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testiRaffaello Di Benedetto

Luigi CibruscolaMaurizio Terzetti

Massimo Vasapollo

I Gioielli

Provincia di Perugia

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coordinamento:Marinella AmbrogiResponsabile Ufficio Relazioni Esterne e Editoriadella Provincia di Perugia

progetto grafico:Maruska Bellini

redazione:Stefano AngeliniSimone CaligianaPasquale Isidori

referenze fotografiche:Archivio Foto Gavirati - Gubbio (pagg. 12-26)Archivio Storico Biblioteca Comunale Spoleto (pag. 50)Ars Color - Perugia (pag.82)Foto Medici - Perugia (pagg. 32, 34, 44, 68, 78)Mauro Guiducci - Perugia (pagg. 70-77, 81)Enrico Mezzasoma - Perugia (pagg. 33, 37-43, 51-62)

le foto di pagina 11, 31, 49, 67 sono tratte dal volumeDALÍ jewels-joyas, Umberto Allemandi & C., Turin - London - Venice© Fundación Gala-Salvador Dalí, Figueres, 2003

Copyright © 2003 - Provincia di PerugiaPiazza Italia, 11 - 06100 Perugia (Italy)Tel. 075 3681615 - Fax 075 3681694ISBN 88-86255-24-1

Provincia di Perugia

idea e soggetto di Pier Luigi Neri

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IndicePresentazioneGiulio CozzariPresidente della Provincia di Perugia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 5

IntroduzionePier Luigi NeriAssessore all’Edilizia Scolastica e Patrimoniale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 7

Parco Ranghiasci BrancaleoniRaffaello Di Benedetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 9

Villa FideliaMaurizio Terzetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 29

Villa RedentaLuigi Cibruscola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 47

Isola Polvese. Il CastelloMassimo Vasapollo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 65

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a possibilità di mostrare insieme in un libro alcune “joyas” di Salvador Dalì e i “gioielli” architet-tonici della Provincia di Perugia ci riempie di orgoglio per avere portato a termine un’operazione

estetica finissima, di grande promozione e proiettata sul consapevole approfondimento della valenzaculturale del nostro territorio grazie ad uno specchio ricco di sfaccettature come quello che l’opera delgrande maestro catalano ci ha reso disponibile.Per questo i ringraziamenti ai proprietari della Collezione e ai titolari dei diritti editoriali, nostri referen-ti, sono assolutamente prioritari e non formali.Una visione diversa ha animato la costruzione di un rapporto così stretto fra le immagini dei gioielli di Dalìe i “tesori” storico-architettonici di ville, parchi e castelli che per la Provincia rappresentano, non solo patri-monialmente, una ricchezza culturale di cui rendere consapevole l’intero territorio.I beni che si è ritenuto di valorizzare hanno già, oltre che una loro storia accumulatasi nei secoli, un “vis-suto” culturale recente del quale la Provincia è stata animatrice e fautrice, in proprio o collaborando coniniziative di altri soggetti. Da anni ormai il Parco Ranghiasci Brancaleoni di Gubbio, Villa Fidelia di Spello,Villa Redenta di Spoleto e il Castello dell’Isola Polvese sono luoghi frequentati e noti per l’abbinamento frale loro caratteristiche architettoniche e d’ambiente e la qualità delle proposte culturali che vi si attuano. Se tali beni sono le perle di un’ideale collana che percorre il territorio della Provincia e lo rappresentapressoché nella sua interezza, il filo ideale da cui sono tenuti insieme non poteva che essere un beneculturale, un segno e un oggetto eminente dell’arte europea e mondiale: Salvador Dalì, appunto, e lesue “joyas”, come acutamente e brillantemente ha proposto l’Assessore Pier Luigi Neri.Per quanta distanza ci possa essere tra una cultura architettonico-ambientale maturata nei secoli fra lepieghe della società di una provincia dell’Italia centrale, da un lato, e le coordinate artistiche di un mae-stro dell’arte contemporanea, dall’altro, la linea della demarcazione si è rivelata duttile e plastica. La pos-sibilità di creare il ponte fra i due mondi è offerta, in definitiva, dallo stesso artista quando ha testimo-niato che, per lui, compiere il lavoro sui gioielli ha rappresentato un atto di sfida contro la mercifica-zione moderna degli oggetti preziosi, che impone la supremazia dei materiali sull’intimità dei significa-ti. Da nuovo artista rinascimentale (Leonardo, Cellini e Botticelli sono i suoi riferimenti), egli incontracosì implicitamente quel mondo nobile dell’artigianato che in Umbria, nei secoli XV e XVI, è stato moltodiffuso e apprezzato.Egli stesso, inoltre, auspicava che i suoi gioielli, proprio perché affrancati dal materialismo, diventasse-ro, in ogni parte del mondo, ambasciatori di un messaggio artistico elevato, fossero quel “simbolo diunità cosmogonica del nostro secolo” che deriva loro dall’incrociare pittura e architettura, fisica e mate-matica, scienza e mistica, spirito e materia, tempo e spazio.Crediamo di avere dato accoglienza con dignità e rigore a un messaggio così alto e impegnato. Le unitàgeneratrici di un nuovo mondo, i simboli di Dalì, arrivano in Umbria per trasmettere il loro messaggioaccanto ad alcuni nostri monumenti e per rilanciare ulteriormente la lezione di unità universale che nescaturisce.

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Con oculatezza abbiamo proposto che “La flor viviente” dialogasse con il Parco Ranghiasci Brancaleoni,“Dafne” con Villa Fidelia, “La flor psicódelica” con Villa Redenta e “El lago del cisne” con l’Isola Polvese, cercando di motivare gli accostamenti sia dal punto di vista del “gioiello” del maestro che da quello delbene culturale locale. Ne è scaturita una contestualizzazione delle due serie di gioielli che, se fa risaltare il valore che ville,parchi e castelli già hanno per le comunità locali e i loro ospiti, riesce, senza enfasi, ad indicare in chemodo i preziosi oggetti di Dalì possano essere acquisibili allo spirito del patrimonio culturale del nostroterritorio.Il Parco Ranghiasci Brancaleoni convive con il centro storico di Gubbio in maniera perfetta. Recuperatoe dato alla fruizione della città rappresenta quella continuità tra ambiente e architettura secolare che èin grado di garantire la migliore tutela e un adeguato sviluppo dei nostri centri storici: esso è, nella ispi-razione di Dalì, il fiore che vive e cresce sempre, nelle propizie e nelle avverse condizioni, il fiore chevive nel suo ambiente naturale e sa trasmettersi a un’intera civiltà.Villa Fidelia, alle porte di Spello, è il primo biglietto da visita della città che s’incontra lungo la stradaprovenendo da Assisi e il congedo più delicato da essa provenendo da Foligno. In ogni caso, la Villa èparte integrante della bellezza tutta collinare di Spello. Essa sta aprendosi sempre più alla comunitàregionale nei termini dell’offerta culturale, espositiva e spettacolare che riesce a garantire, anche nel pos-sibile sviluppo come centro per i servizi dell’area archeologica circostante. Suggerita dalla vicenda mito-logica di Dafne ripresa da Dalì, s’impone, al suo riguardo, un’idea più precisa della metamorfosi e dellacontinua rinascita del messaggio di serenità e d’amore che essa incarna.Villa Redenta, alle porte di Spoleto, dovrà sempre più caratterizzarsi, in linea con la città del Festival deidue Mondi, come punto di riferimento per iniziative culturali di respiro internazionale. Molte premesse,in questa direzione, sono state già poste; il segreto del successo definitivo sarà garantito dall’articola-zione di programmi ambiziosi che, però, non dimentichino di costruirsi anche con l’apporto delle cul-ture locali e dei saperi tradizionali di questa regione. Così il fiore pieno di luci di Dalì, la cima psiche-delica dalle sue mille rifrazioni, potrà contraddistinguere, nell’attività di Villa Redenta, un’apertura inter-nazionale degna del nome.L’Isola Polvese, infine, e il suo Castello. La struttura militare difensiva, monumento recuperato per usiben diversi dagli originali, riassume completamente le caratteristiche ambientali e architettoniche dellaPolvese, ne diventa il punto di vista interno ed esterno, la nota dominante. Esso è un po’ il cigno diDalì, come quello è un augurio alla prosperità e alla rinascita, per le quali lavoriamo, dell’interoTrasimeno.

Giulio CozzariPresidente della Provincia di Perugia

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l profilo dell’Umbria, i suoi orizzonti naturali, i segni rivelatori delle civiltà che nell’arco di millennihanno coniugato i modi e le forme della loro presenza con i luoghi prescelti per la loro bellezza, tutto

ciò offre all’occhio umano un mosaico unitario e differenziato, variegato e policromo. Sembra, a primavista, di vedere tutto, senza limiti ed ostacoli, quasi che la storia sia scorsa via senza lasciare segni; que-sta bellezza di oggi rivela, tuttavia, appena la si disvela, che non proprio tutto è davanti agli occhi di tutti,che troppi ostacoli, barriere, muraglie non vogliono intrusi, escludendo gli occhi di chi, non avendo ilpossesso, è escluso dal vedere, dal piacere del vedere.Diritti esclusivi, privilegi ad excludendum, la storia è stata tutto questo, e c’è chi vorrebbe repliche diprivilegio.La democrazia, per fortuna e per scelta, può rendere liberi anche gli sguardi per riappropriarsi di puntidi vista, di canocchiali visivi che da quei luoghi privilegiati ed esclusivi, oggi aperti per tutti, aprononuove prospettive, fanno scoprire tanti spazi ed orizzonti che rendono più felici.La Provincia volle fare la sua parte, ed avviò un’azione sagace e durevole per recuperare al patrimoniopubblico luoghi e dimore di splendida collocazione e squisita fattura, pur se gravati dal tempo, dall’in-curia, dall’abbandono.Quello fu il primo passo di un cammino lungo e difficile, complesso per il valore storico ed architetto-nico, impegnativo per dare un nuovo, vivificatore tocco di qualità a gioielli imprigionati, esclusi essi cheerano nati per essere esclusivi, nello scrigno avaro del tempo storico.Oggi questi sono I Gioielli della Provincia, il Giardino Ranghiasci Brancaleoni, Villa Fidelia, VillaRedenta, Isola Polvese.Per ciascuno di essi I Gioielli di Salvador Dalì sono il segno artistico che li nobilita ed identifica.Delle sue creazioni Dalì scrisse:“I gioielli non furono concepiti per riposare senz’anima in forzieri d’acciaio.Essi furono creati per deliziare l’occhio, sollevare lo spirito, eccitare la fantasia, esprimere convincimenti.Senza un ascolto, senza spettatori questi Gioielli non svolgerebbero per intero tutto ciò per cui essi sonostati realizzati.Chi li guarda, allora, è l’artista estremo. Il suo sguardo, il suo cuore, la sua mente, fondendosi ed intrec-ciandosi in gradi diversi con i motivi ispiratori del creatore, danno loro vita”.Fortunati quindi coloro che vedranno i Gioielli della Provincia: sono loro che “les dan vida”, i Gioiellivivranno!

Pier Luigi NeriAssessore all’Edilizia Scolastica e Patrimoniale

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Parco Ranghiasci Brancaleoni“Un dono d’amore”

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La vita del fiore di Dalì siespande dai confini dell’esi-

stenza biologica fino a penetrare - oro, diaman-ti, malakite e “motore” - in ogni più piccolapiega della vita di un uomo e di una donna. Cisi accompagna a un fiore perchè esso è sem-pre vivente e ogni essere umano lo sente su disè, alla maniera di Dalì, come un gioiello chescambia calore con il suo corpo e con il corpodi ogni cosa, naturale o sociale, che stia intorno.Un parco, ad esempio.La sacralità dei luoghi eletta da una storia non

molto antica, ma capace di lasciare il segnodella memoria alla stessa stregua delle traccearchitettoniche ed urbanistiche di un passatoben più forte oltre che storicamente remoto, èstato voluto da una famiglia eugubina capacedi trasformare un interesse personale in ungioiello che, pervenuto ai posteri e agli stessiconsegnato, ha permesso così di valorizzareuna città che senza non sarebbe stata sicura-mente la stessa.Ben venga ora nel momento della presentazio-ne del giardino assimilato al gioiello vivente di

La flor vivienteIIIIllll ffffiiiioooorrrreeee vvvviiiivvvveeeennnntttteeee

Parco RanghiasciBrancaleoni

Raffaello Di Benedetto

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Salvador Dalì, anche grazie a ricerche storicheeffettuate da consulenti culturali come la dott.Patrizia Castelli che hanno consentito un cor-retto percorso nella stesura del progetto delgiardino, la pubblicazione della sua “storia” ein parte anche di un casato che con il suo ope-rato rende sicuramente spiegazione dei segni,delle tracce progettuali, riscoperti e fortementeesaltati non solo per permettere l’uso collettivodel gioiello ma anche per incastonarlo in unpiù pregevole contesto rappresentato dallastessa città. Noti soprattutto alla storiografia locale per laloro erudizione e per i loro interessi storico-

archeologici, i Ranghiasci meritano un posto dirilievo nel mondo culturale della fine del 1700,periodo in cui nello Stato Pontificio fiorivanomolteplici interessi verso l’archeologia.Agli occhi del viaggiatore frettoloso che visitaGubbio si presentano solamente le emergenzemedievali e le presenze simbolo degli edificitrecenteschi e rinascimentali che rendono quasirarefatte le trasformazioni operate durante loStato Pontificio, che pure dominò la città peroltre due secoli dal 1631 al 1860. Il palazzo ela villa dei Ranghiasci sono invece un esempiosignificativo delle molteplici modificazioni ope-rate nel periodo. A metà Ottocento a Gubbio

Veduta ottocentesca del Parco Ranghiasci, collocato tra le mura urbiche e Via della Cattedrale

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13Ingresso principale che si affaccia sull’attuale via Gabrielli

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non esistevano giardini antichi da prenderecome modelli e da poter trasformare. Unica esplendida memoria è il giardino pensile deiDuchi di Urbino, che Isabella d’Este, in una let-tera inviata a Mantova al marito FrancescoGonzaga, decantava come luogo amenissimoadornato da “un giardinetto con una fontana inmezzo de grandissima recreacione”. All’iniziodell’Ottocento anche questa memoria è ormaisfumata e sopravvivono i piccoli giardini omeglio, gli orti ricchi e semplici contigui aipalazzi, ai quali la nobiltà ogni tanto riservainterventi di restauro e adeguamento al nuovogusto e alle nuove mode. Così il grande giardino dei Ranghiasci viene acostituire, a metà Ottocento, una magistraleinnovazione, una passeggiata pittoresca tra lasacra montagna dell’ Ingino e via della Ripa. Questa passeggiata è rimasta a lungo ignotaalla popolazione della città, pur se costruitacon frammenti delle memorie cittadine in unaelaborata disposizione di viali, colonne, edificie l’immancabile “tempietto”. Il grande giardino, della cui estensione econformazione definitiva si ha una chiara visio-ne dal catasto Gregoriano, ha una breve storiache va dal 1831 alla fine del 1849. L’area verde non è rielaborata su spazi preesi-stenti, ma nasce, sotto la spinta di una culturae di un gusto preciso, dalla volontà di ricrearein zone precedentemente occupate da orti efabbricati un giardino all’inglese, alla manieradi Goethe, con visuali e cannocchiali ottici, chesottolineano un panorama “pittoresco,” spa-ziando da S. Martino a piazza Grande attraver-so la scansione delle torri medioevali tutt’oggiesistenti.

La spinta alla realizzazione del giardino fu datasicuramente dalla moglie inglese di Francesco,Matilde Hobhouse. Donna di temperamento, fu amica dello stessoFoscolo che le dedicò le Rime di Petrarca conle parole: “Alla Gentile Giovine MatildeHobhouse fanciulla”. La Hobhouse sposò aRoma nel 1827 l’allora ventisettenne Francescoe presumibilmente quell’anno si recò per laprima volta a Gubbio in occasione della festadei Ceri. L’arrivo dell’inglese a Gubbio destò una certacuriosità per l’ingente dote che si vociferavaarrivasse a 60.000 scudi. Le tracce della giovane donna si perdono nel1853. Sappiamo che ebbe tre figli: Edoardo-Latino e Federico-Latino, a lei premorti, eAmelia-Latina che si stabilì in Inghilterra dovela madre l’aveva portata sin da bambina. IlMoroni le attribuisce l’ispirazione del grandeparco o villa, sul quale si affaccia la parteposteriore del palazzo: “Ranghiasci vi ha for-mato altresì ampia e grandiosa villa ad usoinglese per far cosa gradita alla nobile di luiconsorte Matilde Hobhouse di tal nazione”. Dai documenti esaminati a tutt’oggi si è potutostabilire due cose certissime: la prima, che gliacquisti riguardanti l’area occupata dal parcofurono fatti da Ranghiasci dopo il matrimoniocon Matilde Hobhouse; la seconda, che il giar-dino prende esempio da modelli inglesi e neo-classici, con struggenti e pittoresche vedute. Il Lucarelli rammenta come allo stessoRanghiasci sia dovuta la sistemazione su piùlivelli del parco. L’area difatti è disposta in una lunga striscia arettangolo e degradante, confinante con le anti-

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15Le mura della città medievale che circondano il parco

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Il tempietto: al centro del timpano è posto lo stemma deiRanghiasci inquadrato con quello dei Brancaleoni e la scritta

“Virtus omnia vincit”

Particolare delle colonne corinzie

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che mura cittadine a monte e con un muro dicontenimento fatto costruire dal proprietario avalle, limitrofo a via della Ripa. Il Ranghiasci, già proprietario degli orti deiGaleotti, pur non senza difficoltà, ottiene nel1831 dal Comune la chiusura di un vicoloretrostante il palazzo sito tra quei terreni chediverranno così luogo di comunicazione, daultimo sotterraneo, con il grande parco. Accesso questo rigorosamente privato, contra-riamente all’altro che ancora oggi si affacciasull’attuale via Gabrielli, chiuso da un grandecancello ottocentesco. In quel periodo attraverso una serie di vialiellittici si accedeva al centro del giardino,comodamente seduti su una carrozza dallaquale si poteva ammirare il panorama dellacittà.Gli acquisti della terra destinata al parco inizia-no così il 7 dicembre 1831, quando Ranghiascicompra una piccola vigna con orto senza casa,posta nel quartiere di San Giuliano da Tomasodi Felice. In particolare è del 1833 l’acquisto dalSeminario di una vigna con casa padronaleposta nel quartiere di San Giuliano. Questo attoriveste importanza perché è l’unico in cui com-pare un esplicito riferimento alla costruzionedel parco: “[...] e in area di affermazione al sitoacquisito, che vuò ridurlo a deliziosa villa apiacere della sua nobile famiglia”. Nel 1834,Ranghiasci acquista addirittura una casa dacielo a terra di più vani con torre e oratoriointerno, situata in via della Ripa con “annessigli orti del medesimo signor Roseti”. Dai dati ripresi dal fondo notarile, risulta evi-dente che i terreni necessari al parco furono

comprati in un arco di tempo di dodici anni,durante il quale il marchese e la moglie Matildeebbero modo di progettare i percorsi chiara-mente individuabili nell’impianto del catastogregoriano in coincidenza dei grandi viali ellit-tici disposti nel terreno degradante. Nel realiz-zare il parco, Ranghiasci non ebbe scrupolo diabbattere e modificare testimonianze storicheprecise, quali per esempio la Chiesa di SanLuca, di proprietà dei Rosetti già nel catastoGhelliano. Dalle memorie del fondo Armanni a propositosi legge alla data 1835: “[...] nei mesi di maggio,giugno e luglio di quest’anno è stata demolitagran parte della casa Rosetti (antico monasterodi S. Luca) posta sulla strada che dal voltone diCorte conduce alla Ripa e ciò per volontà delMarchese Ranghiasci cui Giuseppe Rosetti havenduto la casa e gli orti per il prezzo di £ 1100”. In realtà i lavori al parco iniziano tra il settem-bre e l’ottobre del 1841 come apprendiamo dalsopracitato diario: “[...] è stata demolita laChiesa di S. Luca al pian terreno de la casaRosetti che era l’antico monastero di S. Luca èstato demolito da cima a fondo meno la torre,che resta ancora in piedi quantunque isolata”. La citazione è importante poiché, oltre a nonlasciare dubbi sul fatto che si sacrificavano conuna certa nonchalance le “memorie patrie” inaltri casi energicamente difese, fa capire che èiniziato il programma di sistemazione del parco.Nel 1842 Ranghiasci diviene Gonfaloniere eLoccatelli, dedicandogli un’orazione, indirizzataperaltro a “Matilde Ranghiasci Brancaleoni nataHobhouse” ma a lui rivolta, rammenta: “voidovete essere il padre di Gubbio antica, sicco-me lo siete di Gubbio odierna”. I lavori per la

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19Fontana in mattoni, essa introduce al luogo più nascosto e privilegiato del giardino

sistemazione del parco continuano sicuramen-te fino al 1848. Ci sembra interessante citare certe situazioni,ove, pur non comparendo in prima persona, sicapisce come il marchese sia teso a promuove-re tutta una serie di richieste per riparazionialle strade e alle mura limitrofe alla sua estesaproprietà. Alle spese dei lavori provvederàspesso il Comune. A proposito basti citare larelazione del sopralluogo del messo comunaledel marzo 1844, il quale sottolinea l’esistenza di

una frana di muraglie in via della Ripa e il fattoche dalle mura castellane ogni giorno si distac-cassero, con grande pericolo, delle pietresmosse dall’acqua e dal gelo. A distanza diquattro anni l’ingegnere comunale GiovanniNini chiede che siano saldate le “spese per lariforma del verbale di collaudo relativo allaricostruzione delle mura castellane presso levigne del sig. marchese Ranghiasci”. Le citazio-ni a riguardo potrebbero moltiplicarsi; certoesse rendono evidenti le piccole meschinità del

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Marchese che muove pedine cittadine per siste-mare al meglio le sue proprietà. Il giardino èsenz’altro costruito secondo i criteri stabiliti daitrattati alla moda, che forse nel momento dellarealizzazione sono persino superati. Nel parco, segnato dai grandi viali rotabili e dalverde contrastante degli ippocastani, dei tigli epersino degli aceri campestri - questi ultimisono sistemati per portare pergole gonfie diuva - vengono adeguate preesistenti costruzio-ni e inserite vestigia d’antichità, di cui ilRanghiasci doveva divenire conservatore. Nel verde del giardino sono dislocati edificineoclassici, mentre rovine medievali sono tes-sute e disposte tra le piante. Esisteva il presup-posto della varietà dei luoghi, raccomandato damolti estensori dei trattati ottocenteschi deigiardini; si doveva, quindi, cercare di utilizzarenel modo più adatto le varie curve di livello,segnandole attraverso colture ed edifici diversiculminanti in un tempietto. Tutti gli episodi architettonici inseriti nel giar-dino ad eccezione del grande villino in matto-ni esemplato sullo schema della facciata delpalazzo Ranghiasci, risultano ispirati da model-li antecedenti, largamente superati negli anniQuaranta. Percorrendo il parco dall’ingressoprincipale, che si affaccia sull’attuale viaGabrielli, il grande giardino, dopo i lavori direcupero, si apre al visitatore mostrando le sueiniziali fattezze. Nel primo tratto antecedente ilponte si incontrano in terra due colonne di pie-tra non meglio collocabili, ma che sicuramentedovevano essere disposte nelle vicinanze del-l’accesso dove esisteva, anche secondo quantoraccontano gli ex proprietari, una statua di ter-racotta, presumibilmente una divinità.

Attraverso il ponte coperto gettato sulCamignano e dalle cui strette finestre si guardaverso la città medioevale che si affaccia sul rio,si giunge ai grandi viali che risalgono il decli-vio attraverso un gioco ellissoidale di tornantisegnati, quali mete, da colonne sormontate ori-ginariamente da capitelli oggi scomparsi. Le curve sono segnate da sedili in pietra tufa-cea che caratterizzano con la loro rusticità imuri di contenimento. Sul lato destro, cheporta direttamente a via della Ripa, è ancoraesistente la casa destinata ai giardinieri. Guardando verso la città dal muro di cinta,volutamente non coperto da vegetazione,Gubbio si rivela al fruitore dei sentieri nella suainnegabile bellezza.Dagli spazi lasciati liberi dagli alberi, le quintearboree accompagnano la vista ora su torri, orasulla grande facciata della Chiesa di SanDomenico, ora sul dominante palazzo deiConsoli creando numerosi quadri definiti dacornici vegetali. Attraverso la serie dei tornantisegnati da piante diverse per creare un effettosempre nuovo nel verde e che in autunno sicolorano di rossi e di gialli contrastanti, siincontra la villetta a due piani, estremamentemoderna e confortevole, certo residenza estivadei signori, ora completamente restituita all’an-tico splendore. Poco più avanti una fontana in mattoni, unavolta abbellita da colonne marmoree, raccogliele acque che vengono dalle cisterne superiori ele convoglia verso il tornante inferiore, cheintroduce al luogo più nascosto e privilegiatodel giardino. Attraverso due gradini in granito si accede aduna grande aiuola a parterre dominata da un

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21Il villino ottocentesco, immerso nel verde, tornato al primitivo splendore dopo il recente recupero

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tempietto. Sul lato destro troviamo un piccoloedificio, anticamente utilizzato come scuderia,fregiato dallo stemma della famiglia Benveduti,probabilmente ricavato da un’antica torre. Lagrande aiuola, oggi completamente recuperatae contornata da una siepe di bosso, contiene alcentro della verzura una piccola fontana-cister-na di forma circolare, circondata da una rin-ghiera novecentesca in ferro battuto completa-mente rifatta su impostazione della precedente. In asse è il tempietto posto in una zona soprae-levata. All’edificio si accede attraverso dei gra-dini definiti da due blocchi di pietra locale,mentre ai lati si notano delle curve di conteni-mento sempre in pietra. Nel centro del timpa-no del tempio è posto lo stemma deiRanghiasci, inquadrato con quello deiBrancaleoni, circoscritto dal motto: “Virtusomnia vincit”. L’emblema dimostra come que-sta architettura sia stata costruita prima dell’in-vestitura di Francesco quale Marchese. Il pic-colo edificio, caratterizzato da colonne corin-zie, ripropone modelli consueti. Basti pensarea quello del Parco di Monza su disegno delPiermarini o a quello di Villa Pamphili a Romanonché, per arrivare a esempi più immediata-mente e cronologicamente vicini alla costruzio-ne del parco, a quello del Giardino Puccini aScornio o del Giardino Corsi Scarselli diFirenze. Il tempietto è posto su un piccolo rilievo da cuidomina le grandi e spaziose aiuole bordate dibosso. La scelta del luogo mostra come Ranghiascifosse attento a collocare nei siti adatti le emer-genze architettoniche. Ai tempietti spetta unaposizione privilegiata nel contesto dei parchi e

così è anche in questo caso, dove la testimo-nianza del potere dinastico della famiglia divie-ne esplicita attraverso lo stemma della casatadisposto all’interno del timpano. La struttura del tempietto potrebbe essere stataricavata da sacelli noti all’archeologo Ranghiasci.Si giunge poi, in un luogo nascosto da alberi,alla torre medioevale disposta tra due viali. La torre, come si è ricordato, faceva parte del-l’antico complesso della Chiesa di San Luca,distrutta dallo stesso Ranghiasci, che aveva pre-ferito lasciare all’interno del parco questa testi-monianza di ruinismo più che l’intero edificio.Ancora oggi la parte terminale della torre, chesi può vedere dalla piazza del mercato, sovra-sta l’intera area verde del giardino. Alla torre si poteva giungere anche attraversola via carrozzabile, trovandosi in un puntofocale del percorso. Nella parte bassa eranostate aperte due grandi porte ad arco acuto,mentre nel piccolo atrio interno si presentaancora oggi, per lo stupore degli ospiti, ungrande mascherone classico, dai cui occhi filtrala luce. Gli ultimi lavori di recupero hanno portato allaluce le opere di adduzione di acqua prove-niente dal condotto del Bottaccione.L’accumulo di tale risorsa avveniva in un loca-le sottostante l’antica torre di altezza pari a 6metri da dove avveniva la distribuzione a tuttala città. All’interno della torre, tramite una scala, siaccede al piano superiore da dove è possibilegodere una vista unica sulla città. La torre dive-niva così elemento determinante del giardino,proprio come in altri parchi coevi, quali peresempio quello Torrigiani a Firenze, dove assu-

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23La Torre, unico elemento rimasto dell’antico Convento di San Luca

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sistemate a orti dove erano coltivati soprattuttoolivi e viti. Vi erano naturalmente alberi da frut-ta, quasi a offrire al visitatore, dopo i piaceridella vista, quelli del gusto e naturalmente delnutrimento, poiché la villa è per sua naturadispensatrice di un duplice piacere edonisticoe utilitaristico. Gli spazi degli orti erano defini-ti dalle mura cittadine, nonché dal grande“Ridotto” ora completamente recuperato. Dallatorre si scende verso l’ingresso del parco dallaparte della dimora Ranghiasci. Qui si incontra una fonte in una nicchia, unavolta arricchita da una statua in cotto, per poi

me una connotazione simbolica anche piùcomplessa. Niente è lasciato al caso, vicino all’edificio“gotico” sono piantati alberi con chiome espan-se. Secondo gli insegnamenti della scuola pae-sistica inglese l’edificio si raggiungeva attraver-so una scandita successione di viali che sotto-lineavano l’idea del movimento. Tuttavia la struttura del giardino eugubino èvolta, più che a porre in evidenza il significatodelle composizioni, a cercare effetti immediatiper superare l’impianto paesistico. Proseguendo il percorso si sale verso le aree

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giungere ai giardini domestici. Da un latoun’arcata in mattoni raccorda il muro di cinta aun tornante. Intorno al 1870, all’interno del grande percor-so, oltre agli edifici segnalati, oggi ancora leg-gibili, vi erano altre emergenze architettoniche,come si apprende dalle Referte 680-726 del1877, insieme a numerose “case dell’ortolano”.Ci sembra interessante la segnalazione nellaparticella 1010 di un edificio denominato“Coffee house“ oggi scomparso. Si può immaginare a tale proposito una picco-la struttura destinata, secondo la moda deltempo, alla consumazione del caffè. Basti pensare, per più illustri modelli, al noto“Coffee house” dei Giardini del Quirinale. Con molta probabilità, vista la sistemazioneangolare della particella, potrebbe essersi tratta-to di una piccola terrazza prospiciente via dellaRipa da cui godere il panorama medievale. Nel parco erano state costruite delle serre,anche queste scomparse, destinate ad ospitarepiante esotiche e fiori. Morto il MarcheseRanghiasci nel 1877, smembrata l’eredità tra ifigli e il fratello Giuseppe, anche il giardino ini-ziò una lenta decadenza. Durante il fascismo tutto il complesso fu desti-nato a colonia elioterapica, la cui sede fu pro-prio la villetta principale; le serre, ridotte adocce, andarono successivamente in rovina e ivasi che segnavano i percorsi nei viali scom-parvero quasi del tutto.Soltanto nel 1951 il Parco fu ancora sede di ungrande ballo per il “Premio GiornalisticoGubbio”, poi, lentamente l’edera e le altrepiante infestanti hanno creato l’immagineesemplare di un ruinismo questa volta non

concettoso.Ci piace ricordare la voce di Amelia, figlia diFrancesco, che in una lettera inviatadall’Inghilterra alla fine dell’Ottocento, rivol-gendosi ai parenti in Italia, chiede quale sia lasorte dell’amato giardino. L’artificioso giardino ha rispecchiato un model-lo consueto nelle sistemazioni paesistiche dellametà dell’Ottocento e di questo erano ben con-sci i contemporanei.Basti citare, a proposito, un brano di StefanoRossi che, riferendosi espressamente al giardi-no Ranghiasci, annota: “Ei non badò certo aspese per fare di un ingrato terreno tutto pietro-so e dirupato, dove un amenissimo boschetto,dove passeggi serpeggianti ed ombrosi atti alleruote de cocchi, dove virdario per esotici arbu-sti e per fiori di ogni stagione, e perfino il tor-rione del medioevo e le muraglie antiche dicinta della città, vestite dall’ellera sempre verde,rendono più svariata la scena della villa, e ledanno quell’aria di romanesco e di guerriero,che pur piace di molto a dì nostri agli infarinatidi patetica letteratura, o a quelli che amano ledrammatiche sensazioni”.

centrostampaprovincia
Evidenziato
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Il Parco Ranghiasci-Brancaleoni, alle falde del Monte Ingino,in rapporto all’attuale tessuto urbano della città di Gubbio

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Villa Fidelia“Amore e divinità”

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Nel racconto mitologicodella vicenda di Dafne ci

sono la corsa e la fuga. L’aspirazione a una formasuperiore è tracciata e regolata da Dalì,nel nomedi Dafne, con lo spirito di un nuovo rinascimen-to.Tutto si tiene sulla base di un reperto fossile,tramite vistoso ma non pesante fra la naturaumana e la sua metamorfosi divina e questa,modernamente è contenuta nel simbolo dell’aci-do desossiribonucleico.Gli strati sepolti di un sito archeologico non sca-vato, il Dna lontano che si ripete in noi, si vedo-

no nell’ambiente di Villa Fidelia attraverso lospecchio di Dafne realizzato da Dalì.Un tratto rettilineo di superstrada ormai alleporte di Spello, dopo la “chiesa tonda”, inquadraalla giusta distanza, sulla sinistra, lo spettacolocalamitante di una costruzione signorile colle-gata da bei viali ad altre strutture che fanno daelementi di scena entro un parco ben assortitosoprattutto di pini. Il muro di cinta è sobrio equasi occulta la presenza di una chiesetta che sitrova praticamente con l’ingresso sulla stradacomunale. Questa fascia il complesso e la sua

D afneDDDDaaaaffffnnnneeee

Villa FideliaMaurizio Terzetti

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cancellata, l’accesso principale, con la morbi-dezza di una curva che si rilancia verso Spello e,a pochi passi, include nel percorso la facciatalimpida di una chiesa, più grande e più in vistadella precedente, ma che pur sempre assomigliaa un modello garbato e completo da svilupparein architetture monumentali.Spello è preceduta da un’altra scenografia, que-sta volta di grotte dentro un’ansa. Ormai la cittàè visibile, con le mura, la porta ancora “splendi-dissima”, le torri quasi senza tempo, le case e lechiese abbracciate sulla stretta collina.Uscendo dalla superstrada e facendo il camminoa ritroso lungo la comunale (sì, venivamo daAssisi) passiamo davanti alle grotte, ai ruderi diun teatro romano, a quel modello davvero gar-

bato e completo d’architettura che è la Chiesa diSan Claudio. Sulla curva comincia ad affacciarsiil muro di cinta della costruzione signorile: giar-dini e un bosco sulla sommità del parco circon-dano un edificio allungato più che alto, non pro-prio vistoso prima che si scopra la monumenta-lità della struttura che ci ha colpito dalla super-strada.Davanti al cancello d’ingresso l’impressione del-l’immagine ravvicinata tanto che ormai vi si puòentrare dentro (a piedi!) è davvero emozionan-te. Il monte Subasio, che pure si vedeva dallasuperstrada, è come scomparso e tutto questoinsieme ben ordinato di parco e villa è divenutoil proprio monte. Ora i viali si vedono con pre-cisione e, dove termina la loro vista, se ne indo-

Spello, Villa Fidelia “veduta aerea”

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33Ingresso della villa

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Il giardino vesuviano e il Casino di villeggiatura

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vinano facilmente le prosecuzioni: un senso difamiliarità spontanea e di mistero, altrettantocongeniale al luogo,entra nella sfera visiva di chicompie il primo passo dentro il complesso diVilla Fidelia.Familiarità e mistero riportano ad antiche radiciarcheologiche, irrintracciabili, prive di un loroapparato mitologico.Qui la più antica presenza è degli Umbri, chehanno sviluppato la religione dentro il loro tem-pio ma non ci hanno tramandato mitologichemetamorfosi. Eppure, per essi consacrare il tem-pio, edificarlo e consacrarlo, voleva dire delimi-tare un perimetro nei pressi di un bosco e,soprattutto, di una sorgente d’acqua: è con lalegna e con l’acqua, elementi di base per ognifavola mitologica, che essi davano vita al recintosacro del tempio, in cui accoglievano la manife-stazione divina e si rendevano, degni, ad essa.Ma Dafne? Non conosciamo nessuna Dafne che,presso gli Umbri, possa essere stata presa nelgioco degli elementi della natura fino a diventa-re l’elemento della sua metamorfosi. Però qui,nel luogo di un santuario umbro, la sua leggen-da può essere fatta valere per l’intreccio diacque e di piante che, mettendo mano allo spa-zio sacro del tempio, quel popolo dev’essersitrovato di fronte, dopo averlo scelto fra millealtri posti, in faccia al “lacus umber”, alle pendi-ci di un monte, il Subasio, la cui sommità,anch’essa, doveva essere stata sacra.E come può valere la leggenda mitologica diDafne, altrettanto bene si può prendere ademblema di Villa Fidelia il magico gioiello in cuiDalì ha riproposto la favola antica della miticafiglia del fiume Peneo, in Tessaglia, o, secondoaltre versioni, del fiume arcadico Lacone.

Così come il gioiello del maestro ricrea la mera-viglia della storia di Dafne perché gioca pursempre ancora sugli elementi delle chiomearboreo-floreali e della trasparenza acquea avvi-luppata da radici della giovane donna al terminedella sua fuga, altrettanto si può prendere illuogo di Villa Fidelia – quello, intendo, che dove-va presentarsi agli umbri nel momento dellascelta del luogo per il tempio e che rimane pernoi il punto di maggiore espansione della fanta-sia – come scenario di ri-ambientazione dei qua-dri in cui la storia di Dafne deve, secondo lamitologia, essersi svolta.Contraria all’amore, lei fu amata da Apollo; inse-guita, ottenne di essere trasformata in alloro:questa è la versione più comune della leggenda,che ha avuto delle varianti ed è stata soggettofrequente della letteratura o dell’arte figurativaantica e moderna, da Ovidio, Stazio el’Antologia Palatina alle pitture parietali pom-peiane, al gruppo di Apollo e Dafne del Bellini.Il gioiello “Dafne” di Dalì ha indubbiamente unasua specifica rilevanza per alcuni collegamentiinterni con la produzione del grande maestroche così sono stati sintetizzati: “En 1945, pintael Retrato de Mrs. Isabel Styler Tas, que lleva unbroche espectacular: con un personaje en elcentro del cual surge un árbol y unas perlas quecuelgan en la parte inferior. Cuando contempla-mos la joya Dafne, realizada en 1967, no pode-mos ignorar la referencia a este retrato. La ideade una perla o piedra suspendidas en el espaciopodemos asociarla asimismo a Piero dellaFrancesca, alusión que se hace patente en elóleo de Dalì La Madonna de Port Lligat de1950” (Montse Aguer, Las joyas y su arte en laobra de Dalì, in DALÍ jewels-joyas, p. 31).

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37Scenografia di fondo: nicchie e fontane

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38 Diana cacciatrice

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A Villa Fidelia, dove la corsa di Dafne potrebbepure avere avuto la sua conclusione, la bellezzadi questa ipotetica, antichissima signora dellascena si è trasmessa di generazione in genera-zione e, per quante volte il luogo è stato trasfor-mato, in ognuna di queste occasioni lo spazio èrisultato bello e struggente, recando in sé undesiderio d’amore che è prima di tutto amore dise stessi.Questo è vero, forse,per via della favola di Dafneche, grazie al gioiello di Dalì, sentiamo presentenell’intero complesso di Villa Fidelia. Ma la forzadi un’impronta costruttiva originaria, questascientificamente molto più accreditata dellafavola, dà ragione essa stessa del condiziona-mento architettonico e scenografico che,partitodagli Umbri, è arrivato fino ai nostri giorni:“L’attuale complesso della Villa Fidelia sorge suun insieme sacrale d’epoca classica e da questoè stata fortemente condizionata nella sua dispo-sizione planimetrica e d’impianto, al punto che,nonostante gli edifici ed i giardini siano sorti inepoche successive, l’impronta dell’antico san-tuario ha regolato l’opera di edificazione e disistemazioni successive in modo tale da fareapparire il complesso un tutto unitario, non sle-gato e frammentario” (Paolo Camerieri, Danielae Giuseppe Corbucci, Giuseppe Donati, Notestoriche, in Collezione Maria Teresa StrakaCoppa e Francesco Coppa, Roma, 1985).La sezione di tronco d’albero che incorpora ilgioiello di Dalì sembra esprimere, con i suoianelli, l’irradiazione di stili e costruzioni diversiche nei millenni, da un nucleo storico e favoli-stico, si sono sviluppati a Villa Fidelia, nessunopotendo fino in fondo cancellare il precedente,ma esemplandosi sulla traccia lasciata da quello

Un angolo del giardino all’italiana

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quasi fino a cancellarvisi.Per tornare a quel nucleo storico, sembra che ilcomplesso sacrale abbia origini risalenti allatarda età della Roma repubblicana, anche se lasua conformazione definitiva dovrebbe, secon-do il Rescritto Costantiniano di Hispellum,appartenere al IV secolo dopo Cristo: “NelRescritto, datato tra il 326 e il 333, l’imperatore,su istanza degli abitanti di Hispellum, concedealla popolazione umbra di riunirsi annualmentenon più a Volsinii (Bolsena) insieme agliEtruschi, per celebrare ludi scenici e gladiatori,ma nello stesso territorio della Provincia Umbrapresso Spello (cui viene attribuito l’appellativodi Flavia Constans), all’unica condizione cheoltre a costruire un magnifico ed ampio edificiodedicato alla Gens Flavia, detto tempio nonfosse contaminato dagli inganni di qualsiasicontagiosa superstizione” (Paolo Camerieri[…], Note storiche, già citato).Si ricava, dalla lettura del documento lapideocostantiniano rinvenuto nei pressi del teatroromano incontrato per arrivare a Villa Fidelia,che la struttura a terrazzamenti, gli edifici e lecostruzioni romane ancora visibili siano da attri-buire ad un’epoca anteriore al Rescritto del 333.E il “calco” sacrale umbro ha continuato ainfluenzare la topografia di questo sito ancheben oltre la decadenza dell’Impero romano,quando anche l’Umbria ha subito l’effetto deva-stante delle incursioni barbariche. Sin da questoperiodo,però, l’antico santuario ha cominciato aconoscere le prime spoliazioni, finché si è giun-ti alla rovina vera e propria, coincidente con laspaccatura del complesso sacrale in una parteinferiore e una parte superiore, la prima dellequali, ormai ridotta all’utilizzazione agricola,

dovrebbe essere rimasta pubblica per lungotempo, mentre la seconda non avrebbe seguitola stessa sorte, se almeno nel XVI secolo se neattribuisce la proprietà alla famiglia degliUrbani.È in questo periodo che la nobile famiglia spel-lana degli Urbani occupa l’area dell’antico san-tuario e, a mano a mano che cura la riutilizza-zione delle gradinate romane per coltivarvivigne ed olivi, sente la necessità di dotarsi di una“Villa” suburbana, chiamata appunto “la Fidelia”,tanto per dare un ulteriore segno del proprioruolo cittadino quanto per seguire più da vicinoil progresso dell’attività agricola: il primo edifi-cio con questa destinazione complessiva sor-gerà sui resti di uno dei sacelli laterali del san-tuario, per la precisione quello, dedicato aVenere, che guarda Spello.Gli Urbani si estinguono intorno ai primi annidel XVIII secolo.La nuova proprietaria della Villaè Donna Teresa Pamphili Grillo (1680-1762)che, secondo la tradizione,avrebbe deciso di fer-marsi a Spello per trovarvi il sollievo necessarioalle sue vicissitudini familiari.Con Donna Teresa,Villa Fidelia subisce, all’iniziodel Settecento, importanti modifiche, ristruttu-razioni e ampliamenti: l’impianto del giardinoall’italiana, collocato sopra la più alta sostruzio-ne romana del santuario e costituito da siepi dibosso e giare con agrumi ed essenze vegetaliprofumate; il muro con nicchie e fontane, amonte del giardino stesso; l’ampliamento e latotale ristrutturazione della Villa degli Urbani,che, meglio adeguandosi alla disposizione a gra-doni, assume la fisionomia, in scala ridotta, dellaromana Villa Madama.Succedono a Donna Teresa nella proprietà dap-

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41Il giardino all’italiana

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prima i conti Sperelli poi Gregorio Piermarini,ricco possidente terriero di Foligno.Anche questo periodo – siamo nei primi annidell’Ottocento - è importante nella storia dellaVilla ed è testimoniato,oltre tutto,da un bel dise-gno dell’ingegnere senese Saverio Andreucci incui, nella rappresentazione grafica del comples-so, tra i giardini, il boschetto, il frutteto e l’olive-to compare per la prima volta la palazzina dettaCasino di villeggiatura. L’edificio dalla formaregolare ed elegante – quello cui oggi si accedee che fa bella mostra di sé dalla superstrada –nasce sul sacello opposto a quello di Venere sucui, come abbiamo visto, è stata credibilmenteipotizzata la costruzione della primitiva Villadegli Urbani.Nei primi decenni dell’Ottocento, dunque,VillaFidelia mette a punto la sua immagine moderna,alla quale contribuiscono, insieme al Casino, ilgiardino vesuviano con esedra e fontana, sor-montata da Diana cacciatrice e concluso in altodalla cisterna con orologio e fonte che ancoroggi ne costituiscono la via d’accesso e il pre-giato fondale.Morto Gregorio Piermarini nel 1845, la Villapassa ai Tani-Menicacci, che non apportanomodifiche al suo impianto, cosa che inveceavviene con il passaggio della proprietà alCollegio Vitale Rosi, che adatta la costruzione aresidenza estiva dei propri assistiti. Gli ultimiproprietari privati – la famiglia Costanzi – ven-dono la parte più antica della Villa alle SuoreMissionarie d’Egitto, che tuttora ne mantengonola proprietà, e la parte con i giardini e il Casino,il galoppatoio, la serra e il campo da tennis allaProvincia di Perugia.Se Dafne può avere abitato qui nei primordi

Un angolo del giardino vesuviano

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della fantasia, tutti gli uomini di fantasia e digusto, nei millenni, l’hanno sentita risvegliarsianche a Villa Fidelia, e l’emblema realizzato daDalì pare sovrapporsi perfettamente all’antico“calco” umbro-romano e poi rinascimentale epoi barocco e poi romantico e poi liberty e poiattuale della Villa.Nel 1930, la regina Giovanna e il re Boris diBulgaria trascorsero qui parte del loro viaggio dinozze. Per quasi vent’anni, dal 1985, laCollezione Straka-Coppa ha onorato le sale e ipiani del Casino. Oggi l’edificio ospita mostre

importanti e dal suo punto di riferimento cen-trale per la Valle Umbra si guarda con maggioreattenzione allo sviluppo della questione archeo-logica della Villa e del territorio circostante.D’estate, soprattutto, le sere e le notti offronospettacoli e concerti per una serie piuttostoassortita di preferenze. Forse quello è il momen-to migliore per sentire aleggiare l’antica fantasiadi Dafne.

La casa situata all’ingresso

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Facciata princiapale del Casino di villeggiatura

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Villa Redenta“Lo slancio verso il cielo”

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Dire che un fiore è psichede-lico, per quanto possa sem-

brare un’incredibile trasmutazione delle regoledella natura, uno sconvolgimento dei sensidella vista e dell’udito, non è altro, agli occhi diDalì e di questo suo gioiello, che la riscoperta ela riaffermazione dell’essenziale laboratorio fito-cromatico con cui lavorano le piante.Colorato e vivace, eccitante quasi sonoro, ilfiore-gioiello di Dalì scopre l’anima tradiziona-le di un territorio e la innalza su scenari primaimpensati, come obelisco che cerca il cielo.

La villa, senza dubbio uno dei più bei com-plessi architettonici di Spoleto, è collocatalungo la Via Flaminia, poco lontano dalla PortaS. Gregorio. I numerosi resti e frammenti dimarmi, l’esistenza di un pavimento romano incotto a spina di pesce ancora oggi visibile neipressi dell’ex scuderia, testimoniano che illuogo fu sede di importanti ville patrizie subur-bane e forse anche di terme e bagni, in consi-derazione del fatto che nei primi anni del seco-lo decimosettimo fu rinvenuta una statua di“eccellente lavoro, insieme ad alcuni canali che

La flor psicódelicaIIIIllll ffffiiiioooorrrreeee ppppssssiiiicccchhhheeeeddddeeeelllliiiiccccoooo

Villa RedentaLuigi Cibruscola

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correvano il terreno qua e colà con diversiandamenti”. Nelle immediate vicinanze dellaVilla, appena fuori dal muro di cinta, nel 1877è stato rinvenuto un Mitreo, costituito da uncorridoio decorato con figure lungo le paretilaterali, che si allarga presso il muro di fondo,ove si aprono tre nicchie una delle quali eradestinata ad ospitare il simulacro del dio Mitra.Nel 1603 il luogo era occupato da un perpul-crum palatium, (cit. in Spoleto in pietra delprof. B.Toscano), mentre in data 31 agosto1693 la proprietà delle terre dentro la Chiusadel Casino, passa al Capitano GirolamoPianciani Martorelli, membro di una delle più

importanti famiglie di Spoleto. Ai Martorelli laVilla appartenne fino alla metà del 1700. Sul finire del secolo la proprietà passò, per ere-dità, a Fabrizio Locatelli (fratello di FrancescoMaria vescovo di Spoleto) cui si debbono leopere di rinnovamento che portarono allanuova configurazione della Villa, che vedeaggiungere al corpo principale la vicina depen-dance e il refettorio; furono anche effettuati ilavori di risistemazione del parco, il rifacimen-to della facciata esterna della cappella di fami-glia, la realizzazione della serra e dell’altra fac-ciata simmetrica, che racchiudono al loro inter-no il giardino segreto.

Villa Redenta, il parco con al centro la fontana dell’obelisco (1871)

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51La villa vista dal giardino

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A tale proposito è interessante far rilevare chenel 1764 fu stipulato un contratto fra ilMarchese Fabrizio Locatelli ed il sig. Fabbri di S.Ippolito di Fossombrone, relativamente all’ese-cuzione di diversi lavori da scalpellino all’inter-no della Villa, parte dei quali già realizzati dallostesso alla data del 16 aprile 1767; dalla letturadel documento si apprende così che il Fabbri èstato anche l’autore di alcuni disegni riguardan-ti la fontana dell’obelisco, la balaustra ecc. Dal tono generale della Villa si distacca la Café-house, realizzata in stile tardo rococò, la qualepresenta un corpo centrale rettangolare raccor-dato al muro di cinta da due elementi sinuosied è decorata riccamente all’interno con stuc-chi dorati a foglia e dipinti che ne riempiono lepareti. La realizzazione delle opere, eseguitealla fine del 1700 all’interno del complesso,sembra doversi attribuire all’architetto spoleti-no Pietro Ferrari, ma è interessante evidenziareanche l’ipotesi di un intervento dell’architettoGiuseppe Valadier, il quale ha operato attiva-mente a Spoleto in quel periodo con numero-se realizzazioni sia nella città che nel territorio.Nel maggio 1805 Pio VII, di ritorno dalla Franciadopo l’incoronazione di Napoleone, fu ospitatodai Locatelli nella Villa, la quale si presentavaallora “doviziosamente rinnovata” dopo i lavoridi cui sopra; della visita rimane traccia in un’i-scrizione nell’atrio, dove erano altresì collocatidue ritratti marmorei a forma di grandi cammeirappresentanti i ritratti di Pio VI e Pio VII, chefurono venduti e successivamente riacquistatinel 1978 dalla Cassa di Risparmio di Spoletonella cui sede sono attualmente conservati.Le alterne fortune ed i debiti contratti daiLocatelli portarono ad ipotecare la Villa che

venne messa all’asta ed acquistata nel 1823 dalMarchese Francesco Marignoli, probabilmenteper conto di Papa Leone XII, il quale ne diven-ne effettivo proprietario un anno dopo (LeoneXII della Genga fu Papa dal 1823 al 1829).La Villa fu ereditata dai conti Fiumi Sermattei diAssisi che la rivendettero verso fine Ottocentoal Marchese Filippo Marignoli, senatore delRegno e discendente di Francesco, il quale leimpose il nome di “Redenta”, per indicare ilriscatto della medesima e la sua riacquisizioneal patrimonio familiare.La Villa continuò comunque per un certoperiodo ad essere chiamata “Villa della Genga”in onore a Papa Leone XII e con questo nomeviene descritta ne Le cento città d’Italia del1897 insieme ad un disegno del parco e dellafontana centrale.Nel 1957 la Villa fu venduta ai PP. MinoriConventuali che ne fecero la sede del collegiomissionari di S.Antonio. Nel 1973 è stata acqui-stata dalla Provincia di Perugia che nel 1995 hainiziato i lavori di restauro conservativo, con-solidamento e riqualificazione funzionale.Gli interventi che si sono succeduti nel tempohanno interessato l’ex-frateria ed ex-scuderia,prevedendo una destinazione d’uso turistico-ricettiva e Ostello della gioventù con annessasala convegni polifunzionale. Nel 2000 venivaapprovata la destinazione d’uso della Villa ad“Accademia Internazionale della Cucina” dacollocare nel corpo principale e negli immobi-li Café-house, dependance e limonaia; i lavorieffettuati e terminati alla fine del 2003 hannoprevisto altresì il restauro del parco-giardino.Il complesso ”Villa Redenta” può quindi oggiessere considerato un luogo di aggregazione per

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53La villa vista dal Tempietto

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Il cedro del Libano incornicia da duecento anni la villa

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la città di Spoleto, che ingloba al suo internomolteplici nuclei funzionali, i quali interessanosia l’aspetto sociale e turistico-ricettivo (ex-frate-ria ed ex-scuderia), sia quello culturale-didattico(Villa Redenta, Café-house, dependance, limo-naia) che quello ricreativo (parco-giardino).Lo splendido parco conserva ancora oggi,nonostante le trasformazioni subite nel corsodegli anni, un eccezionale valore culturale edambientale. Il patrimonio arboreo ed arbustivosi configura come una associazione costituitada leccio, alloro e bosso a cui si aggiungonoaltre specie autoctone come l’orniello, l’acerocampestre, la roverella, il carpino nero, l’olmo,il corniolo ed altre immesse per la costruzionedel sito, quali il tiglio, le conifere ed alcunespecie esotiche.L’impianto del parco-giardino, così come sipresenta ancora oggi, fu probabilmente realiz-zato da Fabrizio e Giuseppe Locatelli verso lametà del XVIII secolo (nel 1693 il fondo veni-va ancora classificato, da un atto notarile, comearativo, vitato e pergolato) seguendo il gusto invoga in Italia in quel periodo, che prevedevauno schema di impostazione romantica e neo-classica, recependo nel contempo le formulepaesistiche inglesi, tendenti a ricreare artificial-mente le forme naturali.Questa ricerca del “naturalismo” è ottenutaattraverso l’uso sapiente delle essenze, con lacreazione di elementi naturali artificiali comelaghetti, vialetti sinuosi ecc. e con l’inserimen-to di costruzioni neoclassiche all’interno dellavegetazione. Il giardino di Villa Redenta nascecome complemento di una villa suburbana epuò essere suddiviso in alcuni elementi organi-ci fondamentali.

Particolare di un rudere adiacente al Tempietto

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57Particolare del cornicione

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Particolare degli affreschi

Interno della Café-house

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Un giardino formale impostato su componentidi assialità e simmetria; lungo il viale principa-le, ortogonale alla Villa, si incentra la fontanadell’obelisco (realizzata probabilmente daGiuseppe Fabbri scalpellino, nella secondametà del 1700) che si dispone in posizionecentrale e simmetrica rispetto alle aiuole geo-metriche circostanti, più avanti una balaustrafunge da ingresso al piazzale antistante il tea-trino. Quest’ultimo, collocato come scenarioprospettico alla fine del viale, fu realizzato allamaniera degli edifici classici (con mura in rovi-na che inglobano autentici frammenti di epocaromana) e costituiva il fondale per le rappre-sentazioni che si svolgevano nel parterre anti-stante.Il parco di impostazione romantica, disegnatoin maniera non formale seguendo schemi natu-ralistici, è attraversato da tortuosi sentieri cheritagliano aiuole di forma irregolare e cheaccompagnano il visitatore alla scoperta digrotte, rocce artificiali ed altri componenti col-locati con l’intento di dare l’idea di “naturalità”.All’interno del bosco vi sono elementi che ren-dono suggestiva ed interessante la passeggiata;la fontana rupestre, composta da rocce dadove sgorgano le acque che si raccolgono inun laghetto di forma irregolare alla base dellastessa; la meridiana, costituita da uno gnomo-ne posto su di una colonna classica, che proiet-ta l’ombra su una platea in cotto dove sonoincisi i segni dello zodiaco; la neviera, realiz-zata in un pozzo scavato nel terreno, munito discale per l’accesso e la risalita, all’interno delquale veniva, in inverno, costipata della neveche si manteneva ghiacciata anche nel periodoestivo e veniva usata per servire gelati e grani-

te agli ospiti del tempo.Il boschetto dei lecci è ubicato nella zona Ovestdel parco e si integra perfettamente con i fintiruderi realizzati nell’angolo del muro di cinta, iquali simulano le pareti di un edificio classicoin cui si mescolano sia elementi tipici di uninterno ad altri che ne caratterizzano l’aspettoesterno, in modo da creare una sorta di ambi-guità prospettica.Il giardino segreto, collocato sulla sinistra dellavilla, è ricompreso fra la cappella e l’altra fac-ciata simmetrica in adiacenza della limonaia edè separato dal resto del parco da una balaustrain pietra.Nella zona Est del parco, in adiacenza delle exScuderie, a circa due metri e mezzo sotto illivello delle zone a prato, è possibile ammirareun tratto di pavimentazione romana, realizzatain elementi di cotto posato a spina di pesce;sull’area in cui sorge Villa Redenta furono ritro-vati nel 1608 numerosi reperti e frammenti dimarmi antichi che testimoniano la preesistenzadi un insediamento di epoca romana.Sempre nella stessa zona, nei pressi del “falso”tempietto dorico e della Café-house sorge unodegli esemplari arborei più interessanti delgiardino, un imponente cedrus libani riferibileall’impianto originario, il quale ha un’altezza dicirca 19 metri, una circonferenza del tronco di480 cm ed un’età di oltre duecento anni.Il parco-giardino di Villa Redenta è stato ogget-to di un progetto globale di restauro da partedella Provincia di Perugia, attuato mediante unintervento finalizzato al suo recupero storicofilologico.

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61Una corte della villa delimitata dagli edifici della Frateria e della Scuderia

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Il parco con al centro la Fontana dell’Obelisco

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Isola Polvese. Il Castello“L’acqua e la terra”

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Dal suo porto sicuro, uncigno è padrone del

lago, degli uccelli e dei pesci che ne frequen-tano il cielo e il fondale.Dalì traccia dietro ad esso una costa, forse un’i-sola, e forma l’amalgama dei colori. Il cigno èsignore dei colori e dei suoni che, a riva, il lagoporta con onde minime, increspature dellasuperficie, solo le sue piume sanno questodelicato arrivare della corrente. Prima di notte,cercherà l’isola e il suo castello.Quel “Campo di Maggio” del 1139 nella Piazza

di San Lorenzo in Perugia, tredici rappresen-tanti dell’Isola Polvese legano indissolubilmen-te la sua storia a quella di Perugia dichiarandodi sottomettere la loro isola alla città ed alpopolo di Perugia nella persona dei loro con-soli.Non esiste una storia completa dell’isola, dob-biamo accontentarci delle sparse notizie eccle-siastiche o legate alla vita di Perugia protettricedell’isola ed è proprio l’atto di sottomissionedel 1139 il primo e completo documento stori-co di riferimento.

El lago del cisneIIIIllll llllaaaaggggoooo ddddeeeellll cccciiiiggggnnnnoooo

Isola PolveseIl Castello

Massimo Vasapollo

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In effetti i primi frammenti di notizie storicheriguardano in varie fasi le donazioni di vastiterritori ed intere regioni dell’Italia centrale tracui “Perugia con le sue tre isole” che Pipino –814, Ludovico il Pio – 817, avevano donato alPapa. Per più di un secolo non si hanno noti-zie fino al 962 anno in cui l’imperatore OttoneI restituisce l’Isola Polvese ed altre terre dellago al Pontefice Giovanni XII, volontà succes-sivamente confermate da Enrico II nel 1020.L’Isola Polvese, la più grande e più vicina aPerugia, assume importanza economica e stra-tegico militare per la sua funzione di avampo-sto nei confronti di Arezzo, Cortona, Siena eFirenze costituendo la frontiera occidentale.

L’importanza dell’Isola Polvese appare inun’antica pergamena del 1184, in cui Ugo diCampoleone cede e sottomette a Perugia ilCastello Chiugino (Castiglione del Lago) e sta-bilisce che gli abitanti del Castello dovesseroconsiderare come propri nemici tutti coloroche si trovassero in guerra con Perugia e conl’Isola Polvese.In questo atto si evidenzia come i Castiglionesinon dovessero obbedienza solo ai consoliperugini ma unitamente a quelli della Polvese.Sono anni in cui la Polvese domina il Lago e,nel 1208 gli abitanti dell’Isola Maggiore edell’Isola Minore si sottomettono alla città diPerugia, a tutti i suoi cittadini amici e sudditi e,

Veduta del Castello in una foto di fine Ottocento

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69Il mastio e il sottostante muro di terrazzamento e delimitazione delle abitazioni interne

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Il mastio

Veduta notturna con la porta di ingresso principalea lato della torre centrale

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specialmente, agli uomini della Polvese e siimpegnano a rinunciare alle ragioni che posso-no loro competere in seguito a ciò che da essio per essi hanno fino ad allora sofferto.L’origine del nome è incerto, mi piace ricorda-re quello mitologico della leggenda dell’amoretra Agilla ninfa abitante del lago e Trasimenofiglio di Tirreno che giacciono sul fondo dellago e quale miglior cuscino (pulvinar) se nonla più bella delle isole del lago.La profonda quiete che regna dappertutto nel-l’isola con la propria vegetazione spontanea,con i calmi e secolari uliveti, è interrotta daimprovvise apparizioni architettoniche che tra-sformano il visitatore in ricercatore e lo spro-nano a scavare nella storia ed a denudare levecchie murature dalla vegetazione spontaneache le attanaglia in cerca di sconosciute pre-senze risalenti all’epoca in cui Annibale, gene-rale cartaginese, pose a ferro e fuoco le terreed i castelli, man mano che scendeva versoRoma e le genti della terra ferma cercavanorifugio nell’isola.Vi è una ipotesi che l’isola sia stata abitata inepoca etrusca e romana, perché le sue condi-zioni insediative erano ottime in quanto gode-va di un clima temperato, un terreno fertile,circondata da un lago assai pescoso e costitui-va un rifugio ed una difesa naturale; i ritrova-menti che ci confermano questa teoria sonolimitati a frammentari resti archeologici, la cuinatura deve essere ancora ufficialmente confer-mata, consistenti in un tratto di “opus reticula-tum” inserito nel muro di sostegno del piazza-le della Chiesa di San Giuliano e nei grossiblocchi di arenaria di epoca etrusca che costi-tuiscono la base della torre campanaria del

complesso di San Secondo.Il Lago Trasimeno nel corso dell’alto medioevoaveva assunto una grande importanza econo-mica tant’è che Giovanni Pisano nella FonteMaggiore effigiava Perugia in posa regale sedu-ta in un trono con la cornucopia dell’abbon-danza ed a destra la ninfa del Trasimeno con ipesci ed a sinistra la ninfa del territorio diChiusi con le spighe di grano.L’Isola Polvese era importante strategicamenteed anche molto popolata tant’è che nel 1282,anno in cui Perugia era costituita da 8979 fuo-chi, sull’isola, che faceva parte della giurisdi-zione di Porta Susanna, risiedevano 88 fuochi.Usando il coefficiente di moltiplicazione 7(Cibrario) ne consegue che Perugia aveva62853 abitanti e la Polvese 616 e nello stessoanno Passignano 364 e l’Isola Maggiore 490.La crescita dell’Isola Polvese non si arresta nelXIV secolo, tant’è che nel 1342 è sede diPodestà in quanto nel censimento precedenterisultava sede di più di 100 fuochi.Il Podestà era designato per un anno, curaval’esazione delle imposte e l’amministrazionedella giustizia. Inoltre, per testimoniare ancoral’importanza dell’isola e così come risulta da untestamento del 1418, il governatore del lago,massima autorità che rappresentava il Comunedi Perugia, aveva la sua residenza nell’isola.In un’isola così importante per economia, stra-tegia militare, popolazione, la presenza dellaChiesa, che ha sempre partecipato all’organiz-zazione politica generale, era forte e radicata.Fin dai primi dell’anno 1000 esistevano alcuniedifici religiosi, tant’è che nell’anno 1014Enrico II concede all’Abbazia Farneto di ValChiara un privilegio nel quale si confermano le

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chiese di San Secondo, Stefano, Leonardo,Pietro e Angelo.Precedentemente negli Annales Camaldulensisdal 1007 al 1011 troviamo testimonianza dellaChiesa di San Giuliano dipendente dalMonastero di Montecorona confermato nel pri-vilegio concesso da Giovanni XIX all’abateGerando nel 1028 ed in altri successivi.La Chiesa di San Giuliano è un piccolo edificioa navata unica adiacente alla cinta muraria delcastello ed il suo aspetto odierno è dato da unintervento di restauro del quale non si conoscel’esatta datazione storica. Infatti gli scavi ese-guiti lungo il perimetro esterno, nel corso delrecupero effettuato dalla Provincia di Perugianel 1998, hanno evidenziato una muratura fon-dale di epoca molto antecedente a quella inelevazione e forse risalente al XI secolo.All’interno, sulle pareti absidali, sono presentidegli affreschi di scuola Umbra quattrocente-schi rappresentanti San Giuliano, SanSebastiano, San Bernardino, San Rocco ed altrefigure non identificate. Anche la Chiesa di San Secondo fa parlare di sécome pieve nel 1136 in una bolla di InnocenzoIII e successivamente in una bolla di GregorioIX del 1238.L’esistenza di queste pievi testimoniano l’accre-sciuta importanza dell’isola in quanto per pievesi intendeva indicare la chiesa principale conpersonalità giuridica e la massa dei fedeli adessa congiunta.In questo periodo sull’isola oltre alle due pievierano presenti le chiese di Sant’Angelo, SanPietro, e San Leonardo.Delle prime due non si hanno tracce: è certoche la Chiesa di San Leonardo già nel 1750

(testimonianza di Annibale Mariotti) non è statain grado di sfidare l’usura dei secoli, nel 1229era già monastero domenicano di uomini edonne e nel 1419 veniva aggregata al monaste-ro di Montecorona di Perugia. Nello stesso anno si hanno notizie di un’altrachiesa sull’Isola, Santa Maria della Quercia, cheviene trasferita per comodità degli isolani daSan Secondo nei pressi dell’abitato.A testimoniare l’importanza dell’isola è utilericordare che il 17 febbraio 1459, dopo unavisita a Perugia di 18 giorni, Papa Pio II sog-giornò con tutto il suo seguito per un giorno,presso San Secondo. Ciò evidenzia come ilcastello, ultimato proprio in quegli anni, nonoffrisse agi ma fosse solo fortilizio. Il 14 aprile1481 su iniziativa degli isolani viene promossal’azione di trasformare la Chiesa di SanSecondo in monastero e nel 1492 una bolla diSisto IV separa la Chiesa di San Secondo dalMonastero di Montecorona e il governo vieneconsegnato all’ordine degli olivetani.L’Isola Polvese fino al 1438 è indicata nei docu-menti storici come villa ovvero luogo non for-tificato.Tra il settembre 1429 ed il febbraio 1431, epocain cui era già incominciato il declino demogra-fico della Polvese in quanto nel 1439 contava43 fuochi, nei registri della Reverenda CameraApostolica dell’Archivio di Stato di Roma, sitrova la registrazione:“ Mone del Giusto sindico et procuratore de lacomunità de Ysola Polvese ….per pagare lespese facte et che se faranno in la edificazioneet costruzione de la fortezza che si fa al pre-sente in la dicta Ysola Polvese..”In un primo tempo, probabilmente, è stato

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costruito il solo mastio con la funzione diavvistamento, di segnalazione e di difesa eper tale motivo è stato costruito vicino all’abi-tato.Esaminando, infatti, una mappa catastale del1730 si può asserire che guardando l’isola dallago, sulla destra del castello, sono presentiuna serie di edifici che presumibilmente rap-presentavano l’insediamento abitativo dell’iso-la. Le abitazioni degli isolani erano costruite,come si può desumere dagli statuti di Perugia,di buona pietra o mattoni murati con rena ecalcina ed il tetto coperto a due falde con tego-le. Erano ad un piano e ad un unico vano, lun-ghe almeno 25 piedi, alte e larghe 15.Il principale insediamento abitativo dell’isola èsepolto a fianco del castello verso l’attualeapprodo, ove ora si trova un rigoglioso ulive-to, che sarebbe interessante fare riemergereattraverso una campagna di scavi archeologici.In un secondo momento al mastio è stataaggiunta una prima cinta muraria.La Fortezza è a pianta pentagonale irregolare esi sviluppa nel suo perimetro seguendo l’anda-mento naturale del terreno. Ad ogni verticedella cinta muraria è presente una torre poli-gonale; un’altra torre è presente a metà del latoposto a sud delle cinta ed in tutto risultanoessere in numero di sei. Si sviluppano esterna-mente al perimetro della cinta muraria for-mando degli avancorpi rispetto a quest’ultima.Il mastio, dominante tutta la struttura, è apianta eptagonale e s’innalza per circa quin-dici metri dal terreno.Invece le mura e le altre torri hanno un’altez-za variabile compresa tra i nove e dieci metricirca.

Le murature sono costituite prevalentementeda arenaria e marne, entrambe le pietre prove-nienti dall’isola stessa.L’area racchiusa all’interno delle mura, è unversante con un dislivello da nord a sud dicirca dieci metri, sistemato in quattro terrazza-menti alla base dei quali vennero costruiti deimuri di contenimento in pietra, ancora oggiben visibili.Il mastio è costruito con pietre lavorate ed èimpreziosito nella parte superiore di beccatelliin cotto. Il primo livello è coperto con unavolta in pietrame, e la presenza di tre fori cen-trali testimoniano il passaggio di corde atte pre-sumibilmente ad azionare delle campane diallerta per la popolazione.Al suo interno, fino alla volta di copertura sonostati ricostruiti solai in legno che consentonoattraverso ripide scale l’accesso all’ultimosolaio dal quale attraverso feritoie era possibi-le ispezionare l’isola ed il lago.Questo solaio era in comunicazione, attraversouna porta, al camminamento posto sulla som-mità delle mura; dall’ultimo solaio, attraversouna scala, utilizzando una feritoia posta sull’ul-tima volta, era possibile portarsi sulla sommitàdel mastio.La sensazione che la prima volta, dopo chissàquanti anni, ho provato nello scorgere sopra ilmastio la tranquillità del lago è cosa che dasola ripaga il tempo dedicato alla ricerca di datistorici, di soluzioni progettuali architettonici estrutturali, di soluzioni di arredo.Tutte le torri avevano in sommità una volta inpietra che raccordava il camminamento delledue cortine adiacenti ed a varia altezza, all’in-terno delle torri, erano presenti solai in legno

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Chiesa di San Giuliano, piccolo edificio medievale adiacente alla cinta muraria del Castello

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utili per la difesa in quanto potevano su di essiessere sistemate una notevole quantità di armie munizioni.La fortezza essendo posta in un’isola non pote-va essere assalita da artiglieria pesante in quan-to gli assalitori avrebbero dovuto avere barche,inesistenti sul lago all’epoca, capaci di traspor-tare simili equipaggiamenti quindi l’opera nonè mastodontica negli spessori delle murature.Per tale motivo non fu munita di ponte leva-toio, ma è presente la sola porta principale dimodeste dimensioni a lato della torre quadratanel lato sud parallelo al lago. Questa porta èstata successivamente murata e l’accesso alcastello era garantito da una porta esistentesulla torre posta verso l’approdo.La costruzione prima del recupero apparivastanca, timida di sé, nascosta dall’edera che,nel corso del tempo stava cercando di strango-larla, con i suoi grossi rami dai quali dipartiva-no mille tentacoli che penetravano nei giuntidella malta di calce, gonfiando e disgregandocon la pioggia la pietra arenaria.L’opportunità di farla respirare, di riconsegnar-le l’altezzosità che le consentiva di dissuadere inemici dall’attaccare, è avvenuta dopo secoli diabbandono, nel 1999.La fortezza è stata un’opera che ha impegnatoin maniera importante e per lungo tempo gliabitanti dell’isola. Nel liberarla dall’edera noitutti pensavamo a quanto materiale, pietra are-naria e calcare, calce viva, legname era servitoe quanti trasporti dalla terra ferma erano statinecessari.L’orgoglio degli isolani era pronto per il suoriscatto.All’interno la fortezza si proponeva completa-

mente spoglia con un muro che collegava ledue torri a lato del mastio a formare un trian-golo.Il muro oramai cadente faceva intravedere sulsuo retro un altro muro costituito da pietramedi epoca simile a quella delle cortine esterne.Il desiderio di vedere, di fare un passo indietrodi 500 anni, è stato irrefrenabile. Togliendo ilmuro recente di rivestimento ecco apparire intutta la sua bellezza e purtroppo incoerenza ilvecchio muro che presentava ancora leggeretracce di intonaco a testimoniare, non solo lafunzione di sostegno del terrazzamento supe-riore, ma anche quello di muro di abitazione.Via così a scavare su tutta la superficie delsecondo terrazzamento, e vedere emergere lefondazioni di quelle che dovevano essere leabitazioni dei soldati graduati che presiedeva-no la fortezza. La vita riemergeva sotto forma-di muri, di frammenti di ceramica finementedecorata dal celeste del trecento, dall’azzurrodel quattrocento, dal mattone del cinquecento. Tutti alla ricerca di testimonianze di cui i testistorici sono stati avari. Purtroppo nient’altro.Il camminamento in pietra arenaria che colle-gava le torri, posto al di sopra delle mura eraoramai completamente disgregato. Dopo averpulito dall’edera le murature, smontate erimontate, ove completamente disgregate,attraverso l’uso di malta di colore simile all’ori-ginaria, era il momento di ricostruire il cammi-namento; costruirlo, farlo rivivere, ma renderevivibile quello che era stato a noi consegnatodal tempo.Consegnare al visitatore le sensazioni dei sol-dati che facevano la ronda di avvistamento enello stesso tempo rendere un percorso sicuro.

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77Il mastio in una suggestiva foto notturna

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Piscina dell'architetto Pietro Porcinai, scavatanella roccia tra il 1950 e il 1960

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L’inserimento di un camminamento in acciaiosospeso sull’esistente, trasparente nel suo gri-gliato ha reso ciò possibile.Il Lancillotti nel primo quarto del secolo XVIIcosì descrive la posizione preminente dellaPolvese: “Delle molte cose, con cui a primamano, la natura genitrice di tutte le meraviglie,ha adornato il famoso Trasimeno, cioè il lagoperugino, e non meno di ogni altro, che scatu-risce nel suolo d’Italia, l’ha nobilitato; vi sonotre isole, che in mezzo allo specchio d’acquafermo di sì bellissima mostra.Di queste quella chiamata Polvese è resa sacradalla presenza del Cenobio di San Secondo, nelpunto dove essa è meno accessibile.Il Monastero di San Secondo era ormai predo-minante sull’isola ed era tenuto in buona con-siderazione anche nell’ordine degli olivetani,tant’è che nel 1564 il priore di questo mona-stero Don Giovanni Francesco da Perugiadiventa nel 1572 abate generale degli olivetani.Ma il consolidarsi degli olivetani nell’isola laspinge al declino demografico, tant’è che i fuo-chi erano passati nel 1565 a 45 mentre l’isolaMaggiore registra un naturale incremento conben 107 fuochi; l’isola apparteneva alla con-gregazione.Nel 1624 la chiusura del Monastero degliOlivetani determina il declino e l’abbandonodell’isola e ciò è da attribuire ad AngeloPaolucci abate di Montemorcino che, nonvolendo vivere segregato nell’abbazia di SanSecondo, dove la solitudine non era confacen-te al suo spirito libertario, cominciò a descrive-re il luogo come zona malsana, infestata dallamalaria e dove la vita era impossibile.E così il Monastero, con bolla del Papa

Gregorio XV, fu trasferito a Sant’Antonio nelrione di Porta Sole a Perugia.La vita nell’isola si rese ancora più precaria conl’invasione nel 1643 delle milizie del principeMatthias, che misero a ferro e fuoco l’isola cheera stata appena abbandonata dalla compagniaaffidata al capitano Montini Nini che appenaseppe della resa di Castiglione fece sgombera-re tutte le truppe dall’isola.Questa situazione portò gravi danni all’econo-mia dell’isola, in quanto la distruzione delletruppe fiorentine fu violenta anche contro leattrezzature e barche della pesca, unica fonte direddito e di sostentamento. La vita sulla Polvesestentava a riprendersi ed il censimento pontifi-cio del 1656 testimonia l’abbandono dell’isolache contava appena 15 famiglie.Da allora l’isola è stata trasformata a secondaresidenza privata: nel 1772 dai Conti Baldeschi,nel 1833 dal Conte Panciani di Spoleto, nel1893 dal Commendatore Ferdinando Cesaroni;nel 1901 abitava l’isola un solo elettore ammi-nistrativo. Nel 1939 l’isola passa al Commendatore BiagioBiagiotti e nel 1959 al Conte Giannino Citterio.Dopo più di tre secoli di godimento esclusivodi pochi ed in alcuni casi di abbandono, final-mente nel 1973 viene acquistata dalla Provinciadi Perugia che avvia la rinascita dell’isola attra-verso iniziative ambientali, insediative (il recu-pero della Fattoria ad Ostello della Gioventù) econ il recupero dei suoi gioielli monumentali(il Castello, la Chiesa di San Giuliano, ilMonastero di San Secondo).

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81La torre con la porta di ingresso laterale

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Veduta aerea di Isola Polvese

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