eloquenza det­tata dalla sincerità e dal fervore, e ci vorrebbe forse un premio per indurre qualcuno a rompere il terzo comandamento e parlare del­le proprie esperienze intime. Alle orecchie di un giapponese ri­sulta estremamente sgradevole ascoltare le parole più sacre, le esperienze più segrete del cuore, gettate in mezzo a un pubblico promiscuo. «Senti il terreno della tua anima scosso da dolci pen­sieri? È tempo che i semi germoglino. Non disturbarli con le pa­role; lasciali lavorare da soli nella quiete e nella segretezza», scris­se un giovane 'samurai nel suo diario.

Rivestire di troppe parole e articolare i propri pensieri e sen­timenti più intimi, in particolar modo quelli religiosi, è il segno inequivocabile che in realtà essi non sono né profondi né sinceri. «È solo una melagrana», così recita un detto popolare, «colui che quando apre la bocca mostra il contenuto del suo cuore».

Non è certo dovuto a una sorta di perversità della mente orien­tale il fatto che, nell'istante in cui le nostre emozioni si risveglia­no, noi cerchiamo di controllare le nostre labbra perché non le ri­velino. I nostri discorsi sono spesso pieni, come dicono i france­si, «dell'arte di nascondere i pensieri».

Se andate a trovare un amico giapponese in un momento di profondo dolore, egli vi riceverà invariabilmente ridendo, con gli occhi rossi o le guance bagnate. Di primo acchito, potreste pen­sare che è un isterico. Se premete affinché vi dia delle spiegazio­ni, non pronuncerà che qualche luogo comune senza senso: «La vita dell'uomo comporta dei dolori»; «Coloro che si incontrano devono separarsi»; «Colui che nasce deve morire»; «È da folli contare gli anni di un bambino morto, ma il cuore di una donna indulge nelle follie». . . e così via. Le nobili parole di un nobile Hohenzollern, dunque, «Lerne zu leiden ohne Klagen» ( «Impa­ra a soffrire senza lamentarti» ), avevano trovato molti consensi prima ancora che fossero espresse.

In realtà, i giapponesi ricorrono al riso ogni volta che la fragi­lità della natura umana è messa a dura prova. Ritengo che possia­mo spiegare la nostra inclinazione al riso meglio di quanto abbia fatto Democrito, poiché la risata, da noi, spesso cela lo sforzo di

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Il dominio di se stessi

riguadagnare l'equilibrio del nostro temperamento, equilibrio tur­bato da circostanze esterne. È un antidoto al dolore o alla rabbia.

Praticando così persistentemente la soppressione dei senti­menti, noi troviamo la nostra valvola di sfogo negli aforismi poe­tici. Un poeta del secolo X scrisse: «In Giappone, come in Cina, l'uomo mosso dal dolore esprime la sua amara afflizione in ver­si». Ed ecco dunque una madre che, cercando di consolare il pro­prio cuore spezzato, immagina che il bimbo perduto sia assente perché è alla ricerca, come suo solito, delle libellule, e mormora:

«Mi chiedo quanto lontano si sia spinto oggi il mio cacciatore di libellule!».

Mi astengo dal citare altri esempi, perché so che potrei a ma­lapena rendere giustizia alle gemme della nostra letteratura, se do­vessi tradurre in lingua straniera i pensieri che furono versati goc­cia a goccia da cuori sanguinanti e infilati in collane di perle del più raro valore. Spero di aver spiegato in una certa misura i mec­canismi interiori delle nostre menti, che presentano spesso un' ap­parenza di durezza o un miscuglio isterico di riso e tristezza, e la cui sanità è talvolta messa in dubbio.

È stato anche insinuato che la nostra grande capacità di sop­portare il dolore e la nostra indifferenza nei confronti della mor­te siano dovute a una minore sensibilità del nostro sistema ner­voso, cosa in parte plausibile. Ma questo ci porta alla domanda: per quale motivo la nostra sensibilità nervosa sarebbe meno acu­ta? Forse perché il nostro clima non è stimolante quanto quello americano? O forse perché la nostra forma di governo monar­chico non è abbastanza eccitante quanto lo è la repubblica per i francesi? O forse perché non leggiamo il Sartor Resartus tanto ze­lantemente quanto gli inglesi? Personalmente credo invece che proprio la nostra estrema eccitabilità e sensibilità abbiano reso ne­cessario che le riconoscessimo e che attuassimo il costante domi­nio di noi stessi; ma, quale che possa essere la spiegazione, nes­suna può essere fondata, a meno che non tenga conto dei lunghi anni trascorsi a esercitare l'autocontrollo.

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Bushido. L'anima del Giappone

La disciplina dell'autocontrollo può facilmente cadere nel­l'eccesso. Può reprimere gli impulsi geniali dell'anima o indurre le nature più deboli a compiere deviazioni e mostruosità. Può fa­vorire il fanatismo, l'ipocrisia o le vane passioni. Più una virtù è nobile, più le sue contraffazioni si moltiplicano. Dobbiamo rico­noscere in ogni virtù la sua dimensione positiva e seguirne l'idea­le. L'ideale del dominio di sé è quello di mantenere l'equilibrio della mente, come rivela l'espressione stessa o, per prendere in prestito un termine greco, ottenere lo stato di euthymia, che De­mocrito definiva «il bene superiore».

La massima espressione del dominio di sé è ottenuta e illu­strata al meglio dalla prima delle due istituzioni che prendere­mo ora in esame, ovvero le istituzioni del suicidio e della ripa­razwne.

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Le istituzioni del suicidio e della riparazione

Di queste due istituzioni (la prima nota come «hara-kiri» e la seconda come «kataki-uchi» ), molti scrittori stranieri hanno scritto più o meno esaurientemente.

Prendiamo il suicidio, e con tale termine intendo confinare le mie osservazioni solamente al «seppuku» o «kappuku», noto a li­vello popolare come «hara-kiri», che significa autoimmolarsi aprendosi il ventre: «Squarciarsi l'addome? Che assurdità!», esclameranno i lettori che non conoscono il soggetto. Per strano che possa sembrare di primo acchito alle orecchie straniere que­sto argomento, tuttavia non dovrebbe suonare tanto strano agli studiosi di Shakespeare, il quale fa dire a Bruto: «Esci, o spirito (di Cesare) e gira le nostre spade nelle nostre stesse viscere». E se un moderno poeta inglese, nella sua Luce dell'Asia, parla di una spada che affonda nel ventre di una regina, nessuno lo rimprove­ra di essere un cattivo inglese o di parlare sconvenientemente. Op­pure prendiamo un altro esempio, il dipinto del Guercino nel Pa­lazzo Rosso di Genova, che rappresenta la morte di Catone. Chiunque abbia letto il canto del cigno che Addison fa cantare a Catone non troverà motivo per sorridere della spada mezzo se­polta nel suo ventre. Nella mente dei giapponesi questo gesto è associato alle più nobili azioni e al pathos più commovente, e nul­la di ripugnante o di ridicolo vi è collegato, nulla può sporcare la concezione che ne abbiamo. La virtù, la grandezza e la tenerezza hanno un tale potere di trasformazione che persino la più vile del­le morti, quando è investita di tali sentimenti, assume un aspetto

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Bushido. L'anima del Giappone

sublime e diventa simbolo di nuova vita; se così non fosse, il se­gno adottato da Costantino non avrebbe conquistato il mondo!

Tuttavia, non è solo grazie ad associazioni forzate che il sep­puku perde nella nostra mente ogni sfumatura di assurdità, per­ché la scelta di colpire questa particolare parte del corpo si basa­va su un'antica credenza secondo cui essa era la sede anatomica dell'anima e degli affetti. Quando Mosè dice di Giuseppe che «le sue viscere si struggevano per suo fratello», o quando Davide pre­ga il Signore di non dimenticare le sue viscere, o quando Isaia, Ge­remia, e altri uomini ispirati dell'antichità accennano al «lamen­to» o al «turbamento» delle viscere, confermano ciò che anche i giapponesi credevano, e cioè che nell'addome fosse racchiusa l'a­nima. Il termine «hara» aveva un significato più ampio di quelli corrispondenti in greco: «phren» o «thumos»; ma i giapponesi, come gli ellenici, pensavano che lo spirito dell'uomo dimorasse in quella regione anatomica. Una nozione del genere non è asso­lutamente confinata ai popoli dell'antichità. I francesi, a dispetto della teoria proposta da uno dei loro più eminenti filosofi - Car­tesio - secondo cui l'anima si trova nella ghiandola pineale, insi­stono nell'usare il termine «ventre» in un senso anatomicamente vago, ma certamente espressivo a livello fisiologico. Analoga­mente «entrailles», nella loro lingua, reca anche il significato di «affetto» e «compassione». Del resto non si può dire che questa credenza rientri nel dominio della m era superstizione, essendo es­sa dotata di valenze scientifiche in grado superiore all'opinione generale, che considera il cuore la sede dei sentimenti. I neurolo­gi moderni parlano infatti di cervelli addominali e pelvici, indi­cando con questi termini i centri del nervo simpatico, che in quel­le parti sono fortemente influenzati dalle azioni psichiche. Una volta ammessa questa visione della fisiologia mentale, non sarà difficile ricostruire il sillogismo del seppuku: «Aprirò la sede del­la mia anima e mostrerò che cosa contiene. Così potrete control­lare voi stessi se è insudiciata o pulita».

Non desidero che si creda che io voglia trovare una giustifica­zione religiosa o morale al suicidio, ma so per certo che la som­ma considerazione accordata all'onore era per molti una valida

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Le istituzioni del suicidio e della riparazione

scusa per togliersi la vita. Tanti, infatti, condividevano i sentimenti espressi da Garth:

«Quando l'onore è perduto, morire è un sollievo; la morte è il solo rifugio sicuro di fronte all'infamia»,

e consegnavano sorridendo la loro anima all'oblio! La morte per una questione di onore era accettata dal Bushido come solu­zione di molti complessi problemi, tanto che a un samurai ambi­zioso una dipartita naturale dalla vita sembrava insipida e indesi­derabile. Forse anche molti buoni cristiani, se solo fossero abba­stanza onesti da confessarlo, ammetterebbero il fascino che ema­na dalla sublime compostezza con cui Catone, Bruto, Petronio e molte altre celebri figure dell'antichità misero termine alle loro esistenze terrene, un fascino che può facilmente sconfinare in am­mirazione. Sarebbe troppo sfacciato da parte mia ricordare che la morte del primo dei filosofi fu in parte un suicidio? I suoi allievi raccontarono con abbondanza di particolari come il loro maestro volontariamente si fosse sottomesso al mandato dello Stato, pur sapendo che era moralmente sbagliato, e come, nonostante la pos­sibilità di fuga, prendesse la tazza di cicuta con le sue stesse ma­ni, libando addirittura alla liberazione dalle spoglie mortali: non riconosciamo forse nel suo comportamento complessivo e nel suo contegno un atto di autoimmolazione? Non vi è stata qui alcuna costrizione fisica, come avviene ordinariamente nelle esecuzioni. È vero, era obbligatorio applicare il verdetto dei giudici, che im­poneva: «Dovrai morire di tua propria mano». Se il suicidio si­gnifica semplicemente morire per propria mano, Socrate fu un chiaro caso di suicidio, eppure nessuno lo accuserebbe di questo crimine, e Platone, che era contrario a tale atto, non avrebbe cer­to chiamato il suo mentore un suicida.

Ora forse i miei lettori comprenderanno che nemmeno il sep­puku era un semplice suicidio. Era un'istituzione, legale e ceri­moniale. Sviluppatasi nel Medio Evo, era un processo tramite il quale i guerrieri potevano espiare i loro crimini, chiedere scusa per i loro errori, sfuggire la disgrazia, redimere i propri amici o

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provare la loro sincerità. Quando era imposto come punizione le­gale, era praticato con la dovuta cerimonia. Era una forma raffi­nata di autodistruzione, e nessuno poteva eseguirla senza un'e­strema freddezza di temperamento e compostezza di contegno, e per queste ragioni era particolarmente conveniente alla profes­sione del bushi.

Anche solo per soddisfare una curiosità storica, sarei tentato di dare qui una descrizione di questa obsoleta cerimonia; ma ac­corgendomi che questa descrizione è già stata resa da uno scrit­tore molto più abile di me, e il cui libro non è molto letto al gior­no d'oggi, ne riporto una lunga citazione. Mitford, nei suoi Rac­conti del Giappone antico, dopo aver tradotto un trattato sul sep­puku da un raro manoscritto giapponese, descrive una di queste esecuzioni di cui egli stesso fu testimone:

«Noi (sette rappresentanti stranieri) fummo invitati a seguire il testimone giapponese nell'bondo, o sala principale del tempio, dove doveva svolgersi la cerimonia. Era una scena imponente. La sala era ampia, con un alto tetto sostenuto da scuri pilastri di le­gno. Dal soffitto pendevano a profusione le grandi lampade do­rate e gli ornamenti peculiari dei templi buddhisti. Di fronte a un altare più elevato, il cui pavimento, coperto di bei materassini bianchi, era rialzato di circa dieci centimetri da terra, era stata ste­sa una coperta di feltro scarlatto. Alte candele poste a intervalli regolari diffondevano una luce pallida e misteriosa, appena suffi­ciente a mostrare tutto il procedimento. I sette giapponesi prese­ro posto a sinistra del pavimento rialzato, i sette stranieri a destra. Nessun'altra persona era presente.

«Dopo un intervallo di pochi minuti, pregno d'ansia e di su­spense, Taki Zenzaburo, un uomo robusto di trentadue anni e di nobile aspetto, entrò nella sala vestito nel suo abito di cerimonia dalle peculiari ali di canapa, usato per le grandi occasioni. Era ac­compagnato da un kaishaku e da tre ufficiali, che indossavano il jimbaori, o sopravveste di guerra con rivestimenti di tessuto in oro. Vorrei far notare che la parola "kaishaku" non corrisponde affatto al nostro termine "boia". È un servizio da gentiluomo; in molti casi è eseguito da un parente o da un amico del condanna-

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Le istituzioni del suicidio e della riparazione

to, e la relazione tra loro è piuttosto quella tra il primo attore e il suo secondo che non quella tra vittima e carnefice. In questo ca­so il kaishaku era un allievo di Taki Zenzaburo, ed era stato scel­to dagli amici di quest'ultimo, tra di loro, per la sua abilità nel­l'uso della spada.

«Con il kaishaku alla sua sinistra, Taki Zenzaburo avanzò len­tamente verso i testimoni giapponesi; i due uomini si inchinaro­no davanti a loro, poi si avvicinarono agli stranieri e ci salutaro­no allo stesso modo, forse con ancor maggior deferenza; in en­trambi i casi il saluto fu reso cerimoniosamente. Lentamente e con grande dignità il condannato salì sul pavimento rialzato, si pro­strò di fronte all'alto altare due volte e si sedette1 sul tappeto di feltro con la schiena rivolta all'altare, mentre il kaishaku si acco­vacciò alla sua sinistra. A quel punto uno dei tre attendenti avanzò, recando un vassoio del tipo usato nel tempio per le of­ferte su cui, avvolto nella carta, giaceva il wakizashi, la corta spa­da o lungo pugnale dei giapponesi, di circa ventitré centimetri di lunghezza, con una punta e una lama affilate come un rasoio. Lo porse, inchinandosi, al condannato; questi lo prese in modo re­verente, alzandolo fino alla testa con entrambe le mani e appog­giandolo poi sul pavimento davanti a sé.

«Dopo un altro profondo inchino, Taki Zenzaburo, con una voce che tradiva l'emozione e l'esitazione che ci si aspetterebbe da un uomo che sta rendendo una penosa confessione, ma senza palesare tali emozioni sul viso o nel modo di fare, parlò:

"Io, e io solo, senza essere stato autorizzato, ho dato ordine di sparare sugli stranieri di Kobe, e poi di farlo nuovamente men­tre cercavano di fuggire. Per questo crimine mi aprirò il ventre, e prego voi presenti di farmi l'onore di rendere testimonianza di questo atto".

«Inchinandosi nuovamente, l'uomo fece scivolare i suoi indu­menti superiori dalla cintura, rimanendo nudo fino alla cintola. Con cura, secondo la tradizione, ripiegò le maniche sotto le gi-

' Si sedette secondo il modo giapponese, con le ginocchia e le dita dei J?iedi che toccano terra e il corpo appoggiato sui talloni. In questa, che è una posizio­ne di rispetto, egli rimase fino alla morte.

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nocchia per impedire a se stesso di cadere all'indietro, perché un nobile giapponese deve sempre morire cadendo in avanti. Deli­beratamente, e con mano ferma, prese il pugnale che giaceva da­vanti a lui; lo guardò con desiderio, quasi con amore; per un mo­mento sembrò che raccogliesse i propri pensieri per l'ultima vol­ta, poi si ficcò il pugnale in profondità sotto la vita, sul fianco si­nistro, lo spinse lentamente verso il fianco destro e, rigirandolo nella ferita, lo spinse verso l'alto. Durante questa ripugnante e do­lorosa operazione non mosse un muscolo del viso. Quando estrasse il pugnale, si piegò in avanti e allungò il collo; per la pri­ma volta un'espressione di dolore gli attraversò la faccia, ma non pronunciò un solo suono. In quel momento, il kaishaku che, an­cora seduto al suo fianco, aveva osservato attentamente ogni mo­vimento, saltò in piedi, alzò la spada in aria per un secondo; ci fu un bagliore, un tonfo pesante e sordo, un fendente violento. Con un solo colpo la testa era stata staccata dal corpo.

«Seguì un silenzio di morte, rotto solamente dall'odioso ru­more del sangue che sgorgava dal corpo inerte davanti a noi, che solo un momento prima era stato un uomo coraggioso e cavalle­resco. Era una scena orribile.

«Il kaishaku fece un profondo inchino, asciugò la sua spada con un pezzo di carta che aveva preparato allo scopo e si ritirò dal pavimento rialzato; il pugnale macchiato di sangue fu portato via in modo solenne, come prova cruenta dell'avvenuta esecuzione.

«l due rappresentanti del Mikado lasciarono quindi i loro po­sti e, dirigendosi verso i testimoni stranieri, ci chiamarono per te­stimoniare che la sentenza di morte di Taki Zenzaburo era stata eseguita fedelmente. La cerimonia era ormai finita, e lasciammo il tempio».

Potrei moltiplicare le descrizioni del seppuku traendole dalla letteratura o dai resoconti dei testimoni oculari; ma basterà un unico altro esempio.

Due fratelli, Sakon e Naiki, rispettivamente di ventiquattro e diciassette anni d'età, cercarono di uccidere lyeyasu per vendica­re i torti subìti dal padre; ma prima di riuscire a entrare nel cam­po nemico furono fatti prigionieri. Il vecchio generale, ammiran-

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Le istituzioni del suicidio e della riparazione

do l'audacia dei giovani che avevano osato attentare alla sua vita, ordinò che fosse permesso loro di morire di una morte onorevo­le. Il loro fratellino Hachimaro, un bambino di soli otto anni, fu condannato allo stesso destino, poiché la sentenza riguardava tut­ti membri maschi della famiglia, e i tre furono portati a un mo­nastero dove essa sarebbe stata eseguita. Un medico presente in quell'occasione ci ha lasciato una cronaca, da cui riporto la se­guente scena:

«Quando furono tutti seduti in fila in attesa dell'esecuzione, Sakon si girò verso il più giovane e disse: "Inizia tu, perché desi­dero che ti comporti bene". Ma il piccolo rispose che, poiché non aveva mai visto eseguire un seppuku, voleva prima vedere come lo facevano i suoi fratelli, per poterli seguire al meglio. I due fra­telli maggiori sorrisero tra le lacrime: "Ben detto, piccolo! Così puoi davvero vantarti di essere il figlio di nostro padre!". Quin­di lo misero in mezzo a loro, e Sakon spinse il pugnale nel lato si­nistro del proprio addome, dicendo: "Guarda, fratello! Capisci ora? Ma mi raccomando: non spingere troppo in fondo il pugna­le, o cadresti all'indietro. Piuttosto, sporgiti in avanti e tieni le gi­nocchia ben composte". Naiki ripeté l'atto, e disse al ragazzino: "Tieni gli occhi aperti, o assomiglieresti a una femmina morente. Se il tuo pugnale incontra qualche resistenza e la forza ti viene a mancare, fatti coraggio e raddoppia lo sforzo per trafiggerti". Il bambino osservò i due fratelli e, quando entrambi furono spira­ti, si denudò il dorso con calma e seguì il loro esempio».

Ovviamente l'esaltazione del seppuku offrì non poche tenta­zioni a compierlo in modo sconsiderato. Per motivi incompati­bili con la ragione, o per ragioni per cui non valeva assolutamen­te la pena morire, giovani teste calde si lanciarono verso il sep­puku come insetti verso il fuoco; cause di dubbia validità spinse­ro molti più samurai verso questo atto che non le suore ai can­celli di un convento. La vita era a buon mercato, veniva valutata ben poco se paragonata al popolare concetto dell'onore. Pur­troppo l'onore, che era per così dire, in aggio, non era sempre co­stituito di oro puro, ma veniva mescolato con metalli di scarso valore. Il girone dell'Inferno più affollato di giapponesi dovreb-

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Bushido. L'anima del Giappone

be sicuramente essere il settimo, quello che Dante assegna alle vit­time del suicidio!

Eppure un samurai considerava l'affrettarsi verso la morte, o il corteggiarla, una codardia. Ecco la storia di un vero combat­tente che, dopo aver perduto battaglia dopo battaglia ed essere stato inseguito dalle pianure alle colline e dai cespugli alle caver­ne, si ritrovò affamato e solo al riparo del tronco scuro di un al­bero, con la spada smussata dall'uso, l'arco rotto e senza più frec­ce; non era forse questa la stessa condizione in cui si trovò il più nobile dei Romani, il quale decise di lanciarsi sulla propria spada a Filippi? Ma il guerriero giapponese giudicò vile morire in tale condizione e, con una determinazione pari a quella di un martire cristiano, si fece forza improvvisando questi versi:

« Venite! Venite ancor maggiori, voi temuti dolori e sofferenze! E gravi accumulatevi sul fardello della mia schiena, Che non manchi alcuna prova Di quanta forza mi rimane!».

Questo era, dunque, il vero insegnamento del Bushido: sop­portare e affrontare tutte le .calamità e le avversità con pazienza e coscienza pura; giacché, come aveva insegnato Mencio: «Quan­do il Cielo vuole conferire un grande compito a qualcuno, prima allena la sua mente tramite le sofferenze e i suoi nervi e le sue os­sa tramite il duro lavoro; espone il suo corpo alla fame e lo sot­topone a un'estrema povertà; poi confonde le sue imprese; in tut­ti questi modi stimola la sua mente, indurisce il suo carattere e gli fa colmare tutte le sue lacune». Il vero onore sta nell'adempiere il decreto del Cielo, e nessuna morte che incorra in tali circostanze è ignobile, mentre darsi la morte per evitare ciò che il Cielo ha in serbo per noi è davvero da vigliacchi! In quel bizzarro libro di Sir Thomas Browne che si intitola Religio Medici è riportato l'esat­to equivalente inglese di ciò che ripetutamente viene insegnato nei nostri Precetti: «È un atto valoroso disprezzare la morte, ma quando vivere è più terribile della morte, allora è ancora più co-

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Le istituzioni del suicidio e della riparazione

raggioso osare vivere». Un celebre monaco del XVII secolo os­servò ironicamente: «Si dica quel che si vuole, ma un samurai che non è morto può fuggire o nascondersi nei momenti decisivi». E ancora: «Né le lance di Sanada né le frecce di Tametomo posso­no trafiggere il petto di colui che ha già provato la morte nel suo cuore».

Quanto ci avviciniamo qui alle porte del tempio il cui Fonda­tore insegnò: «Colui che perde la sua vita per causa mia la ritro­verà!». Questi non sono che alcuni dei numerosi esempi che con­fermano che la specie umana, a dispetto degli assidui tentativi di rendere la separazione tra cristiani e pagani sempre più grande, condivide la stessa identità.

Abbiamo dunque visto che l'istituzione del suicidio nel Bu­shido non era così irrazionale o barbara come potrebbe sembra­re a prima vista. Ora vediamo se l'istituzione della riparazione -o vendetta, se vogliamo chiamarla così - abbia analoghe caratte­ristiche che possano mitigare la sua crudezza. Spero di poter trat­tare la questione brevemente, visto che analoghe istituzioni, o co­stumi che dir si voglia, erano presenti in tutti i popoli e non sono ancora diventate obsolete, come attestano i duelli e i linciaggi che avvengono di frequente anche ai giorni nostri. E non ha infatti, un capitano americano, sfidato recentemente Esterhazy, per ven­dicare il torto subìto da Dreyfus? In una tribù selvaggia che non prevede il matrimonio l'adulterio non è un peccato, e solamente la gelosia di un amante protegge una donna dagli abusi; allo stes­so modo, in un'epoca in cui non esistevano tribunali, l'assassinio non era un crimine, e solo la paura della ritorsione dei familiari della vittima preservava l'ordine sociale. «Qual è la più bella co­sa sulla terra?» chiese Osiride a Horus, e la risposta fu: «Vendi­care i torti subìti da un genitore»; un giapponese avrebbe aggiun­to: «e da un maestro».

Nella vendetta c'è qualcosa che soddisfa il senso di giustizia. Il ragionamento del vendicatore suona così: «Il mio amato padre non meritava la morte. Colui che l'ha ucciso ha commesso un gra­ve atto di malvagità. Mio padre, se fosse vivo, non tollererebbe un'azione di questo genere: il Cielo stesso odia la malvagità. È il

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Bushido. L'anima del Giappone

volere di mio padre, ed è il volere del Cielo, che il malvagio cessi le sue opere. Egli deve perire di mia mano: poiché ha versato il sangue di mio padre, io, che sono sangue del suo sangue e carne della sua carne, devo versare il suo. Io e l'assassino non possiamo dimorare sotto lo stesso Cielo». Questo processo di pensiero è semplice e infantile, ma mostra un innato senso di equità e di giu­stizia, come quello espresso nella Bibbia: «Occhio per occhio, dente per dente». Il nostro senso della vendetta raggiunge un'e­sattezza di tipo matematico e, finché entrambi i termini dell'e­quazione non corrispondono, non possiamo reprimere la sensa­zione di aver lasciato qualcosa di inadempiuto.

Nel Giudaismo, che credeva in un Dio vendicativo, o nel pen­siero greco, che prevedeva una Nemesi, si poteva lasciare la ven­detta a forze sovrumane; ma da noi il senso comune affidò al Bu­shido l'istituzione della riparazione, quasi come se fosse un tri­bunale etico, dove le persone potevano portare casi che non po­tevano essere giudicati dalla legge ordinaria. Il signore dei Qua­rantasette Ronin, condannato a morte, non aveva una corte di giu­stizia superiore cui appellarsi; i suoi fedeli seguaci si rivolsero di­rettamente alla vendetta, la sola Corte suprema esistente; essi a turno furono condannati dalla legge comune, ma l'istinto popo­lare emise un giudizio differente, e la loro memoria rimane tut­tora viva e fragrante, come rimangono sempre verdi di piante e fiori le tombe in cui essi riposano nel tempio Sengaku.

Anche se Lao-tse insegnò a ripagare l'ingiuria con la gentilez­za, la voce di Confucio, che disse che l'ingiuria doveva essere com­pensata dalla giustizia, risuonò più forte; eppure la vendetta era giustificata solo quando fosse intrapresa per conto dei superiori e dei benefattori. I torti personali, tra cui quelli subìti dalle pro­prie mogli e dai propri figli, dovevano essere sopportati e perdo­nati. Un samurai poteva dunque provare piena simpatia per il giu­ramento di Annibale di vendicare i torti del proprio Paese, ma avrebbe disprezzato James Hamilton perché si portava nella cin­tura una manciata di terra della tomba della moglie, come eterno incentivo a vendicare i torti che aveva subito da parte del Reg­gente Murray.

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Le istituzioni del suicidio e della riparazione

Entrambe queste istituzioni, il suicidio e la riparazione, perse­ro la loro ragione d'essere con lo sviluppo del codice penale. Or­mai non sentiamo più raccontare avventure romantiche su belle fanciulle alla ricerca, sotto mentite spoglie, dell'assassino dei geni­tori. Non siamo più testimoni delle tragedie ingenerate dallo sca­tenarsi delle vendette di famiglia. Il vagabondaggio cavalleresco di Miyamoto Musashi fa parte del passato. Ora esiste una polizia ben addestrata che indaga sui criminali per conto della parte l€sa e una legge che amministra la giustizia. Lo Stato e la società nel loro com­plesso sono impegnati in prima linea per ripagare i torti. Soddi­sfacendo in questo modo il senso di giustizia, non v'è più alcun bi­sogno dell'istituzione del «kataki-uchi>>. Se il significato di questa fosse tuttavia quella «fame del cuore che si nutre della speranza di saziarsi del sangue vivo della vittima>>, come un teologo del New England ha sostenuto, pochi paragrafi del codice penale non sa­rebbero certo stati sufficienti a farla scomparire dal costume.

Quanto al seppuku, benché esso non abbia più un'esistenza de jure, ne sentiamo ancora parlare di tanto in tanto, e continuere­mo a udirne parlare, temo, finché rimarrà viva la memoria del pas­sato. Molti metodi indolori e rapidi di suicidi entreranno in vo­ga, e gli adepti dell'autoimmolazione stanno crescendo con temi­bile rapidità in tutto il mondo, ma tra loro il professar Morselli dovrà pur sempre assegnare al seppuku una posizione di aristo­cratica preminenza. Egli afferma che «quando il suicidio è com­messo con mezzi assai dolorosi o a costo di una prolungata ago­nia, in novanta casi su cento può essere considerato l'atto di una mente disorientata dal fanatismo, dalla follia o da un eccitamen­to morboso>>2• Ma un normale seppuku non ha il sapore del fana­tismo, della follia o dell'eccitamento perché, per la sua riuscita rea­lizzazione, è necessario un grande sangue freddo. Delle due cate­gorie in cui il dottor Strahan3 divide il suicidio - quella del suici­dio razionale e quella del suicidio irrazionale, o vero suicidio - il seppuku è il miglior esempio del primo tipo.

2 Morselli, Suicide, p. 134. ' Suicide and lnsanity.

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Bushido. L'anima del Giappone

Da queste istituzioni sanguinarie, come dal sistema generale su cui era fondato il Bushido, è facile capire che la spada giocava un ruolo importante nella disciplina e nella vita sociale. Il detto che definiva la spada l'anima del samurai divenne un assioma.

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La spada, anima del samurai

Il Bushido fece della spada il suo emblema di potere e di co­raggio. Quando Maometto proclamò che «la spada è la chiave del Cielo e dell'Inferno», stava dando eco a un sentimento condivi­so anche dai giapponesi. Il samurai bambino imparava presto a maneggiare quest'arma. Era per lui una grande festa quando, al­l' età di cinque anni, veniva rivestito con gli accessori del costume del samurai, posto sopra un tavolo di go1 e iniziato ai diritti del­la professione militare: gli veniva offerta una spada vera da tene­re alla cintura, al posto del giocattolo con cui aveva giocato fino a quel momento. Dopo questa prima cerimonia di adoptio per ar­ma, non doveva più mostrarsi all'esterno della casa paterna sen­za questo simbolo del suo status, anche se era normalmente so­stituito da una spada di legno dorato. Non passeranno molti an­ni prima di portare costantemente al fianco dell'acciaio genuino, anche se smussato; le armi finte saranno infine lasciate da parte per le lame vere, e con quale gioia il giovane uscirà per provare, per la prima volta, il filo delle sue lame nuove sul legno e sulle pie­tre! Quando raggiunge la condizione di uomo, all'età di quindi­ci anni, il samurai, avendo ormai indipendenza di azione, può esi­bire con orgoglio armi affilate adatte a qualsiasi opera. Il posses­so di questi strumenti pericolosi gli dà il senso del rispetto per se

' Il gioco del go è chiamato anche scacchi giapponesi, ma è molto più com­plicato del gioco occidentale degli scacchi. Il tavolo di go contiene 361 caselle e rappresenta un campo di battaglia; obiettivo del gioco è occupare il maggiore spazio possibile.

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Bushido. L'anima del Giappone

stesso e della propria responsabilità. «Non si porta la spada inva­no». Ciò che egli porta alla cintura è il simbolo di ciò che serba nella mente e nel cuore: la lealtà e l'onore. Le due spade, quella lunga e quella corta, chiamate rispettivamente «daito» e «shoto>>, o «katana>> e «wakizashi>>, non lasciano mai il suo fianco. Quan­do è in casa, esse ornano il luogo più in vista nello studio o nel sa­lotto; di notte fanno la guardia al suo cuscino, rimanendo a por­tata di mano. Sono amate come compagne fedeli e vengono bat­tezzate con nomi propri, pieni di affetto. Sono venerate, anzi ado­rate. Il padre della storiografia ha riportato l'aneddoto curioso se­condo cui gli Sci ti facevano sacrifici a una scimitarra di ferro. Mol­ti templi e molte famiglie in Giappone custodiscono gelosamen­te una spada come oggetto di devozione. Si deve rispetto persino al pugnale più comune, e qualsiasi affronto rivolto all'arma equi­vale a un affronto personale. Guai a colui che con noncuranza sca­valca un'arma che giace sul pavimento!

Un oggetto tanto prezioso non poteva essere ignorato dagli artisti, che gli dedicavano le loro cure e la loro abilità, e accende­va la vanità dei suoi possessori, specialmente nelle epoche di pa­ce, quando era indossato alla stessa stregua in cui un vescovo in­dossa un crocefisso o un re porta uno scettro. L'elsa veniva rive­stita di pelle di pescecane e della seta più fine, la custodia era ador­nata da argento e oro e il fodero ricoperto di lacche variopinte; in questo modo la più ferale delle armi veniva privata di metà del suo terrore, ma questi accessori erano solo dei giocattoli, se parago­nati alla lama in sé.

Il fabbro non era un semplice artigiano, ma un artista ispira­to, e la sua officina era un santuario. Ogni giorno egli iniziava la sua attività con la preghiera e la purificazione o, come diceva un proverbio: «consegnava la sua anima e il suo spirito all'atto di for­giare e temprare l'acciaio >> . L'oscillazione del maglio, l'immersio­ne nell'acqua, la frizione sulla mola: ognuno di questi era un atto religioso di grande importanza. Difficile dire se fosse lo spirito del maestro o quello del suo dio tutelare a gettare un formidabi­le incantesimo sulla spada. Perfetta opera d'arte, che sfidava le sue rivali di Toledo o di Damasco, la creazione di una spada com-

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La spada, anima del samurai

portava ben più della sola maestria artistica. La sua fredda lama, che raccoglie sulla supedicie i vapori dell'atmosfera nel momen­to in cui è forgiata; la sua trama immacolata, con i suoi bagliori blu; il suo filo ineguagliabile, appese al quale c'erano infinite sto­rie e possibilità; la sua curvatura, che univa grazia squisita ed estre­ma forza: tutte queste caratteristiche risvegliano in noi il senso del potere e della bellezza, ci fanno palpitare di timore e terrore. La sua missione sarebbe stata innocua, se solo fosse rimasta un og­getto di bellezza e piacere! Ma, sempre a portata di mano, offri­va non poche tentazioni di abuso. Troppo spesso la lama brillava uscendo dalla sua pacifica guaina, e talvolta se ne abusava tanto che c'era chi provava l'acciaio appena acquistato sul collo di qual­che creatura innocente.

La questione che ci interessa maggiormente, tuttavia, è se il Bushido giustificasse l'uso promiscuo dell'arma. La risposta è ine­quivocabilmente no! Anzi, il Bushido dava grande peso all'uso appropriato della spada e denunciava e aborriva i suoi abusi. Co­lui che brandiva la propria arma in occasioni inadeguate era con­siderato un codardo o uno spaccone. Un uomo nel pieno posses­so delle proprie facoltà sapeva qual era il tempo giusto per usar­la, e tali occasioni non arrivavano che raramente. Ascoltiamo le parole del Conte Katsu, che visse in una delle più turbolente epo­che della nostra storia, un'epoca in cui assassini, suicidi e altre pra­tiche sanguinarie erano all'ordine del giorno. Dotato com'era di tutti i poteri dittatoriali, rischiò ripetutamente di essere assassi­nato, eppure non sporcò mai la sua spada di sangue. Raccontan­do le sue memorie a un amico dice, nel modo bizzarro e sempli­ce che gli era tipico: «Provo un gran disgusto nell'uccidere le per­sone, e quindi non ho mai ucciso nemmeno un uomo. Ho lascia­to andare anche individui le cui teste avrebbero dovuto essere ta­gliate. Un amico un giorno mi disse: "Non uccidi a sufficienza. Come mai: non mangi pepe ed erbe eccitanti ?". Ebbene, molti non sono meglio di questo mio amico! Ma vedi, anche lui fu uc­ciso, e se io sono sfuggito a una morte violenta è forse proprio per via della mia ripugnanza a uccidere. Avevo incastrato così bene l'elsa della mia spada nel fodero che era difficile estrarre la lama,

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Bushido. L'anima del Giappone

e avevo deciso che se qualcuno mi avesse attaccato io non avrei risposto. Sì, è vero che alcune persone sono fastidiose come mo­sche e zanzare, ma in cosa consistono poi le loro punzecchiatu­re? Pizzicano un po', ecco tutto; non ne va certo della vita». Que­ste sono parole che testimoniano il fiero addestramento di un uo­mo nel Bushido, un percorso intrapreso nel fuoco ardente delle avversità e del trionfo. Massime popolari come: «Essere battuti significa vincere» (che significa che la vera vittoria consiste nel non opporsi a un nemico bellicoso) e «La miglior vittoria è quel­la che si ottiene senza spargimento di sangue», e altre di questo tenore, dimostrano che, dopo tutto, l'obiettivo ideale del Cava­liere era la pace.

È un vero peccato che questo sommo ideale fosse lasciato esclusivamente alle prediche dei preti e dei moralisti, mentre i sa­murai continuavano a praticare e a esaltare le virtù marziali. In ta­le esaltazione essi si spinsero tanto lontano da conferire al loro ideale femminile un carattere da amazzone. A questo punto pos­siamo a ragion veduta dedicare qualche paragrafo all'addestra­mento e alla posizione sociale della donna.

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L'educazione e la posizione delle donne

Alla nostra «metà del cielo» sono stati talvolta applicati para­goni paradossali, semplicemente perché l'intuizione delle donne va ben oltre la portata della «comprensione logica» degli uomini. L'ideogramma cinese che indica «il misterioso», o «l'insondabi­le», consiste di due parti, una che significa «giovane» e l'altra «donna»; con questa associazione di idee si intende che il fascino e la delicatezza di pensiero del gentil sesso sono superiori alla roz­za capacità di rappresentazione razionale del sesso maschile.

L'ideale di donna del Bushido, tuttavia, non presenta un gran mistero, e ben pochi paradossi. Ho accennato al fatto che la don­na del guerriero manifestasse dei tratti da amazzone, ma questa è solo la metà della verità. Ideograficamente la lingua cinese rap­presenta la moglie come una donna che tiene in mano una scopa: e tale gesto non aveva certo dei risvolti offensivi o difensivi nei confronti del coniuge, né stregoneschi; la scopa doveva servire agli usi innocui per cui fu inventata originariamente, ovvero le pu­lizie di casa. D'altronde, l'idea espressa da questo ideogramma non è tanto diversa da quella manifestata dalla derivazione eti­mologica dell'inglese «w ife» («moglie», la parola reca l'etimo di «cucitrice», «sarta») e «daughter» («figlia», che deriva da «duhi­tar», «ragazza che porta il latte»). Pur senza arrivare a confinare completamente la sfera dell'attività della donna alla «Kuche, Kir­che, Kinder» («cucina, chiesa, figli»), come si dice che abbia fatto

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Bushido. L'anima del Giappone

il Kaiser tedesco, l'ideale di femminilità del Bushido era premi­nentemente domestico. Queste apparenti contraddizioni - ange­lo del focolare e amazzone - non sono incoerenti con i Precetti della Cavalleria, come vedremo.

Essendo il Bushido un insegnamento diretto principalmente al sesso maschile, le virtù che apprezzava in una donna erano lonta­ne dall'essere specificamente femminili. Winckelmann fa notare che «la bellezza suprema nell'arte greca era rappresentata più dal­l'uomo che dalla donna», e Lecky aggiunge che ciò valeva anche per la concezione morale degli ellenici. Il Bushido, in modo ana­logo, lodava le donne che «si emancipavano dalla fragilità del lo­ro sesso e mostravano una forza d'animo degna del più forte e del più coraggioso degli uomini»1• Le ragazze, quindi, venivano ad­destrate a reprimere i loro sentimenti, a forgiare i nervi e a ma­neggiare le armi, soprattutto l'alabarda - chiamata <<nagi-nata» ­in modo da essere in grado di difendersi contro attacchi inaspet­tati. Il motivo principale per sviluppare questo carattere marziale, tuttavia, non era perché fosse applicato sul campo di battaglia, ma presentava un duplice aspetto: personale e familiare. La donna non aveva un superiore, ed era la propria stessa guardia del corpo. Con la sua arma proteggeva la propria incolumità personale con altret­tanto zelo di quanto avrebbe fatto il marito per il suo signore. L'u­tilità domestica del suo addestramento marziale si rivelava utile so­prattutto nell'educazione dei suoi figli, come vedremo tra poco.

La scherma e gli esercizi marziali, anche se raramente serviva­no all'atto pratico, controbilanciavano le abitudini sedentarie del­le donne, ma non venivano esercitati solamente per motivi igie­nici: potevano risultare utili in caso di bisogno. Alle ragazze che raggiungevano l'età adulta venivano regalati dei pugnali ( «kai­ken», «pugnali da tasca>> ) che potevano trafiggere il petto di even­tuali assalitori, o il proprio, se fosse stato necessario. Nonostan­te fosse quest'ultima la soluzione preferita, non voglio giudicare severamente queste donne, e credo che nemmeno la coscienza cri­stiana, con il suo orrore per il suicidio lo farebbe, considerando

' Lecky, History of Europeans Morals, II, p. 383.

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L'educazione e la posizione delle donne

che le suicide Pelagia e Dominina furono canonizzate per la loro purezza e devozione. Quando una vergine giapponese vedeva la sua castità minacciata, non aspettava che la spada del padre cor­resse in suo aiuto. Portava sempre un'arma nascosta in petto. Sa­rebbe stata per lei una disgrazia non conoscere il modo più ap­propriato per togliersi la vita. Per poco che ne sapesse di cono­scenze anatomiche, per esempio, doveva tuttavia conoscere il punto esatto in cui tagliarsi la gola: doveva sapere come legare tra loro gli arti inferiori con una cintura in modo che, quali che fos­sero le agonie della morte, il suo cadavere sarebbe stato ritrovato con gli arti adeguatamente composti, in un atteggiamento casto. Non era questa una precauzione degna di una Perpetua cristiana o della vestale Cornelia? Non porrei questa domanda in modo così brusco, se non fosse per fugare un pregiudizio erroneo se­condo cui la castità ci è sconosciuta, per via delle nostre abitudi­ni riguardanti il bagno e altre banalità2• Al contrario, la castità era una virtù spiccatissima tra le donne dei samurai, cui era più cara della vita. Una giovane presa prigioniera, vedendosi minacciata di violenza per mano di rozzi soldati, disse che avrebbe acconsenti­to ai loro desideri a patto che le fosse permesso di scrivere qual­che riga alle sue sorelle, che la guerra aveva disperso per il mon­do. Dopo aver finito di scrivere la lettera, corse al pozzo più vi­cino e salvò il proprio onore annegandovisi. La lettera che aveva scritto finiva con questi versi:

«Per timore che le nubi possano oscurare la sua luce e lei sia costretta a sfiorare questa infima sfera, la giovane luna sospesa nell'alto del cielo si affretta a fuggire».

Non sarebbe corretto trasmettere ai miei lettori l'idea che per noi la donna ideale dovesse conformarsi a una certa mascolinità. Al contrario! Alle donne si chiedeva di saper dispensare le opere

2 Per una spiegazione ragionata della nudità e del bagno, vedi Finck, Lotos Time in]apan, pp. 286-297.

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Bushido. L'anima del Giappone

più dolci e le grazie della vita, e di non trascurare la musica, la dan­za e la letteratura. Alcuni dei più bei versi della nostra letteratura sono stati il risultato dell'espressione di sentimenti femminili e, in effetti, le donne hanno svolto un ruolo importante nella storia delle belles lettres giapponesi. La danza era insegnata (sto parlan­do delle ragazze appartenenti alla casta dei samurai, e non delle geishe) solo per addolcire la spigolosità dei loro movimenti. La musica doveva allietare le ore oziose dei loro padri e dei loro ma­riti, perciò non veniva imparata per affinare la tecnica o per l'ar­te in sé: l'obiettivo finale era la purificazione del cuore, poiché si credeva che nessuna armonia del suono fosse riproducibile senza che il cuore del suonatore fosse anch'esso in armonia. Nuova­mente ritroviamo qui l'idea prevalente che pervadeva l'istruzio­ne dei giovani: le opere erano sempre coerenti con la dignità mo­rale. La musica e la danza servivano solamente ad aggiungere gra­zia e vivacità alla vita, e mai a nutrire la vanità e la stravaganza. Mi trovo d'accordo con quel principe persiano che, invitato a un bal­lo a Londra, dopo essere stato sollecitato a prendere parte al di­vertimento fece seccamente notare che nel suo Paese era solo un certo genere di ragazze a danzare per gli uomini, reclutato appo­sitamente per tale scopo.

Le nostre donne non sviluppavano capacità artistiche per far­ne mostra o per acquisire reputazione sociale; queste erano un di­versivo per la vita casalinga e, se venivano esibite nelle feste, lo era­no in quanto compiti di una padrona di casa o, in altre parole, fa­cevano parte dell'ospitalità. L'educazione delle donne era sempre rivolta a fini domestici. Si potrebbe dire, senza paura di essere con­traddetti, che le capacità delle donne dell'antico Giappone, fosse­ro esse marziali o pacifiche, avevano principalmente una funzio­ne casalinga; e, per quanto lontano potessero giungere, non per­devano mai di vista che la casa doveva essere il centro verso cui tendere. Era per mantenere l'onore e l'integrità che le donne si as­servivano, lavoravano instancabilmente e donavano la propria vi­ta. Giorno e notte, con accenti allo stesso tempo fermi e teneri, co­raggiosi e malinconici, cantavano per i bambini. La figlia si sacri­ficava per il padre, la moglie per il marito e la madre per il figlio.

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L'educazione e la posizione delle donne

Sin dalla più tenera età veniva insegnato alla donna a negare se stes­sa. La sua vita era un perpetuo sacrificio di sé, e non era certo con­traddistinta dall'indipendenza, ma dalla sottomissione servizievo­le. Compagna dell'uomo, gli rimaneva accanto sul palcoscenico se la sua presenza gli era utile, ma, se risultava di qualche intoppo al suo lavoro, si ritirava dietro il sipario. Non era infrequente che un giovane si innamorasse di una fanciulla che ricambiava il suo amo­re con eguale ardore ma, quando ella si rendeva conto che inte­ressandosi a lei egli si distraeva dai suoi doveri, arrivava a detur­pare i propri lineamenti in modo da non risultare più attraente per il giovane. Azuma, figura di moglie ideale secondo le giovani del­la classe dei samurai, scopò che un uomo che stava cospirando contro suo marito era innamorato di lei. Facendo finta di unirsi al complotto, nel buio prese il posto del marito, e fu sulla sua testa di moglie devota che scese la spada dell'amante-assassino. La se­guente lettera, scritta dalla moglie di un giovane daimio prima di togliersi la vita, non ha bisogno di alcun commento:

«Ho sentito dire che il caso o la fortuna non possono turbare il corso degli eventi quaggiù, e che tutto segue un piano prestabi­lito. Che ci si rifugi sotto lo stesso albero o che si beva dallo stes­so fiume, tutto quanto è stato predisposto da tempo immemora­bile prima della nostra nascita. Da quando - ormai sono due an­ni - fummo uniti nel vincolo eterno del matrimonio, il mio cuo­re ti ha seguito come l'ombra segue il corpo, inseparabilmente le­gata al tuo cuore, amandoti ed essendo amata. Tuttavia sono ve­nuta a sapere solo ,di recente che la battaglia che stai per combat­tere potrebbe essere l'ultima della tua vita; accetta dunque il sa­luto d'addio della compagna che ti ama. Ho udito che Kowu, il potente guerriero dell'antica Cina, perse una battaglia in seguito al dolore di doversi separare dalla sua favorita, Gu. Anche Yo­shinaka, pur essendo molto coraggioso, arrecò danno alla sua cau­sa perché troppo debole per riuscire a dire addio a sua moglie. Perché dovrei io, cui la terra non offre più speranza né gioia, trat­tenerti dai tuoi pensieri continuando a vivere? Perché non dovrei invece aspettarti sulla strada che tutti i mortali devono prima o poi percorrere? Ti prego di non dimenticare mai i molti benefici

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di cui ti ha colmato il nostro buon signore Hideyori. La gratitu­dine che gli dobbiamo è profonda come il mare ed elevata come le montagne».

La sottomissione della donna alla casa e alla famiglia era vo­lontaria e onorevole quanto quella dell'uomo al suo signore e al suo Paese. La rinuncia a se stessi, valore senza cui nessun enigma della vita può essere risolto, era la chiave della lealtà dell'uomo e del confinamento domestico della donna. Ella non era schiava del­l'uomo più di quanto suo marito lo fosse del suo signore; il suo ruolo era riconosciuto come «naijo», «l'aiuto interiore». La don­na stava sul gradino più basso della scala ascensionale del sacrifi­cio e si annullava per l'uomo, in modo che egli potesse annullare se stesso per il signore, che a sua volta doveva obbedienza al Cie­lo. Sono consapevole della debolezza di questo insegnamento e della superiorità del Cristianesimo, qui più manifesta che mai, con il suo ascrivere a ogni anima vivente una diretta responsabilità nei confronti del suo Creatore. Eppure, anche il Bushido, per quan­to concerne la dottrina del sacrificio (che è la massima tra quelle predicate dal Cristo e la chiave di volta della sua missione), con il suo mettersi al servizio di una causa più elevata della propria in­dividualità e arrivando addirittura a sacrificare quest'ultima, si ba­sava sulla verità eterna.

Non vorrei tuttavia che i miei lettori mi accusassero di nutri­re un pregiudizio ingiusto a favore della rinuncia alla propria vo­lontà. Condivido in gran parte la visione proposta e difesa con grande sapienza e profondità di pensiero da Hegel, che la storia sia il dispiegarsi e la realizzazione della libertà. Il punto che desi­dero sottolineare è però che l'intero insegnamento del Bushido era così profondamente imbevuto dello spirito del sacrificio che questo era richiesto sia agli uomini, sia alle donne. Ecco perché, finché l'influenza dei suoi Precetti non sarà svanita completa­mente, la nostra società non realizzerà il pronostico avventata­mente espresso da una fautrice americana dei diritti delle donne: «Possano tutte le figlie del Giappone rivoltarsi contro gli antichi costumi!». Potrebbe mai avvenire una simile rivolta? E migliore­rebbe davvero la condizione femminile? I diritti conquistati tra-

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mite un tale processo sommario ripagherebbero della perdita di quella dolcezza di temperamento e di quella gentilezza dei modi che sono l'attuale eredità del genere femminile in Giappone? N o n fu forse proprio la perdita dell'amore per il focolare da parte del­le matrone romane una delle cause dell'eccessiva corruzione mo­rale dell'antico popolo latino? Dubito che i riformatori america­ni possano sostenere che lo sviluppo storico debba prendere la forma di una rivolta delle nostre figlie. Si tratta di gravi questio­ni. I cambiamenti dovrebbero avvenire senza rivolte, e così sarà senz'altro! Nel frattempo verifichiamo se la condizione del gen­til sesso sotto il regime del Bushido fosse veramente così orribile da giustificare una rivolta.

Sentiamo molto parlare del rispetto esteriore che i cavalieri eu­ropei tributavano a «Dio e alle signore». L'incongruità dei due termini avrebbe fatto arrossire Gibbon; Hallam ci ha spiegato che la' moralità della Cavalleria era grezza e che la galanteria tollera­va amori illeciti. L'effetto che la Cavalleria ebbe sul sesso debole stimolò moltissime riflessioni da parte dei filosofi: Guizot affer­mava che il Feudalesimo e la Cavalleria ebbero influenze saluta­ri sul gentil sesso, mentre Spencer sosteneva con grande autorità che in una società belligerante (ma siamo sicuri che la società feu­dale fosse belligerante?) la posizione della donna è necessaria­mente inferiore, e che essa migliora solo quando la società passa a una fase industriale. Posso rispondere che entrambi hanno ra­gione. La classe militare in Giappone era limitata ai samurai, che comprendevano circa due milioni di anime. Sopra di loro c'erano i nobili militari, i daimio, e i nobili di corte, i kuge; questi nobili di rango elevato, sibaritici, erano guerrieri solo di nome. Sotto di loro c'erano le masse della gente comune: gli artigiani, i commer­cianti e i contadini, la cui vita era dedita a mestieri pacifici. Quin­di le caratteristiche della cosiddetta società belligerante definite da Herbert Spencer potrebbero benissimo essere applicate alla classe dei samurai, ma a essa solamente, mentre alle classi supe­riori e inferiori si potevano attribuire caratteristiche di tipo indu­striale. Questo teorema è ben illustrato dalla posizione della don­na: in nessuna classe sociale ella godette di minor libertà di quel-

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la dei samurai. Strano a dirsi, ma più bassa era la classe sociale, per esempio tra i piccoli artigiani, più egualitaria era la posizione di marito e moglie. Anche tra i nobili di rango superiore le diffe­renze tra i sessi erano meno marcate, in primo luogo perché c'e­rano poche occasioni per farle risaltare, e in secondo luogo per­ché i nobili oziosi erano diventati letteralmente degli effeminati. Ecco dunque che le affermazioni di Spencer trovano pieni ri­scontri nelle classi inferiori dell'antico Giappone. Per quanto ri­guarda Guizot, coloro che hanno letto la sua descrizione delle co­munità feudali ricorderanno che egli prendeva in considerazione soprattutto le caste di nobili più elevate, e infatti le sue osserva­zioni si applicano in pieno ai daimio e ai kuge.

Sarei colpevole di una grave ingiustizia nei confronti della ve­rità storica, se le mie parole avessero trasmesso l'idea che il Bu­shido avesse una bassa opinione della condizione femminile. Non posso affermare che la donna fosse trattata in modo paritario ri­spetto all'uomo, ma finché non impareremo a discriminare tra dif­ferenze e ineguaglianze, ci saranno sempre dei malintesi su que­sto argomento.

Se pensiamo a quanto poco gli uomini siano uguali fra di lo­ro, per esempio di fronte ai tribunali e alle urne elettorali, sem­brerebbe inutile preoccuparci di una discussione sull'uguaglian­za tra i sessi. Quando la Dichiarazione di Indipendenza america­na affermò che tutti gli uomini sono stati creati uguali, non stava facendo riferimento alle loro doti mentali o fisiche: ripeteva sem­plicemente ciò che Ulpian aveva già da tempo sostenuto, e cioè che davanti alla legge tutti gli uomini sono uguali. I diritti di fron­te alla legge sono in questo caso la misura della loro uguaglianza. Se la legge costituisse il solo parametro su cui valutare la condi­zione femminile in seno a una comunità, sarebbe facile definire tale condizione quanto determinare il peso di un oggetto in lib­bre e once. Ma la vera questione è se esista un criterio omogeneo per raffrontare tra loro le condizioni sociali riservate ai due sessi. Sarebbe giusto, o sufficiente, paragonare la condizione di una donna a quella di un uomo, esattamente come si paragona il va­lore dell'argento a quello dell'oro, e stabilire un rapporto nume-

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rico? Una simile valutazione in cifre dell'essere umano non pren­derebbe in considerazione il più importante elemento di valore da lui posseduto, e cioè il suo valore intrinseco. Poiché i requisi­ti necessari a ogni sesso per adempiere la sua specifica missione sono vari e molteplici, lo standard da adottare nel valutare le re­lative posizioni sociali deve avere un carattere composito; o, per prendere in prestito il linguaggio economico, deve usare una mi-

. sura multipla. Il Bushido adottava una sua misura specifica, un bi­' nomio con cui giudicare il valore della donna secondo due diver­si piani di riferimento: quello del campo di battaglia e quello del focolare. Nel primo caso una donna contava ben poco; nel se­condo ricopriva una funzione fondamentale. Il trattamento so­ciale che si accordava alle donne corrispondeva a questa doppia misurazione: come soggetto socio-politico aveva scarsa rilevan­za, mentre come moglie e madre le veniva tributato il massimo ri­spetto e il più profondo affetto. Pensiamo al motivo per cui, in una nazione militarizzata come Roma, le matrone fossero tanto venerate. Non era forse proprio perché erano matrone, ovvero madri? Non in quanto combattenti o legislatori, ma come figli, gli uomini si prostravano davanti a loro. Così facevamo anche noi. Mentre i padri e i mariti erano in guerra, la guida della famiglia era lasciata interamente nelle mani delle madri e delle mogli, ed esse si occupavano anche di istruire i giovani nella difesa. Gli eser­cizi marziali delle donne, di cui abbiamo parlato in precedenza, servivano primariamente a permettere loro di dirigere e seguire con intelligenza l'addestramento dei loro figli.

Ho potuto notare che tra gli stranieri non perfettamente infor­mati delle nostre abitudini prevale un pregiudizio superficiale, se­condo cui, poiché l'espressioqe giapponese comune perindicare la propria moglie è «la mia rozza moglie» e altre simili, ella sia di­sprezzata e tenuta in scarsa considerazione. Ma se si spiega che da noi sono di uso corrente frasi come «il mio stupid�_p<\çl;:e»: «il mio sudicio figlio», «io, con la mia goffaggine». é�a;<ini pare che la risposta a questa accusa sia abbastanza chiara!.

Mi sembra che la nostra idea dell'unione matrimQ,m�le sia an­cora più forte di quella cristiana, che co�si�j,)()'Qlcf e donna

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«una sola carne». Gli anglosassoni, con il loro individualismo, non riescono ad abbandonare l'idea che marito e moglie siano due persone distinte: per cui, quando la coppia non va d'accordo si precisano i loro singoli diritti, mentre, quando va d'accordo, le due parti esauriscono il loro vocabolario in ogni genere di scioc­chi vezzeggiativi con cui lusingarsi l'una l'altra. Un marito o una moglie che parlano a una terza persona della loro metà - che sia la parte migliore o quella peggiore di sé poco importa-come ama­bile, intelligente o gentile, suonerebbero alle nostre orecchie estremamente irrazionali. Sarebbe forse di buon gusto parlare di se stessi menzionando «la mia intelligenza>>, «il mio carattere amabile>> e così via? Noi pensiamo che lodare la propria moglie equivalga a lodare se stessi, e l'elogio di sé è da noi considerato di cattivo gusto come, credo, anche tra le nazioni cristiane! Mi so­no concesso questa digressione per spiegare che denigrare educa­tamente la propria consorte era un'abitudine molto in voga tra i samurat.

Il rispetto che l'uomo tributa alla donna nella civiltà occiden­tale è diventato il principale metro di moralità per vari motivi. Uno di questi risale al terrore superstizioso che le razze teutoni­che nutrivano ai tempi della loro vita tribale per il gentil sesso (an­che se ormai tutto ciò sta scomparendo in Germania!); un altro è dovuto alla penosa consapevolezza della scarsità numerica delle donne a disposizione degli americani agli albori della loro vita so­ciale3 (e ora che le donne americane sono sempre più numerose, temo che stiano rapidamente perdendo il prestigio di cui godeva­no le colone, loro madri). Ma l'etica marziale del Bushido cerca­va altrove il confine principale che divideva il bene dal male. Es­so si associava al dovere che legava l'uomo alla propria anima di­vina e a tutte le altre anime, doveri regolati dalle cinque relazioni che ho menzionato nella prima parte di questo testo. Tra queste ho sottoposto all'attenzione del lettore la lealtà, ovvero la rela­zione tra un vassallo e il suo signore. Per quanto riguarda le altre

' Mi riferisco ai tempi in cui le ragazze venivano importate dall'Inghilterra e date in matrimonio in cambio di un certo numero di chili di tabacco ecc.

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relazioni, le ho descritte solo per brevi cenni quando se ne pre­sentava l'occasione, perché non erano peculiari del Bushido. Es­sendo fondate sugli affetti naturali, non potevano che essere con­divise da tutto il genere umano, anche se in alcu.ne espressioni spe­cifiche esse possono essere state accentuate dalle condizioni crea­te dal Bushido. In questo contesto vorrei ricordare la peculiare in­tensità e delicatezza cui arrivava l'amicizia virile, che spesso ag­giungeva al legarne fraterno un attaccamento romantico; questo era intensificato dalla separazione tra i sessi in età giovanile, una separazione che impediva all'affetto di manifestarsi naturalmen­te, come invece accadeva nella Cavalleria occidentale o nel corso dei più liberi rapporti nei Paesi anglosassoni. Potrei riempire pa­gine su pagine con le versioni giapponesi delle storie di Damone e Pizia o di Achille e Patroclo, o raccontare còn le parole proprie del Bushido di amicizie come quelle che legavano Davide e Gio­nata.

Non è tuttavia sorprendente che le virtù e gli insegnamenti specifici dei Precetti della Cavalleria non rimanessero circoscrit­ti alla classe militare. Questo ci induce a prendere in considera­zione l'influenza del Bushido su tutta la nazione.

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Sino ad ora siamo andati alla scoperta solamente di alcune del­le più elevate tra le virtù cavalleresche, che pure sono a loro vol­ta ben al di sopra del livello ordinario della nostra vita nazionale. Come il sole all'alba dapprima tinge di rosso le cime più alte con i suoi primi raggi e poi gradualmente raggiunge le valli sottostanti, così il sistema etico che guidava i guerrieri attirò con il tempo fer­venti seguaci anche tra le masse. La democrazia elegge un leader tra il popolo, mentre l'aristocrazia gli trasmette il suo spirito no­bile. Le virtù non sono meno contagiose dei vizi. «Basta un uo­mo saggio in una società, perché tutti diventino saggi, tanto rapi­do è il contagio», dice Emerson. Nessuna classe o casta sociale può resistere al grande potere dell'influenza morale.

Possiamo parlare a lungo della marcia trionfale della libertà anglosassone, ma non possiamo certo affermare che essa abbia ri­cevuto impeto dalle masse, perché fu un'idea nata nelle menti dei gentiluomini. Con molta verità Taine dice: «Queste tre sillabe, così come sono concepite dall'altra parte della Manica, sintetiz­zano la storia della società inglese». I democratici potrebbero obiettare fiduciosamente a una simile affermazione ponendo la domanda: «E dov'erano i gentiluomini quando Adamo zappava ed Eva filava?». Ma fu un gran peccato che un gentiluomo non fosse presente nell'Eden! I nostri progenitori di certo ne sentiro­no amaramente la mancanza e pagarono un prezzo elevato per la sua assenza. Se fosse stato presente un gentiluomo, non solo il giardino sarebbe stato tenuto con maggior gusto, ma essi avreb-

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bero imparato, evitando la loro esperienza dolorosa, che la di­sobbedienza a Jeovah significava slealtà e disonore, tradimento e ribellione.

Il Giappone doveva ciò che era ai samurai. Essi non erano so­lamente il fiore della nazione, ma anche le sue radici. Tutti i beni­gni doni del Cielo ci venivano trasmessi grazie a loro. Sebbene si tenessero socialmente in disparte, il codice morale che avevano elaborato per se stessi guidò anche il resto della popolazione, gra­zie al loro esempio. È vero: il Bushido consisteva di insegnamen­ti sia esoterici sia essoterici; questi ultimi erano .eudemonici, ov­vero cercavano il benessere e la felicità della comunità; i primi era­no aretaici, ovvero enfatizzavano la pratica delle virtù per il suo valore intrinseco.

Ai tempi della Cavalleria in Europa i Cavalieri non rappre­sentavano che una piccola frazione numerica della popolazione, ma si potrebbe dire con Emerson che «nella letteratura inglese metà dei drammi teatrali e dei racconti, da quelli di Sir Philip Sid­ney a quelli di Sir W alter Scott, rappresentarono questa figura (del gentiluomo)». Se al posto di Sidney e Scott scrivessimo i nomi di Chikamatsu e di Bakin potremmo trasformare queste parole nel­la descrizione delle caratteristiche principali della storia letteraria del Giappone.

I tanti generi del divertimento e dell'istruzione popolare - i teatri, i baracchini dei cantastorie, i baldacchini dei predicatori, le recite musicali, i racconti - hanno scelto come tema principale le storie dei samurai. I contadini intorno al fuoco nelle loro capan­ne non si stancavano mai di ripetere le imprese di Yoshitsune e del suo fedele servitore Benkei, o dei due coraggiosi fratelli Soga; i monelli bruni ascoltavano con la bocca aperta finché l'ultimo tizzone non si spegneva e il fuoco moriva tra le sue braci, lasciando i loro cuori ardere al pensiero della storia appena raccontata. Gli impiegati e i commessi, quando la loro giornata lavorativa è fini­ta e l' amado (le saracinesche esterne) del negozio si abbassa, si riu­niscono per ascoltare la storia di Nobunaga e di Hideyoshi fino a notte tarda, finché il sonno non ha ragione dei loro occhi stan­chi e li trasporta dal lavoro ingrato al banco alle gesta del campo

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di battaglia. Al bimbo che inizia a gattonare vengono insegnate le avventure di Momotaro, il temerario conquistatore della terra de­gli Orchi. Persino le bambine amano talmente le gesta e le virtù cavalleresche che, come Desdemona, sono sempre pronte a divo­rare avidamente i romanzi dei samurai.

I samurai finirono per diventare il beau ideai dell'intera raz­za. Il popolo cantava: «Come tra i fiori il ciliegio è il re, tra gli uo­mini il samurai è il signore». Libera dalle preoccupazioni com­merciali, la classe militare non forniva alcun aiuto al commercio, ma non c'erano canali dell'attività umana - o vie del pensiero ­che non abbiano ricevuto in qualche misura un impulso dal Bu­shido. Il Giappone intellettuale e morale era direttamente o indi­rettamente opera della Cavalleria.

Mallock, nel suo suggestivo libro Aristocrazia ed evoluzione, ci ha eloquentemente spiegato che «l'evoluzione sociale, in quan­to diversa da quella biologica, potrebbe essere definita come il ri­sultato involontario delle intenzioni dei grandi uomini»; e anco­ra, che il progresso storico è prodotto da una lotta che non si svol­ge «all'interno della comunità in generale allo scopo di sopravvi­vere, ma tra piccole sezioni della comunità per emergere, dirige­re e utilizzare la massa nel modo migliore». Qualsiasi cosa si pos­sa dire sul buon senso di questi argomenti, tali affermazioni so­no ampiamente verificabili nel ruolo che hanno avuto i bushi nel periodo di massimo progresso sociale del nostro impero.

Il modo in cui lo spirito del Bushido permeò tutte le classi so­ciali è dimostrato anche dalla nascita di una certa categoria di uo­mini, noti come «otoko-date», i capi naturali del popolo. Essi era­no uomini leali, forti e virili: allo stesso tempo portavoci e custo­di dei diritti del popolo, ognuno di essi aveva centinaia o persino migliaia di seguaci che offrivano loro volontariamente, come il sa­murai faceva per il daimio, «anima e corpo, beni e onori terreni». Spalleggiati da tale vasta moltitudine di lavoratori temerari e im­petuosi, questi capi carismatici svolgevano un ruolo di controllo e di freno sull'ordine degli uomini con le due spade.

Il Bushido si diffuse dalla classe sociale in cui fu originato in molteplici modi e ,penetrò in mezzo alle masse, tra le quali fer-

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mentò, divenendo un modello di comportamento morale per tut­to il popolo. I Precetti della Cavalleria, nati come stile nobile di comportamento di un'élite, divennero con il tempo un'aspira­zione e un'ispirazione per la nazione intera; e sebbene la popola­zione non potesse raggiungere l'altezza morale delle anime più nobili, lo Yamato Damashi (l'anima del Giappone) arrivò in de­finitiva a esprimere il Volksgeist dell'Impero. Se è vero che la re­ligione non è altro che la «moralità animata dall'emozione», co­me la definisce Matthew Arnold, pochi sistemi etici possono van­tare maggiori diritti del Bushido a essere qualificati come religio­ne. Motoori ha tradotto in parole il muto sentimento del Paese intero:

«Oh isole del Giappone benedetto! Dovessero gli stranieri cercare di sondare lo spirito di Yamato, Dite che esso è il bel fiore selvatico di ciliegio che profuma l'aria del mattino soleggiatol».

Sì, il sakura è da sempre il fiore preferito dal nostro popolo e l'emblema del nostro carattere. Sono in particolare da notare i ter­mini usati dal poeta: «il bel fiore selvatico di ciliegio che profuma l'aria del mattino soleggiato>>.

Lo spirito di Yamato non è una pianta docile e tenera, ma un albero selvatico, naturale; è una pianta indigena: le sue qualità po­trebbero apparire simili a quelle dei fiori di altre terre, ma nella sua essenza rimane un prodotto originale e spontaneo del nostro clima. La sua origine però, non è il solo motivo del nostro affet­to. La raffinatezza e la grazia della sua bellezza fanno appello al nostro senso estetico come nessun altro fiore. Non possiamo con­dividere l'ammirazione degli europei per le loro rose, né ci piace la tenacia con cui esse si aggrappano alla vita come se fossero re­stie o terrorizzate all'idea di morire cadendo prematuramente, preferendo così marcire sul loro stelo; i colori sgargianti e il pro­fumo penetrante della rosa hanno caratteristiche troppo diverse dal nostro fiore, il quale non nasconde spade o veleno sotto la sua

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bellezza ed è sempre pronto ad abbandonare la vita quando la na­tura lo chiama; i suoi colori non sono mai eccessivi e il suo leg­gero profumo non è mai nauseante. La bellezza del suo colore e della sua forma si mostra con pudore: rappresenta una qualità fis­sa dell'esistenza, mentre la sua fragranza è volatile, eterea come il soffio della vita. E infatti in tutte le cerimonie religiose l'incenso e la mirra svolgono un ruolo fondamentale. Gli aromi posseggo­no un'essenza spirituale. Poche sensazioni sono più soavi e ras­serenanti di quella che si risveglia quando la deliziosa fragranza dell'albero di cìliegio ( «sakura») vivifica l'aria del mattino, come se fosse l'anima stessa di un magnifico giorno, mentre il sole si le­va all'orizzonte, illuminando come prima cosa le isole dell'Estre­mo Oriente.

E se il Creatore stesso è rappresentato nell'atto di prendere in cuor suo nuove decisioni mentre aspira un dolce profumo ( Gen., VIII, 21 ), può forse essere una sorpresa che la stagione dolcemente profumata dei fiori di ciliegio spinga l'intera nazione a uscire dal­le sue piccole abitazioni? Non si può davvero biasimare i giap­ponesi se per un certo periodo le loro membra dimenticano il la­voro e i loro cuori si scordano di pungoli e dolori. Il loro breve piacere finisce, ed essi tornano ai compiti quotidiani con forza rin­novata e nuove risoluzioni. Il sakura è davvero il fiore della Na­zione, non per una sola, ma per molte ragioni.

Ma è poi questo fiore, così dolce ed evanescente, pronto a es­sere trasportato ovunque il vento lo voglia spingere e, pur diffon­dendo l'alito del suo profumo, pronto a svanire per sempre, è pro­prio questo fiore il simbolo dello spirito di Yamato? È, l'anima del Giappone, davvero tanto fragile e mortale?

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Il Bushido è ancora vivo?

La civiltà occidentale, nella sua marcia trionfale che sta attra­versando il mondo, ha forse già cancellato ogni traccia di questa antica disciplina, il Bushido?

Sarebbe una cosa ben triste se l'anima di una nazione potesse morire così rapidamente. N o n può che essere una povera anima quella che soccombe così facilmente alle influenze straniere. L'in­sieme degli elementi psicologici che costituiscono un carattere na­zionale è tenace quanto «gli elementi peculiari di ogni specie: le pinne dei pesci, il becco degli uccelli, i canini dei carnivori». Nel suo recente libro, pieno di affermazioni superficiali e di genera­lizzazioni brillanti, LeBon1 dice: «Le scoperte dovute all'intelli­genza costituiscono il patrimonio comune dell'umanità; le qua­lità o i difetti del carattere costituiscono il patrimonio esclusivo di ogni popolo: essi sono la salda roccia su cui l'acqua scorre gior­no dopo giorno per secoli, prima di riuscire a smussare la sua su­perficie esteriore». Sono parole forti, e sarebbero estremamente degne di riflessione, ammesso che ci siano qualità e difetti carat­teriali che costituiscono il patrimonio esclusivo di ogni popolo. Ta­li schematizzazioni teoriche sono state proposte molto tempo prima che LeBon iniziasse a scrivere il suo libro, e furono a suo tempo confutate da Theodor Waitz e da Hugh Murray. Studian­do le varie virtù istillate dal Bushido abbiamo avuto modo di in­staurare paralleli e fare confronti con varie fonti europee, e ab-

' The Psychology of Peoples, p. 33.

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biamo visto che nessuna qualità del carattere è patrimonio esclu­sivo di un popolo. È però vero che l'insieme delle qualità morali presenta un aspetto unico, ed è questo insieme che Emerson de­finisce «il risultato composito in cui ogni grande forza entra co­me coefficiente». Ma invece di farne, seguendo l'esempio di Le­Bon, il patrimonio esclusivo di una razza o di un popolo, il filo­sofo Concord lo definisce «un elemento che unisce le persone più impetuose di ogni Paese; fa in modo che si comprendano e con­cordino tra loro; e questo elemento è in qualche modo così net­to, da far registrare immediatamente in un individuo la mancan­za del cosiddetto "segno massonico"».

Non si può dire che il carattere impresso dal Bushido nella no­stra nazione e nel samurai in particolare abbia costituito «un ele­mento peculiare della specie», ma non vi sono dubbi che esso si sia mantenuto estremamente vitale nella nostra razza. Anche se il Bushido consistesse di sola forza fisica, lo slancio che ha acqui­stato negli ultimi settecento anni non potrebbe arrestarsi all'im­provviso, e anche se fosse trasmesso solo per eredità, la sua in­fluenza si sarebbe diffusa immensamente. Pensate solo che, se­condo i calcoli dell'economista francese Cheysson, ci sono circa tre generazioni in un secolo, e dunque «ognuno di noi avrebbe nelle sue vene il sangue di almeno venti milioni di persone vissu­te nel 1 000 d.C.». Il più comune dei contadini che dissoda il suo­lo, «piegato dal peso dei secoli», ha nelle sue vene il sangue dei nostri stessi antenati ed è quindi nostro fratello quanto è fratello del «bue».

Forza inconscia e irresistibile, il Bushido ha mosso la nazione e gli individui. Yoshida Shoin, uno dei più brillanti precursori del Giappone moderno, ha reso un'onesta confessione come rappre­sentante della sua razza, quando scrisse alla vigilia della sua ese­cuziOne:

«Che questa via conducesse alla morte, lo sapevo con sicurezza: ma lo spirito di Yamato mi ha spinto a osare, qualunque cosa accadesse».

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Il Bushido è ancora vivo?

Pur non essendo stato codificato, il Bushido era ed è ancora lo spirito che anima il nostro Paese, la sua forza motrice.

Ransome sostiene che «esistono tre tipi distinti di Giappone oggi, che convivono fianco a fianco: l'antico, che non è ancora del tutto estinto; il nuovo, che non è ancora nato se non in nuce; e quel­lo transitorio, che sta ora passando attraverso le doglie più acute del parto». Questo è vero per alcuni versi, e in particolare per quanto riguarda le istituzioni concrete e tangibili; eppure tale af­fermazione, se applicata alle fondamentali nozioni etiche, richie­de alcune rettifiche, perché il Bushido, allo stesso tempo creatore e prodotto dell'antico Giappone, è tuttora il principio-guida del­la transizione e si dimostrerà la forza formatrice della nuova èra.

I grandi uomini di Stato che guidarono il nostro Paese attra­verso la tempesta della Restaurazione e il vortice del rinnova­mento nazionale erano uomini che non conoscevano altro inse­gnamento morale che i Precetti della Cavalleria. Alcuni autori2 hanno cercato di provare che i missionari cristiani contribuirono notevolmente alla creazione del nuovo Giappone. Lungi da me negare l'onore a chi lo merita, ma questo onore difficilmente può essere accordato ai buoni missionari, cui sarebbe più confacente attenersi all'ingiunzione delle loro Sacre scritture, preferendo un solo onore a ogni altro, piuttosto che avanzare rivendicazioni che non hanno alcun diritto di pretendere. Personalmente, credo che i missionari cristiani stiano compiendo grandi cose per il Giap­pone nel campo dell'educazione, e specialmente di quella mora­le, ma l'opera segreta, benché sicura, dello Spirito è ancora na­scosta nel mistero divino. Le loro opere, di qualunque tipo siano, hanno tuttora effetti indiretti, e per molto che le missioni cristia­ne abbiano realizzato, questo molto è ancora ben poco visibile nel carattere del nuovo Giappone. N o, fu solo e semplicemente il Bu­shido a spingerei in avanti, verso la prosperità e la ricchezza, o ver­so il disastro. Leggete le biografie dei creatori del Giappone mo­derno (Sakuma, Saigo, Okubo, Kibo, per non menzionare lto,

' Speer: Missions and Politics in Asia, Lezione IV, pp. 1 89-192; Dannis: Ch­ristian Missions and Social Progress, Vol. I, p. 32, Vol. II, p. 70, ecc.

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Bushido. L'anima del Giappone

Okuma e ltagaki) e troverete che fu sotto l'influenza dello spiri­to dei samurai che essi pensarono e operarono. Quando Henry Norman dichiarò, dopo aver studiato e osservato l'Estremo Oriente, che il solo aspetto in cui il Giappone differiva dagli altri dispotismi orientali riguardava «l'influenza dominante esercitata sul suo popolo dal codice d'onore più severo, elevato e punti­glioso che l'uomo sia mai riuscito a elaborare», indicava la fonte principale da cui era nato il Nuovo Giappone, e che lo influen­zerà anche in futuro.3

La trasformazione del Giappone è ormai palese a tutto il mon­do. Alla realizzazione di un'opera di tale grandezza concorsero naturalmente vari fattori ma, se dovessimo nominarne uno in par­ticolare, non esiteremmo a chiamare in causa il Bushido. Quando aprimmo il Paese al commercio straniero, quando introducemmo i più recenti miglioramenti in ogni settore della vita, quando ini­ziammo a studiare la politica e le scienze occidentali, il motivo che ci guidava non era lo sviluppo delle nostre risorse fisiche e l' au­mento della ricchezza; molto meno si trattava di una cieca imita­zione delle abitudini occidentali.

Un osservatore attento delle istituzioni e dei popoli orientali ha scritto:

«Ci viene così spesso ripetuto quanto l'Europa abbia influen­zato il Giappone, che dimentichiamo che il cambiamento di quel­le isole è avvenuto unicamente a opera del suo popolo: gli euro­pei non hanno insegnato nulla al Giappone, è stato il Giappone stesso a scegliere di apprendere dall'Europa metodi di organiz­zazione, civili e militari, che si sono dimostrati finora efficaci. Il Giappone ha importato dall'Europa la scienza meccanica, come i Turchi in passato importavano l'artiglieria europea. Questa non si può certo chiamare influenza, a meno che non ammettiamo pu­re che l'Inghilterra sia influenzata dalla Cina perché ne compra il tè. Dov'è l'apostolo, il filosofo, lo statista o l'agitatore europeo che ha ricostruito il Giappone?»'.

' The Far East, p. 375. ' Meredith Townsend, Asia an d Europe, p. 28.

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Il Bushido è ancora vivo?

Townsend ha pedettamente compreso che la fonte dell'azio­ne che ha permesso il mutamento del Giappone risiedeva intera­mente dentro di noi; e se egli avesse sondato anche soltanto su­pedicialmente la nostra psicologia, la sua acuta capacità di osser­vazione lo avrebbe facilmente convinto che questa fonte non po­teva essere altro che il Bushido. Il senso dell'onore, che non può sopportare di essere guardato dall'alto in basso come se fosse un potere inferiore: quella fu la più forte delle nostre motivazioni. Le considerazioni di tipo finanziario o industriale entrarono in gioco più tardi, durante il processo di trasformazione.

L'influenza del Bushido è tuttora così palpabile, che a colui che ancora ne dubita basterebbe dare un'occhiata all'odierna vita giap­ponese per rendersene conto. Gli basterebbe leggere Hearn, il più eloquente e fedele interprete della mentalità giapponese, per capi­re che la nostra mente segue ancora i dettami del Bushido. È qua­si inutile, per esempio, menzionare la gentilezza, un patrimonio che il nostro popolo ha ricevuto in eredità dai Cavalieri. La sop­portazione fisica, la forza d'animo e il coraggio che il «piccolo giap» possiede, sono stati dimostrati a sufficienza durante la guerra sino­giapponese5. «Esiste forse una nazione più leale e patriottica della nostra?», si chiedono in molti; e se l'orgogliosa risposta è «No, non esiste», dobbiamo ringraziare i Precetti della Cavalleria.

D'altra parte, è giusto riconoscere che il Bushido è in gran par­te responsabile anche degli errori e dei difetti del nostro caratte­re. La nostra carenza nella capacità di astrazione filosofica (alcu­ni dei nostri giovani si sono già fatti una reputazione internazio­nale nelle ricerche scientifiche, ma nessuno di loro ha raggiunto alcunché di notevole negli studi filosofici) è rintracciabile nella negligenza del sistema educativo del Bushido nell'addestramento metafisico. Il nostro senso dell'onore è la causa della nostra sen­sibilità e della nostra suscettibilità, spesso esagerate; e se in noi c'è la presunzione di cui ci accusano alcuni stranieri, anch'essa è un prodotto patologico del senso dell'onore.

' Tra le altre opere sull'argomento, vedi Eastlake e Yamada, sul <<Giappone eroico» e Diosy sul «nuovo estremo Oriente».

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Bushido. L'anima del Giappone

Visitando il Giappone si possono vedere molti giovani con i capelli spettinati, vestiti con abiti dimessi, che portano in mano un grande bastone o un libro, e si aggirano per le strade con un'a­ria di estrema indifferenza per le cose di questo mondo. Sono gli shosei (studenti), personaggi per cui la terra è troppo piccola e il Cielo non abbastanza alto. Essi hanno le proprie teorie sull'uni­verso e sulla vita, dimorano nei castelli in aria e si nutrono delle parole eteree della saggezza, nei loro occhi arde il fuoco dell'am­bizione, la loro mente è assetata di sapere. La povertà è uno sti­molo che li spinge in avanti, perché considerano i beni terreni so­lo delle catene alla libertà del loro carattere. Essi sono i deposita­ri della lealtà e del patriottismo. Si sono eletti a guardiani dell'o­nore nazionale e, con le loro virtù e i loro difetti, rappresentano l'ultimo frammento del Bushido.

Ho già avuto modo di affermare che l'influenza del Bushido, profondamente radicata e potente, è inconscia e muta. Il cuore del popolo risponde, senza conoscerne la ragione, a qualsiasi appel­lo provenga da questo patrimonio, e la stessa idea morale assume un grado di efficacia molto differente se viene espressa in termi­ni di recente adozione o negli antichi termini cari al Bushido. Un apostata cristiano, che nessuna predica pastorale era riuscito a sal­vare da una rovinosa caduta verso il basso, fu redento da un ap­pello indirizzato alla lealtà e alla fedeltà che un tempo egli aveva giurato al suo maestro. La parola «lealtà» fece rivivere tutti i suoi nobili sentimenti, che si erano con il tempo intiepiditi. Un grup­po di giovani indisciplinati, che si era impegnato in un prolunga­to «sciopero studentesco» in un college per protesta contro un certo insegnante, fu ricondotto a più miti propositi da due sem­plici domande poste dal preside: «Il vostro professore ha un ca­rattere irreprensibile? Se è così, dovreste rispettar! o e accettarlo. È un debole? In questo caso, non sarebbe degno di un uomo spin­gere qualcuno che è già sull'orlo del precipizio». L'incapacità ac­cademica di questo professore, che era la causa del problema, per­se di significato in confronto alle questioni morali poste dal pre­side. Ridestando i sentimenti nutriti dal Bushido, si può realizza­re un rinnovamento morale di grande portata.

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Il Bushido è ancora vivo?

Una causa del fallimento dell'opera delle missioni risiede nel­la totale ignoranza della nostra storia da parte della maggior par­te dei missionari: «Che ci importa delle antiche cronache paga­ne? >> dicono alcuni, e con questa mentalità rendono estranea la lo­ro religione al modo di pensare su cui noi e i nostri padri ci sia­mo formati per secoli. Come se la storia di una qualsiasi nazione, fosse anche la più selvaggia delle popolazioni africane, che non possiede alcun documento delle proprie cronache, fosse irrile­vante nella storia generale dell'umanità, scritta dalla mano di Dio stesso! Anche le razze estinte costituiscono un palinsesto che de­ve essere decifrato da un occhio sapiente. Per una mente filosofi­ca e religiosa le razze stesse sono i segni della calligrafia divina, chiaramente tracciati in bianco e nero sulla pelle dei popoli; e, se mi si accetta questa similitudine, potrei dire che alla razza gialla corrisponde una pagina preziosa, iscritta in geroglifici d'oro! I missionari giustificano la loro indifferenza nei confronti del pas­sato di un popolo, affermando che il Cristianesimo è una religio­ne nuova, mentre, secondo la mia mentalità, è una «vecchia, vec­chia storia>>. Il Cristianesimo, nella sua forma americana o ingle­se, piena delle bizzarrie e delle fantasie degli anglosassoni più che della grazia e della purezza del suo fondatore, è un misero inne­sto sul tronco del Bushido. C'è da chiedersi se sia possibile per i propagatori della· nuova fede sradicare l'intero tronco, le radici e i rami, per piantare i semi del Vangelo su un suolo devastato. Un processo di tale portata potrebbe essere possibile nelle Hawaii, dove pare che la Chiesa militante stia avendo pieno successo nel­l'ammassare immense ricchezze e nell'annullare la razza indige­na; un processo di questo genere è praticamente impossibile in Giappone, e si tratta certo di un metodo che Gesù non avrebbe mai adottato per fondare il suo regno sulla terra.

Mi sembra doveroso prendere a cuore le parole di un uomo santo, cristiano devoto e studioso di profonda cultura:

«Gli uomini hanno diviso il mondo in pagani e cristiani, sen­za considerare quanto di buono possa essere nascosto nell'uno o quanto di malvagio possa celarsi nell'altro. Essi hanno messo a confronto la parte migliore di loro stessi con quella peggiore dei

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Bushido. L'anima del Giappone

loro vicini, l'ideale del Cristianesimo con la corruzione della Gre­cia o dell'Oriente. Non si può dire che mirassero all'imparzialità: si sono accontentati di accumulare tutto ciò che di lodevole si può dire di se stessi, svilendo le altre forme di religione>>6•

Ma, indipendentemente dagli errori commessi dagli individui, ci sono pochi dubbi che il principio fondamentale del Cristiane­simo rappresenti una forza che dobbiamo prendere in considera­zione pensando all'avvenire del Bushido, i cui giorni sembrano ormai contati. Segni infausti nell'aria presagiscono il suo futuro. Non solo: si stanno manifestando anche forze temibili e minac­ciOse.

' Jowett, Sermons on Faith and Doctrine, II.

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Il futuro del Bushido

Pochi paralleli storici possono essere posti con maggior fon­datezza di quelli tra la Cavalleria europea e il Bushido giappone­se, per cui, se è vero che la storia si ripete, il fato di quest'ultimo seguirà probabilmente quello della prima. Le cause particolari e locali del decadimento della Cavalleria riferite da Sainte Palaye si applicano ben poco alle condizioni giapponesi; ma le cause più ampie e generali, che concorsero a indebolire la Cavalleria euro­pea durante e dopo il Medio Evo, sono sicuramente già all'opera per distruggere il Bushido.

C'è però una notevole differenza tra l'esperienza europea e quella del Giappone: mentre in Europa, quando la Cavalleria si svezzò dal Feudalesimo e fu adottata dalla Chiesa, si arricchì di una nuova prospettiva di vita, in Giappone nessuna religione fu abbastanza grande da poter accogliere il Bushido. Quando l'isti­tuzione madre - il Feudalesimo - scomparve, essa lasciò un orfa­no, e il Bushido dovette trasformarsi per sopravvivere. L'attuale organizzazione militare potrebbe adottarlo, ma sappiamo che la guerra moderna può accordare ben poco spazio al suo sviluppo. Lo stesso Shintoismo, che lo nutrì, facendolo uscire dall'infanzia, è ormai obsoleto. I parvenu intellettuali e i filosofi più moderni hanno soppiantato i saggi dell'antica Cina, e sono state inventate e proposte comode teorie morali che corteggiano le tendenze na­zionalistiche del tempo, ritenute adatte alle esigenze di questi giorni; ma per ora sentiamo solamente le loro voci insistenti che echeggiano dalle colonne del giornalismo orientale.

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Bushidi5. L'anima del Giappone

I poteri dello Stato sono schierati contro i Precetti della Ca­valleria. Di già, come sostiene Veblen, «il decadimento del codi­ce cerimoniale - o, come è chiamato altrimenti, l'involgarimen­to della vita tra le classi propriamente industriali - è considerato una delle principali mostruosità dell'odierna civiltà da tutte le persone di una certa sensibilità>> . L'onda irresistibile della demo­crazia trionfante, che non può tollerare alcuna forma di lealismo - e il Bushido era un lealismo organizzato da chi aveva il mono­polio dell'intelletto e della cultura e fissava i gradi e il valore del­le qualità morali - è da sola abbastanza potente da fagocitare ciò che resta del Bushido. Le forze della società odierna sono in an­tagonismo con il chiuso e soffocante spirito di classe, e la Caval­leria è animata dallo spirito di classe. La società moderna, se mi­ra a raggiungere una qualche unità, non può ammettere al suo in­terno «vincoli fondati su base puramente personale, concepiti nell'interesse di una sola classe»1• Aggiungete il progresso dell'i­struzione popolare, delle arti e delle tecniche industriali, lo svi­luppo della ricchezza e della vita cittadina, e si potrà facilmente capire che né i tagli più precisi della spada dei samurai né le frec­ce più affilate lanciate dagli arcieri più arditi potranno salva­guardare il Bushido. Lo Stato costruito sulla roccia dell'onore e fortificatosi grazie a essa - potremmo forse chiamarlo Ehren­staat? - sta per cadere nelle mani degli avvocati e dei loro cavilli e dei politici armati di strumenti di guerra, sordi alle argomenta­zioni logiche. Le parole usate da un grande pensatore al riguar­do di Teresa e di Antigone possono essere riferite anche ai sa­murai: «L'ambiente in cui le loro ardenti imprese presero forma è scomparso per sempre>> .

Addio virtù cavalleresche! Addio orgoglio del samurai! La moralità annunciata e penetrata nel mondo con squilli di trombe e rulli di tamburi è destinata a svanire, così come «se ne vanno an­che i capitani e i re».

Se la storia può mai insegnarci qualcosa, ci dice che lo Stato costruito sulle virtù marziali - che sia una città come Sparta o un

' Norman Conquest, Vol. V, p. 482.

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Il futuro del Bushido

impero come Roma - non potrà mai costituire una civiltà eterna. Benché l'istinto combattivo sia universale e naturale nell'uomo, e abbia dimostrato di saper coltivare nobili sentimenti e virtù viri­li, non esaurisce tutto ciò che è un uomo. Dietro l'istinto del com­battimento si nasconde l'istinto divino di amare: lo Shintoismo, Mencio e Wan Yang Ming lo hanno tutti chiaramente insegnato; ma il Bushido, e con esso tutti gli altri tipi di etica militare, domi­nato indubbiamente com'era da questioni di immediata praticità, ha troppo spesso dimenticato di riconoscerne la debita impor­tanza. La vita si è dilatata, in questi ultimi tempi. Missioni più no­bili e ampie di quella del guerriero attraggono la nostra attenzio­ne oggi. Con una visione della vita più ampia, con la crescita del­la democrazia e con una conoscenza più approfondita degli altri popoli e nazioni, l'idea confuciana di benevolenza - potrei forse dire anche l'idea buddhista di pietà? - si allargherà a includere il concetto cristiano di amore. Gli uomini non sono più solo sud­diti, sono cresciuti allo stato di cittadini, anzi, sono di più: sono uomini. Anche se le nubi di guerra stazionano grevi sul nostro orizzonte, crediamo che le ali dell'angelo della pace le possano di­sperdere. Sarebbe un ben magro guadagno se una nazione ven­desse il suo diritto alla pace, scivolando dalla prima fila dei Paesi industrializzati per finire nelle file della pirateria!

Poiché le condizioni della società sono tanto cambiate da es­sere diventate non solo poco favorevoli, ma persino ostili al Bu­shido, è tempo che esso si prepari a un'onorevole sepoltura. È dif­ficile definire il momento della morte della Cavalleria quanto de­terminare l'esatto tempo della sua nascita. Miller dice che la Ca­valleria fu formalmente abolita nel 1 559, quando Enrico II di Francia fu ucciso in un torneo. Da noi l'editto che soppresse for­malmente il Feudalesimo nel 1 870 rappresentò il primo dei rin­tocchi a morte per il Bushido. Cinque anni più tardi, l'editto che proibì di portare la spada celebrò, al suono di una marcia fune­bre, l'uscita del vecchio - «la grazia innata della vita, la difesa a ca­ro prezzo della nazione, la nutrice dei sentimenti virili e delle im­prese eroiche>> - e accolse la nuova era dei «sofisti, degli econo­misti e dei calcolatori>>.

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È stato sostenuto che il Giappone abbia vinto la sua ultima guerra contro la Cina grazie ai fucili Murata e ai cannoni Krupp; è stato detto anche che la vittoria fosse opera di un moderno si­stema educativo; ma queste non sono che mezze verità. Potreb­be un pianoforte, che sia opera di Ehrbar o di Steinway, suonare le Rapsodie di Liszt o le Sonate di Beethoven senza la mano di un maestro? E se è vero che i cannoni vincono le battaglie, perché Luigi Napoleone non ha battuto i prussiani con i suoi cannoni o gli spagnoli con le loro Mauser non hanno avuto ragione dei fi­lippini, le cui armi si limitavano ai Remington di vecchio tipo? Non è necessario ripetere un detto trito e ritrito, e cioè che, sen­za lo spirito che lo anima, il migliore degli strumenti non vale un granché. Le pistole e i cannoni non sparano per volontà propria; il sistema educativo più moderno non fa di un codardo un eroe. No! A vincere nelle battaglie sullo Yalu, in Corea e in Manciuria, furono gli spiriti dei nostri padri, i quali guidano ancora le nostre mani e battono nei nostri cuori. Quei fantasmi - gli spiriti dei no­stri antenati guerrieri - non sono morti. Per chi abbia occhi per vedere, essi sono chiaramente visibili. Grattate via dalla superfi­cie di un giapponese le idee più avanzate, ed egli rivelerà il samu­rai che è in lui. Il grande patrimonio di onore, valore e di tutte le virtù marziali, come giustamente ha espresso il professar Cramb, «ci è stato affidato, ed è il feudo inalienabile delle generazioni pas­sate e di quelle future»; l'imperativo del presente consiste dunque nel custodire questa eredità e nel non perdere nulla di quell'anti­co spirito; l'imperativo del futuro sarà quello di ampliare la sua portata, nonché di applicarla a tutti gli ambiti e a tutte le relazio­ni vitali.

È stato predetto - e le predizioni si basano sull'analisi degli eventi dell'ultimo mezzo secolo - che il sistema morale del Giap­pone feudale, come i suoi castelli e le sue armature, crollerà nella polvere, e che una nuova etica sorgerà come la fenice, per porta­re il Nuovo Giappone sul sentiero del progresso. Per desiderabi­le e probabile che sia il compimento di tale profezia, non dob­biamo dimenticare che una fenice risorge solo dalle proprie ce­neri, e che non è un uccello di passaggio, rié vola con penne pre-

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se in prestito da altri uccelli. «Il Regno di Dio è dentro di voi». Esso non arriverà scendendo dalle montagne, per quanto elevate, né navigando attraverso i mari, per quanto immensi. «Dio ha pro­messo a ogni popolo», dice il Corano, «un profeta che parli nel­la sua stessa lingua». I semi del Regno, t estati e assorbiti dalla me n­te giapponese, fiorirono nel Bushido. È triste costatare che i suoi giorni stanno finendo prima che i fiori abbiano dato pieni frutti; noi ora ci volgiamo in ogni direzione per trovare altre fonti di for­za e di benessere, ma tra esse non troviamo ancora nulla che pos­sa prendere il suo posto. La filosofia della perdita e del profitto professata dagli utilitaristi e dai materialisti trova favore presso i razionalisti dalla «mezza anima». L'unico altro sistema etico ab­bastanza potente da tener testa all'utilitarismo e al materialismo è il Cristianesimo, a paragone del quale il Bushido, bisogna am­metterlo, è come «un lucignolo che brucia debolmente» e la cui fiamma, secondo quanto fu proclamato, il Messia non sarebbe ve­nuto per spegnere, bensì per ravvivare. Come fecero i profeti ebraici precursori di Cristo, in particolare Isaia, Geremia, Amos e Abacuc, il Bushido diede somma importanza alla condotta mo­rale dei governanti, degli uomini pubblici e delle nazioni, mentre l'etica di Cristo, che dà dignità agli individui e che si occupa es­senzialmente della condotta di vita dei suoi adepti, troverà sem­pre più applicazioni pratiche, come l'individualismo, il cui pote­re, grazie alla sua valenza morale, cresce continuamente. La mo­ralità dominatrice, assertiva, «del Signore» propugnata da Nietz­sche, affine per certi versi al Bushido è, se non mi sbaglio, una fa­se passeggera o una reazione temporanea a ciò che questo filosofo definisce la distorsione malsana della moralità «da schiavo», del­l'umiltà e dell'abnegazione del Nazareno.

Il Cristianesimo e il materialismo (incluso l'utilitarismo) - o forse il futuro li ridurrà a forme ancora più arcaiche di ebraismo e di ellenismo? - si spartiranno il mondo. I sistemi morali infe­riori si alleeranno al fianco dell'uno o dell'altro per rimanere in vita. Da quale parte si schiererà il Bushido? Non avendo dogmi o formule prestabilite da difendere, può permettersi di sparire co­me entità perché, come il fiore di ciliegio, è pronto a morire al pri-

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mo alito di brezza mattutina. Ma una totale estinzione non sarà mai il suo destino. Chi può dire che lo stoicismo sia morto? È morto come sistema, ma è vivo come virtù: la sua energia e la sua vitalità si percepiscono ancora in tutti gli ambiti della vita, nella filosofia delle nazioni occidentali come nella giurisprudenza di tutto il mondo civilizzato. No: ovunque l'uomo lotti per elevar­si, ovunque il suo spirito domini la carne tramite i suoi stessi sfor­zi, vedremo all'opera la disciplina immortale di Zenone.

Il Bushido come codice etico indipendente potrebbe svanire, ma il suo potere non scomparirà dalla terra; le scuole di arti mar­ziali o di onore civico potrebbero essere soppresse, ma il suo spi­rito combattivo e la sua gloria sopravvivranno a lungo sulle pro­prie rovine. Come il fiore che lo rappresenta, dopo essere stato disperso ai quattro venti, benedirà ancora gli uomini, continuan­do a profumare la loro vita. Molto tempo dopo che le sue usanze saranno morte e sepolte e il suo nome dimenticato, le sue fra­granze fluttueranno nell'aria come provenienti da una collina che appare in lontananza. E allora, come canta dolcemente il poeta quacchero:

«Il viandante sentirà gradito il senso di dolcezza vicina, non saprà donde gli venga, ma, indugiando, riceverà sulla nuda fronte la benedizione dell'aria».

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Indice

Prefazione alla prima edizione 7 Prefazione alla decima edizione 9 Il Bushido come sistema etico 13 Le fonti del Bushido 18 La rettitudine, o giustizia 24 Il coraggio, lo spirito dell'audacia e della sopportazione 27 La benevolenza, o empatia 32 La cortesia 40 La veracità, o sincerità 46 L'onore 52 Il dovere di lealtà 57 L'educazione e l'addestramento di un samurai 63 Il dominio di se stessi 68 Le istituzioni del suicidio e della riparazione 73 La spada, anima del samurai 85 L'educazione e la posizione delle donne 89 L'influenza del Bushido 100 Il Bushido è ancora vivo? 105 Il futuro del Bushido 1 13