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Cinzia Tani

Sognando California

Cin

zia Tani Sognando C

alifornia

tascabili Marsilio Narrativa

cinzia tani, romana, è scrittrice, autrice e conduttrice di programmi radio-televisivi. Per Marsilio ha pubblicato anche I mesi blu. Per Mondadori: Premiopoli, Assassine, Cop-pie assassine, Nero di Londra, Amori crudeli, L’insonne, Sole e ombra, Panico, Lo stupore del mondo, Rabbia, Charleston, Io sono un’assassina, Il bacio della Dionea. Per Piemme: La brava moglie, La migliore amica, Stringimi. Per Gallucci il libro per bambini La Mela.Il suo sito internet è www.cinziatani.it

Vent’anni: una vita trascorsa serena, una maturità appena intravista, senza raggiungerla e tanta tanta insicurezza. Così, con mille proble-mi irrisolti, la protagonista di questo romanzo parte per Los Ange-les, ripetendo l’itinerario di sua madre, venti anni prima. C’è in lei il desiderio di ripercorrerne i passi, di doppiarne le esperienze, di svelarne i segreti: nella madre, nella sua sicurezza, nella sua vitalità si specchia, illudendosi di essere adulta.Una figlia, una madre, l’American Dream: la vita che si ripete in un mondo apparentemente senza conflitti che però ha perso la bussola.

«La seduzione e il fascino degli Stati Uniti, non più, come per precedenti generazioni, come modello culturale o terra dei sogni, ma come luogo riconoscibile dove vivere, sperimentare la vita, liberarsi» Sergio Perosa, the new york times book review

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Il primo romanzo di Cinzia Tani25 anni dopo, un esordio che fece epoca

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TASCABILI MAXI

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© 2012 by Marsilio Editori® spa in Venezia

Prima edizione digitale 2012 ISBN [email protected] Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

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All the leaves are brown,And the sky is grey.I’ve been for a walkOn a winter’s day.I’d be safe and warm,If I was in L.A.California dreamin’On such a winter’s day.

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Introduzione

  Il mio primo romanzo... Mi fa impressione riprender-

lo in mano dopo tanti anni e altri ventiquattro libri pub-blicati. Lo scrissi dopo un lungo soggiorno a Los Ange-les, innamorata di quella città, di tutte le cose che generalmente non piacciono a chi la visita. L’inquinamen-to che rende la luce livida e irreale come quella di un set cinematografico, le interminabili freeways, le larghe spiagge poco attrezzate, selvagge senza essere esotiche, i grattacieli trasparenti che mostrano tutto e tutto nascon-dono, il caos messicano di downtown, con i suoi colori pacchiani, i rumori stridenti, le trasgressioni di Venice Beach, il vento caldo e polveroso di Santa Ana che por-ta incendi e follia. Una metropoli dura, affollata di anime perdute e di sogni infranti, con i suoi viali del tramonto e i luoghi per il divertimento sfrenato, astratta, priva di identità... che aveva, chissà perché, il potere di emozio-narmi e commuovermi.

Conservo ancora una moneta che arrivò al mio indi-rizzo perché in una cabina telefonica avevo introdotto nell’apparecchio troppo denaro. Ero sbalordita. Quella metropoli asettica e indifferente mi aveva individuata per restituirmi ciò a cui avevo diritto. Forse il sentimento prevalente di quel periodo era proprio lo stupore, l’in-canto della novità. L’euforia nel trovare la chiave di uno

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scrigno magico che mi lasciava scoprire i suoi meccani-smi.

Da molti anni insegno in corsi di scrittura creativa e uno dei primi consigli che do è quello di evitare l’auto-biografia. Come scriveva Dostoevskij: «Bisogna essere troppo sfacciatamente innamorati di se stessi, per parla-re, senza vergognarsene, della propria persona». Ho sem-pre pensato che solo vite eccezionali possono essere rac-contate da chi le ha vissute. Scalatori, navigatori solitari, avventurieri, ricercatori... Il romanziere secondo me è un burattinaio che muove i suoi personaggi solo dopo aver-li conosciuti profondamente perché li ha creati ma fra i pupazzi non ce n’è mai uno che gli somigli troppo.

Nonostante questo, i miei primi due romanzi sono in gran parte autobiografici. Ma questo succede spesso a chi inizia. Eppure, forse perché fin da allora sentivo che una vera autobiografia sarebbe stata “sfacciata”, ho in-vertito le carte: l’io narrante è di fantasia mentre la sto-ria della madre è in gran parte vera. Questo portò all’epoca dell’uscita del romanzo a qualche equivoco. Le recensioni davano per scontato che l’io narrante fossi proprio io.

Molti anni dopo la pubblicazione tornai a Los Angeles alla ricerca delle persone che avevano ispirato i perso-naggi del libro. Non le trovai, per fortuna. So che sareb-be stata una delusione come lo fu rivedere i luoghi che avevo descritto e la città stessa. Improvvisamente capii la forza trasfigurante della penna guidata dall’immagina-zione. Pur raccontando fatti realmente accaduti, ambien-ti diventati familiari, niente somigliava a quello che ave-vo descritto. Niente aveva lo stesso potere seduttivo.

Non sono più innamorata dell’America per tanti mo-tivi che sarebbe lungo spiegare. Tutto ciò che mi aveva affascinata in quel primo lungo viaggio lontano da casa non ha più alcun potere su di me. Amo l’Europa più

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che mai ma capisco come uno sguardo giovane, in que-gli anni ancora spensierati, potesse rimanere abbagliato dallo sfavillio americano, dalla mancanza di sobrietà, dal-le sproporzioni, dall’incoscienza. Quella città algida, di-stratta, pulsante, multirazziale, con tanti centri e nessun cuore, rappresentava allora per me, e per tanti come me, l’idea stessa della libertà, del futuro.

 Cinzia Tani, marzo 2012

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Mi ero addormentata da appena due ore quando suo-nò la sveglia. Dovevo partire e Massimo aveva passato con me gran parte della notte. Se ne andò all’alba perché temeva che i miei genitori si alzassero più presto del solito e lo scoprissero.

Sapevano della nostra relazione, fra noi era comincia-to ai tempi della scuola, a quindici anni, ma non avreb-bero sopportato di vederlo uscire dalla mia stanza di primo mattino dopo averlo visto andar via la sera prima, neanche genitori speciali come loro. Specialissimi, visto che Valerio non era mio padre, ma non sapeva che io lo sapevo, e lei, Marzia, mi aveva messa al corrente del suo segreto senza però rivelarmi di chi fossi la figlia. Non che si rifiutasse di dirmelo, semplicemente non lo aveva mai saputo.

Mia madre aveva sempre cercato di distinguersi in qualche modo dalle altre madri. Ad esempio non mi offrì il ruolo di protagonista nella sua vita, come di so-lito le mamme fanno con i loro bambini. Piuttosto era lei che sosteneva la parte principale e non solo nella sua e nella mia vita, ma anche in quella di molte altre per-sone, uomini, generalmente.

Infatti di sesso femminile c’ero solo io, ma con me il suo atteggiamento non era dovuto all’egocentrismo o

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alla vanità, bensì a un’eccessiva esuberanza. Marzia era troppo estrosa, appassionata e vivace per non sconfinare nello spazio degli altri. D’altronde io ero pigra e una madre così mi stava benissimo.

Per merito suo non conoscevo la noia e la mia imma-ginazione non si stancava a inventare storie poiché c’era-no le sue a nutrirla. Quando usciva, tutto il mio mondo rallentava il passo e io rimanevo ferma ad aspettarla, senza neanche la forza di dar la carica a un giocattolo.

Valerio, mio padre, anche lui come me tendenzialmen-te pigro e riflessivo, veniva a volte coinvolto e soggioga-to dalla vitalità della moglie. Allora lo guardavo costrin-gersi a fare cose che, considerato il suo aspetto pesante e l’aria professionale che non l’abbandonavano mai, lo rendevano ai miei occhi assai ridicolo.

Era un uomo solido, dai principi incrollabili e di un’onestà cocciuta. Da bambina lo vedevo come una montagna rocciosa o come un grosso orso bianco, sem-pre lì, presente nella sua staticità, pronto ad aiutare e proteggere se questo non contrastava con i suoi principi. Non c’era nient’altro, neanche a cercare bene, in profon-dità. Non aveva complessi che denunciassero misteri ri-mossi, né manie che lo distinguessero, tantomeno pas-sioni nascoste. Era tutto ciò che mostrava di essere.

Comunque la personalità di Marzia riusciva da sola ad assorbirmi completamente. Alcuni anni dopo cominciai a sospettare che l’influenza che aveva su di me fosse più negativa che positiva. Se infatti lei si affannava a riem-pirmi la vita, io perlopiù rimanevo passiva e mi abituavo a esserlo.

 C’era l’odore di Massimo sul mio cuscino. Vi affondai

la faccia per sentirlo meglio. Inspirai profondamente ed ebbi un attimo di smarrimento, non lo avrei visto per tre mesi. Non ci eravamo mai separati per tanto tempo.

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Quella notte aveva voluto fare l’amore tre volte, «una per ogni mese che non ci vedremo» aveva detto. La terza era stata la più bella perché eravamo entrambi tra il sonno e la veglia e gli abbracci avevano acquistato una languidezza e un’intensità insolite per noi. Non mi im-portava di passare la notte in bianco, avrei dormito in aereo.

Scacciai subito dalla mente la parola «aereo». Avrei già sofferto abbastanza al momento di salirci e per tutta la durata del volo, inutile pensarci prima.

La valigia era ai piedi del letto, già chiusa da due giorni. Mi piaceva fare le cose con anticipo. Certo i ve-stiti non sarebbero arrivati in America in buono stato, ma a casa di Susan avrei trovato tutto l’occorrente per rimetterli in sesto.

Avevo conosciuto Susan durante un viaggio in Inghil-terra. La scuola che frequentavo a Londra mi aveva as-segnata alla sua famiglia per un soggiorno di un mese. Già allora era fidanzata con un americano che viveva a Los Angeles. Così, quando un anno dopo si sposarono, lei si trasferì negli Stati Uniti chiedendomi sempre, nelle sue lettere, di andarla a trovare.

 Anche mia madre, quando aveva qualche anno più dei

miei, andò ad abitare tre mesi a Los Angeles. Dopo la laurea era partita per New York con un’amica più gio-vane, Serenella. Vagabondarono nei vari Stati per una ventina di giorni e poi, attirate dal clima mite e dalla vicinanza del mare, si fermarono in California. A Los Angeles presero una camera in affitto in un motel e fre-quentarono una scuola di inglese per stranieri.

Quando ero bambina non passava giorno senza che Marzia accennasse in un modo o nell’altro all’America e alla sua permanenza in quel paese. Sembrava che parte di lei non avesse ancora lasciato quei luoghi, tanto erano

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presenti nella sua vita. Parlava di Los Angeles anche quando si trovava con Valerio o con gli amici. Ricordava la luce particolare che la città assumeva dopo il tramon-to, le sue strade, i grattacieli, il mare. Ma mi accorgevo che si sforzava di tenere a freno il suo entusiasmo. Con me, invece, era diverso, lasciava che gli occhi le brillas-sero, gesticolava infervorata, incapace di trattenere l’ec-citazione che affiorava dal passato. Io la osservavo incan-tata: perché mi pareva bellissima con quello sguardo perduto nel tempo.

Spesso mi chiedevo per quale ragione mia madre fos-se rimasta così affascinata da quei mesi americani da renderli un ricordo ossessionante. Intuivo come luoghi simili potessero farsi rimpiangere per anni, ma Marzia aveva compiuto viaggi altrettanto seducenti in altre par-ti del mondo e non ne parlava con lo stesso ardore, smorzato sovente da un’ombra malinconica.

Quando il nostro rapporto mutò, io non cercai più delle risposte. A quindici anni cominciò la mia relazione con Massimo e fu allora che capii come la fantasia non possa farsi dominare da due padroni contemporanea-mente. Per seguirne uno dovevo necessariamente abban-donare l’altro.

Tentai di sottrarmi all’influenza che Marzia aveva su di me. Ma questo avvenne gradualmente e non so neanch’io quando ebbe inizio. Ricordo solo che per la prima volta in tanti anni mi trovavo a discutere con lei, come se all’improvviso avessi perduto anche i pochi lati apprezzabili del mio carattere.

Asseriva che non le descrivevo nulla di ciò che facevo per mancanza di fiducia nei suoi confronti. Mi accusava di non volerle parlare delle mie nuove amicizie e dei miei pensieri. In realtà non avevo niente da nascondere ma non ero abituata a discorrere di me stessa. Avevo ascoltato le sue storie per troppo tempo. Non ritenevo

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di avere niente di altrettanto interessante da raccontare.Il mio primo amore le rubava parte dell’ascendente

che aveva su di me e questo non le faceva piacere. Ne conseguiva un suo comportamento incoerente, da bam-bina. A volte mi spingeva a oltrepassare certi limiti e con aria di complicità mi raccontava le sue esperienze di quando aveva la mia età. Io non seguivo mai quel gene-re di consigli perché mi parevano dettati da una mente in preda all’ebbrezza. Altre volte affermava di avermi lasciata sempre troppo libera e mi proibiva di uscire di casa. A tale atteggiamento reagivo anch’io in modo in-coerente. Se infatti di solito subivo docilmente i suoi sbalzi d’umore, come ero abituata a fare, ancora più spesso mi ribellavo dimostrando la mia neonata insoffe-renza.

Neanche i suoi racconti riuscivano più a tenere avvin-ta la mia attenzione come nel passato. Anzi, soprattutto le sue storie americane mi annoiavano profondamente. Credevo ormai di conoscerle tutte a memoria. Invece avevo sete di novità, di esperienze mie. E più mi sentivo coinvolgere dalla realtà in cui vivevo, dalla scuola, dalle amicizie, dall’amore, più l’America mi appariva lontana, sfumata dal ricordo come un vecchio gioco dell’infanzia.

 Non so se lo fece perché ritenne fosse giunto il mo-

mento o soltanto per scuotermi in qualche modo e spa-droneggiare ancora una volta con la mia fantasia. Un pomeriggio gelido, in cui rabbrividivo sotto montagne di coperte, ammalata di influenza, mi disse con tono svaga-to che Valerio non era mio padre.

Se voleva scuotermi, c’era riuscita, ma ciò che non mi piacque davvero fu l’aria di sfida e perfino di orgoglio che aveva quando affermò di non sapere chi fosse il mio vero padre. Al mio sguardo sbigottito rispose che nella sua permanenza a Los Angeles aveva avuto tre relazioni

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pressoché contemporanee con tre uomini mai più incon-trati e da una di quelle ero nata io.

Ostentava un’immagine di madre moderna parlandomi con quel tono e io simulai un’altrettanto riuscita imma-gine di figlia moderna accettando la rivelazione senza sussultare. Le ore che seguirono si sovrapposero le une alle altre a formare uno stato di angoscia senza tempo. La febbre mi faceva precipitare in sonni brevi e sudati nei quali cercavo di riportare alla memoria quei vecchi racconti di Marzia ormai dimenticati. Quali erano i nomi dei suoi amici? Paul e poi Chris e Robert. Che mio pa-dre si chiamasse Robert? Ridicolo.

Mi svegliai definitivamente a sera inoltrata e pensai che una notizia tanto sconvolgente aveva bisogno di tempo per essere assimilata, e ancora più tempo per farsi com-prendere nel suo vero significato. Decisi di rimandare anche il mio turbamento.

Freddamente ripetevo a me stessa che Marzia si era sposata mentre aspettava un bambino da un altro. Il comportamento di Valerio mi sembrò coerente con la sua personalità e il mio attaccamento verso di lui non mutò affatto quando seppi di non essere sua figlia. Con mia madre, invece, accadde qualcosa di improvviso. L’amore ossessivo che avevo sempre provato per lei cam-biò in un attimo in un sentimento nuovo ma altrettanto morboso. In sua presenza mi assaliva un senso di fastidio e di disgusto mai provati prima, ma nulla di tutto questo traspariva all’esterno.

Non le avevo chiesto spiegazioni. Lei non mi parlò più dell’accaduto, forse imbarazzata dal mio silenzio. Per me era un dato di fatto, come quegli eventi inspiegabili che ogni tanto avvengono e che apparentemente non hanno ragione di essere.

Poi, con gli anni, oltre alle parole pronunciate da Mar-zia quel pomeriggio della mia malattia, dimenticai anche

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il rancore che avevo provato per lei e il nostro rapporto tornò a stabilizzarsi.

 Mi alzai dal letto gettando a terra il lenzuolo ricamato

con le mie iniziali e la copertina bianca di piquet. Anche in piena estate avevo bisogno di una leggera pressione sul corpo quando dormivo, mi faceva sentire protetta e al sicuro.

Aereo, aereo, aereo. Sto per salire sull’aereo, mi ripe-tevo per abituarmi all’idea. Rifeci mentalmente la lista delle cose che avevo messo in valigia, nel timore di aver dimenticato qualcosa.

«Ma figurati!» mi ripeteva Marzia. «Altro che qui! Laggiù troverai qualsiasi cosa di cui avrai bisogno. Ve-drai! Non devi preoccuparti di ciò che hai scordato.» Diceva «laggiù» per non chiamare Los Angeles con il suo nome. Invidiava il mio viaggio. Per la prima e ultima volta nella sua vita Marzia avrebbe voluto essere me. Aveva sempre pensato che quella città le appartenesse e che, almeno fra di noi, fosse lei l’unica a poterne parla-re. In modo da trasfigurarla nel ricordo. Quei vent’anni che erano passati sulla California li aveva bloccati in un solo giorno, quello della partenza. Io avrei potuto rac-contarglieli al mio ritorno. Se me l’avesse permesso.

«Sei proprio carina!» esclamò Valerio entrando nella mia stanza a prendere le valigie. Mi accompagnava all’ae-roporto. Marzia soffriva troppo il caldo per venire, ma in questo caso non si sarebbe mossa neppure con la neve.

Era il 5 di agosto e l’aria era immobile e spessa, diffi-cile da respirare. Forse Valerio fece lo stesso commento anche a lei, vedendola partire per l’America vent’anni prima: «Sei proprio carina!» A quell’epoca lo era molto più di me, anche se ci somigliavamo al punto che la gente ci credeva sorelle. La sua bellezza si smorzava un

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poco riflettendosi in me: i capelli ondulati di un bel colore mogano sbiadivano nei miei, lisci e lunghi fino alla vita; la bocca soffice e piccola in me si assottigliava e si ingrandiva assumendo un’aria decisamente meno infantile ma anche meno sensuale. Il corpo di Marzia, morbido ed elastico a un tempo, dalle forme armoniose e arrendevoli, si era slanciato e rassodato in me attraver-so lo sport, ma aveva perso tutta la sua delicatezza e flessuosità. Ciò che si ripeteva come visto allo specchio erano invece gli occhi. Lo stesso color cioccolato e la stessa forma a mandorla, gli stessi bagliori, le stesse espressioni intense che sembravano provenire da distan-ze insuperabili.

Percorremmo in macchina le strade deserte. I pochi abitanti scampati all’esodo di agosto diventavano perso-naggi nella loro città. Qualcuno all’edicola, un paio di avventori accaldati ai tavolini di un bar, pochi automo-bilisti fermi ai semafori.

Improvvisamente non volevo più partire. Avrei prefe-rito godermi in pace l’estate romana. Ma questo non avveniva quasi mai per scelta, si restava per necessità o per caso.

«Mi mancherai molto in questi tre mesi» dichiarò Va-lerio lasciando che lo sguardo proseguisse sulla strada. Cercai qualcosa da rispondere che non fosse un «anche tu» nel quale non credevo. Dissi che non ero più molto convinta del mio viaggio, che la casa e loro mi sarebbe-ro mancati. Non parlai, invece, della mia paura, paura di non riuscire ad adattarmi, di non saper agire da sola. E anche timore di non trovare «laggiù» ciò che vi aveva scoperto Marzia. Non possedevo la sua comunicativa che si esprimeva perfino con gli oggetti, con una città. Ma forse desideravo che Los Angeles non mi piacesse, per poterne parlare con indifferenza sincera al mio ritorno, per non far trasparire dai miei racconti neppure un bar-

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Puntiamo l’attenzione sul mito del viaggio in Amenca, un viaggio inteso come iniziazione, pellegrinaggio, avventura, for-mazione, estenuante percorso verso la conoscenza di sé, l’eman-cipazione. Al di là di tutto ciò, c’è la tua America, la tua Cali-fornia, la tua Los Angeles, che presentano connotazioni par ticolari, nuove.

La mia America non è immediata come per gli scrittori americani contemporanei. Non è neppure vagheggiata come lo fu da Pavese e da Vittorini, nei quali l’America, oltre che mito della libertà e della novità, era l’America dei personaggi letterari che quell’America produceva. La mia America, e in particolare la California, è un contenitore di sogni e di ricor-di. È infatti sognata e ricordata, trasfigurata nel sogno attra-verso il ricordo. È un’America delle vacanze, fatta di colori, di profumi, di sorprese, di sensazioni epidermiche, priva di conflitti sociali e di tutto ciò che non rientra nella visione superficiale di chi la giustifica con la vacanza, priva anche della crudezza e della violenza, delle disillusioni, delle sconfit-te e delle inquietudini quotidiane descritte dai “minimalisti”. È l’America vista da un’europea dei nostri giorni. È l’America della eccezionalità più che della quotidianità, per cui tutte le sensazioni vengono immagazzinate senza troppa riflessione. Ma il vero sfondo della mia storia è Los Angeles, una città che mi ha affascinata forse più per i suoi aspetti comunemente defi-nitivi negativi (l’inquinamento, le autostrade in pieno centro, la vastità, i contrasti, eccetera) che per quelli positivi, come spesso accade per gli eroi negativi dei libri, che hanno, di solito, una riuscita letteraria maggiore rispetto agli altri. La storia raccontata nel mio romanzo vive in simbiosi o in con-trasto con la città che non è mai uno sfondo passivo, ma in-fluenza decisamente lo svolgimento del racconto.

 La lezione psicanalitica è presente nel tuo racconto sotto

forma di un opprimente complesso di Edipo, inteso naturalmen-te nella sua accezione più ampia. Ma non è tutto. Fa capolino addirittura un tabù antico, un rapporto sessuale proibito, quel-lo dell’incesto.

Non parlerei tanto di complesso di Edipo per descrivere il

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rapporto esistente tra le protagoniste del mio romanzo. Un rapporto, secondo me, figlio dei tempi in cui viviamo. Una madre invadente non vuol dire necessariamente una “mater-nità” invadente. Infatti Marzia non vuole imporre la persona-lità forte e ricca di una madre sulla figlia, ma semplicemente la sua personalità forte e ricca su chiunque le vive accanto. È la figlia che, proprio perché non sente incombere su di sé la vivacità e l’intelligenza di una madre ma piuttosto di una donna (Marzia rifiuta perfino di farsi chiamare “mamma”), ne rimane affascinata e paralizzata. È l’invidia e non l’amore che le impedisce di costruirsi una propria personalità e che la spinge a voler confondersi in Marzia fino a desiderare di possederne una parte attraverso l’incesto. Ecco perché l’even-tualità di un incesto non rappresenta per lei nulla di spaven-toso, ma piuttosto le provoca sensazioni dolcissime, come i baci e le carezze materne, unite al grido di vittoria per essere riuscita in qualche modo a conquistarle.

 Tra sesso e sentimenti, che cosa è per la tua protagonista

l’amore?Nel mio libro di amore non ce n’è. Non c’è tra madre e

figlia, anche se forse potrebbe nascere dopo l’ultima pagina del romanzo. Non c’è amore tra Marzia e i suoi tre partner, perché ognuno di essi rappresenta un singolo aspetto dell’amo-re. Non c’è amore neppure tra la figlia di Marzia e i suoi compagni, rapporti che in definitiva imitano quelli materni, per tentare un’ingenua quanto innocua vendetta contro la presen-za incombente di Marzia nella camera da letto della figlia. Non si tratta neanche di sesso fine a se stesso o di semplici avven-ture, quanto di rapporti legati a situazioni contingenti: solitu-dine, complicità, paura, desiderio di possesso, gelosia, amicizia. Non c’è alcun accenno alla passione in questi incontri e di conseguenza, almeno per me, nessun accenno all’amore.

 tempo presente, agosto/settembre 1987

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