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Fernando Armellini 1 Ventiquattresima domenica del Tempo Ordinario In uomo perso: sarebbe la sconfitta di Dio Testo preso dal libro del biblista FERNANDO ARMELLINI Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità Anno C Ed. Messaggero, Padova, pp. 496-504 «Forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione. Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo» (Ct 8,6-7). Con queste celebri immagini viene descritta, nel Cantico dei Cantici, la forza irresistibile dell'amore. Corre sempre un grosso rischio – lo sappiamo – chi si lascia coinvolgere in un legame affettivo: l'amore presuppone la libertà e comporta la possibilità del rifiuto e dell'insuccesso. Fanno parte del gioco anche la gelosia, i tormenti, le ansie, la paura dell'abbandono e tutte quelle emozioni che siamo soliti chiamare pene d'amore. «Sono malata d'amore» – ripete la sposa del Cantico dei Cantici (Ct 2,5; 5,8). Dio ha voluto correre questo rischio: ha accettato di farsi debole e ha messo in conto anche l'eventualità della sconfitta. Lo abbiamo sempre immaginato onnipotente, ma in amore questa prerogativa è esclusa dalle regole del gioco. Questo termine non è mai attribuito a Dio nella Bibbia, e giustamente, perché, da quando ha creato l'universo con le sue leggi e ha dato vita all'uomo libero, egli ha come ristretto il suo potere. E ciò che i rabbini chiamavano contrazione, nascondimento, auto-limitazione di Dio. Dio non può costringere, deve conquistare la persona amata. Se giocasse sull'effetto paura, se minacciasse castighi avrebbe perso la partita, non creerebbe amore, ma ipocrisia. In Gesù, Dio ha fatto più volte l'esperienza del fallimento. Gerusalemme non ha corrisposto al suo amore: «Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, ma voi non avete voluto» (Lc 13, 34); a Nazaret non poté operare nessun prodigio (Mc 6,56); il giovane ricco gli oppose un rifiuto (Mt 19,16-22). Nell'Apocalisse Dio non è chiamato onnipotente, ma pantokrator, che significa Colui che tiene in mano tutto. Gli uomini sono liberi di fare il loro gioco, ma nella sfida d'amore, è lui che gestisce la partita, con impareggiabile abilità. Difficile immaginare che se la lasci sfuggire di mano. Ora siamo in grado di comprendere la frase di Gestì: «C'è più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di

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Fernando Armellini 1

Ventiquattresima domenica del Tempo Ordinario

In uomo perso:

sarebbe la sconfitta di Dio

Testo preso dal libro

del biblista

FERNANDO ARMELLINI

Ascoltarti è una festa.

Le letture domenicali spiegate alla comunità

Anno C

Ed. Messaggero, Padova, pp. 496-504

«Forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione. Le

grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo» (Ct 8,6-7).

Con queste celebri immagini viene descritta, nel Cantico dei Cantici, la forza

irresistibile dell'amore. Corre sempre un grosso rischio – lo sappiamo – chi si

lascia coinvolgere in un legame affettivo: l'amore presuppone la libertà e

comporta la possibilità del rifiuto e dell'insuccesso. Fanno parte del gioco anche

la gelosia, i tormenti, le ansie, la paura dell'abbandono e tutte quelle emozioni

che siamo soliti chiamare pene d'amore. «Sono malata d'amore» – ripete la sposa

del Cantico dei Cantici (Ct 2,5; 5,8).

Dio ha voluto correre questo rischio: ha accettato di farsi debole e ha messo

in conto anche l'eventualità della sconfitta. Lo abbiamo sempre immaginato

onnipotente, ma in amore questa prerogativa è esclusa dalle regole del gioco.

Questo termine non è mai attribuito a Dio nella Bibbia, e giustamente, perché, da

quando ha creato l'universo con le sue leggi e ha dato vita all'uomo libero, egli ha

come ristretto il suo potere. E ciò che i rabbini chiamavano contrazione,

nascondimento, auto-limitazione di Dio.

Dio non può costringere, deve conquistare la persona amata. Se giocasse

sull'effetto paura, se minacciasse castighi avrebbe perso la partita, non creerebbe

amore, ma ipocrisia.

In Gesù, Dio ha fatto più volte l'esperienza del fallimento. Gerusalemme

non ha corrisposto al suo amore: «Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli

come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, ma voi non avete voluto» (Lc 13,

34); a Nazaret non poté operare nessun prodigio (Mc 6,56); il giovane ricco gli

oppose un rifiuto (Mt 19,16-22).

Nell'Apocalisse Dio non è chiamato onnipotente, ma pantokrator, che

significa Colui che tiene in mano tutto. Gli uomini sono liberi di fare il loro

gioco, ma nella sfida d'amore, è lui che gestisce la partita, con impareggiabile

abilità. Difficile immaginare che se la lasci sfuggire di mano.

Ora siamo in grado di comprendere la frase di Gestì: «C'è più gioia in cielo per

un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di

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conversione» (Lc 15, 7). La gioia più grande dell'innamorato è la riconquista

dell'amata, è sentirla ripetere: «Ritornerò al mio marito di prima, perché allora sì

che ero felice, non ora!» (Os 2,9).

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi».

Prima lettura (Es 32,7-11.13-14)

In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo,

che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad

allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di

metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno

detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra

d’Egitto”».

Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un

popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e

li divori. Di te invece farò una grande nazione».

Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si

accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto

con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele,

tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra

posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato,

la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”».

Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

In Egitto, fin dal tempo delle prime dinastie (3000 a.C.), il toro era

l'immagine del grande dio Ptah di Menfis, il dio creatore dal quale dipendeva la

fecondità dei campi e degli animali. A lui erano attribuite le piene fertilizzanti del

Nilo. Simbolo della forza, il toro veniva raffigurato spesso in

scene di carattere magico, era imbalsamato e mummificato

per immortalarne le virtù e, in suo onore, nei maestosi templi, erano

celebrate molte cerimonie religiose. Gli israeliti le

avevano viste, ne erano rimasti ammirati e forse anche un po' sedotti.

Dopo aver assistito a tanti prodigi operati dal Signore durante l'esodo, essi

avrebbero dovuto lasciarsi definitivamente alle spalle tutte le pratiche pagane.

Invece, appena giunti nel Sinai, mentre Mosè si trovava sul monte a parlare con il

Signore, eccoli consegnare ad Aronne i loro gioielli e fondere l'oro raccolto per

modellarsi un toro (Es 32,1-6).

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La prima parte della lettura (vv. 7-10) descrive la reazione sdegnata di Dio

a tale infedeltà. Il Signore disse a Mosè: «Lascia che la mia ira si accenda contro

di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione» (v. 10).

Di fronte a una simile proposta, molti di noi forse sarebbero stati felici di

divenire padri di una famiglia di «giusti». Viene istintivo disgiungere le proprie

responsabilità, rilevare la propria estraneità ai fatti, distinguersi dai colpevoli. Ma

Mosè non fugge, resta unito al suo popolo, preferisce perire con i fratelli

piuttosto che salvarsi da solo.

La seconda parte della lettura (vv. 11-13) riporta la preghiera di Mosè. Nel

nostro testo viene introdotta così: «Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e

disse...». In realtà l'espressione usata nel testo originale ebraico andrebbe tradotta

così: «Mosè allora cominciò ad accarezzare il volto del Signore, suo Dio,

dicendo...». Mosè si comporta come un bambino che vede il papà corrucciato e si

mette a coccolarlo, fino a quando non riesce a strappargli un sorriso. L'immagine

di Mosè che accarezza il volto di Dio è una delle più belle della Bibbia.

Forse la scena ci stupisce, forse ci sconcerta perché ci presenta un Mosè

buono che parla con dolcezza e Dio che invece è adirato e ha bisogno di essere

riportato alla calma. Eppure, con queste immagine, presa dal nostro mondo

umano, Dio indica con quale fiducia e confidenza vuole che ci rivolgiamo a lui

nella preghiera.

Con quali parole Mosè accarezza il volto del Signore? Quali ragioni

avremmo presentato noi a Dio per convincerlo a desistere dalla sua collera?

Forse gli avremmo detto: «Vedi, Signore, essi sono pentiti, non ripeteranno mai

più l'errore commesso, il peccato non è poi stato tanto grave...». Tutti discorsi

vani, perché l'uomo – lo sappiamo bene – non smette mai di essere peccatore,

ripete sempre gli stessi errori.

Mosè è più saggio: capisce che non può far leva sulla buona volontà

dell'uomo e che l'unico modo per ottenere la salvezza è confidare nella bontà di

Dio. Egli comincia ricordando al Signore le promesse incondizionate da lui fatte

ai patriarchi e conclude: non vorrai che gli egiziani possano dire che non sei stato

di parola! Questa è l’ unica, vera ragione che consente di sperare nella salvezza

di ogni uomo: l'amore infinito di Dio, quell'amore che non sarà mai vinto da

nessuna infedeltà, per quanto grande essa sia.

La conclusione (v. 14): «Il Signore si pentì del male che aveva minacciato

di fare al suo popolo». Che cosa hanno fatto gli israeliti per meritarsi la

misericordia di Dio? Nulla. Sono rimasti in silenzio. Il Signore ha fatto tutto da

solo: si è ricordato che le sue promesse sono incondizionate e perdona il suo

popolo.

Se dovessimo confidare nelle nostre forze, nella nostra capacità di compiere

gesti virtuosi, avremmo tutte le ragioni per disperare. E molto più sicuro riporre

la fiducia nell'amore gratuito di Dio.

Seconda lettura (1Tm 1,12-17)

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Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore

nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che

prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata

misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del

Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo

Gesù.

Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è

venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto

per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per

primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli

che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.

Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei

secoli dei secoli. Amen.

Abbiamo qualche prova per affermare che Dio non condanna nessuno?

Certamente.

Nel brano della prima Lettera a Timoteo che ci viene proposto oggi, Paolo

ce ne offre una, inconfutabile. Dice: prima ero un bestemmiatore, un persecutore

e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza,

lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme

alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù (vv. 12-15).

Paolo afferma che Dio si è servito di lui come di un esempio per dimostrare

quanto è grande la sua magnanimità (v. 16). Se uno come lui, nemico della fede,

il primo fra i peccatori, ha ottenuto misericordia, potrà qualcuno avere ancora

paura che Dio lo tratti severamente?

Si potrebbe obiettare: Paolo sbagliava – è vero – ma non era poi cosi

colpevole perché non si rendeva conto del male che stava facendo (1Tm 1,13); il

popolo d'Israele tornò all'idolatria pagana per ignoranza; la pecorella – di cui ci

parlerà il Vangelo di oggi – si è smarrita per un errore... Per questo il Signore è

stato comprensivo.

Forse qualcuno pecca in un modo diverso? C'è qualcuno che, quando pecca,

sa realmente ciò che sta facendo? (cf. Lc 23,34).

Vangelo (Lc 15, 1-10)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per

ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i

peccatori e mangia con loro».

Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne

perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta,

finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle,

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va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché

ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà

gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove

giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la

lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo

averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me,

perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia

davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

Nel Vangelo di questa domenica vengono proposte le cosiddette parabole

della misericordia. La terza, quella del figlio prodigo, è stata già commentata

nella quarta domenica di Quaresima. Oggi ci limiteremo a commentare le prime

due: quella della pecorella smarrita e quella della moneta, due storie

apparentemente facili da interpretare. Sembra che Gesù le racconti per invitare i

discepoli ad andare alla ricerca dei peccatori (i ladri, i corrotti, gli adulteri...)

oppure per commuoverli e invogliarli a tornare all'ovile.

L'obiettivo principale è un altro e per coglierlo è necessario definire chi

sono i destinatari delle tre parabole. Il versetto introduttivo non lascia dubbi: «si

avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli

scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro.

Allora egli disse loro questa parabola...» (vv. 1-3).

Quei loro non sono i discepoli, non sono i peccatori, ma i farisei e gli scribi,

dunque, i giusti. Strano, ma vero: i chiamati alla conversione non sono i

peccatori, ma i giusti.

Cerchiamo di capire la ragione delle rimostranze dei farisei e degli scribi. I

rabbini raccomandavano: «L'uomo non si unisca agli empi, nemmeno per

convincerli a seguire la legge di Dio». Era dunque proibito accettare un invito a

cena da pubblicani e peccatori. Ma Gesù faceva di peggio: non solo accettava gli

inviti di questa gente poco raccomandabile, ma la accoglieva in casa sua («riceve

i peccatori»).

Gli scribi e i farisei non avrebbero avuto nulla da ridire se egli avesse

invitato i peccatori che, dopo lunghi digiuni, preghiere e penitenze si fossero

pentiti ed emendati. Anch'essi giravano per mare e per terra per fare un proselito

(Mt 23, 15). Ciò che non comprendevano era quel suo comportarsi da amico dei

peccatori che rimanevano tali (vv. 1-2). Lo accusavano di organizzare una festa

per loro. A un certo punto esigono una spiegazione.

Ogni banchetto rispecchia e, in certo qual modo, anticipa la grande cena che

sarà imbandita alla venuta del regno di Dio. In essa non ci sarà posto per i

malvagi e gli empi, ma solo per i giusti. Gesù non sa questo, finge di ignorarlo o,

peggio ancora, vuole sfidare la tradizione dei rabbini?

Le tre parabole sono la risposta, l'autodifesa di Gesù. Non le racconta per

convincere i peccatori, ma per aiutare i giusti a rivedere le loro idee. In tutte e

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tre le parabole si parla di gioia (che però non tutti condividono) e si organizza

una festa (alla quale non tutti sono disposti a partecipare). Chi è dentro e chi

rimane fuori?

I peccatori sono le monete e le pecorelle perdute, tuttavia – questa è la

stranezza – ora si trovano tutti attorno a Gesù (sottolineiamo questo tutti che

compare nel primo versetto). Vivono in casa con lui, stanno facendo festa,

partecipano al banchetto del regno. I «giusti» invece sono fuori e rischiano di

rimanerci se non cambiano modo di pensare, se non si rendono conto di ciò che

sta accadendo, se non capiscono la novità che Dio sta rivelando. E in quest'ottica

che vanno lette le tre parabole.

La pecorella smarrita (vv. 4-7).

Fin dalle sue origini, Israele è stato un popolo di pastori, non sorprende che

nella Bibbia si parli spesso di agnelli, di pecore e di capri (più di cinquecento

volte) e che molti testi impieghino il linguaggio pastorale per descrivere la

premura, la tenerezza, le attenzioni di Dio per il suo popolo. Basti ricordare il

celebre Salmo: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla» (Sal 23,1) o la

scena commovente del ritorno degli esiliati da Babilonia: «Come un pastore egli

fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e

conduce pian piano le pecore madri» (Is 40,11).

Anche Gesù ricorre spesso a questa immagine. Vedendo la folla numerosa

che lo seguiva, egli – dice Marco – «si commosse perché erano come pecore

senza pastore» (Mc 6,34). Nel Vangelo di oggi riprende la stessa immagine e

racconta una parabola che contiene parecchi particolari illogici.

Il comportamento del pastore è poco realistico: dimentica nel deserto

novantanove pecore e corre di casa in casa, chiama amici e vicini, organizza una

festa per un incidente piuttosto banale. Poi, abbiamo un'evidente sproporzione fra

la parte del racconto che riguarda il ritrovamento della pecora e quella dedicata

alla festa che occupa più di metà della parabola.

Queste stranezze ci orientano verso il vero significato del brano. I rabbini

insegnavano: il Signore si rallegra per la risurrezione dei giusti e gode per la

rovina degli empi. Gesù capovolge questa catechesi ufficiale e annuncia quali

sono i veri sentimenti di Dio. Egli – dice – si rallegra non per la distruzione, ma

per la risurrezione degli empi: «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore

convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione». Il

Padre «non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (Mt 18,14) e

organizza la sua festa per gente che non la merita.

La dottrina della giusta retribuzione è un punto fermo della teologia

rabbinica. Gesù lo contraddice apertamente mostrando che le tenerezze e le

premure di Dio sono rivolte non a chi le merita, ma a chi è nel bisogno.

Per i farisei è sorprendente che non si accenni ad alcun rimprovero, ad

alcun castigo (alcuni pastori spezzavano una gamba alla pecora che aveva

l'abitudine di allontanarsi dal gregge) e che non si presupponga alcun gesto di

buona volontà o di pentimento da parte del peccatore.

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Il recupero è tutto opera di Dio che vuole solo il bene di chi ha sbagliato.

Questo non vuole essere un invito a diventare peccatori per essere amati da Dio,

ma a riconoscersi tali di fronte a lui.

I «giusti», oltre a dover mettere in ordine la loro vita (perché tutti sono

peccatori ed è sempre difficile definire chi lo è di più e chi di meno), devono

correggere soprattutto le loro idee teologiche su Dio. Le critiche che rivolgono a

Gesù, le norme di separazione che impongono, sono frutto dell'immagine falsa di

Dio che hanno in mente. Un'immagine pericolosa perché impedisce di

partecipare alla festa. Le novantanove pecore rimangono nel deserto e solo quella

smarrita arriva a casa perché si è lasciata trasportare dal pastore. Pericolosa

soprattutto perché è all'origine del fanatismo, dell'intolleranza, del rigorismo e

dell'allontanamento da Dio. Per aiutare il peccatore a lasciarsi trovare, è

necessario dirgli – come fa Gesù – la verità su Dio.

Fargli capire che Dio non è un giudice di cui aver paura, ma un amico che

ama sempre e comunque e sperimenta il massimo della sua gioia quando può

abbracciare, vedere felice e libero chi è precipitato in un abisso di morte.

La moneta perduta (vv. 8-10).

I rabbini erano soliti ripetere due volte i loro insegnamenti più importanti

per imprimerli meglio nella mente dei loro ascoltatori. Ecco la ragione per cui

Gesù racconta la seconda parabola che contiene un insegnamento quasi identico

alla precedente.

Vi troviamo le medesime incongruenze: l'esplosione di gioia incontrollata

della donna che ritrova la moneta e la festa alla quale sono invitate le amiche e le

vicine.

Rispetto alla parabola della pecorella c'è un elemento nuovo: la descrizione

molto viva della preoccupazione della donna, del suo sforzo, della sua pazienza e

perseveranza nel ricercare la moneta: Accende la lucerna e spazza la casa e cerca

attentamente». E l'immagine di Dio che non si rassegna a perdere una sola delle

sue creature (il numero dieci è simbolo dell'intera comunità) e che non si siede

alla cena del banchetto eterno fino a quando anche l'ultimo dei suoi figli non è

entrato nella sua casa.

Le tre parabole sottolineano aspetti complementari della conversione. Le

prime due mettono in risalto come l'iniziativa della conversione non parte

dall'uomo, ma da Dio, che va sempre alla ricerca di chi si e perduto.

La parabola del «figlio prodigo» (Lc 15,11-32) mette in luce il rispetto di

Dio per la libertà dell'uomo. Il Padre non forza i suoi figli a rimanere in casa e

non li costringe nemmeno a tornare: sa attendere.