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Tesi di specializzazione in psicoterapia
Esperienzialità musicale: ritmicità corticale e potenzialità terapeutica nell’ approccio
integrativo
Candidato: Francesco Giorgi, Istituto di Psicoterapia Integrata
Relatore: Ezio Menoni
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Indice
Introduzione
Cap.1: Ritmo, evoluzione e integrazione
1.1. Radici evolutive del ritmo
1.2. Immaginare, pianificare e muoversi attraverso la musica
1.3. Percepire ed integrare i contorni musicali
1.4. Terapeuticità musicale
Cap.2: Musicalità, sincronicità e terapeuticità
2.1. Musicalità, emozione e linguaggio
2.2. Sincronia neurale e sviluppo corticale
2.3. Ritmi cerebrali e nuovi approcci al trattamento
2.4. La terapia della percussione
Cap.3: Moderati effetti della musica sulle reti resting
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Cap.4: Esperienzialità musicale e terapeuticità
3.1. Musicoterapia in carcere: il ritmo della reclusione
3.2. Musicoterapia a scuola: il ritmo dell’innocenza
Cap. 5: Relazione fra modello integrativo e terapeuticità musicale
Conclusioni
Bibliografia
“A mia nonna Elda che da sempre protegge ed illumina il mio cammino”
“Il ritmo e la risonanza regolano il mondo naturale. La dissonanza e la disarmonia
compaiono solo quando limitiamo la nostra capacità di entrare completamente e
totalmente in risonanza con i ritmi di vita” (Friedman & Lawrence, The Healing
power of the Drum, 2000).
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Introduzione
La musica con i suoi ritmi e melodie ha scandito, fino ad oggi, le tappe della mia
crescita, come una colonna sonora, assumendo, con l’andare del tempo, forme e
tonalità differenti, a seconda delle vicende di vita vissute, delle persone incontrate,
dei contesti ambientali e, nondimeno, del mio stato interiore, intrecciato da emozioni,
sentimenti e pensieri che mi hanno recato gioia e dolore, piacere e disperazione,
allegria e malinconia. Sono convinto che, quando crescevo nella pancia di mia
madre, potevo udire la musica prodotta dal battito del suo cuore, il suo respiro e i
continui gorgoglii del corpo dove ero immerso. Potevo udire le prime canzoncine
che dedicava a me carezzandosi la pancia e quelle che ascoltava alla radio. Anche lei
ama la musica e questo, accompagnato da una buona dose di affetto materno, ha fatto
sì che, gradualmente, venisse assorbita dal mio corpo incanalandosi attraverso i miei
sensi nei meandri delle reti neurali che si diramano nel cervello per terminare il
proprio viaggio in un luogo non ben definito che uso chiamare anima. Credo che
l’anima musicale rappresenti un punto di partenza essenziale per poterci mettere
nella condizione di connettersi agli altri, formando dei ponti comunicanti, dove le
parole lasciano spazio ad un linguaggio arcaico, primitivo, fatto di suoni e vibrazioni
prodotti da due o più corpi risonanti. La musica fa parte della storia dell’uomo sin da
epoche remote contribuendo, attraverso articolazioni fonemiche e significati a
complessità crescente, all’evoluzione della specie umana. E’ proprio nel contesto
relazionale che le configurazioni ritmiche musicali contribuiscono a dare un senso
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alle cose, creando comunicazione fra gli individui attraverso la stimolazione dei
canali percettivi e dei processi deputati all’attenzione, alla percezione e al
movimento innescando così un’ampia varietà di reazioni emozionali. Ricerche
recenti di carattere neuroscientifico mettono in evidenza la capacità, insita nella
musica, di sollecitare i circuiti cerebrali connessi con l’elaborazione del linguaggio e
con le aree corticali deputate al movimento e all’ immaginazione. Da qui ne derivano
le sue potenzialità terapeutiche che aprono ulteriori spazi alla ricerca sia per la cura
di alcune malattie neurodegenerative come il Parkinson e l’Alzheimer che per il
trattamento di deficit psicologici come l’autismo e la schizofrenia. La musica ha la
capacità di mettere in relazione le persone servendosi di un canale preverbale
attraverso il quale la persona riesce ad integrare nel presente memorie, affetti,
intenzioni e motivazioni che circoscrivono il senso di sé. Essa consente alla persona
di connettersi al proprio sé e di ritrovare un senso di identità qualora la componente
cognitiva risulti deficitaria. E’ in grado dunque di integrare i sistemi deputati alla
percezione, all’attenzione, alla motivazione, alla narrativizzazione con quelli
responsabili del movimento e della pianificazione grazie a determinate sequenze
ritmiche che favoriscono l’andamento e le connessioni fra le reti corticali. Queste
ultime viaggiano su sequenze ritmiche ben definite e rispondono in modo diverso, a
seconda della tipologia (alfa, beta, gamma etc.), allo stimolo ambientale proveniente
dall’ambiente. Contributi clinico-teorici dimostrano come le reti a modalità resting,
incluse quelle a modalità default, risultino attive durante l’ascolto musicale
favorendo, grazie all’attivazione di determinate aree corticali a cui sono connesse,
come l’insula e l’ipotalamo, un effetto rilassante ed una maggiore introspezione della
persona. Determinante risulta essere il contesto in cui avviene la comunicazione
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musicale; è fondamentale che siano preservate le condizioni di sicurezza e di
protezione in base alle quali la persona possa usufruire del beneficio della vibrazione
musicale. La presenza di un “caregiver” stabile e sintonico, dotato di un’anima
musicale, è in grado, grazie alla propria esperienza con la musica di stabilire
relazioni intersoggettive con una o più persone favorendone crescita e
autoriparazione. Evidenze di stampo terapeutico dimostrano come alcune esperienze
di musicoterapia come i “drum circles” (circoli di percussione) abbiano potenzialità
terapeutiche rilevanti grazie soprattutto all’ambiente co-creato dalle persone che
compongono il gruppo, dalla qualità della relazione sviluppata con chi si prende cura
di loro e della sincronicità ritmica che si crea all’interno del gruppo. Esperienze di
questo genere si possono effettuare in vari contesti ambientali compresi quelli in cui
la coercizione e la violenza da un lato ed il diritto ad una risocializzazione dall’altro
dovrebbero nel primo caso essere estinte e nel secondo essere a garanzia della
persona. Mi riferisco all’esperienza personale effettuata con gli uomini e le donne
reclusi all’interno di un carcere dove ho effettuato alcune esperienze di carattere
terapeutico servendomi della musica e del ritmo delle percussioni. L’altra esperienza
significativa di carattere musicoterapeutico è stata realizzata presso una scuola
elementare del Comune di Scandicci a Firenze con un gruppo di bambini di seconda
elementare. Tale progetto è stato rivolto ad una bambina che soffriva di violenti
attacchi epilettici e che non aveva la capacità di esprimersi a parole anche se è
riuscita benissimo a comunicarmi parte del suo vissuto interiore proprio grazie alla
musica ed ai suoi ritmi primordiali fra scambi affettivi e sguardi così densi di
significato che porterò sempre con me.
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CAP.1 “RITMO, EVOLUZIONE E INTEGRAZIONE”
1.1. Radici evolutive del ritmo
La musica fonda le proprie radici in epoche antecedenti la comparsa dell’uomo sulla
Terra. Le specie animali si sono evolute anche grazie alla capacità di produrre
differenti sequenze di suoni che ne hanno consentito crescita ed adattamento
all’ambiente di vita. Pensiamo alle molteplici sonorità emesse dalle varie tipologie di
uccelli, felini, rettili, primati etc. volte alla delimitazione del territorio, al richiamo
dei partner per l’accoppiamento, alla cura della prole e al procacciamento del cibo. I
primati si sono serviti di proto-vocalizzazioni per formare i primi clan, creare
momenti di aggregazione sociale e sviluppare difese dai pericoli circostanti. La
musica ed i suoi ritmi hanno consentito lo sviluppo di facoltà sociali e cognitive
sempre più complesse consentendo, nell’uomo, la maturazione di aree cerebrali
deputate alla produzione del linguaggio espressivo. Ciò è avvenuto grazie all’utilizzo
di suoni sempre più articolati combinati alle gestualità, ai movimenti e alle mutevoli
conformazioni del volto e della postura. Alcune ipotesi rivelano come la musica e il
linguaggio abbiano origini comuni e che una caratteristica della mente neandertaliana
fosse proprio una combinazione di proto-musica con il proto-linguaggio. Una sorta di
linguaggio cantato fatto di significati ma senza singole parole così come le
intendiamo noi, HMMM (olistico, mimetico, musicale, multimodale) che poteva
dipendere dall’unione di capacità isolate fra cui le abilità mimetiche e l’orecchio
assoluto segni di memoria collettiva di un passato umano più musicale (Mithen,
2005). Lo stesso pianeta Terra può essere considerato come una “creatura musicale”,
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crono-biologicamente sincronizzata e caratterizzata da ritmicità variabili che
contraddistinguono un ambiente da un altro. Ipotesi di stampo evoluzionistico
considerano il pianeta Terra come un essere vivente la cui evoluzione è garantita
dall’equilibrio esistente fra i parametri chimico-fisici degli oceani, dei mari, della
crosta terrestre, dell’atmosfera etc. e dall’azione degli organismi vegetali ed animali.
Tali parametri come la salinità, l’acidità, l’ossidazione e la temperatura crescono e
decrescono in sincronia con il lavoro svolto dai numerosi organismi viventi che
popolano un certo ambiente. La capacità di ogni singolo essere vivente di connettersi
e sincronizzarsi all’habitat di cui fa parte è garantita dai processi di vita come la
respirazione, il nutrimento, la ricerca di compagnia e di protezione essenziali per la
crescita e l’autoconservazione in contesti variabili nel tempo (Loverlock, 2000). La
musica ed i suoi ritmi sono a loro volta i sottoprodotti di altri due tratti: i sistemi
motivazionali che ci fanno provare piacere quando percepiamo segnali legati a esiti
adattivi (sazietà, sesso, stima e ambienti ricchi di informazione) e il “know how”
tecnologico (il sapere come) per creare dosi purificate e concentrate di tali segnali.
Le nostre capacità musicali, almeno alcune di esse, sono rese possibili attraverso
l’uso, il reclutamento o la cooptazione di sistemi cerebrali già sviluppati per altre
funzioni. Questa ipotesi sarebbe coerente con il fatto che negli esseri umani e in altre
specie mammifere dotate di elevati livelli di complessità neurale, non esiste un
singolo “centro della musica”, ma si assiste al coinvolgimento di una serie di reti
corticali (Pinker, 1997). Questo consentirebbe di integrare e costruire i ritmi della
musica così come il timbro, l’ampiezza, l’armonia etc. servendoci di parti diverse del
cervello sincronizzate secondo modalità specifiche. Il ritmo è oggetto di una
rappresentazione cerebrale molto più distribuita. La sua rappresentazione interessa
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non solo l’emisfero sinistro, ma anche molti sistemi sottocorticali come i gangli
basali, il cervelletto ed altre aree (Hyde, 2006; Zatorre et al., 2006). Queste sono
comparse precocemente nell’evoluzione del cervello umano. Come un’orchestra
caratterizzata da vari strumenti che suonano all’unisono le reti cerebrali, come quelle
a modalità “resting”, riescono a sincronizzarsi ed a viaggiare su frequenze ritmiche
ben precise. Questo solleva questioni di natura teorico-clinica rilevanti.
Quale effetto a livello neurofisiologico si crea dall’ascolto di determinate
sequenze musicali? Esistono determinati ritmi intra ed interpersonali che
consentirebbero una migliore sincronizzazione delle reti corticali assicurando
all’uomo crescita e sviluppo? Perché alcuni ritmi risultano all’uomo fastidiosi o
laceranti mentre altri suscitano una sensazione di piacere?
Ancora non sappiamo in quale misura ciò sia dovuto alle caratteristiche intrinseche
della musica stessa (i suoi complessi disegni sonori intessuti nel tempo, la sua logica,
la sua forza, le sequenze indivisibili, i ritmi etc.) o se dipenda veramente da
particolari risonanze, sincronie, oscillazioni, sollecitazioni reciproche o retroazioni
nei circuiti neurali, che, avendo raggiunto alti livelli di complessità, si sviluppano su
molteplici livelli e sono alla base della capacità di percepire e riprodurre la musica.
1.2. Immaginare, pianificare e muoversi attraverso la musica
Intorno alla metà degli anni ‘90 studi compiuti tramite l’uso di tecniche a scansione
hanno dimostrato che immaginare la musica può indurre un’attivazione della
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corteccia uditiva di intensità quasi pari a quella prodotta dall’ascolto. Occorre
considerare cervello e orecchio come elementi di un singolo sistema funzionale a
doppio senso, in grado non solo di modificare la rappresentazione dei suoni nella
corteccia, ma anche di modulare i segnali in uscita dalla coclea (Micheyl, 1997).
Immaginare la musica stimola inoltre la corteccia motoria mentre immaginare l’atto
di suonare stimola la corteccia uditiva (Zatorre & Halpern, 2005). Quando prestiamo
attenzione a un suono o ci concentriamo su di esso, ne espandiamo temporalmente la
rappresentazione corticale e, almeno per uno o due secondi, quel suono diventa più
netto e chiaro. Studi compiuti analizzando il flusso ematico cerebrale rivelano come
la simulazione mentale dei movimenti attivi alcune delle stesse strutture neurali
necessarie all’effettiva esecuzione dei movimenti. In questo modo, l’esercizio
mentale sembra sufficiente, da solo, a promuovere la modulazione dei circuiti neurali
implicati nei primi stadi dell’ apprendimento di un’abilità motoria. Tale modulazione
dà luogo non solo a un netto miglioramento nell’esecuzione ma sembra favorire nel
soggetto l’apprendimento di ulteriori abilità con un esercizio fisico minimo. La
combinazione di esercizio mentale e di esercizio fisico porta a un miglioramento
dell’esecuzione più marcato di quello che si otterrebbe solo con il secondo (Pascual-
Leone, 2003). A supporto di questa ipotesi vi sono esempi di esperienze musicali
vissute in contesti di gruppo che hanno consentito un graduale recupero del
funzionamento motorio in persone colpite da malattie neurodegenerative come il
morbo di Parkinson, la sindrome di Tourette ed il morbo di Alzheimer.
Quali meccanismi neurofisiologici stanno alla base di questo fenomeno?
Ricerche affermano che i fattori legati all’aspettativa e alla suggestione possono
amplificare di gran lunga l’immaginazione musicale, producendo esperienze quasi
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percettive (Kraemer et al., 2005). La produzione volontaria, deliberata e consapevole
di immagini mentali coinvolge non solo la corteccia uditiva e motrice, ma anche le
regioni della corteccia frontale implicate nell’attività decisionale e di pianificazione.
Sebbene la produzione volontaria di immagini musicali non sia di facile accesso per
chi non è molto incline alla musica esiste tuttavia un livello involontario a cui è
possibile accedere con maggiore facilità. Un esempio di immaginazione involontaria
è rappresentato dall’esposizione intensa e ripetuta a un genere o a un brano musicale
particolare. Una volta che siamo esposti a stimoli musicali ripetuti e dotati di una
ritmicità costante nel tempo ci accorgiamo che una particolare melodia può essere
seguita con maggiore attenzione e riprodotta mentalmente (Sacks, 2007). Un
po’come fa il neonato quando sente cantare dalla propria madre la sua “ninna nanna”
preferita partecipando, ogni volta, con suoni, gesti e movimenti che esprimono
piacere ed interesse verso quella particolare melodia. La capacità di attenzione, come
cogliere un suono tenue ma significativo nell’ambiente, sembra dipendere, oltre che
da meccanismi esclusivamente cerebrali, dall’abilità nel modulare la funzione
cocleare. La capacità del sistema mente-cervello di esercitare un controllo efferente
sulla coclea può essere potenziata dall’educazione e da attività musicali come la
musicoterapia (Micheyl, 1997). Evidenze cliniche hanno descritto come i bambini di
sei mesi siano in grado di rilevare facilmente ogni genere di variazione ritmica; a
dodici mesi, però, questa gamma si restringe, sebbene la loro capacità di
riconoscimento divenga più acuta. A un anno di età i bambini rilevano più facilmente
le tipologie di ritmo a cui sono stati esposti in precedenza; imparano e interiorizzano
un insieme di ritmi appartenenti alla loro cultura. Gli adulti trovano ancora più
difficile percepire distinzioni ritmiche “estranee” (Hannon & Trehub, 2005). Studi di
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carattere neuro-scientifico rivolgono il proprio interesse verso le interazioni fra la
corteccia e il talamo, che ipotizzano essere alla base della “coscienza” o del sé, e, in
modo particolare ai gangli basali, che considerano essenziali per la produzione di
“action patterns” (moduli di attività) che servono a compiere azioni come farsi la
barba, suonare uno strumento, etc. Questi vengono definiti, a livello neurale, come
“motor tapes” (registrazioni motorie) e rappresentano l’insieme delle attività mentali
come la percezione, il ricordo e l’immaginazione. L’attività nei gangli basali è
continuamente in corso: i pattern motori e i loro frammenti sono eseguiti fra di essi e,
poiché fra questi nuclei esiste una strana connettività inibitoria rientrante, essi
sembrano funzionare come un generatore di rumore continuo e casuale di pattern
motori. Qua e là ciascuno di loro o una porzione sfugge, senza il suo evidente
correlato emozionale, finendo nel contesto del sistema talamocorticale (Llinàs,
2002). Questo spiegherebbe, in sostanza, il fenomeno per cui melodie legate a
memorie passate si ripresentino improvvisamente accompagnate dal contenuto
emotivo-affettivo che può spaziare dalla gioia alla tristezza, dal piacere fino al
dolore. Questo ci porta a pensare come la musica immaginata, agita e ricordata non
sia soltanto il frutto di un sistema nervoso altamente complesso ma che sia la musica
stessa ad avere in sé qualcosa di particolare: il suo ritmo e i suoi contorni melodici,
così diversi da quelli della parola; e la sua connessione particolarmente diretta con le
emozioni. In definitiva ascoltiamo in modo selettivo, con interpretazioni ed emozioni
diverse, ma le fondamentali caratteristiche musicali di un brano come il tempo, il
ritmo, i contorni melodici, il timbro e anche l’altezza assoluta, tendono a essere
conservati con straordinaria accuratezza.
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1.3. Percepire ed integrare i contorni musicali
La percezione non ha mai luogo esclusivamente nel presente, ma deve attingere
dall’esperienza del passato come un “presente ricordato” (Edelman, 1989). Tutti noi
abbiamo ricordi dettagliati del modo in cui le cose apparivano in precedenza alla
vista e all’udito; questi ricordi vengono poi richiamati per essere integrati con tutte le
nuove percezioni. Tali elementi variano a seconda che gli individui siano più o meno
inclini all’ascolto musicale; sicuramente l’immaginazione è poi reclutata a
completarle, soprattutto quando lo stimolo percettivo è limitato. In questo modo
vengono chiamate in causa l’esperienza e le conoscenze del cervello, come pure la
sua adattabilità e la sua elasticità (complessità). Ricordare la musica, ascoltarla o
suonarla è un’esperienza che ha luogo interamente nel presente come un processo
integrativo che raccoglie azioni quali il ricordare, l’immaginare, l’assemblare, il
ricostruire etc. in un atto intenzionale e progettuale che, attingendo dal passato, si
protende verso l’istante successivo. La ricerca ha dimostrato che le cosiddette
risposte al ritmo in realtà precedono il battito esterno. Noi le anticipiamo: cogliamo
gli schemi ritmici non appena li sentiamo e ce ne costruiamo dei modelli interiori
precisi e stabili (Levitin, 2006). Studi di carattere neuroscientifico si sono serviti
delle neuro-immagini funzionali per visualizzare il modo in cui attività come tenere
il tempo e seguire la pulsazione ritmica sono riflesse nel cervello. Le attivazioni
sensoriali e motorie derivanti dall’ascolto del ritmo o, più semplicemente,
dall’immaginare la musica, sono frutto di una integrazione reciproca fra la corteccia
motoria e i sistemi sottocorticali. In questo senso, l’ascolto del ritmo, che conduce ad
una integrazione del suono e del movimento, può assumere un ruolo importante nel
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coordinare e rafforzare i movimenti locomotori fondamentali (Chen et.al, 2006). La
musica è un’esperienza comunitaria che potrebbe far sì che un gruppo di persone
possano connettersi a livello neurale grazie al ritmo non solo udito, ma interiorizzato,
in modo identico, da coloro che prendono parte all’esperienza musicale (Storr, 1992).
Le configurazioni ritmiche proprie della musica trasformano gli ascoltatori in
partecipanti: fa dell’ascolto un processo attivo e motorio che interconnette i sistemi
motivazionali (ricerca, paura, pericolo, rabbia, gioco, desiderio sessuale, cura verso i
piccoli, stress da panico/separazione e gioco) con quelli affettivi e relazionali volti
alla ricerca del piacere, alla cooperazione e all’attaccamento/accudimento (Panksepp,
1998, 2009). Il ritmo possiede una capacità integrativa e sopra-modale in grado di
auto-rinforzarsi tramite un’azione congiunta e coordinata dei sistemi percettivi,
affettivi e motori. E’ stato ipotizzato che esso abbia un ruolo unico in relazione alla
“mimesi” che corrisponde alla facoltà di rappresentare emozioni, eventi esterni o
storie utilizzando solo gesti e posture, movimenti e suoni, ma non il linguaggio, così
come facevano in epoche remote le scimmie antropomorfe (Donald, 1991). Nel
sistema nervoso questo legame viene realizzato mediante la rapida scarica sincrona
di cellule nervose che si trovano in parti diverse del cervello. Proprio come le rapide
oscillazioni neurali stabiliscono il legame fra le diverse parti funzionali all’interno
del cervello e del sistema nervoso, allo stesso modo il ritmo stabilisce il legame fra i
sistemi nervosi dei singoli individui appartenenti a una comunità umana. Questo
fenomeno può essere rilevato in azioni collettive svolte dall’uomo come le marcie
militari ed i balletti, o i cosiddetti canti di lavoro quando le operazioni richiedono una
certa sincronia fra le persone. Esso può aver svolto una funzione economica e
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culturale, essenziale all’evoluzione umana, riunendo gli individui e alimentandone il
senso di collettività e di comunità.
1.4. Terapeuticità musicale
Parte essenziale del processo terapeutico, che può seguire canali musicali
caratterizzati da sequenzialità ritmiche come nella musicoterapia, è la relazione fra il
terapeuta e il bambino o fra il terapeuta e l’adulto sia nei contesti individuali che di
gruppo. Essa comporta non solo interazioni vocali e musicali, ma anche il contatto
fisico, i gesti, l’imitazione del movimento e la prosodia. Il terapeuta non si limita
soltanto a fornire alla persona il proprio supporto e a costituire per lui una presenza
incoraggiante ma lo porta verso forme di linguaggio sempre più complesse
(Rizzolatti et al., 2002). “Ciò che è impossibile realizzare attraverso uno sforzo di
volontà diretto diviene raggiungibile quando l’azione è inclusa in un altro sistema
complesso” (Lurija, 1965). “Il ritmo può fornire l’ impulso e articolare il flusso del
movimento come quello dell’emozione e del pensiero che risulta essere non meno
dinamico o motorio di quello puramente muscolare” (Nietzsche, 1888).
Cosa accade nel cervello quando la musicoterapia funziona?
Studi neurofisiologici compiuti con persone aventi disturbi del linguaggio (afasici)
hanno dimostrato che il canto e l’intonazione melodica impegnano i circuiti
dell’emisfero destro in una normale attività disimpegnandoli dall’attività patologica.
Questo processo ha una certa capacità di auto-mantenimento; infatti, quando viene
liberata dall’inibizione, l’area di Broca sinistra può esercitare un’azione di
soppressione sull’area di Broca destra (Belin et al., 2000). Un circolo ripetitivo, in
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sostanza, viene sostituito da un circolo terapeutico (Martin et al., 2004). L’idea di
base è che l’emisfero destro, normalmente dotato di capacità linguistiche molto
rudimentali, possa essere trasformato, in un arco di tempo relativamente breve, in un
organo linguistico abbastanza efficiente attraverso l’uso di terapie basate sulla
musica. In individui colpiti da deficit di movimento come il morbo di Parkinson e la
sindrome di Tourette la musica ha effetti terapeutici significativi grazie alla capacità
di sincronizzare i ritmi di ciascuno all’interno di un gruppo impegnato a suonare le
percussioni. La musica garantisce, da un lato, la riconfigurazione dell’attività
cerebrale e donando calma e concentrazione a coloro che sono distratti o assillati
dall’incessante susseguirsi di tic e impulsi; dall’altro promuove un legame musicale e
sociale con gli altri creando unità e coesione di gruppo. La musica ha il potere di
contenere e veicolare sequenze motorie, narrative, memoniche etc., nel momento in
cui altre forme di organizzazione, comprese quelle verbali, falliscono. Questo risente
della cultura di appartenenza che influenza l’apprendimento scolastico (alfabeto e
numeri). Evidenze neuroscientifiche hanno messo in evidenza che in ogni cultura
esiste una qualche forma di musica caratterizzata da un ritmo regolare, una
pulsazione periodica, che permette il coordinamento temporale fra gli esecutori e
provoca una risposta motoria sincronizzata negli ascoltatori. Questo legame fra il
sistema uditivo e quello motorio sembra universale negli esseri umani, e si presenta
spontaneamente già in tenera età (Patel, 2008). La risposta alla musica ed alle proprie
configurazioni ritmiche si conserva anche nei casi di persone colpite da malattie
neurodegenerative come la demenza ed il Parkinson seppur con ruoli terapeutici
diversi. La musica che aiuta le persone colpite dal Parkinson deve dotarsi di un
carattere ritmico deciso, ma non occorre che sia familiare o evocativa. Nelle persone
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con demenza la musicoterapia cerca di rivolgersi alle emozioni, alle facoltà
cognitive, ai pensieri e ai ricordi, ovvero al “sé sopravvissuto” dell’individuo, per
stimolarli e farli riemergere. Mira cioè ad arricchire e ampliare l’esistenza, offrendo
libertà, stabilità, organizzazione e concentrazione. In questi individui la
musicoterapia è possibile perché la percezione, la sensibilità, l’emozione e la
memoria musicale possono sopravvivere anche quando altre forme di memoria sono
scomparse da molto tempo (Cowless et al., 2003). Una musica del giusto tipo può
aiutare a orientare e ancorare una persona quando ormai non è rimasto quasi più
nient’altro in grado di farlo. La musica familiare fornisce un aiuto dal punto di vista
mnemonico, suscitando emozioni e associazioni da tempo dimenticate, e
consentendo, ancora una volta, l’accesso a stati d’animo, ricordi, pensieri e mondi, in
apparenza perduti. Le persone passano, grazie alla musica vissuta “insieme”, da uno
stato di isolamento dovuto alla malattia, ad una dimensione in cui sono in grado di
riconoscere gli altri e stabilire con loro dei legami riacquistando un senso di sé e
della propria identità “io sono quello che canta e che batte a tempo insieme agli
altri”. Maggiore è la coordinazione vocale e corporea fra le persone che condividono
un’esperienza musicale e più profondo sarà il legame intra ed interpersonale
percepito fra i partecipanti al gruppo. I “drum circles”, situazioni in cui si suonano in
gruppo strumenti a percussione, sono un’altra forma di musicoterapia molto ricca di
potenzialità per le persone con demenza in quanto il suono delle percussioni fa
appello a livelli cerebrali sottocorticali assolutamente fondamentali. A questo livello,
che sta al di sotto del personale e del mentale ed è puramente legato al corpo, la
musica non necessita né della melodia né del contenuto specifico o della carica
emotiva del canto: ciò di cui invece necessita, in modo imprescindibile, è il ritmo.
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Esso può ripristinare la nostra percezione di essere creature incarnate, insieme a un
senso elementare di movimento e di vita (Sacks, 2007).
CAP.2 “MUSICALITÀ, SINCRONICITÀ E TERAPEUTICITÀ”
“L’origine della parola ritmo è greca e significa flusso. Possiamo imparare a fluire
con i ritmi di vita imparando a sentire il battito, la pulsazione ed il suono mentre
suoniamo le percussioni. E’ un modo di portare il sé in armonia con lo scorrere di un
universo dinamico e interconnesso che ci consente di sentirci maggiormente uniti
piuttosto che isolati ed estraniati” (Friedman, 2000).
2.1. Musicalità, emozione e linguaggio
Alcuni filoni di ricerca hanno analizzato le risposte emotive evocate dalla musica
servendosi sia di tecniche di neuroimmagine funzionali su soggetti che sperimentano
un’intensa attivazione emozionale durante l’ascolto di musica, sia attraverso lo studio
di individui che hanno subito traumi cerebrali (Blood & Zatorre, 2001). Entrambi gli
indirizzi di ricerca hanno indicato, quale base delle risposte emozionali alla musica,
una rete molto estesa che coinvolge regioni corticali e sottocorticali. É appurato che
le strutture cerebrali umane maggiormente coinvolte con l’emozione sono, in termini
evolutivi, quelle più antiche. É ancora abbastanza incerto invece se vi siano altre
specie che esperiscono la musica nello stesso modo in cui facciamo noi; sembra che
la nostra risposta emozionale alla musica possa dipendere da processi innati che
hanno luogo in aree cerebrali antiche e ricevono una complessa modulazione nel
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momento in cui siamo maturi ed esposti a forme musicali caratteristiche della nostra
cultura (Panksepp, 1998, 2009). Molte porzioni del nostro cervello sono responsabili
del processo di pianificazione se il circuito è implicato nel controllo motorio
(Wolpert et al., 1995) e nel fenomeno del “priming”, dove le aspettative percepite
sono fissate in specifiche aree corticali o nelle aree prefrontali associate all’azione
(Rowe & Passingham, 2001) e alla memoria lavoro (Cohen et al., 1997). La musica
può indurre emozioni potenti e primordiali negli uomini nel momento in cui
l’esperienza risulta piacevole e gratificante.
In che modo e perché una sequenza strutturata di suoni non referenziali
produce un effetto così potente?
La risposta potrebbe essere individuata nella dimensione relazionale che si crea fra i
primi mesi di vita del bambino e la propria madre che evidenzia come l’espressione
musicale preceda il linguaggio in quanto i movimenti ritmici e le espressioni, adattivi
per il bambino, siano connessi con modalità di comunicazione essenzialmente
musicali (Trevarthen, 1999, 2009; Malloch, 2009). Esiste un’ampia evidenza sul fatto
che il bambino quando nasce sia già in possesso di competenze musicali grazie alla
capacità di aree specifiche presenti in entrambi gli emisferi in grado di interpretare
sequenze strutturate di suoni, in particolar modo quelli caratterizzati da ritmi
connessi a quelli corporei della pulsazione cardiaca, della respirazione, del
movimento gestuale e della camminata. É altrettanto noto che questo senso ritmico
condiviso con la propria madre, chiamato musicalità comunicativa, facilita, con il
procedere dello sviluppo, l’acquisizione del linguaggio attraverso l’elaborazione di
comunicazioni espressive tra il bambino e chi se ne prende cura. Le aree prefrontali
laterali, che comprendono l’area di Broca, sono configurate per essere coinvolte nelle
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anticipazioni e nelle previsioni che definiscono le strutture sintattiche delle
espressioni sia linguistiche che musicali (Patel, 2005, 2006, 2008). Un possibile
approccio alla questione della musicalità umana pone l’accento sulle sequenze
spaziali e temporali dell’attività neurale connesse all’esperienza musicale. Evidenze
da studi condotti attraverso tecniche di neuroimmagine ed elettrofisiologiche (PET,
fMRI, EEG e MEG) concordano sulla capacità innata del cervello di essere in grado
di produrre ed interpretare sequenze ordinate di suoni alla base del linguaggio
parlato. La musica, intesa come successione strutturata e intenzionale di suoni che
producono movimento, è comparabile ad altri prodotti complessi dell’attività umana,
incluso il linguaggio verbale e non verbale (Dissanayake, 2000). Le tecniche di
neuroimmagine possono aiutarci a comprendere dove e quando il cervello registra un
aumento dell’attività in risposta a stimoli sonori. Recenti risultati provenienti
dall’elettrofisiologia evidenziano processi analoghi per la sintassi (ritmica e
dinamica) che configura sequenze di musica, di linguaggio verbale e per gli aspetti
concernenti la percezione del tono musicale (Besson & Schon, 2001). Altre ricerche,
al contrario, suggeriscono che certe caratteristiche della percezione musicale sono
fortemente lateralizzate in modo differente da quelle identificate per la percezione
del linguaggio (Wallin, 1991). Sia la musica che il linguaggio sono generati nel
tempo e contengono unità o elementi di azione intenzionale pianificati nel tempo.
Tutte le caratteristiche dell’organizzazione espressiva nella comunicazione attraverso
la musica ed il linguaggio verbale o scritto sono effetti dell’intrinseco controllo dei
movimenti compiuti dal cervello e la loro percezione è parte dell’esperienza di azioni
secondo modalità guidate dalle motivazioni (Lee & Schogler, 2009). La separazione
dei processi di percezione musicale e linguistica in sequenze temporali evidenzia una
20
gerarchia di ritmi alla base dell’attività motoria (Trevarthen, 1999). Alcuni studi che
hanno sottoposto gruppi di persone all’esposizione di sequenze musicali hanno
rivelato una riorganizzazione dei ritmi nelle rappresentazioni corticali distribuite,
specialmente nella banda gamma delle frequenze (40 Hz) individuati nel
cambiamento correlato alla performance (Bosnyak et al., 2004). Le sonorità ritmiche
hanno un effetto fortemente coinvolgente sugli ascoltatori (Molinari et al., 2003),
scaturendo una risposta in forma di movimenti ritmici o danza (Cross & Morley,
2008). Nel cervello umano i neuroni producono potenziali di azione nel momento in
cui l’individuo compie un movimento specifico o se un altro conspecifico è visto
compiere il movimento. Studi condotti con le neuroimmagini individuano nelle aree
della corteccia premotoria e nel cervelletto le sedi deputate alla percezione delle
sequenze ritmiche. Esse sono importanti per le intenzioni “rispecchianti” dei
movimenti.
2.2. Sincronia neurale e sviluppo corticale
Esiste un’ampia evidenza sul fatto che l’esposizione ad un brano musicale con una
sequenza ritmica che viaggia ad una frequenza di 7 Hz possa esercitare un azione su
entrambi gli emisferi cerebrali. Evidenze di carattere neuroscientifico mostrano che
quando un ritmo è vicino alla metrica corrispondente alla ripetizione dei suoni
prodotti da un pianoforte, si osserva una maggiore attività oscillante nell’emisfero
sinistro. Nel caso in cui i ritmi non posseggano una metrica ben precisa, ne risulta
invece un’attività maggiore nell’emisfero destro. Tuttavia, le conclusioni sull’analisi
dello spettro connesso al battito sonoro, concordano sul fatto che le funzioni svolte
21
per processare il ritmo a livello neurale non sono confinate ad un unico emisfero ma
ad una azione congiunta di entrambi gli emisferi (Peretz, 1990; Sakai et al., 1999).
Un dato interessante che emerge dagli studi condotti con l’uso di tecniche a
scansione cerebrale (PET e MEG) rivela che un aumento del livello di
sincronizzazione fra i ritmi esterni ed interni potrebbe condurre ad una maggiore
stabilità mentale ottenuta grazie alla percezione del ritmo, all’efficiente auto-
generazione o al recupero di questi ritmi comportando una memorizzazione più
semplice ed una riproduzione delle stesse sequenze ritmiche (Essens & Povel, 1985;
Sakai et al., 1999). L’attività in aree cerebrali diverse riflette una struttura musicale
su differenti scale temporali; le aree motorie e uditive seguono strutture musicali a
bassa ed alta frequenza. Al contrario, le aree frontali si caratterizzano per una risposta
più bassa e giocano presumibilmente un ruolo maggiormente integrativo. Ascoltare
musica è un processo che coinvolge aree neurali distanti facendole cooperare fra loro
nel tempo. Questa potrebbe essere una ragione per la quale la musica ha un impatto
così profondo sull’uomo.
Potrebbero le configurazioni musicali ritmiche favorire una più efficiente
sincronizzazione a livello neurale e consentire un migliore sviluppo corticale?
Esiste una branca di studi condotti tramite l’uso di tecniche elettroencefalografiche
che si sono concentrati sulle relazioni esistenti fra l’attività oscillatoria sincrona a
livello neuronale ed una varietà di funzioni cognitive e percettive fra cui potrebbe
collocarsi anche quella dell’ascolto musicale. Le oscillazioni neurali sincronizzate
nella bassa (delta, theta e alpha) e nell’alta (beta e gamma) frequenza sono un
meccanismo fondamentale che consentono un’attività coordinata alla base del
normale funzionamento del cervello (Buzsaki & Draguhn, 2004). Esiste ampia
22
evidenza derivante dall’uso di tecniche elettrofisiologiche e di registrazioni
elettromagnetiche non invasive applicate sui primati che evidenzia strette relazioni
fra l’attività oscillatoria sincrona ed una varietà di funzioni cognitive e percettive
(Fries, 2009). Un aspetto finora poco indagato è il possibile ruolo della sincronia
neurale nello sviluppo delle reti corticali. Le oscillazioni e la generazione dell’attività
neurale sincronizzata giocano un ruolo cruciale nell’auto-organizzazione dello
sviluppo corticale. Lo sviluppo e la maturazione delle reti corticali dipendono
dall’attività neuronale, laddove le oscillazioni sincronizzate svolgono un importante
funzione nella stabilizzazione e nel “pruning” (potatura) delle connessioni (Hebb,
1949). Le oscillazioni constano di una struttura temporale che consente un
allineamento preciso nell’ampiezza e nelle relazioni temporali dell’attivazione pre- e
postsinaptica che determina se i contatti sinaptici sono forti o deboli. L’estese
modifiche delle connessioni sinaptiche durante lo sviluppo delle reti corticali
dipendono fortemente dalla precisa coordinazione dell’attività neuronale. La
sincronizzazione dell’attività oscillatoria risulta essere un indice importante di
maturità ed efficienza delle reti corticali. Essa, nel rango delle frequenze beta e
gamma, è dipendente dalla connessioni cortico-corticali che connettono
reciprocamente le cellule situate nella stessa area corticale, tramite diverse aree e
perfino attraverso i due emisferi. Possono quindi verificarsi dei cambiamenti nella
frequenza e nell’ampiezza dell’oscillazione così come nella precisione con cui
l’attività ritmica può sincronizzarsi su lunghe distanze a differenti stadi di sviluppo.
In accordo ad alcune ricerche condotte sulle oscillazioni nello stato di “resting”
(riposo) compiute su un gruppo di adolescenti durante il sonno, il decremento della
forza nelle oscillazioni a bassa frequenza riflette una “potatura” sinaptica ed è
23
indipendente dagli stadi puberali. In contrasto alla riduzione dell’attività a bassa
onda, le oscillazioni a banda gamma dello stato di riposo aumentano nel corso dello
sviluppo. La correlazione fra l’ampiezza registrata dagli elettrodi frontali e lo
sviluppo del linguaggio e di altre facoltà cognitive indicano il ruolo funzionale della
attività precoce della banda gamma nella maturazione delle funzioni cognitive.
Variazioni nella sincronia neurale sono state dimostrate nell’elaborazione di stimoli
uditivi attraverso studi compiuti su gruppi di bambini e giovani adulti. Le differenze
nella sincronizzazione e nell’ampiezza delle oscillazioni visibili dai tracciati
elettroencefalografici erano maggiormente predominanti nelle comparazioni fra i
bambini e i giovani adulti, nell’elaborazione di stimoli attesi e devianti. I bambini
erano caratterizzati da una ridotta sincronizzazione nei circuiti locali su elettrodi
fronto-centrali alle frequenze delta e theta così come da una ridotta sincronizzazione
a lungo raggio. Essa era accompagnata da un relativo incremento nella forza delle
oscillazioni evocate e indotte nei bambini alle stesse frequenze, indicando che, con il
prosieguo dello sviluppo, l’attività a bassa frequenza è caratterizzata da uno
spostamento verso oscillazioni più sincronizzate durante l’adolescenza (Muller et al.,
2009). Cambiamenti nella sincronia neurale durante lo sviluppo sono presenti anche
nel sistema motorio dove le oscillazioni della banda beta sono associate alla
preparazione e alla esecuzione dei comandi motori (Kilner et al., 2000). In aggiunta
all’incremento nella sincronia dei segnali elettromagnetici (EMG), c’è la prova di
una sincronizzazione a lungo raggio delle oscillazioni fra la corteccia motoria
primaria ed i muscoli che comporta cambiamenti significativi durante lo sviluppo
(James et al., 2008). Le scoperte in questo campo indicano che la correlazione fra la
corteccia motoria ed i muscoli aumenta durante l’adolescenza ed è accompagnata da
24
una riduzione nella variazione delle frequenze alle quali tali interazioni occorrono.
La maturazione della sincronia neurale durante l’adolescenza è compatibile con lo
sviluppo di funzioni cognitive durante questo periodo che dipendono dalla sincronia
neurale come la memoria lavoro ed i processi esecutivi così come i cambiamenti che
concorrono a livello anatomico e fisiologico (Toga et al., 2006).
E’ possibile che le configurazioni ritmiche della musica possano favorire una
migliore sincronia neurale esercitando un azione sulle aree corticali, fra cui
quella motoria ed uditiva, deputate alla percezione di stimoli sonori e al
movimento immaginato?
In aggiunta al ruolo della sincronia neurale durante la normale maturazione del
cervello alcuni dati sono stati di importanza cruciale per la comprensione di alcuni
disturbi neuropsichiatrici come il disturbo dello spettro autistico (ASDs) e la
schizofrenia che sono associati ad una anormale sincronia neurale e ad un aberrante
neurosviluppo (Uhlaas & Singer, 2010). Si ipotizza che nella maturazione cerebrale
di un bambino colpito da ASDs durante il periodo pre- e postnatale i circuiti non
siano in grado di supportare l’espressione delle oscillazioni ad alta frequenza. Nella
schizofrenia invece i circuiti corticali non sono in grado di sostenere il regime di
codifica neurale emergente durante la tarda adolescenza che conta spazialmente e
temporalmente su pattern di sincronizzazione più precisi e focalizzati. Questo
condurrebbe in seguito ad un collasso dell’attività neurale coordinata e all’emergere
di psicosi e disfunzioni cognitive. Contributi di stampo neuroscientifico concordano
nell’affermare come certe esperienze traumatiche quali l’abbandono e la
trascuratezza possano creare nel sistema nervoso in via di sviluppo un blocco che
interessa le aree corticali più antiche fra cui il tronco dell’encefalo, il talamo ed il
25
cervelletto. L’input sonoro proveniente dall’esterno non viene correttamente
elaborato e processato dalle aree corticali interessate, fra cui la corteccia uditiva,
causando difficoltà a percepire stimoli di natura verbale. Un approccio terapeutico
utile è stato individuato attraverso l’utilizzo di canali di natura preverbale come la
musica ed il movimento laddove non esista una possibilità di comunicazione a livello
verbale. Questo avvia un processo di nuova sintonizzazione delle reti neurali
deputate all’elaborazione di stimoli preverbali, consentendo un graduale recupero
delle funzioni esercitate dalle aree corticali a maggiore complessità (Perry et al.,
2006).
2.3. Ritmi cerebrali e nuovi approcci al trattamento
Studi di stampo neuroscientifico hanno messo in evidenza come alcuni disordini
psichiatrici e neurologici abbiano in comune un meccanismo cellulare costituito da
un anormale ritmo di scarica neuronale che può generare diverse tipologie di sintomi
a seconda dell’area cerebrale interessata. Un esempio potrebbe essere l’aura che
qualche volta precede una crisi epilettica. Essa può essere di qualsiasi tipo: uditiva,
visiva, motrice etc. Ciò suggerirebbe come il meccanismo che sottostà a queste auree
deve essere differente, ma in realtà ne è stato individuato soltanto uno corrispondente
al ritmo anormale che precede la crisi. Il medesimo meccanismo cellulare può
produrre una varietà di condizioni funzionali che dipendono dal tipo di ritmo
anomalo e dalla sua locazione nel cervello. Le anomalie ritmiche possono occorrere
ogni volta che un gruppo di cellule nervose situate nel talamo o nella corteccia
cominciano a generare un’attività di scarica oscillatoria con una frequenza inferiore
26
rispetto a quella corrispondente allo stato di allerta del cervello cosciente. Nello
specifico, le cellule scaricano coerentemente e a lunghezze d’onda più basse in
diverse aree del cervello. Una caratteristica simile si verifica dappertutto nel cervello
quando ci addormentiamo. Quando quel genere di configurazione si verifica fuori dal
sonno, la parte del cervello colpita funziona in modo anomalo: comincia a fissarsi su
una bassa frequenza e non risponde correttamente ai segnali esterni. Inizia a
disconnettersi e a non essere responsiva, in analogia a quanto succede sotto
condizioni di anestesia, dove l’attività di bassa frequenza del cervello è correlata con
la perdita di reattività al dolore esterno e ad altri stimoli sensoriali. Esiste inoltre un
fenomeno chiamato “effetto ponte” associato all’area di attività a bassa frequenza.
L’attività cellulare al ponte di attività a bassa frequenza può essere alterata in una
configurazione, producendo un’attività ad alta frequenza. Queste alterazioni
producono quelli che sono conosciuti come sintomi “positivi” presenti in modo
continuo. Ad esempio, la sordità dovuta all’attività a bassa frequenza nel sistema
uditivo sarebbe considerata un sintomo negativo, invece un suono continuo associato
a tale sordità, come un ronzio, è un sintomo positivo; esso è accompagnato nella
corteccia da bande gamma ad alta frequenza dovute ad un fallimento dei meccanismi
inibitori (che normalmente dovrebbero arginare la scarica). Nel morbo di Parkinson,
la difficoltà a muoversi o la paralisi parziale sono sintomi negativi, mentre il tremore
incontrollabile è un sintomo positivo. Entrambe le tipologie di sintomi sono prodotti
dallo stesso meccanismo: i ritmi anormali. Questo è l’inizio di ciò che è chiamato
“aritmia talamocorticale”, definita come una serie di condizioni neurologiche e
psichiatriche prodotte da un’anormale attività oscillatoria nel circuito neurale
maggiore che connette il talamo e la corteccia. Differenti sintomi sono prodotti a
27
seconda di quale zona cerebrale è interessata dall’interruzione ritmica, ma i
meccanismi neuronali sono gli stessi. Uno degli approcci utilizzati per il trattamento
dei disturbi ritmici cerebrali è quello della “stimolazione profonda del cervello”
(DBS). L’utilizzo della stimolazione elettrica del cervello risulta essere una possibile
terapia per l’aritmia talamocorticale. Il metodo DBS è impiegato per il trattamento
del morbo di Parkinson, altri disturbi del movimento ma anche per curare la
depressione, il disturbo ossessivo-compulsivo ed altre condizioni neuropsichiatriche
(Llinas, 2001).
2.4 “La terapia della percussione”
Esistono tuttavia altri approcci terapeutici che utilizzano il canale musicale in
contesti di gruppo come la cosiddetta “terapia della percussione” (drum therapy) con
effetti benefici per l’individuo. La terapia della percussione è un antico approccio
che utilizza il ritmo per promuovere la salute e l’espressione di sé. Dagli sciamani
della Mongolia ai guaritori Minianka dell’Africa Occidentale, le tecniche
terapeutiche basate sul ritmo sono state impiegate per migliaia di anni per creare e
mantenere la salute fisica, mentale e spirituale. La ricerca corrente sta verificando gli
effetti terapeutici delle antiche tecniche del ritmo. Evidenze clinico-terapeutiche
indicano che “tambureggiare” accelera la guarigione fisica, supporta il sistema
immunitario, produce sensazioni di benessere, facilita la rielaborazione del trauma
emozionale e una reintegrazione del sé. Altri recenti studi hanno appurato che le
sequenze ritmiche prodotte dall’atto di suonare la percussione donano, su persone
con l’Alzheimer, bambini autistici, giovani emotivamente disturbati,
28
tossicodipendenti, individui traumatizzati e che vivono in prigione effetti di calma e
una maggiore sintonizzazione con se stessi e gli altri. I risultati di alcune ricerche
dimostrano come il tambureggiare costituisca un trattamento valido per lo stress, la
fatica, l’ansia, l’ipertensione, l’asma, il dolore cronico, l’artrite, il disagio mentale,
l’emicrania, il cancro, la sclerosi multipla, il morbo di Parkinson ed un ampio rango
di disabilità fisiche. Suonare le percussioni induce un profondo rilassamento
abbassando la pressione nel sangue e riducendo lo stress. Livelli elevati di stress e di
ipertensione, in accordo all’odierna ricerca medica, costituiscono la primaria
minaccia per l’individuo causando attacchi di cuore e il collasso del sistema
immunitario. Il tambureggiare promuove la produzione di endorfine e di oppiacei
endogeni che possono aiutare il controllo del dolore (Winkelman & Michael 2000).
Una recente ricerca medica indica che i cosiddetti cerchi di percussione sostengono il
sistema immunitario. Il gruppo di percussione e la condivisione dei ritmi facilitano,
all’interno della persona, la produzione di cellule che uccidono quelle cancerogene
aiutando il corpo a combattere il cancro così come altri virus, incluso l’AIDS. Il
gruppo di percussioni riassetta la nostra biologia, orchestra la nostra immunità e ci
permette di avviare un processo di cura (Bittman & Barry, 2001). La ricerca ha
dimostrato che la trasmissione fisica dell’energia ritmica al cervello sincronizza i due
emisferi cerebrali. Quando il logico emisfero sinistro logico e l’intuitivo emisfero
destro iniziano a vibrare in armonia, quest’ultimo può fluire, senza impedimenti,
verso la consapevolezza. L’abilità di accedere all’informazione non consapevole
attraverso simboli ed immagini facilita l’integrazione psicologica ed una
reintegrazione del sé. L’atto di tenere il ritmo sincronizza anche le aree frontali e
inferiori, integrando l’informazione non verbale dalle strutture più basse del cervello
29
verso la corteccia frontale favorendo intuizione, comprensione, integrazione,
sicurezza, convinzione che oltrepassano le ordinarie conoscenze e tendono a
persistere a lungo dopo l’esperienza fornendo spunti fondamentali per le tradizioni
religiose e culturali (Winkelman & Michael, 2000). Il ritmo è uno strumento così
potente per il fatto che esso permea l’intero cervello. La vista, ad esempio, è una
parte del cervello, la parola un’altra, ma il battere a ritmo coinvolge l’intero cervello.
Il suono della percussione genera connessioni neuronali dinamiche in tutte le parti
del cervello, perfino dove il danneggiamento o la menomazione sono significativi
come nel Disordine da Deficit dell’Attenzione (ADD). Le battute ritmiche possono
aiutare il cervello a riacquistare complessità dopo un ictus o un altro danno
neurologico, come nelle persone colpite dal morbo di Parkinson. Più connessioni
possono compiere le reti neurali più le nostre esperienze divengono integrate. Il
battere a ritmo induce stati alterati che possiedono un’ampia varietà di applicazioni
terapeutiche. Uno studio recente dimostra che anche una breve sessione di
percussioni può raddoppiare l’attività delle onde alfa cerebrali riducendo lo stress in
maniera drammatica (Friedman & Lawrence, 2000). La reti corticali variano da
modalità ad onde Beta (focalizzate sulla concentrazione e l’attività) ad onde Alfa
(calme e rilassate) producendo sensazioni di euforia e benessere. Le stesse sensazioni
che provano i bambini quando scoprono il suono di un oggetto percosso sul
pavimento o su qualche altra cosa fatta suonare nell’ambiente di vita. Le reazioni in
risposta alla scoperta del suono prodotto dall’atto di percuotere qualcosa sono di
eccitazione, sorpresa e piacere. L’attività Alfa è associata alla meditazione, alla
“trance sciamanica” e ad altre modalità integrative di consapevolezza. La
stimolazione ritmica è una tecnica semplice ed efficace che influenza gli stati della
30
mente. In una società dove la famiglia tradizionale ed i sistemi comunitari di
supporto sono divenuti piuttosto frammentati, i circoli di percussione forniscono uno
senso di connessione con gli altri ed un supporto interpersonale. Un circolo di
percussione fornisce l’opportunità di connettersi con il proprio spirito ad un livello
più profondo e connettersi con un gruppo di altre persone con apertura mentale e
curiosità. Le percussioni di gruppo alleviano l’egocentrismo, l’isolamento e
l’alienazione. Il battere a ritmo fornisce un’autentica esperienza di unità e
sincronicità fisiologica. Se mettiamo insieme due persone poco sintonizzate con se
stessi (disagiate, con problemi di dipendenza etc.) e le aiutiamo ad esperire il
fenomeno del “trascinamento” è possibile che loro provino con e attraverso gli altri
come ci si sente ad essere sintoniche in uno stato di connessione preverbale
(Mikenas, 2003). “Suonare le percussioni suscita un senso di connessione e di
comunità integrando il corpo, lo spirito e la mente. Tale esperienza è terapeutica e
portatrice di forze rivitalizzanti, presenti in natura, verso contesti clinici”
(Winkelman, Micheal, 2003). L’atto di tambureggiare può aiutare le persone ed
esprimere ed indirizzare i propri vissuti emotivi. Sentimenti inespressi ed emozioni
possono ostacolare il flusso di energia vitale. La stimolazione fisica del battere a
ritmo rimuove i blocchi e produce lo scarico della tensione emotiva. Le vibrazioni
del suono entrano in risonanza attraverso ciascuna cellula presente nel corpo
stimolando il rilascio di memorie cellulari negative. “Tambureggiare enfatizza
l’espressione di sé, insegna a come ricostruire la salute emotiva ed indirizza le
questioni della violenza e del conflitto attraverso l'espressione e l’integrazione delle
emozioni” (Mikenas, 1999). L’esperienza con le percussioni può aiutare le persone
dipendenti da droghe a saper gestire le proprie emozioni attraverso modalità
31
terapeutiche. Suonare le percussioni allevia lo stress che si crea dal restare ancorati al
passato o essere impauriti dal futuro. Quando la persona suona una percussione si
colloca esattamente nel qui ed ora. Uno dei paradossi del ritmo è che possiede
entrambe le capacità di far muovere la consapevolezza fuori dal corpo verso luoghi
oltre il tempo e lo spazio ancorando saldamente l’individuo nel momento presente.
Tambureggiare aiuta a riconnettersi alla propria essenza incrementando
l’empowerment e stimolando l’espressione creativa. “Il vantaggio di partecipare ad
un gruppo di percussione è che la persona sviluppa una retroazione continua dal
punto di vista uditivo dentro di sé e fra i membri del gruppo intercettando un canale
per l’espressione di sé ed un feedback positivo di natura preverbale, basato
sull’emozione e mediato dal suono” (Mikenas, 1999). Ogni individuo all’interno di
un cerchio di percussioni esprime se stesso tramite il proprio strumento e, allo stesso
tempo, ascolta le altre percussioni. “Ognuno parla, ascolta ed il suono prodotto da
ciascuna persona è parte del tutto” (Friedman & Lawrence, 2000). Ciascuno,
attraverso l’atto di tambureggiare, esprime i propri sentimenti senza dire una parola,
senza dover rivelare niente sulle proprie questioni. Le percussioni di gruppo
completano i tradizionali approcci terapeutici focalizzati sulla parola. Esse
forniscono al sé un senso di esplorazione e sviluppo. Veicolano la trasformazione
personale, l’espansione della coscienza e la costruzione della comunità. Il circolo di
percussione sta divenendo uno strumento terapeutico significativo ed efficace nella
moderna età tecnologica.
32
CAP.3 EFFETTI MODERATI DELLA MUSICA SULLE RETI RESTING
Le reti a modalità resting (RSNs) vengono definite come “oscillazioni” (Biswal et al.
1995), “fluttuazioni” (Lowe et al. 1998), o pattern di attività (van de Ven et al. 2004)
spontanee, sincrone e a bassa frequenza osservate nel cervello di soggetti in stato di
riposo (Biswal et al. 1995), “svegli ma a riposo” (Raichle et al. 2001). Tali
oscillazioni sono state osservate utilizzando varie modalità di registrazione inclusa
l’fMRI (Biswal et al. 1995), PET (Raichle et al. 2001), EEG (Laufs, 2008), MEG
(Stam et al. 2006) e perfino registrazioni elettriche direttamente sulla superficie del
cervello (Miller et al. 2009). L’interesse verso tali reti corticali è dovuto, in parte, alla
similarità spettrale con il rumore fisiologico ad esempio le oscillazioni cardiache nel
flusso del sangue al cervello (Lowe et al. 1998). Le RSNs sono individuate per
descrivere le relazioni funzionali fra le regioni cerebrali che persistono in uno stato
“attivo” (Cordes et al. 2000; Greicius et al. 2009, 2003). Il ritmo alfa è un altro
fenomeno oscillatorio osservato quando i soggetti sono a riposo. Esso è caratterizzato
da oscillazioni fra gli 8 ed i 12 Hz nel segnale elettroencefalografico,
prevalentemente nelle linee occipitali di individui che mantengono chiusi i loro occhi
(Berger, 1929). L’ampiezza del ritmo alfa, misurata come la media della forza di
densità spettrale (PSD) nella banda di frequenza alfa, è negativamente correlata con
l’attenzione (Laufs et al. 2006) e positivamente correlata con il rilassamento e
l’introspezione (Niedermeyer, 1999; Plotkin, 1976), o con il grado in cui il soggetto è
in stato di riposo. Una particolare rete a modalità resting chiamata “rete a modalità
33
default” (DMN) è stata soggetto di speciale interesse. La DMN venne inizialmente
descritta da Raichle et al. (2001) come una rete compresa nella corteccia cingolata
posteriore (PCC), nella corteccia prefrontale e nella corteccia cingolata anteriore
(ACC). Più di recente alcuni studiosi hanno argomentato che la DMN dovrebbe
comprendere anche l’ippocampo (Greicius et al. 2004b; Huijbers et al. 2011; Vincent
et al. 2006) e la corteccia frontopolare (Harrison et al. 2008a; Samann et al. 2011;
Scheeringa et al. 2008). Le funzioni della DMN includono l’introspezione (Gusnard
et al. 2001), la memoria (Greicius et al. 2004b) e la cognizione spontanea (Raichle &
Snyder, 2007). Queste caratteristiche rendono la DMN un’importante sistema da
studiare come parte della valutazione dello sviluppo cerebrale e delle patologie
neurologiche. Cambiamenti nella DMN sono stati già osservati nell’epilessia del lobo
temporale (Liao et al. 2011), nel morbo di Alzheimer (Grecius et al. 2004b),
nell’autismo (Kennedy et al. 2006) e nella schizofrenia (Bluhm et al. 2007). E’ stato
recentemente mostrato che la connettività dello stato-resting entro la DMN è più alta
quando i soggetti vengono scansionati con gli occhi aperti invece che chiusi (Yan et
al. 2009). Una potenziale condizione confondibile sul piano sperimentale si ha
nell’ascolto della musica. La musica è un fenomeno universale alle culture umane
che viene riconosciuta perfino dai neonati. Essa possiede molte caratteristiche,
alcune delle quali, come la parlata e il ritmo, sono lateralizzate a sinistra, mentre
altre, come il timbro e il tono, sono lateralizzate a destra (Andrade & Bhattacharya,
2003). L’analisi musicale come un intero è ritenuta avere un errore (bias) situato a
destra (Klostermann et al. 2009). L’elaborazione musicale è distribuita attraverso
molte regioni del cervello incluse il tronco cerebrale, il talamo, l’ippocampo, l’insula,
la corteccia uditiva, il sistema limbico e le aree corticali di associazione multimodale
34
(Andrade & Bhattacharya, 2003; Bamiou et al. 2003; Klostermann et al. 2009;
Watanabe et al. 2008). Alcune di queste regioni fra cui l’ippocampo e la corteccia
cingolata partecipano nelle reti a modalità resting e in una parte delle reti a modalità
default. Consentire ai soggetti di ascoltare musica durante lo stato di riposo è
potenzialmente vantaggioso. La musica può facilitare il rilassamento ed incrementare
il comfort e l’adattamento della persona all’ambiente di vita. In uno studio condotto
su due gruppi di soggetti dove alcuni erano sottoposti all’ascolto di brani musicali ed
altri ai rumori dell’ambiente esterno è stato verificato che la connettività allo stato di
riposo (resting), inclusa quella entro la rete a modalità default (DMN), è
maggiormente introspettiva durante l’ascolto musicale. Un’altra differenza
riscontrata nei due gruppi risiede nel fatto che l’ippocampo è fortemente associato
con la rete a modalità resting nel gruppo sottoposto all’ascolto musicale. Tale
interpretazione è forte di alcune recenti scoperte che dimostrano come l’ippocampo
sia associato alla rete DMN durante la fase di ritenzione memonica ma non durante
la decodificazione memonica (Huijbers et al. 2011). La maggiore connessione
dell’ippocampo con le regioni coinvolte nella DMN nel gruppo musicale potrebbe
essere un indicatore di un incrementata acquisizione memonica durante l’ascolto
musicale, ad esempio, il ricordo dei testi delle canzoni o della partitura musicale.
Tale esperimento evidenzia il ruolo giocato da alcune regioni corticali fra cui l’insula
e la corteccia uditiva, entrambe coinvolte nell’elaborazione dei suoni. L’insula svolge
una funzione importante nell’elaborazione del linguaggio, nella generazione della
parola (Karunanayaka et al. 2010), nell’elaborazione della storia (Karunanayaka et
al. 2010), nell’elaborazione semantica (Kim et al. 2011) ed uditiva (Bamiou et al.
2003). Un'altra spiegazione alla base della differenza fra i due gruppi risiederebbe
35
nelle connessioni dell’insula con il sistema limbico e autonomo. Il fatto che possa
esercitare un controllo sul sistema nervoso autonomo (Tokgozoglu et al. 1999;
Critchley et al. 2000), potrebbe rappresentare il fattore meccanico attraverso cui la
musica promuove il rilassamento. Lo studio condotto sui due gruppi, sperimentale e
di controllo, mette in evidenza gli effetti moderati della musica sulle reti resting,
confermando come la DMN rimanga intatta durante l’ascolto musicale; tale scoperta
apre il campo ad ulteriori ipotesi sperimentali. La scoperta di un incremento
nell’ampiezza del ritmo alfa nel gruppo musicale potrebbe spiegare la scoperta di un
aumento della connettività PAG (sostanza grigia periacqueduttale) durante l’ascolto
musicale. Il ritmo alfa è generato dalle interazioni fra il talamo e la corteccia
occipitale sotto l’influsso del sistema reticolare attivante (RAS), che include il PAG
(Fuentealba & Steriade, 2005). L’incremento nella forza della connessione totale fra
il PAG ed il talamo durante l’ascolto musicale riflette il concomitante aumento nel
ritmo alfa in aggiunta all’intensificata elaborazione uditiva. A livello
comportamentale la crescita in ampiezza del ritmo alfa è accompagnata da un
aumento del rilassamento e dell’introspezione (Plotkin, 1976; Niedermeyer, 1999).
La scoperta di un incremento in ampiezza del ritmo alfa all’interno del gruppo
musicale suggerisce che l’ascolto di musica rinforza queste caratteristiche; ciò
avviene in relazione all’attivazione insulare e alle sue connessioni con il sistema
limbico. Tale interpretazione è in accordo alle scoperte della fMRI di un pattern più
introspettivo della connettività allo stato di riposo nel gruppo musicale.
L’esperimento mostra inoltre come si assista ad una riduzione in ampiezza del ritmo
beta associato all’attivazione della corteccia sensomotoria (Baker, 2007) rendendo
poco chiara una sua interpretazione nel contesto dell’ascolto musicale. In
36
conclusione l’ascolto di musica costituisce una valida condizione sperimentale in cui
poter osservare le reti che si attivano nello stato di riposo e, in particolare, quelle a
modalità default.
CAP.3 ESPERIENZIALITÀ MUSICALE
3.1. Musicoterapia in carcere: il ritmo della reclusione
Nel corso del tirocinio formativo effettuato presso la Casa Circondariale di
Sollicciano nel Comune di Firenze ho avuto l’opportunità di effettuare un’esperienza
di carattere musicoterapeutico assieme a due gruppi distinti di uomini e donne reclusi
rispettivamente nella sezione maschile e femminile della struttura penitenziaria. Le
attività di musicoterapia sono state inserite all’interno di un progetto avente finalità
terapeutiche e attuabile nei contesti di gruppo. Si è trattato di fornire un’opportunità
di ascolto condiviso e aperto a chi era interessato a prendere parte ad un ciclo di
incontri a cadenza settimanale per una durata di circa sei mesi. É stato un primo
tentativo promosso dall’area educativa e trattamentale di far partire nello stesso
periodo due gruppi psicoterapeutici all’interno della struttura carceraria. La decisione
di introdurre gli strumenti musicali è emersa a seguito di un confronto tenutosi con la
mia tutor volto ad individuare una modalità attraverso la quale poter proporre una
serie di esperienze musicali sia con il gruppo delle donne che con quello degli
uomini dove sembrava emergere con insistenza un bisogno di “evadere” dalla
condizione di internamento attraverso un qualcosa di nuovo e di attrattivo rispetto
alla consuete attività. La musica è stata proposta non prima di aver svolto un lavoro
terapeutico con ciascun componente dei due gruppi mirato a costruire una relazione
37
fondata sulla sicurezza, sulla fiducia e sull’accoglienza. Questo ci ha permesso di
avvertire un desiderio comune ed individuare una modalità espressiva e creativa
adatta ad un contesto vissuto dalla maggior parte dei reclusi con un senso di
ingiustizia e violenza perpetrata tramite atteggiamenti scorretti, amorali ed
irrispettosi delle guardie carcerarie. Da qui l’esigenza di attrezzarci per realizzare un
qualcosa di diverso dai comuni giri di parole che conducevano spesso ad agiti di
rabbia e disperazione; occorreva sollevare quegli animi smarriti ed afflitti dal vissuto
di coercizione e penalizzazione fin troppo lacerante e privo di elementi vitali. La
musica con i suoi ritmi ha innanzitutto sollevato le persone del gruppo dall’impegno
derivante dal “dover parlare di sé per l’ennesima volta” e raccontare i motivi per cui
fossero stati condotti in prigione, quale fosse stata la vita prima del carcere, la storia
familiare etc., lasciando che il silenzio fin troppo malinconico venisse interrotto da
qualcosa di vivo e naturale. Come se la musica avesse gradualmente sprigionato in
loro qualcosa di arcaico riportando ciascuno ai propri ritmi di vita, verso qualcosa di
piacevole e di positivo; una miscela di vibrazioni in grado di scaldare il cuore e la
mente portando energia buona e genuina. Potevamo stingerci assieme e cantare le
canzoni preferite scelte da loro di volta in volta, ballare uniti in gioiosa armonia o
tamburellare calandosi nella posizione di chi ascolta l’altro e si muove a quel ritmo
fuori da preconcetti e dai giudizi in merito alla performance e oltrepassando barriere
culturali, etniche e religiose. Ciascuno aveva la percezione di essere libero, di
comunicare chi fosse veramente, rivelando all’altro la propria identità, le radici,
senza l’uso di parole ma attraverso i suoni della musica. “Momenti di vita vissuti nel
presente ma con uno sguardo rivolto al passato ed una intenzionalità orientata ad
attraversare l’attimo successivo”. La musica ha conferito il carattere di unicità ed
38
irripetibilità a ciascun partecipante nel momento si è trovato nella posizione di chi
tenta con ogni mezzo di riacquistare quel senso di vitalità e di libertà rimossi in
qualche antro segreto della coscienza del sé e potersi finalmente ritrovare in quanto
persona e non in quanto “essere recluso”, senza possibilità altra di redenzione, se non
quella di essere giudicato colpevole di reato e meritevole di vergogna e di pena.
“Conservo con gioia i momenti trascorsi assieme al gruppo delle donne, quando
decidemmo di organizzare una giornata di musicoterapia nel giardino interno al
carcere. Portai come di consueto la coppia di percussioni, due “djembè” africani, che
facevamo passare da una donna all’altra con l’obiettivo di farla suonare, senza
dettare un compito in particolare ma lasciando emergere il ritmo autentico avvertito
nell’istante in cui cominciavano a tambureggiare. Era una giornata di luglio, faceva
molto caldo e individuammo la nostra posizione, riparata dal sole, sotto ad un
gazebo. Oltre alle otto donne che componevano il gruppo se ne aggiunsero altre, di
varia provenienza: nigeriane, marocchine, albanesi… ma la cosa più importante fu
l’atmosfera che venne a crearsi a mano a mano che i ritmi scorrevano fra le mani
intente a percuotere gli strumenti. Eravamo come una cosa sola, ciascuno giocava la
propria parte, c’era chi ballava, chi cantava ed altre ancora che battevano le mani a
tempo. Ciascuna di loro portatrice, attraverso la musica, di emozioni, bisogni,
desideri intrecciati nelle storie passate; cambiavano le mani ma l’armonia fra noi ci
faceva sentire liberi e carichi di buona energia. Chi ballava si sentiva viva come chi
suonava e altrettanto libere erano quelle che stavano vicine ad ascoltare seguendo
compiaciute lo spettacolo. Le parole che ci hanno rivolto alla fine, quei “grazie per
aver portato un po’ di vita qua dentro, era tanto tempo che non mi sentivo così viva,
ho fatto un salto all’indietro e sono tornata in Marocco dove ricordo i suoni delle
39
percussioni”, rimandano ad un senso di connessione con il sé autentico e ciò che
emerge è l’identità e la volontà di tornare presto libere e potersi ricongiungere con le
proprie famiglie. Non nascondo la gioia provata in quell’istante, nell’incrociare i loro
sguardi ma anche la paura e l’impotenza nel confrontarmi con qualcosa di veramente
inusuale ed impenetrabile allo stesso tempo. Incontrare esistenze segnate
dall’angoscia, dalla malinconia e dall’impossibilità di condurre una vita nella società
essendo costrette dietro alle sbarre di una cella affollata e troppo piccola per
contenere un essere umano. Mi sono chiesto svariate volte cosa significhi in fondo
essere liberi. Quando lo siamo veramente? In quale momento? E a quale condizione?
Siamo veramente convinti di vivere in piena libertà? Sono le mura di una prigione e
le sbarre di una cella a rendere non libero l’individuo? Oppure lo sono i preconcetti, i
giudizi, gli stereotipi e le regole imposte da altri individui che ci rendono dei non
liberi? Credo che la musica, nell’attimo in cui ci tocca, possa renderci liberi perché
ha la capacità di svelarci chi siamo veramente, indicarci il luogo da cui proveniamo
e, forse, illuminarci la strada per dove vogliamo andare. Anche con il gruppo degli
uomini sono state fatte esperienze utilizzando il canale musicale. Chiudevamo ogni
incontro con una canzone che cantavamo insieme servendoci di un computer da dove
suonava la parte strumentale. Ricordo con felicità l’incontro che avrebbe chiuso il
nostro percorso terapeutico. Arrivai con qualche minuto di ritardo portando in spalla i
due djembè. Erano tutti lì che mi aspettavano perché sapevano che avrei portato con
me gli strumenti musicali per festeggiare insieme l’ultimo incontro. Gentilmente mi
fu subito chiesto di passare i tamburi ad un ragazzo marocchino che cominciò a
suonare con grande impeto e velocità. Quando si dice che il “ritmo scorre nel
sangue” intendiamo un qualcosa che ha radici antichissime e che con il tempo si è
40
evoluto attraverso le generazioni fino ad arrivare a colui o colei portatori di
musicalità innata, quasi come fossero cresciuti con un battito interiore trasformatosi,
con il tempo, in una sequenza ritmica. Dal suo ritmo traspariva senza dubbio l’amore
per la musica ma anche una rabbia sconfinata che poteva essere espressa in quel
momento solo con l’ausilio della percussione. Era una sorta di rivincita interiore,
qualcosa per cui valeva la pena lottare, senza tregua, seppur con il timore e con
l’umiltà di un guerriero. Anche in quel giorno il denominatore comune fu la musica
grazie alla sua potenzialità comunicativa e curativa che può essere condivisa dagli
altri in quanto genuina e pura. La musica unisce le persone e le fa sentire parte di una
stessa tribù come tante storie che alla fine convergono sulla medesima strada che
conduce al senso di sé dell’individuo. Ciò che conta veramente è l’intenzionalità e la
volontà da parte di colui che porta la musica; la presenza affettiva, l’ascolto
condiviso e l’umiltà sono fattori che determinano l’esperienza fatta con la musica. Il
non giudicare ma accogliere le espressioni altrui, lasciandosi condurre dal ritmo
unico ed irripetibile, può rendere la persona libera di esplorare se stessa e giungere,
con i propri tempi e modalità, alla meta del sé. In questo modo possiamo facilitare
una connessione ottimale delle reti neurali, senza interromperne o modificarne il
flusso, ma lasciando che il sistema si organizzi in maniera autonoma. L’esperienza di
carattere terapeutico-musicale è una delle modalità che consente, a certe condizioni,
crescita, individuazione e complessità nell’uomo garantendone adattamento ed
evoluzione proprio come ciascun essere vivente che utilizza i suoni che produce per
richiamare il partner, proteggere i piccoli o scacciare il rivale. La musicalità
comunicativa interconnette il sistema di piacere con quello del gioco attraverso un
41
azione di coinvolgimento sociale esercitata su gruppi e comunità di individui grazie
al quale è possibile mantenere viva l’identità ed il senso di appartenenza.
3.2 Musicoterapia a scuola: il ritmo dell’innocenza
“La musica se calata in un contesto protetto e sicuro da una persona che sia in
grado anzitutto di sentirla vibrare dentro sé ha la capacità di creare una sorgente
affettiva che connette le menti e i cuori di coloro che altrimenti non sarebbero abili a
svelarci almeno la superficie del proprio mondo interiore”.
Fra il 2010 ed il 2011 ho condotto un percorso di musicoterapia all’interno di una
scuola primaria nella provincia di Firenze. Tale progetto, in accordo al gruppo degli
insegnanti e alla dirigenza scolastica, era stato programmato per iniziare nel mese di
Ottobre e terminare a Giugno con la fine dell’anno scolastico. Le attività di “giochi
musicali” venivano svolte una volta alla settimana per una durata di due ore e si sono
tenute all’interno di una stanza, non molto grande, appositamente libera e strutturata
per accogliere una bambina di dieci anni con la sua educatrice. A M., che frequentava
in quell’anno la seconda elementare, non era consentito di stare in classe con i propri
compagni, perché ritenuta elemento instabile e di intralcio all’attività scolastica. Era
considerata pericolosa per se stessa e per gli altri pertanto, esclusi gli spazi della
mensa scolastica e del giardino, poteva trascorrere la maggior parte del suo tempo a
giocherellare nella stanza del sostegno scolastico, disegnando e ascoltando musica,
attività che gradiva con piacere ed interesse. Il progetto, accolto con interesse sia dai
genitori di M. che dalle famiglie dei bambini della sua classe, fu supportato anche
42
dalla neuropsichiatria infantile che vedeva nell’attività di musicoterapia certe
potenzialità di carattere relazionale ed educativo. L’obiettivo principale consisteva
nel creare uno momento di interazione fra la bambina ed i suoi compagni di classe
che fungesse da stimolo per rinforzarne i legami sociali e potenziarne competenze
relazionali e risorse cognitive. L’aspetto rilevato nel corso dei primi incontri è stato
quello di accogliere, né più né meno, “ciò che l’altro ci porta”, nell’istante preciso in
cui decidiamo di metterci in relazione con un’esistenza rimasta ancorata ai ritmi
primordiali della vita. M. è una bambina che non era e non sarà in grado di usare una
modalità di linguaggio verbale fatta di parole connesse da un senso logico; la grave
forma di epilessia di cui soffriva era in grado di paralizzarla, quasi completamente e
per alcuni minuti, da un punto di vista espressivo-motorio. Quello che ne risultava
spesso erano stati confusionali in cui evidente era la sua terribile paura di non uscirne
sana e salva. Potevo leggerlo nei suoi occhi, così dolci e allo stesso tempo impauriti e
colmi di rabbia per un qualcosa troppo intenso e difficile da comunicare con le
semplici parole. Provavo una sensazione di impotenza e di forte preoccupazione per
qualcosa di imprevedibile che poteva avvenire in qualsiasi momento della giornata.
Ero colto dalla paura ogni volta che mi fermavo, davanti alla porta della sua stanza,
prima di entrare e scoprire in quale stato emotivo l’avrei trovata. Le attività musicali
con M. ed il gruppo di quattro-cinque bambini che un insegnante di sostegno
conduceva nella stanza, partivano proprio dal constatare innanzitutto lo stato
psicofisico della bambina. Se le condizioni erano ritenute abbastanza stabili e sicure,
davamo tutti quanti inizio ad un gioco musicale che poteva consistere nel suonare
assieme vari strumenti musicali muovendoci attorno nella stanza. La strumentazione
utilizzata nel corso delle attività musicali consisteva di due djembè, una maracas, uno
43
xilofono, due tamburelli e due flauti. Il movimento espressivo, gli sguardi sorridenti,
i contatti fisici, le risa, le carezze, le mani ed i piedi che battono a tempo sono stati
per me gli indicatori dell’andamento del percorso musicale e gli elementi fondanti
del processo terapeutico che conferivano unità e armonia al gruppo. Sono stato
meravigliato e stupefatto nello scoprire la capacità universale dei bambini così
esperti, abili e pazienti nel saper coinvolgere e condurre M. attraverso le varie
tipologie di gioco proposte. Sapevano tutti cosa fare, quando era il momento di
rallentare il ritmo e quando invece poter incrementare l’intensità sonora
dell’orchestra creata dalle voci e dagli strumenti che suonavano. M. sembrava felice
di essere parte di quella che io definisco la “magia della musica d’insieme” e lo
dimostrava attraverso i sorrisi, i suoni che riusciva ad emettere e gli intensi abbracci
che otteneva da tutti. Non dimenticherò mai i lunghi e teneri abbracci scambiati con
me, in quel silenzio così profondo, il nostro respiro che potevamo ascoltare dai
sussurrii nell’orecchio, la mano che delicatamente mi prendeva per tambureggiare su
un libro che produceva un suono quasi impercettibile. In quel preciso istante, potevo
interagire con M. connettendomi al suo ritmo ancestrale, come fosse la punta
dell’iceberg. Questo ci rendeva felici e provavamo piacere nel sentirci vivi, in
sintonia e rassicuranti l’uno per l’altro. Ciò che ha giocato un ruolo fondamentale è
stata l’intenzione, da parte mia, di portarle affetto, sicurezza e protezione, nonostante
la paura, l’angoscia e l’incertezza che provavo standoci a contatto. Se questi elementi
vitali venivano trasmessi utilizzando forme espressive caratterizzate dall’aspetto
ludico con genuinità, accoglienza, spontaneità orientate al bene e al piacere di “stare
con” era possibile cogliere in M. un’infinita saggezza e sensibilità. Solo in questo
modo è possibile accorgersi delle risorse presenti nella persona che abbiamo di fronte
44
che sia una bambina o un adulto, riconoscendone umilmente l’unicità e l’irripetibilità
attraverso modalità comunicanti arcaiche ed i ritmi di vita. La musica ha potenzialità
riparative nel momento in cui l’altro sente di potersi affidare svelandoci ciò che è in
grado di farci vedere e mettendoci nella condizione di ascolto del suo vissuto
interiore. La cosa più importante per me consiste nell’aver potuto lasciare in M. una
traccia affettiva attraverso cui la mia musica possa essere ascoltata ogni volta che ne
senta il bisogno, per sentirsi meno sola e continuare il proprio cammino.
CAP.5: RELAZIONE FRA IL MODELLO INTEGRATIVO E LA
TERAPEUTICITÀ MUSICALE
La funzione essenziale della musica e delle sequenze ritmiche nelle relazioni sociali
e terapeutiche consiste anzitutto nel promuovere i processi di relazionalità primaria
come la sintonizzazione, l’interruzione e la riparazione (Kohut, 1971; Beebe, 2002;
Stern, 2004; Trevarthen, 2009). I quattro sistemi funzionali che costituiscono le basi
del modello integrativo EAIE: evolutività, affettività, intersoggettività ed
esperienzialità (Menoni e Iannelli, 2011), sono interconnessi con i sistemi affettivi
primari e relazionali del gioco, attaccamento/accudimento, della cooperazione etc. e
quindi con i processi terapeutici (Liotti, 1994; Liotti e Monticelli, 2008; Panksepp,
1998, 2009). L’esperienza della musica e dei ritmi presuppone una dimensione di
gioco interconnessa ad altre funzioni come quella di prendersi cura di se stesso e
dell’altro mettendo in campo modalità di interazione intrecciate con i sistemi del
piacere. E’ stato rilevato che questi sistemi, attivi durante l’ascolto e la produzione
45
musicale, sono gli stessi che entrano in funzione all’interno delle relazioni
intersoggettive (Panksepp & Trevarthen, 2009). Il ritmo possiede la capacità di
attivare i sistemi affettivo-motori, quelli a salienza affettiva, quelli deputati
all’attenzione e quelli relativi alle reti resting, fra cui quelle a modalità default.
L’insieme interconnesso di tali sistemi funzionali costruisce configurazioni
simboliche e tendenze all’azione per cui il sentire affettivamente la musica attiva i
processi del sé. Una coordinazione comportamentale e dei sistemi affettivi nella
relazione intersoggettiva è cruciale per il processo adattivo ed evolutivo dei sistemi
complessi. Le configurazioni ritmiche caratterizzanti le espressioni corporee ed i
suoni indicano la presenza di un “social engagement” (coinvolgimento sociale) che
interessa i canali della percezione, dell’affettività e dell’attenzione. Il ritmo riveste
perciò un ruolo importante nel promuovere la sintonizzazione affettiva favorendo
processi di separazione, differenziazione ed individuazione fondamentali per lo
sviluppo psicobiologico dell’individuo. La ripresa della ritmicità come processo di
sviluppo consente al bambino e all’adulto di vivere un’esperienza riparativa di tipo
affettivo fondamentale alla sua crescita e costituisce il paradigma delle relazioni
intersoggettive e terapeutiche. La musicalità, insita nelle relazioni interpersonali,
riflette il bisogno di relazionalità e di appartenenza ai gruppi che ha guidato, nel
corso dell’evoluzione, la sopravvivenza consentendo l’apprendimento socio-culturale
delle usanze e dei riti appartenenti a intere comunità di persone. I principi base forniti
dal modello EAIE forniscono evidenze in supporto alla funzione terapeutica
esercitata dalla musica e dai ritmi. Il primo consiste nel rendere la persona-paziente
protagonista attiva della sua vita e, quindi, anche della terapia (Menoni e Iannelli,
2011). La terapeuticità musicale conserva, come obiettivo primario, quello di
46
riconoscere il carattere unico ed irripetibile dell’individuo, validandone risorse e
attribuendo valore alla sua configurazione globale. L’esperienza di carattere
musicoterapeutico è guidata, momento per momento, dal range di intenzionalità e di
resilienza della persona-paziente sia in termini di relazionalità terapeutica sia di
esplorazione e di connessione delle proprie narrazioni. Dal processo di “espressione
delle intenzioni”, creato dal connubio fra intenzione e linguaggio, scaturisce una
serie di proprietà emergenti che promuovono complessità nell’individuo. Tale
processo può esprimersi attingendo a un vasto repertorio di forme vitali fra cui il
ritmo (Stern, 2010). La musicoterapia promuove l’importanza del “mutuo
riconoscimento” che si stabilisce nell’incontro intersoggettivo fra la persona ed il
terapeuta grazie alla consapevolezza di condividere un’esperienza comune ottenuta
attraverso la sintonizzazione affettiva, l’attenzione condivisa e la conferma reciproca.
Tutto ciò viene prodotto dallo stare immersi nello stesso “flusso dinamico” promosso
dalla musica attraverso l’esperienza della relazione terapeutica. Il terapeuta deve
pertanto cercare di astenersi dal formulare ed esprimere giudizi che potrebbero
ostacolare o modificare il ritmo dell’altro, ma fornire un accompagnamento che
rappresenti un “sottofondo dinamico” alla musica della persona-paziente
preservandone il ritmo con l’aggiunta di alcuni elementi legati alla prosodia
(Wigram, 2004). Un altro principio che mette in relazione il modello integrativo
EAIE e la terapeuticità musicale concerne l’importanza di costruire le condizioni
adatte per lo sviluppo dei processi di autorganizzazione (Menoni e Iannelli, 2011).
Questo si traduce in primis nel fornire un ambiente sicuro, protetto e abbastanza
stabile in cui la persona possa sentirsi validata e libera di esprimere, con i propri
tempi e modalità, i propri vissuti interiori. Proporre un’esperienza di carattere
47
musicoterapeutico prevede innanzitutto di essere consapevole del proprio ruolo
terapeutico, da un punto di vista morale ed etico, saper riconoscere i propri limiti
come persona-terapeuta ed avere alle spalle un patrimonio arricchito da esperienze
effettuate con la musica. Questo definisce il livello di terapeuticità attribuibile ad un
incontro nella musica e la qualità stessa della relazione terapeutica. Quanto maggiore
è la credenza che la musica possa avere effetti benefici su altre persone, avendo già
goduto di esperienze significative, migliore sarà l’impatto che essa avrà sugli altri.
Ciò presuppone una condizione ottenuta dal sentirla, prima di tutto, “vibrare dentro
di sé” e di volerla intenzionalmente trasmettere all’altro, senza obblighi né forzature,
ma attraverso un’ azione di rispecchiamento, imitazione e riproduzione aventi in
comune la conferma del ritmo individuale. Effettuare una sorta di corrispondenza
imitando le espressioni utilizzate dalla persona-paziente e aggiungendo, talvolta,
piccole variazioni o elementi che hanno come finalità quella di pervenire ad una
chiara formazione di significato ed ottenere una migliore sintonizzazione affettiva.
Compito del terapeuta consiste nel garantire la stabilità delle condizioni necessarie
personali all’interno di un contesto professionale definito, come quello offerto da
colui che vuole prendersi cura di una o più persone adoperandosi per cocostruire
un’esperienza di musicoterapia. Essa deve essere volta a garantire i confini affettivi
della persona-paziente evitando atteggiamenti ambigui che possono spingere l’altro
oltre le proprie capacità perturbando il processo di esposizione narrativa e quindi la
relazione terapeutica. Un altro punto di incontro fra il modello EAIE e la
terapeuticità musicale riguarda la metodologia terapeutica che è sempre guidata dalla
ricerca interpersonale delle risorse possibili e disponibili e non da una metapsicologia
patologica categoriale (Menoni e Iannelli, 2011). La terapeuticità musicale è
48
garantita proprio grazie all’assenza di qualsiasi forma di categorizzazione ed
etichettamento della persona-paziente. E’ compito fondamentale del terapeuta quello
di validare le risorse dell’individuo, riconoscendo risorse e limiti, ma senza ricercare
segni e sintomi di patologia. Egli dev’essere in grado di creare un contesto adeguato
ad accogliere una persona portatrice di una storia unica ed irripetibile attribuendo
valore a tutto ciò che viene espresso a livello preverbale e verbale nell’ottica di
favorire un processo di autoriparazione in senso proattivo. Questo si ottiene
calandosi ai livelli di funzionamento specifici di quel soggetto servendosi del canale
musicale o connesso al movimento laddove non sia possibile lavorare su contenuti
espressi a parole. Il terapeuta svolge la funzione di ancoramento, holding e
contenimento fornendo un riferimento musicale stabile attraverso un ritmo costante
che fornisce sicurezza e protezione alla persona-paziente che è in grado di esplorare e
fare esperienza di sé dettando il ritmo al processo terapeutico. L’alternanza degli
scambi espressivi, delle pause, dei silenzi, delle interruzioni e la coordinazione
temporale basata su contenuti non verbali che avvengono durante l’incontro
terapeutico rappresentano, in quanto fenomeni intersoggettivi, un buon strumento di
monitoraggio delle sequenze legate alla narrazione. Ricerche teorico-cliniche
dimostrano come il ritmo sia dotato di una potenzialità riparativa che entra in gioco
nel momento in cui viene condivisa un’esperienza affettiva con la presenza di un
caregiver sintonico nella relazione che si adopera per promuovere processi di
riparazione affettiva.
49
CONCLUSIONI
Il presente lavoro indica come la musica, grazie a specifiche configurazioni
ritmiche, sia in grado di interconnettere una molteplicità di sistemi, come quelli del
sé, motivazionali e a salienza affettiva ed altri deputati alla percezione, alla
memorizzazione, alla coordinazione motoria e all’attenzione che favoriscono
l’attivazione delle reti corticali resting, fra cui quelle a modalità default, garantendo
all’individuo processi fondamentali come l’evolutività, l’affettività,
l’intersoggettività e l’esperienzialità. Per creare le condizioni ideali affinché la
musica possa avere una valenza terapeutica occorre che sia calata in un contesto
terapeutico stabile, protetto e sicuro volto ad ottenere il benessere della persona. Tale
contesto prevede la presenza di un caregiver sintonico che attraverso la propria
esperienza e l’amore per la musica sia in grado di trasmetterla all’altro con umiltà e
naturalezza favorendo processi autoriparativi grazie alla condivisione di una
esperienza diversa e all’esplorazione di nuove modalità comunicative. Tale azione è
in grado di promuovere le risorse personali dell’individuo e quindi la sua
complessità, crescita e adattamento nei vari contesti di vita. La possibilità di
condividere sequenze musicali in contesti di gruppo favorisce il ripristino delle reti
corticali e delle funzionalità danneggiate da traumi neuroevolutivi rafforzando il
senso di sé, la coesione, il coinvolgimento sociale e l’appartenenza al gruppo.
L’intenzionalità dei processi deputati all’ascolto, alla produzione di suoni, alla
50
coordinazione del movimento è uno dei fattori chiave per il successo terapeutico. É
necessario che il terapeuta non interferisca con le sequenze di pianificazione e
progettazione garantite dall’azione delle reti a modalità default bensì svolga un
compito di supporto e contenimento preservando il ritmo della persona-paziente
senza alcun tentativo di modifica o distorsione di significato. Il corretto andamento
delle reti resting e di quelle specifiche del default, derivante dall’ascolto musicale,
determina l’interconnessione di aree corticali come il talamo, l’insula, il tronco
dell’encefalo, la corteccia uditiva e il sistema limbico che garantiscono all’individuo
lo sviluppo di proprietà emergenti. Nello specifico, le reti resting, che viaggiano su
frequenze di tipo alfa, attive durante l’ascolto musicale, favoriscono maggiore
introspezione e rilassamento alla persona. Il fatto che le configurazioni musicali non
producano evidenti variazioni delle reti a modalità default rende in grado l’individuo
di pianificare le proprie azioni orientando le proprie scelte in maniera autonoma.
Esperienze musicoterapeutiche come i circoli di percussione (drum circles)
consentono, a persone colpite da malattie neurodegenerative, di coordinare i
movimenti sincronizzando i sistemi mente-cervello durante l’attività di ascolto e
produzione musicale. La musicoterapia promuove processi autoriparativi laddove vi
sia la presenza di una persona in grado di prendersi cura degli altri, che riesca a
trasmettere la propria passione per la musica e l’affetto alle persone adoperandosi per
cocostruire un contesto sicuro, validante le risorse dell’altro, senza forzarne i ritmi ed
i tempi di recupero. Alcuni metodi terapeutici di carattere invasivo, come il metodo
DBS, garantiscono una nuova sincronizzazione delle reti corticali favorendone la
proliferazione ed il corretto andamento. Alcune esperienze di carattere
musicoterapeutico condotte all’interno di una prigione e in una scuola elementare
51
testimoniano come la musica con i suoi ritmi riesca a tenere uniti gruppi di persone,
promuovendone risorse personali grazie alla unità e all’armonia create dai ritmi
musicali.
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