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Semestrale di ricerca e divulgazione [email protected]

Editore DUEMILAUNO AGENZIA SOCIALECooperativa Sociale Impresa Sociale o.n.l.u.s.via Colombara di Vignano, 334015 Muggia (TS)Tel 040.232331 / Fax 040.232444www.2001agsoc.it - [email protected]

Direttore Responsabile Sergio SerraRedazione di questo numero Sergio Serra Progetto grafico ed impaginazione V_ArT multimedia designStampa Poligrafiche San Marco, CormònsChiuso per la tipografia giugno 2013

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Terzo convegno nazionale di educativa per gli adolescenti

Aula magna del Dipartimento di Studi Umanistici Dell’ Università degli Studi di Trieste23/24 novembre 2012

Congresso nazionale su progetti integrati di presa in carico di tardo adolescenti multiproblematici al passaggio della maggiore età, alla presenza di operatori e tecnici degli enti pubblici, delle associazioni e delle imprese sociali, delle

strutture ospedaliere, della giustizia, delle facoltà universitarie.

Organizzazione:cooperative sociali

La Quercia, Prisma, Eos, Duemilauno Agenzia Sociale, Opera Villaggio del Fanciullo.

In collaborazione con: Università degli Studi di Trieste Dipartimento di Studi Umanistici

Comune di Trieste Assessorato alla Promozione e Protezione Sociale

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EDITORIALE

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Torna il logo/progetto DREAM MACHINE, destinato a promuovere innumerevoli e poliedriche ini-

ziative legate al mondo degli adolescenti. Per la terza volta, dopo le edizioni del 2007 (vedi Scon-

finamenti n. 13) e del 2010, torna a vestire i panni di un convegno nazionale sulle attività educative,

che si è svolto il 23 e 24 novembre 2012. Ospitato come la prima edizione da una sede universitaria

a Trieste, presso il Dipartimento di Studi Umanistici, il congresso ha cercato di approfondire i temi

del passaggio degli adolescenti (con particolare riguardo a quelli multi problematici) delle “Terre

di Nessuno” oltre i confini dell’ età adulta. Una ventina i relatori, anche da altre città italiane, oltre

200 gli iscritti, trai quali molti studenti universitari e tanti operatori /educatori che operano in tutte

le organizzazioni pubbliche e del privato sociale che si occupano di adolescenti e giovani adulti.

Oltre che da Duemilauno Agenzia Sociale, Terre di Nessuno è stato organizzato dalle cooperative

sociali La Quercia , Eos, Prisma e dall’opera Villaggio del Fanciullo, realtà del territorio che gesti-

scono comunità di accoglienza e servizi per minori nella Provincia di Trieste, riunite per la prima

volta in coordinamento; novità non di poco conto nell ‘ottica della costruzione di reti sociali, delle

quali recentemente molto si parla.

Cogliamo l’ occasione per ringraziare ancora una volta tutti i colleghi e i partner istituzionali che

hanno contribuito con professionalità e qualità a determinare il successo di questo ulteriore pro-

getto.

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INTRODUZIONE

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Laura FamulariAssessore alla Promozione e Protezione Sociale del Comune di Trieste

buongiorno a tutti, mi fa molto piacere portarvi oggi i saluti dell’Amministrazione comunale, e vedere tanti operatori e tecnici, di diverse professionalità, insieme, ad affrontare un tema tanto delicato quanto emergente. Questo tipo di esperienza è un’occasione rispetto alla quale la pro-grammazione dell’ente locale dell’ambito di Trieste ma non solo, anche di quello della Provincia e dell’Azienda Sanitaria è rivolta a creare proprio un lavoro di sinergia diretta e di strategia comune sempre maggiore all’interno della programmazione del piano di zona che è una programmazione che copre il triennio 2013 - 2015. Credo che quello di oggi sia un convegno importante principalmente per i temi trattati, per la dimensione nazionale del convegno stesso, ed è sicuramente qualificante che questi temi siano affrontati in modo così competente e professionale anche per l’Università che ospita questa occasione. Quindi io ringrazio la Professoressa Sbisà e il Dipartimento per la realizzazione dello stesso. Tanti auguri per il vostro lavoro e per le vostre riflessioni, e ancora grazie da parte di chi vede in tutto il vostro lavoro una risorsa ormai non solo fondamentale ma della quale non possiamo fare a meno per affrontare i problemi dei nostri giovani. Grazie e buon lavoro.

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Marina SbisàDirettore del Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università degli Studi di Trieste

buongiorno a tutti. Io mi rallegro della vostra presenza qui, nell'aula magna di via Tigor, 22. Sono la direttrice del Dipartimento di Studi Umanistici, ovvero il Dipartimento che vi ospita. Sono io che vi ospito. Mi avete gentilmente ringraziato, ma teniamo conto del fatto che sono appena subentrata in questa carica e che il merito, e quindi i ringraziamenti per aver organizzato il convegno, vanno al precedente ente, che adesso viene riassorbito dal Dipartimento, che è la Facoltà di Scienze della Formazione e, in particolare, al Corso di Laurea in Servizio Sociale. Queste sono le realtà che hanno organizzato, e che io ringrazio molto vivamente di aver portato qui, all'interno dell'Ateneo, all'in-terno delle strutture del nostro Dipartimento, tante persone che sono giovani, che sono motivate, persone che svolgono dei ruoli di rilievo in diversi tipi di istituzioni del territorio, dall'azienda sanita-ria al tribunale, nonché ovviamente sono lieta che ci sia questo tramite, questo rapporto forte con le associazioni e cooperative impegnate nel sociale. Vorrei fare una riflessione brevissima perché il rapporto fra i “saperi” e il “fare” è, in realtà, molto importante da entrambe le parti. Voi siete impegnati in una serie di attività che sono di importan-za sociale grandissima. In un certo senso, voi sì che fate delle cose, mentre molti di noi docenti universitari stanno negli studi a leggere e a discutere, soprattutto nel settore umanistico. Si ha quindi l'impressione di una sorta di contemplatività e di passività. Però ricordiamo che il “fare” funziona se è vigile, se è consapevole, se è illuminato, se è bene monitorato, e, in questo, il “fare” si avvale del rapporto con il “sapere” e viceversa. Chi elabora il “sapere” perde il senso della vita, del rapporto con la vita se non ha un rapporto con chi si colloca maggiormente sul versante del “fare”. Per cui, per il Dipartimento di Studi Umanistici, questo tipo di collaborazione è assolutamente fon-damentale, e spero che, in futuro, continuerà e sarà semmai rafforzata, variegata e approfondita in vari aspetti. buon lavoro a tutti.

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Sergio SerraPer il Coordinamento delle Comunità di accoglienza minori, organizzatrici del convegno.

Prima di dare la parola al Professor Luigi Gui, coordinatore del Corso di laurea in Servizio Socia-le dell’Università degli Studi di Trieste, anche lui, in qualche modo, abitante di questa casa che ci ospita, vorrei ricordare alcune cose. La prima è il tema: “Adolescenti multiproblematici al pas-saggio dell’età adulta”. Poi, nel corso dei lavori, vedrete dei contributi video. Si tratta di interviste che abbiamo registrato - vedrete dove - con alcune persone oggi adulte che hanno attraversato esperienze riguardo al disagio minorile, e ne parlano con grande tranquillità e con grande efficacia. Abbiamo voluto privilegiare anche queste voci insieme a tutte le altre. Grazie.

[video]

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INTERVENTIChairman: Luigi GuiCoordinatore del Corso di laurea in Servizio Socialedell’Università degli Studi di Trieste

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Luigi Guibene, dopo questo avvio multimediale che ci fa entrare anche emotivamente nella situazione, spendo otto parole introduttive. Anch'io brevemente inizio ringraziando la provocazione, lo sti-molo che ci è arrivato da tutti voi, dalle associazioni che hanno organizzato. L'università si candi-da ad essere un luogo di produzione di sapere, di trasmissione di sapere. Ma vi è un sapere diffu-so, un sapere esperto sul campo, molto ricco, talvolta disordinato, in fibrillazione ed è veramente una cosa molto importante. Per questo ringrazio per la sponda che ci è stata lanciata dalle orga-nizzazioni che hanno costruito questo appuntamento. È molto importante poter far incontrare un sapere esperto, diffuso, in continua produzione ed un sapere più sistematico, formalizzato, meto-dologicamente magari più rigido, ma questa composizione a mio avviso può aiutarci a produrre cultura. Mi pare che questa occasione può essere, e lo sarà senza dubbio, un'occasione di produ-zione culturale intesa come la capacità di condividere modi di intendere la realtà. Prima ancora di lanciarci nell'azione è importante poter condividere il senso dell'azione, il senso come “significa-to” e anche il senso come “direzione”. Allora, costruire luoghi che producono cultura è la premes-sa sensata per poter poi muovere un'azione efficace, per farla intendere ad altri e per avere un ef-fetto moltiplicatore. Sono veramente contento di cogliere quest'occasione che mi è stata data di accompagnare que-sti lavori nell'avvio della mattinata. Adesso avremo la possibilità di ascoltare una serie di persone esperte, nel senso che hanno un'esperienza approfondita, e colte, nel senso che hanno una cul-tura che sottende questa loro esperienza. Quindi sentiremo diverse voci e poi ci sarà la modalità - come voi sapete - anche della discussione successiva in workshop di questo materiale diciamo umano. Per poter mettere insieme tante voci ci disciplineremo a ritmo battente con interventi di quindici, massimo venti minuti. La mia funzione è anche un po' quella di semaforo - diciamo così - nella re-golazione dei tempi. Detto questo, non penso di dover chiosare molto e occupare spazio alla condivisione di questa mattinata se non per aggiungere un unico particolare che mi tocca più da vicino. Come avete

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sentito, coordino un Corso di laurea in Servizio Sociale. L'università non produce solo saperi astratti ma ha anche il compito di produrre premesse di conoscenza professionalizzante. Allora, il fatto che gli studenti siano implicati nel dibattito con professionisti e con operatori è in qualche modo un'anticipazione di quello che loro si cimentano a diventare. Già la miscela dei linguaggi di-venta molto importante. Quindi ritengo che questa sia, a tutto campo, un'esperienza formativa per gli studenti. Comincio già dando la parola a Federico Zullo, Presidente dell'Associazione Agevolando.

Federico ZulloPresidente dell’Associazione Agevolando

buongiorno a tutti. Intanto ringrazio le cooperative che hanno voluto la mia presenza oggi. Ci ten-go a dire che già solo il fatto che cinque cooperative del privato sociale si siano messe insieme per organizzare un evento di questo genere, credo sia una cosa molto importante, da valorizzare e con un significato che può essere incisivo nelle azioni che mettete in campo con i ragazzi nel so-ciale in questo territorio. Vorrei dirvi tante cose. Il power point che vedete dietro di me probabilmente lo userò pochissimo nel finale per raccontarvi di questa associazione. Prima, però, vorrei mettere a fuoco un paio di aspetti raccontandovi brevemente due storie, due storie che vi leggerò perché altrimenti ci met-terei delle ore a raccontarvele, per poi andare a vedere quali sono gli aspetti che le contraddistin-guono e che le accomunano. La prima è la storia di un bambino. La mamma lo ha partorito quando aveva 16 anni. Era una ra-gazza madre intelligente ma anche molto fragile. A 17 anni era tossicodipendente, si bucava. Non era mai a casa, scappava e ritornava anche dopo molti giorni. I nonni, i suoi genitori, erano di-sperati, affranti. Non riuscivano a capire quali fossero le motivazioni che l’avevano condotta su quella strada. Il nonno, purtroppo, non ce la fece, il dolore era troppo grande. Morì per un malore

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quando il bimbo aveva poco più di un anno. La nonna era una persona forte, affettuosa, piena di cuore. Questo bambino la rispettava e cresceva con lei grazie alle sue cure e alle sue premure. La mamma era assente. Quando c'era, per lui era più un’amica che un genitore. Nei momenti di al-legria era giocherellona, facevano la lotta, ascoltavano la musica assieme, cantavano. Quando in-vece era in astinenza era di cattivo umore, nervosa, intrattabile. Rimaneva a casa per poco. Nel frattempo, il bimbo cresceva, andava a scuola. Era bravo ma anche molto vivace. Invece di stare a casa, trascorreva i pomeriggi per il paese in giro con gli amici e con la bicicletta. Era inconteni-bile. Non riusciva a rimanere a casa, non era facile per lui stare così vicino al dolore, ai silenzi della nonna, alla disperazione della mamma. Faceva delle marachelle con gli amichetti più ribelli. Gira-vano delle voci nel paesino in cui viveva, e lui era il primo incriminato, quello senza famiglia. C'e-ra bisogno di una figura maschile, di qualcuno che lo contenesse, che gli insegnasse l'educazio-ne. Questo era quello che dicevano la nonna e la zia. Fu così che chiesero l'aiuto ai servizi sociali, e, all'età di 10 anni, fu collocato in una comunità. In realtà era quasi un istituto appartenente ad una congregazione religiosa, condotto da personale religioso. Era un istituto un po' soft, nel sen-so che c'erano circa 30 ospiti, tutti maschietti, di età compresa fra gli 8 e i 18-19 anni. Dormivano in camerate da 8-10 ragazzi, e in ogni stanza dormiva con loro un religioso. In contesti come que-sto, come ben sapete, la qualità delle relazioni e la quantità di apporti affettivi e di attenzioni, di cure sono poco rispondenti ai bisogni. Infatti, con la legge 149 del 2001 sono stati chiusi gli istituti definitivamente al 31 dicembre del 2006. Due erano le strade per poter fronteggiare, limitare gli effetti della povertà affettiva e delle carenze relazionali per questo bambino: sedurre in un certo senso le figure educative in modo tale da poter godere di eventuali privilegi e attenzioni più degli altri, come una lotta tra fratelli per ottenere l'attenzione dei genitori; oppure allearsi con i coeta-nei per condurre una vita sotterranea fatta di furbizie e soprusi verso i più deboli, piccoli episodi di bullismo, azioni devianti, piccole fughe reali o artificiali. Questo bimbo, ormai adolescente, prese un po’ tutte e due le strade. In comunità ha sofferto ma ha anche imparato molto, sia con alcuni, anche se pochi, adulti, con i quali riuscì a costruire relazioni di reciproca fiducia e stima, sia con i coetanei con i quali imparò l'amicizia, anche quella vera, le tecniche di persuasione e di difesa

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personale, sia fisica che psicologica. Diciamo che è stata una scuola di vita ambivalente ma mol-to importante. Fu dura poiché veniva troppo responsabilizzato dal direttore a un certo punto, il quale gli lasciava molta libertà ma usava la sua disponibilità per sé e per il suo bisogno di control-lare che tutto filasse liscio anche in sua assenza. Questo ragazzino - pensate - era colui che, a vol-te, doveva controllare i ragazzi mentre il direttore era impegnato in ufficio o era colui che, a volte, doveva distribuire le merende. Il direttore aveva un mazzo di chiavi grandissimo con quaranta o cinquanta chiavi tutte in un mazzo. Con quel mazzo si poteva aprire tutto. E lui glielo lasciava, lo incaricava di aprire e chiudere porte, di prendere e riportare delle cose. Quelle chiavi erano la sua soddisfazione, il suo orgoglio. Si sentiva forse più potente con quelle chiavi, più forte. Però non erano adatte a lui, era troppo giovane. Si chiedeva di fare l'adulto ad uno che aveva un incessante bisogno di fare l'adolescente. E per fortuna allora che c’era la vita sotterranea. Uscito dalla comu-nità a 18 anni rientra a casa dalla nonna. Nel frattempo la madre era uscita dalla tossicodipenden-za, si era sposata, aveva avuto una figlia. Purtroppo, però, poi la mamma era deceduta. La nonna, dopo quel lutto, entrò in un tunnel di dolore dal quale riuscì ad uscire grazie alla forza e al corag-gio di scrivere la propria autobiografia. Il rientro a casa fu difficile per questo ragazzo; era inquie-to, sentiva la mancanza di qualcosa, sentiva che c'era un vuoto prima colmato dalle relazioni e dal contenimento della comunità, ora da colmare con qualcosa e che l’essere di nuovo a casa con la nonna non bastava. Furono anni difficili. Riuscì comunque a diplomarsi e ad iscriversi all'univer-sità. Ma era troppo pieno di pensieri, di distrazioni, di paure. Nei primi due anni di università fece pochissimi esami. In quel periodo, la sua diventò, purtroppo, più una vita mondana che non quel-la di un ragazzo che aveva voglia di costruirsi e di garantirsi un futuro dignitoso. Questa la prima storia. La seconda storia è la storia di un ragazzo che ha 21 anni e fa volontariato in una comunità. È iscritto a Scienze dell'educazione, è bravo, aiuta i ragazzini a fare i compiti al pomeriggio. Que-sto gli permette di avere anche facilitazioni per il vitto e l'alloggio in un appartamento adiacen-te a questa comunità. A un certo punto, la comunità ha bisogno di un educatore e lo chiedono a lui. Pensate che questo ragazzo, a 21 anni appena compiuti, ha già un contratto da educatore.

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Progressivamente si rende conto, però, che qualcosa nel suo operare non va bene. Si accorge che lui e gli altri educatori utilizzano dei metodi un po' rigidi, esageratamente normativi. Allora, a un certo punto, la comunità esplode. L'organizzazione decide di cambiare modello organizza-tivo: da una direzione religiosa ad una équipe orizzontale di educatori laici. E questo avviene di lì a poco. A quel punto c'è l'avvio di un percorso di formazione e di supervisione per tutti gli educa-tori. Un po' alla volta le cose iniziano ad andare meglio. Questo ragazzo, a 26 anni, una volta lau-reato, intraprende una collaborazione con l'università, dove diventa cultore della materia in Psi-cologia dinamica e clinica, dove lavora in attività di ricerca, documentazione e informazione con la docente con cui ha scritto la tesi, esperta in interventi in comunità per minori. A quel punto ad-dirittura pubblica, fa ricerca, approfondisce con passione le tematiche sui minori fuori dalla fami-glia. Si sposa. A 29 anni non lavora più nella comunità dove ha lavorato per otto anni ma diven-ta responsabile dei percorsi di accompagnamento all'autonomia di neomaggiorenni fuori famiglia di quel territorio. Un bel giorno di sole, nel dicembre del 2009, ormai trentenne, partecipa ad un convegno sui neomaggiorenni organizzato a bologna da alcune cooperative in collaborazione con i servizi sociali del territorio. Si parla dell'importanza di creare rete, di favorire percorsi condivi-si per fare in modo di limitare i rischi di disagio, devianza, delinquenza, deriva del disagio croni-co di giovani adolescenti e adulti rimasti soli senza le adeguate risorse e attenzioni per poter rag-giungere un sufficiente grado di sicurezza e autonomia personale. A un certo punto, parlano pri-ma una poi un'altra ragazza, entrambe ex ospiti di una comunità residenziale. Raccontano breve-mente la loro esperienza e il loro punto di vista sul “dopo”. Questo educatore si illumina. Gli viene un'idea, prima mai pensata: fondare un’associazione con un obiettivo, ovvero limitare i rischi del dopo comunità e con protagonisti loro, gli ex ospiti dei percorsi residenziali fuori famiglia. Questa è la fine della seconda storia. Quali sono le cose che accomunano un po' queste due storie? Sicuramente il contesto in cui si sviluppano: la comunità per minori fuori famiglia, il raggiungimento del diciottesimo anno e tut-to quello che comporta. Ma non solo, ciò che accomuna queste due storie è il protagonista, che è lo stesso. Questa è la mia storia, e ve l’ho voluta raccontare così perché così è stata: due storie in

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una sola storia. Ma ve l'ho voluta raccontare così non per chiedervi un applauso perché sono sta-to bravo ma per provare a ragionare un attimo con voi su un aspetto fondamentale, cioè sull'im-portanza di capire quali possono essere quei fattori che possono offrire una possibilità a ragazzi multiproblematici in difficoltà, a rischio devianza, a rischio di delinquenza, che molto spesso ven-gono considerati disperati. A un certo punto, quando sono uscito dalla comunità e ho iniziato l'u-niversità, non riuscivo a dare esami, ne ho dati pochissimi. La situazione era molto difficile, facevo fatica a trovare una serenità interna. Tra l'altro era anche emersa la figura di mio padre che non avevo mai conosciuto prima. Sono entrato in un turbinio di problematiche fino quasi a toccare il fondo. Ed è stato proprio quando ho toccato il fondo che mi sono reso conto che c'era ancora una luce dentro di me, e quella luce mi ha dato la possibilità di fare un salto in avanti, di fare un cam-biamento straordinario in poco tempo. Quella luce era la relazione con la nonna, la relazione con una persona, la relazione con qualcuno che ha saputo incidere dentro di me il linguaggio dell'a-more, che ha saputo incidere dentro di me il linguaggio della relazione, che ha saputo incidere dentro di me la forza di crederci e il coraggio di andare avanti, il coraggio di superare le difficoltà e di mettere in campo tutte le risorse per poter trasformare positivamente la mia vita. Dopo ho fatto anche un percorso di psicoterapia importante, fondamentale anche questo. Ma questo - ri-peto - per dirvi sostanzialmente che noi ci dobbiamo credere in questi ragazzi, dobbiamo credere anche nel ragazzo più difficile, quello per il quale sentiamo di non potercela fare, per cui abbiamo messo in campo tutte le cose che potevamo mettere in campo e lui ancora non ce la fa, e lui an-cora mostra segnali di disagio, di devianza, di problematicità importante, di delinquenza; oppure nelle genitorialità precoci, in quelle ragazzine che escono dalle comunità e non trovano nessun appiglio, e lo trovano magari in un ragazzo più grande. Poi diventano fidanzati ma il bambino na-sce troppo presto, non sono pronti, e tante altre situazioni. Allora è fondamentale che noi, opera-tori, dico noi operatori, ci mettiamo nelle condizioni di prendere in considerazione anche la possi-bilità che, a un certo punto, una luce ci può essere, e quella luce la possiamo costruire noi, perché nel buio di tutti questi ragazzi, se non esiste un appiglio relazionale, se non esiste una luce che permetta loro di poter affrontare e superare la difficoltà, di poter uscire dal buio, gliela dobbiamo

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costruire noi. Per costruire noi questo dobbiamo assolutamente creare continuità. Non possia-mo mettere in campo degli interventi con minori fuori famiglia, con minori in difficoltà, anche con minori che non sono fuori famiglia ma sono in contesti semi-residenziali, non possiamo mettere in campo interventi e poi, al compimento del diciottesimo anno o poco dopo, abbandonare tutto. Occorre creare integrazione, occorre creare rete. Ora vi dico molto brevemente cosa fa Agevolando. Agevolando è l'associazione che mi è venu-ta l'idea di fondare a quel convegno assieme a quei ragazzi che poi ho incontrato, conosciuto e cercato nel territorio bolognese e ferrarese. È un'associazione nata nel 2010 proprio con l'obiet-tivo di creare maggiori risorse, maggiori possibilità per i ragazzi usciti dalle comunità e da affido specifico, per tutti quei ragazzi che, nel momento in cui raggiungono e si avvicinano all'età adul-ta, si avvicinano alla maggiore età, hanno bisogno di risorse, di interventi e di attenzioni per po-ter raggiungere una sufficiente ed adeguata autonomia, sicurezza personale, sicurezza di sé. Per fare questo abbiamo pensato fin da subito di coinvolgere i ragazzi perché è nata da lì, dalle paro-le dei ragazzi a quel convegno. Tra l'altro, una delle ragazze di cui vi ho parlato è anche lei edu-catrice di comunità. Allora aveva 26 anni, adesso ne ha 29. Cosa abbiamo fatto? Abbiamo fatto tre cose fondamentali: abbiamo, innanzitutto, cercato di costruire rete, e questo è il motivo per cui prima ci tenevo a porre la mia attenzione sull'aspetto che ha portato alla realizzazione di que-sto convegno. Prima di fondare l'associazione ci siamo detti: “Ragazzi facciamo così, comincia-mo ad andare in giro per le comunità”, tanto questo aspetto qui è un aspetto che, per la stragran-de maggioranza dei casi, non porta problemi di competizione, che a volte ci sono, spesso ci sono. Fra enti del privato sociale è normale che poi, anche se non dette, ci siano delle competizioni sui posti, su questo e su quello. Ma con i neomaggiorenni, con i giovani adulti, le risorse a disposizio-ne sono poche. Forse in Friuli c'è qualche risorsa in più perché è una regione a statuto speciale, come anche in Sardegna dove c’è una legge proprio sui neomaggiorenni e molte risorse spese. Ma la stragrande maggioranza delle regioni in Italia - e ve lo dico perché sto girando, sto chieden-do, mi informo - si trova in questa condizione di una drastica riduzione delle risorse a favore dei neomaggiorenni, dei ragazzi che compiono diciott'anni. Tante amministrazioni stanno dicendo

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che appena il ragazzo fa diciott'anni, basta retta, appena il ragazzo raggiunge la maggiore età non possiamo più mettere a disposizione risorse. Allora noi abbiamo pensato che, in una situazio-ne del genere, potesse essere utile andare a ricercare tutte quelle necessità e a rintracciare tut-te quelle necessità collettive di tutti questi enti che hanno il problema dei ragazzi al diciottesimo anno. Siamo andati dalle comunità, dai coordinatori, dai responsabili. Abbiamo presentato la no-stra idea per fondare questa associazione, e su dodici comunità in cui siamo andati in quei mesi (tra febbraio e aprile 2010) nessuno ha detto di no. Ogni comunità ha accettato di partecipare a questo progetto, a questa scommessa. E nell'aprile 2010 eravamo 21 persone, di cui 6 ex ospiti di comunità, in una sala della cooperativa di bologna, e abbiamo fatto l'atto costitutivo dell'associa-zione. Le altre 15 persone erano tutti rappresentanti - o ex ospiti o operatori - di questi enti del pri-vato sociale. Insieme abbiamo sposato questa idea, l'idea di costruire percorsi di agevolazione, di sostegno, di supporto per questi ragazzi, perché, creando rete, abbiamo la possibilità di pescare maggiori risorse. Adesso stiamo presentando dei progetti sia a livello nazionale, sia a fondazioni, sia a livello regionale mettendo, come partner, proprio tutti questi enti o quasi per cercare risor-se, borse lavoro, inserimenti lavorativi, accompagnamenti all'autonomia, appartamenti ad affitti agevolati, ecc. Questo è l'aspetto della rete e del supporto diretto. Abbiamo aperto due appar-tamenti: uno a Ferrara e uno a bologna dove i ragazzi possono usufruire di un affitto agevolato e possono diventare autonomi con una certa gradualità e con una certa tranquillità. E poi abbiamo appunto creato questa idea di valorizzazione delle storie dei ragazzi. Quindi parte-cipazione dei ragazzi, non solo in azioni di volontariato - perché molti dei 30 ex ospiti che vanno dai 18 ai 35 anni ora presenti nell’associazione fanno anche azioni di volontariato - ma anche par-tecipazione nel senso di dire quello che si pensa, di dare voce alla propria storia, di dare voce al proprio pensiero sugli interventi, di dare voce al proprio pensiero su cosa vuol dire essere aiutati e avere delle relazioni. Stiamo facendo dei video, abbiamo un blog, abbiamo un gruppo facebook, partecipiamo a diverse iniziative pubbliche dove anche noi chiediamo di andare a parlare e a dire qualcosa. Addirittura siamo arrivati a parlare anche con la politica: abbiamo partecipato alla stesura di un

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disegno di legge che penso che molti di voi non conosceranno perché è una cosa molto recen-te e che è ora all'esame delle commissioni al Senato. E’ un disegno di legge che si chiama “Misu-re a sostegno dei giovani usciti da contesti residenziali fuori famiglia” e che ha proprio l'obiettivo di creare una condivisione nazionale delle necessità di questi ragazzi e di dettarlo per legge. Noi abbiamo partecipato proprio alla stesura di questo documento. Siamo stati anche in Senato, ab-biamo detto il nostro punto di vista proprio su questo. Vi assicuro che siamo ascoltati, ci ascolta-no. Questo non per dirvi che siamo bravi ma - ripeto - per dirvi che ci sono delle potenzialità vera-mente molto importanti che possono derivare proprio dalla valorizzazione di questi ragazzi, dalla valorizzazione delle storie di questi ragazzi per offrire a loro stessi, ma anche agli operatori, del-le immagini positive di futuro da fissare bene nella mente e da tenere come riferimento per lavo-rare quotidianamente affinché le storie possano prendere una piega costruttiva, ovvero possano permettere ai ragazzi di avere la possibilità di rintracciare dentro di loro i fattori che possono per-mettere loro di rimanere appigliati, aggrappati alla vita, alla speranza, al futuro, e grazie a questo, riuscire ad affrontare le difficoltà e le problematiche. Mi fermo qui perché il tempo è scaduto. Volevo solo informarvi che mi dispiace non potermi fermare ma devo andare ad un altro conve-gno a Roma. Quindi buon convegno a tutti. È un convegno molto bello, viste anche le tematiche dei workshop. Mi sarebbe piaciuto veramente partecipare. Ci tenevo a dirlo. Grazie.

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Luigi GuiGrazie davvero di questo intervento che ci ha introdotto in maniera eccezionale nei lavori di questo convegno. Prima di procedere, devo segnalare che due dei relatori, per diversi motivi, non sono potuti venire. Noi li salutiamo a distanza perché di sicuro sarebbero stati più contenti di essere qui che magari in ospedale o a casa con l’influenza. Sono, appunto, il Professor Zerbetto e la Professoressa Felice che vedete nel programma, ma che non possono essere presenti. Noi continuiamo ugualmente il nostro lavoro.Adesso interverranno la dottoressa Michela Parmeggiani, psicologa, psicoterapeuta, responsabile della Gestalt di Milano, e Valentina Sala, assistente sociale e pedagogista giuridica, sempre di Milano.A voi una breve e veloce nota di autopresentazione.

Valentina SalaAssistente sociale, esperta in pedagogia giudiziaria. Milano

Michela ParmeggianiPsicologa, psicoterapeuta, responsabile della Gestalt di Milano

Valentina Salabuongiorno a tutti, io sono Valentina Sala. Sono un’assistente sociale con una specializzazione in pedagogia giuridica. E lei, appunto, è Michela Parmeggiani, psicoterapeuta a orientamento ge-staltico. Io e Michela lavoriamo per un comune nel sud-ovest milanese, nel servizio tutela minori, da molti anni ormai. L’intervento che vi presenteremo è un intervento rivolto a minori autori di reato in messa alla prova. Anche se solitamente non si parla delle criticità degli interventi, credo sia importante, invece, in

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questo caso, dire quello che io e Michela abbiamo rilevato, ovvero una grossa criticità a livello di tempistica su più fronti, nel senso che spesso e volentieri passa un tempo dal momento della commissione del reato a quando, di fatto, arriva la richiesta da parte della magistratura, l’indagi-ne e il relativo intervento; passa anche un tempo, spesso e volentieri, prima che i servizi riescano a prendere in carico le situazioni e a rispondere nei tempi previsti alla magistratura. Tutto questo ha ovviamente una ricaduta sui ragazzi, i quali fanno fatica a sentire l’efficacia di un intervento così tardivo rispetto ad un fatto commesso a volte anche anni prima. L’intervento mio e di Miche-la è un intervento che si rivolge all’interezza della persona, per cui non si fissa soltanto sul reato in sé per sé, anche per questo motivo, ovvero per il problema dei tempi. È un intervento che si pone degli obiettivi in termini di efficacia e anche di economicità. È un intervento rivolto a un gruppo. Questo, oltre ad essere una scelta operativa ben precisa, significa anche intervenire su più ragaz-zi nello stesso momento.

Michela ParmeggianiPer entrare un po’ più nel merito, quello che vedete qua (powerpoint) è un patchwork di due ope-re di banksy, un artista di bristol. Penso che la frase che abbiamo utilizzato sintetizzi bene quello che noi andiamo a fare con i ragazzi. La leggiamo magari insieme: “Fare quello che ci dicono è, in generale, qualcosa a cui attribuiamo troppa importanza. Di fatto, si dice che vengano commessi più crimini in nome dell’obbedienza che della disobbedienza. Il vero pericolo è rappresentato da chi segue ciecamente qualsiasi ordine esterno”. Questa è una sua opera che si trova su un muro a bristol. L’ultima frase di quest’opera di banksy si richiama e si sposa molto bene con quello che, in psicoterapia della Gestalt, è un concetto cardine, ovvero quello di responsabilità, cioè un’abilità a rispondere; è la capacità di dare risposta a stimoli, ed implica il coraggio di reagire e di sapere, anche con una certa chiarezza, a che cosa rispondere. Implica, quindi, una forma di consapevo-lezza che per Gestalt è di tre tipi: interna, esterna e intermedia. E quando io ho consapevolezza in me, ho consapevolezza di me, del mio corpo perché le emozioni derivano da sensazioni che sono fisiche, diventano emozioni, e le traduco in gesti e comportamenti; e noi spesso andiamo a

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lavorare con i ragazzi partendo da questi due concetti: consapevolezza di me, di ciò che voglio, e responsabilità, cioè la capacità di agire nel mondo. Questo è un pezzo di un intervento di Charmet che è nel milanese ma che credo sia uscito dai confini. E’ una delle persone considerate esperti dell’adolescenza. Lui scrive così: “l’adolescen-te pensa, capisce, ricorda e risolve i suoi conflitti attraverso un linguaggio particolare che non è quello verbale e mentale ma quello dell’azione, del comportamento. I suoi conflitti sono comuni-cati attraverso le azioni e i gesti”. E quindi...

Valentina SalaE quindi, anche un po’ dopo il video che abbiamo visto prima di questo ragazzo che voleva essere considerato come una persona e non semplicemente identificato con il reato o con il fatto com-messo, abbiamo qui una distinzione tra “devianza” e “falsa delinquenza”. La devianza viene definita come un atto o comportamento, anche solo verbale, di una persona o di un gruppo, che viola le norme di una collettività e che, di conseguenza, va incontro a una qual-che forma di sanzione. La falsa delinquenza, invece, viene definita come irregolarità comporta-mentali o commissione di un reato, anche se formalmente catalogabile fra i gravi reati, che non va considerato come sintomo di una tendenza delinquenziale ma giudicato come espressione di una crisi adolescenziale. Io e Michela, in effetti, abbiamo riscontrato nel lavoro con i ragazzi in gruppo che l’etichettamen-to, questo giudizio che c’è su di loro, questo pregiudizio a volte, li fa molto soffrire, li spaventa molto e li infastidisce parecchio. La psicologia, infatti, ci dice che i comportamenti trasgressivi sono indispensabili alla crescita individuale perché ci spingono a diventare noi stessi nonostante i conflitti posti dalle circostanze esterne e dalle nostre difficoltà interiori. La capacità di disobbedi-re fa parte delle competenze per il passaggio all’età adulta.

Michela ParmeggianiPeraltro, la trasgressione fa parte della storia dell’umanità. Se andate a cercarvi in internet la

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parola “trasgressione” trovate anche delle cosucce interessanti che riguardano i primi due po-tenti trasgressori della storia dell’umanità: Adamo ed Eva, e Prometeo, con due forme di tra-sgressione molto diverse. Perché i due ragazzi si sono fatti tentare dall’istinto, simbolicamente rappresentato dal serpente – ci dicono – e hanno avuto il desiderio, o forse non ci hanno neanche pensato; e la conoscenza ha rotto la simbiosi fra l’uomo e la natura. Questo porta a un senso di colpa e di paura. Prometeo fa una scelta. Lui sapeva benissimo che poi sarebbe finito incatenato; se ne frega e trasgredisce agli dei regalando il fuoco agli uomini. Quindi, volontà e capacità di dire no. Lavorando con i ragazzi, ci siamo accorte che, tutto sommato, hanno una voglia di trasgressio-ne, di rito di passaggio tutto sommato sana ma il modo in cui la mettono in atto non funziona. Quindi, evidentemente, si inceppa qualcosa, e l’idea è quella di passare da una trasgressione in qualche modo anche reiterata perché spesso poi si fa fatica ad uscirne - ma non è la stragrande maggioranza dei casi per quello che ci è capitato di vedere, se non altro nell’area dell’hinterland di Milano – verso un altro tipo di trasgressione. L’idea è quella di portarli e traghettarli da un tipo di trasgressione ad un’altra. Oggi pomeriggio nel workshop vedremo questa cosa. Questa frase che vi presentiamo è una frase scritta da tre gestaltisti: “l’atteggiamento di atti definiti aggressi-vi comprende un gruppo di funzioni di contatto diverse: annientamento, distruzione, l’iniziativa e l’ira sono essenziali alla crescita nel campo dell’organismo-ambiente. In presenza di oggetti ra-zionali, questi atti sono sempre sani e in ogni caso non possono venire ridotti senza la perdita di importanti aspetti della personalità, ovvero, in particolare, la fiducia in se stessi, il sentimento e la creatività”. Questo signore, un altro gestaltista, ci dice che “il contesto terapeutico deve saper permettere la conflittualità e offrire un laboratorio protetto di sperimentazione della non pacifica-zione prematura dei conflitti. I conflitti sono spesso definiti in termini ultra-critici mentre si tratta di conflitti relazionali interiorizzati che non potranno essere adeguatamente elaborati se non ben collocati nel quadro del contatto e dell’interazione”. Valentina passa ora al lavoro con gli adolescenti.

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Valentina SalaIl lavoro con gli adolescenti ha tre punti cardine: la centralità del gruppo, la rilevanza della dimen-sione corporea e la condivisione di esperienze significative a partire dall’azione, perché l’azio-ne in adolescenza è il canale comunicativo più utilizzato. Creatività e responsabilità sono spazi che aprono alla vita. Scelta e creatività hanno possibilità di esistere solo nel “qui ed ora”. Que-sto assume un’importanza centrale perché non c’è possibilità di prendere decisioni al di fuori del contesto.

Michela ParmeggianiLa nostra scelta di lavorare in gruppo - come diceva Valentina - è una “furbata” sul piano econo-mico ma, in realtà, il vero motivo è che crediamo che in adolescenza lavorare con il gruppo fun-zioni di più. Io personalmente faccio la terapeuta ma tengo colloqui individuali solo a contrappun-to rispetto al gruppo, e il gruppo ha a che fare molto con l’esercizio della creatività. Utilizziamo due campi: uno è il suo campo, ovvero il teatro.

Valentina SalaPer passione, per motivi miei personali, per il mio percorso formativo, e anche per l’efficacia che abbiamo riscontrato in queste due tecniche, utilizziamo appunto il teatro, in quanto, conoscenza, comunicazione e cambiamento fanno parte di un processo. E, nell’ambito teatrale, possono evol-versi su piani differenti: emotivo, razionale, comportamentale, con una forza trasformativa resa possibile dal contesto globale.

Michela ParmeggianiL’altro elemento – che non esiste, me lo sono inventata – è quello della “psicoeducazione al mo-vimento”. E’ un modo di intervenire facendo terapia a partire dall’azione del movimento. Anche in questo caso, per me è valso lo stesso motivo; cioè, parto da una passione e uso arti marziali a mani nude, danza tribale che è espressione primitiva (oggi pomeriggio lo vedrete nel workshop).

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Sono strumenti di conoscenza di sé nell’azione, senza bisogno di troppe parole. Ultimamente, da tre anni a questa parte, abbiamo aggiunto delle esperienze, che adesso non è sempre possibile realizzare con i ragazzi, attraverso l’utilizzo di biciclette adatte a percorsi in discesa per fare un lavoro sull’assunzione di rischio sano. Questo è il pezzo di terapia dove, con il lavoro gestaltico - e intendo counse ling, psicoterapia - c’è un’attenzione sugli aspetti emozionali che vengono elaborati con tecniche gestaltiche. Si tratta di mettere a fuoco sensazioni, di riconoscere emozioni e di appropriarsene. Questo è il nostro sa-luto, questa frase di Erich Fromm: “L’individuo che non può creare vuole distruggere. E l’unica possibilità di allontanare la distruttività è di sviluppare nella persona la sua potenzialità creatrice”. Ed è un’altra opera di banksy. Grazie.

Luigi GuiGrazie anche a voi due che, fra l’altro, avete così ben coniugato contenuto e metodo, nel senso che ci provocate i contenuti anche con una modalità comunicativa fortemente implicante. Ades-so abbiamo un contributo video.

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Stiamo procedendo veramente in maniera intensa. Chiamerei qui il dottor Paolo Sceusa, Presi-dente del Tribunale per i Minorenni di Trieste, autorevole presenza che ci accompagna in questo convegno.

Paolo SceusaPresidente del Tribunale per i Minorenni di Trieste

buongiorno a tutti. Vi ringrazio di avermi dato l'occasione di poter esprimere in poche parole e in poco tempo qualcosa che tenevo a dirvi anche se, dopo quello che ho sentito e dopo gli spunti che ho raccolto - che alludono, immagino, ad un contenuto interventivo costruttivo del resto del convegno - devo dire che avverto un senso di personale inutilità del mio essere qui, e mi viene voglia di andare via. Mi viene voglia di andare via perché credevo di avere elaborato, attraverso la mia esperienza degli ultimi anni, delle idee veramente nuove, innovative, costruttive e anche creative e inedite, che non avessero ancora trovato nessun tipo di riscontro e nessun tipo di cit-tadinanza in questa modalità interventiva verso i grandi minori o i minori tardo-adolescenti afflitti da problemi particolari che li conducono ad una condotta particolarmente irregolare. Pensavo che l'unico sistema fosse, appunto, quello contenitivo, normativo, e nulla più; esatta-mente quel sistema che li porta alla soglia della maturità, e, una volta superata la maggiore età, li destina a quella inevitabilità di devianza, forse anche delinquenziale, che fa sì che se ne possa parlare come persone forse collocate veramente in una terra di nessuno. Vedo che non è così e me ne compiaccio molto. Quindi immagino che il lavoro da fare per creare questa rete di cui si è sentito molto parlare e si sente soprattutto molto il bisogno, sia meno difficile perché ho scoper-to, con infinito piacere, che le idee che avevo avuto io hanno già incominciato a praticarle molte persone in questa realtà regionale e forse anche in tutto il Paese. Io, allora, approfitterò intanto di questo breve scorcio di tempo per informare chi ancora non co-noscesse completamente - e immagino sia la maggioranza delle persone qui convenute in quanto

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non tecniche del diritto e dell’attività per i minorenni - di come funzionano gli interventi rivolti ai minorenni. Allora, normalmente l'incuria parentale genera nella prole un disagio, una sofferenza. Questa sofferenza, questo disagio si esprimono attraverso dei sintomi rivelatori. Questi sintomi rivelatori vengono normalmente colti da chi circonda quel bambino o quel ragazzo, e poi vengono riferiti a chi ha il compito, nella società, di sostenere quei parenti o quei genitori che presumibil-mente hanno o stanno cagionando quel disagio. Sono le strutture del sociale che vengono attivate; la prima cosa che fanno è prendere contatto con quei genitori. A quel punto, capiscono e rilevano se quella famiglia, se quella coppia o quel singolo genitore si rende conto o meno di avere un ruolo nella causazione di questo disagio o di aver un ruolo nel recupero di quel disagio. Tutte le volte in cui queste strutture del sociale rico-noscono un ambiente familiare capace e sensibile di capire, comprendere il messaggio corret-tivo e di aiuto che viene loro proposto, e quindi di collaborarvi, il sistema dell'intervento sociale esplica fino in fondo, e possibilmente e auspicabilmente con successo, questo intervento. Ancor più facilmente può farlo quando sono gli stessi genitori a rendersi conto della difficoltà che hanno come attori del percorso di crescita dei loro figli e quindi sono i genitori stessi, che si accorgono di essere in difficoltà, a rivolgersi a quelle strutture del sociale, le attivano e quindi, ovviamente, ne ricevono il beneficio che ne deriva attraverso una collaborazione. Tutte le volte, invece, che quei sintomi di disagio vengono colti e vengono sondati attraverso le strutture del sociale, attraverso il personale dei servizi sociali in una famiglia che dimostra, inve-ce, di non comprendere o di non cogliere la problematica, o comunque di non volervi collaborare, allora finalmente, in quel momento, solo in quel momento, scatta la funzione del Tribunale per i Minorenni. Il Tribunale per i Minorenni indirizza, con strumenti coercitivi e coattivi, la potestà ge-nitoriale che, lasciata libera, in quel caso, si esplica attraverso scelte educative e metodiche che provocano, invece di un'evoluzione positiva, un danno nella prole. A quel punto, il Tribunale inter-viene cercando di correggere quella potestà e imponendo comportamenti e prescrizioni, e, nei casi più gravi, arriva a destituire della potestà genitoriale quello o entrambi i genitori. Questo, naturalmente, può essere un percorso che si può immaginare come utile se c’è il tem-

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po di farlo. Ora, i tempi della giustizia, specialmente quelli della giustizia minorile, notoriamente vengono additati per essere lunghi, particolarmente lunghi, troppo lunghi. Non vi voglio dire cosa abbiamo messo in campo al Tribunale per i Minorenni per invertire completamente questa ten-denza. Vi dirò soltanto che il risultato ottenuto fin qui è abbastanza soddisfacente. I nostri tempi non sono più così lunghi, non sono più troppo lunghi. Però dei tempi servono a svolgere quell'i-struttoria che occorre per capire i fatti, per capire qual è l'intervento migliore da mettere in cam-po per correggere quella potestà. Questi tempi a volte non ci sono. Ecco la terra di nessuno. Quand'è che non ci sono? Quando il caso del minore sofferente, ormai preda di un disagio così forte che ne provoca un comporta-mento veramente deviante - più che deviante, autodistruttivo - irrecuperabile perché ormai i ge-nitori non hanno più una voce in capitolo, non possono averla nemmeno intervenendo a correzio-ne delle loro metodiche perché non c'è più tempo. Perché non c'è più tempo? Perché quel minore è ormai molto, troppo vicino alla maggiore età. Con la maggiore età, l'intervento correttivo della potestà da parte del Tribunale viene necessariamente meno per il semplice fatto che la potestà dei genitori cessa con la maggiore età dei figli. Quindi non c'è una potestà da correggere se la potestà cessa. Ecco allora che il Tribunale ha individuato, riconosciuto e riesumato l’operatività di una norma-tiva del 1934, che addirittura qualcuno nega dicendo, in qualche caso, che si tratta di una legge ormai non più vigente. Il Tribunale di Trieste per i Minorenni non pensa che sia così; pensa che sia vigente. Non è né solo né isolato perché anche altri Tribunali lo pensano. Questa è quella parte di una normativa del 1934 - pensate un po’ - che, infatti, era un regio decreto, che prevede che nei confronti di questi grandi minori a condotta irregolare - così li definisce - vi sia un intervento sintonico rispetto alla cultura del tempo. Cioè, un intervento essenzialmente contenitivo, se non costruttivo. Prevede due modalità tipiche di intervento: uno è l'affidamento al servizio sociale, e l'altro è il collocamento in un istituto che è sufficiente chiamare “correzionale” per capire bene, cioè un “confinamento correzionale”. Questa era la risposta che nel 1934 si dava alle problemati-che portate dai grandi minori in condizioni di predevianza, appunto la condotta irregolare.

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A tutt'oggi questi sono gli strumenti che il Tribunale per i Minorenni può mettere in campo in que-sti casi proprio perché non c'è il tempo per fare altro o per fare qualcosa verso la potestà dei ge-nitori. Quindi si tratta, in sostanza, di perimetrare, con un cordone di sicurezza, il minore dalla condotta irregolare per evitare che si faccia o faccia del male per quel tempo sufficiente che lo accompagna alla maggiore età per poi lasciarlo un po' a se stesso, salvo la valvola di sfogo che quella stessa legge - guarda caso – prevede, ovvero di poter allungare questo periodo di cordo-ne sanitario, protettivo, fino all'età di 21 anni. Ci sono poi discussioni abbastanza infinite – che vi risparmio - in ordine all’interpretazione di questa norma ma vi dico la conclusione: noi a Trieste, ma non solo noi, riteniamo che, benché la minore età non sia più fino ai 20 anni ma soltanto fino ai 18 anni, quella norma può continuare a trovare applicazione perché nel 1934 la maggiore età era 21 anni. E quindi riusciamo a fare scattare questo collocamento in questa comunità che ormai non è più un istituto correzionale ma una comunità di tipo familiare, di accoglienza. Molto spesso c'è la necessità, accompagnata dalla difficoltà, di trovarne una che abbia caratteristiche conteni-tive proprio perché quello è ciò che la legge propone, se non impone - visto che vi parla uno che di mestiere fa il giudice - di fare nei confronti di quel minore. Allora, strada facendo, ci siamo accorti che il risultato era assolutamente fallimentare. Il minore veniva confinato in un ambiente chiuso e poco permeabile da parte sua, nel quale non si poteva muovere con la stessa libertà che si era conquistato da solo a prezzo di conflitti e di trasgressioni molto gravi nei confronti, appunto, del suo ambiente familiare, tanto da non sentire più ragioni da parte di nessuno. Quel confinamento fine a se stesso era destinato a trovare la risposta in quel ragazzo, in quella ragazza che non era altro che una collana di continue fughe, di allontanamenti seguiti da riaccompagnamenti con altre fughe, eccetera, con una dispendiosità di energie fisiche ed economiche da parte di tutti assolutamente abnorme considerato il risultato che produceva, cioè il nulla, se non l'abbandono a se stesso di questo giovane o di questa giovane. Negli ultimi tre anni, l'incidenza quantitativa di questi casi è cresciuta con una velocità parago-nabile a un'impennata asintotica, anche se fortunatamente questa è una regione meno difficile di altre, finché dura. Diciamo che siamo passati, nel corso di tre anni, da quei 4-5 casi all'anno a

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quasi 20 casi all'anno. Purtroppo la tendenza non accenna a diminuire. Riserverò al pomeriggio, al workshop, la spiegazione del come mai questi casi trovino un inter-vento, una rivelazione, una trattazione così tarda e non precoce, non anteriore. I più fantasiosi di voi forse potranno già immaginarne le ragioni principali, sennò comunque le dirò. Si tratta co-munque dell'inevitabilità di un intervento tardivo. L'intervento non può essere solo quello. Tutto quello che volevo proporre l’ho sentito già proposto e in parte realizzato. Allora, la risposta non può essere soltanto quella confinatoria del Tribunale, quella perimetrale, ma deve cadere in un humus, deve trovare un terreno già fertilizzato e arato proprio da quelle strutture del sociale - non necessariamente pubbliche ma anche private - sorte a volte spontaneamente, sempre in modo benemerito e meritorio, dalla fantasia, dalle esperienze, dalle energie, tante volte a fondo perduto, di persone come quelle che abbiamo sentito parlare fin qui, le quali, magari forti - e non dico a caso “forti” - di un'esperienza così negativa e così apparentemente debole, così marginale, così esclusa, lo hanno capito, chi vedendo la luce - come abbiamo sentito dire stamattina - e chi semplicemente scavando in fondo alla propria intelligenza particolare, alla sensibilità particolare di quelli come lui o come lei che li ha portati a quella devianza, a quella trasgressione per moti-vi che forse, sotto sotto, magari costituiscono una ricchezza particolare di quelle persone, che genera un'insofferenza particolare in quelle persone e che genera una capacità di vedere oltre rispetto alle soluzioni classiche proposte normativamente da questa bella società che ci sta por-tando dove stiamo andando. La loro è una protesta ad oltranza così terribilmente genuina, spontanea, giovanile e ricca anche di energia mal indirizzata da finire poi per essere autodistruttiva, perché che cosa resta di fronte alla necessità di non accettazione dei modelli così tanto escludenti che questa società ormai pro-pone oggi per i giovani, e proprio per i giovani in difficoltà, se non reagire nella maniera più facile, cioè autodistruttivamente? Io penso che sia arrivato il momento di trovare maniere nuove, belle, stimolanti, accattivanti, cre-ative, e perché no artistiche, e perché no produttive, di iniziative autogestite e autoresponsabili da cui emerga la cosa più difficile che questi ragazzi possano sperare, cioè un lavoro che sorge

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dalle loro stesse menti, fantasie, iniziative, e che possano trovare e riconoscere nelle strutture che già ci sono. Noi abbiamo soltanto il compito - che io credevo difficilissimo ma mi pare di ve-dere che è molto più facile di quello che ritenevo - di trovare queste strutture, di riconoscerle e di elencarle, e di fare in modo che fra di loro si riconoscano, e che ognuna riconosca la propria funzione e quella delle altre all'interno di una rete, di una rete che sia connessa attraverso la con-sapevolezza di esistere e di essere accomunati dal medesimo scopo per poter offrire tutte quelle alternative possibili che questi ragazzi, e che noi stessi, magari non osiamo nemmeno sognare, e che consentano non solo a loro di sfruttare quello che già c'è ma di crearle insieme a loro o in-dipendentemente da loro, soltanto attraverso un percorso di accompagnamento,di stimoli e di fiducia che metta in moto l'autoresponsabilità. L'abbiamo sentito dire, è verissimo: cosa mette di più in moto l'autoresponsabilità di un ragaz-zo come quello di cui si parlava durante l’intervento di Federico Zullo, il quale diceva: “Ricordo di aver avuto in mano un mazzo di chiavi. Quelle aprivano tutto ed erano state date proprio a uno a cui, visto dall'esterno, con l’ottica del normale giudizio-pregiudizio, non si affiderebbe nemmeno una mentina”. Attraverso la stimolazione che viene data dal riconoscere una diversità, diversi-tà apparentemente solo trasgressiva all'inizio, ma proprio per questo particolarmente creativa, riconoscere quella diversità e darle le potenzialità per esprimersi non solo attraverso la presen-tazione di quel che c'è ma anche attraverso la possibilità di ideazione collettiva per creare delle strutture autoportanti. In fin dei conti, il sogno più bello e anche un po' visionario che potremmo fare uscire da qui non è proprio quello di creare dal massimo degli svantaggi e dal massimo dei problemi il massimo dell'opportunità? Io penso che, alla fine, il ruolo di un Tribunale per i Minorenni, che così raramente viene portato e interpretato fino a queste estreme conseguenze, debba essere questo e solo questo perché, se non riesce ad esprimere e ad essere questo, tanto vale che sparisca. Di giudici di altro tipo ce ne sono già a bizzeffe. Potrebbe fare questo tipo di lavoro qualunque tribunale per la separazione - chiamatelo come volete, anche per i minori e per la famiglia - ma deve mettersi in testa di diven-tare proprio lo strumento di passaggio fra il momento della peggiore crisi di un portatore adole-

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scente di questa crisi e l'opportunità. Deve essere il collettore di questo momento, il catalogatore di questi momenti di crisi particolari perché la legge lo destina ad essere imbuto di quel tipo di fatti, di quel tipo di segnalazioni. Quindi, per legge, dobbiamo essere coloro i quali, dolorosamen-te, ricevono e catalogano tutta questa quantità di sofferenza agita. La sofferenza del minore non è parlata, è una sofferenza agita, molto spesso agita verso se stes-so, distruttivamente. Il Tribunale viene a conoscere e a sapere tutte queste crisi, e ha il dovere, il compito precipuo di trasformare questi momenti di crisi in occasioni di recupero, in occasioni di crescita e di trasformazione positiva, quasi salvifiche. Confrontando questi obiettivi con i risultati che normalmente i Tribunali per i Minorenni ottengono c'è da mettersi veramente le mani nei ca-pelli, per i fortunati che ce li hanno. Il Tribunale per i Minorenni di Trieste vede queste cose, le ha capite e si è messo su una strada di-versa per agire e interagire in maniera diversa con l'occasione che il diritto gli dà di ottenere risul-tati diversi, coltivati in un'altra maniera. Una di queste maniere è quella di cui state parlando oggi.Quindi io penso che più di così non debba dovervi dire in questo breve intervento. Dopo di che mi propongo come coordinatore di questo gruppo di colloquio, di studi, di riflessione che seguirà, non tanto per dire molto di più, quanto per sforzarmi di richiamare tutti coloro che vorranno par-tecipare ad un concorso di idee su come fare per realizzare quegli obiettivi così apparentemente irraggiungibili che vi ho detto prima: generare occasioni non solo di recupero, non solo di cresci-ta ma addirittura di autopromozione lavorativa e quindi finanziaria, indipendenza economica per questi giovani che hanno quelle energie, quelle potenzialità - e vi parlo sostanzialmente di tutti quelli che ho conosciuto io - da esprimere e da far fruttare a loro stesso favore. Grazie dell'attenzione.

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Luigi GuiGrazie davvero di questo intervento che, per certi versi, non sempre ci si aspetta da un Presi-dente di Tribunale, nel senso più positivo del termine. È quasi un atteggiamento visionario ma in termini costruttivi laddove siamo abituati a vedere Tribunali che, talvolta, esercitano la mera funzione coercitiva, anche se questa responsabilità non viene tolta e può diventare, talvolta, in-vece l’elemento di freno di una imposizione adulta nei confronti dei minori. In questo senso, è una funzione assolutamente delicata. L’alleanza fra istituzioni che hanno la funzione anche coercitiva, e il mondo sociale ricco e vivace può produrre veramente molto anziché un antagonismo. Vi rin-grazio moltissimo. Stiamo lavorando in maniera veramente ricca.

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La mattina è ancora densa di contributi. Adesso diamo la parola alla dottoressa Licia barbetta, Responsabile tecnico dell’Unità Minori del Comune di Trieste, che ci introduce alla prospettiva dell’Amministrazione Comunale.

Licia BarbettaResponsabile tecnico dell’Unità Minori del Comune di Trieste

buongiorno a tutti. Quello che vi dirò è un po’ il frutto di un’analisi complessiva elaborata dall’U-nità Minori del Comune di Trieste. Quindi ringrazio fin d’ora anche gli altri operatori che mi hanno aiutata a fare questa sintesi, in particolare il collega educatore Paolo Taverna, l’educatrice Elena De Cecco ma anche Silvia Chmet. È il frutto di un lavoro che abbiamo fatto insieme. Credo che questo evento della durata di due giorni, promosso dal terzo settore, di confronto tra enti, servizi e associazioni che incontrano i ragazzi adolescenti multiproblematici sia molto im-portante sia per la città, quindi per tutti noi, ma anche per le comunità, le realtà e le associazioni che accolgono questi ragazzi. Mi piace pensare che queste due giornate di riflessione siano anche il frutto di un percorso di confronto e di crescita nel quale anche l’Unità Minori ha fortemente in-vestito. In questi anni, come Comune, si ha la percezione che ci troviamo di fronte, in città, a un interlocutore collettivo, quindi non solo singole associazioni ma un’entità che è ovviamente mag-giore delle parti e che sicuramente ci costringe a riflettere e a trovare nuove soluzioni ai problemi dei ragazzi affidati all’ente locale. Questa iniziativa chiarisce anche un altro aspetto, ovvero che la relazione fra l’ente locale e i soggetti del terzo settore, in questo momento, dà l’idea che si possa passare da una fase di mera collaborazione dove, per chiarire un po’ il significato del termine al-meno per noi, è l’ente locale che stabilisce le finalità e condivide con il terzo settore solo i mezzi e gli strumenti per raggiungere le finalità, a una progettazione condivisa dove si condividano an-che le finalità. Passerò poi ad illustrare, per darvi un’idea di che cosa vuol dire, in questi ultimi anni, occuparsi dei ragazzi in questa città dando anche alcuni numeri che riguardano gli interven-

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ti che noi svolgiamo. Per quanto riguarda gli accoglimenti dei ragazzi nelle comunità educative, nel 2009, su un totale di 132 ragazzi, c’erano 30 ragazzi che avevano dai 14 ai 17 anni mentre 10 avevano più di 18 anni. Nel 2010 abbiamo avuto 123 ragazzi: 37 dai 14 ai 17 anni, e 10 con più di 18 anni. Nel 2011 abbiamo assistito ad una considerevole diminuzione di minori accolti nelle comuni-tà; siamo passati a 111 di cui 38 - c’è un aumento dell’età dei ragazzi - dai 14 a 17 anni, e 18 ragazzi con più di 18 anni. Questo vuol dire che l’ente locale, anche su mandato del Tribunale per i Mino-renni ma non solo, accoglie i ragazzi anche oltre i 18 anni. Questo anche per un ragionamento di “non buttare via”, di non sprecare le risorse economiche che si sono spese fino al compimento del diciottesimo anno. Quindi, se c’è la necessità che un ragazzo termini un percorso o formati-vo o di avviamento al lavoro, è bene che questo ragazzo viva in una condizione ancora protetta proprio per portare a compimento questo tipo di progetto. Un altro elemento: nel 2011, 4 di que-sti ragazzi sono accolti in comunità cosiddette terapeutiche. In genere sono ragazzi con proble-matiche anche legate all’handicap e sono ragazzi che magari sono bambini nati non riconosciuti da entrambi i genitori, e da sempre collocati in comunità perché non era stato possibile attivare altre forme di adozioni o affidamenti a famiglie. Oltre agli accoglimenti nelle comunità, nel 2011, per i ragazzi dai 16 ai 21 anni, abbiamo lavorato anche proponendo altri interventi: ci sono stati 19 ragazzi accolti nei centri diurni che sono appunto strutture dove l’intervento si focalizza sulla giornata mentre alla sera i ragazzi tornano a casa, 1 ragazzo accolto nelle comunità alloggio pro-prio perché aveva più di 18 anni; si chiamano “comunità alloggio” e sono in genere comunità ad alta autonomia, si codificano anche in questo modo per dare l’idea sul tipo di servizio offerto. 4 ragazzi sono stati accolti in foresterie, strutture che accolgono i ragazzi e dove la presenza degli educatori non è continua ma solo in alcuni orari; infine, abbiamo avuto 3 ragazzi oltre i 18 anni per i quali abbiamo costruito, insieme a un’associazione della città, dei percorsi di autonomia, in-centrati sull’autonomia, sia per quanto riguarda la ricerca del lavoro - e quindi riuscire ad essere autonomi - sia la ricerca di appartamenti privati; quindi, attraverso il pagamento, da parte dell’en-te locale, di affitto, luce, acqua e gas, e tutte le spese, questi ragazzi, accompagnati dagli educa-tori, sono stati in grado di diventare autonomi. Questi, ovviamente, sono percorsi che durano nel

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tempo perché magari erano ragazzi accolti nelle comunità e poi noi, insieme agli educatori delle comunità, abbiamo sviluppato questi tipi di progetti. Per dare un’idea di che cosa vuol dire occuparsi dei minori in generale e quindi anche di bambini più piccoli in città, vi do alcuni numeri complessivi relativi anche della spesa. Vi do la spesa anche degli accoglimenti delle mamme perché – come sapete - ci sono anche delle situazioni in cui si accoglie, oltre ai bambini, anche la mamma Per gli accoglimenti nelle comunità, nel 2010, su 144 accoglimenti, la spesa è stata di € 3.262.000 circa. Si parla di queste cifre. Nel 2011, essendoci meno ricoveri, la spesa è stata invece di € 2.819.000. I progetti che vi dicevo prima, si definiscono “di deistituzionalizzazione” anche se è un termine che non ci piace molto perché, da molti anni in città, ancora prima della legge 149, non esisteva-no più gli istituti. Oggi si parla di comunità familiari, comunità alloggio. Abbiamo, come dicevo, avviato complessivamente 67 progetti di uscita dalle comunità, e la spesa è stata di € 390.000. Invece, per quanto riguarda gli affidi, l’affido eterofamiliare, sempre regolato dalla legge 149 ma anche interpretato un po’ dall’amministrazione comunale – parliamo non solo del collocamento dei bambini nelle famiglie a tempo pieno ma anche dei cosiddetti “affidi leggeri”, con il ritorno a casa nella propria famiglia per cui ci sono delle famiglie di appoggio durante la giornata - nel 2010 ce ne sono stati 179, nel 2011, 191 con una spesa pari a € 610.000 per il primo anno e € 667.000 per il secondo anno. Per ritornare un po’ alla problematica del convegno bisogna sicuramente nominare, anche se li nominiamo solo, il lavoro che svolge l’amministrazione quanto all’accoglimento dei minori stra-nieri non accompagnati. In questi ultimi anni, i numeri si sono molto ridotti: si è passati da 500 ragazzi ogni anno (10 anni fa) che passavano dal Comune, a circa una cinquantina ad oggi nell’in-tero anno. Sono ragazzi collocati in comunità con carattere più educativo, di formazione-lavoro; non sono le comunità educative dove in genere, invece, sono accolti gli altri ragazzi. Questi mi-nori stranieri non accompagnati provengono sia da paesi dell’Est, sia da paesi del Nord Africa. C’è un grosso intervento di avvio alla formazione-lavoro per fare sì che siano in grado di avere i documenti personali per ottenere successivamente il permesso di soggiorno e quindi, al momen-

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to del compimento del diciottesimo anno di età, di poter non essere espulsi, di non essere messi in condizioni di espulsione ma di essere autonomi e rimanere in Italia. Noi ci occupiamo di questo tipo di ragazzi in quanto prevale la condizione di minore su quella di straniero. La normativa ci dice questo, per cui gli interventi dell’ente locale sono sicuramente molto precisi, la responsabi-lità è molto precisa. Ritornando un po’ alla problematica di come il Comune si è strutturato per fronteggiare il problema dei cosiddetti grandi adolescenti, preciso che nel 2011 abbiamo lavorato come Unità Minori attraverso due modalità: sviluppando dei progetti di domiciliarità direttamente con le comunità educative, costruendo anche lo strumento della convenzione; quindi, anche da un punto di vista amministrativo, abbiamo inserito un articolo che preveda la possibilità che gli educatori delle comunità svolgano questo tipo di funzione, ovvero di costruire un progetto alle dimissioni del ragazzo, che le faciliti, che consenta di fronteggiarle insieme, di condividerle e di avere la possibilità di un accompagnamento al di fuori della comunità oppure di riaccogliere per un periodo il ragazzo o la ragazza per delle attività pomeridiane, in modo che lo sgancio avvenga nella maniera più funzionale possibile. In secondo luogo, abbiamo lavorato molto con le colleghe assistenti sociali per elaborare degli specifici progetti che riguardassero, appunto, il problema delle dimissioni di questi ragazzi. È stato dunque fatto un lavoro - e ringrazio anche le colleghe presenti - di costruzione di questa metodologia di lavoro. Nell’anno abbiamo raggiunto un nume-ro significativo: ci sono state 50 dimissioni di bambini e ragazzi dalle comunità, non solo della fa-scia di età considerata ma complessivamente. La finalità di questo lavoro non era tanto quella di ridurre di per sé la spesa ma di utilizzare i soldi destinati ai minori per altre tipologie di intervento. L’intento non era solo quello di ridurre la spesa o di chiudere le comunità, perché non è questo il senso del lavoro che stiamo facendo. Che ci siano le comunità educative è una condizione ne-cessaria, e ci saranno sempre. La cosa che chiediamo è che gli interventi siano qualitativi, e quin-di che il trascorrere del tempo di questi ragazzi sia al meglio all’interno delle comunità. Il senso, dunque, era quello di trovare e di definire, negli obiettivi della permanenza, la qualità del progetto in modo che vi sia un grosso investimento per questi ragazzi nel momento in cui arrivano ad es-sere dimessi. Preciso che vi sono alcune difficoltà che sicuramente stiamo attraversando, ed io le

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esplicito in modo che magari, anche nel pomeriggio, ci sia il modo di affrontarle o magari di capire se ci riconosciamo rispetto a questo tipo di difficoltà. C’è un contesto socio-economico nel quale viviamo dove è sempre più difficile per questi ragazzi, e comunque per i ragazzi in generale, spen-dersi o trovare delle reali risorse per la propria realizzazione personale. E l’autonomia è sempre più un miraggio. Stiamo affrontando questo tipo di problemi. C’è poi un altro elemento: il manda-to regionale, legato in maniera molto specifica a una diminuzione di risorse. E, all’interno di que-sto mandato, c’è uno specifico input che invita a diminuire i ricoveri e a ridurre la durata della loro permanenza. Questo lo possiamo condividere sicuramente; preciso, però, che non esiste, in Regione, un piano sociale per i minori. Quindi, a fronte di mandati molto specifici, non sono espli-citate delle politiche, delle programmazioni complessive rispetto ai ragazzi, e questo è un grosso elemento di fatica e di disagio almeno per chi deve pensare a organizzare il servizio. Terzo aspetto: la particolarità di questa città. È una città dove la percentuale di persone anziane è molto alta; è la città più vecchia d’Italia e sicuramente il carico assistenziale delle famiglie è rivolto alle persone anziane, cioè ai propri genitori. Quindi c’è poca disponibilità da parte di queste fami-glie ad occuparsi dei ragazzi, dei bambini, non dei propri ma, per esempio, noi facciamo molta fa-tica a trovare le famiglie disponibili ad accogliere i minori a tempo pieno, e non credo che il motivo sia una mancanza di sensibilità, di un’attenzione verso i ragazzi, ma proprio perché le famiglie sono occupate, hanno un peso assistenziale notevole. Questi sono elementi di contesto che non aiutano sicuramente. Ci sono poi alcuni aspetti di criticità che si voleva evidenziare: siamo in un momento in cui mancano delle idee che prefigurino dei grandi cambiamenti. Ci sono invece dei piccoli pensieri, delle piccole idee che prefigurano cambiamenti settoriali, suddivisioni delle po-litiche in rivoli, che perseguono obiettivi diversi mediante strumenti diversi. In questa situazione, è difficile pensare che stiamo tutelando i diritti dell’infanzia e degli adolescenti. È necessario un grande cambiamento rispetto ai ragazzi e ai bambini. Non è possibile pensare che tutto venga finalizzato con degli interventi settoriali. Questo è un punto di domanda che credo sia interessan-te porsi. C’è un altro aspetto che si voleva evidenziare: pensare di fronteggiare queste tematiche vuol dire pensare a dei cambiamenti che investano molti aspetti: non solo il mondo dei servizi so-

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ciali ma anche quello dei servizi scolastici educativi, della giustizia ma anche dei servizi sanita-ri, del tempo libero e della formazione e avviamento al lavoro e quindi, in generale, soprattutto l’aspetto culturale basato sulla visibilità delle politiche per i diritti dei ragazzi. Un altro aspetto di criticità è il lavoro di integrazione istituzionale della collaborazione tra il pubblico e il privato nel-la programmazione dal basso verso l’alto, nella progettazione della verifica e quindi nell’aspetto processuale. La realtà della nostra città è molto ricca. Io credo che noi non partiamo da zero nel fronteggiare la tematica dei minori e la tematica degli adolescenti, e siamo in rete. Io credo sia bene dire queste cose perché, sia con l’Ufficio del Servizio Sociale del Ministero della Giustizia, sia con il Tribunale per i Minorenni ma anche con l’istituzione scolastica, con tutto il terzo setto-re, ci sia la rete, ci si riconosca. Quello che manca è proprio di condividere insieme la direzione e come fronteggiamo le questioni. Molto spesso, nel momento in cui ci si trova a programmare, c’è un’autoreferenzialità sia istituzionale del mondo dei servizi, sia delle associazioni che è forte, molto forte. Questo, a volte, è un elemento di criticità perché non riusciamo a superarla e quindi a trovare delle strategie insieme, anche se credo debbano essere nominate delle esperienze e delle progettualità molto buone: ad esempio, aver risposto al problema dell’abbandono scolastico at-traverso la progettualità del “Non uno di meno”, ed è degno di nota anche un altro progetto che si chiama “Androna degli orti”, il quale ha fronteggiato di più le problematiche degli adolescenti o dei ragazzi con problemi di tossicodipendenza. Io chiudo l’intervento perché il tempo è scaduto. Grazie.

Luigi GuiProcediamo immediatamente alla visione del video. Poi seguirà il secondo intervento.

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bene. Queste immagini e queste parole ci tengono sempre incollati alla realtà viva, concreta, pulsante. L'intervento della dottoressa barbetta ci ha accennato la criticità dell'integrazione fra pubblico e privato, e anche la dimensione della prospettiva globale e non settoriale. Noi seguiamo questa pista e, in questo senso, chiamiamo il Dottor Roberto Mezzina, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell'Azienda Sanitaria.

Roberto MezzinaDirettore del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASS1 Triestina

Naturalmente mi sarebbe piaciuto che non si chiamasse con questo titolo così triste di “Diparti-mento di Salute Mentale” ma “Dream Forum”, una formula un po’ più vicina, in termini di linguag-gio, ai lavoro di questo convegno. Parliamo un po’ di che cosa succedeva e sta succedendo nella salute mentale dei giovani per quanto riguarda l’osservatorio dei Servizi di Salute Mentale, e non di Psichiatria - e lo sottolineo. A Trieste abbiamo 28.000 giovani sotto i trent’anni; di questi, soltanto una piccola percentuale viene vista dai Servizi di Salute Mentale. Una percentuale molto più piccola di quella di altre fasce di popolazione. I nostri servizi vedono 5.000 persone all’anno qui a Trieste, quindi il 2,2% delle persone che abitano in questa città si rivolge ai Servizi di Salute Mentale di Trieste per percorsi terapeutici, di inclusione sociale, eccetera. Di fatto, ogni anno, fra i 160 e 200 giovani sotto i 25 anni arrivano da noi; di questi, fra un terzo e un quarto hanno disturbi severi di salute mentale. Spesso non sono disturbi colti all’inizio; sono percorsi già iniziati, iniziati prima, dei percorsi non riconosciuti, dei percorsi sporchi che arrivano con una serie di ammaccature o di problematiche che si sono sovrapposte e di percorsi, anni fa, ancora drammatici. Pensate che, non più tardi di 10 anni fa, circa l’80% delle nuove situazioni con diagnosi, per esempio, di psicosi che arrivavano a Trieste, arrivavano tramite il pronto soccorso, nonostante la rete di Trieste sia fra quelle che, in Italia, hanno fatto della bassa soglia una cifra.

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È facile venire in un centro di salute mentale: basta varcare la soglia o fare una telefonata; di so-lito la risposta è organizzata nell’arco della stessa giornata, e questo è uno dei punti di qualità principali del servizio. Naturalmente, come voi sapete - ne parlerà il mio collega Carrozzi, e se ci fossero i colleghi dei Distretti confermerebbero - noi ci occupiamo di disturbi mentali nell’adulto, quindi sopra i di-ciott’anni, ma questi problemi cominciano molto prima. Stiamo dicendo da stamattina, in questo bellissimo convegno, che si tratta di percorsi che, a un certo punto, hanno anche avuto dei buchi per molti anni: persone seguite nell’ambito del servizio sociale, con problematiche di varia natura, di disagio, disagio sociale, disagio psichico e a volte anche disagio psichiatrico che incontravano specialisti, si recavano al burlo Garofolo, incontravano i Distretti mentre i Distretti si andavano costruendo. A volte facevano percorsi di comunità. E qui lancio una provocazione: mi piacerebbe partire da eventi come questi per cominciare a parlare di qualcosa di diverso dalle comunità; non tutto è comunità. Se andiamo in giro per il mondo e parliamo di servizi per giovani adolescen-ti, strabuzzano gli occhi se pensano che l’Italia sostanzialmente offre comunità e basta. Vi sono molte forme di servizio che possono essere offerte in luoghi adibiti alle persone, come l’Orga-nizzazione Mondiale della Sanità - di cui siamo collaboratori - ci indica, luoghi piegati sulle realtà delle persone. Dobbiamo essere noi, come sistema pubblico, insieme alle componenti delle or-ganizzazioni governative, associazioni, cooperative sociali, tutti coloro che si muovono in questo ambito, a suggerire un’idea nuova, un’idea diversa. Il 75% dei disturbi psichiatrici esordiscono prima dei 25 anni. Noi arriviamo tardi, arriviamo tar-di ancora oggi che abbiamo servizi - dicono - molto buoni. Siamo un modello - ma non è una di quelle situazioni in cui dobbiamo attribuirci delle medaglie - per persone con problemi conclama-ti, psichiatrici. Qualcuno potrebbe dire, con una sfumatura, anche “cronici”. Facciamo dei lavo-ri egregi. C’è una massa di cose che fa il Dipartimento di Salute Mentale di questa regione, e il nostro in particolare, che riguarda non solo il trattamento psichiatrico, i colloqui, il farmaco, la psicoterapia, l’aspetto più clinico, ma che riguardano interventi riabilitativi, trattamenti domici-liari, percorsi di formazione-lavoro, percorsi di formazione culturale. Il “Club Zyp”, una piccola

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associazione di volontariato e di auto-aiuto, organizza da tre anni consecutivi degli incontri di fi-losofia. Qui siamo in ambito universitario. Aldo Rovatti ci ha dato una mano in questo. Studenti di filosofia con ragazzi seguiti dai servizi che si interrogano sui sette peccati capitali piuttosto che sul senso della follia. L’offerta è ampia: percorsi di prevenzione, prevenzione del suicidio, percorsi di tipo espressivo, laboratori di vario tipo, il famoso teatro “Accademia della follia”, lo sport, la partecipazione alla barcolana, tornei di calcio. Tutto questo c’è, è in campo. Però tutto questo viene offerto solo a persone che hanno già un problema importante. Oggi noi sappiamo che la malattia comincia molto prima, sappiamo che i disturbi psichiatrici, quelli severi nel mondo, vengono riconosciuti a volte con due o più anni di ri-tardo dall’inizio. Sappiamo che, ogni sei mesi di ritardo, come dicono gli studi, raddoppiano i costi di gestione, i costi sociali, i costi umani di questa malattia. Sappiamo che ci sono delle condizioni di disabilità che intervengono nelle fasi prodromiche di queste malattie. La disabilità si instaura prima, purtroppo prima dei sintomi che uno psichiatra riesce a riconoscere. Alcuni studi recentis-simi dicono che le condizioni di sofferenza che i giovani adolescenti attraversano durante queste fasi sono addirittura più acute di quando emergono i sintomi. Il sintomo diventa una specie di cal-miere di situazioni di sofferenza e di angoscia molto gravi. Quindi bisogna intervenire su condi-zioni che non conosciamo bene. C’è un’area grigia su cui il dibattito, anche a livello etico, è molto acuto. Intervenire presto cosa vuol dire? Fare una diagnosi psichiatrica che poi diventa una carriera? Oppure cercare di offrire supporto, sostegno e intervenire a vari livelli con interventi che spesso sono psico-sociali, extraclinici, di varia natura, di supporto e che però possono anche modificare questo tipo di carriera? Il problema non è fare una diagnosi ma intervenire nel riconoscere preco-cemente le condizioni di sofferenza, nel modificarle e nel ridurre questo ritardo di intervento che è drammatico. Voi pensate che uno studio australiano ha detto che, in quel Paese, soltanto il 35% dei giovani che avrebbero bisogno di cure vengono curati, ed è il paese che, nel mondo, è all’avanguardia in questo. Pat McCorny, un famoso psichiatra australiano, ha ricevuto un premio nel 2010 per i suoi

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studi e il suo sforzo anche di civil servant, cioè di impegno civile nel sostenere l’importanza di por-re il focus sulla salute mentale dei giovani, e sugli interventi che vanno fatti in questo campo. Han-no fatto un progetto straordinario che ho avuto modo di vedere anche recentemente: si chiama “Headspace” ed è una rete di un’ottantina di centri a bassa soglia dove il giovane trova risposte ampie ai problemi di salute, dalla salute sessuale a consigli di vario tipo, psicologici, psichici, psi-chiatrici, e trova il medico di base, di solito giovane, motivato, sveglio, formato, con le ONG, con le associazioni che lavorano grazie al supporto di ragazzi con esperienza che contribuiscono a forni-re un immediato aggancio, un sostegno. Spesso sono collocati nei centri commerciali. Immagina-te di avere, alle Torri d’Europa, al Giulia, una porticina carina con qualche poster davanti in cui ci si può introdurre in maniera molto discreta e portare un problema. Attraverso questo, è importante cercare di stabilire delle forme nuove. Qui abbiamo dei centri - che speriamo di mantenere - di salute mentale ai quali si accede facilmente. Non sono dei centri che richiedono l’invio da parte del medico di base ma sono dei centri di primo livello; non solo dei centri specialistici, che si flettono ad accogliere chi viene. A volte non sono adatti ad accogliere il disturbo di un ragazzo di questa età - e lo dico con sofferenza, sapendo che non tutti i miei colle-ghi sono d’accordo - ma dobbiamo soprattutto costruire delle possibilità diversificate. I ragazzi hanno bisogno di qualcuno che venga incontro alle culture, al modo di pensare, alle condizioni ideali di vita, e non soltanto adattarli ad un servizio, seppure ampio, accogliente, un po’ familiare, come un centro di salute mentale. Quindi abbiamo bisogno di migliorare queste cose. Da circa 10 anni ci stiamo ponendo questo interrogativo. Abbiamo costruito un progetto che si chiama “Qualcosa è cambiato”. L’abbiamo lanciato molti anni fa e, pian pianino, abbiamo lavo-rato insieme ai Distretti Sanitari, alle “Unità bambini, adolescenti e famiglie” dei Distretti, perché vedono molti ragazzi al di sotto dei diciott’anni, spesso in collaborazione con il burlo Garofolo ma anche indipendentemente, che sono in quest’area grigia di disagio che ancora non ha un nome, quella difficoltà che ancora non emerge con chiarezza. Abbiamo costruito la possibilità per cui, in qualsiasi punto della rete si arrivi, immediatamente si formi una risposta che metta insieme le migliori risorse che abbiamo, di tutti i tipi - ripeto - dal tempo libero, allo sport, alle risorse

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professionali, ad interventi eventualmente anche con competenze psichiatriche. Sappiamo an-che che in questa fascia che spesso sentiamo, quella delle condizioni di rischio degli interventi, non abbiamo bisogno di farmaci, non abbiamo bisogno dell’armamentario della psichiatria. Le linee guida più avvertite in giro per il mondo ormai dicono che, in questa fascia, addirittura l’uso del farmaco non è consigliato. In Italia, succede ancora che il buon medico di base manda dall’amico psichiatra privato il giovanotto che in una famiglia comincia a stare male. E la prima cosa che fa lo psichiatra è di prescrivere un farmaco. Questo farmaco mediamente fa qualcosa: di solito congela per un po’ l’esperienza sofferente. Dopo di che, di solito, vediamo queste condizio-ni dopo due anni di assunzione di farmaci, di cosiddetta presa in carico del privato, e allora si co-mincia a muovere un mondo attorno al mondo di questo giovane, di questo ragazzo che ha biso-gno di tutt’altro che di prendere soltanto farmaci, che magari è chiuso in casa, che sta sedici ore al giorno su Internet, che parla soltanto nelle chat che interpreta in maniera più o meno psicotica, e comincia magari a sentire delle voci. Tutto questo dobbiamo poi interromperlo ed intervenire.Abbiamo allargato questo programma includendo e coinvolgendo anche i colleghi delle Dipen-denze, la dottoressa balestra e il suo Dipartimento, e recentemente il burlo Garofolo. Dobbiamo costruire un sistema affinché tutte queste risorse che abbiamo, che sono veramente tante, si rie-sca a piegarle attorno ai problemi. Abbiamo tutto, questa la cosa incredibile. Abbiamo tutto ma non riusciamo a mettere in campo tutto questo nel modo in cui dovremmo. Le borse di lavoro permettono oggi di fare dei percor-si di formazione; le offrono non solo il nostro Dipartimento ma anche gli enti locali. Questi per-corsi sono importanti non soltanto perché la gente possa trovare un lavoro ma perché faccia un percorso di esplorazione di sé, tenti, provi, trovi un’identità, riesca in qualche modo a definire se stessa perché il momento dell’inizio di una psicosi è un momento di grande confusione identita-ria, è un momento di perdita di sé. Noi abbiamo bisogno di costruire questi percorsi per permet-tere di tentare di definire, di fare esperienze, esperienze di vita fondamentalmente. Quello che dobbiamo fare è assumerci un po’ di rischi in più: sappiamo che abbiamo la possibilità di lavorare insieme ai servizi cosiddetti informali. Il nostro dipartimento, come l’azienda sanitaria,

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ha, per esempio, uno strumento, che forse voi conoscete, che si chiama “budget di salute”. E’ uno strumento economico che si disegna attorno a un progetto individualizzato e che è spe-rimentato ormai in tutta la regione, e a Trieste trova una delle sue applicazioni più forti con un gran investimento di denaro. Questo strumento permette di costruire un progetto che non solo risponda a bisogni essenziali di cura, ma anche a condizioni di vita difficile, a condizioni materiali di difficoltà, e costruisca percorsi di autonomia (non solo la possibilità di stare in una residenza, in una comunità ma anche al di fuori di casa propria) e, quindi, permetta anche dei percorsi di abita-re sostenuto, supportato, assistito oppure percorsi in cui un operatore del privato sociale venga a trovarti a casa, ti faccia uscire e ti aiuti a riconnetterti con il mondo, ti fa fare delle cose, delle attività in cui scopri magari un nuovo senso della vita. Abbiamo anche questa possibilità: abbiamo la possibilità di mettere tutto questo in rete; ultima-mente abbiamo, anche grazie all’aiuto del Comune, la possibilità di lanciare una campagna che informi le persone, la cittadinanza che esistono queste possibilità, che si può andare oltre lo stig-ma, che si può costruire una possibilità di accesso che non preveda la penalizzazione, una possi-bilità di accesso soft che permetta veramente di utilizzare questi strumenti in un modo diverso. Questa campagna e la costruzione di materiali su cui stiamo già lavorando con le associazioni ci dà anche il modo di poter spiegare che le persone possono stare meglio, i giovani possono ave-re i loro percorsi di recovery - un’altra parola importante - di ripresa, di guarigione che vuol dire soprattutto un percorso personale, un percorso individuale perché si possa realizzare ciò che si vuole trovare, il senso della propria vita, non soltanto la definizione di guarigione che la medicina, la psichiatria propongono, ma la riappropriazione della propria vita. Per quel che riguarda i giovani, voi capite bene quanto questo sia importante nel momento in cui queste condizioni non solo interrompono il percorso evolutivo di un ragazzo, magari adolescen-te, e magari bloccano delle possibilità di realizzazione personale, di maturazione, ma aggiungo-no anche una disabilità pesante, aggiungono dei sintomi, aggiungono delle difficoltà in più nella relazione con il mondo. Quindi abbiamo la possibilità di costruire questo; siamo a un passo dalla costruzione di un servizio dedicato di un équipe integrata fatta dai Distretti Sanitari, dalla Salute

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Mentale e con il concorso delle associazioni, delle cooperative e di tutti gli strumenti che abbia-mo per far funzionare questa rete. Siamo convinti che questa sia una direzione importante per-ché questa rete diventi veramente a misura delle persone, a misura dei giovani, e per fare questo dobbiamo fare uno sforzo. Le resistenze sono tantissime anche tra di noi. C’è una grande paura di fare qualcosa di nuovo in questo campo, di invadere, di essere pervasivi, di mettere la psichia-tria dentro la vita di ogni giorno, ma dobbiamo correre questi rischi, dobbiamo cercare nuove for-me di aiuto, dobbiamo lavorare in modo diverso, che è poi il modo che, a questa città, ha insegna-to Franco basaglia. Grazie.

Luigi GuiGrazie davvero. Oltre alla ricchezza di contenuti, mi pare che traspaia anche l'entusiasmo di una motivazione che è poi il motore che ci consente di trasformare le buone idee in pratiche concrete. Mi è stato detto che si è aggiunta, a questa importante compagnia, anche l'assessore Antonella Grim, Assessore all'Educazione, Scuola, Università e Ricerca del Comune di Trieste. Proseguiamo con i nostri filmati.

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benissimo. Continuiamo con la nostra prospettiva di argomentazione sempre sul fronte dell’impegno nell’area sanitaria. Abbiamo due interventi: Marco Carrozzi e Giovanna Morini che lavorano in neuropsichiatria all’IRCCS del burlo Garofolo.

Marco Carrozzi e Giovanna Morinis.c. Neuropsichiatria IRCCS Materno/Infantile burlo Garofolo

Marco Carrozzibuongiorno. Tranquilli, non sono due interventi. Io introduco solo la dottoressa e me ne vado su-bito. Sono il Direttore della struttura. Quello che volevo dire, prima che intervenga la dottoressa, che è quella del nostro gruppo che si occupa più di psichiatria e di psicopatologia, è che noi siamo in una situazione sicuramente molto particolare e specifica essendo una struttura ospedaliera. Ma quello che sicuramente mi premeva sottolineare è che, quand’anche si creino le condizioni per un tempo di ricovero che deve comunque rappresentare un tempo molto breve lungo il per-corso evolutivo, di crescita di questi ragazzi, il ricovero deve assolutamente - e concordo con quello che diceva il dottor Mezzina - far parte della rete e rappresentare, laddove possibile, un fattore di protezione per migliorare i fattori di rischio di cui si parlava prima. Lascio la parola alla dottoressa Morini.

Giovanna Morinibuongiorno a tutti. Diciamo che, nell’ambito della tutela della salute mentale dell’infanzia e dell’a-dolescenza, sicuramente i servizi territoriali rappresentano il fulcro, proprio per la loro possibilità di prevenire e fare assistenza e cura lasciando il minore nel suo contesto. Tuttavia, nell’ambito della salute mentale, riteniamo anche necessario che ci siano delle risorse dedicate al ricovero e che, quindi, il ricovero possa essere visto come una possibilità, una risorsa

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all’interno delle possibilità di cura. Il ricovero, però, deve essere considerato all’interno del model-lo di una rete, secondo una continuità assistenziale con i servizi territoriali, integrato con gli altri servizi, con i servizi territoriali, con i servizi sociali, con le comunità, con il SERT, con il Tribunale dei Minorenni, e deve essere visto come un intervento multiprofessionale, come un intervento che riconosca le varie professioni e le varie discipline. Quindi, nell’ambito del modello della rete, il ricovero può essere visto come una risorsa clinica, come un fattore di cura e di protezione, e sicuramente anche come un intervento transitorio che deve essere integrato all’interno di una ri-sposta complessa e dinamica, specifica per ogni paziente. Dopo questa introduzione sul ricovero, ci chiediamo perché si arriva al ricovero, quando si arriva al ricovero, dove i ragazzi possono essere ricoverati e a chi è dedicato il ricovero. Al ricovero ci si arriva sia per fattori di tipo clinico, sia per fattori più prettamente ambientali. Dalla nostra esperienza, e anche dai dati forniti in letteratura, vediamo che solitamente, nell’età evo-lutiva (infanzia e soprattutto anche adolescenza), si arriva al ricovero per un intreccio di questi fattori: sia per aspetti clinici e quindi per il precipitare di situazioni cliniche e psicopatologiche, sia sul versante internalizzante con disturbi dell’affettività e dell’umore, e disturbi più esternalizzanti come disturbi della condotta e disturbi del pensiero; si arriva al ricovero soprattutto anche per una situazione di crisi ambientale, ossia per la difficoltà della famiglia di gestire il minore in una situazione di sofferenza, e spesso anche per la difficoltà delle istituzioni e dei servizi di prevenire, intercettare e farsi carico delle situazioni prima che arrivino a delle situazioni di acuzie. I ricoveri, quindi, avvengono spesso in situazioni di emergenza, dove per “emergenza” intendia-mo delle situazioni che hanno un carattere tipicamente relazionale, dove il soggetto sperimenta una situazione di rottura rispetto al proprio equilibrio, un blocco, una crisi nel suo percorso evo-lutivo che però ha una matrice tipicamente relazionale; in qualche modo, questa rottura è, cioè, calata all’interno di un nucleo, sia esso familiare o istituzionale, che è in crisi e che non riesce a gestire questo ragazzo. Noi vediamo che la maggior parte delle situazioni di ricovero sono situa-zioni di emergenza, ovvero quelle situazioni in cui, in realtà, è tutto il nucleo che è sofferente e non riesce a gestire la situazione.

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I ricoveri dei minori dovrebbero avvenire in strutture dedicate all’età evolutiva, quindi in strutture che, per competenza e per struttura, sono dedicate ai minori, siano collocate il più possibile vici-no ai luoghi di residenza dei ragazzi in modo da poter favorire anche la partecipazione della fami-glia o delle agenzie educative che ruotano attorno al minore, e favorire, dunque, il modello della rete. Nella nostra esperienza, abbiamo visto che il ricovero dei minori nell’ambito psichiatrico è soprattutto dedicato ai preadolescenti e agli adolescenti. Per quando riguarda le funzioni, il ricovero ha una duplice funzione: la funzione della relazione e la funzione di collegamento. Quanto alla funzione della relazione, il ricovero dovrebbe essere un momento buono per avviare una relazione terapeutica con il paziente, con il ragazzo nella sua duplice dimensione, una dimensione più materna (quindi una dimensione di accoglienza, di ac-cudimento, di tolleranza), e una dimensione più paterna (una dimensione normativa, di stimolo alla responsabilizzazione e di possibilità di aiutare a stabilire il senso del limite). La possibilità di stabilire una relazione terapeutica con i ragazzi durante il ricovero è molto importante perché consente poi di prolungare questo rapporto anche alla dimissione, nell’ambito poi del progetto terapeutico post-ricovero con i servizi territoriali. All’interno del ricovero, la possibilità di stabilire una relazione terapeutica, che rappresenta un buon contenimento affettivo per i ragazzi, consente di evitare o di ridurre il più possibile altri tipi di contenimento, quale quello farmacologico o, comunque, consente di dare un significato diver-so a quest’ultimo tipo di contenimento perché lo colloca all’interno di una relazione terapeutica. La funzione di collegamento del ricovero con la famiglia, con la società e con tutte le agenzie che ruotano attorno ai ragazzi, si esprime nella capacità dell’équipe di sollecitare il confronto tra le parti (famiglia, agenzie sociali, sanitarie, educative), di favorire il reciproco riconoscimento del-le parti, e consente anche di offrire una pausa, una tregua agli operatori territoriali che hanno in carico il ragazzo. Può funzionare come un momento di riflessione e di ridefinizione del progetto terapeutico. In particolare, ho voluto proporre un riferimento agli adolescenti con agiti e condotte aggressi-ve che abbiamo ricoverato negli ultimi tempi di lavoro, anche in rapporto con le agenzie e con le

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cooperative educative della città. In quest’ultimo caso, oltre alle funzioni di relazione e di collega-mento, ci sembrava importante che il ricovero potesse avere un ruolo nella definizione del senso degli agiti e nello stabilire dei limiti relazionali. Per quanto riguarda la prima funzione, è il lavoro psicodiagnostico che aiuta questi ragazzi a comprendere le dinamiche interne e che favorisce quei processi di mentalizzazione che spesso, in questi ragazzi, sono carenti. La seconda funzione, lo stabilire dei limiti, è una funzione tipica-mente genitoriale che spesso in questi ragazzi è deficitaria e che viene sempre fornita all’inter-no di un contesto relazionale. Quindi, lo stabilire dei limiti, la funzione normativa, favorisce anche una tregua rispetto a delle relazioni in cui sono prevalsi gli agiti piuttosto che la mentalizzazione e la funzione riflessiva. Come tipologia di adolescenti con condotte aggressive che abbiamo avuto a ricovero, ci sono mi-nori che sono già in carico ai servizi, minori che, in qualche modo, sono sfuggiti alla conoscen-za dei servizi, minori in comunità, minori verso l’età adulta (ad esempio diciassettenni), minori che facevano uso di sostanze e di alcol, e ragazzi con problemi sociali e familiari gravi. Oltre agli aspetti più di aggressività verbale e fisica contro se stessi e contro gli altri, contro gli oggetti, era-no presenti sicuramente anche aspetti più di tipo depressivo legati all’umore e azioni suicidarie. In qualche modo, l’aggressività si esprimeva anche spesso con una rabbia interiore, con un’ango-scia spesso senza nome, non elaborata e talvolta non riconosciuta. Come fattori di rischio riconosciamo sicuramente l’età adolescenziale, il sesso maschile, la bassa scolarità, l’abuso di sostanze, l’aver fatto parte di un contesto familiare violento, essere stati co-munque esposti a violenza familiare e l’aver subito dei maltrattamenti e degli abusi fin dall’infan-zia, fin dalla tenera età e spesso reiterati e ripetuti. Un aspetto molto importante è quello del clima che spesso si crea in reparto tra gli operato-ri quando ci sono ricoveri di ragazzi con condotte aggressive, ricoveri di emergenza. Talvolta ci sono degli aspetti di ansia eccessiva, anche non riconosciuta, che in qualche modo possono osta-colare l’atteggiamento terapeutico. Questo spesso si manifesta con degli atteggiamenti difensivi che assumono varie caratteristiche: a volte ci può essere un’ostilità diretta verso questi pazienti,

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spesso anche non riconosciuta; ci può essere un rimprovero tra i vari operatori che ruotano attor-no al ragazzo, oppure un disinvestimento emotivo nei confronti della situazione o una difficoltà di controllare le pulsioni negative verso pazienti che provocano o fanno degli agiti. Come conclusione, da una parte ci sentiamo di dire che il ricovero può avere delle potenzialità positive: può favorire l’elaborazione di situazioni di crisi, può attenuare il disagio mentale, le si-tuazioni anche complesse familiari, può fornire delle nuove risposte adattative e stabilire nuove linee di trattamento, e può anche favorire e ristabilire una continuità di rapporto con i familiari che, appena prima della crisi, potevano essersi deteriorati o sbilanciati. Non dimentichiamo, però, che il ricovero può avere delle potenzialità negative se condotto con modalità inappropriate, se il paradigma della sorveglianza, del controllo e della sicurezza prevale su quello della diagnosi e del trattamento, se condotto in contesti inappropriati, in contesti non idonei all’età del ragazzo, se rimane un intervento isolato, non integrato all’interno della rete sanitaria, educativa e sociale, e se è troppo lungo in quanto favorisce poi una regressione, riduce le responsabilità che questi ragazzi devono assumersi, e può anche favorire l’interruzione della continuità di vita e un blocco nei compiti evolutivi.

Luigi GuiLa dottoressa è stata efficientissima anche nella tempistica. Anzi, ha risparmiato due minuti sulle previsioni, quindi veramente grazie. Colgo questo filone, che forse avete colto anche voi, di grande continuità negli interventi che richiamano l’aspetto dell’integrazione, l’aspetto della rete, l’aspetto della continuità temporale sia nella vicenda della persona che nel rapporto fra le diverse agenzie. Mi pare che questo ritorni in molte occasioni. Vediamo il video.

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Adesso abbiamo Roberta balestra, Direttrice del Dipartimento delle Dipendenze dell’Azienda Sanitaria.

Roberta BalestraDirettrice del Dipartimento delle Dipendenze dell’ASS n.1 Triestina

Saluto tutti e ringrazio per l’invito che mi è stato rivolto perché questa è un’occasione impor-tante di conoscenza. Vi proporrò alcune cose veloci per alimentare questa discussione interes-sante di oggi. Il Dipartimento delle Dipendenze ha fondamentalmente due servizi: quello che si chiama, o si chiamava, SERT, e l’altro troncone che è quello dell’Alcologia, giusto per intender-ci anche dal punto di vista dei ragionamenti che faremo. Il SERT ha, di fatto, ormai circa il 20% della propria utenza rappresentata da ragazzi sotto i 25 anni. Questo significa che, se gli utenti presi in carico l’anno scorso sono stati circa 1000, 200 sono ragazzi sotto i 25 anni che hanno richieste e problemi diversi. Circa 100 di questi ragazzi si presentano già con un problema patologico e, quindi, con una diagnosi. Tanti altri vengono per problemi legati alle patenti, alle sanzioni amministrative che sono previste dalla normativa. Quindi c’è un “pianeta giovani” che sta prepotentemente entrando e che è molto stimolante, nel senso che questi dati così corposi, se da una parte possono preoccupare, dall’altra alimentano un pensiero, una creatività, e stimolano una revisione continua, anche all’interno del nostro ser-vizio, che diventa, per certi versi, un privilegio. Come servizio, lavoriamo da parecchio tempo con numerosi partner della cooperazione sociale e delle associazioni, sia di volontariato che giovanili. Mi permetto di dire che, in questa esperienza, che è iniziata anche sul versante giovani nel 2005, il fatto che arrivino ragazzi molto giovani ha fruttato questo rinnovamento ed ha favorito lo svec-chiamento del servizio. Dal 2005 abbiamo iniziato a lavorare con i progetti di “Educativa di strada”, promossi dal Comune in collaborazione fondamentalmente con due cooperative, “La Quercia” e “Duemilauno”. Fianco a

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fianco con questi educatori e con il Comune, abbiamo conosciuto delle esperienze importanti di prevenzione primaria nei rioni un po’ più a rischio, e abbiamo imparato francamente anche un ap-proccio molto diverso da quello dei servizi adultocentrici come spesso sono i servizi specialistici - e di questo dobbiamo fare autocritica, nel senso che non è più tempo di lavorare con uno stesso me-todo rispetto, invece, ad una popolazione varia sia per bisogni che per età. Quindi, forti di questa esperienza, siamo poi approdati ad un altro progetto importante che è stato ed è il progetto molto vivace “Overnight” portato avanti con gli stessi partner e con, in più, delle associazioni come “Et-noblog” che è un’associazione culturale giovanile. Quest’altro progetto ha favorito la conoscenza di un altro versante del mondo giovanile che è il mondo del divertimento notturno. In tutti e due questi progetti che cito proprio come elemento di conoscenza e di esperienza, cos’è successo per noi di fondamentale? Siamo usciti dal servizio e siamo andati lì dove i ragazzi potevano anche met-tersi, o stavano già mettendosi, in situazioni di rischio; siamo andati a conoscerli, a farci un’idea più precisa di quello che stava accadendo per poi portare, all’interno del servizio, ragionamenti e ri-flessioni che potevano alimentare una risposta adeguata, sempre con altri partner - e lo sottolineo - che sono tra l’altro presenti qua e, anzi, propongono questa giornata di discussione. Se si lavora con i ragazzi, questa rete - lo abbiamo già detto in tanti qui oggi - è fondamentale perché occorro-no tutti i saperi, occorrono tutti i linguaggi e occorre anche maturare una competenza nuova che è frutto proprio del confronto fatto da chi ha degli angoli visuali parziali. È fondamentale considerare il problema del linguaggio, ossia quello di comprendere bene un mondo che magari, se si sta den-tro ai servizi, non si riesce neppure a capire e poi magari, presuntuosamente, si aspetta che arrivi da solo. Mi preme specificare una cosa, ovvero che ci sono delle false opinioni che vengono alimen-tate dai mass media. In realtà, oggi non si consumano più sostanze rispetto a qualche tempo fa ma sono accadute delle cose diverse, cioè si è modificato, in modo molto evidente, il modo di consu-mo e il modo di approvvigionarsi delle sostanze: non si acquista più la sostanza illegale come la si acquistava un po’ di tempo fa; la si acquista dalla propria stanza o dalla propria postazione Web, si acquistano sostanze vecchie e nuove contemporaneamente, nel senso che, attraverso siti spe-cializzati, si possono acquistare vecchie sostanze ma anche sostanze di laboratorio dove il costo è

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molto più allettante a fronte di sostanze molto più efficaci (penso ai cannabinoidi sintetici che oggi sono diffusissimi e anche molto pericolosi in questa fascia d’età). C’è una precocizzazione della funzione; quindi, come in tanti comportamenti a rischio, si inizia prima anche con il consumo di sostanze. Di fatto, noi abbiamo piccoli ragazzi, preadolescenti, che sperimentano, come sperimen-tano altri comportamenti a rischio, anche quello delle sostanze. Quindi dobbiamo immaginarci che il consumo di sostanze sia uguale dipendenza da sostanze ma, in questa fascia di età, dobbiamo sempre più fare i conti con il fatto che il consumo di sostanze è tra le tante situazioni che un ragaz-zino può sperimentare data la capillarità e anche la vicinanza di queste sostanze nella vita dei più piccoli. Il consumo di sostanze è motivato da diversi fattori: è vero che può essere la risposta ad un disagio, e può, quindi, mediare degli aspetti importanti anche di bisogno personale; sappiamo che le sostanze sono potenti, mediano l’affettività, stimolano reazioni piacevoli, sedano ansie e danno gratificazione. Questo è tutto vero; però, chiaramente, dobbiamo anche tenere conto del fatto che le sostanze, da sempre, sono portate da determinate culture, da determinate mode, e sono forte-mente offerte in modo pervicace da un mercato che è sempre più capillare e insidioso. Quindi non possiamo ipocritamente continuare a ragionare come se noi, o i ragazzi, o il figlio o coloro di cui stiamo parlando, non fossero esposti a pressioni che il mondo degli adulti e il mondo del consumo fanno sistematicamente; che sia un mercato legale o un mercato illegale, voi capite che chi opera in questo settore svuota col cucchiaino praticamente un mare magnum. Pensate solo ai nuovi problemi legati alle dipendenze senza sostanze. Guardatevi intorno: la città ormai è un continuo offrire giochi d’azzardo e locali dedicati a questi giochi. Non si può non pensare che noi avremo tantissimi che matureranno problemi di questo tipo a breve. Già li abbiamo nel servizio e quindi non potrà che essere così. Quindi, occuparsi di questo tema è un po’ occuparsi del nostro mondo, e siamo perciò tenuti ad ampliare sempre il nostro raggio anche ad altro che non sia il mondo della salute e della sanità. La realtà dei servizi deve cambiare. Oggi si diceva - anche la dottoressa barbetta lo ha accenna-to - che occorre una co-progettazione. Si parla molto di co-progettazione. In realtà noi, a Trieste, abbiamo delle competenze ormai mature e delle esperienze - che sono state citate oggi - che pos-

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sono fare da volano rispetto a quello che serve. Dopo le esperienze che vi dicevo di “Educativa di strada” e di “Overnight”, che peraltro continuano, per noi è stato formidabile il progetto “Androna Giovani”, un progetto del piano di zona che ha messo proprio in raccordo delle competenze istitu-zionali e anche operative straordinarie. È un progetto che noi adesso, con dicembre, formalmente chiudiamo ma che vogliamo assolutamente traghettare come un progetto più ampio, e qui lan-cio l’invito a chi è interessato a questa sperimentazione perché questo progetto, che è ospitato in questo servizio di “Androna degli Orti”, è rivolto a ragazzi con un problema di sostanze ma non solo. Una cosa che è stata e si dimostra particolarmente efficace è quella di non relegare dentro ad un servizio, che già è visto e riconosciuto come un servizio della sanità, una risposta di questo tipo. Lo abbiamo quindi collocato in un luogo bello del centro storico, dentro ad una palazzina che non si capisce che cos’è; non c’è scritto SERT, non c’è scritto niente di specifico. Siamo riusciti a renderlo un luogo accettabile, non stigmatizzato dove i ragazzi vengono con piacere e trovano prevalentemente degli adulti in questa veste un po’ “più piccola”, degli adulti che sono prevalen-temente psicologi ed educatori. In questo servizio, che ha potuto funzionare tre pomeriggi alla settimana, sono arrivati ragazzi inviati dal SERT ma anche da altri servizi sanitari come i Distretti o la Salute Mentale ma anche i servizi del Ministero della Giustizia del Comune. Diciamo che noi abbiamo voluto tenere insieme ragazzi che non si riconoscessero all’interno di un problema di sa-lute ma che in qualche modo si riconoscessero perché potevano piacevolmente sperimentare un luogo capace di rispondere ad alcuni problemi, capace di un ascolto e anche di un confronto sen-za una patologizzazione di alcuni disagi che loro portavano. Noi vorremmo che questo progetto continuasse, facendo crescere il servizio di riferimento per la salute e il disagio del ragazzo. Ci sono tantissime competenze già mature, non è che dobbiamo inventare delle cose perché ognuno di noi, proprio grazie al lavoro che sta svolgendo, ha fatto una ricerca e ha ormai un patrimonio da spendere. Noi lo abbiamo riconosciuto in queste collaborazioni. Però dobbiamo evitare di fare tanti piccoli servizi che poi parlano tra loro quando va bene. Secondo me dobbia-mo coordinare, all’interno possibilmente di uno stesso luogo, delle competenze in modo che i ragazzi non abbiano paura di arrivare ad un servizio perché magari si vivono come quelli con i

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problemi, come quelli diversi dagli altri. Come servizio comunque sanitario, noi, dentro al pro-blema specifico della dipendenza, che pur c’è, stiamo riconoscendo delle peculiarità, e su que-sto stiamo riorganizzando alcune risposte. Cioè, ci si rende conto che il problema che ci porta un ragazzo è legato anche ai problemi adolescenziali. Non possiamo disgiungerli e rispondere ad un problema di dipendenza senza tener conto che questa persona è un adolescente. Stiamo completamente ribaltando il modello di riferimento secondo cui la dipendenza è una pa-tologia cronica recidivante. È un paradigma assolutamente inaccettabile se vogliamo prendere in cura, e quindi curare, un ragazzo o ragazzino con un problema di dipendenza. Non possiamo lontanamente pensare che la sua dipendenza possa avere un decorso di tipo cronico; dobbiamo lavorare per la guarigione, dobbiamo lavorare per una dimissione, dobbiamo lavorare perché il percorso di crescita e di sviluppo riprenda. Quindi, per noi si tratta di cambiare il paradigma di ri-ferimento. Questa cosa vuol dire cambiare la rete dei partner, vuol dire immaginare che l’équipe abbia una preponderanza di tipo pedagogico-educativo e non medico-sanitario, senza rinuncia-re allo specifico medico-sanitario che di fatto c’è perché i problemi clinici sono anche particolar-mente pesanti; sappiamo che usare queste sostanze potenti in età evolutiva è particolarmente rischioso, quindi non è che ci nascondiamo. Su questo dobbiamo fare un lavoro serio, molto ap-propriato. Però dobbiamo affiancare il ragazzo e non deviarlo da un percorso di crescita. Attra-verso la patologia dobbiamo curarlo mantenendo la traiettoria che non è quella di frequentare il servizio ma di frequentare altri luoghi dove possa crescere e svilupparsi in virtù del fatto che è una persona che deve diventare autonoma ed evoluta. Io mi fermerei qui. Grazie.

Luigi GuiStiamo procedendo perfettamente in linea. Come ho accennato prima, abbiamo l’Assessore del Comune. Tanto vale che approfittiamo della sua presenza per aggiungere una parte del pensiero dell’Amministrazione Comunale, e suo personale, in merito a quello che stiamo dicendo.

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Antonella GrimAssessore all’Educazione, Scuola, Università e Ricerca del Comune di Trieste

buongiorno a tutti. Io sono Antonella Grim, Assessore all’Educazione, Università e Ricerca del Comune di Trieste. Vedo anche alcuni funzionari dell’Assessorato alle politiche sociali del Co-mune. Stamattina c’era l’Assessore Laura Famulari che è direttamente competente nella co-struzione di questo pensiero, di questo progetto insieme a tutte le persone che oggi sono qui e che mi permetto di ringraziare personalmente per il prezioso e difficilissimo lavoro di rete che, da anni, state portando avanti. Ho molto apprezzato quanto detto dalla dottoressa balestra, nel senso di cercare di andare avanti in un percorso lineare che non vada ad aggiungere progetti e obiettivi ma che cerchi di semplificare e di scegliere progetti e obiettivi qualificanti, nonché di cercare di avere come obiettivo strategico principale quello del reinserimento dei nostri ragazzi in un percorso educa-tivo e pedagogico. Quindi questo è il senso della mia presenza qui oggi, oltre che assolutamen-te di ascolto. Ho iniziato questo meraviglioso percorso come Assessore all’Educazione nel giugno del 2011 e quindi credo che, prima di tutto, il mio compito sia quello di portare la vicinanza dell’Ammini-strazione Comunale, di ascoltare e imparare dalle persone che da anni lavorano in questi per-corsi, e di offrire l’aiuto, la collaborazione e la professionalità educativa e pedagogica anche degli educatori di Area Educazione. Noi abbiamo in gestione diretta 17 asili nido, 29 scuole dell’infanzia e 12 ricreatori. Siamo molto prossimi a questi contesti. Il senso della mia presenza è proprio quello di cominciare a entrare in punta di piedi. Noi siamo entrati per la prima volta con questa Amministrazione Comunale anche formalmente nei tavoli del piano di zona e quindi intendo confermare la volontà di offrire anche la professionalità educativa e pedagogica dei nostri educatori e dei funzionari di Area Educazione per cercare di costruire insieme questo percorso per i nostri ragazzi. Questo è an-che l’auspicio che faccio a tutti noi. Sicuramente non sono percorsi facili - lo sapete meglio di

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me - però io sono qui ad offrire, per quanto possibile, la costruzione di queste reti educative territoriali anche insieme ad Area Educazione. buon lavoro.

Luigi Guibenissimo. Abbiamo un ultimo intervento che chiude in bellezza questa mattinata così densa ed impegnativa: il professor Matteo Cornacchia che, come vedete da programma, insegna al Corso di laurea in Scienze dell’Educazione.

Matteo CornacchiaRicercatore e Docente nel Corso di laurea in Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Trieste

Io ho un compito ingrato perché è quello, innanzitutto, di aver a che fare con una soglia di at-tenzione messa già duramente alla prova dalla faticosa e impegnativa mattinata. Ma ho anche un compito ingrato perché, come ci ha introdotto questo filmato, proverò a spostare la pro-spettiva della nostra riflessione dai minori e dagli adolescenti agli adulti perché di questo mi occupo: io insegno “Educazione degli adulti” nel Corso di laurea in Scienze dell’Educazione, e la mia ricerca è dunque prevalentemente orientata a questa fascia d’età. Quindi spostiamo la prospettiva anche in senso autobiografico perché la cosa, evidentemente, riguarda tutti quanti noi in quanto persone adulte. Il passaggio dall’adolescenza all’adultità è stato più volte evocato nel corso di questa mattina-ta, e più volte abbiamo fatto riferimento a questo passaggio come ad un passaggio problemati-co che diviene ancor più critico nel momento in cui gli individui chiamati a svolgere questo pas-saggio sono individui che vengono definiti a loro volta multiproblematici. Partirei, però, con un dato interessante e, per certi aspetti, curioso, vale a dire la comune radice etimologica dei due

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termini “adolescente” e “adulto”: è la stessa. Entrambi, infatti, fanno riferimento al verbo lati-no “adolescere” che significa “crescere”, dove “adolescentem” è il participio presente, mentre “adultus” è il participio passato. In altri termini, se l’adolescente è indicato come colui che sta crescendo, l’adulto è colui che è cresciuto, che è già cresciuto. Questa radice etimologica ci fa vedere queste due età, questi due momenti dello sviluppo, quasi come fossero due entità se-parate e distinte, e, per certi aspetti, l’idea che l’adulto sia colui che è già cresciuto, che ha già compiuto questo cammino, che ha già fatto questo passaggio ci fa vedere l’adultità come un punto di arrivo, una sorta di meta agognata, di un approdo. Fra le due, dunque, qual’è l’età più problematica nell’immaginario collettivo? E’ l’adolescenza e non certo l’adultità, la quale, ap-punto, è caricata di questi significati - lo abbiamo sentito anche poco fa – di autonomia, final-mente di responsabilità, finalmente di indipendenza, di certezze e sicurezze che l’adolescenza non ha. Mi spiace dover svolgere il compito di chi abbatte il morale della truppa ma, se noi guardassi-mo alla letteratura di riferimento - parlo di letteratura pedagogica, quindi scienze dell’educa-zione - ci accorgeremmo immediatamente che le cose non stanno esattamente in questi ter-mini perché la letteratura di settore, da qualche tempo a questa parte, sta ugualmente presen-tando l’età adulta come un’età particolarmente critica. Per questo dicevo che abbatto un po’ il morale della truppa. Perché ci stiamo concentrando sui problemi dei minori, e io vengo a dirvi che i problemi non sono esauriti perché poi incontreremo anche altre forme di problemi, altre criticità in età adulta. Il senso del mio intervento, nel pochissimo tempo a disposizione, vorrebbe essere proprio que-sto; vorrei cioè provare a riflettere con voi, a indagare con voi su quali sono le caratteristiche di questa crisi generazionale degli adulti e su quali sono soprattutto le ragioni di questa crisi. Ov-viamente cercheremo di farlo in senso propositivo visto il lavoro che tutti quanti noi facciamo. Vorrei partire con un dato storico brevissimo. Non mi metto a fare la relazione accademica, la lezione universitaria ma solamente per darvi un paio di riferimenti fondamentali. Primo ri-ferimento: che l’età adulta non sia l’età delle certezze, che non sia l’età delle sicurezze ma che

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sia anch’essa soggetta a cambiamenti, a trasformazioni, a crisi, a necessità di nuovi apprendi-menti lo hanno già dimostrato molto bene le teorie evolutive. basterebbe citare Erik Eriksson piuttosto che Daniel Levinson, e semplicemente con questi due autori potremmo metterci im-mediatamente d’accordo su quello che vuol dire. C’è stato addirittura un famosissimo peda-gogista americano, pedagogista e educatore americano, che si chiama Malcom Knowles per chi non lo conoscesse, che addirittura, a un certo punto, ha sentito la necessità di individuare una disciplina specifica dedicata proprio all’educazione degli adulti. Per analogia alla radice eti-mologica di “pedagogia”, “pais-ago”, accompagno, conduco il fanciullo, il bambino, ha deciso di chiamarla “andros-ago”, ovvero “andragogia”. L’ andragogia, che fa riferimento a Knowles anche se il neologismo non l’ha coniato Knowles, è la disciplina che si occupa dell’apprendi-mento in età adulta, e che parte da un principio fondamentale: gli adulti apprendono in maniera diversa, con strategie diverse rispetto ai soggetti in età evolutiva. Se questo è vero, allora – dice Knowles - dovremo riflettere su strategie di formazione, su metodologie di formazione, su approcci formativi che siano differenti da quelli che conosciamo tradizionalmente e che, per esempio, abbiamo vissuto in prima persona a scuola e nelle università. Qualcuno di voi potreb-be notare che di educazione degli adulti in senso positivo se n’è parlato a lungo con il famoso paradigma del “lifelong learning”che è un paradigma effettivamente carico di significati mol-to positivi che abbiamo conosciuto prevalentemente a partire dagli anni ‘70. Questo paradig-ma sottolineava, anche per l’adulto, la necessità di mettersi continuamente in discussione, di aprirsi al possibile, di non adagiarsi sulle conoscenze acquisite durante il percorso scolastico e universitario, e di predisporsi, invece, a continui aggiornamenti e a continue sollecitazioni per aggiornare, o addirittura implementare, le proprie competenze. Questo è assolutamente vero. Dov’è il problema? Il paradigma del “lifelong learning” è stato utilizzato prevalentemen-te nell’ambito della formazione professionale. Quello che sto dicendo è che questa necessità degli adulti di mettersi in discussione era una necessità funzionale ad esigenze di natura pro-fessionale e lavorativa. Era in qualche modo il mercato del lavoro in continua evoluzione che ha sollecitato una parte della formazione in età adulta. Mentre la crisi di cui sto parlando io e

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il riferimento alla letteratura pedagogica in questo senso, è una crisi esistenziale, è una crisi antropologica che ci invita, dunque, a riprendere in mano categorie pedagogiche che per cer-ti aspetti possono sembrarci obsolete ma per altri – credetemi - sono di una straordinaria attualità. Oggi non abbiamo parlato di valori per esempio. Mi rendo conto che è fuori moda ma, come pe-dagogista, credo che questo recupero necessario di alcune condivisioni valoriali sia fondamen-tale. Com’è rappresentato l’adulto oggi? Qualche testimonianza l’abbiamo anche sentita. Direi che, da questo punto di vista, la questione si presenta subito estremamente problematica. Io ho visto anche qualche mio ex studente in sala, e i miei ex studenti sanno benissimo che di so-lito io inizio il mio corso di “Educazione degli adulti” con una banale domanda che però mette subito in crisi. Chiedo ai miei studenti normalmente ventenni, ventunenni: “Voi vi sentite o non vi sentite adulti?” Oppure, “quando è stata la prima volta che vi siete sentiti adulti?”. bastano queste due semplici domande per aprire immediatamente un’autoriflessione circa il significato dell’adultità. Esiste sicuramente una dimensione biologica sulla quale ci possiamo trovare su-bito d’accordo: stabiliamo che siamo biologicamente adulti a partire da quel momento in cui un soggetto, un individuo acquisisce la capacità procreativa; ha completato lo sviluppo e quindi entra nella dimensione adulta. Ma tutti quanti noi - credo - siamo d’accordo nel ritenere questa lettura quantomeno riduttiva perché dovremmo, a questo punto, ammettere che anche ragaz-zini di 14, 15, 16 anni siano delle persone adulte. Noi sappiamo molto bene, e alcuni esperti mi hanno preceduto in questo senso, che lo sviluppo biologico, lo sviluppo cognitivo e lo sviluppo affettivo non hanno gli stessi ritmi. Potremmo allora sposare una seconda dimensione che ci conforti: la dimensione legale. Vedo qui il dottor Sceusa, e quindi facciamo riferimento anche a quello che ha detto. Stabiliamo una convenzione - i 18 anni per capirci - attraverso la quale stabiliamo se normativamente siamo o non siamo adulti. Anche questa, però, potrebbe essere interpretabile. Anzitutto è una convenzione. Dico subito che, per esempio, ad altre latitudini le cose non stanno in questi termini. Abbiamo una variabile, un range che va dai 14 ai 25 anni andando a vedere anche cosa fanno gli altri Paesi. Già all’interno del nostro ordinamento - il

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dottor Sceusa mi correggerà se sbaglio - ci sono poi anche delle eccezioni: la possibilità di con-trarre matrimonio a 16 anni con la richiesta al Tribunale per i minorenni, piuttosto che l’elet-torato passivo e attivo per la Camera dei Deputati e per il Senato della Repubblica che non è previsto a 18 anni. Quindi è una convenzione. Allora dobbiamo andare a scomodare un’altra dimensione, una terza dimensione che è la dimensione psicologica, cioè la capacità, da parte di un individuo, di prevedere in qualche modo le conseguenze delle proprie azioni, quella che chiamiamo normalmente “capacità di intendere e di volere”. È questo, certo, ma è anche, dal punto di vista psicologico, l’autopercezione di noi stessi come noi ci autopercepiamo in quanto persone adulte. Ma anche questo non basta. Anche questo non basta perché non siamo soli a questo mondo, e noi siamo adulti non soltanto nella misura in cui noi ci percepiamo tali ma sia-mo adulti anche nella misura in cui gli altri ci riconoscono questo ruolo e questa connotazione. E da questo punto di vista, gli stereotipi sono decisamente molti, più o meno banali: dall’aver concluso il percorso di studi, dall’essere entrati nel mondo del lavoro all’aver messo su fami-glia. Sono concezioni sociali dell’adultità che, come dicevo prima, sono a volte anche stereo-tipate, forse banalizzate. Il “choosy” del ministro Fornero, di recente conio, non è che l’ultimo esempio perché Padoa Schioppa prima ha parlato di “bamboccioni”, il vice ministro Martoni ha parlato di “sfigati”. Come vedete - non voglio banalizzare – l’attualità del problema è sostan-zialmente questa. Giungo ora alle conclusioni. In cinque minuti vediamo di concludere e di arrivare ad una parte più propositiva del mio intervento. La sensazione è che questa crisi generazionale di cui stiamo parlando, siccome ha dei tratti che sono quelli della vulnerabilità sociale, della disaffiliazione – e penso al sociologo Robert Castel che ha parlato di disaffiliazione - la sensazione è che questa crisi, che ha a che fare con le categorie dell’incertezza, dell’instabilità, della precarietà, sia figlia della crisi economica. Come dire, gli adulti oggi sono in crisi e vivono questa crisi di precarie-tà, di incertezza, di insicurezza perché queste categorie deriverebbero da una crisi economi-ca. Io, invece, ritengono che i termini di questa equazione debbano, in qualche modo, essere invertiti. È forse vero, cioè, che la crisi economica è figlia di una crisi dell’adultità, è figlia di una

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crisi degli adulti che sono andati in crisi su un aspetto fondamentale: la capacità di assumersi responsabilità, il senso di responsabilità. Giuro che non avevo visto i filmati che ci sono sta-ti proposti questa mattina ma, nell’ultimo filmato che abbiamo visto, la prima cosa che dice il ragazzo intervistato è “essere adulti significa essere responsabili”. Ecco perché sostengo, non soltanto io ovviamente, ma la letteratura del settore sostiene che la crisi degli adulti venga prima della crisi economica: perché, se andiamo a leggere buona parte della filosofia del No-vecento ma anche della sociologia più recente - il“Disagio della civiltà” di Sigmund Freud del 1929 piuttosto che “La situazione spirituale del tempo” di Karl Jaspers del 1930, “Il Principio di responsabilità” di Hans Jonas – ci accorgeremmo che quanto accaduto nel 2008 era già stato ampiamente previsto e denunciato ma non tanto dal punto di vista degli effetti finanziari quan-to più – ripeto – dal punto di vista di quelli esistenziali. Quella della responsabilità è una crisi che vediamo in tutti i settori. C’è sicuramente una crisi – qui sì, lo confermo – di tipo economi-co-finanziario perché siamo irresponsabilmente stati coinvolti in quella che abbiamo definito la bolla finanziaria. Che cosa ha fatto la grande finanza in maniera del tutto irresponsabile? Ha indotto le persone a indebitarsi. I mutui subprime, da cui tutto è partito, non sono altro che l’esempio di questa vicenda. Abbiamo condotto azioni irresponsabili in ambito ecologico. Non mi riferisco soltanto ai casi più clamorosi (dalla petroliera nel Golfo del Messico a Fukushima) ma penso anche a cose a noi molto più vicine. Il prossimo anno saranno 50 anni dal disastro del Vajont che è un esempio clamoroso di condotta irresponsabile in nome del profitto. Penso sicuramente ad una irresponsabilità politica. Attenzione, quando dico “irresponsabilità politi-ca”, il gioco è fin troppo semplice; verrebbero a tutti in mente i casi più eclatanti di sperpero di denaro pubblico piuttosto che di casi clamorosi ma io non mi riferisco mica a questi. Io penso semplicemente al fatto che, di recente, abbiamo vissuto una situazione in cui i partiti politici, piuttosto che assumersi delle responsabilità, hanno preferito delegare a dei tecnici scelte im-popolari che loro non hanno voluto compiere per la semplice ragione che questo avrebbe, in qualche modo, inciso magari sul loro consenso. E poi c’è una irresponsabilità educativa, quella che ci riguarda più da vicino. Non abbiamo mai nominato quest’oggi un noto pedagogista che

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però è rimasto sullo sfondo: Duccio Demetrio. Forse molti di voi lo conosceranno perché è il padre dell’autobiografia. Da questo punto di vista, vi dico subito che la testimonianza di questa mattina di Federico è stata bellissima perché lui, a un certo punto, ha individuato nel rapporto con sua nonna, cioè nella relazione educativa con un adulto, l’elemento fondamentale della sua crescita, e ci ha ricordato come sua nonna fosse riuscita a risolvere un problema di dolore at-traverso l’autobiografia. Ecco chi è Duccio Demetrio. Duccio Demetrio, a un certo punto di una sua recente pubblicazione, dice “gli adulti si sono dati alla macchia. E’ molto più facile fuggire dalle nostre responsabilità piuttosto che assumercele. Questo perché educare stanca. Educare - dice Duccio Demetrio - sfinisce”. E, siccome non abbiamo più la forza di sfinirci, preferiamo delegare ad altri. Le storie che voi incontrate quotidianamente sono storie di deleghe recipro-che: la famiglia che delega ai servizi, la scuola che delega alla famiglia, la famiglia che delega a qualcun altro, oppure l’università che delega la preparazione all’impreparazione degli studenti alle scuole superiori, le scuole superiori dicono “no, è stata colpa delle medie”, le medie dicono “no, è stata colpa delle elementari” e così via. Allora io credo che il nostro compito quest’oggi sia quello di recuperare questa fondamentale categoria pedagogica che è quella della respon-sabilità, responsabilità in quanto adulti e responsabilità come elemento portante dell’azione educativa che dobbiamo sostenere. Cioè, aiutiamo i nostri ragazzi a fare fatica, aiutiamo i no-stri ragazzi a imparare a fare fatica e a non avere paura di farla. Dopotutto, la radice etimologi-ca di “crisi” è “scelta”. E’ la stessa. Chiudo dicendo che un grande pensatore come bernard Shaw diceva che uno dei valori fonda-mentali della nostra esistenza, che è la libertà, presuppone la responsabilità, ed è forse questo il motivo per cui molti la temono. Grazie.

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Luigi Guibene, davvero grazie a Matteo Cornacchia che ci ha ricollocati all’interno di uno scenario mol-to più ampio per alcuni aspetti ma altrettanto indicativo sul piano operativo per le questioni e i dibattiti di questa mattina. Mi pare veramente che, usando termini che si usano spesso in sociologia, abbiamo lavorato dal “micro” al “macro”: dalle situazioni concrete, dalla biografia quotidiana, dalle vite dei singoli servizi, al sistema dei servizi, ad un reticolato più ampio, uno scenario di sfondo. Mi pare veramente che abbiamo tracciato delle coordinate abbastanza importanti e, d’altro canto, è mio personale, e spero anche vostro, motivo di soddisfazione che le varie persone che si sono susseguite partono da prospettive disciplinari e linguistiche diverse. Potenzialmente poteva essere una babele e invece mi sembra che si riesca a parlare la stessa lingua. Questo mi pare veramente un elemento di grande virtù di questo appuntamento, almeno nel decollo di questa mattina. Con questo io chiudo la mia fatica personale, modesta rispetto a quella degli altri, e passo la parola.

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Sergio SerraPer il comitato organizzatore del Convegno.

Ancora grazie a tutti. Contrariamente a quello che dice Matteo Cornacchia, siamo stati tutti molto responsabili nei nostri tempi, nei nostri spostamenti, eccetera. Vi do indicazioni per il pomeriggio. Il pomeriggio è denso di impegni e di lavoro. Ogni workshop avrà tre o quattro ore di lavoro. Si svolgeranno tre laboratori contemporanei. Il più affollato, che è il secondo, sarà collocato qui. Purtroppo ci sono state oltre 70 iscrizioni su 30 posti disponibili e quindi abbiamo dovuto, con difficoltà e con dispiacere, travasare gli ultimi iscritti in ordine di tempo in altri workshop meno affollati. Lo stesso, però, ci saranno 54 persone presenti. Gli altri workshop si svolgeranno al secondo piano, aule 6 e 7. C’è stato uno scambio per le caratteristiche dei lavori che si svolgeranno dentro, però le due aule sono vicine e vedrete la lista dei nomi appesa. I lavori si svolgeranno nel seguente modo: ogni workshop ha un coordinatore, il quale non ha una funzione diretta - se vuole sì - ma semplicemente di raccogliere e di guidare, laddove ci sia troppo caos, tutte le suggestioni e le cose interessanti che succedono in quel lavoro, e di restituirle domani mattina in plenaria. Domani mattina in plenaria si svolgerà anche una specie di esperimento video di performance interattiva su quello che succederà in sala ma sarà una specie di sorpresa. Ogni workshop ha degli stimolatori: cioè, nei primi 30-40-45 minuti di workshop ci saranno delle performance, dei racconti, delle suggestioni ad opera di vari operatori che avranno la funzione di stimolare il lavoro. Ogni workshop avrà anche un tutor che si occuperà di sedie, di ordine pubblico, ecc. Contrariamente a quello che c’è scritto sul programma, alla fine dei workshop, che sarà fra le 18 e le 18.30, non sarà necessario tornare qui in sala perché vi ho già detto tutto. Quindi potete andarvene tranquillamente. Noi organizzatori auspichiamo che domani torniate numerosi, anche perché si partecipa a un workshop solo e non si sa quello che è successo negli altri. Così c’è la possibilità di discuterne tutti assieme. buon pranzo e buon lavoro a tutti.

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Lavori di restituzione dei workshop svolti contemporaneamente nel pomeriggio di venerdì 23 novembre:

NAUFRAGI

STORIE DALLE TERRE DI NESSUNO

IL RISCHIO DI CRESCERE

Chairman: Alessandro RinaldiFormatore DOF consulting

In sala è presente una videocamera che riprende i partecipanti e gli interventi, la quale è collegata con un mac book che le mixa con altre immagini pre-registrate e con alcune frasi e parole chiave che vengono estrapolate dagli interventi in tempo reale; tutto viene proiettato contemporaneamente su un maxischermo.

INCONTRO COLLEGIALE

SAbATO 24 NOVEMbRE 2012

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Alessandro RinaldiCosa è successo in queste tre finestre di attività, di incontro, di relazione, di sogni, di speranze, di paure, di tutto ciò che è accaduto? Vi spiego come lavoreremo nella mattinata. L’idea è quel-la di dedicare circa un’ora ad ogni gruppo di lavoro e, ovviamente, di lavorare a stretto contatto con una forte e libera interazione. Quindi, nella prima parte della presentazione, i colleghi cercheranno di trasmetterci che cosa è accaduto, quali erano le attività, cosa è successo. Hanno trovato anche delle modalità per agganciare un po’ l’esperienza del pomeriggio di ieri e condividerla insieme a tutti noi. Quin-di, nella prima parte delle restituzioni, ci faremo un’idea di quanto è accaduto all’interno dei workshop. Poi, invece, nella parte centrale di quest’ora di lavoro ripetuta per tre volte, intera-giremo molto liberamente per fare emergere, anche rispetto a chi non c’era - così può recupe-rare - il senso di quel workshop, idee, dissonanze, immagini, proposte, elementi di riflessione. Insomma, siamo qui davvero per questo: per mettere insieme le nostre percezioni e per vedere qual è l’output di quest’anno di Dream Machine e che cosa lascia. Mi piace dirvi che il senso della performance su cui Luca, Sergio e Cecilia lavorano sta anche non certo nell’idea di aggiungere effetti speciali perché non interessano a nessuno, ma nell’i-dea di documentare in modo più caldo, in modo più partecipato quello che stiamo facendo insieme. Quindi, in effetti, la performance è legata non tanto e soltanto a loro ma a tutti noi che oggi capiremo delle cose, proveremo a condividere quello che abbiamo sentito e quello che sentiamo. Luca Saviano, oltre a supportare Cecilia, avrà anche il compito di tenere traccia non solo delle parole chiave che poi vedremo scorrere all’interno della mattinata, ma anche di eventuali idee molto pratiche. A me piace sempre dire molto “pane e salame”. È sempre bello chiudere le attività e i convegni con gli “e quindi”. Cosa ha prodotto questa at-tività che possiamo far girare, che possiamo sottoporre a istituzioni, soggetti di rete, perso-ne, organi di informazione affinché l’energia che si genera fra di noi serva a costruire, serva a continuare questo processo di costruzione rispetto alle tematiche dell’aiuto, della solidarietà, dell’incontro e della relazione, e magari a far crescere l’interdipendenza del sistema invece che

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rimanere vincolati a cancelli chiusi? Quindi vediamo cosa riusciamo a costruire insieme in que-sta mattinata di Dream Machine. A questo punto, direi che mi fermo. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Iniziamo ad ascoltare e a vivere un po’ l’atmosfera del primo workshop “Naufragi”. Ci sono Luigi Coccia e Eugenio Solla, e ci sono i ragazzi che ieri - e che ringrazio ancora - ci hanno dato l’esperienza di quello che il workshop intendeva portare. Quindi palla a voi per una prima parte di racconto e di con-divisione per poi interagire liberamente. Grazie mille.

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Luigi CocciaIo sono Luigi Coccia e, insieme a Eugenio e ai ragazzi, stiamo insieme in una casa che è una comunità per minori, una casa che prima di noi era abitata da bambini, era una scuola. Quando poi non c’erano più i bambini, l’abbiamo presa e l’abbiamo fatta diventare una comunità. Innanzitutto vi volevo ringraziare per averci invitati, e ringrazio Moreno Castagna che è la testa sognante di Dream Machine e che ci coinvolge in queste attività. Ringrazio le cooperative ov-viamente, un po’ tutti insomma perché riuscire ad andare a un convegno, lavorare fisicamente e lasciare il momento della discussione alla fine è una cosa secondo noi molto importante. Che cosa abbiamo fatto ieri per chi se lo fosse perso? Siamo partiti da una suggestione che era una performance, una performance teatrale, un esperimento di “videoteatro” - come lo chia-miamo noi - con tre degli attori della nostra compagnia, tre ragazzi della nostra comunità. Chi ha partecipato al workshop è stato letteralmente rapito, preso anche con un po’ di violenza ed è stato portato all’interno di una storia, di una narrazione, di una narrazione fatta di momen-ti, fatta di un percorso: chi c’era ha potuto provare questa sensazione di essere catturato sulle scale, di essere condotto lungo uno stretto corridoio e di essere portato in una stanza buia, calda. La cosa che questa performance voleva un po’ fare - ma vi spiegherà meglio Eugenio - era partire da una suggestione molto forte. Da quello, una volta effettuata la performance,

Esperimento di video teatro: a cura di operatori e accolti della Casa di mattoni di Ascoli Piceno. Laboratorio interattivo sul tema dei minori profughi di guerra o migranti non accompagnati.

NAUFRAGI

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abbiamo pensato di mettere un po’ da parte l’idea di lavorare sullo straniero e sulla nostra co-munità perché non volevamo parlare direttamente della nostra comunità ma volevamo parla-re dei naufragi, cioè di ciò che, dentro ognuno di noi, alberga e che sentiamo come naufragio. Quindi abbiamo fatto una restituzione legata più alle nostre sensazioni e ai nostri naufragi. Poi ci siamo divisi in due gruppi e abbiamo lavorato in due modi diversi coinvolgendo diverse modalità sensoriali: una più mistico-espressiva e una più fisica, corporea. Abbiamo lavorato in diversi gruppi; io personalmente ho lavorato sulle parole che erano emerse durante la prima fase, sulla rielaborazione di queste parole e su come queste parole potessero essere trasfor-mate all’interno di un lavoro che abbiamo fatto. Ci sono state moltissime emozioni. Abbiamo detto talmente tanto, abbiamo sentito talmente tanto che non avevamo più parole per dire niente. Questo è quello che è successo e che è difficile da raccontare se non lo si è vissuto; però ab-biamo dei piccoli clip video che vi faremo vedere. Volevo puntare un po’ l’attenzione su degli aspetti che, secondo noi, sono emersi in questo lavoro di gruppo. Uno è sicuramente - come riferito da parte di chi ha partecipato - il desiderio di sperimentare nuove forme di comunica-zione e di condivisione in maniera dinamica, cioè la possibilità di sperimentare forme di comu-nicazione diverse. Il teatro è una forma di comunicazione diversa, il video è una forma di comu-nicazione diversa, la musica è una forma di comunicazione diversa. Le arti sono una forma fondamentale con cui poter esperire una serie di nessi anche simbolici che prima erano inespressi. Quindi noi crediamo fortemente che questo sia importante, e ab-biamo notato che c’era questo desiderio palpabile nell’aria: “facciamo qualcosa, ne parliamo dopo. Prima facciamo”. Questo è importante per chi fa questo tipo di lavoro (educatori, psico-logi, psichiatri), cioè di provare a sperimentarsi con diverse modalità. Quelle espressive sono quelle che a noi sono più congenite perché veniamo dal teatro, veniamo da un’esperienza fatta in prima persona. Dico sempre che chi non sale sul palco non può parlare di teatro, chi non prova a fare un’attività, non tanto come spettatore ma come attore, è inutile che parli di teatro. E quindi è emerso questo desiderio da parte dei partecipanti che è lo stesso desiderio - guarda

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caso - che noi ritroviamo nel nostro lavoro, lo stesso desiderio che ci portano i ragazzi che vo-gliono da noi un diverso modo di rapportarci con loro. Vogliono una diversa esperienza, non quella classica. Ieri si parlava di legalità e illegalità. Sono uscite moltissime parole davvero interessanti che, via via, hanno acquistato un senso diverso. Questo viene visto proprio dalle persone con cui lavo-riamo tutti i giorni, di cui ci occupiamo, con cui sentiamo il bisogno di relazionarci. Una delle cose su cui, secondo me, è bene riflettere ma poi trovare anche degli strumenti, è questa ri-cerca di nuove modalità di condivisione e di espressione da parte del “nuovo”. Noi abbiamo bisogno di uscire un po’. Ieri si parlava di questo, di uscire da tutto ciò che ci imbriglia. A volte vorremmo veramente naufragare per andare su una rotta che non conosciamo. Allora andia-moci, perché se ci andiamo con un senso e con una condivisione, sicuramente qualcosa verrà fuori. Quindi la prima cosa che volevo dire è questa parola, “sperimentare”, provare a speri-mentare. Un’altra parola molto importante è la “trasformazione”, di cui anche ieri si accenna-va, cioè trasformare ciò che emerge dal vissuto, o meglio dalla sua rappresentazione. Diciamo che abbiamo messo da parte il vissuto di chi ha partecipato alla performance e abbiamo visto la rappresentazione di questo vissuto. Noi non siamo psicologi. Ci interessa ciò che rappresentiamo. Quindi ci interessa trasformare ciò che emerge dal vissuto all’interno di una nuova relazione significativa attraverso nessi sim-bolici prima inespressi. Anche “trasformarci” è una parola degna di nota. La relazione trasfor-ma, la relazione all’interno - dico una parolaccia - di un setting (teatro, psicoterapia) trasfor-ma ulteriormente perché si esce dal quotidiano e si va nell’ “extraquotidiano”. Un’altra cosa che secondo me è importante è che, attraverso questo tipo di lavoro, si ha un punto di vista privilegiato. Dicevo prima che da spettatore si può anche essere attori protagonisti e questo è possibile solo all’interno della partecipazione dinamica condivisa. Noi ieri abbiamo condiviso molto. Tutti hanno avuto questa spinta a condividere ciò che era stato fatto, e l’abbiamo fatto attraverso due modalità. Uno dei lavori che abbiamo fatto è stato sulle parole e dunque vi fac-cio ascoltare un piccolo brano che abbiamo registrato durante il lavoro specifico con me.

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La magia che accade è che queste parole sono parte integrante del percorso, della storia, dello spettacolo degli stranieri: responsabilità, le rotte, le regole. La cosa particolare è che siano ve-nute fuori dai partecipanti riferendosi al lavoro. Secondo me queste connessioni trasformano un po’ anche le parole che sono state dette. Ora vi farei vivere un altro momento, che è quello del secondo laboratorio all’interno di “Nau-fragi”, quello più fisico è più espressivo. Eugenio vi conduce su un’altra rotta.

Eugenio SollaIo avrei fatto vedere ciò che abbiamo svolto ieri, che è un sunto del lavoro senza parole ma at-traverso il linguaggio del corpo, alla fine di quello che vorrei raccontarvi. Invece, per questioni tecniche, dobbiamo farlo adesso. Spero che alla fine abbia la stessa efficacia.

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Questo è il riassunto di quello che abbiamo fatto. In realtà noi abbiamo fatto poco. Noi ci siamo posti come facilitatori, come mediatori, cercando di trasferire degli strumenti che molti di noi probabilmente utilizzano, che molti altri invece non utilizzano, e che pensiamo siano assoluta-mente indispensabili nel lavoro a contatto con mondi diversi. Per “diversi” cosa intendo? Diver-si a 360°.Ieri, qualcuno dei relatori parlava di “bisogno di creatività”, di “vie d’uscita creative”. Io penso che su questa cosa ci troviamo in sintonia, e infatti siamo molto più capaci di trovare soluzioni creative all’interno di una discussione che di riuscire, in qualche modo, ad organizzare bene un discorso come dovrei fare io adesso. Metterò a fuoco dei punti. Noi siamo partiti dalla nostra performance teatrale e dico la “nostra” perché, nonostante i personaggi della nostra performance teatrale siano i ragazzi della nostra

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comunità con le loro storie - non di naufragi ovviamente perché sono qui con noi oggi ma con le loro storie di naufragi sentimentali, di naufragi emotivi – noi, insieme a loro, abbiamo provato a tirare fuori, come operatori, come conduttori del loro laboratorio, i nostri naufragi quotidia-ni per cercare di entrare in empatia con i loro naufragi, con i loro punti neri, con i loro punti irrisolti. Ci siamo accorti che, in realtà, questa cosa ha reso possibile il fiume di racconti e di parole che i ragazzi poi hanno espresso all’interno del video che fa da cornice alla performance teatrale. La tecnica che abbiamo utilizzato ieri per cercare di fare rivivere quello che abbiamo vissuto noi all’interno di questo laboratorio permanente che ormai dura quasi da tre anni, che è “Nau-fragi”, è stata quella di creare un laboratorio in cui le stesse cose che abbiamo vissuto noi e che ci hanno fatto crescere, forse non tanto professionalmente ma emotivamente, potessimo ri-proporle alle persone che avrebbero partecipato al workshop. L’abbiamo fatto utilizzando due codici diversi di comunicazione: la parola e il linguaggio del corpo. Però il linguaggio del corpo costretto. Io ho lavorato con il corpo, e i corpi di queste persone non erano corpi che si potevano muove-re liberamente ma erano corpi che venivano mossi, comandati dal proprio compagno di gioco; il proprio compagno di gioco li muoveva nello spazio, li collocava dove credeva, e addirittura comandava loro l’espressione che dovevano tenere in quel momento. Ok, un bel gioco. A livello simbolico, quello che volevamo trasmettere era quello che ci avevano raccontato i ragazzi pri-ma di fare lo spettacolo: questo senso di “non essere” una volta entrati in mare perché il mare è il perno del racconto dei ragazzi, il mare che separa, il mare in cui ti tuffi, il mare in cui butti le tue aspettative, in cui butti i tuoi problemi quando te ne vai dal tuo paese. Non è sempre detto che un emigrato parta perché abbia dei problemi; molti immigrati partono perché hanno delle aspettative. Mi viene sempre in mente quel film di Troisi: “Emigrante? No, io viaggio.” Però il lavoro che abbiamo fatto noi puntava alla distruzione di questo stereotipo, e non a caso la tecnica utilizzata è stata la tecnica del TDO, del “Teatro dell’Oppresso” di Augusto boal, un teatrante militante che si è fatto tanto di asilo politico in Francia perché, attraverso il teatro,

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poteva sovvertire l’ordine del suo Paese. Allora, questa costrizione fisica, questa possibilità di non muoverci come volevamo ma di farci muovere dagli altri è in qualche modo quello che pro-vano i nostri ragazzi, i vostri ragazzi quando abbandonano la loro terra, si mettono nel mare e si mettono spesso nelle mani di criminali. Il mare: il mare, in realtà, è anche il simbolo del mare che incontrano qui quando arrivano. L’hanno incontrato anche ieri questo mare, si è riproposto loro anche ieri con i titolari dei pro-getti che dovrebbero favorire la loro integrazione – io parlerei piuttosto di “disintegrazione della differenza”. Abbiamo fatto tutti fatica a seguire l’istruzione, ovvero “partendo dai loro naufragi, da questa suggestione che ci ha dato lo spettacolo, dimentichiamoci di loro e comin-ciamo a pensare ai nostri naufragi quotidiani all’interno delle nostre strutture, all’interno del nostro lavoro”. Chi c’era sa quanto è stato difficile non confondere i due piani, riuscire per una volta a lasciarli stare e a concentrarsi sui nostri naufragi che, alla fine, abbiamo scoperto non essere tanto di-stanti dai loro naufragi, da quello che provano loro quando attraversano il mare, da quando si trovano spaesati qui. Però abbiamo fatto fatica. Tendevamo allo stereotipo. Perché dico che c’era un altro mare, che hanno incontrato un altro mare ieri? Perché sicuramente incontrano spesso un mare di possibilità . Però incontrano tutta una serie di protezioni da parte nostra, protezioni emotive perché ciò che loro ci trasmettono attraverso la loro sofferenza, attraver-so le loro aspettative che sono troppo simili alle nostre aspettative, sono identiche alle nostre aspettative. Allora, noi, come operatori sociali, ieri abbiamo provato a spogliarci del nostro ve-stito da operatori, ci siamo tolti da quell’osservatorio privilegiato e abbiamo provato a sforzar-ci, a concentrarci appunto su di noi e ci siamo accorti che, effettivamente, siamo uguali, siamo uguali dentro. E l’empatia che si genera attraverso questo contatto, che è un contatto di fragili-tà, secondo noi è la vera terapia, è la vera integrazione. Qui si parla di bambini e di adolescenti. Quello che mi viene in mente è “come posso far entrare quello che abbiamo fatto all’interno di questo contenitore”? Io dico che quello che abbiamo fat-to ieri è stato un esperimento di pacificazione più che un esperimento educativo. C’era uno che

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diceva “restiamo umani”. Ieri abbiamo provato ad accantonare il resto e a lavorare sulla nostra umanità. Perché dico che la priorità oggi con gli adolescenti, con i ragazzi è l’educazione alla pacificazione, alla pace, che non vuol dire negare il conflitto, anzi vuol dire farlo emergere, dar-gli la possibilità di poterlo utilizzare questo conflitto. Però di andare al contrario. Noi lavoriamo in servizi in cui tutti i giorni dobbiamo correre dietro a questo sistema di cose - e lo chiamo così in maniera generica - per andare in senso contrario. Le parole d’ordine sono “integrazione” uguale a “diventare competitivi, trovare lavoro, diventare veloci, essere più bravi degli altri”. Capite che in un momento storico in cui solo ad Ancona, in un anno, sbarcano 40.000 perso-ne che arrivano da società in cui questa cosa non esiste, stiamo creando in Italia due velocità. Questa è una priorità educativa. Mi fermo.

Alessandro RinaldiÈ sempre difficile chiedere a persone che ci mettono il cuore e tutta la passione, di fermarsi un attimo ma avranno ancora tempo per farci commenti di testimonianza. Però, visti i concet-ti e viste le emozioni che ci avete passato, mi sembra importante cominciare ad allargare la riflessione. Chiederei in modo molto libero, molto caldo, molto aperto, sia a chi magari era nel workshop ieri, sia a chi invece ha incontrato quest’esperienza questa mattina, commenti, riflessioni, pro-poste. Sono uscite tante parole chiave: l’importanza della trasformazione, utilizzare maggior-mente la creatività, la tematica dell’empatia per accorciare la distanza rispetto all’esperienza della persona. La mia curiosità molto forte è quella di capire cosa proviamo adesso in termini sia di sensazioni sia di riflessioni e, perché no, se ne avete, anche di proposte e di idee concrete che è un altro grande livello su cui Dream Machine vuole stare.

Barbarabuongiorno a tutti. Sono barbara. Adesso mi occupo di salute mentale ma per tanti anni ho

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lavorato con i minori stranieri non accompagnati. Io volevo partire dal concetto del mare: il mare divide - è vero - ma il mare è anche il mezzo attraverso il quale si può raggiungere qualco-sa di nuovo, di diverso, e ti permette il passaggio. Io la vedo così. Non è vero che il mare divide solamente.La piccola testimonianza che volevo portare è questa: io, con i minori stranieri non accompa-gnati, ho imparato tantissime cose, mi hanno dato tantissimo; ho viaggiato con loro, mi hanno raccontato, dopo i primi momenti di spavento, di non fiducia, i loro percorsi, i loro viaggi, viaggi lunghissimi, viaggi difficilissimi e carichi di emozioni. E, come diceva giustamente il mio colle-ga questa mattina, arrivano qui superando un sacco di paure. Abbandonano la loro terra per qualcosa di diverso, per qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto. Comunque siamo riusciti sempre a vincere queste scommesse. Li abbiamo inseriti, abbiamo fatto un percorso con loro. Abbiamo anche seguito dei ragazzi che hanno richiesto il riconoscimento dello status di rifu-giato politico. Mi sentivo di dire questo. Grandi emozioni, grande empatia, un grande percorso.

Elia Dal Masobuongiorno a tutti. Mi chiamo Elia Dal Maso, sono un regista e formatore. Vorrei ringraziare tutti gli organizzatori. Detesto i ringraziamenti che per me, generalmente, sono una grande perdita di tempo ma il grande apprezzamento di questo convegno è stata la concretezza. Qui, a differenza di tante situazioni che ho visto negli anni di parole su parole e di teorie, ho visto persone che lavorano sul territorio, che lavorano concretamente e che quando dicono cose, vedono cose, sentono cose, hanno un contatto reale con tutto questo. Io partirei subito con una proposta concreta, partendo dal concetto diretto. Io ho lavorato tanti anni a Roma. Poi, per disgrazie mie personali, sono tornato a Trieste. Sono tornato nella cit-tà che mi ha visto nascere, che mi ha visto crescere per un periodo della mia vita, come regi-sta, come formatore, eccetera. È chiaro che il mio interesse più grande è quello di poter vivere la rete. La rete non è fatta di accadimenti episodici, la rete è fatta di costanza, di continuità,

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dell’essere sul territorio e del sapere di poter contare quotidianamente su altre persone che possono rispondere a domande, criticarti, offrirti aspetti e osservazioni diverse su quello che è il tuo agire e su quello che è il loro agire. Io chiedo agli organizzatori se è possibile rendersi disponibili a raccogliere una mailing list di persone che vogliono condividere questa mailing list, non per fare pubblicità ma per creare una rete concreta. Io vorrei dare la mia e-mail a tutti coloro che sono interessati a costruire una rete sul territorio, ma non necessariamente sul territorio. Questa la prima cosa che dico. Ne avrei tantissime ma rispetto il tempo di tutti quanti e quindi non lo farò. Volevo dire solo due cose: uno - come replica - un “no” deciso a un’affermazione della signora barbetta di ieri, la quale ha detto “mancano idee che prefigurino cambiamenti”. Io non sono assolutamente d’accordo sul fatto che manchino le idee. Le idee non mancano, le idee sono tantissime. Manca, però, quel meccanismo, quella volontà, quell’impegno pubblico nel farsi ga-rante di un costante confronto tra gli operatori del sociale e con gli operatori del sociale. Manca quella pratica quotidiana che permetta di essere efficaci come secondo me lo si è stati in que-sti due giorni in questo straordinario convegno. Io invito tutte le realtà pubbliche a farsi garanti di questo. Io sono spietato e ieri mi sono permesso di alzarmi durante l’intervento della professores-sa Sbisà, a seguito dell’intervento dell’Assessore Grim, e di intercettarla all’uscita e dirle, con molta educazione: “Peccato che ad un convegno così importante, come è stato dichiarato da lei stessa, non partecipi”. Poi, con molto rispetto, mi ha spiegato che aveva un altro impegno e doveva sostituire il sindaco. Io le ho detto che si tratta di fare delle scelte. Quando lei mi ha risposto “non posso non sostituire il sindaco”, io le ho lanciato un invito dicendole: “La prossi-ma volta magari lo porti”. Perché dico questo? Perché sono stufo di vedere politici, personalità sul territorio che vengono ad inaugurare il convegno, a dire quanto siete bravi ma che poi non colgono l’occasione di formarsi, di apprendere. Pensiamo alla testimonianza di apertura di ieri con una strategia estremamente funzionale di raccontare quelle due storie e poi dire “quello sono io”. Già quello avrebbe aperto un mondo a delle persone che ogni tanto parlano, e parlano

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per sentito dire o comunque di cose lette. Quindi il mio invito è ai politici ad essere presenti, a noi tutti non solo a chiedere ai politici di essere presenti ma a denunciare, in qualche modo, la gravità dell’assenza perché poi diventa tutto estremamente privo di concretezza. Io non so sin-ceramente quanti docenti della facoltà abbiano partecipato in questi giorni. Non lo so, non ne ho la più pallida idea, però sarebbe stato sicuramente molto interessante. Domanda con cui passo la parola a chi vorrà rispondere. È un riferimento al concetto del “toc-care il fondo”. Vi chiedo: “Ma è proprio necessario toccare il fondo per poter poi aiutare gli altri o cambiare rotta?” Io, un fondo molto pesante l’ho toccato. Io sono un suicida che è qui per caso. Ho perso mia madre suicida qualche anno fa in clinica psichiatrica. Ci sono situazio-ni molto particolari. Io ho toccato il fondo. Attenzione però: quello che ho toccato io non è il fondo. Poteva essere peggio. Però io ho toccato quel fondo. Mi sarebbe piaciuto poter essere qui, dire delle cose, poter intervenire e partecipare a questa situazione senza aver toccato quel fondo. Il mio interesse è quello di riuscire a capire assieme a chi sarà interessato se possiamo essere tutti propositivi e concreti nell’aiutare e anche nell’aiutarci, nell’essere insieme agli altri senza necessariamente dover toccare sempre il fondo. Grazie mille.

Alessandro RinaldiPrima di provare a riprendere gli spunti così intensi che vengono donati, mi piacerebbe rac-cogliere ancora un po’ di testimonianze, di riflessioni da parte di tutti noi. State arrivando già a una grande intensità. Vi prego solo di fare un po’ di sintesi perché ci sono molte cose che possono essere condivise.

Sebastianobuongiorno. Sono Sebastiano. Vi propongo una piccola riflessione che mi viene al momento, quindi non so quanto sia giusta o sbagliata. Se io sono uno straniero minorenne che se ne va dal suo Paese senza chi lo guidi o lo accompagni, e abito ora in questo Paese, da chi vado a chiedere tutto l’aiuto che posso avere da questi operatori, che posso avere dai servizi sociali?

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Come faccio ad avvicinarmi? La mia riflessione è questa: devo per forza passare attraverso le maglie della giustizia? Devo essere oggetto di provvedimento per poter arrivare ad avere que-ste forme di informazione, di aiuto, per poter fare delle scelte? La giustizia diventa l’ufficio d’i-scrizione al corso di formazione del senso civico? Grazie.

Eugenio SollaQuesti sono gli strumenti che abbiamo.Sono pochi.Almeno sono qualcosa. E sennò l’alternativa è rimanere clandestino. Volevo attaccarmi a quello che dicevi tu. Per me non è strano che dei minorenni - poi c’è chi può spiegare meglio di me quali sono le implicazioni di tipo giuridico che caratterizzano il mino-renne - arrivi qua e debba entrare in un circuito di questo tipo. Il problema non è questo. Il pro-blema è che, finché non tocca la sponda del mondo X, quel minorenne di diritti non ne ha. Se non scende dalla nave, un minorenne può essere preso per un orecchio e messo in un carcere in Grecia o in Turchia. Un bambino, non un uomo, che è diverso.

Paolo SceusaScusate, io sono venuto qui perché mi interessa abbattere gli steccati. Come probabilmente tutti avranno capito, specialmente quelli che hanno un ruolo nelle istituzioni - chi non ce l’ha non ha neanche uno steccato e probabilmente ha un approccio anche critico e lamentoso perché vede soprattutto quello che manca - quello che manca fa soffrire chi subisce questa mancanza. Ma fa soffrire nel senso che fa sentire inadeguato chi, in qualche maniera, porta la bandiera del rappresentante di un’istituzione che dovrebbe sopperire proprio a questa man-canza. Purtroppo, ma non solo in Italia, dappertutto, “istituzione” significa “organizzazione”, e “organizzazione” significa “aspirazione a qualche cosa” ma significa anche “imperfezione”. Ora, l’imperfezione dell’organizzazione è lo steccato che vediamo tutti, che vede il signore che, molto intelligentemente, ha sollevato un problema che va sollevato qui perché questa, secondo

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me, è una fabbrica di sogni, e per essere una fabbrica di sogni ha bisogno di andare oltre, cioè di gettare il cuore oltre l’ostacolo, oltre lo steccato. Se voi continuate, per esempio a vedere me, come ho avuto l’impressione di essere visto in alcuni momenti della giornata di ieri, al wor-kshop in cui ho partecipato, eccetera, come un portatore di quegli ostacoli insuperabili, non in quanto persona ma in quanto semplicemente rappresentante di quell’istituzione, allora non andiamo da nessuna parte. Qualcuno ha detto molto giustamente che, alla fine, le organizzazioni, gli enti, le stesse vostre associazioni sono e vivono sulla faccia, sull’anima e sul cuore delle persone che le rappresenta-no. Al di fuori delle persone, quelle istituzioni non esistono. Ora, è importante che queste per-sone si vedano, si conoscano e si riconoscano per portare fuori dagli steccati la loro istituzione. Ci vuole coraggio a farlo perché, in un senso malinteso di responsabilità, uscire dallo steccato significa anche rischiare sanzioni di tipo disciplinare, bacchettate perché uno non si compor-ta o non sta nello steccato in cui dovrebbe stare, difendendo non una debolezza, quella per la quale oggi siamo qui e ci stiamo cercando di confrontare, ma difendendo una prerogativa, di-fendendo un mansionario, difendendo dei confini. I confini ci sono e non si può forse immagina-re un mondo senza, anche se lo si può sognare. Lo sforzo massimo esigibile qui ed ora, secondo me, è che ciascuno, specie se porta un discor-so istituzionale, apra quegli steccati ma venga riconosciuto anche per tale perché altrimenti, a furia di sbatterci il muso, i portatori delle istituzioni che vogliono fare un discorso un po’ di-verso, un poco altro, finisce che si ritirano nel loro cantuccio ma non perché vogliono loro ma perché c’è di mezzo il pregiudizio di chiunque voglia lavorare con loro. Tutto qua. Quindi, certo, verissimo, il minore deve passare dalla giustizia. Io la regola non la posso cam-biare; posso solo applicarla. Grazie a Dio - e dico grazie a Dio perché ho fiducia in me - grazie Dio come la applico dipende da me.

Alessandro RinaldiContinuiamo a lavorare sulla nostra condivisione in modo anche così personale. Abbiamo

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ancora una quindicina di minuti rispetto al primo intervento . Vorrei essere sicuro, prima di avere qualche battuta finale da parte di chi ha condotto il workshop o da parte o di chi vorrebbe farlo, di ascoltare ulteriori interventi.

Iva MacalusoHo partecipato ieri al vostro workshop. In qualche modo mi ha fatto riflettere sul mare. Ho sen-tito anche l’esigenza di andare a vedere il mare ieri sera. Cito spesso una frase di uno scrittore che dice che di fronte al mare, l’idea della felicità è più semplice. Oppure quello che ci dice Magris, secondo cui il mare è simbolo di eternità, di infini-to, è quello che meglio rappresenta Dio. Ma ieri ce l’avete fatto vedere e l’abbiamo vissuto in un altro modo, e forse mi sono resa conto che è la prima volta che io vedo così il mare: come speranza, come anche lenta agonia di qualcosa che forse non arriverà mai.

Licia BarbettaApprofitto per chiarire il concetto del cambiamento che ho forse espresso malamente e che tengo a precisare. Io rappresento l’ente locale; una difficoltà che in questo periodo sentiamo molto forte è proprio che, in generale, non si prefigura e non c’è una elaborazione che tenga conto complessivamen-te delle questioni. C’è proprio un’assenza di aspetti culturali e generali che investano più poli-tiche e che vadano verso il fronteggiare le problematiche dei bambini e dei ragazzi in termini complessivi. C’è stata una stagione dieci anni fa, dodici anni fa, attraverso l’esperienza di rete della legge 285, in cui le scelte politiche avevano dato l’immagine di grande cambiamento e di complessità. Invece, ultimamente, si tende ad orientare le scelte su dei settori molto par-ticolari, i rivoli dei finanziamenti, e questo è per noi un elemento di grossa criticità. Quindi io sentivo di dire le Sue stesse cose. Forse non si è chiari nell’esprimersi o non si è bravi nel dire le cose. Per carità, questo non è un grosso problema. Però volevo precisare che è quello che chiediamo rispetto ad una visione che debba essere a 360° di fronte a queste problematiche.

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Non possiamo affrontare il problema dei ragazzini e dei ragazzi più grandi a pezzetti. Ci deve essere un rapporto con il mondo della scuola. bisogna che ci incontriamo, che troviamo delle strategie, altrimenti i pezzetti si dividono. Abbiamo bisogno di trovare unitarietà. Grazie.

Elia dal MasoNon capisco una cosa. Un comune cittadino chiede all’istituzione. Voi, come rappresentanti delle istituzioni, a chi chiedete? Ai marziani? E se non siete voi che dovete creare in qualche modo le condizioni, non capisco a chi dovreste chiederlo.

Licia barbettaMolto brevemente, io credo che la funzione dell’ente locale sia quella di raccogliere da tutti questi. Ieri, ad esempio, nel workshop pomeridiano ho detto di pretendere dall’ente locale, nel senso che ci sono degli strumenti dove queste istanze devono essere raccolte. Quindi io non è che lo chiedo a nessuno in particolare ma è una funzione che si deve svolgere, e la devono svol-gere tutti. Poi lo si deve chiedere. Giustamente Lei diceva “non capisco perché si venga solo a inaugurare il convegno e poi non si venga anche a raccogliere gli input di questo convegno”. Ed è questo quello che bisogna fare.

Alessandro RinaldiUn ultimo intervento e poi alcuni commenti conclusivi.

Michela ParmeggianiVolevo dire a Luigi e ad Eugenio che non ho potuto partecipare al loro workshop e mi dispiace. So che andrete in giro a riproporre lo spettacolo con i ragazzi. Se ci sarà occasione, verrò mol-to volentieri perché ho sentito, ascoltandovi stamattina, una grande affinità, un’affinità eletti-va soprattutto su quello che dicevi tu, Eugenio, della non pacificazione prematura dei conflitti

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quale educazione alla non violenza, alla possibilità di incontrare nuove cose possibili. Ho raccolto un po’ di suggestioni non tanto mentre stavo ascoltando quello che raccontavano i partecipanti al vostro workshop ma quando ho sentito dire “ho sentito l’esigenza di andare al mare”. Mi è venuto in mente uno spettacolo di tempo fa fatto con i ragazzi della neuropsichia-tria; era un lavoro sul mare. Mi emoziona ancora. C’era una frase di questo spettacolo che han-no inventato loro e che diceva: “Al marinaio non basta un cucchiaio per travasar nel secchio il mar”. Tante esperienze.

Alessandro RinaldiIntanto grazie perché è un convegno vero ed emerge di minuto in minuto il lavoro e la volontà di ognuno di noi di portare l’emotività. Forse questa è la bellezza del vostro lavoro, e non ci si può sottrarre a questo. Grazie anche per l’ultimo intervento che ha riportato un po’ la centrali-tà del tema di questo workshop che sono stati questi naufragi che abbiamo visto di persona ieri e che era obbligatorio viverli. Ci siamo fermati fino a tardo pomeriggio proprio per viverli. È già emersa una proposta concreta, quella di Elia Dal Maso, in maniera anche da suggerire, proporre cose anche concrete alle suggestioni che i lavori ci stanno dando. La proposta più concreta era quella della mailing list. Quindi, nel frattempo, sono stati messi due fogli sul ban-chetto all’entrata dove, appunto, creare questa mappatura, fare una rete. Fare rete non deve essere solo un concetto astratto, ma può declinarsi anche concretamente. E, sempre concretamente, io passerei palla a chi ha condotto il workshop chiedendo come uti-lizzano queste tecniche teatrali. Se volete fare anche delle proposte concrete, ma anche pro-porre tecniche più semplici per riportarle a una quotidianità, visto che in sala abbiamo molti operatori, abbiamo una presenza spalla a spalla con gli stakeholder.

Eugenio SollaIn realtà non c’è un momento preciso. Il limite tra scena e pubblico, nel concetto di teatro che abbiamo raccontato ieri, non c’è. Non a caso la parola “spettatore” ha due “t” e diventa

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“spettattore”. Probabilmente non bisogna forzare o trovare il momento, ma bisogna indivi-duare all’interno della quotidianità qual è il momento veramente per cui valga la pena inseri-re all’interno della relazione, all’interno di un conflitto, ad esempio, la drammatizzazione. Per “drammatizzazione” intendo cercare di fare in quel momento la fotografia di quello che sta avvenendo proprio con i ragazzi, riproporre in contemporanea la fotografia del conflitto che sta avvenendo fra due persone. Io non credo che le persone che sono qui abbiano bisogno di avere strumenti operativi da me. Sicuramente saranno anche più titolati di me. Il perno fon-damentale di quello che abbiamo fatto ieri, il gioco più carino era quello che stava a cuore, ap-punto, all’inventore di questa tecnica teatrale, ovvero la distruzione de “le flic dans la tête”, dello “sbirro nella testa” - passatemi il termine “sbirro”. Quindi, prima di distruggere e prima di mettere in discussione i veri sbirri, se proprio così li dobbiamo chiamare - io sono abbastanza diretto con il linguaggio ma sono state dette cose molto più pesanti di quelle che sto dicendo io - ieri abbiamo detto “dimentichiamoci di questa roba, cominciamo a distruggere i nostri flics”. Questa è stata l’operazione. Saremo più coscienti di quello che è successo fra due o tre giorni. In questo momento, con tre ore di sonno, non posso dare nessun consiglio operativo a parte questo, quello di mettere l’ani-ma, come ce l’abbiamo messa noi ieri, nella relazione con le persone. L’insegnamento, se deve esserci, è questo: ieri, alla fine abbiamo detto “quanto siamo stanchi” e pensare che non ci sia-mo nemmeno mossi. Eravamo sul posto e non avevamo neanche il fastidio di doverci muovere perché ci muovevano gli altri. Eravamo distrutti perché, per tre ore, abbiamo usato altro, ab-biamo usato quella cosa che serve all’interno delle relazioni non solo con i ragazzi ma con tutti, anche con le istituzioni.

Luigi CocciaIo finisco con un contenitore operativo. Il teatro è finzione, non c’è dubbio. Io sto parlando, e con voi c’è una distanza che ci separa. Già se mi alzo, la distanza diventa più corta. Ciò che è importante all’interno della relazione e della quotidianità è cercare di utilizzare dei

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momenti di finzione condivisa. Ad esempio, se un ragazzo fa qualcosa, io fingo – tanto sta si-curamente fingendo qualcosa anche lui - ma l’importante è che questa finzione sia condivisa perché all’interno di una finzione condivisa come quella del teatro sicuramente c’è del nuovo, e per “nuovo” intendo una cosa completamente diversa. Quindi, in qualsiasi momento in cui uno si rende conto che c’è in atto da parte di qualcuno un momento di finzione, c’è del teatro lì. Spesso i ragazzi sono molto teatrali. Se ci entro anch’io, stiamo fingendo entrambi. Vediamo cosa nasce di nuovo. Si tratta fondamentalmente di entrare in questa finzione.

Alessandro RinaldiCi fermiamo qui con il primo workshop per dare il tempo agli altri due workshop di rappresen-tarci, con altrettanta energia e intensità, il senso del lavoro che è stato fatto. Vorrei ringraziare anche i ragazzi che hanno interpretato per noi. Il secondo workshop è “Storie dalle terre di nessuno”. A condividere con noi quanto è avvenuto all’interno del workshop e ad animare un po’ la discussione, Paolo Taverna, in sostituzione di Francesco Russo, il coordinatore di quel lavoro, che non sta bene oggi e non è riuscito ad es-sere con noi. Nel doppio ruolo di performer e speaker, Sergio Serra che, generosamente, è in multitasking. Non sottraggo altro tempo se non per dire che, piano piano, facciamo crescere insieme l’esperienza della giornata, e, grazie a Cecilia e Luca, incominciamo a vedere, anche in modalità di contemplazione, le parole e le immagini che ci stiamo regalando. Passo la palla a Paolo Taverna per entrare nel vivo di ciò che è accaduto nel secondo workshop di ieri.

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Paolo TavernaNon mi ero preparato minimamente a questo tipo di intervento, nel senso che ieri avevo fatto attenzione per me stesso e non ho tenuto conto di tutto con la precisione che invece sarebbe necessaria. Vi ricorderò il workshop di ieri passando, in un certo senso, dalla poesia alla prosa perché non sono un intrattenitore, non ho file, non ho multimedialità ma vi riporterò una storia della multi-formità delle istituzioni, degli incastri e degli ingarbugliamenti che ci sono. Il workshop è stato introdotto dalla lettura, dal racconto di tre narrazioni, tre vicende di ragaz-zi, vicende di tutta la loro vita. Ve le riassumo come ve le ho riassunte ieri: la prima è la storia di uno spreco, del piano di investimenti per affrontare situazioni molto complicate nella vita del ragazzo e, puntualmente, allo scoccare del diciottesimo anno di età, lo spreco, lo sperpero di tutto quello che era stato fatto. Era un ragazzo che non aveva amore. Poi la una storia di un ragazzo, che è stato chiamato Remì, con una vicenda familiare molto complicata, una vicenda personale molto complicata, e, infine, la storia di rincorse di adulti, di operatori, di istituzioni che ricoprono, di mese in mese, di anno in anno, l’evolversi involutivo, invece che continuo

Tre testimonianze su casi limite introducono il tema della presa in carico sinergica di minori molto problematici e in crisi acuta.

STORIE DALLE TERRE DI NESSUNO

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come dovrebbe essere l’evolversi di questa vita verso nodi che si facevano sempre più stretti. Di fatto, nel dibattito, di questi ragazzi non si è parlato molto, non s’è parlato affatto perché abbiamo parlato di altro. Penso che ci siamo trovati di fronte a due problemi distinti, e ne abbiamo affrontato soltanto uno: il primo problema era come evitare di ripetere alcuni errori e come andare avanti, perché questa era la questione posta dalle storie; l’altra questione è cosa effettivamente stiamo fa-cendo o dovremmo essere capaci di fare per i tardo-adolescenti, cosa possiamo fare per loro da subito. Poi, non ho colto molto bene ieri ma ho colto pensandoci successivamente, che c’è stato probabilmente un problema di metodo, nel senso che - e parlo per tutti, le cooperative, tutte le associazioni e tutti i Tribunali d’Italia - non possiamo avere il controllo dei processi che avvengono in organizzazioni diverse da quella della quale facciamo parte, nel senso che ciascu-no deve fare la propria parte, ciascuno deve interpretare le proprie funzioni al meglio, quelle istituzionali e quelle professionali, dando in qualche modo per scontato che gli altri facciano altrettanto. Non posso pretendere di sapere con precisione che cosa fa, come lo fa e come fun-ziona un’organizzazione come l’Azienda Sanitaria, né l’Azienda Sanitaria potrebbe conoscere come funziona con precisione il Tribunale dei Minorenni. Ci sono state delle proposte concrete: in particolare, la proposta formulata dal Presidente del Tribunale per i Minorenni, Paolo Sceusa, il quale ha invitato a fare subito una ricognizione delle realtà, delle possibilità che sul territorio regionale possono essere da subito attivabili e utiliz-zabili per dare modo a questi giovani, i famosi grandi minori e tardo-adolescenti, di costruire il loro futuro a partire da loro stessi, dalle loro passioni, dalla loro creatività, usando le mani, usando la loro intelligenza e tornando anche alle professioni antiche. Ha detto più volte anche ieri mattina che c’è poco tempo per fare le cose giuste. Dopo di che, altre proposte, a dir la ve-rità, io non ricordo di averne sentite; precisazioni invece sì. Mi sento di riportare una precisazione: quella della dottoressa barbetta, la quale diceva che è compito istituzionale farsi carico di queste questioni, un compito che deriva dall’organizzazio-ne della società come oggi è costituita e nella quale viviamo. Diceva anche che è compito della

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politica, in parte forse rispondendo al Presidente Sceusa. Che ci piaccia o non ci piaccia, è la politica che prende le decisioni sulla destinazione delle risorse. Il fatto che non sia presente è molto interessante, una questione sulla quale si può naturalmente discutere. Nel dibattito è poi intervenuta la Presidente di una cooperativa, barbara Gorza de “La Quercia”, per raccontare un po’ che cosa fa la cooperazione in città, da quanto tempo lo sta facendo e con quale profu-sione di mezzi, di intelligenze e di saperi. Serra ha ricordato che le cooperative alla fine sono imprese. Tutto questo discorso partiva an-che dalle comunità educative che ospitano questi ragazzi. Parlare di denaro è sempre un po’ complicato, un po’ scomodo però è un dato di fatto. Questo problema esiste come esiste con lo stipendio di chi lavora. Non possiamo farne una questione di volontariato. C’è sicuramente anche il volontariato, che va usato. Ci si deve collaborare con il volontariato ma poi è altro. Dopodiché notava il fatto che la politica se ne sia andata. Tuttavia, i funzionari sono invece presenti ed è una parte di pubblico. Al di là della presenza o dell’assenza della politica, è sicu-ramente significativo che sia rimasto con noi tutto il giorno il Presidente del Tribunale. Non è davvero poca cosa. È vero, manca il mondo della scuola, così come è emersa anche una volon-tà di fare. Certo, bisogna pensare ma ogni tanto bisogna anche fare. Qualcuno diceva che è molto difficile riuscire a fare. In particolare, tra gli educatori di comunità è emersa quella che mi è sembrato fosse un po’ una provocazione, o forse non lo era, perché si diceva che in realtà ci sono possibi-lità anche molto semplici. Qualcuno parlava della coltivazione delle patate; poi le patate si pos-sono effettivamente mangiare se qualcuno dimostra che sono effettivamente commestibili. Tuttavia qualcuno ha anche detto che viviamo in un sistema di regole. Questa è la situazione, non possiamo cambiare queste regole. Certo, possiamo cercare di fare in modo di cambiarle ma intanto dobbiamo conviverci necessariamente. Questo è un po’ il senso del dibattito di ieri. Ieri si è parlato molto di reti in cui ultimamente si rimane incastrati. Finché ci rimangono incastrati gli operatori, poco male. Il problema è quando ci rimangono incastrati, in queste reti e in questi mostri, i ragazzi dei quali invece abbiamo la

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responsabilità. Mi pare di aver detto tutto. Grazie.

Luca SavianoÈ curioso che la seconda proposta del dottor Sceusa ricalchi un po’ la prima, ovvero l’esigenza di una ricognizione del territorio, di una mappatura. Credo che non sia poco. Stiamo facendo un esperimento di contaminazione. Mi ha colpito molto ieri – come ha colpito tutti - l’esperienza di Federico Zullo, il quale ha rac-contato di come, da un convegno, da una suggestione in una giornata come questa, sia nato un percorso importante, un percorso che sta andando avanti.

Alessandro RinaldiApriamo subito il dialogo. Un commento di Sergio sull’esperienza di ieri. Poi iniziamo a lavorarci.

Sergio SerraPiù che un commento sull’esperienza di ieri, direi che c’è qualcosa che si muove, che si muove in continuazione. Pensate alla suggestione del mare che avete visto ieri e oggi, e allo sfondo delle interviste che abbiamo fatto ieri. Ieri abbiamo privilegiato le voci di chi ha vissuto l’espe-rienza, di chi l’ha passata, e oggi, da maggiorenne, può guardare indietro con meno difficoltà, con meno commozione, con meno dolore. La scelta del workshop che abbiamo sentito prima - che secondo me è stata molto vincente – ovvero quella di dare il diritto di partecipazione ai nostri stakeholder, non è una scelta da poco. Vedo in moltissimi servizi - parliamo di adolescenti - quasi sessantenni che lavorano con i ra-gazzi di 16 e 17 anni, e che gli corrono dietro in strada. Dobbiamo superare questo gap, dob-biamo, in qualche modo, entrare insieme in un processo di comunicazione, in un processo di condivisione. L’abbiamo visto come metafora ieri, e questa metafora può entrare, deve entrare

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nell’attività di tutti i giorni. Chi è negli uffici deve uscire dagli uffici e andare nei ricreatori, nelle strade, nelle famiglie, eccetera. Solo con questo tipo di approccio potremo in qualche modo costruire una rete che prima di operatori, è una rete di persone. Sempre parlando di reti, noi abbiamo costruito una piccola rete. Questo convegno - come ab-biamo detto all’inizio di ieri e di oggi, e ne siamo anche un po’ orgogliosi – è stato organizzato da cinque imprese sociali. Ci siamo messi insieme - non l’abbiamo mai detto però io l’ho pensa-to e lo dico ora - non ci facciamo più la guerra, non facciamo la guerra dei poveri, non facciamo concorrenza tra imprese che non hanno margini, che sono piene di debiti e non riescono a dare le tredicesime, eccetera. Mettiamoci insieme, discutiamo, produciamo cose concrete come questa di oggi, e altre possiamo produrle in futuro, e siamo anche più forti verso i nostri interlo-cutori, verso i nostri partner, verso i nostri amici. Abbiamo più potere contrattuale. E se lo fac-ciamo insieme ai nostri ragazzi e insieme ai nostri stakeholder saremo ancora più forti. Grazie.

Alessandro RinaldiMi incuriosisce molto sentire il vostro punto di vista. C’è questo tema della rete, del fare squa-dra. Ricordo che un mio vecchio maestro diceva sempre: “Il problema è fare squadra ma cer-tamente non fai squadra nel tuo ufficio. Devi andare in strada e lavorare con i semi degli altri”. Questo mi colpiva molto rispetto alla possibilità di comprendere non soltanto le proprie proce-dure e difficoltà operative che abbiamo tutti, ma di stare molto nelle scarpe dei partner terri-toriali con cui lavori. Sono veramente curioso di sentire il vostro punto di vista sugli stimoli del secondo workshop.

Paolo SceusaSarò brevissimo. Solo per spiegarvi meglio quanto ha già benissimo riassunto Paolo Taverna. Il senso della mia proposta concreta – che è stata definita così - è quello di proposta della “let-tera A” o del “numero uno” che prevede una decina di cose da fare. Si inizia dal censimento delle realtà già operative, stimolanti, di quelle che hanno a che fare con la mungitura delle

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pecore, con la lana, che ci sono sul territorio, per conoscerle, riconoscerle, fare sì che ci co-noscano, al fine di superare quella dinamica economica che vede delle pregevolissime mani abbastanza rodate, quelle delle imprese sociali – è così che esattamente si definiscono - che alla fine ricavano quello che serve loro per vivere da questa mammella pubblica, alla quale si sforzano sempre di più e con sempre meno successo - per più ragioni - di attingere e che è una mammella che produce sempre meno latte. Questo è un dato di fatto. Allora, la mia proposta è fatta di questi dieci numeri – che io forse non ho tutti in testa ma alcuni sì - e ritengo che biso-gna partire dal numero uno, il censimento. Il numero dieci è veramente un obiettivo da sogno, Dream Machine, che però, forse, potrebbe trasformarsi in un incubo. Insomma, è un sogno proprio perché so che è difficile arrivarci; però, secondo me, è possibile. Il numero dieci è fare sì che questi giovani particolarmente emarginati, esclusi, particolarmen-te tolti da qualunque possibilità di inserimento in qualunque tipo di lavoro - in un momento del-la società in cui il lavoro non c’è nemmeno per i laureati - siano condotti e aiutati a pensare, insieme a chi già c’è, appunto queste cooperative sociali, il modo per fare impresa da soli, cioè per ricavare un reddito dalla loro attività artistica, creativa, teatrale, nella quale loro stessi pro-ducano un prodotto che diventi interessante e spendibile per la società. E sto pensando essen-zialmente ad un’attività di tipo artistico, quella per cui poi la gente paga un biglietto. E se non è così, un’attività collaterale a quella artistica. Non so se si potrà poi realizzare ma si potrebbe coinvolgere, ad esempio, grandi artisti a livello nazionale e consentire i nostri ragazzi che han-no difficoltà di lavoro di avere una parte attiva retribuita nell’organizzazione, a partire da un livello operativo-materiale (montare un palco, eccetera), fino all’organizzazione vera e propria di concerti. Questa è una delle tante idee. Non sono nemmeno tanto importanti queste singole idee, l’importante è che si voglia mettersi assieme per darne e per favorirne altre di nuove, di migliori. La prima cosa da fare è, però, censire la realtà e vedere chi ci può stare in un percorso che por-ti all’affrancamento di questi ragazzi e delle stesse cooperative sociali da una sopravvivenza sempre e soltanto legata a una dazione di denaro pubblico. È anche brutto, ad un certo punto,

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andare a chiedere proprio perché ormai abbiamo capito e ci siamo arresi. Io sposo molto la visione di quel ragazzo che parlava prima, deluso dalla scarsa partecipazione di certi politici, di una certa politica. Le priorità che ci hanno fatto capire di avere scelto di finanziare sono altre. Allora noi possiamo continuare a pestare i piedi dicendo “no, valgono di più queste, e così via”. È giusto insistere, è giusto continuare a cercare di spostare la politica verso qualche cosa che secondo noi merita, ma se la politica non ci sta, dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo.

Alessandro RinaldiSo che è difficile contenersi. Siamo in molti ed è veramente bello e importante ascoltare tutti i vostri commenti.

Gabriella GabrielliIo volevo raccontare un’esperienza che ho avuto circa un paio di mesi fa a Casal di Principe e che mi è sembrata molto interessante. A Casal di Principe è successa una cosa importante. Penso che tutti conoscano questo posto come il luogo della Camorra, però c’è un’altra realtà che è nata lì e che siamo andati, noi della Salute Mentale, a conoscere con alcuni operatori. Ov-vero, con le terre che sono state confiscate alla Camorra - e qui sicuramente la Magistratura ha fatto la sua parte – e con i “budget di salute” di cui si parlava ieri (assieme al Comune si avvia-no dei progetti personalizzati ma anche progetti di comunità) ci sono state delle cooperative o si sono formate delle cooperative che hanno, per così dire, raccolto queste due opportunità; le terre confiscate alla Camorra sono diventate dei beni dati in custodia a queste cooperative. Cogliendo l’occasione, questo gruppo di ragazzi anche molto giovani è riuscito a fondare que-ste cooperative con il nome di “La nuova cucina organizzata”, riprendendo proprio l’acronimo della “Nuova Camorra organizzata” e quindi ribaltando le frittate in senso, per così dire, di li-bertà piuttosto che di prigionia di una certa cultura. Sono riusciti a liberare completamente, grazie ai “budget di salute”, tutti i matti che sono stati rinchiusi per anni e anni in istituzioni private che svolgevano il ruolo dei manicomi chiusi anni prima.

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Quindi, attraverso le “borse di lavoro” e attraverso i “budget di salute” che sono stati offerti, hanno potuto dare inizio a questa esperienza bellissima. Adesso si sono riuniti in un nuovo con-sorzio organizzato in cui stanno lavorando e stanno cercando di uscire, proprio come diceva prima Sceusa, anche da questa strettoia del denaro pubblico che, ovviamente, in questo mo-mento non sta attuando le modalità giuste. Stanno creando una vera e propria organizzazione, un’organizzazione economica - chiamiamola così - facendo questi famosi “patti alla Camorra” che stanno prendendo piede dappertutto. Pisapia li ha presentati a Milano. Ci sarà una presen-tazione qui a Trieste; adesso vediamo per quale giorno si riuscirà a mettersi d’accordo, vedia-mo anche se al sindaco interessa esserci. Io volevo portare proprio questa esperienza perché è un’esperienza che nasce dalla necessità di lavorare, e quindi di inventarsi un lavoro, ma anche dalla necessità di ribaltare le regole con le quali queste persone avevano vissuto in un silenzio totale, in un riscatto e anche in una mo-dificazione della cultura nella quale sono sempre vissuti. Tutti i prodotti che loro producono nei campi vengono trasformati da altre cooperative, anche non sociali, ma che hanno deciso di non pagare più il pizzo alla Camorra. Quindi c’è una trasformazione di cultura che, in questo momento, ha una grandissima importanza. Poi, rispetto a ieri volevo dire ancora una cosa: io credo che siamo tutti in una trincea quando lavoriamo, a tutti i livelli. Ieri forse la trincea che è emersa di più è quella degli operatori che si trovano, usando la metafora, a piantare patate e a dover aspettare che qualcuno dica loro “guarda che sono commestibili”. È frustrante questo. La trasformazione della regola è una delle forze più grandi che gli operatori hanno – credo - a tutti i livelli. Quindi il problema, almeno per noi che lavoriamo, è riuscire a capire se insieme, conoscendoci - e questa è sicuramente la cosa fondamentale - siamo in grado di veicolare dei progetti che non dicano semplicemente “lì c’è una cosa e la posso usare, lì ce n’è un’altra, lì una terza”. Io credo che questo modo di pensare non faccia rete ma faccia semplicemente elenchi, elenchi di cui io conosco molto poco e delego le cose ad un’altra parte. Io ritengo, inve-ce, che ci debbano essere dei progetti comuni dove siamo tutti coinvolti facendo una parte. Sto cercando di dire che il progetto deve essere comune, deve essere un progetto che coinvolga

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diverse figure che contribuiscono a raggiungere un obiettivo comune che può essere non sol-tanto l’adolescenza ma anche le fragilità in generale. Grazie.

BarbaraSalve a tutti. Io sono barbara. Ho partecipato ieri al workshop numero due e ho raccontato una delle storie di cui si è parlato. Mi sono venute in mente diverse cose, soprattutto ieri ragionan-do su com’era andato il pomeriggio. Mi sono accorta che non avevamo centrato in realtà quella che era la discussione, il punto, il tema che ci si era dati, nel senso che poi, alla fine, di proposte concrete, di idee concrete, al di là di quella del dottor Sceusa, non ce ne sono state. Me ne sono andata con un senso di un lavoro che non ha portato a molto, o forse sì; o forse sì, nel senso che, per tutta la sera, ho pensato anche a questa incapacità di trovare qualcosa. Adesso ho sentito dottor Sceusa che parlava di questi progetti da parte di una cooperativa pri-vata per creare lavoro. Questo mi ha fatto venire in mente altre cose, e parto da due presuppo-sti: uno, quello politico. Non sono un politico e non voglio fare politica però parliamo di produ-zione, produzione economica. Una cooperativa privata dovrebbe produrre un’economia tale da poter inglobare l’utente, il ragazzo, la persona, eccetera, affinché possa avere un suo prosie-guo di vita. Ora, in un’economia come questa, mi sembra effettivamente una Dream Machine, un grande sogno, perché poi questa produzione bisogna riuscire a venderla. Adesso l’impresa mi sembra sia alquanto in crisi da quel punto di vista. Il prodotto non si compra e quindi come faccio a vendere? Quindi questo primo presupposto è di tipo politico. E non è una politica da poco perché un investimento viene fatto in funzione di un guadagno. Secondo punto: io sono un operatore che lavora con l’utenza direttamente. Quello che in tut-ti questi anni ho cercato di fare nel mio, ma anche con la mia équipe, con i miei colleghi, è la normalizzazione. Ora, se vado a ripensare a questo tipo di proposta di creare il lavoro, a dove inserire queste persone, mi viene in mente che queste realtà esistono da decenni. Fanno parte un po’ delle comunità terapeutiche per tossicodipendenti, una cosa che è sempre esistita in

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questo senso, riferita agli adulti, riferita ad un sistema ampio che io, da cittadino, prima di fare questo lavoro, inquadravo: si mettono lì con un banchetto, vendono le penne, fanno gli spet-tacoli, sono quelli del recupero, eccetera. Io, come operatore, questa cosa, nei confronti dei minori per cui l’obiettivo è la normalizzazione, dico no, dico no perché vorrei che, come gli altri, faticassero a trovare lavoro, che come gli altri si impegnassero nello studio, nella fatica, ma insieme agli altri. Non voglio che io, impresa sociale, debba creare per loro “sfigati” - scusate il termine - un posto facilitato per poterli condurre in un qualcosa che poi non è realistico per-ché non è la vita, e la vita passa attraverso la fatica fatta insieme. Io ti posso accompagnare a cercare quel qualcosa ma non te lo posso dare fatto, non perché io faccio fatica a crearlo oggi, ma perché è stigmatizzante, non è normalizzante. Cioè, il mio intento è quello di proporre idee. Ieri riflettevo su queste cose e mi è venuto in mente un caso carino che abbiamo affrontato in questi anni dove c’è stata una grande idea molto curiosa e molto strana: un ragazzo che è stato accolto da noi è rimasto oltre i diciott’anni per finire un percorso di studi e si affacciava a questa nuova età senza sostegno familiare. L’idea è stata quella di farlo partecipare a un corso per animatori turistici. E quindi, visto che ballava, era simpatico, era comunicativo e quant’al-tro, dovevamo sfruttare quella risorsa. Questo ragazzo oggi ha 25 anni, fa il capo animatore nei villaggi un po’ di qua e un po’ di là, e ha trovato la sua autonomia e indipendenza. È un ragazzo normale, assolutamente normale.

Elia dal MasoMi permetto forse di interpretare – e me ne scuso - quanto detto da Gabriella e dal dottor Sceusa. Io penso che nella proposta non ci sia assolutamente l’intenzione di sostituirsi e di fare sempre la mamma o il papà per questi ragazzi in situazioni di disagio. Mi sembra una proposta che lavori sulla rete, sulla raccolta di questi servizi sul territorio. Credo che l’intenzione fosse proprio quella di mettere in campo le migliori intelligenze per offrire ai ragazzi – o giustamente, come ha detto Gabriella, portatori di fragilità di qualsiasi tipo - strumenti di autonomia. Io mi occupo di un laboratorio che si chiama “Creatività e trasformazione”; non voglio fare

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pubblicità ma dico che io offro strumenti in quel lavoro. Il mio interesse è quello di offrire alle persone che partecipano al laboratorio, attraverso le mie competenze - insegno solo cose nel-le quali ho competenza - qualcosa di concreto, un saper fare che poi diventa soprattutto un saper trasmettere. Sono un formatore di formatori e ci tengo moltissimo che le persone non solo imparino ma imparino ad imparare e imparino a trasmettere. Mi permetto di passare altre due idee, due proposte concrete: uno è il cosiddetto “crowd funding” che va estremamente di moda ma non è solo una moda, è anche una grossa rivoluzione. “Crowd funding” è una raccol-ta di fondi dal basso. Ieri ho donato 11 € – e dico 11 € proprio perché potevo donare 11 €, non 100 €, non 1000 € - a un gruppo di giovani designer che hanno inventato una cosa e stanno chiedendo 5000 € alla rete per portare avanti il loro progetto. Se riusciamo a mettere in cam-po una progettualità, possiamo chiedere ai cittadini, in maniera assolutamente legale, di dare 1 €, 5 €, 10 € per partecipare, per credere, per manifestare un interesse affinché quella cosa vada avanti. Un’altra cosa sempre di raccordo e sempre di riflessione – e ringrazio la signora barbetta per l’intervento e anche per le repliche che sono state proposte: ieri il dottor Mezzina, attuale facente funzione del Dipartimento di Salute Mentale ha detto “abbiamo tutto ma non riusciamo a...”; forse non abbiamo tutto perché quello che secondo me manca - e lo vedo nella mia esperienza - è una capacità, una competenza organizzativa, e anche il riconoscimento del-la necessità che ci sia qualcuno capace di organizzare o di compiere delle scelte. Quando il dot-tor Sceusa dice “facciamo una ricognizione”, sono d’accordissimo, ma il problema è chi la fa la ricognizione. Forse sarebbe il caso che gli enti pubblici delegassero e dicessero:“Abbiamo bi-sogno di un punto di riferimento che raccolga, un punto di riferimento che valuti e un punto di riferimento che sia anche un punto di riferimento sul territorio e che sappia che io sono Pinco Pallino, che ho voglia, che ho queste competenze e vado a segnalarle a...”, perché sennò, come ha detto prima Sebastiano facendo riferimento ai ragazzi, dove vado? Devo aspettare che mi prenda in carico la giustizia? Se io sono un professionista di un determinato settore dove vado a dire che sono professionista di quel settore e che desidero partecipare ad un nuovo modello sociale? Grazie.

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Paolo SceusaCi ho pensato già ieri e ci penso mentre vi sto ascoltando. A me pare che la proposta concreta che abbiamo sentito sia una buona proposta, e penso che i cinque organizzatori di questo con-vegno potrebbero tranquillamente farsi interpreti, incaricarsi di questa ricognizione. Già ieri se n’è parlato: ne hanno senz’altro la possibilità, le capacità, hanno le connessioni sul territorio regionale ma anche al di là del territorio regionale. Quel che io mi immagino, però, è che forse dovremmo tutti quanti, operatori, i servizi, lo stesso tribunale, fare dei passi indietro. C’è una strana interpretazione di quel che è utile secondo cui più noi stratifichiamo interventi del servizio sanitario, del servizio sociale, dell’educativa, del Tribunale, più è come se caricassi-mo queste persone e immaginassimo di farle diventare più buone, più pronte con questo cari-co di interventi che noi proponiamo. Invece io penso che occorra cominciare ad esercitare il principio della sottrazione: ridurre que-sto carico di interventi e consegnare alle persone, siccome quello di cui parliamo noi in questo convegno sono questi famosi tardo-adolescenti e grandi minori, consegnare a loro la possibili-tà di essere in prima persona responsabili della loro vita e del loro futuro. Il lavoro che possono fare le cooperative, le associazioni, il comune, l’Azienda Sanitaria e lo stesso Tribunale per i Minorenni è di garantire un contesto vivibile e plausibile in cui la negoziazione fra la gioventù e la società adulta sia effettivamente possibile e non semplicemente una finzione. Quindi, invece di affastellare, togliere, ridurre, farsi da parte e pensare alla libertà delle persone, e credo che chi lavora in comunità abbia ben presente questa cosa. A volte si è presi da un’ansia di fare, di proporre attività che riempiono continuamente la giornata immaginando che questo sia conte-nuto. Questo non è assolutamente niente e non porta da nessuna parte. Mi permetto di proporre una piccola osservazione. Forse non ho inteso bene quello che è stato detto da Gabriella. Tutto vero, tutto giusto. Il “budget di salute” è denaro pubblico. Di fatto, è denaro pubblico, non è vergogna: sono soldi nostri su cui abbiamo pagato le tasse. Questi soldi vanno utilizzati, se non altro per mettere in moto meccanismi. Certo che si possono utilizzare anche per fare grandi eventi, feste spettacolari e piastrellare le strade.

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Ma siccome questi soldi pubblici non sono infiniti, potremmo indirizzarli, o chiedere che siano indirizzati, verso altre iniziative.

GabriellaNon sto dicendo che il denaro pubblico non debba essere usato. Deve essere usato. Dico sol-tanto che deve essere utilizzato con intelligenza, con progetti anche condivisi. Per esempio, io mi occupo di “borse di lavoro”. Sarebbe interessante che Provincia, Comune e Aziende Sani-tarie potessero usare, anche collettivamente, questo budget su progetti di inserimento lavo-rativo o percorsi di formazione. Sarebbe interessante che dedicassero parte del loro budget a dei progetti complessivi e che non puntassero solo su progetti individuali che spesso vedono la persona in maniera molto solitaria, attraverso dei percorsi che non sempre riescono ad ar-rivare a un punto interessante anche di inclusione sociale perché, come sapete, non sempre possono sfociare in assunzioni, specialmente in momenti di crisi. Io dico semplicemente che il denaro pubblico può essere usato ma non può essere l’unico ele-mento con il quale ci confrontiamo. Ho visto cooperative che in questo momento sono in gi-nocchio anche perché sono nella condizione di sopravvivere a se stesse; non sono neanche in grado di proporre, di garantire un percorso lavorativo di qualità ai soci svantaggiati, nel senso che, una persona che si ammala perché non lavora, in una condizione come questa, in cui si lavora al massimo ribasso, si ammala perché lavora, perché deve fare il doppio. Sto dicendo che la cooperazione sociale deve proporre dei nuovi modi di lavorare, dei nuovi modi di essere in un territorio. Diversamente, è comunque destinato a concludersi, ed è meglio confrontarsi non soltanto tra intelligenze che lavorano all’interno delle istituzioni ma anche con un territorio che, secondo me, ha ancora molto da dire e da dare.

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Luca SavianoVolevo sottolineare quanto detto da Paolo sull’utilizzo dei fondi pubblici. Non dimentichiamo quanto la sofferenza delle persone con le quali andiamo ad intraprendere dei percorsi poi ab-bia un impatto sociale molto forte sui sistemi familiari, sulle comunità. Quindi c’è un dovere di presa in carico di queste situazioni alle quali le istituzioni comunque non si possono sottrarre. Siamo obbligati a trovare la partecipazione e a ragionare anche rispetto alla situazione. Quindi, quella del dottor Mezzina non era una domanda, era un’affermazione. “Abbiamo tutto” potreb-be essere il filo conduttore di quest’ultimo intervento.

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Alessandro Rinaldibene. Grazie nuovamente a chi ieri ha partecipato al workshop e a chi ha facilitato, ovvero Francesco Russo che non è con noi oggi, a Sergio Serra e a Paolo Taverna che ha accettato, con un’acrobazia in diretta, di raccontarci ciò che è accaduto. Continuiamo nel racconto del terzo workshop. Diamo il benvenuto a Michela Parmeggiani e Valentina Sala. Questo è un momento degli eventi che io amo in modo particolare: quando ab-biamo lavorato per due ore siamo un po’ stanchi ma abbiamo la possibilità di prenderci un bel respiro profondo, capire che abbiamo ancora energia e che possiamo dare il massimo della no-stra attenzione, della nostra empatia a chi, a questo punto, ha il compito di trasmetterci quan-to è accaduto nel terzo workshop del pomeriggio di ieri. Mentre ci rimettiamo in sintonia con la possibilità di scoprire le energie mentali che ci guide-ranno ad un’ultima sessione carica e partecipata, passo la palla a Michela Parmeggiani.

Michela ParmeggianiGrazie. Raccogliendo le suggestioni di questa mattina mi è venuto più semplice ribalta-re completamente i punti di vista. Quindi, grazie a Sergio e grazie a Moreno per averci dato

Workshop interattivo su modelli di intervento diversi nel settore della giustizia ripartiva.

IL RISCHIO DI CRESCERE

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l’opportunità di entrare nella vostra Dream Machine, nel vostro movimento continuo. Il movimento continuo mi ha fatto venire delle suggestioni. Dream, il sogno. Noi siamo tutti quanti qui, gente che cammina, terra di nessuno, terra di tutti allora. Allora, terra di chi ha il coraggio e la responsabilità di provare a mettersi in un flusso di movimento, di superare gli steccati e di occupare dei non luoghi, in un movimento continuo di contaminazione. Dove entri, hai delle espe-rienze di contatto grazie a tutte le persone che abbiamo incontrato ieri. È stato un contatto nel qui e ora. Esperienze, di provenienze diverse, di suggestioni che abbiamo provato a scambiarci, a raccogliere. Il coraggio di tutte le persone che hanno provato a sperimentare, a scoprire che qualcosa è possibile è un modo per sperimentare possibilità. È quello che abbiamo fatto noi ieri: pensare di avere un corpo vuol dire che io sono un corpo e quindi un corpo in movimento. Abbiamo condotto un workshop con colleghi di provenienze diverse andando a sperimentare nel concreto quello che succede a noi quando incontriamo i nostri ragazzi. Abbiamo fatto, in-somma, un’esperienza con il tempo reale e con le suggestioni reali. Ci siamo divertiti, abbiamo giocato e ciascuno ha portato via quello che ha potuto, come in una terra di nessuno, in un mercato dove ci si incontra e ci si scambiano delle cose e dopo si va via. Come dicevano i colleghi che ci hanno preceduto, a volte ti rendi conto dopo qualche giorno di quello che ti è successo dentro. Abbiamo danzato, abbiamo giocato nello spazio che si è aper-to. Prima, chi ci ha preceduto ha detto tutto. Ieri, alla conclusione, abbiamo cercato di tirare delle somme e siamo arrivati a dirci che non c’è una somma, che il tutto non è la somma delle parti, È un gioco continuo. Tante esperienze, tante cose, alcune buone, altre no ma non ha nes-suna importanza. Quello che ci ha dato la possibilità di creare Dream Machine è un’esperienza, un’esperienza di contatto. Noi abbiamo avuto due parole che ci hanno fatto da tema. Una di queste parole è “trasgressione” di cui parlerà poi Valentina. Credo che, per certi aspetti, que-sto convegno sia trasgressivo grazie alla presenza di tutti, alla presenza vostra, al modo che avete proposto per concludere queste due giornate, e mi sembra molto reale, molto concreto. Ogni volta che accade qualcosa di reale è un’emozione. Quindi grazie e passo la parola a Valentina.

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Valentina SalaAnch’io ringrazio per questa possibilità. Tra l’altro per me è la prima volta ad un convegno e sono contenta di parlare di questa esperienza che ha il sapore delle cose buone, delle cose ge-nuine, di autenticità. Io dico due cose rispetto all’esperienza di ieri, soprattutto sul tema della trasgressività perché è stato molto divertente. Abbiamo fatto fare un’esperienza ai partecipanti: prima abbiamo chiesto loro di camminare nello spazio e di dire che cos’era per loro la trasgressione. Secondo me, la cosa più divertente è che, in queste circostanze, vengono fuori paure e desideri. Quello che succede ai ragazzi, succede anche agli adulti. Anche gli adulti hanno voglia di trasgredire. Da lì siamo entrati più nel merito di un’altra esperienza che riguarda la trasgressione e abbia-mo preso spunto da un testo – non so se qualcuno di voi lo conosce - che si chiama “Lettere dalla Perdisia”. Sono quaranta pagine dove, in breve, si tratta dell’esperienza dell’attore che si reca su un’isola per intervistare gli abitanti e il governatore su come vivono, sulle regole di quest’isola. C’è una parte di questo testo che riguarda i reati, dove succede che l’autore si tro-va con il suo accompagnatore e vede delle persone vestite tutte dello stesso colore e chiede: “Perché questa persona è vestita di giallo?” E l’accompagnatore risponde che non c’è il car-cere su quell’isola. Quando qualcuno commette un reato è condannato a vestirsi, per il tempo previsto dalla pena, dello stesso colore per tutti i giorni della sua vita, e a raccontare a chiun-que gli chieda il perché è vestito di giallo o di viola, il perché, che reato ha commesso, perché ha commesso quel reato e a rispondere a tutte le curiosità. Abbiamo riproposto questa esperienza ai partecipanti. Ovviamente non potevamo vestirli tut-ti dello stesso colore però abbiamo diviso il gruppo in tre sottogruppi. Ognuno si è scelto un reato: c’era la violenza di gruppo, lo sfruttamento della prostituzione, il furto. Abbiamo conse-gnato nel gruppo un pezzo di carta di colore diverso in modo da potersi identificare, e abbiamo chiesto loro di intervistarsi camminando nello spazio per più volte per rendere un po’ quello che succede ai ragazzi quando lo proponiamo a loro. Per loro è stato molto divertente, si divertivano a raccontarsi i reati. Per i ragazzi è un po’

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meno divertente perché si parte dal reato che è stato commesso e quindi si tratta proprio di raccontarsi. È un po’ la forza dell’autobiografia come diceva ieri Federico, e di quello che poi comporta dover raccontare a queste persone che cosa hai fatto. Per noi era importante per-ché, soprattutto con i ragazzi, esce il concetto di libertà, di consapevolezza, di responsabilità. Quello che hanno detto i partecipanti dopo l’esperienza è che si sono accorti che ogni volta che dovevano raccontare a qualcuno il reato commesso, aggiungevano un pezzo in più. All’inizio si diceva semplicemente “ho commesso questo reato perché..”. E poi, ogni volta, si sentiva l’esi-genza di aggiungere un pezzo. Queste sono due delle esperienze che abbiamo proposto ieri. Una cosa che mi sento di dire è che io sono un’assistente sociale che ha una specializzazione in pedagogia giuridica. Come dicevo ieri, io studio a una scrivania, faccio dei colloqui da cui spesso non viene fuori la realtà delle cose che è quella che, invece, si sperimenta in questo tipo di interventi. Credo sia importante, a volte, riuscire a cedere un po’ del nostro sapere professionale per lasciare spazio a un sapere esperienziale. Non sono io l’esperta, è il ragazzino che mi porta la sua esperienza. Chi più di lui sa che cosa è successo? Per cui penso sia importante dare spazio a loro e non partire già con il nostro progetto preformato. Perché dare già una risposta quando non sappia-mo neanche quale sia il bisogno? Perché anticipare un tempo che è il nostro ma non è il tempo della persona che abbiamo davanti?

Alessandro Rinaldibene, iniziamo il lavoro insieme. Sulla scia delle parole, delle esperienze e delle emozioni che Michela e Valentina ci trasmettono, cosa ci sentiamo di dire, di testimoniare e di aggiungere a questa nostra Dream Machine collettiva? Chi ha voglia di darci dentro e portare esperienze, commenti, idee?

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AnonimoCiao a tutti. Quello che io ho trovato in questo workshop, e che mi ha fatto ritornare su al-cune riflessioni che facevo all’inizio di questo lavoro – lo faccio da quindici anni - è proprio il tempo di guardare, soprattutto quello di guardarsi. Mi è piaciuta tanto la frase del relatore del primo workshop che diceva uno “sblocco di sensibilità”. Credo che sia centrale questo aspetto anche al di là del sistema che si utilizza: trovare il tempo per vedere chi si ha davan-ti, per capire che cos’ha, e coniugarlo con un tempo nostro di osservazione, e vedere dove sono i contatti. Siamo tutti esseri umani, portatori di quello che abbiamo, che sia qualcosa di buono, posi-tivo, interessante o delle sfighe clamorose e errori indicibili. Visto che noi lavoriamo con la sofferenza, può essere ulteriormente forte andare a provare la nostra sofferenza. E dà for-za a tutti e due, o a quanti siamo, attori della relazione. Io lavoro in una comunità e mi pia-ce questo genere di lavoro perché dà modo di entrare in contatto con più persone al tem-po stesso, persone con le quali rapportarsi con le loro cifre diverse. Ci si chiedeva ieri che cosa si porta a casa. Io ho trovato questo e lo posso portare via, e ringrazio tanto per questo aspetto.

Elia Dal MasoIo direi una cosa visto che ho partecipato. Volevo ringraziare Valentina e Michela per una cosa in particolare. Io faccio il regista ed avevo intenzionalmente schivato il gruppo teatrale del primo workshop. Non sapendo chi fossero, mi sono detto: “Se vado in un gruppo in cui vedo delle persone che parlano e fanno teatro senza competenze io esplodo”. Invece voglio ringraziarle pubblicamente per il rigore e la professionalità di entrambe. Mi hanno offerto un nuovo ulteriore approccio al teatro specificamente utilizzato in contesti di cui mi sono occu-pato poco. Perché dico questo? In realtà, parto da questo per fare una riflessione sul teatro come con-tenitore. Sono molto preoccupato di chi spaccia competenze che non possiede, e nel campo

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artistico, teatrale o di qualsiasi tipo, troppo spesso vince chi sa vendersi bene. Ma vendersi bene non significa fare veramente un servizio. Attenzione alle imprese sociali. È vero che le im-prese sociali sono imprese in crisi ma l’impresa non deve necessariamente produrre oggetti, produrre beni materiali. Oggi hanno bisogno di servizi, di servizi di qualità, di servizi alla perso-na, di servizi alla cultura, della cultura di servizio, di mettersi al servizio degli altri. Ancora una riflessione. Mi è venuto in mente un termine per ricollegarmi, un termine un po’ in-ventato, ovvero “talento” e “anti-talento”. Ci sono ragazzi che sanno suonare molto bene, che faranno i pianisti e ce la faranno. È una cosa molto importante secondo me nel relazionarci con l’altro, e soprattutto con la difficile fase dell’adolescenza che è quella del passaggio, quella che fa sì che un bambino che fino al giorno prima era la vittima, nella fase di transizione si trova ad essere l’adulto colpevole. Quand’è che il “bambino vittima” diventa “adulto colpevole”? Pro-babilmente in questa difficile fase di transizione adolescenziale. Allora pensavo alla necessità dell’ascolto e dell’ “anti-talento” di alcune persone, che non significa “assenza di talento” ma significa quel pericoloso pregiudizio che predestina determinati ragazzi a diventare delinquen-ti non offrendo loro un’occasione concreta di scoprire dei veri talenti e di fare concretamente realizzare i loro sogni. Molto spesso si parla del sogno, si invita a sognare ma non si offrono gli strumenti per poi realizzare questo sogno. Quindi, in sintonia con molti degli interventi e con le professionalità che ho ascoltato, io vorrei riuscire a cambiare il destino, a offrire l’occasione di cambiare il destino a una predestinazione al disagio di cui questi ragazzi sono poi spiacevol-mente vittime.

Alessandro RinaldiIntanto io formulo una domanda che dentro di me comincia a concretizzarsi durante questa mattinata, e che magari rivolgo in primis a Michela e a Valentina e comunque a tutti noi. Anche Elia, nell’ultimo intervento, parlava dell’invito al sogno che possa concretizzarsi, che possa diventare qualcosa di tangibile. Mi ha fatto pensare che mi sento di uscire con molte aspettative, aspettative sul “dopo”, cioè su ciò che accade quando un evento di questo tipo

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si conclude. Ciò che accade ha a che fare con come noi utilizziamo l’energia, le proposte, le ri-flessioni, la Dream Machine per costruire qualcosa. Quindi, vista anche l’esperienza di rapporto con la rete, con il territorio, con le istituzioni, visti i messaggi da parte di entrambi rispetto a svestirsi da una dinamica puramente di ruolo o di presidio di un’istituzione e a lavorare di pan-cia e di cuore, e a cooperare in questo senso, a me incuriosisce poi la domanda: “Cosa ci aspet-tiamo adesso? Da domani, dalle 13.05, quali sono gli stimoli, le aspettative e le volontà, anche se alcune sono già state ben sintetizzate all’interno di proposte concrete?” Continuerei ancora un po’ visto che siamo a fine mattinata e abbiamo ricevuto un’ulteriore testimonianza del cammino che stiamo facendo, che possiamo fare. Magari lo chiederei a voi.

Michela ParmeggianiAlcune cose sono state dette. Prima leggevo sullo schermo la parola “cultura” e ho pensato a che cosa significa per me. Per me la cultura è tutto ciò che resta dopo che ti sei dimenti-cato tutto. L’aspettativa che io ho uscendo da qui è di avere uno spazio mentale in cui posso permettermi di lasciare sedimentare. E questa è una sensazione che ho avuto spesso nel mio percorso, nel contatto con i servizi del territorio, con le persone, con i colleghi, nel contatto con i ragazzi. La sensazione che, nel tempo, si formi una controcultura utilizzando la cultura che ti fai partecipando a questo tipo di esperienze. Anni fa feci un intervento rispetto alle reti. Credo che ci siano stati degli elementi di concre-tezza in quello che si è ascoltato in questi giorni. Ed è vero che a volte usciamo dai convegni e ci diciamo: “Vabbè, e adesso? So what?”. Penso che i cambiamenti - e vi dico questo da psicoterapeuta - avvengono non per intenzionalità delle persone ma perché accade qualche cosa di non visibile che poi cambia atteggiamenti, cambia comportamenti, e di solito gli altri si accorgono che c’è stato un cambiamento. Credo che questo sia possibile che avvenga an-che in contesti di lavoro. Lo dico perché sono vent’anni che lavoro come consulente, e tutte le volte si tratta di reinventarsi un contatto possibile per provare a fare reti, per provare a

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scambiare esperienze. Questo ti mette molto in discussione. L’immagine del mare è stata assolutamente una suggestione che è rimasta in sottofondo; non so se è perché ho la pas-sione per il surf. Io raccolgo questo, cioè di provare a trovare strade possibili. Paolo prima diceva – ma non solo lui - della possibilità di creare percorsi nuovi, strade nuove, provare a farla girare. Può essere che ci siano delle possibilità in questo. bisogna avere il coraggio di provare a entrarci. Non si sa cosa accade. Ma a me viene da risponderti così.

Valentina SalaNon ho molto da aggiungere. Anch’io credo sia importante creare un pensiero possibilista e di fattibilità. Mi confrontavo anche ieri con una collega assistente sociale sulla difficoltà di far passare idee un po’ diverse dal solito, di capire che non si può sempre proporre la stessa mine-stra. Credo che sia possibile. È bene capire che si può.

Paolo SceusaUna battuta telegrafica. Visto che poi, alla fine, è sempre questione di sporchi e maledetti soldi che servono per le iniziative altrimenti tutto resta un sogno, lancio questa idea. So che esiste già e che non è un’idea mia ma vorrei fosse finalizzata a questo: perché non facciamo una ban-ca? banca è una parola che mi terrorizza. Però esistono le banche etiche dove, con la massima trasparenza, agli investitori, che depositano una parte piccola dei loro risparmi perché il resto finisce nelle banche tradizionali, si dice subito che non si promettono profitti. bisogna essere in grado di restituire i soldi che vengono dati ma, nel frattempo, si impiegano a beneficio di chi ha bisogno di queste risorse, per creare lavoro insieme, lavoro per le persone che poi, a loro volta, contribuiranno a creare questo cordone. È sicuramente difficile. Ci vuole anche un esperto di economia perché ci sono delle regole da rispettare, però in realtà già esistono ed è possibile. Facciamo una banca.

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Sergio SerraQuello che ho visto in questi giorni, in qualche modo mi porta su un concetto a cui non siamo molto abituati nel nostro lavoro. Molto spesso ci nascondiamo dietro a questo perché si dice che è un lavoro difficilmente valutabile, difficilmente quantificabile. Ecco, io non sono assoluta-mente d’accordo, non sono mai stato d’accordo, neanche trent’anni fa quando ho incomincia-to a lavorare.Qui ho visto che cominciano a entrare concetti di quantità, non di denaro, di quantità, che non sono necessariamente numeri. Quindi, nella domanda, nell’affermazione, che poi è sembrata domanda, “Abbiamo tutto”, “tutto” è una quantità. Il fatto che sia evidente che non abbiamo tutto è una negazione di questa quantità ma continuiamo a ragionare in termini di quantità, non di qualità. Potevamo dire “abbiamo tutto giusto” e allora era qualità; invece abbiamo det-to “abbiamo tutto” quindi ci siamo soffermati sulla quantità. E questa è una delle prime vol-te - credo - nel nostro lavoro, in cui si ragiona sulla quantità. Una delle cose più importanti di quest’occasione, secondo me, è stata la presenza, la presenza di una quantità di persone. Due, tre giorni prima dell’inizio del convegno avevamo già 150 iscritti via mail e via fax. È una quan-tità. Ieri erano presenti tutti i rappresentanti di tutti gli enti e degli istituti più importanti che si occupano di minori attraverso i loro capi, attraverso i primi responsabili di quell’attività, di quel servizio, eccetera. E questa è un’altra quantità. Quanti referenti, quanti interlocutori istituzio-nali c’erano? Tutti. È una quantità. Ragionare in termini di quantità, secondo me, nel nostro mestiere, cominciare a inserire queste parole, cominciare a inserire questi ragionamenti che non sono ragionamenti di tipo economico-finanziario, e cominciare ad affiancare la quantità alla qualità è una cosa molto importante.

Eugenio SollaCi hai chiesto che cosa ci portiamo via e che cosa incominceremo a fare da domani. Ad ogni convegno in cui si partecipa, salta fuori la parola “rete”. Questa parola un po’ mi disturba.

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Mi disturba perché mi suscita qualcosa, e quindi il mio intervento vuole essere un intervento costruttivo. Quattro anni fa, al primo Dream Machine, tenemmo un workshop di animazione sociale de-nominato “Rianimazione sociale”; dopo quattro anni, andrebbe sicuramente rifatto perché le nostre società sono molto, molto più addormentate e apatiche di quattro anni fa. Noi ci stia-mo chiedendo che reti costituire tra di noi. Noi, le reti tra di noi, sono vent’anni che le tessia-mo, che le cambiamo, che facciamo entrare gente, enti, privato sociale. Reti di questo tipo ne esistono tantissime. Non solo, ci pagano pure per fare le reti. Cominciamo a preoccuparci di far fare rete a questa società che è completamente disgregata, che è lontana dalle istituzioni, ma non è questo il punto cruciale. Non è che la società o i cittadini sono lontani dalle istituzio-ni. I cittadini cominciano a essere lontani anche fra cittadini, e noi, operatori sociali, abbiamo l’obbligo di farli socializzare e quindi di mettere in rete i cittadini prima di tutto. basta autoce-lebrarsi, basta costruire reti. Cominciamo a fare costruire reti a loro perché, se vogliamo ve-ramente essere efficaci negli interventi sociali, dobbiamo avere il coraggio di dire che questa società va trasformata. Concludo dicendo che questo convegno è stato veramente molto visionario. Un po’ tutti do-vremmo avere il coraggio, l’anno prossimo, di portare questo convegno per strada. Questo convegno andrebbe fatto nei quartieri, queste tecniche di animazione non andrebbero utilizza-te solo fra di noi ma andrebbero trasferite, perché sennò, per usare un eufemismo, ce la suo-niamo e ce la cantiamo.

Alessandro RinaldiÈ bello sentire che di parole ne abbiamo già dette tantissime. Adesso è con le azioni concrete che ci misuriamo in modo personale. Qualche altro commento, domanda, richiesta, riflessione, visione, desiderio?

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NicolettaUn commento brevissimo sulla necessità di socializzare. Stamattina sono arrivata qui davanti e ho incontrato i protagonisti del workshop che hanno tenuto Valentina e Michela ieri, e ho tro-vato un cerchio. Secondo me è un simbolo. Si parla di fare rete, di socializzare, e cosa è meglio di sedersi tutti invece di mantenere la frontalità? Ci siete riuscite benissimo. bravi tutti. Grazie per avere realizzato questo.Alessandro RinaldiAbbiamo ancora un po’ di tempo prima di entrare nella parte finale della nostra Dream Machine 2012. C’è qualche altro commento o riflessione?

Elia dal MasoMi ero ripromesso di non fare più interventi però sono stato tirato in ballo. Sarò un po’ polemi-co perché ci sono rimasto un po’ male se devo dire la verità. Intanto ringrazio nuovamente per l’occasione concreta di incontrare persone concrete per-ché, al di là delle divergenze di opinioni, la concretezza è veramente bella. Però, tu hai detto “sono stufo della parola rete”. Condivido l’essere stufi della parola “rete”. La parola “rete” non mi interessa. Il problema è che la rete esiste nel momento in cui sa di essere rete e sa che cosa significa essere rete. Essere rete significa che se io vado su un nodo e dico “io ho questo problema, ho questo bisogno, ho questa capacità”, quel nodo che fa parte della rete mi sa dire dove andare, mi sa dire cosa fare, mi sa dire quali sono gli interlocutori. Se inve-ce i nodi della rete si sentono ma non praticano la rete, la rete non esiste. Attenzione a non confondere il fatto che ci si dica di essere rete con il fatto che la rete ci sia. Io conosco un sacco di giovani e meno giovani che dicono di essere registi o che dicono di essere attori o che dicono di essere operatori culturali. Essere e dichiararsi tali sono concetti molto diversi. Scusami. Grazie.

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Alessandro RinaldiOspitiamo ancora magari un paio di interventi. Abbiamo lavorato intensamente questa mat-tina. Ne approfitto anch’io per rilanciare lo stimolo rispetto al tema del “dopo” perché a me questa cosa, da stamattina, ascoltandoci, continua a lavorare dentro. È indubbio, dalle cose che vengono dette, che c’è una grande intensità di vissuti e di storie. D’altra parte, emerge ancora la necessità di aumentare il senso di partecipazione, di reciprocità tra i soggetti del territorio. Allora il mio ingenuo e molto umile contributo è che, a volte, aiuterebbe costruire dei gruppi di facilitazione “pane e salame” in cui i rappresentanti di tutti i soggetti che lavorano nel territorio abbiano il compito, in questo specifico gruppo, di lavorare sul concetto del “come stiamo lavo-rando insieme” perché non è facile avere uno sguardo condiviso, critico e autoriflessivo rispet-to a come, in questo momento, stiamo lavorando insieme. C’è il rischio che ognuno comprenda veramente bene la propria fetta ma che abbia difficoltà a fare spazio alla fetta dell’altro, a farsi carico dei problemi dell’altro soggetto sul territorio. Richiede coraggio, forza, energia e inten-sità. Quindi la mia proposta - e ripasso la palla a tutti noi - è un gruppo molto “pane e salame” che si ponga il problema di determinare la qualità dell’interazione fra i soggetti del territorio, e che lavori per facilitare il miglioramento di questa interazione perché, se io mi rendo conto che nella mia realtà non stiamo comprendendo bene i vostri bisogni, forse io posso facilitare, dentro la mia realtà, dei percorsi di cambiamento che portino un frutto a un tavolo comune di “pane e salame” della facilitazione. Questo era solo uno stimolo che mi lavorava dentro conti-nuando a seguirvi. Qualche ultimo elemento di commento perché per il finale abbiamo ancora delle piccole cose da condividere che è bello fare.

AnonimaSì, proprio piccolo. È una cosa che mi sono portata da ieri, legata al principio della rete, dell’as-sunzione di responsabilità, alla crisi come un momento in cui si devono fare delle scelte. Credo

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che, spesso e volentieri, la difficoltà della rete, con tutte le buone intenzioni e volontà che ci sono, è proprio quello di essere capaci di fare delle scelte; un po’ quello che dicevi tu riguar-do al processo, ovvero dire come arriviamo ad avere, all’interno della rete, un rapporto di vero partenariato e di fiducia. Quando siamo davanti a un bivio non possiamo stare tre anni a deci-dere se andare a destra o a sinistra ma, un certo punto, la rete è capace di dire “facciamo una scelta e andiamo sinistra”. Questo è un momento molto importante anche rispetto al trasformare la crisi in un’azione positiva. Grazie.

Alessandro RinaldiAncora magari un commento, una testimonianza prima di prenderci un attimo di riflessione, anche visuale, su quello che abbiamo costruito insieme in queste giornate, e di dirci alcune pa-role di conclusione. Magari ancora sul tema - che a me continua ad appassionare - delle aspet-tative, cosa ci aspettiamo. Stiamo virando quest’ultima parte di discussione molto sull’essere stimolati dal sogno. E quindi? Finché puoi dire “e quindi?”, c’è qualcosa da fare nelle attività, nei progetti. Prendiamoci ancora qualche secondo perché poi andate a casa e vi dite “volevo dirlo ma la sessione è finita”.

InsegnanteIo ho partecipato al terzo workshop. Sono molto emozionata perché non sono abituata a parla-re in un’aula così grande. Io sono un’insegnante e lavoro in aule più piccole solitamente. Volevo ringraziare il terzo workshop perché io sono riuscita a trovare delle risposte concre-te. Alla fine dell’esperienza ho chiesto quello di cui avevo bisogno, ho spiegato quali sono i bisogni ai quali vado incontro ogni giorni in classe, e le due responsabili del workshop mi hanno dato dei suggerimenti; quindi io delle concretezze le ho trovate. Al contrario, tro-vo che la scuola sia assente in questa esperienza, e mi dispiace molto. Io sono piccola

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all’interno della scuola perché sono una supplente e sto lottando per trovare una posizio-ne, ma spero di potere, in piccola parte, contribuire a trasmettere i messaggi che ho sentito oggi.

Alessandro RinaldiIn realtà, direi che stiamo concludendo la terza sessione e stiamo entrando proprio nel finale della giornata. Quindi potremmo fare gli ultimi commenti flash fra dieci minuti ma, in questo momento, sentirei il desiderio di ringraziare Michela e Valentina, e tutti gli attori protagonisti e partecipanti del terzo workshop. Grazie. Ora chiederei di spegnere le luci perché una piccola condivisione in termini quantitativi - a pro-posito di questo tema – ma grande in termini qualitativi mi sembrava significativa rispetto al lavoro che è stato fatto da tutti noi questa mattina e che è stato poi sintetizzato da Cecilia, da Luca e dal multitasking di Sergio. Quindi, prima di salutarci, mi piacerebbe regalarci questi 120 secondi, non di più, in cui osserviamo, con un ultimo elemento video che Cecilia ha preparato, una sintesi quasi estrema del lavoro di queste due giornate: parole, immagini, qualcosa che ri-mane. Questo è il tentativo. Voi avete visto quanto me gli atti dei convegni. A volte sono materiali molto importanti ma su cui arrampicarsi perché c’è molto materiale. Ma vanno fatti. D’altra parte è bello anche co-struire in pillole più brevi il senso del lavoro fatto insieme. C’è stata molta arte, molta cultura nei laboratori. Lo avete ben rappresentato. Quindi mi sembra molto coerente con la Dream Machine il fatto di osservare qual è lo sforzo interno, che sicuramente è il tentativo di sintesi in due minuti di quanto ci siamo detti questa mattina. Per cui, godendoci il silenzio dell’aula magna, due minuti di tranquillità e di contemplazione di cose che sono emerse e che ven-gono ridette attraverso la proposta di Cecilia. Due minuti di relax insieme in cui lavoriamo soltanto sulla visione di ciò che abbiamo fatto.

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Grazie a Cecilia Donaggio, a Luca Saviano e a Sergio Serra per lo sforzo in tempo reale di resti-tuire la bellezza e l’intensità di quello che abbiamo costruito. Direi che, per quanto mi riguarda, sto per passare palla per la conclusione della mattinata. Volevo, a mia volta, dire soltanto una cosa: io amo molto situazioni come Dream Machine che prendono posizione rispetto alla linea del cambiamento, perché la linea del cambiamento è quell’immagine su cui tutti ragioniamo sempre e ci diciamo: “Caspita, se qualcuno varcasse quella linea, anch’io potrei fare qualcosa di significativo”, “Appena qualcuno oltrepasserà quel-la linea, anch’io farò qualcosa di significativo”. Questo meccanismo è il motivo per cui rima-niamo in tanti con buone intenzioni dietro alla linea del cambiamento. Quello che mi porto a casa io da Dream Machine è il messaggio che ci dice: “La linea è lì, le parole le conosci, le azioni dipendono dalla tua responsabilità. Vai tu per primo”. Questo, per me, è il punto centrale per portare avanti quello che sento di aver ricevuto da Dream Machine. Quindi, grazie anche da parte mia. È stato un onore fare questo pezzo di strada con voi e direi che passo palla a Sergio per la parte finale. Grazie mille.

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Sergio SerraParlo sempre io che sono stato ufficialmente delegato dal nostro coordinamento. Ringrazio anch’io i compagni di avventura, Luca, Cristian, barbara, Silvia e le loro organizzazio-ni che hanno contribuito alla realizzazione della Dream Machine di quest’anno; ringrazio More-no che si è occupato della logistica, un po’ in ombra ma con un ruolo molto attivo soprattutto di accoglienza dei nostri graditissimi e molto utili ospiti; ringrazio Cecilia che, in qualche modo, ci aiuta sempre di più nel nostro lavoro anche dal punto di vista visivo che non è solo una que-stione di moda ma è estremamente importante nel nostro lavoro. Approfitto per dire che Cecilia collabora anche con il nostro laboratorio “Head Made Lab - Fat-to con la testa” che è un centro diurno multimediale dove persone che hanno esperienze non sempre belle e molto diverse possono percorrere le strade del multimediale con l’aiuto e con il sapere di Cecilia e di altri operatori. È un luogo fisico che si trova in un posto della città; questo posto è aperto a molti accessi, a molti contributi, a molte idee e anche a molti gruppi di perso-ne che vogliono partecipare a questi percorsi. Sul sito di “Duemilauno Agenzia Sociale”, nella parte destra dove c’è scritto “multimedia”, sono pubblicati una trentina - o quarantina ormai credo - di lavori di questo laboratorio nel corso dei suoi sei, sette anni di storia. Il laboratorio, e Cecilia in particolare, è stato anche il motore di un’altra iniziativa che ogni anno si ripete immancabilmente. È un’importante iniziativa artistica con mostre, performance, ecce-tera che ricorda il 1 dicembre, giornata mondiale della lotta all’AIDS. Un ultimo, doveroso ma sincero ringraziamento va a questo Dipartimento di Studi dell’Univer-sità di Trieste che così caldamente ed efficacemente ci ha ospitato in queste due giornate e con il quale abbiamo così aperto, anche questo è un risultato concreto, un canale di collabora-zione futura.Chiudiamo qui i lavori. Siete stati veramente molto bravi anche perché oggi non c’era nessuna pausa. Tutti sono stati molto composti e molto puntuali. Anche questo è un dato di quantità molto importante. Arrivederci.

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SCONFINAMENTINumeri pubblicati

n° 1 ........................... Guerre Stellari / Maggio 2002

n° 2 .......................... Sulla Strada / Dicembre 2002

n° 3 .......................... La Casetta / Giugno 2003

n° 4 .......................... Finisterre / Dicembre 2003

n° 5 .......................... Ho fatto Centro / Luglio 2004

n° 6 .......................... Storie apparentemente piccole / Dicembre 2004

n° 7 .......................... AZUL / Luglio 2005

n° 8 .......................... H / Dicembre 2005

n° 9 .......................... Ma tu, non vai mai a lavorare? / Settembre 2006

n° 10 ......................... &, Percorsi della Mente / Novembre 2006

n° 11 .......................... La Strada Gialla / Luglio 2007

n° 12 ......................... Sprizza e Spigo / Novembre 2007

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n° 13 ......................... Dream Machine / Marzo 2008

n° 14 ......................... Morire di Classe / Settembre 2008

n° 15 ......................... OCCHI / Giugno 2009

n° 16 ......................... GAMEOVER / Dicembre 2009

n° 17 ......................... Chiaroscuro / Ottobre 2010

n° 18 ......................... CASTELLI IN ARIA / Novembre 2010

n° 19 ......................... LA PAURA DEI RAGNI / Maggio 2011

n° 20 ........................ ARUM OLTRE LE MURA / Novembre 2011

n° 21 ......................... CITTA’ VIOLA / Settembre 2012

n° 22 ......................... Il mio posto, il nostro posto / Dicembre 2012

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DUEMILAUNO AGENZIA SOCIALE SOCIETA’ COOPERATIVA - IMPRESA SOCIALE ONLUS

Opera dal 1990 in favore di Enti Pubblici e privati, a Trieste e sul territorio regionale, offrendo servizi di tipo residenziale, semiresidenziale, territoriale e domiciliare in favore di minori e adulti portatori di disagi sociali e sanitari. Propone inoltre servizi per l’infanzia e la famiglia come asili nido e centri estivi.

SERVIZI IN FAVORE DI

DISAbILI

- Servizi socio educativi scolastici ed extrascolastici per minori

Trieste-Gorizia - Muggia-San Dorligo/Dolina - Monfalcone

- Servizi socio educativi individuali e/o per piccoli gruppi per portatori di bisogni speciali

area Trieste

- Residenze e centri diurni per adulti Trieste

PERSONE CON PRObLEMI DI SALUTE MENTALE

- budget di Salute - Gestione strutture residenziali, diurne e progetti individuali Trieste -

Udine

bAMbINI

- Nidi d’infanzia Trieste - Pordenone - Gorizia

- Servizi educativi e di animazione nei centri estivi area Trieste-Gorizia -Monfalcone

- Servizi educativi c/o ludoteche e biblioteche Gorizia-Muggia-San Dorligo/Dolina

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MINORI IN DIFFICOLTA’

- Servizi educativi territoriali area Trieste-Gorizia-Monfalcone- Muggia-San Dorligo/Dolina

- Comunità residenziale Aquileia

TOSSICODIPENDENTI

- Educativa territoriale e semiresidenziale Trieste

- Centro semiresidenziale di terapie alternative Trieste

FAMIGLIE

- Sostegno educativo per neo genitori area Muggia-San Dorligo/Dolina

- Accoglienza residenziale nuclei madre-bambino Trieste e Aquileia

COLLETTIVITA’

- Progetto “Habitat” area Trieste

- Progetto “Overnight” area Trieste-Gorizia-Monfalcone

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