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Alma Mater Studiorum Università di Bologna Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea in Sviluppo e Cooperazione Internazionale Tesi di Laurea in Sociologia dello Sviluppo La difficoltà di ricostruzione nei contesti di conflitto: il caso della Missione Italiana Antica Babilonia in Iraq CANDIDATO: Martina Pieri RELATORE: prof. Vando Borghi SESSIONE I ANNO ACCADEMICO 2010-2011

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Alma Mater Studiorum – Università di

Bologna

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Sviluppo e Cooperazione Internazionale

Tesi di Laurea in Sociologia dello Sviluppo

La difficoltà di ricostruzione nei contesti di

conflitto: il caso della Missione Italiana Antica

Babilonia in Iraq

CANDIDATO:

Martina Pieri

RELATORE:

prof. Vando Borghi

SESSIONE I

ANNO ACCADEMICO 2010-2011

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a Marco Beci

Pergola, 5 aprile 1960 - Nassiriya, 12 novembre 2003

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INDICE

INTRODUZIONE GENERALE CAPITOLO 1

La cooperazione internazionale allo sviluppo

Introduzione

1.1 Nascita ed evoluzione dell'idea di sviluppo

1.2 La cooperazione allo sviluppo dell’ONU

1.3 Gli squilibri mondiali e gli obiettivi del Millennio

Conclusioni

CAPITOLO 2

Ricostruzione civile durante e post-conflitto

Introduzione

2.1 L’ingerenza umanitaria

2.2 Principi dell’intervento civile nella aree di conflitto

2.3 Forze speciali per la ricostruzione civile in aree di conflitto

2.4 Cambiamento istituzionale e recupero della memoria

2.5 Critiche alle operazioni di emergenza

Conclusioni

CAPITOLO 3

La cooperazione italiana in Iraq: la Missione Italiana Antica Babilonia

Introduzione

3.1 La cooperazione italiana in Iraq e la Missione Antica Babilonia

3.1.1 Interventi della DGCS a Nassiriya e nella provincia del Dhi Qar

3.2 Le critiche all'ingerenza umanitaria occidentale e alla missione italiana: Danilo

Zolo e Andrea Nicastro

Conclusione

CONCLUSIONI GENERALI

BIBLIOGRAFIA

SITOGRAFIA

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Introduzione generale

Questo lavoro vuole approfondire i progressi svolti dalla Politica di Cooperazione allo

Sviluppo (Pcs) nel panorama internazionale dal secondo dopoguerra ad oggi, ed in

particolare, le modalità e le difficoltà incontrare dalla Cooperazione Internazionale

nella riedificazione di Paesi colpiti dai conflitti, con apparati amministrativi deboli, se

non inesistenti, infrastrutture distrutte e la popolazione vittima inerme di armi, attacchi

e soprusi.

L’intero lavoro prende in esame la nascita e lo sviluppo della Politica di Cooperazione

allo Sviluppo, nata sia per scongiurare altri abomini mondiali, sia perché i Paesi Ricchi

iniziarono ad interessarsi delle condizioni di povertà materiale e culturale e del

malessere dei Paesi poveri del Sud, il cosiddetto Terzo Mondo. Così gli opulenti Paesi

del Nord del Mondo impiegarono la seconda metà del secolo ‘900 a formulare progetti

di sviluppo e far sì che il PIL dei Paesi poveri potesse decollare. La crescente

diseguaglianza tre ricchi e poveri, però, ha portato l’Occidente a formulare proposte

più concrete con gli Obietti del Millennio nel 2000, accordo sviluppato fra paesi ricchi

e poveri per migliorare le condizioni di vita in quest’ultimi.

Il lavoro prosegue, poi, nell’analizzare il lavoro delle forze della Cooperazione

Internazionale nel progettare e sviluppare la riedificazione e riappacificazione dei

Paesi in guerra. Sul tema la bibliografia è chiara e illuminante. Nella pratica la

difficoltà di coordinare le forze multinazionali, gli interessi più o meno mascherati

dell’Occidente e la capacità di comprendere la storia del Paese in questione, creano

non poche difficoltà al progetto di ricostruzione. Un famoso proverbio, sulla bocca di

tutti nei primi anni dalla nascita della Cooperazione allo Sviluppo, recitava così: “Dai

un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per

tutta la vita”. Il problema della Cooperazione sta nell’insegnare a pescare, atto che

richiede pazienza e gratuità, che per quanto venga sbandierata sembra essere poco

presente negli intenti dell’Occidente, come si rileva nella parte finale del lavoro.

Quest’ultima, analizza la Missione Italiana Antica Babilonia presente in Iraq dal 2003

al 2006, sia attraverso documenti e mandati ufficiali, sia guardando all’altra faccia

della medaglia, attraverso la ricerca del docente, e filosofo del diritto italiano e

internazionale, Danilo Zolo e lo studio sul campo del giornalista Andrea Nicastro.

Antica Babilonia si componeva di contingente militare e una squadra di civili, tra cui

funzionari del Ministero degli Affari Esteri per la Cooperazione e lo Sviluppo. Le due

squadre, militare e civili, ebbero il compito di collaborare per salvaguardare la

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popolazione della provincia irachena assegnata all’Italia, il Dhi Qar, e ricostruire

scuole, ospedali, sistema idrico e risollevare l’agricoltura, prima fonte di

sostentamento per quelle terre.

La realtà della Missione Italiana e dell’ingerenza umanitaria provocata da Stati Uniti

in primis e Italia e altri paesi poi, vengono però illuminati da una luce molto diversa da

Zolo e Nicastro, che ne evidenziano gli elementi sottaciuti, le ombre, gli interessi reali

ed economici italiani, ne denunciano i delitti efferati e le testimonianza impedite,

nonché l’uso sconsiderato di armi pericolose e innovative da parte degli Usa, di cui, si

ricordi, l’Italia scese al fianco contro la guerra al terrorismo, nell’intento di

riedificazione sostenuto dalle voci ufficiali Usa.

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Capitolo primo

La cooperazione internazionale allo sviluppo

“Benchè incomparabilmente più ricco di quanto sia mai stato prima,

il nostro mondo è un mondo di tremende privazioni e disuguaglianze sconvolgenti”

Amartya Sen

Introduzione

La Politica di Cooperazione allo Sviluppo (Pcs) è l’insieme di politiche attuate da

un governo, o da un’istituzione multilaterale, che mirano a creare le condizioni

necessarie per lo sviluppo economico, sociale, sostenibile e duraturo per un paese,

nonché a far uscire la popolazione delle condizioni di povertà. L’elemento

fondamentale di questa politica è l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (Aps), ovvero un

trasferimento di risorse verso i paesi bisognosi, o meglio, ‘risorse finanziarie

pubbliche, sotto forma di doni o prestiti a tasso agevolato, erogate con la finalità di

supportare lo sviluppo economico del recettore’. (Definizione DAC, Development

Assistance Committee). L’origine della Pcs viene generalmente fatta coincidere con i

piani di ricostruzione post bellica e la creazione del sistema delle Nazioni Unite.

Infatti, molte delle istituzioni e degli strumenti che troviamo oggi nel panorama della

cooperazione internazionale, risalgono agli anni immediatamente successivi alla

seconda guerra mondiale, in particolare la Banca Mondiale, il Fondo Monetario

Internazionale e l’Organizzazione per la cooperazione economica e europea, poi

divenuta Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE).

In questo capitolo vengono riportati, in sintesi, la nascita ed il percorso dell'idea di

sviluppo e di cooperazione allo sviluppo, nonché gli eventi che ne hanno plasmato

successivamente il significato. L'analisi si svolge nell'arco di tempo che va dal

secondo dopoguerra agli anni '90; nel secondo paragrafo l'attenzione viene focalizzata

sull'organizzazione delle Nazioni Unite, che più di ogni altro organismo si occupa di

cooperazione allo sviluppo nella aree più povere del pianeta.

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Infine il capitolo si conclude con una panoramica dei grandi squilibri mondiali che, nel

settembre del 2000, hanno portato 191 Capi di Stato e di Governo ha sottoscrivere un

patto globale di impegno congiunto tra paesi ricchi e paesi poveri, definito

Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite e che vede 8 obiettivi cruciali per la

riduzione della povertà, da raggiungere entro il termine del 2015.

1.2 Nascita ed evoluzione dell'idea di sviluppo

Il concetto di sviluppo nasce in Occidente, in seguito ai processi di decolonizzazione

che hanno visto le potenze Europee abbandonare, almeno fisicamente, i paesi del Sud

del mondo. Nel corso del tempo la concezione di “sviluppo” si è arricchita ed ha

assunto diverse sfumature.

Il termine, come lo conosciamo noi oggi, deriva dal noto discorso che Harry S.

Truman tenne alla vigilia della sua presidenza il 20 gennaio 1949. Egli parlava di uno

sviluppo che classificava i paesi sulla base del loro reddito e allo stesso tempo

divideva il mondo in aree sviluppate e sottosviluppate1: “Dobbiamo […] rendere i

benefici dei nostri avanzamenti scientifici e del progresso industriale disponibili per il

miglioramento e lo sviluppo delle zone sottosviluppate”. Truman suggellava così il

dovere morale dei Paesi sviluppati, Stati Uniti in testa, di aiutare il decollo economico

dei cosiddetti Paesi sottosviluppati. La realizzazione del Piano Marshall, avviato dagli

Stati Uniti nel 1947 per risollevare l'economia europea, ottenne un grande successo e

fu il primo intervento di cooperazione a carattere bilaterale, ovvero un tipo di

cooperazione concordata tra il paese donatore e il Pvs (Paese in Via di Sviluppo), in

questo caso l'Europa dilaniata dalla guerra. Il presidente Truman aveva in mente

qualcosa di analogo per il resto del mondo, con l'obiettivo implicito di consolidare

l'influenza statunitense in luoghi che, altrimenti, potevano essere infetti dal

comunismo (Black 2004, 18). Con il procedere della decolonizzazione e l’avvento dei

paesi africani nel contesto internazionale, apparve sempre più chiara la divisione del

mondo tra paesi ricchi e paesi poveri, tanto che questi ultimi, nel tentativo di

mantenere la propria indipendenza crearono, con la conferenza di Bandung (Indonesia)

1 L'espressione “paesi sottosviluppati”, venne usata per la prima volta proprio in occasione del discorso di

Truman nel 1949. Venne poi sostituita dalle Nazioni Unite con quella di “Paesi in via di sviluppo”;

durante la guerra fredda il termine per la definizione di tali aree, divenne “Terzo Mondo”, per indicare

la non appartenenza dei Pvs né al blocco occidentale (Primo Mondo) né tanto meno al blocco orientale

(Secondo Mondo).

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del 1955, il movimento dei paesi “non allineati”. Ecco nascere il cosiddetto Terzo

Mondo: un tentativo da parte di questi paesi di affermare la propria identità, in

contrapposizione sia al blocco occidentale, sia al blocco orientale.

Così nacque l'impulso alla cooperazione allo sviluppo. L’Occidente si accorse delle

grandi difficoltà che affliggevano la maggior parte dei paesi, così sentimento

umanitario e fervore ideologico diedero l’avvio, in quegli anni, all’aiuto allo sviluppo;

in realtà nella maggior parte dei casi si nascondevano interessi ben più importanti e

strategici per l’Occidente. La nascita dell'ONU nel 1945, contribuì a conferire un

carattere internazionale alla missione di sviluppo e la crociata ebbe inizio tra gli anni

'50 e gli anni '60, quando si inaugurò il Decennio dello sviluppo ONU, che richiamava

i paesi industrializzati a fare di più per aumentare le risorse verso l’Aiuto Pubblico allo

Sviluppo.

La teoria di sviluppo prevalente in quell'epoca era quella cosiddetta della

modernizzazione, una teoria che sosteneva come lo sviluppo potesse essere realizzato

ripercorrendo gli stessi processi che erano stati praticati dai paesi attualmente

sviluppati. Lo studioso Walter Rostow evidenziò gli stadi che ogni paese avrebbe

dovuto attraversare, dando vita alla famosa teoria degli stadi lineari di sviluppo.

Secondo il modello di Rostow da una società agricola, si sarebbe passati ad una

società in cui le istituzioni, un sistema di commercio, la moneta e le leggi avrebbero

favorito il decollo economico, ed in seguito con l'aumento di investimenti e di

risparmi, si sarebbe avviato il processo di industrializzazione, nel quale alcuni settori

avrebbero assunto un ruolo trainante per lo sviluppo. La concezione meccanicistica

della teoria, prevedeva che l'aumento degli investimenti alimentasse la crescita del

reddito e che questa avrebbe avuto ricadute positive sulla popolazione; la stessa

concezione non prevedeva, inoltre, un possibile differente sviluppo per paesi molto

diversi dall'Occidente. La teoria della modernizzazione assegnava un ruolo chiave

all'istruzione e alla formazione, che avrebbero generato individui moderni, nonché alla

tecnologia, che applicata all'industria avrebbe stimolato lo sviluppo (Montini 2008, 1).

In contrapposizione al paradigma della modernizzazione, nasceva la teoria delle

dipendenza: una teoria sviluppata in America Latina e sostenuta da diversi studiosi, tra

cui Raul Prebish. Essa sosteneva che i paesi si potessero dividere in due macro-

categorie di sviluppo: il centro e la periferia. Mentre il centro coincideva con i Paesi

sviluppati, la periferia con quelli in via di sviluppo. Il rapporto che intercorreva fra

centro e periferia era una rapporto di sfruttamento di quest’ultima che ha permesso che

permise al centro di svilupparsi.

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Negli anni '70 il concetto di sviluppo cambiò rotta e vide l'affermarsi di un nuovo

paradigma: l'approccio dei bisogni essenziali (basic human needs). Infatti, la

dimensione umana era stata trascurata negli anni precedenti, perché si pensava che

sarebbe automaticamente migliorata con la crescita del reddito nazionale, il cosiddetto

effetto di trascinamento o trickle down effect (Bonaglia e De Luca 2006, 17). Si

costituì, in quegli anni, una commissione presieduta da Lester Pearson, ex primo

ministro canadese, con lo scopo di effettuare un'indagine sull'impatto degli aiuti allo

sviluppo erogati fino a quel momento. Tale riflessione fu indotta dallo studio di casi,

come il Brasile, dove la crescita del reddito nazionale non si era affatto tradotta in

riduzione della povertà, a causa di una crescente ineguaglianza. Per un verso, il

Decennio riscosse un grande successo: quasi tutti i paesi riuscirono ad incrementare il

proprio PIL pro capite del 5% (tasso annuo di crescita previsto dalla strategia del

Decennio), in alcuni casi fu addirittura superato; tuttavia, oltre la metà della

popolazione dei Pvs rimase completamente emarginata, con un netto accentuarsi di

malnutrizione e povertà di massa. Nel rapporto finale della commissione nel 1969,

Pearson osservò che “il clima dei programmi di aiuti all'estero è carico di disillusione e

sfiducia” (Pearsons 1969, cit. in Black 2004, 23). L’interrogarsi sui risultati conseguiti,

portò la Banca Mondiale, guidata da Robert Mc Namara e grazie all’aiuto

dell’economista Hollis Chenery, alla creazione di un nuovo paradigma di sviluppo, che

si rivolgeva ai bisogni essenziali e incentrato sulla redistribuzione del reddito per la

crescita. Gli aiuti, secondo il nuovo paradigma, dovevano focalizzarsi sull’accesso

all’acqua, sulla vaccinazioni, sulla costruzione di scuole e sull’efficienza

dell’amministrazione pubblica. Non a caso gli anni ’70 videro il generarsi di

un’industria di istituzioni governative e intergovernative e le Nazioni Unite

proclamarono il Secondo Decennio per lo Sviluppo ONU (1970-1980) che si

incentrava proprio sulla teoria dei basic human needs. Quegli anni videro, però, un

sostanziale deterioramento delle condizioni economiche di molti Pvs, soprattutto a

causa degli shock petroliferi, il primo del 1973-74 e il secondo nel 1979-80. Questi

inizialmente favorirono le nazioni produttrici, appartenenti all’Organizzazione dei

paesi esportatori di petrolio (OPEC)2, in seguito, però, ci si rese presto conto che

2 Fondata durante una conferenza a Baghdad nel 1960, l'OPEC (Organization for the Petroleum Exporting

Countries) consisteva in origine di soli 5 paesi (Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela).

Attualmente i paesi appartenenti all'organizzazione sono 12, si sono aggiunti: Algeria, Angola, Libia,

Nigeria, Quatar, Emirati Arabi Uniti ed Ecudor. I membri dell'OPEC, costituiscono un cartello il cui

scopo è di concordare quantità e prezzo di petrolio che queste nazioni esportano, l'obiettivo è coordinare

e unificare le politiche sul petrolio, per assicurare chiarezza e stabilità di prezzi per i produttori

petroliferi.

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l’alleanza stretta dai Pvs intorno ad una data merce, non fu mai raggiunta per gli altri

prodotti, i cui prezzi calarono drasticamente, contribuendo allo squilibrio della bilancia

dei pagamenti e spianando la strada all’epoca del debito degli anni ’80.

Questi anni sono, infatti, caratterizzati dallo scoppio del debito: nell’agosto del 1982 il

Messico dichiarò di non poter far fronte al pagamento degli interessi sul debito

contratto. Si generò così la prima scintilla della grande crisi del debito dei Pvs,

risultato di un divario di sviluppo sempre più ampio tra Nord e Sud del mondo. Non a

caso il decennio del 1980-90 viene definito come il decennio dello sviluppo perduto, in

cui il trasferimento di risorse dai paesi ricchi a quelli poveri invertì il proprio senso di

marcia, ovvero il pagamento dei debiti dei Pvs superò il flusso degli aiuti da parte dei

paesi donatori. Così i Pvs, furono costretti ad avviare una serie di “Programmi di

aggiustamento strutturale” come presupposto alla concessione di prestiti da parte del

FMI (Fondo Monetario Internazionale)3. La varie riforme imposte ai Pvs furono

riassunte dall’economista John Williamson con la formula “Consenso di Washington”,

per indicare il ruolo fondamentale della Banca Mondiale (BM) e del FMI. Le stesse

riforme, inoltre, suscitarono grande indignazione, tanto al Nord quanto al Sud, a causa

delle misure di austerità, tanto che, alla fine degli anni ’80, l’aggiustamento strutturale

divenne il bersaglio di una protesta globale contro il modello neoliberista e il

presidente della Tanzania, Nyerere, chiese: “Dobbiamo far morire di fame i nostri

bambini per pagare i debiti?” (Black 2004, 28). La strategia per questo decennio fissò

l’obiettivo dello 0,7% di Aiuto Pubblico allo Sviluppo sul prodotto nazionale lordo dei

paesi DAC (Development Assistance Committee)4, entro il 1985. In realtà questo

obiettivo non è mai stato raggiunto, se non dai paesi scandinavi e dall’Olanda.

Durante gli anni della guerra fredda inoltre, la cooperazione allo sviluppo degli stati

occidentali si incentrò sull’obiettivo di far rientrare quanti più paesi possibili nella

sfera di influenza statunitense e in un modello di sviluppo capitalista, contrapposto al

modello di sviluppo socialista dell’ex URSS. Tutto ciò ha ancora di più distorto gli

Aiuti Pubblici allo Sviluppo, creando una contrapposizione per nulla utile agli obiettivi

3 Le principali condizioni (conditionalities) a cui sono erogati prestiti dal FMI riguardano il paese beneficiario

che deve intervenire sui conti pubblici per stabilizzare il deficit, politiche monetarie restrittive per stabilizzare

l'inflazione, riforme strutturali per modernizzare il paese, liberalizzare i mercati finanziari e privatizzare per

aumentare l'efficienza. La ricetta politica-economica del FMI è stata criticata da Joseph Stiglitz che sostiene

che l'FMI non ha avuto una visione strategica di sviluppo e è stata portatrice di interessi propri della comunità

finanziaria.

4 Il DAC (Development Assistance Committee) è il Comitato di aiuto alla sviluppo dell'OCSE, l'Organizzazione

per la cooperazione e lo sviluppo economico di cui fanno parte i 24 paesi più avanzati (membri dell'UE, più

Australia, Canada, Giappone, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Svizzera a Turchia). Annualmente, il DAC

misura le erogazioni di Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS o ODA, Official Development Assistance) da parte

dei paesi membri, sia in valori assoluti che in percentuale del loro prodotto interno lordo (PIL).

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che la cooperazione allo sviluppo si era prefissa.

Allo stesso tempo, in quegli anni acquisì un forte rilievo la società civile: le varie

attività delle Organizzazioni Non Governative (ONG) furono prese molto più sul serio

e benché operavano su scala ridotta, fornivano servizi in modo molto più efficace e

raggiungevano i settori più poveri della società (Black 2004, 28-29).

Gli anni ’90 furono densi di avvenimenti politici ed economici che influenzarono la

politica di cooperazione allo sviluppo. La caduta del Muro di Berlino e il termine della

guerra fredda crearono in parte un clima più rilassato sul fronte per la gestione degli

aiuti orientati ad ostacolare il comunismo, ma dall’altra si assistette ad una difficile

transizione dalle economie pianificate e al crescente ritardo di sviluppo di America

Latine e Africa. La crisi del debito, la trasformazione delle economie socialiste e

l’esperienza dei piani di aggiustamento strutturale portarono di nuovo la comunità

internazionale ad interrogarsi sulla qualità delle istituzioni e sulla governance agli

aiuti. Si avviò, inoltre all’inizio degli anni ’90, una riflessione sui rischi e le

opportunità che la globalizzazione dell’economia, ovvero l’interconnessione dei

mercati e lo sviluppo della società dell’informazione, avrebbe potuto creare per i paesi

più poveri; l’accelerazione del fenomeno, insieme alla conclusione di negoziati

multilaterali e l’affermarsi delle imprese multinazionali, portarono, da un lato, ad una

maggior mobilità di beni, servizi e capitali che crearono enormi opportunità per i Pvs,

ma dall’altra questi paesi potevano realizzare queste opportunità solo se dotati di

capacità, risorse e istituzioni adeguate. La globalizzazione pone i donatori dei Paesi

sviluppati nella necessità di ripensare la politica di cooperazione allo sviluppo,

tenendo presenti politiche commerciali e migratorie.

Nel 1990, gli insuccessi dell’aggiustamento strutturale, portarono ad elaborare una

nuova teoria e proprio in quell’anno, l’UNDP (United Nation Development

Programme) con il Primo rapporto sullo sviluppo umano introdusse l’innovativo

Indice dello Sviluppo Umano (ISU). “Sotto la guida lungimirante di Mahbub ul Haq,

quel primo Rapporto influenzò profondamente il modo in cui i politici, i funzionari

pubblici e i mezzi di comunicazione, oltre che gli economisti e gli studiosi di altre

discipline sociali, concepivano l’evoluzione della società. Invece di concentrarsi

esclusivamente su pochi indicatori tradizionali del progresso economico, come il

prodotto nazionale lordo (PNL) pro capite, la misurazione dello “sviluppo umano”

proponeva l’analisi sistematica di un patrimonio di informazioni circa lo stile di vita e

le libertà fondamentali di cui godono gli esseri umani nelle diverse società” (Rapporto

UNDP 2010, Introduzione di Amartya Sen). Attraverso l’ISU si tentò di tener conto

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del Pil pro-capite, dell’alfabetizzazione e della speranza di vita. La nuova concezione

di sviluppo consisteva “nell’accrescere la libertà delle persone di condurre una vita,

lunga, sana e creativa […] e di partecipare attivamente alla promozione di uno

sviluppo equo e sostenibile in un mondo condiviso” (Rapporto UNDP, 1990).

Alle Nazioni Unite si avviò un nuovo dibattito sulle prospettive economiche e sociali

dell’intero pianeta con numerosi eventi internazionali: dalla Conferenza di Pechino

sulle condizioni delle donne, a quella di Copenaghen sullo sviluppo sociale, svoltesi

nel 1995, fino alla Dichiarazione del Millennio nel 2000, di cui si parlerà in uno dei

prossimi paragrafi, approvata dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

1.3 La cooperazione allo sviluppo dell’ONU

L’Organizzazione della Nazioni Unite (ONU) è un organizzazione internazionale che

nacque nel 1945, in seguito alla seconda guerra mondiale. Inizialmente composta da

51 paesi, intenzionati a mantenere la pace e la sicurezza internazionale, l’intento era

sviluppare relazioni amichevoli tra loro, promuovere il progresso sociale per

raggiungere miglior standard di vita e rispettare i diritti umani. Nel corso degli anni,

quasi tutti gli stati del mondo ne sono diventati membri. Oggi l’ONU conta 192 stati.

L’ONU nasce con il chiaro tentativo di sviluppare il cosiddetto canale di aiuti

multilaterale, ovvero quando le iniziative vengono realizzate da un’organizzazione

internazionale grazie all’apporto finanziario dei vari governi donatori, in

contrapposizione al canale di aiuti bilateri, quando cioè le iniziative vengono

concordate tra paese donatore e il Pvs.

Con la conferenza di Bretton Woods del 1944, nacquero importanti agenzie e fondi che

avrebbero in seguito guidato la cooperazione e affiancato le Nazioni Unite: vennero

infatti costituiti il Fondo Monetario Internazionale per vigilare sul sistema finanziario

internazionale, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (poi

chiamata solo Banca Mondiale) per finanziare l’Aiuto allo sviluppo, ridurre la povertà

e il debito estero. In seguito, nel 1948 furono istituiti il GATT (General Agreement on

Trade and Tariffs, poi WTO dal 1955) e l’OECE (Organizzazione Europea di

Cooperazione Economica, poi OCSE dal 1960), il primo per gestire la politica di

tariffe e dazi, mentre il secondo per controllare la distribuzione degli aiuti del Piano

Marshall. Come è già stato detto nel paragrafo precedente, durante la guerra fredda la

cooperazione fu completamente distorta dall’azione dei due blocchi USA e URSS, che

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tentarono di attirare nelle loro sfere d’influenza il maggior numero di nazioni, il tutto a

discapito dei Pvs, strangolati dal debito e senza risorse adeguate.

La fine della guerra fredda fu un momento importante per le iniziative delle Nazioni

Unite e la discussione sui temi della cooperazione allo sviluppo. Povertà e malessere

erano ancora preponderanti nei paesi poveri ed erano soprattutto causa di forme cattive

e distorte di sviluppo. L’ONU di fronte a ciò, rispose con una serie di vertici che si

sono susseguiti per tutti gli anni ’90, che influenzarono la cooperazione e diedero

slancio al multilateralismo ed alla nuova concezione di sviluppo.

Il lavoro delle Nazioni Unite oggi raggiunge molte parti del mondo. Esse operano con

operazioni di peacekeeping, peacebuilding, azioni di disarmo, soluzione pacifica di

conflitti e assistenza umanitaria; inoltre, grazie al lavoro delle Agenzie specializzate, il

campo di azione dell’ONU si allarga allo sviluppo sostenibile, alla protezione

dell’ambiente, alla protezione dei rifugiati, contro il terrorismo, all’uguaglianza di

genere, alla promozione della democrazia, nonché ad incrementare la produzione di

cibo, allo sviluppo sociale e alla promozione della salute. Gli stati membri quando

entrano a far parte dell’ONU accettano i doveri derivanti della Carta delle Nazioni

Unite, il trattato internazionale che sta alla base dell’intera Organizzazione. L’ONU

non è una sorta di “governo mondiale”, non opera come tale e non emana leggi. Si

prefigge lo scopo di risolvere i conflitti internazionali e creare un clima pacifico

attraverso una struttura ben organizzata e vari organi. Ogni stato membro, dal più

piccolo al più grande e dal più povero al più ricco, trova voce all’interno

dell’Assemblea Generale: tutti gli stati membri sono rappresentati nell’Assemblea e

ciascuno stato dispone di un voto per prendere decisioni. L’Assemblea non dispone di

poteri vincolanti e non può forzare azioni da parte degli Stati membri, ma le sue

raccomandazioni sono indicazioni importanti per l’opinione mondiale, rappresentando

così una sorta di autorità morale. Accanto all’Assemblea Generale opera il Consiglio

di Sicurezza, formato da 15 membri, a cui la Carta delle Nazioni Unite attribuisce la

responsabilità di mantenere la pace internazionale e la possibilità di riunirsi ogni

qualvolta la stessa viene minacciata. Tra i vari organi si trova l’ECOSOC, il Consiglio

economico e Sociale, il centro focale dell’economia internazionale e delle questioni

sociali per la promozione di più alti standard di vita, piena occupazione e progresso

economico-sociale; esso cerca soluzioni per problemi economici sociali e sanitari e

vuole facilitare e incoraggiare la cooperazione culturale e il rispetto dei diritti umani.

Ha inoltre un ruolo chiave nel coordinamento di 14 Agenzie specializzate delle

Nazioni Unite, commissioni funzionali e 5 commissioni regionali.

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Nel 1991 viene creata, dall’Assemblea Generale, l’OCHA (Office for the Coordination

of Humanitarian Affairs), per dare un più rapido ed efficace intervento durante le crisi

umanitarie o le catastrofi e coordinare le agenzie ONU, tra cui UNICEF, UNDP,

UNHRC, WFP, UNESCO e UNV.5

L’agenzia che si occupa delle sviluppo è proprio l’UNDP, la più importante fonte

multilaterale di sussidi. Essa coordina la maggior parte dell'assistenza tecnica che il

sistema delle Nazioni Unite fornisce; ha il compito di approvare programmi nazionali

di sviluppo presentati da singoli stati, di stanziare i relativi fondi e di sovrintendere

all'esecuzione dei progetti che compongono i programmi, collabora con

Organizzazioni Non Governative e persegue lo sviluppo economico e sociale per

soddisfare le necessità dei settori più poveri della popolazione.

Tra le più importanti agenzie specializzate si ricorda, inoltre, il WHO (World Healt

Organization) che è responsabile del miglioramento delle condizioni di salute e del

raggiungimento da parte di tutte le popolazioni del livello più alto possibile di salute;

la FAO (Food and Agricolture Organization), agenzia che si propone di migliorare la

produttività agricola, accrescere i livelli di nutrizione e migliorare la condizione delle

popolazioni rurali; infine l’ILO (International Labour Organization), impegnato a

formulare standard minimi di condizioni di lavoro e nel rispetto dei diritti

fondamentali del lavoratore.

Dal settembre 2000, mese in cui si è svolto il summit della Dichiarazione del

Millennio (Millennium Development Goals) gli sforzi delle Nazioni Unite e delle

Agenzie si concentrano sugli obiettivi che la comunità internazionale si è ripromessa

di raggiungere entro il 2015.

1.3 Gli squilibri mondiali e gli obiettivi del Millennio

Per alcuni versi oggi il mondo è un posto di gran lunga migliore rispetto al 1990. Negli

ultimi venti anni molte persone in tutto il mondo hanno conosciuto progressi notevoli

in settori fondamentali della vita. Nel complesso queste persone sono oggi più sane e

istruite di quanto non siano mai state e ne è una prova l’aumento della misura sintetica

5 L’UNICEF (United Nations Children’s Fund) è la principale organizzazione mondiale per la tutela dei diritti e delle

condizioni di vita dell’infanzia e dell’adolescenza; l’UNDP (United Nations Development Programme) coordina gli

aiuti e sostiene lo sviluppo di lungo periodo; l’UNCHR (United Nations High Commissioner for Refuges) si occupa

dell’assistenza ai rifugiati; l’WFP (World Food Programme) agenzia che si occupa delle emergenze alimentari;

l’UNESCO (United Nations Educational, Cultural and Scientific Organization) che incoraggia e tutela la diversità

culturale e una elevata qualità dell’educazione; l’UNV (United Nations Volunteers) serve da partner operativo nella

attività di cooperazione allo sviluppo su richiesta degli stati membri delle Nazioni Unite.

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dello sviluppo, l’ISU (Indice di Sviluppo Umano), che aggrega informazioni relative

all’aspettativa di vita, alla scolarizzazione e al reddito in un unico semplice indicatore

composito. (Rapporto UNDP 2010). L’ISU medio mondiale è cresciuto del 18% dal

1990, ma non in modo omogeneo: un quarto dei Pvs, ha visto il proprio ISU

aumentare in misura inferiore del 20%, mentre in un altro quarto di paesi l’ISU è

cresciuto più del 65%6. Paesi meno sviluppati realizzano in media progressi più rapidi

nel campo della salute e dell’istruzione rispetto a quelli più sviluppati. Spesso però,

paesi che partivano da situazioni simili hanno avuto un’evoluzione nettamente diversa,

questo indica la rilevanza di fattori specifici dei singoli paesi, come il quadro politico e

istituzionale. Nonostante i miglioramenti, oggi si assiste a un rallentamento. In diversi

paesi dell’Africa sub-sahariana e dell’ex Unione Sovietica, l’aspettativa di vita è scesa

al di sotto dei livelli del 1970. La causa principale di questo declino è la diffusione

dell’AIDS.

Nel complesso l’inserimento forzato delle società tradizionali e dei Pvs nell’economia

mondiale, travolta da una sempre più elevata globalizzazione e interconnessione, ha

determinato l’effetto della povertà globale. Una povertà creata dal progresso e che ha

attanagliato i paesi che non avevano risorse adeguate ad affrontarlo, creando un

mondo polarizzato, come dimostra la cartina qui sotto, in cui i paesi sono ‘ingranditi’

in base al loro reddito nazionale.

Rappresentazione dei Paesi sulla base del Reddito Nazionale Lordo

Fonte: www.worldmapper.com

Per affrontare tali squilibri mondiali, come già anticipato, nel settembre del 2000, 191

leaders mondiali si sono riuniti in occasione del Vertice del Millennio convocato dalle

6 Dati Rapporto UNDP 2010

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19

Nazioni Unite. Innanzitutto essi lo hanno fatto “per riaffermare la nostra fede

nell’Organizzazione e nel suo Statuto quali indispensabili fondamenta di un mondo

più pacifico, prospero e giusto” (Dichiarazione del Millennio 2000, 8) e con una serie

di storici accordi si sono impegnati, a liberare ogni essere umano dalla “condizione

abietta e disumana della povertà estrema” ed a “rendere il diritto allo sviluppo una

realtà per ogni individuo”. Questa ampia gamma di impegni è nota come gli Obiettivi

di Sviluppo del Millennio e costituisce un patto a livello mondiale fra paesi ricchi e

paesi poveri. Sono otto obiettivi, ciascuno articolato in vari punti, da raggiungere entro

il 2015. Solo nel 2000 sono stati identificati e specificati gli otto obiettivi, ma in realtà

è un percorso a più tappe che le Nazioni Unite hanno portato avanti dall’inizio degli

anni ’90 (infatti molti obiettivi fanno riferimento all’arco di tempo che va dal 1990 al

2015).

Il primo obiettivo è quello di sradicare la povertà estrema e la fame. I punti un cui si

articola sono: dimezzare entro il 2015 la percentuale di persone il cui reddito è

inferiore a 1 $ al giorno, raggiungere un’occupazione piena e produttiva e un lavoro

dignitoso per tutti, inclusi donne e giovani e dimezzare entro il 2015 la percentuale di

persone che soffrono la fame. Si è registrato un miglioramento nella riduzione della

povertà, prevalentemente in Asia. Nel 1990 oltre 1,2 miliardi di persone - il 28% della

popolazione dei Paesi in via di sviluppo - viveva in condizioni di povertà estrema. Nel

2002 la percentuale è scesa al 19%, ma nonostante ciò nello stesso anno si stimano

ancora 815 milioni di persone che avevano troppo poco da mangiare per soddisfare le

esigenze minime.

Il secondo obiettivo tende a rendere universale l’educazione primaria. In particolare

assicurare che ovunque entro il 2015 i bambini, sia maschi che femmine, possano

portare a termine un ciclo completo di istruzione primaria. Molte regioni in via di

sviluppo hanno fatto progressi verso una scolarizzazione primaria universale, ma 115

milioni di bambini sono ancora esclusi dalla scuola. Più della metà di essi – 65

milioni – sono bambine.

Il terzo obiettivo vuole promuovere l’eguaglianza di genere e l’empowerment delle

donne, in particolare eliminare la disparità di genere nel campo dell’educazione

primaria e secondaria, preferibilmente entro il 2005, e a tutti i livelli educativi entro il

2015. La parità tra maschi e femmine nello sviluppo della scuola primaria dal 2005 è

stata pressoché raggiunta nella maggior parte delle regioni. Fanno eccezione l’Africa

sub-sahariana e l’Asia meridionale e occidentale che devono mettersi in pari con

indirizzi corretti e programmi. Per quanto riguarda l’accesso a occupazioni retribuite,

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20

nella maggior parte dei Pvs è ancora inferiore per le donne rispetto agli uomini.

Il quarto obiettivo si occupa di ridurre la mortalità infantile, più precisamente ridurre

di due terzi, fra il 1990 e il 2015, il tasso di mortalità infantile sotto i 5 anni. Nel 1960

un bambino su cinque moriva prima dei cinque anni. Dal 1990 la quota è scesa a uno

su dieci. Tale progresso aveva fatto nascere la speranza che la mortalità infantile

sarebbe potuta essere ridotta di due terzi entro il 2015, ma dal 1990 i miglioramenti

sono rallentati. In Africa sub-sahariana i progressi sono stati assai deludenti, in

particolare in quei paesi in cui i conflitti hanno causato un aumento sensibile della

mortalità infantile. Molte delle morti infantili sono a causa di malattie che si

potrebbero tranquillamente eliminare con dei vaccini, la causa principale è il morbillo.

Se la tendenza attuale continua la mortalità dei bambini sotto i 5 anni diminuirà del

15% in tutto il mondo entro il 2015. Un risultato molto lontano dall’obiettivo dei due

terzi del Millennio.

Il quinto obiettivo mira a migliorare la salute materna e i punti in cui si articola sono

due: ridurre di tre quarti, fra il 1990 e il 2015, il tasso di mortalità materna e

raggiungere, entro il 2015, l’accesso universale ai sistemi di salute riproduttiva.

Recenti stime indicano alti tassi di mortalità materna nell’Africa sub-sahariana e nel

sud dell’Asia. Delle 590.000 morti stimate in tutto il mondo nel 2000, 445.000 si sono

verificate in quelle due regioni. Le donne muoiono durante la gravidanza e il parto,

perché i sistemi sanitari sono inadeguati, soprattutto nelle zone rurali, dove la presenza

di personale medico competente è molto minore che nelle aree urbane. Nonostante dati

del 2003 indicano che sono stati fatti progressi, in Africa sub-sahariana la mortalità

resta alta, in particolare a causa della carente distribuzione di acqua e delle

apparecchiature igieniche.

Il sesto obiettivo sostiene la lotta all’AIDS, la malaria e le altre malattie, nello

specifico: arrestare entro il 2015 la diffusione dell’AIDS; raggiungere entro il 2010

l’accesso universale alle cure contro l’AIDS per tutti coloro che ne hanno bisogno;

arrestare entro il 2015 l’incidenza della malaria e delle altre principali malattie.

L’AIDS è la principale causa di morte nell’Africa sub-sahariana. Alla fine del 2004, la

stima era che vivessero con l’AIDS 39 milioni e 400 mila individui, il numero più

elevato mai registrato. Si prevede che le perdite di forza lavoro dovute all’AIDS

raggiungeranno i 74 milioni nel 2015, se non si provvederà a rendere la cura

largamente accessibile. La malaria ogni anno uccide 1 milione di persone. Anche la

tubercolosi è fra le malattie più diffuse nelle aree inflitte dalla povertà e crea un gran

numero di decessi.

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21

Il penultimo obiettivo riguarda la sostenibilità ambientale, in particolare: integrare i

principi dello sviluppo sostenibile nelle politiche nazionali; ridurre la perdita di

biodiversità; dimezzare entro il 2015 le persone che non hanno accesso all’acqua

potabile e all’igiene di base; entro il 2020 raggiungere un significativo miglioramento

delle condizioni di vita di almeno 100 milioni di abitanti di baraccopoli. Tra il 1990 e

il 2000 le foreste si sono ridotte di 940.000 chilometri quadrati, un’area grande quanto

il Venezuela, ma arrivano segnali positivi dalla gestione sostenibile delle foreste e

dell’attività agricola forestale. Il 13% della superficie terrestre sono aree protette, ma

non sempre la loro gestione rispetta gli obiettivi di conservazione, inoltre l’area marina

è nettamente sottorappresentata con soltanto l’1% di ecosistemi protetti. Le emissioni

di anidride carbonica, principale responsabile dell’effetto serra, sono diminuite nel

corso degli anni ’90 sia grazia alla ratifica del protocollo di Kyoto, sia grazie

all’economie in transizione e al declino della produzione industriale. L’accesso

all’acqua potabile è uno dei più grandi problemi di paesi poveri, e oggi si stima che

più di un miliardo di persone ancora non ne possono beneficiare.

Infine l’ultimo obiettivo tende a sviluppare una partnership globale per lo sviluppo. In

particolare: rivolgersi ai bisogni specifici dei paesi meno avanzati; sviluppare un

sistema commerciale e finanziario più aperto e non discriminatorio; trattare

globalmente i problemi legati al debito dei Pvs; cooperare con le aziende

farmaceutiche per rendere possibile l’accesso dei farmaci ai paesi poveri con costi

sostenibili; rendere disponibili i benefici delle nuove tecnologie nei Pvs, soprattutto

per informazioni e comunicazioni. La comunità internazionale ha rafforzato il suo

impegno nei Pvs, ma nel 2003 il contributo Aps era ancora sotto lo 0,33% raggiunto

nel 1990, ed è molto lontano da quello che è necessario per raggiungere l’Obiettivo del

Millennio. Nel 2005 i paesi più sviluppati si sono accordati per cancellare il debito di

40 miliardi di dollari che 18 paesi avevano con la Banca Mondiale, il Fondo

Monetario Internazionale e la Banca di Sviluppo Africana. Una partnership efficace fra

paesi ricchi e poveri deve in primis affrontare il problema dell’accesso nei Pvs alla

tecnologia, ai farmaci e all’occupazione.

Nel Rapporto Ufficiale del summit delle Nazioni Unite del 2005, Kofi Annan, allora

Segretario Generale del’ONU, dichiarava: “Non saremo soddisfatti dello sviluppo

senza sicurezza, non saremo soddisfatti della sicurezza senza sviluppo, non saremo

soddisfatti né dell'uno né dell'altra senza rispetto per i diritti umani. Se tutti questi

obiettivi non marceranno insieme, nessuno vincerà". Fin dalla loro adozione gli

obiettivi del Millennio hanno compiuto sforzi senza precedenti per rispondere ai

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bisogni dei Pvs e dei più poveri, sono inoltre “obiettivi uomo-centrici, bloccati nel

tempo e misurabili” dichiarava ancora Annan. Sono obiettivi che si basano su una

partner-ship mondiale, che sollecita sia le responsabilità dei paesi in via di sviluppo,

sia quelle dei paesi sviluppati.

Tre anni dopo, Ban Ki-moon nel Rapporto Ufficiale del 2008, sosteneva che: “Molti

progressi sono stati fatti verso il raggiungimento degli otto Obiettivi, ma non siamo

ancora sulla strada giusta per il completo adempimento dei nostri impegni”. Egli

sosteneva inoltre che, nonostante i progressi, le Nazioni Unite si trovavano dinnanzi

ad una sfida ulteriore a causa del rallentamento globale dell’economia e della crisi

della sicurezza alimentare. Anche i cambiamenti climatici hanno effetti devastanti sui

poveri, ma le situazioni di emergenza e di intervento repentino, non devono indebolire

o offuscare gli sforzi per gli Obiettivi.

Ancora, nel 2010 durante una conferenza stampa a Bruxelles sulla Dichiarazione del

Millennio, Andris Piebalgs, commissario europeo allo sviluppo sosteneva che devono

essere raggiunti gli Obiettivi di sviluppo al Millennio con una concertazione di tutti gli

sforzi. Dichiarazione sostenuta anche dall’italiano Sergio Marelli, Segretario Generale

della FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario)

che ha inoltre sottolineato l’importanza dell’impegno assunto dai paesi sviluppati dello

0,7% del Pil da destinare all’Aiuto Pubblico allo Sviluppo. Nonostante l’Unione

europea, ad oggi, sia il maggior donatore con 49 miliardi di euro nel 2009 e 55

miliardi previsti per il 2010 per arrivare allo 0,7% entro il 2015 mancano altri 9

miliardi di euro all’anno.

Conclusioni

La necessità e il dovere morale delle cooperazione allo sviluppo nascono

fondamentalmente dopo le due grandi guerre del secolo scorso, e le organizzazioni a

supporto di essa, quali ONU, FMI, BM e le altre, rivolgono i loro sforzi a far si che

non si ripetano violenze fisiche, culturali, economiche e politiche viste durante i due

scontri mondiali. La concertazione degli obiettivi di un’organizzazione, praticamente

mondiale e appena nata, ha visto non pochi problemi durante la sua attuazione e una

serie di errori: quello, ad esempio, di non considerare durante i primi decenni la

popolazione a cui andavano gli aiuti e i loro bisogni di base. La Pcs si è focalizzata,

invece, sull’aspetto esclusivamente economico, calcolando il PIL dei Pvs, che

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nonostante sia cresciuto in molti casi, ha incrementato una sempre più grande

disuguaglianza, allargando il gap tra ricchi e poveri. Nella nascita e sviluppo delle

Nazioni Unite va attentamente valutata anche l’influenza della Guerra Fredda: un vero

e proprio blocco mondiale, che ha impedito all’ONU di mettere in pratica i suoi

obiettivi di aiuti multilaterali. Non a caso, all’inizio degli anni ’90 e la caduta del

Muro di Berlino, c’è stata una vera e propria nascita della cooperazione allo sviluppo,

e con una escalation di vertici mondiali su temi focali e delicati, si giunge alla

Dichiarazione del Millennio del 2000: lista di obiettivi cruciali per diminuire la

povertà e creare una vita migliore per la popolazione dei paesi poveri. Tutto ciò per

meglio comprendere il discorso che verrà affrontato nel secondo capitolo, in cui si

tratterà della cooperazione allo sviluppo e delle difficoltà di ricostruzione durante i

conflitti e avere quindi gli strumenti adatti per comprendere accadimenti e

controversie nell’operare della cooperazione.

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Capitolo secondo

Ricostruzione civile durante e post-conflitto

“La chiave della pace si trova nella struttura delle relazioni e nella cultura, nel senso

che ogni volta che queste si irrigidiscono e tendono ad assolutizzarsi, la pace è

minacciata.”

Johan Galtung

Introduzione

Una delle sfaccettature più controverse e complicate della cooperazione allo sviluppo

è quella che la vede impegnata nella ricostruzione della pace nei Paesi colpiti dai

conflitti. In questi contesti, gli attori della Pcs devono compiere grandi sforzi per

ricostruire condizioni vivibili per la popolazione e, soprattutto, attuare strategie e

progetti, attraverso ONG e organizzazioni internazionali, in collaborazione con le

autorità del Paese in questione. Proprio queste ultime sono lo strumento chiave, spesso

sottovalutato, per la ricostruzione, economica, sociale. Al sistema di conflitto, infatti,

si contrappone sempre un potenziale locale per la pace, costituito da risorse materiale

e umane, cruciali per trovare soluzioni pacifiche al conflitto. Le capacità locali utili al

cammino verso la ricostruzione possono essere atteggiamenti individuali, persone,

cioè, che agiscono in maniera non conforme alla “logica della guerra”, oppure vere e

proprie categorie professionali e gruppi sociali (personale sanitario, gruppi di

intellettuali, i giovani e in particolare le donne) che condividono atteggiamenti ostili al

conflitto. Le forze esterne che intervengono nel conflitto per placarlo e avviare il Paese

alla ricostruzione, non possono prescindere da tali ricchezze. Questo è il primo e

fondamentale aspetto per la ricostruzione di un Paese: solo chi lo vive potrà trovare

soluzioni adeguate. Non a caso i principi di intervento trattati e le forze sul campo del

conflitto di cui si tratta, sono entrambi volti a soddisfare questo principio.

In questo capitolo viene trattata, innanzi tutto, l’ingerenza umanitaria nei Paesi affetti

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da conflitto come un dovere da parte di altri Stati, facendo attenzione alla critica più

spesso mossa a questo tipo di intervento: quella di un nuovo tipo di ‘colonialismo’.

Nel paragrafo successivo, si parla dei principi dell’intervento civile nei conflitti: quali

metodi risultano avere successo in un’operazione di vera e proprio ingerenza

umanitaria, per poter portare avanti la progettualità di riappacificazione. L’attenzione

si sposta poi sulle forze speciali che intervengono sul campo, le famose forze di

peacekeeping delle Nazioni Unite, da non confondere con quelle di peacemaking o di

peacebuilding, che appartengono a momenti diversi nell’escalation del conflitto;

inoltre, vengono dettati i principi guida per una buona ricostruzione civile per qualsiasi

forza impegnata direttamente nel conflitto. Infine, si parla del processo di

ricostruzione delle istituzioni, il cosiddetto processo di insitution building, con

sottolineatura particolare al recupero della memoria del paese e delle risorse locali

(proprio come anticipato qui, nell’introduzione) e un breve resoconto delle critiche più

spesso mosse alla Pcs e all’ingerenza umanitaria nei conflitti o nelle catastrofi,

argomento su cui si trova un’ampia bibliografia.

2.1 L’ingerenza umanitaria

Ogni giorno veniamo invitati a guardare in televisione immagini di persone che

soffrono, muoiono in combattimenti e vivono in condizioni di degrado ed estrema

povertà. Questa formidabile propaganda di spettacolo del dolore, come ci suggerisce

Boltanski (Boltanski, 2000), dovrebbe avere la finalità di informarci e dinanzi alle

sventure altrui, prendere coscienza delle nostre responsabilità. Non siamo responsabili

di tutta la sventura che si abbatte sugli altri, ma saremo colpevoli se ne distogliessimo

lo sguardo e nel riconoscere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo significa

che anche le nostre responsabilità devono diventare universali (Muller 1999, 30). Di

conseguenza la costruzione di un nuovo ordine internazionale implica ciò che viene

definito diritto di ingerenza da parte della comunità mondiale, ovvero un obbligo

morale nell’assistenza alle vittime di catastrofi naturali, o più spesso di conflitti.

L’inventore dell’aiuto umanitario nella sua forma moderna fu il fondatore della Croce

Rossa, Henri Dunanat, che nel 1859 sosteneva:

“c’è sempre bisogno, in tempi ordinari, di soccorsi volontari preparati in anticipo:

detto con una parola di un’organizzazione permanente”.

Egli comprese anche come la guerra, allo stesso modo dei disastri naturali, ponesse dei

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problemi di soccorso di tipo particolare, i quali non potevano affatto ridursi alle forme

di beneficienza esercitata in tempi normali (Rufin J.C. 1994, cit. in Muller 1999, 32).

In seguito alla nascita della Croce Rossa, molte altre organizzazioni sono nate allo

scopo di missioni di aiuto umanitario. Le diverse bibliografie sull’argomento,

riportano in particolare l’esempio di Médecins sans frontiéres, l’organizzazione

medico umanitaria nata negli anni ’70 e che con varie iniziative ha agito con

tempestività nei confronti di popolazioni in pericolo, per fornire cibo, acqua, medicine

e i vari equipaggiamenti necessari alla sopravvivenza delle vittime.

L’azione umanitaria si basa sul principio di indipendenza da ogni potere politico,

economico e militare; il suo unico obiettivo è quello di difendere la popolazione. Essa

si basa, inoltre, sul principio di imparzialità, ovvero l’azione deve essere condotta

senza alcuna discriminazione di razza, religione, filosofia, politica o orientamento

sessuale e sulla neutralità, l’azione umanitaria, cioè, non rappresenta né azioni ostili,

né contributi agli sforzi bellici di una delle due, o più, parti coinvolte nel conflitto.

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che le Nazioni Unite adottarono nel

1948, è la piattaforma dal quale si ricava l’obbligo morale e civile di garantire e

proteggere i diritti fondamentali degli uomini; essa mostra, inoltre, un consenso

internazionale in tema di rispetto dei diritti dell’uomo e permette di ritenere che se uno

Stato violi i diritti dei propri cittadini, stia violando anche una legge internazionale. È

proprio su questa base che gli Stati democratici hanno al tempo stesso la responsabilità

e il diritto di ingerenza negli affari di quello Stato.

Nel dicembre del 1988 e nel 1990, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite votò

delle risoluzioni che riguardavano “l’assistenza umanitaria alle vittime di catastrofi

naturali e di situazioni di emergenza del medesimo ordine” (Muller 1999, 33). Con

esse, le Nazioni Unite affermavano la sovranità, l’integrità e l’unità degli Stati, a cui in

primis spetta prendersi cura delle proprio vittime di catastrofi naturali o conflitti. Allo

stesso tempo però, sostenevano che lasciare le stesse vittime in situazioni di

emergenza senza assistenza umanitaria, è una vera e proprio minaccia alla vita umana

e un’offesa alla dignità dell’uomo. In entrambe le risoluzioni si parlava di “fine

strettamente umanitario” con il quale devono agire le organizzazioni e per la prima

volta l’ingerenza e il libero accesso alle vittime delle catastrofi, vengono considerati

leciti. La critica che più spesso viene mossa al diritto di ingerenza è quella di essere

una nuova modalità di colonialismo: sono sempre Paesi ricchi del Nord del pianeta che

esercitano l’ingerenza nei confronti dei poveri del Sud, per l’appropriazione di beni e

del territorio. Per sottrarsi a questi sospetti, i sostenitore del diritto di ingerenza hanno

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27

proposto l'instaurazione di corridoi umanitari, strumenti di garanzia, di assistenza e di

indipendenza, essenzialmente circoscritti e provvisori. Basati sul principio di

sussidiarietà (solo se le autorità locali non sono in grado di organizzare i soccorsi,

interviene la comunità internazionale), i corridoio umanitari sono limitati nel tempo,

nello spazio e nell'obiettivo.

Per evitare effetti perversi di un troppo ampio esercizio del diritto di ingerenza, è

necessario che esso venga codificato in maniera precisa e rigorosa. Soprattutto è bene

affidare l’iniziativa ad organi giudiziariamente competenti, predisposti ad assicurarsi

che esistano condizioni sufficienti affinché venga considerato legittimo un eventuale

intervento negli affari interni di uno Stato. E’ però necessario ricordare che un

intervento umanitario che porti assistenza alle vittime, agisce sugli effetti del conflitto,

non certo sulle cause che l’hanno determinato. Di conseguenza l’ingerenza da sola non

è sufficiente alla soluzione delle controversie, ma è solo un temporaneo aiuto per

placare le prime emergenze.

2.2 Principi dell’intervento civile nelle aree di conflitto

Esistono varie modalità di intervento civile in contesti di conflitto ed ognuna di queste

modalità rappresenta un mezzo tattico, che diventa operativo e utile ai fini

dell’intervento, se compreso all’interno di una strategia, a sua volta compresa in un

progetto di creazione per condizioni di pace. La strategia riguarda la forma di

coordinamento di varie azioni per l’intervento; la tattica, invece, riguarda l’esecuzione

di ciascuna di quella azioni. Mentre la strategia si situa in un’ottica di lungo periodo e

richiede il lavoro di organizzazioni differenti e a più livelli, la tattica si rivolge ad

obiettivi a breve termine, richiedendo l’impiego perlopiù di una sola organizzazione. Il

progetto, ovvero il quadro più ampio dell’intervento civile, richiede la negoziazione

diplomatica fra le varie parti impegnate nel conflitto, nella maggior parte dei casi

mediata da un’autorità esterna.

La definizione che più comunemente viene data di strategia è: intervento non armato,

sul campo di un conflitto locale, da parte di missioni estere, le quali intervengono per

compiere azioni di osservazione, informazione, interposizione, mediazione e

cooperazione, in vista della possibile cessazione di violenza e per la creazione di

condizioni per una soluzione politica del conflitto (Muller 1999, 75). I due fini

principali dell’intervento civile sono: in un primo tempo, separare gli avversari che

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stanno combattendo; in un secondo tempo riunirli per far in modo che possano

confrontarsi.

La bibliografia, non troppo abbondante sull’argomento, separa nettamente l’intervento

civile, dall’intervento militare nei conflitti. Obiettivo di quest’ultimo non può che

essere quello di far cessare la guerra, ma non può puntare a ricostruire la pace. Fine

della guerra non significa fine del conflitto. Così, al termine del cessate il fuoco, gli

interventi civili possono portare a termine il processo di pace. Il luogo per l’intervento

civile non è di certo il campo di battaglia, ma la società civile, all’interno del quale

vive la popolazione. Si tratta quindi di ricostruire il tessuto sociale stabilendo misure di

fiducia, con la popolazione civile e fra le parti avverse, sviluppando una cultura della

pace e instaurando istituzioni politiche durature. La trasformazione del conflitto si

basa su un’azione non violenta, quindi non solo cessare le violenze, ma curarne le

cause, come suggeriva Gandhi: “Dal punto di vista dell’ahimsa [non violenza] non

faccio differenza fra belligeranti e non belligeranti. Colui che di sua spontanea volontà

collabora con una banda di briganti facendo loro da corriere o da sentinella, oppure

curandoli in caso di ferimento, è colpevole di brigantaggio quanto i briganti stessi.

Alla stessa maniera quelli che in guerra si limitano a curare i feriti non possono essere

scagionati dalla colpa di aver preso parte alla guerra” (Gandhi M.K. 1988, cit. in Deriu

2001, 115). Nemmeno la sola ingerenza politica, come già affermato in precedenza,

imporrà mai la pace dall’esterno a delle comunità in conflitto. Né fini, né mezzi

importati dall’esterno riusciranno a favorire la pace. Essi devono essere definiti sul

campo, in collaborazione con le autorità locali e la popolazione. L’intervento civile ha

lo scopo di facilitare una tale azione con la creazione di uno spazio pubblico e di uno

spazio politico, pronto ad accogliere tutti coloro che all’interno della popolazione si

oppongono alla guerra e intenzionati a costruire una pace duratura. Una della

principali logiche dell’intervento civile è che solo gli attori stessi del conflitto

potranno trovare soluzioni adeguate e durature ad esso e non, come spesso accade

all’aiuto umanitario in molti casi, ritenere del tutto incapaci i soggetti locali, nonché

vittime e per questo fornire kit di pronto soccorso sociale chiavi in mano, come

suggerisce Deriu (Deriu 2001, 93). E’ necessario dunque ricercare da parte

dell’intervento civile la più stretta collaborazione delle forze democratiche delle

comunità locali e con i vari gruppi e organizzazioni impegnati nella promozione dei

diritti dell’uomo. I leader delle società civile, la cui autorità è riconosciuta dalla

popolazione, sono chiamati a giocare un ruolo decisivo nel processo di costruzione di

pace.

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29

Ulteriore principio per l’intervento civile nei conflitti, strettamente legato a quello

appena citato, è l’utilizzo di risorse locali. Spesso gli aiuti portati dall’ingerenza

umanitaria diventano controproducenti, dal momento che creano una forte dipendenza

del paese in conflitto nei confronti dei paesi che portano gli aiuti. Il tutto mette a

repentaglio la produzione e le risorse locali che vengono fortemente sminuite dagli

infiniti prodotti, indumenti e quanto di prima necessità viene importato. Devono essere

valorizzate le specifiche ricchezze del luogo, anziché introdurne di esogene,

salvaguardando patrimonio e cultura della comunità. Il personale sul campo dovrebbe

identificarsi e costruire sulle risorse locali, piuttosto che su quelle esterne (Vaux 2002,

35).

Un altro elemento importante nell’efficacia dell’intervento civile, legato proprio ai

policymakers locali e ai vari attori, sono i problemi connessi alle disuguaglianze

orizzontali nelle loro dimensioni sociali, economiche e politiche, come sostiene

Klugman nel suo studio sullo politiche sociali ed economiche per prevenire i conflitti

(Klugman, 1999). La direzione generale del cambiamento politico deve essere quella

di ridurre le disuguaglianze dei gruppi colpiti dal conflitto. Per tanto si richiede un

governo inclusivo sia politicamente, sia economicamente, sia socialmente.

Politicamente inclusivo s’intende che tutti i maggiori gruppi della società possano

avere la possibilità di partecipare al potere politico e dell’amministrazione.

Economicamente inclusivo significa che le disuguaglianze della popolazione negli

aspetti economici sia moderata. Infine, socialmente inclusivo vuole limitare la

disuguaglianza nella partecipazione sociale e nel raggiungimento del benessere.

Altro elemento importante, all’interno dell’intervento civile, è la partecipazione delle

donne, le quali è necessario che partecipino in gran numero alle diverse azioni

programmate. Esse, infatti, hanno la capacità di avvicinare la popolazione femminile

della comunità in conflitto, e la possibilità di creare un rapporto di fiducia reciproca.

La popolazione femminile nei paesi colpiti da conflitti, è sovente la prima vittima e la

più indifesa e come tale la prima ad aver bisogno di aiuto, ma con un grande

potenziale nella ricostruzione del tessuto sociale una volta avviato il processo di

ricostruzione di pace, all’interno della strategia non violenta. L’impronta non violenta

dell’intervento civile deve essere ben chiara, perché costituisce un vantaggio per

beneficiare della collaborazione della popolazione locale. Il carattere non violento

dell’intervento può evitare reazioni di sfiducia da parte della comunità nei confronti di

un’ingerenza straniera, permettendo la cooperazione tra chi riceve aiuto e chi offre

aiuto. È difficile, se non impossibile, che i cittadini appartenenti alla comunità in

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30

conflitto partecipino ad un intervento di tipo militare, è invece auspicabile e molto più

probabile che essi considerino la possibilità di una loro partecipazione in un intervento

civile non violento, come dimostrato dal caso dell’intervento civile ONU in Cambogia

(Muller 1999, 57-58). Nel 1991, infatti, in seguito agli accordi di Parigi per una

regolamentazione politica globale del conflitto in Cambogia, l’ONU reclutò

quattrocento Volontari delle Nazioni Unite, che in seguito ad un periodo di

formazione, vennero dislocati nei vari distretti delle province cambogiane al fine di far

registrare la popolazione nelle liste elettorali e procedere alle elezioni. Il 93% della

popolazione registrata si recò a votare.

Infine, uno fra i principi più importanti dell’intervento civile è la sua organizzazione,

che prima di tutto deve essere indipendente e autonoma nelle decisioni. Non deve

essere, cioè, troppo legata a qualche leader o gruppo locale, altrimenti perderebbe

credibilità presso gli altri gruppi e questo comprometterebbe fortemente la buona

riuscita della missione e della riconciliazione. È comunque difficile nella pratica

mantenere un sano equilibrio tra solidarietà e indipendenza. La struttura

dell’organizzazione deve essere la più democratica possibile e le decisioni dovranno

essere prese in maniera ampiamente condivisa. Alcune situazioni di emergenza, però,

esigono una decisione immediata, senza lasciare il tempo a mettere d’accordo l’intera

equipe dell’intervento, in questo caso è importante che ci sia un coordinatore che si

possa assumere la responsabilità della scelta di ciò che è meglio fare. Infatti, seppur è

importante il più largo consenso possibile, non si può fare un imperativo di questa

norma laddove sia controproducente, come il caso di un’emergenza. Ci sono decisioni

che invece devono essere prese assieme all’ufficio centrale dell’organizzazione, quello

che fornisce il mandato per l’intervento civile e che, chiaramente, si troverà in un

paese straniero. Ogni settimana, oppure ogni quindici giorni, l’organizzazione centrale

dell’intervento richiede un rapporto di attività dei progressi effettuati sul campo o delle

problematiche insorte durante il progetto.

Per quanto riguarda le diverse modalità dell’intervento civile, esse vengono messe in

opera a seconda della situazione politica e dell’avanzare del conflitto. Fin dal

momento in cui si manifesta qualsiasi sorta di conflitto è auspicabile procedere alla

salvaguardia della pace, ovvero mettere in opera una diplomazia preventiva che possa

regolare le convergenze e tentare di evitare lo scontro armato. Allo stesso tempo si

deve procedere alla negoziazione per raggiungere uno o più punti d’intesa e disporre

sul territorio missioni civili che possano vigilare e tutelare sul rispetto dei diritti

dell’uomo. Se dal conflitto si è poi generato lo scontro armato, si punta al

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31

ristabilimento della pace. Sta alla diplomazia internazionale e alle organizzazioni

internazionali cercare di avviare la negoziazione fra le parti in causa e ottenere il

consenso dei dirigenti locali per poter inviare missioni di intervento civile e limitare

così la portata del conflitto. Si parla invece di mantenimento della pace, quando gli

interventi civili tentano di evitare la ripresa dei combattimenti, nel tempo che

intercorre tra il cessate il fuoco e gli accordi di negoziazione per avviare una

ricostruzione pacifica e duratura. Alcune missioni in questo caso vengono incaricate di

vigilare sul rispetto del cessate il fuoco, di studiare programmi per il reinserimento

nella società di ex combattenti e creare zone smilitarizzate. Infine, dopo che è stato

trovato un accordo di pace tra le parti, si passa alla costruzione della pace, dove gli

interventi civili oltre a sorvegliare il rispetto degli accordi, si impegnano alla

ricostruzione di istituzioni amministrative, sociali e politiche. Si deve mettere all’opera

anche un procedimento di ri-educazione della popolazione secondo i valori di pace e

democrazia.

La teoria vista fin qui è sicuramente illuminante nelle modalità con cui procedere

all’interno di un conflitto per la ricostruzione, la pratica frequentemente si discosta da

quanto esposto. Si vedranno, in breve, gli errori più grandi e le critiche alla

cooperazione in territori segnati da conflitti nell’ultimo paragrafo.

2.3 Forze speciali per la ricostruzione civile in aree di conflitto

Le forze di mantenimento della pace, o di ri-costruzione di essa, più conosciute (come

già accennato nel primo capitolo) sono probabilmente le forza di peacekeeping delle

Nazioni Unite. Tali forze vengono suddivise dagli studiosi in due varianti:

peacekeeping militare di “prima generazione” e peacekeeping multifunzionale, o di

“seconda generazione”.

Il peacekeeping militare, il modello classico, consiste nell’interposizione delle truppe

ONU fra le due parti in conflitto. Esse sono disposte lungo una linea di cessate il

fuoco, che delimita il territorio controllato da due entità in lotta. Tali missioni non

erano originariamente previste nella Carta e il Consiglio di Sicurezza nell’istituirle si

riferiva genericamente al Capitolo VI (soluzione pacifica delle controversie). Nei

rapporti con le parti in conflitto, le truppe ONU sono tenute a mantenere imparzialità;

possono ricorrere alla violenza solo per autodifesa o nel caso in cui venga loro

impedito di espletare il proprio mandato. Il consenso delle parti, l’imparzialità

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32

dell’intervento ONU e la non imposizione dall’esterno di una soluzione del conflitto,

sono i tre pilastri fondamentali del peacekeeping tradizionale (Dobbie 1994, cit. in

Arielli e Scotto 2003, 141). Sin dalla loro creazione, le forze militari di peacekeeping

hanno svolto ben limitate funzioni con il dispiegamento di forze-cuscinetto tra le parti

in conflitto, la sorveglianza lungo le linee del “cessate il fuoco” e l’osservazione di

un’eventuale tregua o armistizio concordato fra le parti. Dal punto di vista della

dinamica conflittuale, il dispiegamento delle truppe ONU costituisce un freno

all’escalation di violenza, il conflitto non viene così né risolto, né trasformato. Questo

tipo di peacekeeping può prendere solo misure di tipo dissociativo, ovvero la

separazione delle parti in conflitto (Galtung 1976, cit. in Arielli e Scotto 2003, 141).

Oltre alla semplice interposizione che abbiamo visto però, i contingenti ONU, sono

chiamati a confrontarsi con innumerevoli problemi riguardanti i rapporti militari e

civili, problemi che un semplice freno alla violenza non può risolvere. Così negli anni

‘80, anni in cui le Nazioni Unite hanno vissuto un periodo di enorme espansione della

loro attività, al dispiegamento di truppe di peacekeeping, si è accompagnato l’utilizzo

di un numero considerevole di personale non militare. Grazie infatti al coinvolgimento

delle Nazioni Unite in diversi conflitti interni (in Africa del Sud, in Centro America, in

Cambogia), si palesò la necessità di affiancare vere e proprie strategie di ricostruzione

del tessuto sociale, tramite il rimpatrio e la protezione di rifugiati, il monitoraggio dei

diritti umani, la smobilitazione e il reinserimento nella società di ex combattenti e

l’organizzazione e supervisione dei processi elettorali, come nel caso della Cambogia.

E proprio per quest’ultima e la Namibia, dove la Nazioni Unite assunsero rilevanti

compiti amministrativi, di ricostruzione istituzionale e gestione politica della fase di

transizioni, si parlò di peacekeeping multifunzionali (Arielli e Scotto 2003, 142-144).

Proprio per tutte queste caratteristiche, il peacekeeping di “seconda generazione”

riveste particolare interesse e importanza, perché la sua componente civile permette di

essere una risorse senza precedenti nella ricostruzione sociale, economica e politica

dei Paesi affetti da conflitto. Questo tipo di peacekeeping, inoltre, è inserito fra le

misure associative, ossia misure che hanno lo scopo della ricostruzione dei legami

sociali tra le parti in conflitto.

Oltre al peacekeeping militare tradizionale, un altro tipo di intervento dissociativo

sono le forme di interposizione non violenta e di accompagnamento internazionale

non armato. La prima consiste nell’idea di formare un “muro umano” per impedire a

fazioni in guerra di proseguire i combattimenti, un’idea che ricorre lungo tutto il XX

secolo e si è concretizzata in diversi progetti di interposizione, all’interno di questi si

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33

colloca il progetto di creare corpi civili di pace, o i cosiddetti “caschi bianchi”; fanno

parte dell’interposizione non violenta anche le Brigate internazionali della pace (Peace

Brigades International: PBI), create nel 1981; il loro metodo è quello

dell’accompagnamento dissuasivo, ovvero assicurare una presenza fisica durante le

riunioni e le manifestazioni dei movimenti e fornire scorta di protezione ai gruppi

sociali minacciati a motivo del loro impegno nella lotta alla giustizia, compito simile a

quello dell’accompagnamento internazionale non armato (Muller 1999, 110-111).

Quest’ultimo, infatti, viene effettuato da ONG con l’obiettivo di tutelare i diritti umani

fondamentali di persone singole in pericolo a causa del loro impegno per la

trasformazione sociale, garantendo in tal modo alla parte più debole uno spazio di

azione. Questo tipo di azione si inserisce in contesti laddove, alla dimensione della

violenza diretta, va aggiunta quella della violenza strutturale delle istituzioni, che

tengono sotto pressione la popolazione. Come già sostenuto, però, gli interventi di tipo

dissociativo non sono in grado di risolvere le contraddizioni strutturali alla base dei

conflitti, ma possono fornire un contributo importante ai processi di pace, aprendo

spazi fondamentali per il lavoro. Diversamente, le misure di tipo associativo

consistono proprio nella ricostruzione del Paese e nel trovare soluzioni stabili e

durature.

Oltre al peacekeeping multifunzionale già trattato, rientrano in questa categoria anche

l’approccio di peacemaking e quello di peacebuilding. Il primo riguarda un’azione di

negoziato tramite le parti esterne. Il processo negoziale avviene a livello di vertice, che

tenta di conciliare posizioni incompatibili e che in caso di successo si conclude con un

accordo tra le parti. È un processo di mediazione, che ha buone probabilità di riuscita

in situazioni in cui gli sforzi degli attori per terminare il conflitto sono risultati vani, la

disponibilità della parti in conflitto ad accettare perdite ulteriori è bassa e se le parti

sono pronte ad iniziare un dialogo diretto. Studi sulla mediazione nei conflitti

internazionali, nell’arco di tempo dal 1945 al 1990, hanno messo in evidenza diverse

condizioni che facilitano il processo, come ad esempio l’omogeneità etnica e la

politica interna, un relativo equilibrio in termini di potere tra le parti e la bassa

intensità del conflitto. Esempio di peacemaking è il lavoro diplomatico compiuto nel

1979 da Jimmy Carter, allora Presidente degli Stati Uniti, per giungere ad un accordo

di pace tra Egitto e Israele. Le Nazioni Unite, in quanto organizzazione universale con

il compito di tutelare la pace, hanno intrapreso spesso iniziative di risoluzione dei

conflitti, sotto forma di mediazione e di conciliazione. L’importanza dei processi di

mediazione coinvolge, inoltre, anche i rappresentanti di Stati: a livello statistico, però,

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34

le superpotenze non hanno un particolare successo nella mediazione, cosa che invece

accade per i rappresentanti dei piccoli Paesi, che sembrano essere assai più efficaci

(Bercovitch 1995, cit. in Arielli e Scotto 2003, 178).

Il processo di peacebuilding, invece, significa letteralmente “costruzione della pace”,

ed è un processo che porta a risultati nel medio periodo (alcuni mesi o alcuni anni) e

coinvolge l’intera struttura sociale delle parti in conflitto. Non è un’attività per la

gestione del conflitto, ma un modalità per attutirlo, e ricercare una soluzione stabile e

sostenibile, capace di costruire una pace duratura. È importante capire che, secondo la

logica del peacebuilding, nei processi di costruzione della pace ogni articolazione

sociale e ogni livello della leadership, possiede un potenziale di trasformazione

costruttiva del conflitto. Al vertice delle leadership di un Paese si trova la dirigenza

politico-militare, dotata di grande visibilità e in genere con posizioni molto rigide sugli

scopi e le interpretazioni del conflitto. C’è poi la leadership intermedia, si può trattare

di intellettuali o responsabili di settori chiave, come l’agricoltura, la sanità o

l’educazione. Infine la leadership di base, che condivide con la popolazione

l’esperienza quotidiana del conflitto. Le potenzialità maggiori di trasformazione del

conflitto, risiedono nel secondo livello di leadership. Le misure di peacebuilding o di

post-conflict peacebuilding (nel caso vengano prese al termine dei conflitti), si

raggruppano in quattro categorie:

- misure di natura militare: smobilitazione e disarmo dei soldati, sminamento

del terreno e riforma delle forze armate

- misure di natura politica e giudiziaria: osservazione e tutela dei diritti umani,

punizione dei colpevoli di violazione dei diritti umani, organizzazione,

esecuzione e monitoraggio di elezioni

- misure di natura economica: distribuzione di aiuti umanitari durante la fase

acuta del conflitto, ricostruzione delle istituzioni economiche a medio e lungo

termine, redistribuzione delle risorse

- misure di natura sociale: rimpatrio e reintegrazione dei rifugiati, reintegrazione

dei soldati nella vita civile, riavvicinamento dei gruppi sociali divisi.

Esistono naturalmente delle interazione fra i vari campi, ad esempio la creazione di un

ambiente sicuro e lo sminamento sono condizioni necessarie per il rimpatrio dei

rifugiati.

Oltre alle forze che abbiamo appena visto, figlie dell’intervento delle Nazioni Unite,

troviamo anche forze minori impegnate nella ricostruzione della pace, come le

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35

Organizzazione Non Governative o lo stesso Ministero per gli Affari Esteri Italiano7.

In generale quando si tratta di interventi civili volti alla ricostruzione dei Paesi colpiti

da conflitti, si tengono a mente alcune linee comuni di progettualità. Ricostruire

condizioni vivibili per la popolazione e le vittime dei conflitti richiede una grande

capacità organizzativa e di coordinamento delle forze presenti sul posto. Gli studi

sull’argomento sono tutti concordi nel porre enfasi sul primo punto: un vero

coordinamento operativo per raggiungere un obiettivo comune. La linea politica delle

forze straniere e locali deve essere unitaria, così come la supervisione generale su tutte

le attività, pena la perdita di credibilità. La cornice di sicurezza, che fa in modo che gli

attori della cooperazione e gli operatori umanitari possano agire e assicura protezione

alla popolazione va rinforzata e accettata da tutti coloro coinvolti nella ricostruzione

(Trojano 2007, 1-2). Le comunicazioni dovranno essere progettate in base ai rischi e

alle difficoltà della zona in cui si opera e tutti i risultati conseguiti dovranno poi essere

verificabili e da questi, come già detto in precedenza, passare ad una vera e propria

ricostruzione e rinsaldamento del tessuto sociale.

2.4 Cambiamento istituzionale e recupero della memoria

Nell’intero progetto di ricostruzione dei paesi colpiti da conflitti è bene tenere a mente

il concetto di non violenza, riportato nei paragrafi precedenti, e non banalizzarlo,

perché accanto alla violenza diretta e chiaramente visibile esistono altri tipi di

violenza. Negli anni ’60 si iniziò a parlare di violenza strutturale, come suggerisce lo

studio di Galtung (Galtung 2000, 57-60). La violenza strutturale indica una violenza

generata da strutture politiche, economiche e sociali, che crea oppressione e

sfruttamento della popolazione. La violenza strutturale è un processo: è la società che

è imbevuta di questa violenza, spesso senza coscienza di ciò che accade realmente.

Non a caso si distingue tra pace negativa, intesa come semplice assenza di violenza

diretta e pace positiva, nel senso più profondo di assenza della violenza strutturale,

dove i poteri (politico, economico, militare e culturale) sono basati su rapporti di

dialogo e poco inclini alle tensioni che potrebbero generare conflitto e sfociare in

guerra civile.

7 In particolare, l’organo del Ministero degli Affari Esteri preposto alla cooperazione allo sviluppo è la Direzione

Generale per la Cooperazione allo Sviluppo (DGCS), componente essenziale della politica internazionale dell’Italia.

La DGCS, si occupa di attuare le linee di cooperazione e le politiche di settore nei diversi Paesi, di stabilire rapporti

con le Organizzazioni Internazionali, con l’Unione Europea e con le Organizzazioni Non Governative.

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36

La complessità della ricostruzione post-conflittuale si evidenzia in particolar modo

negli assetti delle nuove istituzioni nei Paesi in Via di Sviluppo. Di questa complessità

non sono generalmente consapevoli gli organismi internazionali, quali FMI e BM, in

quanto non considerano la necessità di nuove istituzioni nei Pvs, o in quelli appena

usciti da un conflitto, come processo endogeno di cambiamento, ma come un

problema di imitazione, ovvero un’applicazione di modelli teorici, una sorta di ricetta

precostituita per i Pvs (Romagnoli 2009, 4-5).

Questa imitazione si riduce, molto spesso, ad un’attività di semplice replica di

esperienze del passato, definita institution transfer, ossia esportazione/importazione di

istituzioni. Tale processo di imitazione può presentare diversi problemi. Innanzi tutto

c’è bisogno di un modello di assetto istituzionale da imitare, o di un Paese al quale far

riferimento per l’assetto. C’è poi la necessità di predisporre un percorso che possa

facilitare l’inserimento di modelli istituzionali esterni all’interno del Paese. Questi

modelli devono essere riconoscibili e autorevoli per tutti gli agenti coinvolti in tale

processo. Prima che la popolazione possa manifestare la propria collaborazione a tali

istituzioni, deve trascorrere del tempo per l’apprendimento di queste novità. Inoltre, i

modelli da imitare sono, in molti casi, schemi e linee generali, quindi non sufficienti

per la creazione da zero di un nuovo impianto istituzionale.

Come più volte sottolineato nei paragrafi precedenti, anche per il cambiamento

istituzionale non si può ignorare la storia del Paese in questione. Molta cooperazione

internazionale vive il passato come un intralcio al proprio lavoro di ricostruzione, o

come un tabù da evitare perché non sa come maneggiarlo. Invece, al nuovo assetto

istituzionale devono contribuire la cultura e la memoria di quel Paese, perfino,

l’eredità del vecchio regime, se non si vuole andare incontro ad un insuccesso

(Wollmann H. 1997, cit. in Romagnoli 2009, 5). Non si può aver la pretesa di essere

portatori di conoscenze non condivise. Applicare modelli stranieri, in un contesto

molto diverso da quello di origine, spesso dà risultati particolarmente diversi da quelli

attesi, proprio a causa della sottovalutazione dell’ambiente che fa da sfondo alla nuove

istituzioni.

Per evitare tali problemi, e far si che il processo di cambiamento istituzionale

raggiunga i suoi obiettivi, si deve procedere con un metodo di institution building,

ossia un’applicazione di modelli teorici, ma adattati a specifici contesti reali: il nuovo

sistema dovrà così essere sostenibile (cioè compatibile con le condizioni sociali,

politiche ed economiche già esistenti, o comunque in vigore prima del conflitto) e

dovrà essere gestito in maniera sussidiaria, coinvolgendo il capitale umano presente

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37

nel Paese. Chiaramente, anche il processo di institution building da un lato richiede un

certo arco di tempo per poter essere introdotto, appreso e condiviso, dall’altro richiede

il coinvolgimento delle diverse sfere di attività sociale per poter essere portato a

termine con successo. È importante capire che l’institution building in situazione di

conflitto e post-conflitto ha natura diversa dai progetti per generare sviluppo, sebbene

in entrambi i casi la causa primaria sia uno shock che ha creato discontinuità con il

passato. Il cambiamento delle istituzioni nella aree di conflitto si innesta in un contesto

in cui l’apparato amministrativo è distrutto, le istituzioni sono deboli e c’è carenza di

infrastrutture, per questo esso innanzi tutto deve agevolare l’intervento umanitario e la

ricostruzione, per poi divenire operativo. Inoltre, spesso, molti aiuti internazionali o

comunque stranieri, tendono a prescindere dal conflitto che si è appena concluso,

mentre in realtà esso va visto come parte del problema della ricostruzione, proprio

perché non si può prescindere dalla memoria di un Paese.

2.5 Critiche alle operazioni di emergenza

Si è già visto, nel primo capitolo, la sempre maggior affermazione nel panorama

mondiale della Pcs e delle grandi organizzazioni transazionali che ne sono

protagoniste. È bene, però, prendere in considerazione anche gli aspetti negativi

dell’operato della Pcs. Infatti, i risultati non attesi e gli errori degli interventi nei Pvs,

nonché il buonismo mascherato da ben altri interessi, hanno alimentato un’ampia

bibliografia sulle critiche e su quella che viene definita “illusione umanitaria”. Una

delle prima critiche mosse, ancora prima della vera e proprio ingerenza, è quella che la

maggior parte delle situazione definite “emergenze” dai media, dai politici e

dall’opinione pubblica, sono in realtà processi di medio o lungo periodo. La violenza e

il degrado di un paese non nascono dal nulla, ma da situazioni di cui politici e

istituzioni internazionali sono a conoscenza, ma solo quando tale violenza non si può

più controllare e fuoriesce, allora si intervene con l’emergenza umanitaria. Molto

spesso poi, in questo processo di intervento, gli attori umanitari non si interrogano e

non conoscono il contesto, la storia, e le ragioni sociali, economiche e politiche di un

conflitto, e in questa maniera l’assistenza umanitaria si presta ad essere manipolata e

far si che gli aiuti vengano sfruttati per gettare le basi di un altro sistema sociale,

basato sulle mafie locali che controllano la distribuzione degli aiuti. Inoltre, il mito di

‘quanti più aiuti possibili, nel minor tempo possibile’ è del tutto irreale: nelle

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38

situazioni di emergenze c’è bisogno di poche ed essenziali cose, che però non sono

note ai donatori, non di tutto ciò che si riesce ad accumulare nei Paesi ricchi (Carrino

2005, 77). Il flusso di aiuti umanitari è inoltre oggetto della cosiddetta critica della

“dipendenza degli aiuti”: in molti casi gli aiuti statunitensi o europei sono costituiti da

eccedenza produttive, che difficilmente troverebbe collocazione nei propri mercati, e

utilizzarli come aiuti umanitari costituisce un’ottima alternativa. Il flusso di alimenti se

prolungato nel tempo crea non poche difficoltà ai produttori locali e all’intera

economia del paese in questione: i produttori locali si vedono costretti ad abbassare i

prezzi o a cambiare produzioni, che si avvicinino sempre di più agli interessi dei

mercati internazionali. Non solo il flusso degli aiuti risulta inadeguato, ma “un certo

numero di casi di studio rivela che molti paesi poveri sono impediti da un alto grado di

dipendenza dagli aiuti” (Klugman 1999, 24). Si creano in questo modo economie

‘drogate’, che mescolano insieme aiuti, traffici illeciti e interessi locali privati.

Tra le critiche più accese, a cui si è già accennato, si trova quella che riguarda la

perdita delle risorse locali, quasi tutti gli aiuti e gli interventi nel Sud del mondo sono

pensati e catapultati dall’alto (Deriu 2001, 93). Lo stesso Deriu nel suo studio, sostiene

che il lavoro non è realmente condiviso dalla gente e finito il progetto, nulla si

mantiene nel tempo e che, inoltre, le organizzazioni internazionali forniscono tutta una

gamma di figure di esperti, professionisti e consulenti per la ricostruzione del Paese,

dove i soggetti locali sono ridotti a vittime.

Altra critica comune, è quella della logica assistenziale umanitaria che si rivolge al

solo “essere sofferente” e non alla persona nella sua umanità. Si tenta di lenire ed

estirpare il dolore della vittima, riduzione dell’essere vivente al puro essere bisognoso.

Si tenta di fare ciò che la morale insegna, aiutare chi soffre, con i mezzi e i

finanziamenti ricevuti, fino a che questi non termineranno e poi via ad un altro

progetto. La relazione che viene messa in gioco nell’assistenza è di tipo funzionale: si

mette in atto ciò che serve alle vittime, tralasciando la vera relazione umana.

Infine, una delle più accese discussioni riguarda la mercificazione del dolore, a cui si è

dato accenno all’inizio di questo capitolo. Si è creato un legame stretto fra mass media

e aiuti umanitari. Da una parte le agenzie umanitarie hanno bisogno di tener desta

l’opinione pubblica con casi eclatanti, commozione ed immagini di sofferenza, e

dell’altra c’è una vera a propria corsa dei mass media sui luoghi di conflitti e catastrofi

per essere i primi a lanciare richieste di aiuto e gloriarsi delle immagini piene di

sofferenza trasmesse. Ai donatori interessa l’immagine, l’effetto politico, la presenza

di proprio personale, la mobilitazione dei propri enti. L’interesse principale è quello di

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39

donare sotto l’occhi delle telecamere (Carrino 2005, 83).

Conclusioni

I conflitti internazionali sono per lo più refrattari a soluzioni esclusivamente imposte

dall’esterno. L’ingerenza umanitaria è stata sì definita dovere, grazie anche alla

Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma non deve oltrepassare la misura

dei principi di intervento civili esposti e soprattutto non prescindere dalle risorse

locali, di cui molta bibliografia parla, ma da cui spesso la pratica si discosta.

Innanzi tutto è necessaria una misura di tipo dissociativo, per poter separare le parti

in conflitto e con forze di interposizione militare tentare di raggiungere il cessate il

fuoco da entrambe le parti. Allora si potranno individuare le forse per un potenziale

locale di pace. Lo sganciamento di gruppi e individui dalla logica della guerra è il

primo passo nel processo generale di valorizzazione del potenziale di pace.

In seguito solo un buon lavoro delle forze di peacekeeping nel caso delle Nazioni

Unite, o di un intervento civile di ricostruzione di ONG o del Ministero degli Affari

Esteri (con progetti di ricostruzione e stanziamento fondi), potranno ricostruire pace

e istituzioni del Paese. Esse devono tenere un atteggiamento neutrale, imparziale e

indipendente, nonché di vero e proprio interesse nella salvaguardia e ricostruzione

della pace. Solo allora potranno creare una spazio politico e comune all’interno del

quale trovare accordi fra le varie parti del conflitto, senza mai dimenticare la autorità

locali, le leadership politiche e non, perché solo con una concertazione di voci si

potranno realmente trovare soluzioni sostenibili e durature. Quest’ultimo è il

principale accorgimento per evitare le critiche più pesanti fatte alla politica di

cooperazione e all’ingerenza umanitaria.

L’approfondimento delle modalità e dei principi di ricostruzione, è stato affrontato

per poter leggere al meglio l’intervento dell’Italia in Iraq, precisamente nella

provincia di Dhi Qar con la Missione Italiana Antica Babilonia, ufficialmente iniziata

il 29 maggio 2003 e terminata il 1 dicembre 2006.

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40

Capitolo terzo

La cooperazione italiana in Iraq: la Missione Italiana Antica

Babilonia

“Cera poi una ridda di voci sul responsabile amministrativo della Cooperazione

Italiana. Marco Beci, quarantatreenne di Pergola nel pesarese […]. Il fatto di non

vederlo in giro era un brutto segno; conoscendolo non era tipo da pensare di mettersi

al riparo ma, piuttosto accorrere laddove c’era bisogno”

Andrea Angeli

Introduzione

La cooperazione italiana in Iraq è stata, come molte operazioni simili, carica di

speranze e poi risultati abbandonati nel dimenticatoio dai mass media, inizialmente

zelanti e largamente generosi nel raccontare, ‘farci vedere’, denunciare o

commuovere, tanto quanto lo sono stati nel dimenticare di informarci dei progressi o

errori della nostra cooperazione. La Missione Italiana Antica Babilonia non va

discostata dalla missione americana. Le loro storie e i loro progetti si intrecciano, più

o meno alla luce del sole, e di conseguenza non si può parlare dell’una tralasciando

l’altra. E’ necessario tenere a mente che Antica Babilonia fu una missione

umanitaria, a scopo di ricostruzione e salvaguardia della popolazione, ma pur sempre

una missione con contingente militare. Arrivata a conflitto ufficialmente terminato, si

prefisse lo scopo di riedificare Nassiriya e la provincia del Dhi Qar, nonché di

salvaguardarne la popolazione. Numerose le critiche di una missione militare a scopo

umanitario, un vero e proprio paradosso: primo perché la ricostruzione non è lavoro

loro e non ci si improvvisa amministratori delegati, secondo perché la priorità del

militari è quella dell’auto-protezione che influenzerà i vari piani di programmazione

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degli interventi. Per quanto possano essere operazioni di peacekeeping, essi hanno il

fucile, che è l’ultima istanza quando il compromesso non è più possibile, perché con

un’arma in mano non è facile convincere il proprio interlocutore per la ricostruzione

di un ponte o, peggio ancora, per la ricostruzione della pace. I militari di Antica

Babilonia, furono sì accompagnati da un gruppo di civili funzionari e amministratori

della DGCS, ma questi erano troppo pochi e, nonostante il termine della guerra

ufficialmente decretato da George Bush il 1 maggio 2003, la guerra si prolungò

ancora, in forme non canoniche, con attentati e guerre lampo, cosicché essi trovarono

difficoltà a lavorare in un regime non affatto transitorio, ma addirittura ancora sotto

le bombe. Al termine di Antica Babilonia, infatti, le elezioni e il passaggio di poteri

della CPA al governo locale iracheno portarono una vera e propria ricostruzione

italiana, fatta di civili, sotto il nome di Unita di Sostegno alla Ricostruzione, che con

progetti a carattere regionale tentò di ricostruire tessuto sociale, civile ed economico.

In quest’ultimo capitolo si prenderanno in analisi le versioni ufficiali e della politica

italiana sulla Missione Antica Babilonia, nonché un resoconto storico e fedele delle

vicende dei militari italiani e dei punti salienti. Nel primo paragrafo si arriverà anche

a dare accenno del dopo Antica Babilonia. Poi, si tratterà dei progetti che la

Direzione Generale di Cooperazione allo Sviluppo, ufficio per la cooperazione del

Ministero degli Affari Esteri Italiani, che programmò e finanziò per Nassiriya e

dintorni. Infine, si analizzerà l’altra faccia della medaglia di Antica Babilonia e

dell’intera cooperazione/ingerenza occidentale, in particolare americana, prendendo

spunto dalla testimonianza del giornalista Andrea Nicastro, inviato del Corriere della

Sera, che ha testimoniato la Nassiriya italiana e americana in un reportage cartaceo e

video, e dal pensiero di Danilo Zolo, docente e filosofo del diritto italiano e

internazionale, che da sempre coniuga i suoi studi con la sensibilità per la pace e i

diritti umani.

3.1 La cooperazione italiana in Iraq e la Missione Antica Babilonia

Durante il conflitto tra Stati Uniti e Iraq, iniziato il 20 marzo 2003 e terminato

formalmente per bocca di George W. Bush il 1 maggio, già in Italia, si iniziava a

parlare di intervento umanitario per la ricostruzione di “un piano operativo di

emergenza in Iraq messo a punto dalla task force interministeriale”8. Il 14 maggio

8 Intervento del Ministro degli Affari Esteri, Franco Frattini, alla Camera dei Deputati, Comunicazione del Governo in

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42

2003 l’allora Ministro della Difesa, Antonio Martino, presentava la missione Antica

Babilonia alle Camere. Il mandato, che la Missione ricevette dal Parlamento italiano in

quell’occasione, fu quello di “garantire quella cornice di sicurezza essenziale per un

aiuto effettivo e serio al popolo iracheno e contribuire con capacità specifiche alle

attività di intervento più urgente nel ripristino delle infrastrutture e dei servizi

essenziali”9. L’area assegnata alla Missione Italiana fu quella della provincia del Dhi

Qar. Provincia nel sud sciita iracheno, il Dhi Qar è un’area vasta poco meno della

Campania, ricca di storia e situata in una posizione strategica dal punto di vista

infrastrutturale, è attraversata, infatti, dalla principale autostrada e da canali. La

regione è, però, povera e fu negletta da Saddam; durante la guerra, inoltre, fu sede di

intensi combattimenti, che hanno comportato la distruzione di alcune infrastrutture. La

popolazione della regione è circa un milione e mezzo: un terzo vive a Nassiriya,

capoluogo della regione e più della metà vive nelle campagne e nei villaggi. Fino a

vent’anni fa, esisteva un ecosistema millenario di paludi salmastre da cui la gente

aveva imparato a ricavare di che vivere: pesci e canne da intrecciare (Nicastro 2006,

51).

Le dichiarazioni ufficiali del nostro Paese, trattano la Missione Italiana Antica

Babilonia, come una missione di ricostruzione post-conflitto. Infatti, lo stato di

“nazione non belligerante” del Bel Paese e l’affermazione che “l’Italia non parteciperà

direttamente alle operazioni militari, non invierà perciò in Iraq né uomini né mezzi,

come sin dall’inizio ho dichiarato pubblicamente […] e sin dalla prima conversazione

con il Presidente americano George Bush”10

fatte del Presidente del Consiglio, Silvio

Berlusconi il 19 marzo 2003, giustificarono la partenza di Antica Babilonia dopo il

termine ufficiale della guerra, il 1 maggio 2003, come dichiarato dagli Stati Uniti.

Il termine del conflitto decretato dalla super potenza americana, fu ribadito anche

dall’On.le Antonio Martino nell’intervento del 14 maggio 2003: “Dopo tre settimane

di operazioni belliche, con le dichiarazioni formali del Presidente Bush del 1 maggio

e, prima ancora con la sconfitta della capacità militare irachena, si è determinato il

sostanziale dissolvimento di una della due parti del conflitto. Non la sconfitta di un

paese, ma la sua liberazione dal regime, dal suo capo e dai suoi simboli. Il conflitto

armato è dunque cessato. Ma permangono problemi di violenze, di attentati, di

banditismo, di criminalità, di saccheggi.”

merito ad un intervento di emergenza umanitaria in Iraq , Roma, 15 aprile 2003

9 Intervento del Ministro della difesa, Antonio Martino, a Senato e Camera riuniti in seduta congiunta, L’impiego di un

contingente militare nell’ambito dell’intervento umanitario italiano in Iraq, Roma, 14 maggio 2003 10

Intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, onorevole Silvio Berlusconi, sulla crisi irachena alla Camera dei

Deputati, Roma 19 marzo 2003.

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43

L’Italia, quindi, con il termine delle azioni militari entrò a far parte della Coalizione

dei volenterosi con Antica Babilonia. Una coalizione guidata da Usa e Gran Bretagna,

nata in seguito alle risoluzioni Onu 1483 e 1511. La prima, del 22 maggio 2003,

approvata dal Consiglio di Sicurezza, invitata tutti gli Stati a contribuire alla rinascita

dell’Iraq. Nella seconda si sosteneva, tra le altre cose, “la natura temporanea

dell’esercizio da parte dell’Autorità Provvisoria della Coalizione (Coalition

Provisional Authority, CPA) e il via libero alle Forze Multinazionali per combattere il

terrorismo.

E’ bene precisare e aver chiaro che, Antica Babilonia fu “una missione con uno scopo

emergenziale ed umanitario per salvaguardare, mentre si definisce il quadro

internazionale, le condizioni della popolazione civile. Il Governo non intende, oggi,

affrontare i temi assai sensibili della ricostruzione politica ed economica dell’Iraq”11

.

Quindi la Missione Italiana, pur essendo intervenuta a conflitto terminato, ebbe

obiettivi di prima necessità e la priorità di rimarginare le emergenze per proteggere i

civili. Non a caso, i documenti della DGCS contenevano proposte di piani di

finanziamento e di Aiuto Pubblico allo Sviluppo per la provincia di Dhi Qar e la città

di Nassiriya, per il settore dell’agricoltura, scolastico e sanitario, i primi campi per

rimetter in piedi una popolazione inginocchiata dalla dittatura e dal conflitto, progetti,

cioè, di breve-medio periodo.

In seguito alla risoluzione Onu 1483, che, si è visto, invitò gli Stati a prendere parte

alla riedificazione dell’Iraq, il grado di coinvolgimento e il livello di subordinazione fu

deciso autonomamente da Paese a Paese. La Corea, ad esempio, inviò, proprio a

Nassiriya, un contingente di quattrocento militari, che non assunsero mai compiti

legati alla sicurezza della provincia, ma si concentrarono sulla protezione degli

interventi umanitari finanziati direttamente dal proprio governo o da privati di Seul

(Nicastro 2007, 50). Lo stesso si può dire dei giapponesi, intervenuti con aiuti

umanitari elargiti per intero dalla terra del Sol Levante, addirittura con centinaia di

progetti proposti per la ricostruzione, senza chiedere alcun fondo alla Coalizione

guidata da Stati Uniti e Gran Bretagna. Diverso il caso dell’Italia, con una scelta di

ruolo, di livello di subordinazione e di grado di coinvolgimento, tutti bilaterale fra

Italia e Stati Uniti, scelta carica di tensioni e critiche.

Le fonti ufficiali fanno iniziare Antica Babilonia il 15 luglio 2003, giorno in cui si

contano in Iraq “oltre 3 mila militari italiani” (Sapegno, 2010). In realtà le prima navi

11

Intervento del Ministro degli Affari Esteri, Franco Frattini, alla Camera dei Deputati, Comunicazione del Governo in

merito ad un intervento di emergenza umanitaria in Iraq , Roma, 15 aprile 2003

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dall’Italia salparono a maggio, “il 29 maggio il capitano di fregata Maurizio La Puca

riceve l’ordine di salpare per le cose irachene. Per l’Italia Antica Babilonia comincia

ora.” (Petrilli e Sinapi 2007, 23)

Il comando di Antica Babilonia fu spezzato a metà: una parte seguì i problemi militari,

l’altra quelli della ricostruzione. La missione fu definita di peacekeeping; date le forze

in campo, si può parlare di peacekeeping di seconda generazione. Infatti, oltre alla

componente militare, arrivò a Nassiriya “un manipolo di diplomatici e funzionari

ministeriali. Pochissimi per la verità, trenta forse trentacinque” (Nicastro 2006, 51).

Fra questi, a metà ottobre, arrivò anche Marco Beci, responsabile amministrativo della

Cooperazione italiana, funzionario della Direzione Generale della Cooperazione allo

Sviluppo (DGCS), da diversi anni.

Il 7 luglio 2003 i 2850, quasi 3000, militari di Antica Babilonia, furono tutti a

destinazione con 3 unità della Marina, 615 mezzi ruotati e da combattimento, 19

macchine da lavoro, 6 elicotteri e 487 container. Una macchina logistica

particolarmente imponente e costosa, 225 milioni di euro stanziati dal Governo, per

stanziare i primi sei mesi di missione.

La base che ospitò il grosso del contingente fu White Horse, un ex centro di

addestramento di reclute dell’esercito di Saddam, a cinque chilometri da Nassiriya. Gli

americani occuparono White Horse durante la guerra, per poi in seguito lasciarla nelle

mani degli italiani. Gli avieri dell’Aeronautica, invece, insediarono il loro quartier

generale all’aeroporto di Tallil, a venti chilometri da Nassiriya: erano gli unici del

contingente accampanti con tende climatizzate contro il caldo torrido iracheno e acqua

per la doccia che arrivava dall’Eufrate. I carabinieri si sistemarono in due diverse sedi

lungo l’Eufrate, in pieno centro città: un ex museo divenne la Base Libeccio e di

fronte, l’ex Camera di commercio durante il regime, divenne la Base Maestrale,

ribattezzata poi dagli italiani “Animal House” a causa delle condizioni degradate in cui

era stata lasciata dagli americani.

La componente militare della Missione si vide assegnata vari compiti, che vennero

così sintetizzati dal Ministro della Difesa: “Confermando quanto esposto dal Ministro

Frattini, il 15 aprile, il contingente nazionale sarà chiamato ad operare per lo

svolgimento dei seguenti compiti: ricostruzione del comparto sicurezza, creazione e

mantenimento di un ambiente sicuro, concorso all’ordine pubblico e polizia militare,

supporto alle attività di sminamento, rilevazioni biologiche e chimiche, assistenza

sanitaria, gestione aeroportuale, ripristino di infrastrutture pubbliche essenziali,

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45

contrasto alla criminalità e controllo del territorio”12

.

L’approccio italiano all’Iraq fu ‘soft’ in tutti i suoi aspetti, il generale Vincenzo Lops,

capo della Missione Antica Babilonia a Nassiriya dichiarò: “La nostra è solo una

missione di pace. Noi vogliamo spiegarlo bene, perché non sorgano equivoci. Siamo

qui per a-iu-ta-re. Solo per questo. Nient’altro” e ancora “Voglio parlare con tutti. Mi

serve per capire e per farmi capire”. Questa l’intenzione dichiarata pubblicamente dal

generale, ma anche dai vari comandanti del contingente a Nassiriya. Per cercare di

avvicinarsi alla gente, quelli di Antica Babilonia, giocarono anche la carta del calcio,

sport molto popolare anche in quelle zone (Petrilli e Sinapi 2007, 33).

Diversamente, la CPA (Coalition Provisional Authority), già menzionata nella

risoluzione Onu 1511, fu l’organo che amministrò l’Iraq dalla primavera del 2003 fino

al giugno 2004, chiaramente a guida americana, ebbe uno stampo notevolmente

diverso a giudicare dalle testimonianze. La ferrea regola della CPA, che prevedeva che

i funzionari viaggiassero scortati e con le auto blindate, comportò un approccio

decisamente indisponente e a causa di questa impostazione, buona parte dei funzionari

della CPA arrivò senza conoscere il paese e quando ripartirono avevano visto ben poco

del territorio e della gente (Angeli 2005, 262).

Appena gli italiani arrivarono e si sistemarono, trovarono un Nassiriya duramente

colpita dalla guerra, molti edifici distrutti, l’energia elettrica disponibile solo poche ore

al giorno e la disoccupazione alle stelle. Il 15 luglio 2003, con la cerimonia del

Transfer of Authority (TAO), il contingente italiano venne posto formalmente sotto il

controllo operativo della divisione britannica e cinque giorni dopo assunse la piena

responsabilità della provincia del Dhi Qar. La prima operazione della Missione si

chiamò Sesterzi e significava pagare gli stipendi agli ex militari dell’esercito di

Saddam, il tutto con fondi della CPA. Nello stesso mese partì anche l’operazione

Nuvola, ovvero distribuzione di aiuti umanitari nei villaggi della provincia e controllo

del territorio. Nello stesso periodo, sul fronte della ricostruzione, cominciarono ad

essere realizzati i primi progetti: la costruzione di 13 scuole nella provincia e la

riparazione del sistema idrico di Suq ash Shuyukh. Ulteriore operazione della

Missione nei primi periodi, e particolarmente pubblicizzata, fu quella denominata

Tormenta Muralia, che prevedeva la consegna di armi da parte della popolazione in

cambio di un premio in denaro.

Il 12 novembre 2003, pochi mesi dopo l’inizio ufficiale, una della basi di Antica

12

Intervento del Ministro della difesa, Antonio Martino, a Senato e Camera riuniti in seduta congiunta, L’impiego di

un contingente militare nell’ambito dell’intervento umanitario italiano in Iraq, Roma, 14 maggio 2003

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46

Babilonia fu colpita da un attentato: un camion sfondò la recinzione della Base

Maestrale, “Animal House”, aprendo il varco ad un secondo camion imbottito di

esplosivo, che ridusse ad uno scheletro di cemento la palazzina. Nell’attentato

morirono 12 carabinieri, 5 soldati e 2 civili italiani e 9 civili iracheni. La ventata di

polemiche fu immediata, anche l’interpretazione dei fatti varia da fonte a fonte. Un

articolo de “la Repubblica” del giorno stesso sostenne che: “Gli italiani avevano già

dovuto affrontare episodi di ostilità a Nassiriya lo scorso settembre. Disordini erano

esplosi durante il pagamento degli stipendi ad ex militari iracheni.” Non parlano

invece di episodi di ostilità precedenti Petrilli e Sinapi che nonostante il resoconto

dello scoppio del disordine durante la missione Sesterzi, dove un soldato italiano del

contingente sparò un colpo “per errore” ad Anaya Ruscid, iracheno di 42 anni, nel

parlare della strage scrivono: “Antica Babilonia era cominciata da cinque mesi, e fino

ad allora non c’erano stati grossi problemi per gli italiani” (Petrilli e Sinapi 2007, 56),

né tanto meno ostilità visto il clima di fiducia che i militari tentarono di instaurare con

la popolazione. Le numerose polemiche e critiche aprirono le indagine alla procura

contro il comandante del contingente dell’Arma all’epoca della tragedia, contestando

le misure di sicurezza scarse della Base Maestrale: “purtroppo in molto casi italiani

andando all’altro mondo si diventa eroi; sopravvivendo, invece, si aprono le porte dei

tribunali” (Angeli 2005, 278).

Poi Antica Babilonia riprese a lavorare. Dopo lo shock e il caso mediatico che ne

seguì, si può identificare la data simbolica del 24 novembre 2003, quando dalla base di

White Horse partì il primo convoglio umanitario dopo la strage destinato al villaggio

di Attab, a ottanta chilometri da Nassiriya. Così riprese il lavoro fra la gente, anche se

il clima fu indubbiamente più teso.

Il compito di aiuto alla popolazione del Dhi Qar proseguì per gli italiani di Antica

Babilonia, non senza ulteriori problemi. Tra l’aprile e l’agosto 2004 ci furono altri

episodi di violenza, che vengono etichettati con il nome di “battaglie dei ponti”: vere e

proprie azioni di guerra condotte dall’Esercito del Mahdi, con a capo Moqtada, figlio

dell’ayatollah Mohammad Sadiq al Sadr. Una frangia estrema di uomini che combatté

contro gli americani, che in quel periodo guidavano l’Iraq (e quindi contro gli italiani,

anch’essi sotto la responsabilità della CPA), nonché contro l’autorità dei massimi

leader sciiti iracheni, religiosi e civili, di cui ambivano a prendere il posto. Le guerre

dei ponti si lasciarono dietro vittime sia italiane, sia irachene e una serie di attentati, ad

aprile infatti “la Base Maestrale – quella della strage – viene bombardata con colpi di

mortaio e la sede della CPA […] viene colpita da due bombe a mano” (Petrilli e Sinapi

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47

2007, 76). Ad agosto 2004 gli attacchi terminarono, e in seguito ai fatti, da Roma

decisero di inviare un maggior numero di mezzi blindati nel Dhi Qar.

Nel giugno del 2004, come d’accordo, ci fu il passaggio di poteri di sovranità tra la

CPA e il governo ad interim iracheno e quando il passaggio fu completato, e la CPA

smantellata, i militari di Antica Babilonia si ritrovarono con le mani legate, non

poterono più compiere arresti, perquisizioni, sequestri, se non su richiesta degli

iracheni. Nel frattempo, nell’aprile 2004, iniziò il lungo periodo delle elezioni. Un

percorso non semplice in una Paese che non votava da decenni, e che necessitava di

tutto l’aiuto possibile di sicurezza e vigilanza da parte del contingente italiano. Il 23

aprile 2004 iniziarono le elezioni, o meglio sarebbero dovute iniziare le elezioni nel

comune di Al Gherraf, a venti chilometri da Nassiriya, indette dalla CPA. Alle 8 di

mattina, però, all’apertura dei seggi ci fu un attacco. Gli stessi uomini di Moqtada,

quelli delle guerre dei ponti. Due giorni dopo, si riaprirono di nuovo i seggi, senza

alcun problema sta volta. Le elezioni comunali continuarono in tutto l’Iraq, anche con

la transizione di potere tra CPA e governo iracheno. Il 20 settembre 2004 toccò a

Nassiriya e, poi, il 30 gennaio 2005 il voto per l’Assemblea nazionale di transizione,

incaricata di scrivere la Costituzione del nuovo Paese. In tutto questo arco di tempo di

transizione e elezioni, appuntamento che ormai da decenni veniva negato agli Iracheni,

il compito dei militari di Antica Babilonia fu quello di creare e mantenere una cornice

di sicurezza adatta a far si che le cose si potessero svolgere in maniera il più possibile

tranquilla e senza grossi problemi. La Missione intraprese anche un’opera di

sensibilizzazione del popolo iracheno verso le elezioni, con la diffusione di un

giornaletto in arabo stampato dal contingente e manifesti affissi ai muri delle città. Nel

frattempo continuò anche la loro missione umanitaria, con la distribuzione di aiuti: nel

dicembre 2004 consegnarono circa 300 mila euro di apparecchiature mediche

all’ospedale di Nassiriya (Petrilli e Sinapi 2007, 120-121). La paura più grande in

questo clima di “riforme” per l’Iraq e di transizione, nonché di vulnerabilità, restarono

Moqtada e i suoi uomini. Eppure Khafaji, lo sceicco che insieme a Moqtada pianificò

le guerre dei ponti, dichiarò, in quel periodo, di essere favorevole a elezioni “libere,

sotto la supervisione dell’ONU, e non esorta più la jihad contro gli italiani, che giudica

diversamente dalle forze occupanti”, sostenne, inoltre, che il contingente italiano fu

una presenza diversa dall’occupazione americana, gli italiani infatti hanno voluto

gestire la situazione di crisi senza rimarcare differenze tra le due culture. Lo sceicco,

però, fu critico riguardo all’aiuto degli italiani alla popolazione del Dhi Qar: “E’ un

lavoro semplice e poco incisivo il loro, rispetto a ciò di cui avrebbe bisogno la gente.

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48

La popolazione sperava che i paesi europei sarebbero stati in grado di trasformare le

città in paradisi, […] ma l’impegno italiano è finalizzato a interventi di emergenza e i

fondi modesti e dedicati a progetti di entità molto distante da ciò di cui la provincia ha

bisogno” (Petrilli e Sinapi 2007, 122).

Il 30 gennaio 2005, giorno delle votazione per l’Assemblea a Nassiriya il voto si

svolse senza problemi. Il contingente italiano scelse di adottare il cosiddetto low

profile, nessuno controllo diretto dei seggi, su cui vigilarono circa 6000 poliziotti e

militari iracheni e nessuna ingerenza nelle operazioni di voto, ma una “presenza

visibile” per scoraggiare chiunque tentasse di disturbare le votazioni. Alle 17 i seggi si

chiusero senza alcun problema. Il 15 ottobre 2005 si svolse il referendum per

l’approvazione della nuova Costituzione, sempre con la supervisione a largo raggio del

contingente italiano, dove il ‘sì’ vinse per il 97,15% dei voti. Il 15 dicembre 2005

invece, le votazioni riguardarono le elezioni del nuovo Parlamento, anche qui gli

italiani furono impegnata in pattugliamenti fuori dalla città. Con il 2006 e il cambio di

governo in Italia, guidato da Romano Prodi, si mormorò di un ritiro alla “spagnola”:

infatti, i militari spagnoli, con la vittoria del presidente Josè Luis Zapatero, vennero

richiamati in patria da quest’ultimo, ed essi, facendo i bagagli in fretta e furia, avevano

abbandonato l’Iraq. La posta era alta: comprendeva la stima e la considerazione che gli

iracheni del Dhi Qar avevano verso gli italiani. Invece la transizione fu molto più

moderata: la brigata Garibaldi, che nei tre anni costituì il nocciolo duro della Missione,

guidata prima da Vincenzo Lops e dopo tre anni da Carmine di Pascale, ricevette il

compito, nei primi mesi del 2006, di chiudere Antica Babilonia. Il Governo Berlusconi

parlò di dicembre, Romani Prodi sostenne invece entro l’autunno. Il nuovo Governo,

inoltre, decretò di voler restare al fianco degli iracheni, ma con una sola componente

civile, senza mantenere un contingente militare, come invece auspicava il centro

destra. A quanto pare, però, nonostante la Missione stesse volgendo al termine, c’era

ancora molto da fare in Dhi Qar, le forze irachene ad esempio non avevano ancora

raggiunto la FOC, Full Operation Capability, ovvero la capacità di garantire sicurezza

alla provincia in modo autonomo (Petrilli e Sinapi 2007, 149). Per tutta l’estate del

2006 i militari di Antica Babilonia, furono impegnati nella supervisione dell’operato

delle forze di sicurezza irachene, con l’arruolamento intenso degli iracheni, per poter

garantire l’autonomia della proprio forze militari. Il 31 agosto 2006 iniziò il processo

di trasferimento dalle autorità italiane a quelle irachene. Da fine ottobre Antica

Babilonia si concentrò sulle operazioni di rimpatrio e nel loro compito di addestratori

di forze irachene vennero sostituiti dagli australiani. Il 1 dicembre 2006, dopo 1273

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giorni, si concluse la Missione Antica Babilonia.

Fonti ufficiali, tra cui il sito dell’Ambasciata italiana a Baghdad e quello della

Cooperazione esteri allo Sviluppo, sostengono che dopo la conclusione con successo

della Missione del contingente italiano in Dhi Qar nel dicembre 2006, l’Italia decise di

mantenere una presenza civile incaricata di sostenere le autorità provinciali nel

coordinamento delle attività di ricostruzione finanziate dal governo iracheno,

dall’Italia e da altri donatori. Infatti, “il graduale disimpegno”, annunciato dal Premier

uscente Silvio Berlusconi a fine del suo mandato, si concretizzò nell’arrivo a Nassiriya

nell’aprile 2006, di Ugo Trojano, uno dei maggiori esperti italiani di peacekeeping e

peacebuilding (Nicastro 2006, 253). Egli fu a capo della USR (Unità di sostegno alla

ricostruzione), che comprendeva personale italiano, americano, iracheno e di altri

Paesi. Le attività dell’USR si concentrarono nei settori agricolo, sanitario, energetico,

culturale, del capacity-building, dello sviluppo della piccola e media impresa e del

miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Fu progressivamente

crescente il coinvolgimento di responsabili iracheni nell’autorità provinciale, nonché

della società civile nella gestione delle attività dell’USR. Per la fine dell’anno fu

previsto che il cambio graduale e il rientro delle forze armate mutarono Antica

Babilonia in una Nuova Babilonia, dove la riduzione del personale in divisa avrebbe

creato uno spostamento di risorse dal settore militare a quello civile. L’Aps erogato nel

2007 all’Iraq, fu di 9.094,32 milioni di US $ in aiuti bilaterali,13

suddivisi per settori

come mostra il grafico qui sotto.

Aiuti bilaterali per settore (2006-2007)

Fonte: www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it

13

Dati OECD, 2007

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50

I principali paesi donatori per tali aiuti in forma bilaterale del 2007, furono: Stati Uniti,

Italia, Belgio, Canada, UK, Corea, Giappone, Svezia. L’Italia, quell’anno, destinò

l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo in Iraq e al sostegno dell’USR, ca. 44 milioni di dollari.

L’USR venne poi rinominata in PRT (Provincial reconstruction teams). In Iraq si

commesse un grave errore nel settore della ricostruzione civile; un errore, ammesso

dagli americani, che consistette nel modella CPA con interventi a pioggia, slegati fra

loro, condotti in prevalenza da personale militare, più portato a risolvere emergenze

che ad impostare programmi per priorità di settori (Trojano 2007, 2). Invece USR

prima e PRT poi, hanno permesso un coordinamento degli interventi a livello

regionale, cercando di impostare assieme agli iracheni programmi più coerenti nei vari

settori, senza troppe dispersione. “Purtroppo furono persi due anni cruciali per

riadattare gli interventi di ricostruzione civile e per rimediare ai guasti ereditati dalle

gestioni CPA” (Trojano 2007, 3).

Il 31 dicembre 2008, l'Iraq riacquisì la piena sovranità: tutte le responsabilità di

sicurezza furono trasferite al governo iracheno, che può a sua richiesta beneficiare del

sostegno delle forze americane destinate, sulla base degli accordi vigenti, a lasciare il

Paese alla fine del 2011.

3.1.1 Interventi della DGCS a Nassiriya e nella provincia del Dhi Qar

In seguito alla decisione dell’Italia di affiancare gli Stati Uniti nel progetto di

ricostruzione dell’Iraq e in seguito al mandato per Antica Babilonia, la DGCS

discusse un’ipotesi d’intervento da identificare e realizzare in stretto raccordo con il

nucleo misto civile-militare presente nella provincia del Dhi Qar con il compito di

svolgere funzioni civili a beneficio della popolazione. L’ipotesi di invio di una

missione tecnica della DGCS fu sottoposta al Ministro della Difesa, On. Antonio

Martino, e fu ritenuta importante e urgente, tanto che una missione della DGCS

composta di diversi funzionari si svolse dal 30/07/2003 al 12/8/2003 a Nassiriya e

nell’intera provincia, per poter raccogliere informazioni e presentare una proposta di

finanziamento con l’obiettivo di riedificare strutture e riabilitare quelle distrutte dal

conflitto.

Il primo settore su cui la DGCS si soffermò fu quello dell’agricoltura. Si ritenne che i

principali fattori che determinavano un insufficiente livello di produzioni agricole

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erano: un basso livello tecnologico e pochi input, un eccessivo sfruttamento dei suoli

che impoveriva la terra, tecniche colturali arretrate e un elevato livello di perdite post-

raccolta. Nella quasi totalità del paese e nelle regioni centro meridionali a clima

desertico l’unica forma di agricoltura possibile è quella irrigua; le aree coltivate nel

Dhi Qar ricevono l’acqua per gravità grazie ad un sistema di canal, dighe e

sbarramenti. Obiettivo principale della DGCS in quest’ambito, fu quello di

incrementare le produzioni agricole e sostenere il processo di rivitalizzazione del

settore, per la precisione si volle:

migliorare le condizioni di utilizzo di alcuni schemi irrigui della provincia di

Dhi Qar, riabilitando alcune infrastrutture; in particolare il regolatore di Al-

Akika, ubicato presso la città di Suk Ash Shuyukh,

sostenere i produttori agricoli con disponibilità di input agricoli essenziali; in

particolare si volle fornire sementi selezionate, fertilizzanti, antiparassitari e

attrezzi agricoli (irroratori a spalla, pompe idraluliche …)

rafforzare le istituzioni preposte alla gestione del servizio (Direttorato

Provinciale delle Risorse Idriche e dell’Agricoltura) con fornitura di

attrezzature d’ufficio e servizi tecnici.

Il secondo settore di competenza della DGCS fu quello sociale, in particolare sanità,

istruzione, infanzia, approvvigionamento idrico e igiene. La maggior parte delle

struttura scolastiche a tutti i livelli, anche la stessa Università di Nassiriya, versavano

in un alto stato di degrado. Scopo della DGCS fu quello di riabilitare fisicamente tali

infrastrutture con fondi della CPA e migliorare l’accesso ad alcuni servizi sociali di

base, a vantaggio della popolazione più emarginata. In particolare, la riabilitazione di

cinque strutture scolastiche ad opera del contingente militare italiano, con tutti gli

equipaggiamenti forniti (banchi, divise, lavagne, sedie, libri,…), di quella di tre

orfanotrofi, di cui uno femminile, e di quella di alcune aule universitarie con fornitura

di attrezzature necessari.

Ulteriore settore, fu quello sanitario. La situazione sanitaria nella Provincia del Dhi

Qar fu influenzata dal collasso dell’amministrazione pubblica e dai problemi di

sicurezza. Prima della guerra, il governo centrale organizzava e dirigeva il sistema

sanitario pubblico in Iraq, che a livello provinciale richiedeva, però, tariffe per i servizi

sanitari prestati in base al reddito. In seguito, la CPA stabilì nuove forniture di servizi

sanitari di base a titolo gratuito, causando il sovraffollamento delle strutture sanitarie

che avevano però una ridotta capacità di erogazione. Per contribuire ad alleviare

questa situazione la DGCS dispose l’invio di: nove kit sanitari di emergenza, per

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52

trattare ca. 50.000 casi, due unità di purificazione dell’acqua, cinque serbatoi di

stoccaggio dell’acqua potabile e trecento taniche per il trasporto acqua.

La città di Nassiriya è servita da due ospedali, uno Generale e uno Materno Pediatrico.

La DGCS si impegnò per una piano di riedificazione di entrambi con riabilitazione

fisica e importazione delle attrezzature sanitarie necessarie nei vari reparti.

Infine, la DGCS si impegnò nel settore idrico, con l’obiettivo specifico di migliorare

l’accesso e la disponibilità di acqua potabile in trenta villaggi localizzati nei distretti di

Suq Ash Shuyukh e di Al Gibaish e riattivare i sistemi di approvvigionamento idrico

potabili. Le attività previste consistevano nella fornitura di piccole attrezzature

(contenitori per l’accumulo di acqua in condizioni igieniche), kit per la clorazione,

costruzione di semplici strutture per attingere acqua.

La DGCS decretò che tali proposte sarebbero dovute arrivare a compimento entro 12

mesi, con l’invio in missione di esperti interni alla DGCS, capo progetto e

amministratore-logista e, considerata la natura multisettoriale dell’intervento, esperti

esterni, specialisti nei diversi settori.

Durante i tre anni di Antica Babilonia gli esperti civili lavorarono su tali obiettivi, ma i

12 mesi previsti non furono sufficienti, tant’è che oggi continua ad esserci assistenza

alle popolazioni della provincia di Dhi Qar, sul fronte dell’agricoltura, della sanità e

del settore idrico, grazie al canale di aiuti bilaterale Italia-Iraq.

3.2 Le critiche all'ingerenza umanitaria occidentale e alla missione italiana:

Danilo Zolo e Andrea Nicastro

La Missione Antica Babilonia, oltre ad essere tutto ciò che si è appena visto, fu ricca

di ulteriori sfaccettature e sfumature da non sottovalutare. A questo punto del lavoro si

può dire, da quanto visto, che gli interventi umanitari non sono cosa semplice, né

tantomeno senza controversie, come si potrebbe comunemente pensare e non sempre i

risultati sono quelli attesi. Assunto ciò, si deve prendere in considerazione la parte

“non detta”, ideologie e scopi che non hanno niente a che vedere con l’umanitarismo.

L’altra faccia della medaglia, insomma.

Una delle più grandi critiche ad Antica Babilonia, fu quella della ricerca del petrolio.

Un articolo de ‘la Repubblica’ del 13 maggio 2005 sostenne che l’oro nero centrava

eccome: un’inchiesta di Sigfrido Ranucci14

rilevò l’importanza di tale risorsa per il Bel

14

Sigfrido Ranucci, inviato per Rai News 24, ha realizzato numerose inchieste sul traffico illecito di rifiuti, sulla mafia

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53

Paese e la dislocazione per niente casuale del nostro contingente nella zona del Dhi

Qar, zona desertica, ma ricca di petrolio. Ranucci, a tal proposito, intervistò anche il

sottosegretario alle Attività Produttive, Cosimo Ventucci, che sostenne, che dopo aver

preso parte ad una missione così onerosa e rischiosa, che male c’è se infondo ce ne

viene qualcosa, salvaguardando così l’andamento dei nostri affari petroliferi,

definendola una “scelta intelligente”. Probabilmente sarebbe stato sufficiente

ammettere che le ragioni del petrolio erano tanto più importanti di quelle umanitarie,

logica denunciata anche da Marco Calamai, che lavorò per Antica Babilonia come

governatore di Nassiriya per un periodo: “Ho cercato di occuparmi di progetti di

ricostruzione, ma la ricostruzione non è mai veramente partita. L'America esporta la

democrazia a parole, in effetti ne ha impedito la crescita dal basso". Non a caso,

Calamai dopo la strage del 12 novembre 2003, scrisse un articolo di fuoco sulle

colonne dell’Unità e annunciò le sue dimissioni, che scatenarono un putiferio in Italia,

dove il centrosinistra approfittò di tale denuncia per rimarcare la propria posizione

contro la permanenza del contingente in Iraq (Angeli 2005, 282-283).

La stretta collaborazione e discesa in campo a fianco degli Stati Uniti di George Bush,

condizionò seriamente l’opinione pubblica. L’allora ministro della Difesa americana,

Donald Rumsfeld, spiegò nella primavera del 2003, che la democrazia, si sa, “può

essere un po’ disordinata”. Come se i 150, o 200 mila, o chissà quanti iracheni

ammazzati dopo le luminose giornate della liberazione fossero paragonabili alla stanza

del figlio dove sono sparsi in giro libri, cd e vestiti. Occorsero tre anni e mezzo,

cataste di cadaveri, camionate di soldi e una stangata elettorale subita dal partito

repubblicano al potere nel novembre 2006 perché i geni compresi della guerra di

civiltà si accorgessero che Rumsfeld “era in realtà un colossale minchione e i suoi

collaboratori erano peggio di lui” (Zucconi 2008, 9). Accanto a Rumsfeld, non si

dimentichi Paul Wolfowitz, il vero cervello dell’operazione “cambio regime in Iraq”,

che davanti al Parlamento nel 2003 garantì che il costo per l’intervento in Iraq sarebbe

stato massimo di 20 miliardi di dollari. Cinque anni dopo si arrivò a 1000 miliardi

spesi, con un preventivo possibile di 3000 miliardi (Zucconi 2008, 25). E’ bene

ribadire che il nostro Paese, l’Italia, scese al fianco di Rumsfeld, Wolfowitz e quanto

appena esposto.

L’Italia decise di affidare ai nostri soldati il compito di preservare ordine pubblico e

benessere dell’Iraq occupato. In pratica, il contingente italiano permise semplicemente

e sull’utilizzo di armi non convenzionali. Ha trovato l'ultima intervista al giudice Paolo Borsellino e denunciato

l’uso del fosforo bianco in Iraq da parte degli Usa. Dal 2006 fa parte della squadra di Report. Ha vinto diversi premi

per le sue inchieste, tra cui per due volte il Premio Ilaria Alpi.

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alle truppe Usa di ridurre la loro presenza a Nassiriya e concentrarla dove ce n’era più

bisogno, dove ancora si combatte, pur parlando di “post-conflitto” (Nicastro 2006, 50-

51). Lo stesso Nicastro sostiene che per quanto se ne dica, abbiamo agito da potenza

occupante, perché ci siamo assunti la responsabilità che la Convenzione di Ginevra

attribuisce a chi ha invaso. Siamo stati di fatto i supplenti facenti funzione, il solito

fanalino di coda degli Usa, che non possono che esserci grati, per quanto abbiamo

fatto e per la responsabilità assunta nel mantenere l’ordine anche con l’uso della forza.

Grandi polemiche per la superpotenza americana, che utilizzò ufficialmente e senza

problemi la formula occupation forces, tradotto in italiano con “truppe di

occupazione”. Gli stessi iracheni ne furono consapevoli e molti intolleranti, tanto che

non furono inusuali scritte che imbrattavano muri e fuoristrada occidentali con la

scritta okupatori (Angeli 2005, 261). Non solo, la forza occupante americana costruì

un ‘grande macchinario di democrazia’: alla base si trovavano i comandanti militari

delle unità distaccate nei vari quartieri di Bagdad, un gradino sopra c’era l’UsAid o le

altre società appaltatrici della ricostruzione con i progetti umanitari, economici,

culturali e politici. In cima alla piramide si trovava Bagdad Central, ovvero il

municipio formato però da funzionari del Dipartimento di Stato di Washington che

amministrarono il Paese per conto di Paul Bremer, capo della CPA. A quanto pare

questo tipo di nation building, partendo dalle radici avrebbe trasformato l’Iraq in un

nuovo Paese democratico, come annunciò il presidente George W. Bush (Nicastro

2006, 96). Nella realtà dei fatti, lo studio di Nicastro evidenzia come il primo livello

dei militari fu insufficiente e il secondo del tutto evanescente. Le Ong, che avrebbero

dovrebbero muoversi a questo livello, facevano fatica a farlo: troppi attentati e nessuna

struttura o infrastruttura. Le Ong che invece operavano a Bagdad da tempo (Un ponte

per …, Intersoso, Cesvi) e che avevano contatti, personale preparato, referenti ed

esperti, rifiutarono di sottoporsi alle direttive militari. La governativa UsAid era,

invece, un’agenzia lenta e senza le giuste conoscenze di Bagdad, né tantomeno

dell’Iraq, tanto da rendere del tutto inutile il secondo livello. Così, fu molto più facile

distribuire pacchi di aiuto alimentari con la bandiera americana sopra, piuttosto che

riattivare una linea di autobus, dovendo aver a che fare con regole, competenze,

municipi e autisti. L’Iraq, però, non era, come non lo è oggi, un paese del Terzo

Mondo felice di ricevere biscotti. Ha autostrade a tre corsie, ospedali dove prima

dell’embargo si facevano trapianti di cuore e università con professori abituati a

viaggiare per il mondo, ma da trent’anni la produzione è praticamente nulla e,

dall’arrivo delle truppe Usa, sballottato fra una promessa e l’altra. Il primo

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“governatore” americano Garner sostenne nel 2003: “In tre mesi l’Iraq andrà alle

elezioni e noi saremmo pronti ad andarcene”. Il secondo “governatore” Bremer, non

fissò alcuna data, ma sostenne una transizione lenta e l’idea che il governo della CPA

sarebbe stato destinato ad essere rimpiazzato da un governo iracheno

democraticamente eletto (Nicastro 2006, 100).

La CPA era il terzo livello della ‘grande macchina democratica’ statunitense. Un caos

allo stato puro. La Coalizione, ma è più realistico parlare di americani, controllavano

soldi, ordine pubblico, procedure e risultati, per lo più desolanti. Nonostante la lenta

transizione senza tempo di cui parlava Bremer, nel novembre 2003, dopo un incontro

con il Presidente George Bush, Bremer comunicò alla CPA che avevano solo sette

mesi per finire il lavoro e fare i bagagli. Un’accelerazione che penalizzò i programmi

fatti, che andavano rivisti in tempi più brevi, o nella maggior parte dei casi,

abbandonati a metà a causa del poco tempo.

Il contingente italiano di Nassiriya, i cui molti progetti dipendevano dalla CPA e dai

finanziamenti di questa, non ebbe le stesse possibilità che, ad esempio, avevano gli

americani a Bagdad. Qui i progetti di ricostruzione ebbero a disposizione molti più

finanziamenti rispetto a Nassiriya. Il capitano Vincenzo Lops dichiarò che al loro

arrivo nel Dhi Qar c’era un unico funzionario americano della CPA, che chiaramente

non riusciva a sobbarcarsi tutto il lavoro. Così gli italiani surrogarono il lavoro

americano: legge, ordine pubblico ed infrastrutture erano di competenza diretta della

CPA, ma queste forze praticamente non esistevano lì, così il contingente italiano si

prese la responsabilità della ricostruzione di diverse strutture. Assunse 1060 operai

generici di Nassiriya e acquistò il materiale sul mercato locale, per sistemare

marciapiedi, fognature e lampioni, nonché edifici scolastici. Viste le premesse però, i

risultati non sarebbero potuti essere soddisfacenti. Cinque scuole risistemate su 950 in

tutta la provincia. In questo episodio si evidenzia la prima critica mossa al contingente:

i militari sono inadatti a gestire l’aiuto umanitario per la ricostruzione, perché non è il

loro lavoro e perché la loro priorità rimane quella dell’auto-protezione, che

inevitabilmente influisce sulla programmazione degli interventi. Oltretutto una dei

gravi errori degli Usa a guida della Coalizione dei volontari, fu quello di voler

sostituire l’amministrazione di un Paese di ventisei milioni di abitanti con qualche

“impact project” e con la CPA, struttura organizzata in cinque settimane, con personale

che non aveva mai lavorato insieme, tanto meno per un Paese di cui non conoscevano

niente, come l’Iraq (Nicastro 2006, 105).

Zolo nel suo studio, fa un passo indietro rispetto a Nicastro, per avere una prospettiva

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migliore e globale. Egli rivisita completamente la nozione del terrorismo islamico,

leggendolo con un altro punto di vista e deprecando le guerre “umanitarie”, crociate

occidentali per “esportare democrazia”.

Innanzi tutto egli parla di terrorismo non come fondamentalismo religioso, ma come a

quello che viene percepito come uno stato di occupazione del proprio paese (Zolo,

2009, 28). Per “occupazione militare” si intende le presenza invasiva e la pressione

ideologica di una potenza straniera. Il quadro sintetico e sconcertante che Zolo fa

all’interno dei suoi saggi, riguardo all’ingerenza umanitaria occidentale, dell’invasione

statunitense in Iraq nel 2003 in particolare, non è niente di buono. A partire dal fatto

che, l’intervento Usa e dei loro alleati, quindi anche Italia, non fu autorizzato dal

Consiglio di Sicurezza e vennero giustificati come interventi “militari preventivi”, o

anche interventi umanitari che in realtà mirarono a controllare militarmente il Medio

Oriente, e allo stesso tempo, un grande bacino di risorse energetiche fino ad arrivare

alle falsificazione che motivarono l’intervento, l’utilizzo dei mezzi di distruzione di

massa, le grandi stragi di civili nel corso delle prime settimane di aggressione.

L’occupazione militare del paese, la depredazione delle risorse energetiche, nella

fattispecie il petrolio, di cui si è già parlato anche per l’Italia, il diretto controllo di

funzionari di Washington delle strutture politiche e giudiziarie dello Stato Iracheno e

lo sterminio di civili realizzato con l’uso del napalm e del fosforo bianco nella città

irachena di Falluja, nel novembre 2004, furono altri tra gli aspetti tentati di mettere a

tacere (Zolo 2010, 39-40). Il fosforo fu utilizzato dalle forze armate Usa

indistintamente nei quartieri della città, senza possibilità di testimonianza giornalistica,

impedita dai comandi statunitensi15

.

Ulteriore critica che fa Zolo, e su cui c’è una vera a propria reticenza delle potenze per

salvaguardare quello di che umanitario resta, sempre che resti qualcosa, fu l’uso

incondizionato e sconsiderato degli strumenti bellici. Anzi, se possibile il paradosso: in

una “guerra umanitaria”, non esiste alcuna limitazione “umanitaria”, infatti tali

conflitti servirono per sperimentare nuovi sistemi d’arma, sempre più sofisticati e

terroristici, dalle cluster-bombs, proiettili di uranio impoverito, alle bombe daisy-

cutter, cosiddette bombe taglia-margherite. Anche il processo di strumenti retorici e

propaganda buonista che presentarono la guerra come principale strumento per la

tutela dei diritti dell’uomo (Zolo 2009, 76) sono frutto di un’idea ormai radicati in

Occidente di giustizia, ma in realtà è un’ottica deformata, di vero e proprio “terrorismo

15

Fu sempre Sigfrido Ranucci ha realizzare l’inchiesta Falluja. La strage nascosta per Rai News 24 grazie a

testimonianze di ex militari statunitensi. Tale inchiesta valse tre Premi al giornalista, tra cui il Premio Colomba d’oro

per la Pace, assegnato da Rita Levi Montalcini

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umanitario”. La guerra terroristica globale si sta combattendo da una parte e dall’altra,

non possiamo chiamarci fuori e tanto meno “umanitari” in questo clima di indifferenza

con migliaia di morti civili e non. Anche la questione della giustizia e della legalità

usata dalle forza occupanti in Iraq lasciò molto a desiderare. Il processo al dittatore

iracheno ne fu la prova tangente. Il tribunale voluto dagli Usa per il processo a

Saddam e collaboratori, fu un tribunale che esercitò la giurisdizione in modo

retroattivo e tra l’altro basata su reati non previsti dalla legislazione irachena. Grandi

distorsione nelle procedure, date da fatto che gli Usa rifiutarono la giurisdizione

penale internazionale delle Nazioni Unite. È interessante come Zolo non manca mai di

sottolineare nel suo studio (Zolo 2009) l’impunità del Presidente George W. Bush e dei

capi di Stato o di Governo delle maggiori potenze occidentali, “macchiati

dell’assassinio di migliaia di persone innocenti nel corso di guerre e aggressioni. Essi

sono responsabili di un numero elevatissimo di crimini, che comprendono i maggiori

delitti previsti dai codici penali. Si tratta di quel genere di comportamenti delittuosi

che se commessi su scala ridotta nel paese della famiglia Bush – in Texas –

garantiscono un biglietto di sola andata verso l’iniezione letale” (Zolo 2009, 127).

Conclusioni

Difficile, se non impossibile, che una missione umanitaria dal secondo dopoguerra ad

oggi, cioè con la nascita della Cooperazione e degli Aiuti allo Sviluppo, venga svolta

senza critiche e solo con beneplaciti. Ancora più complesso capire, e far capire,

all’opinione pubblica se e quali sono gli interessi che si celano dietro alle missioni, e

che cosa sta realmente accadendo nel mondo. L’interconnessione globale di economia

e comunicazioni, si è trasformata anche in un “terrorismo globale” o peggio ancora in

un “tramonto globale”, come suggerisce Zolo (Zolo 2010), ovvero diritti umani,

democrazia e pace stanno tramontando fra le fitte nubi della globalizzazione e delle

guerre terroristiche. Allo stesso tempo, stare dalla parte dei “costruttori” di pace e della

riabilitazione di un Paese non è semplice. Non lo è a livello locale, figurarsi a livello

internazionale, dove intervengono più presenze, dove c’è per natura, una potenza

dominante, dove forse non ci si è resi conto che la cooperazione non è solo regalare.

Antica Babilonia è stata una di quelle missioni che hanno suscitato consensi e dissensi

nel nostro Paese, probabilmente dopo il 12 novembre ha creato più dissensi in

un’opinione pubblica male informata che si basava solo sulla logica comune, senza

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intravedere sfumature, doveri e diritti a livello internazionale. Il contingente ha tentato

di instaurare un rapporto di fiducia con la popolazione, ma era pur sempre un

contingente militare che di ricostruzione aveva ben poco in mente. La DGCS stilò un

programma di riedificazione di settori chiave quali agricoltura, sanità e settore sociale,

tali da poter in breve tempo far tornare operativa la provincia del Dhi Qar e,

nonostante non se ne senta più parlare, anche oggi la DGCS lavora in questi settori in

Iraq a sostegno delle popolazione. Infine, non mancano le critiche puntuali ad Antica

Babilonia: l’interesse per il bacino petrolifero del Dhi Qar, la sicurezza del

contingente italiano in Iraq, l’alleanza con gli Usa e la disorganizzazione degli

interventi da parte della CPA, nonché le “maschere” di intervento umanitario e

preventivo contro il Medio Oriente, dove le guerre causate dagli occidentali parlano di

aiuto e mietono vittime, parlano di legalità con processi ineguali, e parlano di diritti

umanitari tirando bombe.

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Conclusioni generali

La Politica di Cooperazione allo Sviluppo esiste ufficialmente ormai da quasi 60 anni,

e per quanti passi siano stati fatti, il mondo oggi conosce ancora una quota immensa di

popolazione povera, malnutrita, senza acqua, senza cibo, senza medicine e lavoro. Si

sono visti i progressi che gli otto Obiettivi del Millennio stanno facendo e

probabilmente si può concludere che le Nazioni Unite, dopo diversi anni di rodaggio,

hanno intrapreso una precisa Politica di Cooperazione allo Sviluppo, con termini, con

resoconti annuali e risultati verificabili. Questo non sarà sufficiente ad equilibrare

l’ago della bilancia però. Un ago sempre più dalla parte dei ricchi, soprattutto quando

nei conflitti gli aiuti portati creano più problemi e complessità che benefici. Quando

gli interessi economici non lasciano il passo ad un mondo più equo, quando i miliardi

di aiuti finanziati e inviati, grazie al canale bilaterale o multilaterale che sia, vengono

sperperati e utilizzati in maniera errata, distorta a creare solo una sempre più grande

dipendenza. E la Politica di Cooperazione allo Sviluppo nei conflitti è in crisi oggi più

che mai, l’abbiamo visto nel caso dell’Egitto, lo guardiamo tutti i giorni nel caso della

Libia. L’unico conforto negli shock conflittuali sono le piccole e medie ONG, che

stabili in alcuni territori ormai da anni, portano avanti progetti di medio e lungo

periodo, con le giuste conoscenze e risorse. Le forze impiegate sui campi di conflitto

purtroppo non mantengono mai, o quasi mai, l’imparzialità e la buona volontà dei

governi di ricostruire la pace, si fa sempre raggirare da interessi economici e accordi

fra potenti, che poche volte trovano le giuste denuncie e quasi mai l’indignazione

necessaria della gente. Per quanto riguarda il caso dell’Iraq la buona riuscita della

Missione non è verificabile con la ricostruzione di cinque scuole e il risanamento di un

paio di ospedali. Quante volte ancora i nostri interessi ci attireranno in Iraq? E quando

mai alla popolazione sarà data la possibilità di tornare ad essere Nazione vera, senza

scadere nella banale equazione: Iraq uguale islamismo uguale terrorismo?

A mio parere, la nostra opulenza ci sta bene così com’è. Certo è, coloriamo i nostri

balconi con le bandiere della pace, ma facciamo in modo che i clandestini libici se ne

tornino da dove sono venuti. L’invasione, vera e propria invasione dell’Iraq,

inizialmente americana e poi, per mandato ONU, di molte altre potenze occidentali e

ricche, ha destabilizzato la situazione in Iraq, creando istituzioni politiche evanescenti

e slegate dal territorio, e da saccenti occidentali abbiamo ben pensato di poter

ricostruire e riappacificare un Paese, di cui prima della guerra sicuramente ignoravamo

anche la capitale. Per l’America, dell’allora Presidente George Bush, cimitero significa

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vittoria, occupazione diventa liberazione, tortura diventa “tecnica progredita di

interrogatorio”, uno strazio di morti e agguati che va avanti da oltre cinque anni

diventa una “missione compiuta”, e ovviamente guerra diventa pace. L’intento

dell’America era proteggersi dal terrorismo islamico, sempre che il terrorismo sia solo

islamico, per altro con la buffa idea di una guerra preventiva, una guerra, cioè, fatta

per evitare la guerra.

La conclusione del lavoro mostra una teoria infallibile, una grande potenziale delle

forze di peacekeeping e pece-building e dei metodi illustrati, ma la realtà, la maggior

parte della realtà è tanto diversa, ricca di ombre. E probabilmente del buono che c’è

nella Cooperazione le principali fonti di informazioni non si scomodano a parlarcene.

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www.un.org - Sito dell’ONU

www.volontariatoggi.info - Sito del web magazine “VolontariatOggi.info” di

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www.worldmapper.com - Sito che divide le mappe mondiali in diverse

categorie a seconda del parametro preso a riferimento