TIFLOLOGIA PER L’INTEGRAZIONE N. 4, ottobre-dicembre 2010. · 2017. 10. 3. · TIFLOLOGIA PER...
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TIFLOLOGIA PER L’INTEGRAZIONE N. 4, ottobre-dicembre 2010.
Trimestrale edito dalla Biblioteca Italiana per i Ciechi “Regina Margherita” Onluscon il contributo dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti e della Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi
Anno 20n.4 ottobre-dicembre 2010ISSN: 1825-1374
Reg. Trib. Roma n. 00667/90 del 14/11/90
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Finito di stampare il 15 settembre 2010
(logo USPI) Tiflologia per l’Integrazioneè associata all’USPIUnione Stampa Periodica Italiana
SOMMARIO
EditorialeLa formazione iniziale degli insegnantiPietro Piscitelli
PedagogiaLa multimedialita’ a scuola: da strumento ad ambiente di apprendimentoFrancesco Augello
Il ruolo della scuola e della famiglia alla luce delle linee guida per l’integrazione scolasticadegli alunni con disabilitàConcetta Rauso
PsicologiaToccare con mano l’arte plasticaAlberto Argenton
Esperienze didatticheGiorgetto l’animale che cambia aspetto e l’alfabeto BrailleAngela Maltoni, Maria Sanna
TestimonianzeIntegrazione come tappa essenziale nel cammino di un giovane non vedenteGabriele Sacchi
Per non sentirsi soliAnna Maria Senatore
Classici della tiflologiaLa personalità nell’educazione dei fanciulli non vedentiEnrico Ceppi
Indice 2010
LA FORMAZIONE INIZIALE DEGLI INSEGNANTI
Con decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del 10
settembre 2010, si è provveduto a dettare norme di disciplina dei requisiti e delle modalità
della formazione iniziale degli insegnanti della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e
della scuola secondaria di primo e secondo grado.
La formazione iniziale degli insegnanti è lo strumento precipuo per qualificare e
valorizzare la funzione docente attraverso l’acquisizione di competenze disciplinari, psico-
pedagogiche, metodologico-didattiche, organizzative e relazionali necessarie a far
raggiungere agli allievi i risultati di apprendimento previsti dall’ordinamento vigente per
ciascun ordine e grado di scuola.
Il legislatore ha ritenuto precisare che sia parte integrante della formazione iniziale dei
docenti anche l’acquisizione delle competenze necessarie allo sviluppo e al sostegno
dell’autonomia delle istituzioni scolastiche di cui al D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275, nonché
l’acquisizione delle competenze linguistiche di lingua inglese di livello B2 previste dal
“Quadro comune europeo di riferimento per le lingue” adottato nel 1996 dal Consiglio
d’Europa, delle competenze digitali previste dalla Raccomandazione del Parlamento europeo
e del Consiglio 18 dicembre 2006 e, infine, delle competenze didattiche atte a favorire
l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità.
Con il nuovo decreto si intende sostituire alle vecchie SSIS un percorso di lauree
magistrali specifiche, nel senso di corrispondenti e parallele a ciascuna classe di abilitazione,
combinatamente ad un anno di tirocinio coprogettato da scuole e università, concentrato nel
“passaggio dal sapere al saper insegnare”.
Più in particolare, in funzione dell’insegnamento in ciascun ordine e grado di scuola il
decreto pone requisiti e caratteristiche dei percorsi formativi:
• Per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria, un corso
di laurea magistrale quinquennale, a ciclo unico comprensivo di tirocinio (pari a
600 ore) da avviare a partire dal secondo anno di corso. Il corso è attivato presso
le Facoltà di Scienze della formazione e presso altre Facoltà autorizzate dal
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca cui si può accedere con
il possesso di un diploma di istruzione secondaria di secondo grado o di altro
titolo di studio conseguito all’estero e riconosciuto idoneo.
• Per l’insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado, un corso
di laurea magistrale biennale ad hoc ed un successivo anno di tirocinio
formativo attivo comprensivo dell’esame con valore abilitante.
• Per l’insegnamento delle discipline artistiche, musicali e coreutiche della scuola
secondaria di primo grado e di secondo grado, un corso di diploma accademico
di II livello ed un successivo anno di tirocinio formativo attivo (comprensivo
dell’esame con valore abilitante) attivati dalle università e dagli istituti di alta
formazione artistica, musicale e coreutica.
• Quanto alle attività di sostegno didattico destinate agli alunni con disabilità la
specializzazione relativa si consegue esclusivamente presso le Università in
attesa della istituzione di specifiche classi di abilitazione e della compiuta
regolamentazione dei relativi percorsi di formazione. I corsi sono a numero
programmato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
tenendo conto delle esigenze del sistema nazionale di istruzione e
presuppongono il superamento di una prova di accesso predisposta dalle
università. La specializzazione consente l’iscrizione negli elenchi per il sostegno
ai fini delle assunzioni a tempo indeterminato ed a tempo determinato sui
relativi posti disponibili.
Il direttore responsabile,prof. Pietro Piscitelli
LA MULTIMEDIALITÀ A SCUOLA: DA STRUMENTO AD AMBIENTE DI APPRENDIMENTO
Francesco Augello
[abstract] L’introduzione della multimedialità a scuola pone diversi interrogativi di
ordine non solo didattico, ma anche pedagogico, ridefinendo competenze ed abilità di
apprendimento [fine abstract]
Una domanda che molti insegnanti oggi si pongono è: cosa significa insegnare
nell'epoca della comunicazione multimediale? La scuola italiana, in un rapporto di scontro-
confronto, da alcuni anni è mossa, non priva di esitazioni, ad incoraggiare l’approccio
innovativo cui le tecnologie sottintendono; pedagoghi da una parte e scolari dall’altra sono
trascinati sempre più verso smisurati e diversificati flussi di comunicazione, da quella
tradizionale che si risolve in un vis a vis, a quella mediata, in modo alternato e secondo le
preferenze dell’utenza e dei bisogni del momento, dal sincronismo1 o dall’asincronismo
1 Nei sistemi sincroni (bit-stream) si realizza una continua sincronizzazione tra chi trasmette e chi riceve. Al contrario dei sistemi start-stop o asincroni, per stabilire la sincronizzazione vengono usati elementi che hanno una durata pari ad un multiplo intero della durata dell'elemento minimo del segnale.
digitale risolvendosi entrambi in quel neologismo di ultimo grido generazionale definito come
CMC, ovvero Comunicazione Mediata da Computer, che hanno un forte impatto sui processi
pedagogici ed edificanti della personalità dell’educando.
Il nostro modo di abitare e di comunicare all’interno di questo pianeta è stato
lentamente modificato ancora una volta dalla rivoluzione tecnologica che vede al suo operarsi
continui mutamenti e ridefinizione dei confini entro cui ciascun individuo comunica
orientandone e personalizzandone il modus vivendi.
A cose fatte, si sa, difficilmente è possibile tornare indietro, tutt’al più ci si può
chiedere, in un’ottica di puro costruttivismo, in che modo si possano sostenere questi
cambiamenti.
In tutte le epoche in cui qualcuno o qualcosa ha riorganizzato la rotta culturale e
comunicativa dentro e fuori la scuola2 è stato scrutato dagli insegnanti ora con un
preoccupazione che ne rende difficile la valorizzazione, ora con un impeto che rischia di
apparire smisurato alterando in tal modo i confini stessi pre-disegnati dal mutamento in atto.
L’uno e l’altro modo di porsi negano il formarsi di una cultura collettiva supportata da
un pensiero positivo che permetta alla produttività di conquistare e controllare al tempo stesso
la realtà in cui siamo immersi, al di là della trasformazione che va di pari passo con il
progresso evolutivo dell’uomo, certamente vero sul piano cognitivo e del dimostrare di saper
andare oltre.
Il binomio scuola-comunicazione, in un epoca in cui il ruolo del comunicare sembra
essere divenuto servo di quell’essere digitale che imbriglia sempre più grazie a quel suo saper
conferire indipendenza dal tempo e dallo spazio, come fosse uno dei più preziosi prodotti che
l’informatica possa rendere all’umanità3, dovrebbe, partendo da una visione interessata, ma
non intangibile, consentirci di ottenere il massimo rendimento dall'esperienza diretta di chi è
tutore della formazione e opera quotidianamente con e per gli alunni.
Gran parte della comunicazione, dell’informazione e della diffusione culturale del
sapere un tempo trovava la sua dimora al di là di una porta chiusa dietro la quale, unico
ambiente di apprendimento v’era l’aula, ove all’interno della stessa veniva intessuto un
rapporto bidirezionale docente-discente discente-docente, oggi dietro quella porta chiusa
troviamo, in aule allestite ad hoc, una finestra aperta sul mondo: Internet o The Net, come
amano definirla gli americani, divenuta un sistema di amplificazione della cultura e 2 Lo stesso Resnick nel saggio “Imparare dentro e fuori la scuola” giunge a domandarsi in che modo la scuola possa essere osservata come luogo e come tempo speciali per le persone che vi partecipano e quali misure possano o debbano essere prese in esame dal punto di vista organizzativo affinché possa divenire e dirsi finalmente tale.L. B. Resnik, "Imparare dentro e fuori la scuola", (pagg. 61-83), in "I contesti sociali dell'apprendimento", a cura di C. Pontecorvo, A.M. Ajello, C. Zucchermaglio, LED, 1995.3 Nicholas Negroponte, Prodotti e servizi per le reti informatiche, in Le scienze, 279 (1991) pp. 58-71;
dell’informazione, favorendo un allargamento degli orizzonti culturali e consegnando alla
scuola l’opportunità di distaccarsi da quel secolare modello di chiusura e, dunque, di
condividere e far veicolare i propri artefatti culturali in un ambiente in grado di accogliere
all’interno dei suoi svariati non luoghi, a loro volta operati dall’intelligenza umana, punti di
vista altri e remoti.
Il mondo personalizzato e personalizzabile del multimediale, alla cui genesi v’è il
calcolatore elettronico, ben si presta a svariate applicazioni didattiche superando quel recente
ed ancora presente modus operandi, come l’impiego del personal computer deputato ad
insegnare unicamente quanto già previsto dai curricula didattici tradizionali.
Superare dunque quel paradigma che pone il computer come oggetto di insegnamento,
per quanto continui ad essere definito come soluzione accettabile, significa orientare
l’insegnamento stesso verso nuove forme e modalità di apprendimento amplificando la
capacità umana, grazie al multimedia, di dialogare intorno ad un oggetto di apprendimento e
di essere in grado di agire cooperativamente in un luogo come la classe, ma anche in un non
luogo come Internet all’interno di ambienti di apprendimento ben strutturati in linea con le più
moderne valutazioni e indicazioni pedagogiche e che si concretizzano nella nuova agorà
multimediale del cooperative learning4.
Non è superfluo sottolineare come l’impiego e la corretta conoscenza della
multimedialità per l’apprendimento e la produzione di altro sapere, anche ai livelli più bassi,
pone in essere le strategie per la ridefinizione del gruppo classe sollecitando quest’ultimo ad
acquisire nuove competenze sulla base di una complessità organizzativa fondata sulla
numerosità del gruppo, dalla distribuzione spaziale e logistica dell’ambiente fisico, dalla
distribuzione, numero e caratteristiche operative e funzionali delle unità calcolatori posti in
rete, e naturalmente dalla complessità del lavoro prefissato. Basti pensare alle varie fasi che si
articolano come momenti di pre-elaborazione del prodotto multimediale, come la ricerca delle
fonti, delle immagini, la costruzione di oggetti animati, la gestione, codifica e
normalizzazione del suono, fino alla creazione di una story board, tutti elementi che
richiedono interazione basate sullo scambio di competenze, sull’arricchimento reciproco di
padronanze e abilità acquisite anche per scoperta, quella scoperta che rievoca quella modalità
di apprendimento significativo di Ausubeliana memoria. È necessario tuttavia evitare che
l’apprendimento diventi di tipo meccanico poiché, come hanno sottolineato le ricerche di 4 Il Cooperative Learning costituisce una specifica metodologia di insegnamento attraverso la quale gli studenti apprendono in piccoli gruppi, aiutandosi reciprocamente e sentendosi corresponsabili del reciproco percorso. L’insegnante assume un ruolo di facilitatore ed organizzatore delle attività, strutturando “ambienti di apprendimento” in cui gli studenti, favoriti da un clima relazionale positivo, trasformano ogni attività di apprendimento in un processo di “problem solving di gruppo”, conseguendo obiettivi la cui realizzazione richiede il contributo personale di tutti.Cfr. http://www.edscuola.org/archivio/comprensivi/cooperative_learning.htm.
Novak, esso non facilita anzi si oppone all’assimilazione delle nuove conoscenze e, nello
specifico della multimedialità, ne altererebbe o ne renderebbe incomprensibile le logiche che
la governano.
Qualunque sia il lavoro progettato esso svolgerà sul piano pedagogico anche un altro
aspetto fondamentale, ovvero l’avvicinamento delle negoziazioni, di conflitti e sinergie in
seno al gruppo stesso.
Sarà anche compito del docente riuscire a dare senso e qualità all’apprendimento che, se
ancora una volta volessimo far riferimento all’apprendimento significativo per scoperta,
dovremmo anche ricordare un concetto principe di tale teoria, ovvero la valorizzazione
dell’Assimilatore ove per Ausubel non è l’apprendimento mnemonico e di breve durata delle
nuove informazioni, ma unicamente un elemento importantissimo che si pone come collante
tra nuovi dati e dati specifici in fase di accomodamento ed elaborazione, al di sopra della
barriera percettiva dell’individuo, che esprime la totalità strutturale, con le informazioni
generali integrate nella struttura cognitiva.
Un altro aspetto che rende la multimedialità degna di essere inclusa nella sfera della
didattica è il contributo che essa fornisce in termini di “democraticità” della comunità che si
forma in rete. Infatti, il sapere individuale diventa, senza censure sull’attività di contributo, un
sapere comune, favorendo anche la simultanea presenza in non luoghi differenti e nello stesso
tempo per un agire non limitato dalle barriere della mobilità o delle limitazioni corporee, il
tutto arricchito, se in difetto di regole preconfezionate, dall’assenza di gerarchia o di
imposizioni su temi o argomenti.
Conclusioni
L'inserimento e la diffusione della cultura multimediale a scuola certamente non è
carente di problemi culturali e pratici.
L’esperienza maturata da alcune scuole dimostra come le attività di collaborazione e
partenariato tra le varie scuole che si attivano per promuovere progetti educativi come attività
extracurriculari per finalità di ricerca, per produrre ipermedia o semplicemente ipertesti,
riescono a dare a docenti e studenti meritate gratificazioni. Siamo certamente ancora distanti
da poter definire l’odierno corpo scolastico come improntato e plasmato dalla multimedialità,
anche perché quest’ultima spesso viene vista come attività ludica che per quanto istruttiva in
molte realtà scolastiche nulla aggiunge e nulla sottrae agli apprendimenti di base.
In virtù di questa carenza ed omogeneità di pensiero da parte dei pedagoghi, alcuni,
concordi sul fatto che debbano essere soprattutto gli insegnanti a dover imparare come
utilizzare gli strumenti multimediali, si pongono l’interrogativo sulle modalità di accesso alle
tecnologie: il patrimonio di conoscenze tecnologiche devono far parte dell'insegnamento
ancor prima di utilizzare lo strumento mediatico o è bastevole il semplice uso? Ed ancora, Il
semplice uso nello studio delle lingue, della matematica, delle scienze, della grammatica e
nello scrivere aiuta ad apprendere meglio le stesse abilità che si perseguono secondo il
modello didattico tradizionale o tutto ciò consente di far sviluppare abilità altre che
diversamente rimarrebbero precluse alla conoscenza? E se è così, le abilità tradizionali ne
vengono penalizzate? Le risposte potrebbero essere contrastanti, poiché la bussola didattica
deve comunque rimanere orientata verso la promozione di quel nord culturale,
dell’apprendimento e dell’insegnamento indipendentemente dal con-testo analogico o
virtuale, proprio per tale non utopica implicazione, è necessario ancor prima di risolvere
questi ed altri interrogativi, che la bussola intellettuale, in mano ai docenti, venga privata da
quella “declinazione magnetica” che come nelle bussole per la determinazione dei punti
cardinali, separa il nord magnetico da quello terrestre, alla stregua di quella distanza angolare
che separa la cultura digitale osannata dai progressisti dalla cultura analogica custodita dai
conservatori, entrambi oggetto di mutazioni continue dettate dai luoghi e dal tempo.
Bibliografia
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Varisco B.M., Mason L. (1989). Media, computer, società e scuola. Orientamenti per la
didattica in prospettiva multimediale e cognitivista. Torino: SEI.
Vergnano, I. (1975). Il problema della società educativa. Torino: Paravia.
Francesco Augello,docente a contratto in Tecnologie della didattica
e didattica multimediale
IL RUOLO DELLA SCUOLA E DELLA FAMIGLIA ALLA LUCE DELLE “LINEE GUIDA PER L’INTEGRAZIONE SCOLASTICA DEGLI ALUNNI CON DISABILITÀ”
Concetta Rauso
[abstract] Una analisi puntuale delle recenti linee guida pubblicate dal Ministero
dell’Istruzione mette in luce l’importanza del contesto nell’integrazione dello studente
disabile [fine abstract]
Premessa
Le linee guida, nate da un confronto tra dirigenti ed esperti del Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con la partecipazione delle associazioni dei
disabili, raccolgono varie direttive al fine di migliorare il processo di integrazione degli alunni
con disabilità nel rispetto dell’autonomia scolastica e della legislazione vigente.
Esse, sulla base di criticità emerse nella pratica quotidiana del fare scuola, forniscono
possibili soluzioni per orientare, nell’ambito delle rispettive competenze, gli Uffici Scolastici
Regionali, i Dirigenti scolastici e gli Organi collegiali.
L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità è un processo irreversibile
connotato da valenza pedagogica, culturale e sociale.
L’apertura delle classi normali ai disabili infatti ha alla base un’alta concezione
dell’istruzione e della persona che può crescere e formarsi solo in interazione dinamica con
gli altri.
La scuola, comunità educante, ha il compito di accogliere ogni alunno, programmare la
costruzione di situazioni relazionali, pedagogiche – educative idonee a permetterne il
massimo sviluppo.
La norma costituzionale del diritto allo studio, interpretata alla luce della legge 59/97 e
del D.P.R. 275/99, è da intendersi come tutela soggettiva affinché le istituzioni scolastiche,
nella loro autonomia funzionale ed organizzativa, predispongano le iniziative e realizzino le
attività utili al raggiungimento del successo formativo di tutti gli alunni.
Le linee guida realizzano una panoramica sui principi generali concernenti
l’integrazione scolastica individuabili nell’ordinamento italiano ed internazionale in modo da
ricapitolare un percorso legislativo in materia, all’atto in cui l’Italia con la legge 18/2009 ha
ratificato la Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità; quest’ultimo
documento impegna gli stati firmatari a realizzare forme di integrazione scolastica in classi
comuni, prassi già realizzata nel sistema scolastico italiano.
La Convenzione Onu condivide la concezione del “modello sociale della disabilità”
secondo cui la disabilità è dovuta all’interazione tra il deficit di funzionamento dell’individuo
e il contesto sociale, culturale e personale in cui esso vive.
Successivamente il documento in esame entra nel vivo delle problematiche scolastiche
riconoscendo la responsabilità educativa di tutto il personale della scuola, nonché la necessità
di una corretta e puntuale progettazione individualizzata per l’alunno con disabilità, in
accordo con gli Enti locali, l’Asl e le famiglie.
Il contesto come risorsa
Il diritto allo studio è un diritto costituzionalmente garantito: la scuola è aperta a tutti e
tutti i cittadini hanno pari dignità sociale senza alcuna forma di distinzione legata al sesso,
lingua, razza, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.
La Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che
limitano la libertà e l’uguaglianza ed impediscono l’effettiva uguaglianza, nonché il pieno
sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica ed economica
del Paese.
Il costituente con l’art. 34 e 3 della Cost., garantendo a tutti i cittadini le medesime
opportunità, ha riconosciuto agli stessi la cosiddetta uguaglianza formale e sostanziale.
Il diritto allo studio degli alunni con disabilità inizialmente, alla luce anche del disposto
dell’art. 38, fu garantito nelle scuole speciali o classi differenziali.
Successivamente divennero chiare le implicazioni negative di tale scelta in termini di
alienazione ed emarginazione sociale e quindi fu emanata la legge 118/71.
Tale norma supera senza abolire le scuole speciali e prescrive, su iniziativa della
famiglia, l’inserimento degli alunni con disabilità nelle classi comuni disponendo il trasporto,
il superamento delle barriere architettoniche, l’assistenza durante l’orario scolastico degli
alunni più gravi.
In effetti si garantisce solo quello che è stato definito un inserimento in presenza
ovverosia un’uguaglianza formale.
Si avvia la costruzione dell’uguaglianza sostanziale con la legge 517/77: norma in cui
con chiarezza si stabiliscono i presupposti, le condizioni, gli strumenti e le finalità per
l’integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap.
Si introduce la figura dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno e si
afferma che il progetto di integrazione richiede e presuppone, ai fini della corretta
realizzazione dello stesso, la presa in carico da parte dell’intero Consiglio di classe.
La sentenza della Corte costituzionale 215/87, oggetto della C.M. n. 262/88, considerata
la “magna Charta” dell’integrazione scolastica, orienta tutta la successiva normativa in
materia.
I diritti sanciti dalle disposizioni normative successive sono racchiusi ed espressi dalla
legge 104/92, legge quadro in materia di integrazione scolastica e sociale della persona con
disabilità.
La legge quadro prevede un atteggiamento di “cura educativa” nei confronti degli
alunni con disabilità che si realizza in un percorso formativo individualizzato alla cui
condivisione e individualizzazione partecipano più soggetti istituzionali.
Il Profilo Dinamico Funzionale e il Piano Educativo Individualizzato (P.E.I.), realizzati
attraverso il coinvolgimento dell’amministrazione scolastica, degli organi pubblici sanitari e
sociali nonché della famiglia, sono i documenti cardini per l’esercizio del diritto all’istruzione
e all’educazione del soggetto disabile.
Da ciò l’importanza della verifica periodica degli stessi in modo che risultino sempre
adeguati ai bisogni effettivi dell’alunno.
Sulla base del P.E.I., l’A.S.L. realizza il progetto riabilitativo ai sensi della legge
833/78; l’Ente locale il progetto di socializzazione ex l. 328/00; l’Istituzione scolastica il
Piano degli Studi Individualizzato (D.M. 141/99 come modificato dal D.P.R. 81/2009).
Successivamente alla legge quadro è emanato il D.P.R. 24 febbraio 1994, atto di
indirizzo che individua i soggetti istituzionali e le specifiche competenze in materia di
Diagnosi Funzionale, Profilo Dinamico Funzionale, Piano Educativo Individualizzato;
quest’ultimo è un documento conclusivo ed operativo in cui “vengono descritti gli interventi
integrati ed equilibrati tra di loro, predisposti per l’alunno in condizioni di handicap, in un
determinato periodo di tempo, ai fini della realizzazione del diritto all’educazione e
all’istruzione” come integrato e modificato dal D.P.C.M. n.185/2006.
Il Regolamento dell’autonomia D.P.R. 275/99 e la legge di riforma 53/03 fanno
espresso riferimento all’integrazione scolastica.
La legge n. 296/06, garantisce il rispetto delle “effettive esigenze” degli alunni con
disabilità, sulla base di accordi interistituzionali.
La Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità, è un documento che
vincola i Paesi firmatari, tra cui l’Italia, a garantire livelli di tutela dei diritti delle persone con
disabilità non inferiori a quelli indicati dalla stessa.
Il tema della disabilità è stato oggetto di attenzione di vari documenti internazionali
volti alla tutela dei diritti umani, sociali e civili di tutti gli individui a partire dall’infanzia
quali:
• la Dichiarazione dei diritti del bambino dell’ONU varata nel 1959;
• la Dichiarazione dei diritti della persona con ritardo mentale dell’ONU pubblicata nel 1971;
• la Conferenza mondiale sui diritti umani dell’ONU, in cui si precisa che “tutti i diritti umani e le libertà
fondamentali sono universali ed includono senza riserve le persone disabili”;
• le Regole standard per il raggiungimento delle pari opportunità per i disabili, adottate dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite nel 1993 in cui si ricorda come “l’ignoranza, la negligenza, la superstizione e
la paura sono fattori sociali che attraversano tutta la storia della disabilità, isolando questi soggetti e
ritardando anche la loro evoluzione”.
La caratteristica peculiare della Convenzione è rappresentata dal “modello sociale della
disabilità”.
La condizione della disabilità è in correlazione con l’ambiente culturale e sociale;
quest’ultimo costituisce un fattore determinante circa l’esperienza che il soggetto disabile fa
della propria condizione di salute. Il contesto (ambienti, procedure, strumenti educativi ed
ausili) deve essere accomodato in modo ragionevole ossia adattato ai bisogni specifici della
persona con disabilità; deve essere ricco di opportunità, per costituire una risorsa potenziale al
raggiungimento di buoni livelli di realizzazione e autonomia difficilmente raggiungibili in
condizioni contestuali meno favorite, garantendo in tal modo il godimento e l’esercizio, su
base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali.
In materia di educazione la convenzione riconosce il diritto all’istruzione per tutti, in un
sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli di apprendimento, continuo lungo tutto l’arco
della vita e finalizzato a sviluppare pienamente il potenziale umano, sotto il profilo delle
abilità psicofisiche, mentali sociali e relazionali in modo da porre le persone portatrici di
handicap nella condizione di partecipare effettivamente ad una società libera.
Nel 2001 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), considerando la persona da
un punto di vista globale e non solo “sanitario” recepisce il modello sociale della disabilità, ed
approva la nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento (I.C.F.) della disabilità e
della salute.
Nella prospettiva dell’ICF, la partecipazione alle attività sociali di una persona con
disabilità è determinata dall’interazione della sua condizione di salute (a livello di strutture e
di funzioni corporee) con le condizioni ambientali, culturali, sociali e personali (definite
fattori contestuali) in cui essa vive.
In questo modello il contesto assume valore prioritario i cui molteplici elementi possono
essere qualificati come barriera qualora ostacolino l’attività e la partecipazione della persona,
facilitatori in caso contrario.
La dimensione inclusiva della scuola
Con la legge 59/97, le istituzioni scolastiche hanno acquisito personalità giuridica,
autonomia organizzativa e didattica, esercitabile nei limiti della legge e nel rispetto dei
principi di logicità e congruità in modo da evitare atti caratterizzati da disparità di trattamento
quale potrebbe essere, in primo luogo, la mancata partecipazione di tutte le componenti
scolastiche al processo di integrazione finalizzato alla costruzione di un progetto di vita che
consente all’alunno disabile di “avere un futuro”.
Il processo integrativo, definito all’interno di Gruppi di lavoro la cui costituzione in
ogni istituzione scolastica è obbligatoria, ha come obiettivo fondamentale lo sviluppo delle
competenze dell’alunno negli apprendimenti, nella comunicazione, nella relazione e
socializzazione; tale processo richiede la collaborazione e il coordinamento di tutte le
componenti in questione oltre l’esistenza di una pianificazione puntuale e logica degli
interventi educativi, formativi, riabilitativi come previsto dal (P.E.I.).
Il Dirigente scolastico è il garante del Piano dell’Offerta Formativa (P.O.F.) progettata e
realizzata dall’istituzione scolastica per la generalità degli utenti.
La presenza di alunni disabili costituisce un evento che richiede una riorganizzazione
del sistema ma rappresenta anche un’occasione di crescita per tutti.
L’integrazione/inclusione scolastica è un valore fondativo, un assunto culturale che
richiede una incisiva leadership gestionale e relazionale; tale capacità si manifesta attraverso
la promozione e la cura di iniziative da attuarsi di concerto con le varie componenti
scolastiche come corsi di formazione, programmi di miglioramento del servizio scolastico per
gli alunni con disabilità, progetti, iniziative capaci di coinvolgere i genitori e le varie forze
locali, la costituzione di rete di scuole per obiettivi concernenti l’inclusione e partecipazione
agli incontri di G.L.H.O., l’istituzione del Gruppo di Lavoro dell’Handicap (G.L.H.) di
istituto, la continuità educativo-didattica, la partecipazione alla stipula di Accordi di
Programma a livello dei piani di zona, di cui alla legge 328/00, direttamente o tramite reti di
scuole.
L’autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche richiede un buon livello
organizzativo, punti fermi costituiti da principi di legge intorno cui sviluppare la progettualità
educativa finalizzata al successo formativo di tutti gli alunni.
Il Collegio dei docenti e il Consiglio d’istituto elaborano il P.O.F. che si qualifica
inclusivo quando prevede la realizzazione di azioni, progetti, possibilità esperenziali idonee a
fornire risposte precise ad esigenze educative individuali.
Il Dirigente scolastico ha il compito di rendere operative le indicazioni del P.O.F. in via
diretta o affidandole ad una figura professionale di riferimento qual è la funzione strumentale.
La progettazione educativa per gli alunni con disabilità deve essere costruita tenendo
presente quanto disposto dalla legge 104/92 in materia di integrazione scolastica il cui
obiettivo è lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento,
comunicazione, relazione e socializzazione: finalità non impedita da difficoltà di
apprendimento, né da altre problematicità connesse all’handicap.
Sono quindi contrari al dettato normativo della legge 104/92, la costituzione di
laboratori che accolgono più alunni con disabilità per quote orario anche minime o per
prolungati e reiterati periodi dell’anno scolastico.
Talvolta a torto, soprattutto dinanzi a particolari casi di handicap, il ruolo formativo
della scuola si ritiene esaurito nella socializzazione; quest’ultima è uno strumento di crescita
da integrare necessariamente ed in modo equilibrato con il miglioramento degli
apprendimenti, effettuato mediante pratiche didattiche individualizzate o di gruppo progettate
individualmente sulla base delle esigenze del soggetto e realizzate, preferibilmente,
nell’ambito della classe e nel contesto del programma in essa esplicato.
Si è integrati/inclusi in un contesto scolastico quando si effettuano esperienze, si
attivano apprendimenti insieme agli altri, si condividono strategie di lavoro scaturite dalla
programmazione congiunta di tutti i docenti curricolari i quali insieme all’insegnante di
sostegno definiscono gli obiettivi di apprendimento per gli alunni con disabilità in
correlazione con quelli previsti per l’intera classe.
La cooperazione e la corresponsabilità del team dei docenti sono essenziali per le
finalità previste dalla legge quadro sulla disabilità.
È compito del dirigente scolastico e degli Organi collegiali competenti attivare le
necessarie iniziative per rendere effettiva la cooperazione e la corresponsabilità così come
esplicitata nel P.O.F..
La documentazione relativa al P.E.I. deve essere disponibile alla famiglia in modo da
consentire alla stessa la conoscenza del percorso educativo e formativo concordato e
pianificato.
Il fascicolo individuale dell’alunno con disabilità, il cui fine è di documentare il
percorso formativo compiuto nell’iter scolastico, riveste una notevole importanza soprattutto
nel momento del passaggio fra un grado e l’altro di istruzione.
Nel passaggio dal I al II ciclo di istruzione è indispensabile che i Dirigenti scolastici
coinvolti prevedano forme di consultazione obbligatorie fra gli insegnanti della classe
frequentata dall’alunno con disabilità e le figure di riferimento per l’integrazione delle scuole
coinvolte, in modo da consentire continuità operativa e la migliore applicazione delle
esperienze già maturate nella relazione educativo-didattica e nelle prassi di integrazione con
l’alunno disabile.
Si possono inoltre avviare progetti sperimentali che, sulla base di accordi fra le
istituzioni scolastiche e nel rispetto della normativa vigente anche contrattuale, consentano al
docente del grado scolastico già frequentato di partecipare alle fasi di accoglienza e di
inserimento nel grado successivo.
È importante la consegna della documentazione completa e sufficientemente articolata
per consentire all’istituzione scolastica che accoglie l’alunno disabile di progettare
adeguatamente i propri interventi.
C’è da chiedersi se il diritto allo studio, inteso come diritto al successo formativo di tutti
gli alunni alla luce della legge 59/97, si realizzi, nel rispetto delle deroghe normativamente
previste, attraverso la permanenza nel sistema di istruzione fino all’età di 21 anni, o attraverso
rallentamenti eccessivi in determinati gradi di istruzione.
In effetti il sistema di istruzione risponde ai bisogni educativi e formativi dei giovani
cittadini, rendendo indispensabile il passaggio della presa in carico ad altri soggetti pubblici
realizzando il puntuale passaggio al mondo del lavoro e all’attuazione del progetto di vita che,
pur essendo parte integrante del P.E.I., riguarda la crescita personale e sociale dell’alunno con
disabilità dopo il periodo scolastico e come progettualità futura va condiviso dalla famiglia e
dagli altri soggetti coinvolti nel processo di integrazione.
È a tal riguardo indispensabile predisporre piani educativi che prefigurano, all’interno
del P.O.F., attraverso anche l’orientamento, le possibili scelte da operare al momento di uscita
del ragazzo, in particolare mediante l’attuazione dell’alternanza scuola-lavoro e la
partecipazione degli alunni con disabilità nell’ambito del sistema IFTS.
Il Dirigente scolastico predispone adeguate misure organizzative per realizzare forme
efficaci di relazioni con i soggetti coinvolti e con quelli deputati al servizio per l’impiego e
con le associazioni.
Per rendere più efficace ed efficiente l’intervento dell’istituzione scuola nel processo di
crescita e sviluppo dell’alunno disabile; il Dirigente scolastico promuove la costituzione di
reti di scuole, per un utilizzo più efficace dei fondi utilizzati, una condivisione di risorse
umane, strumentali, buone pratiche, momenti di aggiornamento e la promozione della
documentazione; in tal modo si dota il territorio di un punto di riferimento per i rapporti con
le famiglie e con l’extrascuola.
La corresponsabilità educativa e formativa dei docenti
Una scuola inclusiva richiede una corresponsabilità educativa diffusa, competenze
didattiche adeguate ad impostare una fruttuosa relazione educativa anche con alunni con
disabilità.
L’intera comunità scolastica è chiamata ad organizzare i curricoli in funzione dei diversi
stili cognitivi, a gestire in modo alternativo le attività d’aula, a favorire e potenziare gli
apprendimenti adottando materiali e strategie didattiche in relazione ai bisogni degli alunni.
Conseguentemente il Collegio dei docenti inserisce nel P.O.F. la scelta inclusiva
dell’Istituzione scolastica, indicando le prassi didattiche che promuovono effettivamente
l’inclusione (gruppi di livello eterogenei, apprendimento cooperativo, ecc.).
I Consigli di classe realizzano il coordinamento delle attività didattiche, la preparazione
del materiale e tutto ciò che può consentire all’alunno disabile, sulla base dei suoi bisogni e
delle sue necessità, di esercitare il suo diritto allo studio attraverso la partecipazione piena allo
svolgimento della vita scolastica nella sua classe.
Tutto ciò richiede il lavoro congiunto su più direzioni.
Gli insegnanti all’interno della classe devono: assumere comportamenti non
discriminatori, prestare attenzione ai bisogni di ciascun alunno accettando la diversità
presente in ognuno di noi come valore ed arricchimento per l’intera classe, favorire la
strutturazione del senso di appartenenza, costruire relazioni socio-affettive positive, adottare
strategie e metodologie favorenti l’apprendimento (lavoro di gruppo e/o a coppie,
apprendimento cooperativo, tutoring, apprendimento per scoperta, utilizzo di mediatori
didattici, attrezzature e ausili informatici, software e sussidi specifici).
L’utilizzo della strumentazione informatica è utile anche per la predisposizione di
documenti per lo studio di coloro che usufruiscono - in quanto necessitati - dell’utilizzo di
ausili e computer per svolgere le proprie attività di apprendimento.
L’alunno infatti a prescindere dalle sue capacità, potenzialità e limiti va reso
protagonista del suo personale processo di apprendimento realizzabile attivando le individuali
strategie di approccio al “sapere” nel rispetto dei ritmi e degli stili di apprendimento, facendo
eventualmente ricorso alla metodologia dell’apprendimento cooperativo.
La valutazione, intesa come valutazione dei processi e non solo delle performance, è
espressa in decimi e va rapportata al P.E.I..
Gli insegnanti di sostegno svolgono una funzione di coordinamento della rete di attività
previste per l’effettivo raggiungimento dell’integrazione; sono contitolari sulle classi in cui
operano con diritto di voto e dispongono di registri in cui sono annotati i nomi degli alunni
delle rispettive classi.
L’intera comunità scolastica deve essere coinvolta nel processo in questione: il docente
di sostegno in una logica sistemica, oltre ad intervenire sulla base di una preparazione
specifica nelle ore in classe, collabora con l’insegnante curriculare e con il Consiglio di classe
in modo che l’iter formativo possa continuare anche in sua assenza.
Personale ata e assistenza di base
La nota del MIUR n. 339 del 30 novembre 2001 individua l’assistenza di base, di
competenza della scuola, come il primo segmento della più articolata assistenza all’autonomia
e alla comunicazione personale prevista dall’art. 13 della legge 104/92.
La responsabilità di tale assistenza, rientrante nelle funzioni aggiuntive del personale
A.T.A., è del Dirigente scolastico il quale nell’ambito degli autonomi poteri di direzione,
coordinamento e valorizzazione delle risorse umane, e strumentali, attraverso le procedure
previste dalla legge e dalla contrattazione d’Istituto, predispone le condizioni affinché tutti gli
alunni, durante la loro esperienza scolastica, dispongano di servizi qualitativamente idonei a
soddisfare le proprie esigenze.
La collaborazione con le famiglie
Una serie di adempimenti, quali la formulazione e la verifica del Profilo Dinamico
Funzionale (P.D.F.) e del P.E.I. previsti dalla legge 104/92, richiedono la partecipazione delle
rispettive famiglie.
Una sempre più ampia partecipazione delle famiglie al sistema di istruzione caratterizza
gli orientamenti normativi degli ultimi anni, dall’istituzione del Forum nazionale delle
associazioni dei genitori della scuola, previsto dal D.P.R. 576/96 al rilievo posto dalla legge n.
53/2003 circa la collaborazione fra scuola e famiglia.
La famiglia in quanto fonte di informazioni preziose, nonché luogo in cui avviene la
continuità fra educazione formale ed informale, costituisce un punto di riferimento essenziale
per la corretta inclusione scolastica dell’alunno con disabilità.
È indispensabile che i rapporti fra istituzione scolastica e famiglia si realizzino in una
logica di supporto alla stessa in relazione alle attività scolastiche e al processo di sviluppo
dell’alunno con disabilità.
Il Dirigente scolastico infatti, nell’ambito di tali rapporti, dovrà convocare le riunioni in
cui sono coinvolti i genitori, previo opportuno accordo nella definizione dell’orario.
La documentazione relativa all’alunno con disabilità, utile al generale processo di
integrazione nonché di informazione della famiglia deve essere disponibile e consegnata alla
stessa all’atto della richiesta.
Poiché va distinta sotto il profilo concettuale e metodologico, la programmazione
individualizzata che caratterizza il percorso dell’alunno con disabilità nella scuola
dell’obbligo e la programmazione differenziata che, nel secondo ciclo di istruzione può
condurre l’alunno al conseguimento dell’attestato di frequenza, è importante l’attività
informativa rivolta alla famiglia circa il percorso educativo che consente al proprio caro
l’acquisizione dell’attestato di frequenza piuttosto che del diploma di scuola secondaria
superiore.
Conclusioni
Come non avvalorare il concetto di contesto come risorsa, di dimensione inclusiva della
scuola, di corresponsabilità educativa e formativa del Dirigente scolastico, dei docenti e di
tutto il personale scolastico oltre che della necessaria e vitale esigenza di collaborazione con
le famiglie.
Come docente operatore della scuola, rappresentante degli insegnanti di sostegno nel
seno dell’Unità Territoriale di Coordinamento per il supporto all’integrazione scolastica degli
alunni ciechi ed ipovedenti (U.T.C.) della regione Campania, nonché docente corsi di
aggiornamento I.RI.FO.R. Campania (Istituto per la Ricerca, la Formazione e la
Riabilitazione) non posso nascondere l’esistenza di realtà molto diversificate per quanto
concerne la minorazione visiva, che può essere anche congiunta ad altri handicap, la
professionalità e/o responsabilità del mondo scuola nella sua interezza, la predisposizione
delle famiglie di credere nell’Istituzione scuola dialogando con la stessa, nonché il ruolo delle
Istituzioni varie e degli Enti locali che spesso dimenticano le loro responsabilità costituzionali
in materia educativa e formativa.
Come sempre i principi così come le riforme al di là della loro positività si realizzano se
non passano solo sopra la testa degli operatori i quali hanno il compito di viverli,
comprenderli, sperimentarli professionalmente in via diretta ed immediata.
La Biblioteca Italiana per i Ciechi di Monza e tutte le Istituzioni che a vario titolo
operano pro ciechi ed ipovedenti, operano fattivamente nell’opera di sensibilizzazione,
aggiornamento e consulenza a vari livelli in modo da consentire ad ogni disabile visivo di
essere posto nelle migliori condizioni di esplicarsi dando il meglio di sè.
I ciechi e gli ipovedenti infatti, qualora non portatori di altre disabilità aggiuntive,
opportunamente educati e formati fin dalla nascita, con interventi professionali, sociali ed
organizzativi qualificati raggiungono buone capacità di maturazione, buoni livelli di
inserimento attivo nel mondo scolastico, sociale (culturale, sportivo, ricreativo, lavorativo,
civico, etc), concorrendo in tal modo al progresso materiale e spirituale della società, dovere
costituzionalmente previsto all’art. 4.
I ciechi per primi, consci delle loro potenzialità e del valore associativo, fin dal 1920, si
sono riuniti in associazione fondando l’Unione Italiana Ciechi.
Qualche anno dopo nel 1923 la Riforma Gentile estende l’obbligo scolastico fino a 14
anni anche ai ciechi ed ai sordomuti in assenza di altre disabilità.
L’obbligo istruttivo si realizza nelle scuole speciali che, al di là delle carenze sociali,
relazionali e pedagogiche, sono riuscite positivamente, in quanto dotate di strumenti e
personale altamente qualificato ed idoneo, a fornire la cosiddetta “normalizzazione”: processo
che consente ai non vedenti di esplicare interamente la propria autonomia sotto vari profili.
Il limite di tale forma di educazione, portò all’emanazione della legge 118/71, e della
legge 360/1976; quest’ultima disposizione normativa, pur non abolendo le scuole speciali,
consentì ai non vedenti, previa scelta delle loro famiglie, di essere inseriti nella scuola
comune, inserimento che poi fu garantito a tutti i disabili con la legge 517/77.
Il percorso evolutivo storico dei ciechi ha galoppato nei secoli tanto da allontanare dai
nostri pensieri l’immagine di un soggetto degno solo di assistenza, il cui unico compito
poteva normalmente essere assolto come impagliatore di sedie nei casi migliori se non come
mendicante.
Il successo di varie straordinarie persone non vedenti, prima fra tutti Louis Braille,
ideatore del sistema Braille, è sotto gli occhi di tutti.
Alle Istituzioni il compito di non operare tagli indiscriminati.
A noi il dovere della coscienza delle nostre azioni a tutti i livelli per consentire a costoro
di essere tra noi e con noi.
Bibliografia
Amorotti, B. (1996). La normativa vigente sull’integrazione degli handicappati nella
scuola. Modena: Centro Programmazione Editoriale.
Bizzi, V. [et al.] (1990). L’integrazione scolastica e sociale dei bambini minorati della
vista. Torino: Utet.
Inoltre sono state consultate le seguenti disposizioni giudiziari, normative nazionali ed
internazionali:
Sentenza Corte costituzionale 215/87
Carta Costituzionale
Riforma Gentile del 1923;
Legge 118/71
Legge 360/1976
Legge 517/77
Legge 833/78
C.M. 262/88
Legge 104/92,
D.P.R. 24 febbraio 1994
D.P.R. 576/96
Legge 59/97
D.P.R. 275/99
D.M. 141/99
Legge 328/00
Legge 53/03
D.P.C.M. 185/2006
Legge . 296/06
Legge 18/2009
D.P.R. 81/2009.
Nota MIUR n. 339 del 30 novembre 2001
Dichiarazione dei diritti del Bambino dell’ONU varata nel 1959
Dichiarazione dei diritti della persona con ritardo mentale dell’ONU pubblicata nel
1971
Conferenza mondiale sui diritti umani dell’ONU giugno 1993
Regole standard per il raggiungimento delle pari opportunità per i disabili, adottate
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1993.
Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità marzo 2007.
Concetta Rauso, docente di Scuola dell’infanzia
TOCCARE CON MANO L’ARTE PLASTICA
Alberto Argenton
[Abstract] L’esperienza di una visita ad una mostra di scultura, solleva il problematico tema della percezione aptica e
delle sue potenzialità per una ottimale conoscenza di sé e del mondo circostante [fine abstract]
Questo testo tenta di riassumere alcune osservazioni attinenti a una esperienza, a me
occorsa, assai pregnante da un punto di vista cognitivo, che concerne il problematico tema
della percezione tattile o, meglio, della percezione aptica; precisando che con quest’ultima
espressione intendo riferirmi alla complessa elaborazione percettiva dei dati provenienti dalla
stimolazione dei recettori sensoriali della pelle, dei muscoli, dei tendini e delle articolazioni e
che è data dalla cooperazione di due modalità sensoriali: il tatto e la cinestesia.
1. L’esperienza è consistita in una visita a una mostra di sculture5 – realizzata con la
fondamentale collaborazione dell’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti di Trento – che
consentiva di essere percorsa in un modo del tutto inconsueto. La peculiarità della mostra,
infatti, risiedeva nella possibilità di essere visitata in successione secondo tre diverse modalità
di fruizione: la prima, da compiersi nella più completa oscurità e con l’ausilio di un
accompagnatore non vedente, basata esclusivamente sulla percezione aptica; la seconda, da
attuarsi in una condizione di fioca illuminazione diffusa, in modo da consentire
all’osservatore di intravedere appena le opere ma, ancora, di indurlo ad approfondirne la
lettura palpandole; la terza modalità, infine, da effettuarsi in condizione di normale visibilità,
ma comunque con la possibilità di tastare a piacimento le opere.
L’obiettivo del progetto espositivo mirava, dunque, a far sì che i percorsi al buio fra le
“sculture da toccare” conducessero ad una più approfondita comprensione della dimensione
tattile della scultura, dimensione solitamente inibita nella fruizione dell’arte plastica.
La mia esperienza, che tenterò ora di descrivere nelle sue linee essenziali, è consistita
nel visitare la mostra compiendo, appunto, tutti e tre i tipi di percorso e nell’ordine,
ovviamente, indicato sopra.
Va da sé che è stato il primo tipo di fruizione, quello in totale oscurità, a fornire inedite
e fruttuose suggestioni.
Devo dire che l’esito di questo iniziale percorso mi è risultato alquanto inaspettato
anche perché, prima di iniziare l’impresa, pur cercando di non avere alcun atteggiamento
preconcetto al riguardo, e ripromettendomi soltanto di assumere e mantenere una condotta di
tipo fenomenologico, avevo vissuto con qualche apprensione lo stato di limitazione in cui mi
sarei venuto a trovare, temendo potesse pregiudicare le mie potenzialità ricettive.
Ebbene, nonostante la condizione di completa privazione del senso della vista sono
comunque riuscito, nella maggior parte dei casi, a compiere in modo assai soddisfacente l’atto
percettivo, a formarmi cioè un percetto abbastanza esauriente dell’opera plastica con cui ero,
letteralmente, a contatto. In altri termini, sono giunto a una individuazione piuttosto precisa
della configurazione – o della struttura dinamica – e a una comprensione della forma – o del
significato espressivo – di molte delle sculture che andavo esplorando. Per di più, le
percezioni esperite si sono impresse nella mia memoria in modo dettagliato e vivido.
5 La mostra, intitolata Vedere con mano. La percezione della scultura tra tatto e visione, si è svolta dal 18 Aprile al 31 Agosto 2009 in un suggestivo spazio, il Forte di Civezzano (Tn), ed era composta da 25 opere dell’artista Gianfranco Della Rossa, il quale esercita la sua attività creativa ed esecutiva usando tecniche e materiali tradizionali, incidendo e modellando marmo, cera, legno, pietra, ecc. ed è particolarmente interessato o, se si vuole, particolarmente sensibile al tema della tattilità.
E bisogna tener conto che le sculture in questione non si basano sulla rappresentazione
di forme mimetiche o verosimiglianti e solo in alcuni casi richiamano in tutto o in parte la
struttura di un solido geometrico più o meno regolare, risultando, pertanto, oggetti per me
completamente sconosciuti; vale a dire che l’identificazione della loro configurazione e la
comprensione della loro forma non sono state mediate o favorite dalla memoria di una
qualche precisa antecedente conoscenza. Va anche aggiunto che le sculture, collocate su di un
piedistallo o poggianti a terra, sono in gran parte di dimensioni abbastanza contenute e quindi
agevolmente esplorabili tattilmente e che buona parte di esse è stata ideata, concepita e
realizzata in funzione proprio di una loro fruizione “al buio”.
L’attività sensoriale che fin dall’inizio spontaneamente mi ha consentito di volta in
volta di giungere alla costituzione dell’oggetto fenomenico si è fondata, come la situazione
stimolante imponeva naturalmente, sulla percezione aptica, cioè sulla sincronica e cooperativa
elaborazione delle sensazioni tattili e cinestetiche, che andavo recependo, ma anche e
contemporaneamente delle sensazioni uditive che la stessa azione aptica suscitava.
Nel mio ricordo, tale attività sensoriale ha avuto rarissime e sporadiche ingerenze o
referenze di natura visiva: gli input che, pur con il supporto dell’udito, andavo raccogliendo
durante la perlustrazione dell’oggetto erano e rimanevano essenzialmente di natura tattile e
non mi nasceva alcuna esigenza di trasformarli in informazioni di carattere visivo. Parimenti,
la rappresentazione dell’opera scultorea, che alla fine si costituiva nella mente, non possedeva
– e non mi sorgeva alcun bisogno possedesse – nessun tratto di natura iconica, presentandosi
con una sua forma, dotata di particolari proprietà strutturali e qualità espressive, squisitamente
plastica.
Inoltre, uno degli aspetti più pregnanti di questa coinvolgente esperienza è consistito
proprio nell’immediatezza e nella “nitidezza” con cui i vari atti percettivi, dapprima
singolarmente, poi in interazione fra loro, in fine “all’unisono”, confluivano in una chiara e
organica “visione” della configurazione e della forma della maggior parte delle opere esposte,
procurandomi nell’insieme l’appagante impressione di avere “visitato” a fondo la mostra, di
avere “sentito” pienamente le sculture, di avere vissuto, per come la intendo io, una completa
esperienza estetica6.
La felice impressione è stata avvalorata dalla terza modalità di visita – in piena luce –
durante la quale se, da un lato, la rivisitazione visiva di ciascuna opera, prima apticamente
individuata e compresa e vividamente ricordata, confermava la rappresentazione mentale che
6 Data l’eterogeneità di interpretazioni che il sintagma esperienza estetica può indurre, è il caso di precisare che con esso intendo riferirmi all’atto cognitivo – percettivo-rappresentativo – il quale si verifica quando qualcuno (un fruitore), ponendosi in relazione con un’opera artistica, giunge a “cogliere la forma e comprendere il significato” dell’opera stessa (Argenton, 1996, pp. 276-288).
di essa mi ero in precedenza formato, dall’altro, la trasformava – devo dire con un certo mio
rammarico – rendendola precipuamente iconica e riportandomi quindi a una “normale” ma
anche, come dirò più avanti, particolarmente intensa condizione di fruizione. Peraltro,
l’esigenza di percepire più distintamente alcune delle opere che in precedenza mi si erano
presentate non ben definite, poteva ora venir soddisfatta ricorrendo, oltre che alla vista, di
nuovo alla palpazione – una volta tanto non preclusa, come avviene nei contesti espositivi – e,
soprattutto, agli andirivieni delle mani, sperimentati poco prima quali modalità sensoriali
basilari per “conoscere” l’oggetto plastico. Si attivava così un diverso tipo di intermodalità
che privilegiava il rapporto fra vista, tatto e cinestesia – lasciando più a margine, ma mai
escludendo del tutto, l’apporto delle sensazioni uditive – e costituiva l’aspetto caratterizzante,
e al contempo percettivamente assai gratificante o produttivo, di questo terzo tipo di
esplorazione estetica.
Per contro, non penso di potermi esprimere in modo adeguato o definito sullo
svolgimento della visita intermedia, con bassissima illuminazione, se non nei termini di
essermi sentito da subito in una condizione di disorientamento percettivo che, a posteriori, ho
ipotizzato potesse derivare dall’essermi trovato, a quel punto, nello stato di parziale, e non più
totale, limitazione della vista; stato in cui tutte le nette rappresentazioni aptiche, conseguite
durante il primo tipo di visita, mi è parso venissero “offuscate”, disturbate dallo smarrimento
che mi procurava l’attuale quasi totale incapacità visiva e che vanificava la possibilità di
confrontare, convalidare o rendere più definiti i percetti precedentemente acquisiti con quelli
che si andavano appalesando come troppo vaghi, inconsistenti o, meglio, troppo difficilmente
afferrabili. Ma è questa un’ipotesi a cui non posso portare alcun sostegno desumibile da un
ricordo chiaro di quanto mi è andato accadendo in questa fase dell’esperienza, anche perché il
disorientamento percettivo – inizialmente provato con una qualche certezza – si è presto
mutato in un diffuso disagio psicologico e cognitivo che ha reso del tutto nebuloso – e anche
“affrettato” – lo svolgimento di questo tipo di percorso. Inopportuno, quindi, un qualsiasi
tentativo di renderne conto.
Fin qui il resoconto essenziale di questa esperienza di fruizione che, ripeto, è stata assai
arricchente per parecchi aspetti e motivi, alcuni dei quali, più rilevanti, cercherò di mettere in
luce qui di seguito.
2. Per quanto riguarda la visita compiuta al buio e usando una locuzione quanto mai
appropriata e qui intesa sia nel suo senso letterale sia in quello figurato, tale impresa mi ha
fatto toccare con mano una gran quantità di categorie o qualità sensoriali che costituiscono,
da quando mi occupo di rappresentazione artistica e di percezione estetica (e sono ormai
parecchi anni), materia dei miei studi e delle mie ricerche prevalentemente svolti nell’ambito
delle arti visive. Mi riferisco a qualità sensoriali che sono proprie della sfera tattile – come, ad
esempio, la durezza o la morbidezza – e a quelle che primariamente derivano dalle nostre
azioni corporee – come, ad esempio, la leggerezza o la pesantezza – e che, in entrambi i casi e
in gran parte, hanno un loro corrispettivo nel campo della visione.
Non sto affermando, ovviamente, che in questa occasione ho esperito per la prima volta
o in modo del tutto nuovo delle qualità sensoriali la cui ricezione nella mia quotidiana
esistenza è, consapevolmente o meno, continuamente presente e, spesso, da me perseguita
intenzionalmente, alla ricerca di un approfondimento o di un completamento di un atto
percettivo di natura visiva: ad esempio, innumerevoli volte ho tastato la superficie di
un’infinità di oggetti, rivestiti dai più svariati materiali, per sperimentarne e valutarne le
caratteristiche qualitative; spesso anche chiudendo gli occhi per percepirle “meglio”, ma pur
sempre all’interno, ed eventualmente a integrazione, di un atto visivo. In questa occasione, ho
esperito quelle qualità, appunto, toccandole con mano, sia nel senso di averle “incontrate”
fenomenicamente mediante i relativi canali sensoriali sia, anche e soprattutto, mediante la
sola percezione aptica, eventualmente in interazione con quella uditiva, ma comunque senza
la mediazione o la compartecipazione della visione. Tenendo sempre presente che ciò è
avvenuto all’interno di un determinato contesto ricettivo, consistente nella fruizione –
nell’analisi e nella comprensione – di opere artistiche di genere scultoreo.
E di quest’ultima precisazione va tenuto conto anche nel considerare un altro apporto
conoscitivo che l’esperienza di fruizione al buio mi ha fornito e che è stato determinato
dall’aver avuto occasione in tale circostanza, ancora, di toccare con mano, cioè di esperire in
maniera diretta, concreta, palpabile – e, letteralmente, mediante la mano – due dei basilari
concetti su cui si fonda la teoria dinamica della percezione: il concetto di forza e quello di
tensione.
In estrema sintesi ed esemplificativamente, secondo tale teoria, comprovata in modo
paradigmatico nell’ambito della percezione pittorica7, e facendo riferimento proprio a questo
ambito, il percetto, la rappresentazione mentale che risulta dalla osservazione di un’immagine
dipinta è il prodotto della percezione dinamica delle tensioni in essa esistenti; le quali tensioni
si appalesano mediante la presenza e l’interazione di forze percettive, insite nella sua
configurazione strutturale, generate dalle potenzialità del medium con cui l’immagine è
7 La teoria dinamica della percezione è stata elaborata dagli psicologi della Gestalt e con essa è stato sancito che l’attività percettiva consiste, essenzialmente, in un processo attivo e produttivo regolato da leggi e principi suoi propri. Chi ha approfondito, esteso e verificato tale teoria nell’ambito della rappresentazione artistica e della percezione estetica è stato lo psicologo dell’arte Rudolf Arnheim, dei cui incomparabili studi qui ricordo, solo a titolo d’esempio, l’ormai classico Art and visual perception, del 1974. Vedi anche in proposito e ad esempio, A. Argenton (2008).
realizzata e contraddistinte, come è dato nella loro definizione in Fisica, da un’intensità o
grandezza, da una collocazione o punto di applicazione e da almeno una direzione. La
presenza e l’interazione di tali forze e le conseguenti tensioni a cui esse danno luogo inducono
nell’osservatore un percetto la cui primaria valenza fenomenica è data dall’espressione,
dall’insieme delle qualità espressive, insite nella struttura dell’oggetto stimolante.
Nulla di diverso accade quando l’oggetto osservato è un’opera scultorea realizzata
tramite le potenzialità del linguaggio plastico, salvo il fatto che, in questa “normale” fruizione
della scultura, la visione opera una sorta di “tutela” nei confronti della ricezione delle
proprietà configurazionali e delle qualità espressive dell’oggetto plastico, che hanno
preminentemente un’origine di carattere tattile: percepisco la pesantezza, la levità, la
scabrosità, la levigatezza, ecc. del volume o della superficie di un oggetto o di una parte di un
oggetto per “interposta sensorialità”, vale a dire mediante elaborazioni basate su indizi visivi.
Ciononostante, colgo queste qualità mediante le forze, e le relative tensioni, percettive,
originate dalle caratteristiche strutturali dell’oggetto stesso.
Pur essendo un convinto sostenitore della teoria dinamica della percezione e non
incontrando quasi mai difficoltà a recepire forze e tensioni di fronte a una composizione
pittorica o scultorea – ma anche ascoltando un brano musicale, leggendo un componimento
poetico, assistendo a uno spettacolo teatrale, ecc. – e conseguentemente a concettualizzarle in
quanto tali, quando sono entrato in contatto con le sculture nella più completa oscurità e sono
stato costretto a conoscerle mediante la “tutela” – questa volta – della percezione aptica, mi
sono però trovato a esperire le forze e le tensioni che esse presentavano in una forma di
particolare pregnanza e che mi viene da definire pura; vale a dire, esperendo dinamicamente
quelle forze e tensioni attraverso le forze e le tensioni – muscolari, pressorie, motorie,
articolatorie, ecc. – che il mio corpo andava producendo, ed elaborando mentalmente, con
l’obiettivo di recepirle e di individuarle.
Fresco di questa esperienza fenomenica, nella condizione di fruizione in piena luce,
riconquistata la sua egemonia il senso della vista, se da un lato, come ho già accennato, ho
provato un certo rammarico nel constatare che il ritorno al potere della visione modificava i
singoli percetti precedentemente acquisiti attenuandone la peculiare pregnanza, o
contaminandone la purezza, di carattere tattile, dall’altro, l’intensità e il nitore che avevano
contraddistinto i risultati dell’attività aptica condotta nell’oscurità fornivano una sorta di
solido e allo stesso tempo “confortante” sostegno nei confronti della rivisitazione visiva delle
sculture.
La ricezione visiva delle singole sculture è risultata ben più esauriente di quale sarebbe
stata se non avessi avuto l’opportunità di identificarne prima le qualità espressive mediante la
sola attività aptica, dimostrando, nel mio caso, fondamentalmente raggiunto l’obiettivo che le
modalità di visita alla mostra e le opere in essa esposte intendevano perseguire: ampliare la
comprensione della dimensione tattile della scultura. L’affinamento di quella che mi piace
chiamare la mia consapevolezza tattile, non ha portato, però, unicamente a una più esauriente
fruizione visiva delle sole opere esposte – più esauriente rispetto a una “normale”, e
tattilmente inibitoria, condizione espositiva – bensì ha manifestato, fin da subito e
consolidandosi in seguito, una valenza ben più ampia.
In primo luogo, infatti, è accaduto e tuttora accade che, successivamente all’esperienza
descritta, nei miei incontri e rincontri con la scultura sia migliorato notevolmente il rapporto
fruitivo il quale, pur segnato da una certa attrazione, ha per me avuto da sempre tratti di
problematicità. Mi riferisco al fatto di aver sovente provato in questo tipo di rapporto,
genericamente, un senso di non piena comprensione fenomenica delle opere osservate –
portandomi spesso a rimanerne insoddisfatto e altrettanto spesso a eluderlo – che ho attribuito
in prevalenza alla mia incompleta conoscenza storico-critica di questa forma d’arte, ma anche
a una mia incapacità, a una non attitudine ricettiva nei suoi confronti. Fermi restando i miei
limiti in materia, mi pare ora di riuscire a cogliere con molta maggior sicurezza, immediatezza
e completezza le qualità dinamiche ed espressive delle opere scultoree rispetto a quanto m’è
capitato di riscontrare in passato.
In secondo luogo, la consapevolezza tattile, affinatasi durante l’esperienza in questione,
ha sortito un ulteriore effetto positivo, riverberandosi sull’attività di osservazione e di analisi
percettiva dell’arte grafica e pittorica, la quale da anni costituisce il mio principale ambito di
studio e di ricerca e dove, anche in virtù del lungo esercizio e applicazione, ritengo di
muovermi agevolmente e con discreta o sufficiente competenza. Ho l’impressione che ora sia
ancor più vivido e profondo il mio intendimento del gran numero di fattori dinamico-
strutturali e qualitativi di carattere espressivo, presenti in una composizione grafica o
pittorica, che esperienzialmente e fenomenicamente traggono la loro origine dalla percezione
aptica e che, di conseguenza, nel lessico specialistico – dello storico, del critico e dello
psicologo dell’arte – ma anche nel linguaggio comune sono denominati mediante termini che
alla percezione aptica stessa fanno riferimento; termini di derivazione tattile – come, ad
esempio, consistenza, durezza, morbidezza, scabrosità, levigatezza, calore, freddezza,
spigolosità, ruvidezza, scivolosità, rigidità – e di provenienza cinestesica come, ad esempio,
stabilità, resistenza, cedimento, pesantezza, leggerezza, equilibrio, scivolamento, ascesa,
caduta, contrazione, espansione, avvolgimento, lunghezza, brevità, impeto, slancio, ecc. Tutti
termini, questi, che hanno origine nel dominio aptico, ma che vengono pari pari usati per
indicare qualità o categorie sensoriali attinenti al mondo della visione e, in particolare, a
quello della percezione e della rappresentazione pittorica. Gli esempi che si possono fare in
proposito sono infiniti: con spontaneità e immediatezza in una composizione pittorica
vediamo singole forme – siano esse mimetiche o meno – dai tratti morbidi o spigolosi, dotate
di superfici levigate o ruvide, colorate con tinte calde o fredde e, al contempo, vediamo come
tali forme appaiano stabili o instabili, leggere o pesanti, consistenti o cedevoli e, nello stesso
tempo ancora, vediamo come esse mostrino di voler espandersi nello spazio circostante o
ritirarsi su se stesse o salire verso l’alto o contrapporsi a, o equilibrarsi con, altre singole
forme presenti nella composizione stessa.
3. Per concludere, dopo l’esperienza con le “sculture da toccare”, ritengo che la mia
capacità di percepire le qualità di derivazione tattile, ma anche più in generale di indagare la
forma artistica, abbia subito un innegabile affinamento. E quest’ultimo benefico effetto,
nonostante quelle fin qui formulate siano impressioni, considerazioni e valutazioni soggettive,
in quanto elaborate sulla base di un’analisi introspettiva e pertanto possiedano una portata
molto relativa, credo possa essere assunto come un’evidenza il cui peso conoscitivo, e non
solo nell’ambito della percezione e della fruizione estetica, è, anche intuitivamente, del tutto
palese: esperire l’attività aptica in un contesto in cui essa sia la fonte primaria della
comprensione dell’oggetto – nel nostro caso, artistico – non può far altro che migliorare e
rendere più consapevole lo svolgimento e l’uso delle altre forme di attività sensoria – in
primis, la visione e l’udito – mediante le quali interagiamo con la realtà o con suoi specifici
segmenti. Egualmente, nel caso in cui la visione sia impedita, l’esercizio dell’attività aptica
svolto nel medesimo contesto non può far altro che ulteriormente potenziare la già superiore –
rispetto alla norma – sensibilità tattile del non vedente, ma anche instradarla e svilupparla
nella direzione di un ottimale rapporto fra la coscienza di sé e quella del mondo circostante.
Obiettivi che in Italia, da quel che mi consta, perseguono alcune realtà, come il Museo tattile
di pittura antica e moderna Anteros di Bologna8, il Museo tattile Omero di Ancona e l’Istituto
dei Ciechi di Milano, le quali andrebbero incentivate e promosse a livello quanto meno
regionale.
8 Ho avuto modo di visitare il Museo Anteros, potendo così apprezzare personalmente la qualità del lavoro svolto al suo interno sotto la direzione di Loretta Secchi, mentre ho avuto qualche notizia, ma solo giornalistica, della recente istituzione a Catania di un altro museo tattile, inserito in un più ampio Polo tattile multimediale.
Riferimenti bibliografici
Argenton, A. (1996). Arte e cognizione. Milano: Raffaello Cortina.
Argenton, A. (2008). Arte e espressione. Studi e ricerche di psicologia dell’arte.
Padova: Il Poligrafo.
Arnheim, R. (1974). Arte e percezione visiva, trad. it. 1981. Milano: Feltrinelli.
Alberto Argenton,professore associato di Psicologia dell’arte,
Università degli Studi di Padova
GIORGETTO L’ANIMALE CHE CAMBIA ASPETTO E L’ALFABETO BRAILLE
Angela Maltoni e Maria Sanna
[abstract] Attraverso l’uso dei cinque sensi i bambini hanno appreso l’esistenza di altre
modalità percettive ed il ruolo che queste giocano nelle persone con disabilità visiva [fine
abstract]
Progetto: “Insieme per un futuro più equo”, Classe 1^B, Scuola Primaria D. Ferrero,
Genova.
Periodo: febbraio 2009
Temi: Lavorando sui cinque sensi, è emersa nei bambini la curiosità riguardo alle
persone che non possono utilizzare tutti i sensi ed in particolare sui non vedenti ed i non
udenti.
Durante la discussione sulle strategie alternative utilizzate da queste persone sono
emerse ipotesi interessanti ed i bambini sono giunti in maniera naturale a capire come,
attraverso altri sensi, ci sia la possibilità di sopperire ad alcune mancanze.
Si è dimostrata estremamente preziosa la possibilità di visionare e toccare libri scritti in
Braille e poter provare a scrivere, attraverso l’uso dell’apposita tavoletta, con questo alfabeto.
Tutto ciò è stato reso possibile grazie ai materiali messi a disposizione dall’Istituto per
la riabilitazione visiva dei ciechi e degli ipovedenti “David Chiossone”, tramite la dott.ssa
Anna Gettani.
Il 9 febbraio la quotidiana attività di narrazione è stata svolta sul libro “Giorgetto
l’animale che cambia aspetto”.
Come tutti i giorni ci siamo seduti nell’angolo morbido e da subito i bambini si sono
accorti che non si trattava del solito libro illustrato, ma di un libro veramente speciale.
Abbiamo iniziato manipolando la copertina: ogni bambino ad occhi chiusi ha toccato e
provato ad immaginare le fattezze di questo nuovo amico.
L’animaletto di pezza passa così di mano in mano e tutti erano molto concentrati ed
interessati, e rispettosi dei tempi dei compagni nel poter provare questa nuova esperienza.
Una volta terminato il giro, si è passati alla lettura del libro e alla visione – questa volta
ad occhi aperti – delle varie immagini che lo illustrano.
La trama della storia è accattivante e apre molti spunti per la discussione, ma i bambini
sono più che altro incuriositi alla manipolazione del libro.
Emergono diverse osservazioni estremamente interessanti: molti si chiedono come
possano i ciechi poter leggere con le dita questo strano alfabeto, altri si domandano come
facciano ad immaginare cose che non hanno mai visto. “Come sarà la loro mucca, il prato o le
pecore?”.
Una volta seduti ai banchi, la discussione si è spostata dalle immagini alle pagine
trasparenti che caratterizzano questo libro e dove sono riportati i caratteri braille.
Anche questa volta tutti toccano prima ad occhi chiusi poi aprendoli, provando ad
immaginare la corrispondenza tra i pallini in rilievo e la scrittura.
E così, mentre il libro passa di tavolo in tavolo, un bambino cerca di decifrare la
scrittura, mentre il compagno manipola l’immagine.
Successivamente si è iniziato il lavoro sul quaderno ed ai bambini è stato chiesto di
spiegare l’esperienza, esprimendo anche le proprie opinioni.
Ognuno al termine del lavoro ha disegnato un particolare del libro che lo ha interessato.
Quindi con la tavoletta ed alcuni alfabetieri Braille abbiamo cercato di scrivere i nostri
nomi. L’attività è abbastanza macchinosa e complessa, considerato che occorre scrivere
rovesciando i caratteri. Il lavoro è stato quindi svolto dalla maestra coadiuvata dai bambini
nella ricerca delle letterine del nome sull’alfabetiere.
Successivamente ognuno ha disegnato con i puntini il proprio nome sul quaderno.
A.s. 2008-2009-Giorgetto l’animale che cambia aspetto e l’alfabeto Braille
La storia poi è stata suddivisa in sequenze ed i bambini hanno realizzato una serie di
disegni.
Ogni bambino è rimasto colpito da una parte del racconto o da un particolare del libro.
Un disegno molto ricorrente è quello del pupazzo che esce dal vaso nella prima pagina
del testo, un elemento in parte mobile che permetteva l’interazione.
Altri hanno privilegiato la parte relativa alla fuga da casa, all’esplorazione del mondo
circostante. Il tema del “viaggio” ha suscitato interesse dal punto di vista della scoperta di
realtà diverse dal proprio vissuto quotidiano.
L’incontro con gli elementi naturali (la sabbia e l’erba) e con gli animali ha fatto
riflettere i bambini su quello che ognuno può trovare “guardandosi” in giro.
Alcuni hanno rappresentato nei disegni il mondo, indicando anche i luoghi conosciuti
come fosse una mappa.
Nel disegno di Santiago ad esempio è rappresentato un mappamondo con indicazione
dell’Ecuador, di Napoli e della Sardegna.
Alcuni, come quello di Amin, sono molto ricchi di particolari. Al centro di questo
disegno ci sono i luoghi di vita di Giorgetto: la casa con tanto di focolare acceso ed il vaso
che diviene un tutt’uno con l’abitazione.
Angela Maltoni, Maria Sanna,insegnanti
Scuola Primaria D. Ferrero, Genova
INTEGRAZIONE COME TAPPA ESSENZIALE NEL CAMMINO DI UN GIOVANE NON VEDENTE
Gabriele Sacchi
[abstract] Una testimonianza preziosa che mette in luce l’importanza degli affetti e delle
amicizie nel superamento della disabilità per una vita vissuta con pienezza [fine abstract]
Generalmente si pensa che il deficit sensoriale della cecità comporti una notevole
limitazione nella vita della persona che ne è affetta.
La vista permette, infatti, di gestire la propria vita senza avere bisogno dell’aiuto degli
altri: il non vedente, invece, di solito ha difficoltà a muoversi da solo per strada o a compiere i
più naturali gesti della quotidianità. L’istinto porta a fare affidamento su tutto ciò che è stato
in precedenza memorizzato, coinvolgendo in cooperazione gli altri sensi quali l’udito, il tatto
e l’olfatto.
A volte è indispensabile dover ricorrere a supporti che affiancano e compensano le
difficoltà di talune situazioni. A questo riguardo, bastoni per ciechi, accompagnatori
personali, cani guida, e non ultimi, ausili elettronici, sono elementi complementari e/o vitali.
In questa situazione il non vedente, o ipovedente grave, si sente a disagio, soprattutto
perché si accorge di essere “diverso” dalle altre persone; ha paura che la sua condizione
rappresenti un intralcio per se stesso e per chi lo circonda.
Questo timore è naturale, ma non giustificabile, poiché se egli impara a convivere con il
suo handicap, ciò gli permetterà di giungere ad un arricchimento dei rapporti interpersonali.
C’è differenza tra cecità “congenita” o precoce e cecità “tardiva”.
Nel primo caso la presenza del deficit visivo si ha dalla nascita o in età pediatrica. Tutti
i bambini, per natura, non sono consapevoli dei pericoli a cui possono andare incontro e sono
curiosi di scoprire il mondo attorno a loro, tanto che amano avventurarsi in ogni tipo di
esperienza.
Per questo motivo essi sono in grado di adattarsi alla loro condizione e imparano a
conviverci senza grandi difficoltà.
Al contrario, nel secondo caso, la menomazione sopraggiunge in età adulta: ciò causa
un’instabilità ed un’insicurezza psicologica, che rende più difficile l’adattamento del soggetto
al contesto in cui vive. La persona difficilmente si mette in gioco e, il più delle volte, la
società non lo aiuta; accade infatti che egli si trovi in una condizione di emarginazione, poiché
non riesce ad affrontare rapidamente, da solo, le più semplici attività.
Anche per prendere un oggetto, capita che il cieco debba rivolgersi a chi gli sta intorno;
ciò crea indubbiamente disagio, tanto che, quando è possibile, si cerca di farne a meno.
In questo contesto, nell’individuo nasce un senso di colpa per la sua limitazione, che lo
porta a nascondere il problema agli occhi della gente.
Tuttavia, l’essere portatore di un deficit sensoriale (nel caso specifico quello della
vista), non rappresenta in tutti un motivo di paura, al contrario, deve diventare uno stimolo per
dimostrare la validità della propria persona. La voglia di riscatto comporta un impegno non
indifferente in ogni ambito della vita, dal lavoro al tempo libero.
Un soggetto con gravi problematiche visive va seguito in un percorso preciso, che deve
coinvolgere la famiglia, la scuola, gli amici e l’intera società.
Alla famiglia spetta il compito di educare il proprio figlio a saper superare gli ostacoli,
trasmettendo l’affetto e la sicurezza necessari ad affrontare una realtà comunque difficile da
fronteggiare.
Per quanto riguarda la formazione scolastica, un tema su cui da tempo si discute e che
desta le maggiori preoccupazioni è l’integrazione.
In passato la discriminazione tra “normodotati”e disabili era marcata: il “diverso” era
destinato a ricevere un’istruzione dai soli istituti specifici; oggi, invece, la scuola è
finalmente aperta a tutti.
Il muro che da tempo divideva i disabili dalle persone normali è stato quindi abbattuto e
così si è compiuto il primo passo verso l’integrazione.
Gli amici rivestono il ruolo forse più delicato e arduo, poiché aiutano il compagno
nell’integrazione ludica, sociale e, non ultima, lavorativa, a condizione che ci siano e siano
sinceri.
Solo se il soggetto prenderà confidenza con i suoi compagni e comprenderà di potersi
fidare di loro, potrà avviarsi a diventare sicuro di sé e del suo gruppo, con il quale cercherà di
raggiungere una totale autonomia.
La fase più critica, per un non vedente, è la pubertà, durante la quale il ragazzo
intraprende, come i suoi coetanei, quel processo di sviluppo che lo porta al raggiungimento
della maturità.
Raggiunta l’età dei 14/15 anni, i giovani iniziano a sentirsi adulti; pertanto cambiano gli
interessi e i giochi, ma spesso cambiano anche le amicizie.
È proprio questo processo di “trasformazione” che può risultare difficoltoso: il ragazzo,
infatti, potrebbe provare paura e ritrosia a perseguire gli interessi dei suoi coetanei, incapaci,
a loro volta, di aiutarlo.
In questo periodo non va dimenticato che il gruppo di amicizie si allarga e gli
spostamenti con mezzi propri aumentano la sfera delle conoscenze.
La paura che un cieco può provare in questa situazione è quella di non sentirsi più
adeguato al tipo di vita da affrontare.
Non tutte le realtà, però, presentano queste problematiche: in particolare i piccoli paesi
o le piccole città hanno una situazione molto diversa dalle grandi metropoli.
È facilmente comprensibile che nei piccoli centri il non vedente riesca a sviluppare la
propria autonomia molto più velocemente: il gruppo di amici al quale si lega, è più affidabile
di quello delle città; la gente di paese si relaziona con più familiarità, cosa che per il ragazzo
cieco è un vantaggio notevole. Egli è consapevole di poter contare su molte persone che
conoscono la sua situazione.
Inoltre, in una realtà poco estesa, il cieco impara a muoversi più agevolmente, senza
bisogno di tutti gli ausili sopra elencati.
Raggiunta la maturità, il giovane prende coscienza di sé (dei suoi pregi, difetti e limiti);
in particolare comprende qual è la strada che dovrà percorrere nel resto degli anni.
Paure, ritrosie e difficoltà saranno inevitabili, ma con il tempo crescerà anche il
bagaglio di esperienze necessario per gestirle in modo consapevole, perché si è coscienti di
ciò che la vita ha riservato; il non vedente non entrerà più in crisi quando gli si presenteranno
degli ostacoli e non avrà più timore di provare le stesse emozioni che provano i suoi coetanei.
Anche un innamoramento corrisposto sarà per lui motivo ulteriore di sicurezza, in grado
di fugare ogni dubbio circa la capacità di vivere la vita a 360°.
La fase della maturità, dal punto di vista sociale, rappresenta il passaggio nel mondo del
lavoro.
Oggi, entrare in questo mondo è davvero difficile, poiché i posti sono limitati e la
selezione è sempre maggiore.
Ecco che l’avere affrontato un percorso di studio adeguato, potrà essere una marcia in
più per accedere al mondo lavorativo, arrivando al confronto con gli altri, più preparati e,
soprattutto, più decisi.
Un esempio di preparazione indispensabile è la conoscenza informatica per l’utilizzo
del computer e degli strumenti tecnologici, necessari per poter svolgere le attività con
sicurezza ed in autonomia.
Non va poi dimenticato che la tecnologia sta cambiando di giorno in giorno lo stile di
vita, non solo dei non vedenti: il progresso scientifico - tecnologico sta procedendo a ritmi
esponenziali, fornendo continuamente nuove risorse.
I problemi psico-pedagogici e sociali di un non vedente sono dunque molti, ma
comunque tutti superabili, grazie ad una stretta collaborazione tra la famiglia, gli amici, la
scuola, la società e lo stesso giovane.
L’essere portatori di handicap, quindi, non va visto solo come una limitazione, poiché la
vita ha riservato ad ogni persona difficoltà e gioie ed il viverla con pienezza è per chiunque un
compito impegnativo, ma allo stesso tempo gratificante.
La vita stessa è un dono immenso, che va comunque accettato.
A prescindere dagli indubbi vantaggi che scienza e tecnologia offrono, sono l’equilibrio
interiore ed un tessuto sociale sano la garanzia massima di una apprezzabile qualità di vita e
di dignitose prospettive future.
Gabriele Sacchi
PER NON SENTIRSI SOLI
Anna Maria Senatore
[abstract] Cosa comporta per una famiglia la nascita di un figlio disabile e l’importanza
di una corretta rete di supporto per porcedere nel cammino di crescita [fine abstract]
Sicuramente la nascita di un figlio disabile determina nella famiglia una situazione
particolarmente dolorosa e complessa, ancora di più quando la situazione da affrontare non
riguarda un solo figlio, ma due contemporaneamente. La mia storia, più che un racconto di
eventi, vuole essere una testimonianza, tesa a suscitare riflessioni in quelle famiglie che
vivendo esperienze analoghe, si lasciano travolgere ed immobilizzare da paure, ansie, fino a
chiudersi nell’isolamento e dunque non vivono quest’esperienza come un percorso di crescita
personale, in cui bisogna scendere in campo e affrontare le difficoltà, le incertezze, con tutte
le proprie forze. Sono madre di cinque figli: tre ragazze adolescenti e due ragazzi di cui uno
con minoranza visiva grave, l’altro con handicap motorio e visivo. Sin dai loro primi giorni di
vita mi sono sentita investita di una grande responsabilità nei loro confronti, e analogamente
grande è stata la voglia di non abbattermi, di non angosciarmi a rimuginare e ad interrogarmi
sul perché di essere stata scelta io, quale destinataria di una situazione duplice e così diversa,
ma che tuttavia necessitava della mia presenza concreta, paziente, sempre e comunque. Ho
capito da subito che la meditazione non mi poteva arrecare alcun sollievo, al contrario dovevo
attivarmi nell’immediato, uscire dall’ambiente protettivo, rassicurante delle mura domestiche
e attingere informazioni dal mondo esterno, insomma, trovare risorse umane che mi potessero
aiutare a crescere i miei figli ed io a crescere con loro. La forza d’animo, l’apertura verso gli
altri, la voglia di confronto, unito alla consapevolezza di dover assolvere ad un ruolo così
speciale, sono diventati i punti cardine di un progetto di vita per i miei figli che si sta
realizzando gradualmente. Ho sempre pensato che sicuramente la cosa più importante da fare
era quella di soddisfare i loro bisogni primari, di amarli incondizionatamente, di coccolarli, di
creare un rapporto di fiducia così come ogni genitore fa per il proprio figlio, ma nel contempo
mi sono messa in moto per cercare collaborazione, aiuto a livello educativo, da parte di
figure competenti, che potessero concorrere al loro percorso di crescita verso l’autonomia.
Nei primi mesi di vita, a dire il vero avevo delegato alla medicina ogni speranza. Ero
un fiume in piena, desideravo fortemente che la loro situazione potesse avere un’evoluzione
diversa e positiva, naturalmente. Mi ero resa conto, però, che le incertezze, le sperimentazioni,
le attese non avrebbero beneficiato alla crescita dei miei figli, sì perché anche loro si facevano
sentire con i loro bisogni e le loro richieste ed io ero in dovere di dargli o procurarmi le
risposte nel più breve tempo possibile, senza indugi e senza esitazioni. Insomma credendo
fermamente in loro da sempre, innanzitutto in quanto persone, con straordinarie capacità, ho
cominciato a salire la china…
Dunque, dopo la fase d’indagine per conoscere le loro diagnosi mediche, e fornire loro
le adeguate opportunità terapeutiche, mi sono attivata perché credevo fortemente e credo che
per dare ai miei figli la possibilità di avere una vita il più possibile “normale”, dipenda da noi
stessi, dalla famiglia. All’inizio tutto sembrava incerto, traballante, sembravano soltanto idee
per le quali bisognava faticare tanto, soprattutto nel cercare di non sbagliare per non fare
danni. Tale momento per me è risultato molto impegnativo. Tempestivamente, ho capito che
erano necessarie in questa fase, sia le cure mediche, sia affettive, era fondamentale evitare di
iperproteggerli e puntare sulla loro capacità di coltivare interessi, di costruire relazioni, di
conoscere la realtà con tutte le sue difficoltà, in modo da fare esperienze e crescere più forti,
crescere per sviluppare la capacità di pensare e agire liberamente.
Certo, fino ad oggi è stato necessario pormi in prima linea per rivendicare i loro diritti.
Con la scuola, per esempio, non poche sono state le difficoltà: mancanza di strumenti, di
risorse, di competenze, disinformazione e tanto altro, ma soprattutto spesso mancanza di
una disponibilità d’animo quale terreno fecondo per poter perseguire gli obiettivi prefissati e
per poter raccogliere i risultati tanto desiderati. Purtroppo, sono ancora troppo pochi i docenti
che sanno come agire per offrire gli strumenti giusti per imparare, si fa ancora tanta fatica, a
mio avviso, ad accogliere e a far integrare chi non vede o chi ha anche altri problemi e di lì
tutto si ingigantisce, tutto sembra insormontabile. Le ricadute negative ovviamente finiscono
su chi con tanta fatica sta cercando di trovare una collocazione, tra l’altro legittima, nel
contesto in cui vive, subendo purtroppo i danni maggiori.
A questo punto cosa fare? La presenza attiva e collaborativa della famiglia, a mio
avviso, risulta essere una fonte preziosa ed inesauribile di informazioni dalla quale nulla può
prescindere. Alla luce della mia esperienza di madre, ritengo che la famiglia rappresenti il
fulcro e il motore del processo di formazione e di crescita di ognuno dal quale partire per
educare, progettare; e perché no, nel proprio piccolo, farsi anche promotori di una vera e
propria opera di sensibilizzazione nel contesto in cui si vive. In che modo mi chiederete? Beh,
sicuramente partecipando agli altri i nostri disagi, i nostri dubbi, condividendo le nostre
preoccupazioni e le nostre speranze, confrontandoci, insomma. Certo non è semplice.
Affrontare la quotidianità caratterizzata da ostacoli, avversità e continue esclusioni,
rappresentano sicuramente per me una spinta che mi dà forza per procedere in un continuum,
che non si ferma dinanzi alle interdizioni, ma che procede verso la meta a cui ci siamo
prefissati di arrivare, seppur con qualche rallentamento ma sempre con un atteggiamento di
apertura e partecipazione.
Così la conoscenza dell’esistenza sul nostro territorio di una rete di servizi quali
l’Unione Italiana Ciechi e degli Ipovedenti, il Centro di Consulenza Tiflodidattica, la
Biblioteca Italiana per i Ciechi “Regina Margherita” di Monza, Il Centro Nazionale del Libro
Parlato e da ciò la garanzia di non essere più soli a credere che, anche senza vedere, anche con
difficoltà aggiuntive, molto si può fare per rendere la loro vita più gioiosa, più serena. Ho
attinto da loro informazioni preziose e dettagliate sui servizi offerti quali consulenze
scolastiche, disposizioni di legge, iniziative programmate sia a livello culturale quali le visite
ai musei, sia per ciò che riguarda lo sviluppo della socializzazione e delle diverse autonomie
con i campi estivi, che reputo esperienze dall’alto valore formativo per la professionalità e la
competenza delle varie figure coinvolte. E poi ancora il supporto indispensabile del Centro
Nazionale Tiflotecnico per conoscere e utilizzare i sussidi didattici e quelli tecnologici più
avanzati. La Biblioteca, con i suoi servizi, con le sue diverse attività, quali la trascrizione in
Braille di testi di studio, di letteratura, scientifici, la realizzazione di libri elettronici, la
pubblicazione di numerosi periodici ha contribuito ad alimentare la curiosità e l’interesse per
quegli utenti che considerano il Braille uno strumento di emancipazione sociale. L’Unione
rappresenta, oggi, per noi, una grande famiglia impegnata a difendere le conquiste sociali
ottenute con grandi difficoltà nel corso dei decenni, a perfezionare i propri servizi, a ricercare
nuove modalità d’intervento finalizzate a migliorare la qualità della vita e a concretizzare la
tanto auspicata integrazione dei minorati della vista in tutti gli ambienti di vita.
Anna Maria Senatore
LA PERSONALITÀ NELL'EDUCAZIONE DEI FANCIULLI NON VEDENTI
Enrico Ceppi
[abstract] Il ruolo giocato dalla minorazione nello sviluppo della personalità del non
vedente porta con sé alcuni interrogativi ma anche la certezza della possibilità di una
realizzazione piena [fine abstract]
A più riprese e con prospettive diverse abbiamo trattato da queste colonne i problemi
concernenti la psiche dei privi della vista, cercando di tener fede ad un principio ormai
divenuto fondamentale per gli studi tiflopsicologici e sul quale si fondano i più validi metodi
tiflopedagogici, ed il principio potrebbe così essere riassunto: la cecità è un fatto puramente e
semplicemente sensoriale, essa non intacca la psiche dell'uomo, non incide sul suo potere
intellettuale e, più ancora, non influisce sul suo mondo morale. Un'affermazione di principio
che trova la sua motivazione nel fatto, nella pratica di vita, nella documentazione personale di
numerose testimonianze autobiografiche; un principio quindi che non può intendersi come
l'elaborazione di una teoria, come la conclusione dello sviluppo ideologico di un pensiero
filosofico, per quanto in esso principio appunto perché tale, vi siano raccolte valide
conclusioni ideologiche.
Lo studioso che cercasse di formulare una teoria dell'educazione dei ciechi, partendo dal
principio sopraenunciato considerato, come fonte delle applicazioni pratiche e non esso stesso
come la conclusione di esperienze, cadrebbe indubbiamente in errori di impostazione e in
difetti di metodologia. Una siffatta teoria dell'educazione dei ciechi rischierebbe di dare, come
fatti naturali e acquisiti, quelle conquiste che sono soltanto e specificatamente le conclusioni
dell'azione educativa. La psicologia del privo della vista si libera dalle conseguenze della
minorazione a seguito di una sana azione educativa e pur avendo in sé le possibilità
intrinseche di svolgersi su un piano di normalità, conquista la propria normalità soltanto
nell'educazione, nel processo cioè che celebra l'incontro umano degli individui. Il fanciullo
non vedente ha una propria intelligenza, ma non ha i mezzi per poterla far funzionare in
pieno, non ha le risorse per arricchirla per irrobustirla e la funzione non si sviluppa non
diviene potere vero e proprio senza un adeguato esercizio: egli ha una volontà, ma non può
coordinare l'estrinsecazione nel giusto limite, e così potremmo dire di tutte le funzioni
psichiche che pur permanendo integre restano come avvolte da un velo che impedisce ad esse
di svolgersi, di coordinarsi, di crescere in armonia con quanto avviene fuori. Che succede
allorquando una pianta destinata a crescere alla luce del sole, tra i venti e la pioggia, viene
costretta al buio di un innaturale rifugio? Essa langue pur crescendo, scolorisce pur
assumendo una propria tenue fisionomia, sviluppa il proprio germe, la propria potenzialità,
realizza la propria specie, ma tutto in modo ridotto, estremamente mortificato, quasi ristretto
ai limiti della sua naturalità. Non altrimenti avviene per il fanciullo cieco non educato,
lasciato a se stesso, o meglio, alla natura e alla minorazione, due forze contrastanti che
finiscono per comprimere quel se stesso, che noi nel processo educativo vogliamo liberare.
Fuori dal processo educativo speciale il piccolo non vedente cresce realizzando il
minimo della propria caratteristica individuale, dando una pallida immagine di quello che
avrebbe potuto essere, ma che non è e non sarà. L'intelligenza del fanciullo vittima della
cecità continuerà a lampeggiare tra le nubi che costituiscono il pesante velario steso sul suo
mondo privo di immagini e la sua volontà non avrà l'oggetto e il fine per esercitarsi; tuttavia
egli sarà un fanciullo normale, forse di una normalità oscillante, tenue, spesso oscurata da
improvvise crisi, sarà normale e nessuno potrà contestargli questa normalità e a nessun patto
potrà essere paragonato neppure come quadro sindromatico delle manifestazioni ai minorati
psichici, ai tardivi di qualsiasi genere. Egli, il fanciullo cieco, educato o privo di ogni aiuto,
inserito con piena coscienza nel consesso degli altri uomini oppure chiuso in una disperata e
inutile lotta contro la propria minorazione, egli il piccolo non vedente è sempre un normale.
Ciò significa che integra è in lui la possibilità di formarsi una personalità psichica pienamente
valida e quando a questo risultato non si può giungere, il fatto non deve essere imputato alla
cecità, ma a una serie di fattori esterni, indipendenti dalle condizioni soggettive del minorato.
Che cosa intediamo per personalità? Un termine usato con grande frequenza a proposito
e più spesso a sproposito: un termine che per il proprio valore generale si presta a numerose
interpretazioni e che raccoglie, a seconda delle sedi in cui viene applicato o usato, significati
diversi. Nel linguaggio corrente la personalità è la caratteristica fondamentale di un individuo,
l'insieme delle sue doti personali e particolari, per cui l'individuo uomo si differenzia da un
altro. Diciamo così che un uomo ha propria personalità quando possiede in grado elevato la
facoltà di evidenziare le proprie caratteristiche positive, quando si stacca dalla massa o meno
amorfa, quando sa essere per tempi considerevoli compiutamente se stesso.
L'interpretazione popolare del termine “personalità”, che abbiamo cercato di riassumere
e di concentrare in definizioni brevi, non parte da un presupposto errato, pur non centrando
nel pieno del suo valore il significato scientifico. Come sempre, l'interpretazione popolare dà
una definizione fondata sul buon senso, che spesso costituisce la formula scientifica diluita;
definizione comunque valida per risalire a una formulazione più precisa e più obbiettiva. Noi
distinguiamo tra persona e personalità, come distinguiamo tra l'atto spirituale e la reazione
psichica, come distinguiamo tra l'uno e il molteplice, tra l'Entità e l'esistenza. La persona è
l'unità intrinseca che costituisce l'uomo, è il suo vero volto che guarda verso l'immortalità.
La “persona” è in tutti: in coloro che trionfano nella vita, in cui l'umanità celebra le
proprie vette, in cui esplodono, quasi incontenibili, ingegno, forza, volontà e intelligenza; e in
coloro nei quali la vita è ridotta a poche funzioni, nei quali un velo pesante e impenetrabile
copre il valore, l'epifania aperta dello spirito: in tutti vi è persona, intima profonda unione di
corpo e di spirito, valore supremo che trascende questo o quel fine particolare. La personalità
è invece, per noi, il manifestarsi della persona, l’estrinsecarsi di questa dinamica che
chiamiamo vita e che scaturisce direttamente dall'unione del corpo e dello spirito. La
personalità è quanto possiamo vedere, constatare, è quanto vale sul piano sociale, è la stessa
forma esteriore, assunta dalla “persona”. Essa si fonda quindi su una reazione di adattamento
dell'organismo, sull'adeguamento delle funzioni all'oggetto della funzionalità, sulla
differenziazione e distinzione dell'individuo o, meglio, dell'individualità. Difficilmente
possono essere trovati anche nella stessa specie due individui perfettamente identici, per cui
sia impossibile distinguere l'uno dall'altro; dovremmo scendere nella scala degli esseri
inferiori dove il principio di differenziazione e di distinzione non è assolutamente percepibile,
almeno con i nostri mezzi naturali. Pur tuttavia il fatto che un cane differisca da un altro, che
chiunque saprebbe distinguere il proprio cavallo da quello di un altro, non significa che
l'animale abbia realizzato la propria personalità: ad esso manca quanto di più essenziale vi
possa essere alla personalità, e cioè la persona. Lo sforzo di adeguamento funzionale, la
profonda reazione organica, conducono nell'animale superiore all'individualizzazione, alla
realizzazione dell'individuo nella specie; nell'uomo vi è qualcosa di più e lo abbiamo già
visto. Per questo suo contenuto che sorpassa i limiti del fisiologico o del fisiopsichico, la
personalità umana non può intendersi frutto di naturale spontaneità, ma deve essere il risultato
di una attività corale, di uno sforzo composto che nel suo iniziarsi si chiama educazione. La
personalità si può affermare ed evolvere soltanto nell'umanità.
A questo punto urge tornare al tema fondamentale di queste nostre rapide note
psicologiche: il privo della vista, l'uomo cioè posto in una determinata condizione di vita,
l'uomo privato di alcuni mezzi di manifestazione e di conquista dell'esperienza. Incominciamo
subito col chiederci se l'uomo privato della vista, che ingiustamente si tende ad isolare
dall'umanità, a circoscrivere con un aggettivo che ha assunto un innaturale valore di
sostantivo, l'uomo cieco, cioè privo della vista, che è divenuto “il cieco”, cioè quasi una
specie nella specie, quest'uomo può esprimere la propria personalità nella pienezza della sua
potenzialità? La personalità abbiamo detto è all'inizio un momento connesso con l'educazione,
è un fattore civile e sociale che scaturisce dalla educazione, non solo per quel rapporto di
integrazione tra persona e persona, tra educatore ed educando, ma anche per il fermento di
vita che l'educazione stimola e orienta, potenzia e disciplina, per quanto insomma di culturale
e di morale vi è nell'atto educativo. Il fanciullo non vedente può trarre dall'educazione il
momento per la propria personalità?
Potremmo senz'altro rispondere affermativamente all'interrogativo precedente,
richiamando l'esperienza, ricordando illustri esempi di grandi uomini che hanno saputo essere
tali nonostante la minorazione della vista; potremmo rispondere affermativamente, deducendo
la risposta dal fatto incontestabile che continuiamo ad educare fanciulli ciechi, credendo per
ciò all'efficacia della nostra opera e al valore positivo che essa ha nei confronti della
personalità dei nostri educandi; ma preferiamo indugiare un attimo ancora su alcune
considerazioni, prima di abbandonarci all'ottimistica affermazione, valida per l'esperienza e
per tante dimostrabili ragioni estrinseche. Anzitutto chiediamoci se l'educazione del fanciullo
non vedente riesce sempre a liberarlo da tutti gli effetti che la cecità provoca sull'estrinsecarsi
della sua attività psichica. Ci siamo già chiesti, per puro amore di indagine, se possiamo noi
affermare che quel determinato individuo privo della vista, in condizioni diverse, cioè in
possesso della piena funzionalità sensoriale, sarebbe stato più o meno intelligente, cioè se la
minorazione non ha portato un certo abbattimento nelle sue possibilità intellettive e
ovviamente non abbiamo risposto allora e non possiamo rispondere adesso. L'interrogativo
potrebbe essere esteso a tutta l'attività psichica dell'individuo che non vede, potrebbe
coinvolgere tutto l'individuo stesso e concludersi in questo modo: quel determinato individuo
come sarebbe stato, come avrebbe reagito alla vita sensoriale, immaginativa ecc., quale
sarebbe stato nella società, se non fosse stato minorato della funzione visiva? Si prospettano
quindi due tesi differenti: l'una che potrebbe essere chiamata della specificità dell'atto
educativo e per la quale l'educazione dovrebbe potenziare, svolgere quell'entità che è il
fanciullo cieco, così come essa si presenta senza riferimento al fanciullo normale: educare il
fanciullo cieco ad essere più profondamente e più propriamente uomo privo della vista, uomo
caratterizzato da una posizione particolare; l'altra, che potrebbe chiamarsi la tesi del
superamento, punterebbe sul risultato di togliere il fanciullo privo della vista, dal proprio
mondo fatto solo di suoni, spingerlo in un mondo comune fatto di immagini, affiancarlo agli
uomini non solo come problema sociale, ma anche e maggiormente come momento di
sviluppo della personalità. Due tesi che esprimono due modi di intenderli la Scuola per
fanciulli ciechi e per fanciulli minorati in genere, due tesi che sintetizzano due metodi per i
quali potremmo discutere lungamente a favore o contro, senza probabilmente giungere a una
conclusione definitiva. La prima tesi, quella della specificità dell'educazione, ha dalla sua
parte la valida argomentazione che l'atto educativo tanto più risulta valido ed efficace, quanto
maggiormente tiene conto della realtà del fanciullo, non si sforza di alterarla, di deformarla,
ma ne rispetta la presenza qualunque essa sia: teoria indubbiamente suggestiva, che nasconde
l'insidia, mal celata dal rispetto dell'autonomia del fanciullo, di una esacerbata positività la
quale la personalità come atto estrinseco ha più valore della “persona”, anzi per la quale si
può parlare di personalità, senza parlare di “persona”.
L'altra tesi opposta è tacciata di eteronomismo nell'atto educativo appunto per quel
tendere che fa l'educatore a strappare il fanciullo da un atteggiamento connaturato, da un
modo di essere che sarebbe congeniale al suo stato di minorato. La disputa potrebbe non aver
conclusione, se avessimo accettato per principio l'esistenza di un individuo definibile con il
sostantivo di “cieco”, ma per noi il sostantivo non esiste e se vuol essere usato il termine, esso
deve avere esclusivo valore aggettivale, posto dopo, e non solo come disposizione, ma più
ancora come significato, il sostantivo “uomo”. La personalità è nel sostantivo, nel suo valore
che trascende lo stato particolare, che va oltre la difficoltà di un momento o di una intera vita.
Tuttavia occorre subito aggiungere che il potenziale umano costituente il substrato della
personalità ha bisogno per liberarsi di una azione dall'esterno, di una forza, tanto per usare
una espressione fisica, che possa costituirsi equilibrio a quella della minorazione e che sia a
questa di senso contrario e di valore superiore. Il fulcro attivo della forza, usando sempre
l'immagine fisica, non risiede fuori del soggetto, in una artificiosa realtà educativa
inimmaginabile, bensì sta nel soggetto stesso, nella sua validità come persona, nella sua
potenziale integrità psicologica, nello slancio che dall'interno viene e che proietta il desiderio
di conoscere di volere, di essere e di vivere, verso il mondo circostante e verso la società.
L'educatore rimuove gli ostacoli che sussistono a questo slancio di espansione, ne regola e ne
dimensiona l'intensità, ne ordina e disciplina i tempi; l'educatore fa con il fanciullo cieco ciò
che ogni educatore deve fare con ogni fanciullo. Resta sempre il nostro precedente
interrogativo, teorico e di studio fin che vogliamo, ma tale da proiettare un'ombra reale
sull'esistenza di chi non vede: come avrebbe potuto essere l'individuo minorato senza la
minorazione? L'interrogativo, più o meno palesemente, con minore o maggiore valore
scientifico, viene posto ogni qualvolta il fanciullo non vedente, o l'uomo non vedente, viene a
contatto con la società e si traduce in pratica in un atteggiamento di sfiducia, di
incomprensione, perché gli altri, coloro che sono integri, avrebbero voluto rivolgersi all'uomo
che avrebbe potuto essere, ma che non s'è realizzato, all'uomo così come si sarebbe
manifestato nella sua piena libertà di esistenza. Ognuno si crea un proprio fantasma della
minorazione, inconsciamente tende a fare della cecità un fattore tipizzante, profondamente
tipizzante, tale da costituire per proprio conto un individuo diverso dagli altri. Il nostro
interrogativo tuttavia non si esaurisce nell'aspetto più appariscente del problema, nelle
conseguenze di un pregiudizio o di una situazione di fatto costituitasi per motivi sociali e
storici attraverso i secoli, il nostro interrogativo deve andare ben oltre, e investire la sostanza
del problema: come possiamo essere certi del normale funzionamento delle facoltà psichiche
del non vedente? Come possiamo raggiungere, noi, gli educatori, la consapevolezza che la
nostra opera ha liberato in pieno quell'individuo, quell'uomo che giaceva sotto il peso della
minorazione ?
L'intelligenza, la volontà, l'attenzione, la memoria come reagiscono alla presenza della
cecità? Sino a qual punto il fanciullo che non vede può liberarsi dagli effetti negativi di un
ambiente sociale antieducativo o comunque non idoneo a favorire lo sviluppo di un individuo
minorato? Sono state tentate numerose risposte ai quesiti precedenti, ma per quanto noi
abbiamo cercato con pazienza e con amore, nessuna è tale da soddisfarci veramente e in
pieno, nessuna porta il crisma dell'obbiettività e della validità universale. Si citano casi e dai
casi si risale alla norma, che può essere, e spesso è, positiva per chi non vede: si afferma che
lo stato di cecità favorisce l'attenzione, potenzia la volontà, acuisce, spesso, l'intelligenza e
questo perché eliminerebbe le cause della distrazione, porrebbe ostacoli che allenano
costantemente la volontà, creerebbe il clima più favorevole alla meditazione. Non è insolito
sentir dire: i ciechi sono più intelligenti, sono più attenti, sono, e questo è ancor più
inspiegabile, buoni. Più o meno: due affermazioni opposte, eppure esistono argomenti, tratti
dall'esperienza, ugualmente validi, per sostenere l'una o l'altra tesi. Così potremmo dire che
l'attenzione è favorita dalla cecità, perché il particolare stato porta ad un maggior potere di
concentrazione, oppure potremmo anche sostenere che l'attenzione è minore nel privo della
vista, poiché in lui vi è una maggiore pressione esercitata dal fantasticare a vuoto. La scarsità
delle immagini favorisce infatti il sorgere di un lavorio fantastico e astratto, il quale finisce
per espandersi in tutta la personalità psichica del non vedente, attutendone o deviandone tutte
le facoltà. Eppure sono fermamente convinto che la verità, anche in questo caso, sia una e una
sola; e sono altresì convinto che l'educatore debba seriamente e sinceramente ricercare questa
verità per perseguirne la strada con passione e con amore nella sua faticosa opera redentrice.
Allo stato attuale degli studi, non è possibile dare una risposta a tutti gli interrogativi
precedenti e in conclusione all'interrogativo di fondo. Sentiamo per convinzione che la
risposta deve orientarsi in un determinato senso, per cui si possa affermare che al minorato
nonostante la minorazione resta la possibilità di affermare la propria personalità, di essere se
stesso in modo completo e compiuto. Gli interrogativi tuttavia restano e ad essi soltanto una
approfondita e obbiettiva ricerca psicologica potrà rispondere. La strada da percorrere è
ancora lunga; possiamo affermare con sufficiente sicurezza che sulla via dell'elaborazione di
un metodo per l'educazione dei ciechi noi siamo ancora alla geniale proposta di Augusto
Romagnoli, il quale ha intuito, ha indicato la strada e forse l'avrebbe percorsa da sé,
portandoci le risposte che noi attendiamo, se non ne fosse stato impedito, proprio nel
momento della realizzazione, da un male terribile per tutti. In sostanza il metodo di Augusto
Romagnoli strappa con vigore la Scuola dei ciechi dalla tesi della specificità, dal principio
della accettazione della minorazione come realtà psicologica, e avvia la Scuola verso la
formazione dell'uomo che prevale e assorbe in sé ogni stato particolare, dell'uomo che è prima
ancora che sia il minorato, che è al di sopra del minorato e che facilmente può scoprirsi nella
sua essenzialità. Spetta a noi chiarire le tappe di questo metodo, scoprirne in fondo la grande
verità che esso contiene, mostrare tutto quanto in esso è semplicemente enunciato e intuito.
Il lavoro psicologico, che l'istituto Romagnoli ha di recente intrapreso, si propone
appunto queste mete e non vuole essere fredda e sterile ricerca, faticosa costruzione di teorie o
elaborazione di dati astratti: vuole apportare un contributo alla pedagogia dei fanciulli ciechi,
vuole offrire conclusioni valide alla tiflosociologia, vuole in fine chiarire gli effetti della
minorazione sulla personalità di chi non vede per poter arrivare sempre più in là nel processo
di liberazione.Enrico Ceppi
Tiflologia per l’integrazioneIndice 2010
PARTE PRIMA
Indice dei fascicoli
N. 1 (GENNAIO - MARZO)
EDITORIALE PISCITELLI Pietro, La riforma dei licei, pp. 2-3 PSICOLOGIA RIPAMONTI Elisa, Le problematiche psico-pedagogiche e sociali degli ipovedenti gravi e dei ciechi con o senza minorazione aggiuntiva, pp. 4-18 TELESCA Maria Grazia, Con gli occhi di mia madre, pp.19-28
INTEGRAZIONE SCOLASTICA RAUSO Concetta, L’inserimento e l’integrazione dei disabili nella scuola, pp. 29-36 VETTOR Lorenza, Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità: luci e ombre, pp. 37-48
MUSICA ROVI Armando, L’approccio al segno Braille attraverso la musica, pp. 49-54
STORIA DELLA TIFLOLOGIA CEPPI Enrico, La caratterizzazione della cecità in Augusto Romagnoli, pp. 55-64
SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE a cura del Centro di Documentazione Tiflologica, p. 65
PUBBLICAZIONI DELLA BIBLIOTECA ITALIANA PER I CIECHI…………………………………………………., pp. 67-72 N. 2 (APRILE - GIUGNO)
EDITORIALE PISCITELLI Pietro, L’integrazione scolastica degli alunni stranieri, pp. 74-75 RIABILITAZIONE AMORE Sara Antonella, La riabilitazione visiva come strada verso l’autonomia, pp. 76-85 MELCHIORRI Antonella, CIOCI Matteo, La provocazione che giova: nuove tecniche di intervento in un centro di riabilitazione atipico, pp. 86-96
MOBILITA’ NOCI Silvia, Liberi di viaggiare… con altri occhi, pp. 97-107
ESPERIENZE DIDATTICHE POLIDORI Filomena, Un modello di cooperative e-learning. Promuovere l’e-inclusion di utenti minorati della vista, pp. 108-118
CLASSICI DELLA TIFLOLOGIA VILLEY Pierre, Il lavoro intellettuale dei ciechi, pp. 119-140
SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE a cura del Centro di Documentazione Tiflologica, pp. 141-142
PUBBLICAZIONI DELLA BIBLIOTECA ITALIANA PER I CIECHI…………………………………………………., pp. 143-148
N. 3 (LUGLIO - SETTEMBRE)
EDITORIALE PISCITELLI Pietro, Al via le misure di accompagnamento alla riforma della scuola superiore, pp. 150-151 PSICOLOGIA GIOVAGNOLI Valeria, Il colore dei colori, pp. 152-167 INTEGRAZIONE SOCIALE CARRUBA Maria Concetta, Riconoscendo la dignità di Polifemo, pp. 168-176
PLURIMINORAZIONE COPPA Mauro Mario, Utilizzo del video tape e di un modello di videoanalisi per lo studio dei patterns di interazione e comunicazione nelle disabilità plurime, pp. 177-193
INFORMATICA GABELLI Maurizio, Il disabile visivo tra inclusione e integrazione scolastica, pp.194-198 DI GRANDE Giuseppe, Greco antico e Biblos, pp.199-201
ESPERIENZE DIDATTICHE AIDIVI - ONLUS, I ragazzi del Bacìo… questa volta “tutti al mare”, pp. 202-204
SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE a cura del Centro di Documentazione Tiflologica, pp. 205-206
PUBBLICAZIONI DELLA BIBLIOTECA ITALIANA PER I CIECHI……………………., pp. 207-212
N. 4 (OTTOBRE - DICEMBRE)
EDITORIALE PISCITELLI Pietro, La formazione iniziale degli insegnanti, pp. 214-215
PEDAGOGIA AUGELLO, Francesco, La multimedialità a scuola: da strumento ad ambiente di apprendimento, pp. 216-222 RAUSO Concetta, Il ruolo della scuola e della famiglia alla luce delle “Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità”, pp. 222-233 PSICOLOGIA
ARGENTON Alberto, Toccare con mano l’arte plastica, pp. 234-242 ESPERIENZE DIDATTICHE MALTONI Angela, SANNA, Maria, Giorgetto l’animale che cambia aspetto e l’alfabeto Braille, pp.243-254
TESTIMONIANZE SACCHI Gabriele, Integrazione come tappa esenziale nel cammino di un non vedente, pp. 255-258 SENATORE Anna Maria, Per non sentirsi soli, pp. 259-262
CLASSICI DELLA TIFLOLOGIA CEPPI Enrico, La personalità nell’educazione dei fanciulli non vedenti, pp. 263-270
INDICE 2010…………………………….……………………., pp. 271-277
PUBBLICAZIONI DELLA BIBLIOTECA ITALIANA PER I CIECHI…………………., pp. 279-284
PARTE SECONDAIndice degli autori
AIDIVI - ONLUS- I ragazzi del Bacìo… questa volta “tutti al mare”, 2010, n. 3, p.202-204
AMORE, Sara Antonella- La riabilitazione visiva come strada verso l’autonomia, 2010, n. 2, pp. 76-85
ARGENTON, Alberto- Toccare con mano l’arte plastica, 2010, n. 4, pp. 234-242
AUGELLO, Francesco, - La multimedialità a scuola: da strumento ad ambiente di apprendimento, 2010, n. 4, pp. 216-222
CARRUBA, Maria Concetta- Riconoscendo la dignità di Polifemo, 2010, n. 3, pp. 168-176
CEPPI, Enrico- La caratterizzazione della cecità in Augusto Romagnoli, 2010, n. 1, pp. 55-64- La personalità nell’educazione dei fanciulli non vedenti, 2010, n. 4, pp. 263-270
CIOCI, Matteo
- La provocazione che giova: nuove tecniche di intervento in un centro di riabilitazione atipico, 2010, n. 2, pp. 86-96
COPPA, Mauro Mario
- Utilizzo del video tape e di un modello di videoanalisi per lo studio dei patterns di interazione e comunicazione nelle disabilità plurime, 2010, n. 3, pp. 177-193
DI GRANDE, Giuseppe
- Greco antico e Biblos, 2010, n. 3 pp.199-201
GABELLI, Maurizio- Il disabile visivo tra inclusione e integrazione scolastica, 2010, n. 3, pp.194-198
GIOVAGNOLI, Valeria- Il colore dei colori, 2010, n. 3, pp. 152-167
MALTONI, Angela- Giorgetto l’animale che cambia aspetto e l’alfabeto Braille, 2010, n. 4, pp. 243-254
MELCHIORRI, Antonella- La provocazione che giova: nuove tecniche di intervento in un centro di riabilitazione
atipico, 2010, n. 2, pp. 86-96
NOCI, Silvia- Liberi di viaggiare… con altri occhi, 2010, n. 2, pp. 97-107
PISCITELLI, Pietro- La riforma dei licei, 2010, n. 1, pp. 2-3- L’integrazione scolastica degli alunni stranieri, 2010, n. 2, pp. 74-75- Al via le misure di accompagnamento alla riforma della scuola superiore, 2010, n. 3, pp.
150-151- La formazione iniziale degli insegnanti, 2010, n. 4, pp. 214-215
POLIDORI, Filomena- Un modello di cooperative e-learning. Promuovere l’e-inclusion di utenti minorati della
vista, 2010, n. 2, pp. 108-118
RAUSO, Concetta- L’inserimento e l’integrazione dei disabili nella scuola, 2010, n. 1, pp. 29-36- Il ruolo della scuola e della famiglia alla luce delle “Linee guida per l’integrazione
scolastica degli alunni con disabilità”, 2010, n. 4, pp. 222-233
RIPAMONTI, Elisa- Le problematiche psico-pedagogiche e sociali degli ipovedenti gravi e dei ciechi con o
senza minorazione aggiuntiva, 2010, n. 1, pp. 4-18
ROVI, Armando- L’approccio al segno Braille attraverso la musica, 2010, n. 1, pp. 49-54
SACCHI, Gabriele- Integrazione come tappa esenziale nel cammino di un non vedente, 2010, n. 4, pp. 255-258
SANNA, Maria, - Giorgetto l’animale che cambia aspetto e l’alfabeto Braille, 2010, n. 4, pp. 243-254
SENATORE, Anna Maria- Per non sentirsi soli, 2010, n. 4, pp. 259-262
TELESCA, Maria Grazia- Con gli occhi di mia madre, 2010, n. 1, pp.19-28
VETTOR, Lorenza- Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità: luci e ombre, 2010, n.
1, pp. 37-48
VILLEY, Pierre- Il lavoro intellettuale dei ciechi, 2010, n. 2, pp. 119-140