Terra Nostra

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Sinistra Ecologia e Libertà Coordinamento regionale Veneto TERRA NOSTRA Contrastare il grande saccheggio del territorio veneto

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Terra Nostra. Contrastare il grande saccheggio del territorio veneto

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Sinistra Ecologia e LibertàCoordinamento regionale Veneto

TERRA NOSTRAContrastare il grande saccheggio

del territorio veneto

“La mia non è una battaglia antimoderna ma un fatto di identità e di civiltà. La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto

ricco di arte e di memorie è arrivata ad alterare la consistenza stessa

della terra che ci sta sotto i piedi. I boschi, i cieli, la campagna sono stati la mia ispirazione poetica fin dall’infanzia.

Ne ho sempre ricevuto una forza di bellezza e tranquillità. Ecco perché la distruzione del paesaggio è per me un lutto terribile.

Bisogna indignarsi e fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta come un’area da edificare.”

Andrea Zanzotto da un’intervista al quotidiano La Stampa del 10 ottobre 2011

Relazioni al Seminario di lavoro organizzato dal Coordinamento regionale Veneto di Sinistra Ecologia e Libertà, sabato 22 ottobre 2011, presso la Sala Convegni dell’Archivio di Stato di Rovigo

in copertina: Paesaggio delle colline asolane

Dino Facchini, Premessa 4

Valerio Calzolaio, Terra Nostra 5

Oscar Mancini, Il territorio come bene comune 7

Sergio Lironi, Paesaggio e consumo di territorio 17

Luca De Marco, Tasche piene e territorio bucato 27

Forum Beta-SEL, Una campagna in difesa del territorio 33

Premessa

Lo scorso 22 ottobre “Sinistra Ecologia Libertà” ha organizzato a Rovigo un Con-vegno regionale, aperto ai movimenti e ai comitati ambientalisti, per discutere le linee guida da seguire contro lo spreco folle di territorio che le classi dirigenti venete conti-nuano a perseguire e a favore di un nuovo sviluppo sostenibile ed eco compatibile.

L’iniziativa ha prodotto – tra gli altri – i materiali che presentiamo in questa nostra pubblicazione; non sono solo idee elaborate nella discussione, ma direttrici di mobi-litazione e di lotta scaturite da un impegno di lunga lena tra la gente e culminate poi – una settimana dopo il convegno – in una partecipata manifestazione ad Adria contro l’installazione della centrale a carbone di Porto Tolle.

Il Veneto è sempre stata una delle regioni più massacrate dal cemento e dalla spe-culazione edilizia, anche nella fase aurea del modello economico che proponeva e che sembrava senza fine; oggi la crisi sistemica della crescita del PIL ha colpito anche le nostre terre, ma i poteri forti che qui governano e la Lega Nord si illudono di rilanciare lo sviluppo secondo i vecchi meccanismi, perpetuando anche il consumo dissennato di territorio.

Invece tra le poche certezze che si possono affermare, una è sicuramente quella che nulla tornerà più come prima, neppure nella nostra regione.

Per uscire dalla crisi e dalla disoccupazione di massa che la caratterizza, sarà necessa-rio rinnovare radicalmente il modello produttivo e attuare una politica industriale che salvi il lavoro e la natura, cioè le due fonti di ricchezza e di riproduzione che l’attuale sistema sta inesorabilmente distruggendo.

Dino Facchini Coordinatore regionale Sinistra Ecologia e Libertà

TERRA NOSTRA

Valerio Calzolaio *

1. Il coordinamento regionale veneto di Sinistra Ecologia Libertà ha promosso il 22 ottobre 2011 un importante convegno programmatico a Rovigo per “contrastare il grande saccheggio del territorio”. Partecipai e svolsi brevi conclusioni. Dati e argomenti hanno anticipato la campagna nazionale “Terra Nostra” lanciata un mese dopo da SEL a livello nazionale, per il riassetto idrogeologico, l’adattamento, la messa in sicurezza, la cura del territorio italiano tutto. Questa grande opera pubblica si potrebbe fare ora, subito, con molta volontà, una certa competente intelligenza, poca fatica dei legislatori e dei governanti. Era impos-sibile con il governo Berlusconi, con il governo degli scandali e dei condoni; forse è impossibile con questo parlamento che ha la stessa maggioranza di eletti dal centrode-stra di Berlusconi; comunque era possibile almeno dirlo da parte del nuovo governo di impegno nazionale. Non è stato detto, hanno cominciato male. La pubblicazione degli atti del convegno di Rovigo consente ora di arricchire i materiali e gli obiettivi della campagna “Terra nostra”. 2. La “grande opera” si potrebbe fare a legislazione vigente! Nuove norme (aggiorna-te e forti dell’esperienza) servono sempre. Un parlamento nuovo e più rappresentativo dell’attuale, magari anche un poco più di sinistra, ecologista, libertario e forse (per non farci mancare niente!) un governo coeso (dopo le primarie) di centrosinistra… potreb-bero approvare il primo giorno, nella prima seduta e nel primo Consiglio dei Ministri, il primo quinquennio del piano decennale per la messa in sicurezza del territorio ita-liano, un piano straordinario di gesti e atti ordinari. Noi abbiamo detto che andrebbe accompagnato da una norma-ponte, una norma che vieti intanto nuove costruzioni in certe aree, una norma “moratoria” che blocchi anche i pessimi megaprogetti di cui si parla in Veneto. Comunque il “piano” ha tutte le premesse normative già vigenti: la legge di ratifica della Convenzione Europea sul Paesaggio (2000), la legge sulla difesa del suolo (legge 183 del 1989), le norme della vecchia legge sulle risorse idriche (legge 36 del 1994) an-cora inattuate (bilanci idrici di bacino, censimento di tutti gli emungimenti e dei pozzi, revisione delle concessioni in uso, ecc.). 3. Si potrebbe realizzare con una diversa destinazione di fondi esistenti! Fondi nuovi (spesi con circospezione ed efficiente austerità) servono sempre. Abbiamo cercato di

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quantificare in 40 miliardi di euro il totale necessario e abbiamo ipotizzato le voci di re-perimento, non servono manovre aggiuntive. Forse una buona parte dei fondi potreb-bero essere individuati semplicemente rimodulando delibere CIPE e fondi esistenti. Per le prime tre annualità basterebbe preparare una seria riunione interministeriale del CIPE che, d’intesa con le regioni, riformuli le priorità della legge obiettivo, mettendo in testa i piani-stralcio predisposti dalle autorità di bacino per la messa in sicurezza. I cambiamenti climatici in corso non sono “reversibili” ed emergenze ci sarebbero state comunque (anche se meno frequenti e intense). La nostra idea di “rinaturalizza-zione” dà per scontato che ormai gli ecosistemi sono sempre anche umani. Dunque conviviamo! Gli umani sapienti con le altre specie, gli umani sapienti con i normali straordinari eventi di un ecosistema e del pianeta. E adattiamoci! …ricordando che l’Italia ancora non ha nemmeno il piano di adattamento ai cambiamenti climatici pre-visto dal negoziato climatico internazionale. 4. Si potrebbe fare, avviare coordinare completare, senza nuovi enti, comitati, istitu-zioni, anzi tagliandone o togliendone qualcuno! Oggi “troppi” enti, comitati, istituzio-ni, privati hanno poteri sull’assetto dei bacini e sul corso dei fiumi.Su questo molto ho scritto e proposto in passato. Rinvio, taglio e tolgo anch’io.Purtroppo l’ultima emergenza toglie dai riflettori e costringe a mettere in secondo piano quella immediatamente precedente e fa dimenticare quelle ancora “precedenti” (delle quali tante, purtroppo, in Veneto). Noi diciamo che, sotto ogni punto di vista, investire sul territorio non significa edificare! La diffusa “cultura” del cemento e il frequente mancato rispetto delle regole hanno fatto danni. L’industria edilizia si può salvare e rilanciare convertendo e riconvertendo, curando e ristrutturando, utilizzando “altro” dal cemento e dal carbone. La vita sociale e collettiva ha bisogno di “edilizia” come assistenza al bene comune suolo e manutenzione del territorio. E una moderna “edilizia” ha bisogno di partecipa-zione dei cittadini, di decentramento energetico, di consumi critici, del servizio civile regionale, dell’adozione dei fiumi, di “intraprese” agricole (le proposte di SEL su risorse idriche, energie rinnovabili, rifiuti, difesa del territorio). 5. SEL è un partito giovane, raccoglie esperienze antiche e moderne, eredita elabo-razioni collettive e individuali, tuttavia è soprattutto un nuovo soggetto che guarda in avanti. Questo vale in tutti i campi. Come forum nazionale SEL “beni comuni e territorio” (forumselbeta.it) abbiamo già elaborato vari documenti e svolto due assem-blee nazionali, abbiamo un sito e una qualificata interlocuzione sul territorio, da oggi assumiamo come prioritaria la campagna “Terra nostra”, dateci una mano!

* Coordinatore forum nazionale SEL “beni comuni e territorio”

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IL TERRITORIO COME BENE COMUNE

Relazione di Oscar Mancini

I referendum di giugno, nonostante siano stati rapidamente archiviati dal dibat-tito politico e offuscati dalla crisi, hanno espresso con chiarezza il significato ormai socialmente condiviso del concetto di “beni comuni”, in questo caso dei fondamentali elementi di riproduzione della vita, l’energia e l’acqua. Nel dibattito pubblico questo concetto si è da tempo progressivamente esteso alla generalità dell’ambiente, al territo-rio, alla città, al paesaggio, come alternativa strategica e reazione collettiva ai modelli sociali del neoliberismo, fondati sulla privatizzazione e la mercificazione generalizzata delle relazioni sociali e individuali. Noi intendiamo il territorio non come mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc.) ma come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono.(Salzano 2010). La nozione di territo-rio, infatti, non si limita soltanto a designare il suolo, il terreno, ma comprende anche le acque, il clima, il regime delle piogge, la flora, la fauna. Nel territorio non ci siamo solo noi, esso non è il fondale inerte delle nostre attività, ma un campo di forze in movimento, talora collegate in forma di sistema. Al territorio come habitat(Bevilacqua 2009) è indirizzata l’azione di numerosissimi comitati, asso-ciazioni e gruppi di cittadinanza attiva, in Italia e negli alti paesi europei. Una galassia che a volte ha la capacità unirsi e creare movimenti su scala nazionale come quello per l’acqua bene comune e quello, più giovane, per un altro modello energetico. Oppu-re movimenti su base territoriale come No Tav, No dal Molin, Liberiamo la Riviera e quello che sta nascendo qui nel Polesine attorno alla centrale di Porto Tolle dove gli elementi vitali di Empedocle- aria, acqua, terra e fuoco-energia - si connettono. Nella scena politica urbana dunque compare e si radica un nuovo soggetto: i comi-tati. Non è un caso che essi sorgano e si sviluppino nella stagione della dissoluzione del partito di massa. Essi sono allo stesso tempo l’altra faccia della crisi della politica e una nuova e interessante forma di partecipazione politica. Essi tendono ad autorappresen-tarsi sulla scena politica, attraverso un altro modo di fare politica, gelosi della propria autonomia ma non indifferenti al rapporto con i partiti e le istituzioni. Per dirla con Vendola, questo caleidoscopio di movimenti, di frammenti colorati pie-ni di energia, non ha ancora trovato la tela su cui connettersi. Perché, è la mia risposta, siamo in presenza di una crisi della rappresentanza politica e anche di quella sociale. Una vertenzialità diffusa, ma orfana di una narrazione generale, fatica però a rompe-

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re lo schermo dell’egemonia Berlusconiana. Qui c’è dunque un vasto campo d’azione per un partito- movimento come il nostro che dell’ecologia e del lavoro ha fatto la sua bandiera.

1. L’effetto congiunto della globalizzazione, della crisi economica e dei cambia-menti climatici (tre fenomeni interdipendenti) mette a rischio l’umana convivenza. Stiamo entrando in un’epoca di grandi sconvolgimenti : ambientali, economici, geopo-litici. Possono aprire la strada a immani catastrofi, al moltiplicarsi delle guerre, all’affer-marsi di regimi sempre più autoritari, all’aggravarsi delle condizioni di vita di miliardi di esseri umani, a vaste migrazioni internazionali forzate dai cambiamenti climatici come documenta il bel libro di Valerio Calzolaio, Ecoprofughi. All’origine di questi processi vi è quello che Luciano Gallino chiama il finanzcapitalismo: “Una megamac-china che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi”. Una tirannide globale senza volto che trova il suo nemico sempre in mezzo ai po-veri. La sua estensione planetaria e la sua penetrazione in tutti gli strati della società ne fa qualcosa di assolutamente inedito: il denaro crea se stesso anziché valore d’uso e sposta immense quote di reddito dal lavoro e dagli investimenti produttivi alla rendita finanziaria. Una megamacchina che sta consumando un terzo delle risorse di un altro pianeta, ovvero sta distruggendo a un ritmo accelerato gli ecosistemi che sostengono la vita. Poiché non abbiamo a disposizione un altro pianeta con il quale la civiltà-mondo possa entrare in conflitto a livello planetario rischiamo la crescita non solo di conflitti inter-nazionali ma anche intra-nazionali per l’accaparramento delle risorse. Arundaty Roy, ci racconta della guerra che il governo indiano ha intrapreso contro la sua stessa popolazione che vive nelle foreste, bruciando interi villaggi, per scacciarle dal proprio territorio al fine di consentire alle grandi corporation di accaparrarsi le risorse naturali. Anche per questa via passa la crescita del grande paese asiatico, che noi chia-miamo abitualmente la più grande democrazia del mondo. L’importanza e la scarsità delle risorse naturali è testimoniata anche dal fatto che ci sono paesi che per garantirsi l’approvvigionamento alimentare hanno acquistato all’estero, nel solo 2008, 7,7 milioni di ettari di terreni agricoli: più della metà della superficie agricola coltivata in Italia. Terreni che noi consumiamo con implacabile voracità.

2. La prospettiva del consumo zero di suolo è scritta in tanti documenti di piano. A Firenze come a Venezia. Salvo essere contraddetta dalle norme tecniche, quelle che po-chi leggono. Persino la Regione Veneto,nella relazione al PTRC, scrive: “Le dinamiche di sviluppo della società veneta in questi ultimi anni hanno raggiunto, nel loro rapporto con la risorsa territoriale, soglie quantitative veramente elevate tali da non rendere più desiderabile una prosecuzione di tali trend e da imporre di ripensare il futuro dell’assetto 8

insediativo.” Si tratta però solo della “bella confezione che racchiude un uovo vuoto” per dirla con Edoardo Salzano. Infatti, scartata la confezione, il prodotto, ovvero le norme tecniche, è del tutto inconsistente. Nel senso che si tratta di parole prive di effi-cacia prescrittiva e quindi utili per favorire la speculazione immobiliare. D’altra parte non poteva che essere così se già fin dal “Prologo” veniamo avvertiti non solo che il cosiddetto Piano contiene “pochi, pochissimi vincoli, il minimo indispensabile” ma anche che si tratta di una semplice “cornice e trama di fondo” nella quale inserire “i piani d’area (..) e di settore”. Sono i cosiddetti “progetti strategici” che la Regione avoca a se esautorando gli Enti Locali. Il tutto ammantato con l’accattivante linguaggio della “sfida della qualità”. Il disegno complessivo della Giunta Regionale per il territorio diventa chiaro via via che si procede alla lettura del PTRC e in particolare dell’art. 38 delle norme. È un siste-ma centrato sulla rete autostradale e sull’utilizzazione intensiva delle aree circostanti i caselli. Là devono addensarsi le attività direzionali nuove da promuovere, la ricettività alberghiera, i centri commerciali, tutti i centri d’interesse. Poco importa se non esiste alcuna seria dimostrazione dell’esigenza di aumentare le sedi per tali attività senza ve-rificare la possibilità di ospitarle nelle strutture edilizie esistenti. Poco importa che con questa operazione si svuotino le città e si condannino al deperimento i centri storici. Nascono così le varie new town, da Veneto City a Tessera city a Motor city, alla cui rea-lizzazione si piegano le infrastrutture con la previsione di spostare caselli autostradali, le stazioni del SFMR e persino la TAV, quest’ultimo è il caso di Tessera.

3. Contro questo piano si è sviluppato un movimento che su scala veneta ha avuto il suo culmine nel 2009 con la presentazione di oltre 15.000 osservazioni. Un piano presentato con l’accattivante slogan di Terzo Veneto: dopo quelli della pellagra e del miracolo economico finalmente un piano per la qualità, la bellezza, l’eccellenza. Attra-verso un vasto lavoro di approfondimento dei contenuti del piano durato molti mesi siamo riusciti a disvelare il vero carattere dell’operazione PTRC di Galan: Nient’altro che un lasciapassare a tutti i progetti di trasformazione territoriale presenti e futuri voluti dagli immobiliaristi. Un delirio di autostrade, bretelle, tunnel, camionabili; una costellazione di new city e il via libera allo svillettamento voluto dai comuni in cerca di oneri di urbanizzazione per coprire i buchi di bilancio.(P.Cacciari). Facendo interagire saperi esperti e saperi sociali un gruppo di urbanisti, di sindaca-listi, di componenti i comitati e di esperti di altre discipline ha prodotto un articola-to documento critico e propositivo dal programmatico titolo “Per un altro Veneto” presentato in decine d’incontri e assemblee pubbliche. Un documento sottoscritto da oltre 120 associazioni, comitati, camere del lavoro che ha generato 14.021 (sul totale di 15.000) osservazioni diverse firmate da migliaia di cittadini. Una serie di affollate audizioni in Consiglio Regionale sono state l’occasione per stringere alleanze con le associazioni degli agricoltori e dei commercianti in particolare.

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Un accordo infine tra la rete dei comitati e delle associazioni con i partiti di opposizio-ne e le controdeduzioni alle osservazioni che non sono riuscite a convincere neppure i consiglieri della maggioranza hanno spinto il PTRC su un binario morto. Quello che doveva essere il fiore all’occhiello della Giunta Galan si è appassito prima del tempo. Infatti il piano con la fine della legislatura e il ricorso alle elezioni decade. Ma gli immobiliaristi non demordono e ora tentano di realizzarlo pezzo per pezzo. Tante sono le emergenze. Oggi abbiamo scelto di parlare di quelle che dal nostro parziale osservatorio ci sembrano le prioritarie anche in relazione alle mobilitazioni territoriali che stanno generando: ci riferiamo, come sapete a Veneto City, a Tessera City, a Porto Tolle, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo (Motor City, IKEA a Casale sul Sile, inceneritore di Cà del Bue, Pedemontana etc). Sulla prima non aggiun-go nulla a quanto già detto più diffusamente nel nostro incontro primaverile di Padova. Tratterò la seconda e mi soffermerò sulla terza.

4. Su Veneto City me la cavo dunque con qualche immagine: Siete mai stati a Gar-daland? Se non avete un’idea della dimensione del più grande parco divertimenti del Nord Italia immaginate un colosso che si estende su 60 ha e avrete la percezione del-l’estensione di Veneto City, una enorme operazione immobiliare che cancellerà 600 mila mq di campagna veneta con oltre 2 milioni di mc di cemento e vetro per costruire una città direzionale – commerciale grande quanto 17 volte la fiera di Padova, di cui però nessuno ha ancora chiaro a cosa serve. Un mostro capace di attrarre, secondo gli stessi progettisti, 3.500 veicoli l’ora con punte di 7.000, un traffico veicolare di 70.000 veicoli al giorno. Esso è parte di un più generale progetto denominato “bilanciere veneto” di cui fa parte tra l’altro la camio-nabile tra Marghera e Padova, progettata come strada chiusa a pedaggio - sarebbe più corretto chiamarla autostrada - di fatto alternativa all’idrovia, quest’ultima richiesta anche dal comune di Padova dopo le recenti alluvioni. La Romea commerciale, un’al-tra autostrada che, come scrivono i comitati “taglierà su, dritta, attraverso i campi di Sambruson fino a sbucare, mostro rombante e inquinante a quattro corsie, tra le ville che si affacciano placide sul Naviglio Brenta fra Mira e Dolo”. Nel frattempo si chiu-de il casello di Dolo con la conseguenza di congestionare ancor di più la S.R. 11 che doveva invece diventare il corso principale della futura città del Brenta auspicato dalla conferenza dei Sindaci negli anni novanta, dopo aver liberalizzato l’autostrada come conseguenza della realizzazione del passante.

5. Tessera City ha una lunga storia. Risale al famigerato “pugno nello stomaco” del naufragato progetto EXPO 2000 di De Michelis che prevedeva di costruire proprio in quell’area, sotto il livello del mare, una nuova laguna, con annesse speculazioni im-mobiliari. Ecco quello che ho ritrovato tra le mie vecchie carte ingiallite: “Una lieve e pacata collina vegetale alta 30 metri che nasconde un cratere profondo 130 in mezzo a una 10

laguna artificiale nei pressi dell’aeroporto di Tessera: nuvole artificiali prodotte con acqua fredda nebulizzata sui canali e sulle nuvole raggi laser proiettano figure a colori accom-pagnate da musica classica, giochi di luce subacquei, boulevard navigabili, palle di fuoco sospese sull’acqua, isole artificiali con gemme trapunte” e via vaneggiando. Ecco quando nasce la città del loisir. Il progetto, questa volta senza annessa laguna, ricompare nel 2008 quando si con-clude un accordo tra Cacciari, Galan, Marchi e il Casinò, che progetta lo spostamento e il quadruplicamento dell’area originariamente urbanizzabile per stadio e casinò: si prevede uno scambio tra le aree per attrezzature del Comune con aree agricole a est della bretella aeroportuale, nel frattempo acquisite da Marchi (per renderle edificabili bisogna prima variare il prg). L’ambito lasciato libero tra queste aree e l’aeroporto, vie-ne così molto ampliato per consentire il raddoppio delle piste aeroportuali. Le nuove aree attribuite al Comune con lo scambio sono ubicate in una zona ad altissimo rischio idraulico (nella zona centrale risultano a 1,75 m sotto il livello medio del mare). Si predispongono le condizioni per arrivare all’approvazione di “Tessera City”, anche senza la procedura democratica e trasparente del normale strumento urbanistico co-munale. La convinzione di aver già ottenuto il risultato è netta: solo tre giorni dopo il voto del consiglio comunale e la delibera regionale, «La Nuova Venezia» titola a tutta pagina: “Le aree del Casinò valorizzate di 140 milioni di euro”. Il valore dei terreni agri-coli per 400 mila metri quadrati divenuti edificabili aumenta di 20 volte, «l’operazione assesta in un ‘battibaleno’i conti della società» ( stiamo parlando solo del Casinò, le aree della Save sono molte più ampie!). Si evidenzia così la realtà e la dimensione del-l’operazione: una grandissima speculazione finanziaria e fondiaria. Con l’aiuto di noti e autorevoli urbanisti osservo che nelle cartografie del Pat pro-posto dalla giunta Orsoni, vi è anche la drastica riduzione delle grandi aree destinate a bosco previste dal PRG e dal Palav vigente. È inserito un tracciato della Tav che corre non lungo la linea ferroviaria per Trieste, bensì lungo la fascia di gronda lagunare, og-getto di moltissime contestazioni da parte dello stesso Comune. Compare inoltre una indeterminata «Linea di forza del trasporto lagunare», da Tessera verso Venezia: astu-tamente si evita di pronunciarsi apertamente sullo sciagurato progetto di sublagunare, pure già presentato al Cipe. L’Ambito Dese-Aeroporto (che comprende “Tessera City”) prevede un «carico in-sediativo aggiuntivo» superiore a due milioni di mc! L’assessore Micelli definisce l’in-tervento come un «nuovo asse strategico della città», da Dese fino al Lido, alternativo all’asse Venezia-Mestre-Marghera. Il progetto non è legato ai fabbisogni di riqualificazione e sviluppo della città ma è volto a prefigurare un nuovo grande polo, in grado di attirare gli investimenti di gran-di capitali internazionali. Per questo motivo, tutte le grandi infrastrutture pubbliche, dalla Tav alla “linea di forza” sublagunare, alla nuova linea di tram(che correrebbe inu-tilmente per molti km in aperta campagna) vengono realizzate non per soddisfare i

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fabbisogni di mobilità della popolazione ma per rendere appetibile agli investimenti il nuovo grande polo urbano, valorizzandone le aree. Bene dunque ha fatto SEL Venezia a sottolineare che non si devono impegnare grandi interventi pubblici per favorire la valorizzazione finanziaria di un privato che si è accaparrato grandissime aree agricole, anziché soddisfare la domanda reale di mobilità della popolazione. E’ assurdo dirot-tare enormi investimenti pubblici e privati verso nuove aree da urbanizzare a Tessera avendo disponibili le grandi aree già infrastrutturate di Marghera, costate un secolo di investimenti, da riusare e molte attività da rigenerare e riconvertire (incentivando le bonifiche). E’ su Marghera che occorre impegnare ogni risorsa ed energia per promuovere e incentivare nuove attività ecocompatibili di grande qualità e competitività. In sostanza una riconversione ecologica di Porto Marghera è la nostra proposta alternativa. Mestre ha bisogno di interventi, soprattutto di riqualificare i vecchi centri di quar-tiere, creando, nuovi ‘cuori’ urbani che diano vivibilità a situazioni degradate, senza costruire cubature eccessive, che risulterebbero senza servizi. Anche Venezia va riqua-lificata. Innanzi tutto tornando a bloccare integralmente (come era negli anni ’90) i cambi d’uso degli appartamenti per non aumentare la pressione turistica (che invece va ridotta e regolamentata). Dopo vent’anni di attesa, il “Sistema ferroviario metropolitano regionale”, che può usare i quattro binari del ponte, deve finalmente collegare tutto l’entroterra con la Sta-zione ferroviaria di Santa Lucia e, in questo caso, anche l’aeroporto. Non è necessaria una nuova linea per l’Alta Velocità,mentre è possibile velocizzare e raddoppiare l’uso delle linee esistenti (per Udine e per Trieste) e potenziare da subito la linea esterna dei Bivi per il trasporto delle merci. Possiamo tornare a fare le scelte strategiche e i piani urbanistici non per lanciare grandi operazioni speculative, ma per risolvere le criticità, per soddisfare i bisogni prioritari e servire i cittadini, per valorizzare la città nelle sue qualità fisiche e sociali, non per favorire la speculazione. Ecco la nostra proposta.

6. Porto Tolle. Dopo la grande vittoria referendaria contro il nucleare stenta ancora ad affermarsi la consapevolezza che un’alternativa energetica fondata sul sole, le energie distribuite e l’efficienza energetica passa oggi attraverso la riduzione del consumo delle fonti fossili e in primo luogo la sconfitta del carbone. Una grande occasione per rilan-ciare la nostra idea di modello energetico distribuito è costituita dalla giornata di mo-bilitazione contro il carbone prevista per il 29 ottobre, con manifestazione nazionale a Adria, nel Delta del Po, e presidi negli altri siti deputati ad ospitare impianti a carbone. Il governo rinvia la conferenza energetica nazionale e contemporaneamente da il via li-bera, nei fatti, ad un piano energetico non scritto ma operante, un piano dettato dai co-lossi dell’energia, a partire da ENEL, fondato sull’uso del peggior combustibile fossile, il carbone, che alimenta il surriscaldamento globale e inquina pesantemente i territori dove vengono realizzate le centrali. Eppure, con i recenti referendum oltre 26 milioni 12

d’italiani hanno rivendicato il diritto a decidere del proprio futuro, un futuro in cui i cambiamenti climatici non raggiungano livelli distruttivi per l’ambiente, il benessere e la stessa specie umana, un futuro di vera sicurezza energetica e di buona e stabile occu-pazione. Incurante dell’ampio pronunciamento popolare, il governo Berlusconi lancia invece un “piano carbone” che, oltre a Porto Tolle, riguarda la riconversione di vecchie centrali come Vado Ligure, La Spezia, Rossano Calabro o addirittura la costruzione di nuove centrali come Saline Ioniche, con un livello d’investimenti pubblici privati dell’ordine di 10 MDL di euro. Il Governo si muove quindi su una linea del tutto opposta a quella degli obblighi vin-colanti che la UE assegna per il 2020 a ogni Paese membro, primo fra tutti la riduzione del 20% delle emissioni di CO2. Infatti gli investimenti sul carbone, oltre ad aggravare il bilancio italiano delle emissioni climalteranti, con pesanti conseguenze sulle bollette che dovranno pagare i cittadini, sottraggono risorse alle politiche di risparmio energe-tico e di realizzazione delle fonti rinnovabili. Un vero suicidio: economico, ambientale, occupazionale. A Porto Tolle, l’ENEL vuole – anche con modifiche alle leggi e alle normali pro-cedure, operate da una politica governativa e regionale compiacente – riconvertire a carbone una centrale della potenza di 2000 MW, nel mezzo del parco del Delta del Po. La nuova legge regionale “ad aziendam” modifica quella che già regola la presenza di centrali termoelettriche nel territorio del Parco del Delta del Po, nonostante la pre-senza del più grande rigassificatore d’Europa, con una saldatura di interessi tra Regione Veneto e l’azienda energetica per un progetto ambientalmente ed economicamente as-surdo che vede la netta contrarietà del Consiglio Regionale dell’Emilia Romagna. La riconversione avverrebbe persino al di fuori di ogni logica energetica, poiché l’Italia ha una potenza istallata quasi doppia rispetto al picco della domanda, al punto che i pro-duttori di energia elettrica lamentano che gli impianti vengono oggi usati per un terzo della loro potenzialità. Non solo: oggi le maggiori prospettive di nuovi posti di lavoro, nel mondo e in Italia, sono nei settori delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, con numeri che in alcuni Paesi ormai superano l’industria tradizionale; al contrario, la centrale a carbone porrebbe a rischio l’occupazione già esistente, e quella futura, nell’agricoltura, nel turi-smo e nella pesca. A causa delle 12 centrali italiane che bruciano carbone il nostro Paese rischia di pagare multe salate per non aver rispettato gli obbiettivi di Kyoto: il conta-tore del Kyoto club ci dice che ci stiamo avvicinando al miliardo di Euro. Con i nuovi impianti del “Piano Carbone” si determinerebbe il quadruplicamento delle emissioni in atmosfera dei gas serra. Il solo impianto di Porto Tolle emetterebbe in un solo anno 10 milioni di tonnellate di CO2 ( 4 volte le emissioni di Milano), 2.800 tonnellate di Azoto ( come 3,5 milioni di auto ), 3 milioni e 700 mila tonnellate di ossidi di zolfo ( più di tutti i veicoli d’Italia ) e senza contare il micidiale cocktail di inquinanti come l’Arsenico, il cromo, il Cadmio e il Mercurio.

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Il tutto in mezzo ad un parco, sito d’importanza comunitaria, considerato dall’UNE-SCO ( per la parte emiliana ), Patrimonio dell’Umanità quale “eccezionale paesaggio culturale pianificato che conserva in modo notevole la sua forma originaria”. Un territo-rio incantevole, uno straordinario esempio di biodiversità, un patrimonio naturalistico tutelato da due parchi, quello del Veneto (purtroppo a macchia di leopardo) e quello dell’Emilia Romagna: un insieme di oltre 60 mila ettari di superficie che gli uccelli han-no eletto ad area di riproduzione. Un patrimonio nazionale ed europeo. Il tutto rubando acqua al Po il cui bilancio idrico è in crisi e risente della risalita del cuneo salino che pregiudica la fertilità dei suoli e quindi le eccellenti potenzialità dell’agricoltura. Il tutto in un parco dove migliaia di persone vivono di pesca e di miticoltura e dove grandi potrebbero essere le possibilità di un turismo ecocompatibile solo se si avesse l’intelligenza di considerare il Delta Po la nostra Camargue. Il tutto in un territorio soggetto da decenni a rischi idrogeologici a causa della sub-sidenza e della crisi di apporto sedimentario fluviale nonché dal prevedibile aumento del livello marino. Il tutto infine nella Pianura Padana, una delle aree più inquinate del Pianeta: la peg-giore in Europa, la quarta del Mondo. Si afferma che il carbone è una fonte di elettricità economica, ma si dimentica di dire che “ogni dollaro speso in carbone ne causa due di danni, senza contare l’impatto sul clima e le relative conseguenze”. E’ quanto ci dice l’ultimo autorevole rapporto che ci giunge dagli Stati Uniti, pubblicato ad agosto sull’American Economic Review che valuta i danni all’ambiente e alla salute delle centrali USA in circa 53 MLD l’anno. Il carbone è dunque conveniente per Enel, ma scarica i costi sulla collettività in termi-ni di malattie respiratorie, incidenti nelle miniere, piogge acide, inquinamento di acque e di suoli, perdita di produttività dei terreni agricoli e aggravamento dei cambiamenti climatici: se si calcolassero, anche solo dal punto di vista economico, tutte queste ester-nalità negative si scoprirebbe che il carbone non è per nulla conveniente. Se si integra il nostro ragionamento sull’energia con quello sull’acqua, sull’atmosfera, sulla terra, sulla salute, allora si comprende l’irrazionalità di bruciare il peggior combustibile fossile. La riconversione a carbone avverrebbe con una tecnologia di combustione che, pur spinta ai suoi migliori livelli, resta sempre assai più inquinante di quella basata sul gas naturale, e dannosa per la salute; nel caso di Porto Tolle, i dati di rilevazione e le epide-miologie mostrano che l’inquinamento e i danni sanitari si estenderebbero per buona parte della Pianura Padana. Una centrale per produrre quell’energia elettrica di cui peraltro non abbiamo bisogno perché, come ho già detto, la potenza installata è quasi doppia rispetto alla domanda di punta. Infatti l’offerta di energia elettrica è passata dai 75 GW del 2000 ai 104 GW del 2010 con una forte crescita delle rinnovabili, mentre le richieste di punta attualmente sono pari a 57 GW. In sostanza abbiamo troppe centrali ed insieme una rete elettrica 14

obsoleta ed inefficiente che nel 2008 ha perso per strada 20.000 GW. Dunque sarebbe necessario investire nelle reti e non sulle centrali. E sulle rinnovabili per sostituire le fonti fossili. Questi argomenti non sono stati tuttavia sufficienti a far scendere in campo il movi-mento Sindacale confederale a fianco del movimento ambientalista perché ENEL agita il ricatto occupazionale in un’area, tra le più svantaggiate del Veneto, chiamata oggi a fare i conti con la crisi della Grimeca, dei cantieri Visentini e di tante altre aziende. Noi siamo consapevoli che la fase di transizione dalle fonti fossili non sarà brevissima e che il movimento sindacale deve necessariamente tener conto di tutte le peculiarità eredi-tate dalla seconda rivoluzione industriale. Non ci sfugge che la gestione della trasformazione energetica e produttiva verso le energie alternative fa i conti con il non sempre facile superamento dell’esistente. E tuttavia ciò non esime nessuno dal considerare i fatti. La riconversione a carbone di Porto Tolle comporta a regime il salvataggio di soli 200 posti di lavoro, poco più, poco meno. Seppure non va sottovalutato che in una fase di transizione di quattro anni, le opere necessarie alla riconversione dell’impianto richiederebbero una consistente ma-nodopera aggiuntiva. L’argomento viene ampiamente utilizzato da Enel e dalle forze politiche e istituzio-nali colonizzate da questa società per allettare i lavoratori disoccupati e in Cassa Inte-grazione e le piccole imprese in crisi desiderose di partecipare agli appalti e subappalti. Si dimenticano però due questioni centrali. La centrale penalizzerebbe il lavoro esisten-te, migliaia di posti di lavoro nei settori della pesca, del turismo, dell’agricoltura, anche a causa dei grandi traffici per il trasporto dei materiali, via mare, canali, lagune, fiume. In sostanza un colpo gravissimo al Parco del Delta del Po, attivo da anni nel lato emi-liano, con notevoli benefici economico-occupazionali e invece mai realmente decollato nel lato Veneto, che rischia ora la sua definitiva cancellazione. Le alternative al carbone non solo esistono, ma produrrebbero un risultato occupazionale incomparabilmente superiore. Che cosa si potrebbe fare con i 2,5 miliardi di euro che l’Enel è disposta a spendere per la riconversione a carbone di Porto Tolle, utilizzandoli invece secondo gli indici di resa occupazionale e ambientale di quel piano Confindustria 2010/2020 che la Marce-galia tiene nel cassetto per non disturbare Enel? Secondo i calcoli di Massimo Scalia si potrebbe attivare un’occupazione 12 volte superiore! e ad una riduzione nelle emissioni di CO2 di 30 milioni di tonnellate!! Uno studio di Greenpeace, dimostra che, oltre ad evitare d’immettere nell’atmosfera circa 12 milioni di tonnellate di CO2 e di altri inquinanti, si potrebbe in alternativa: A. per la fase di costruzione, in confronto ai circa 3.000 posti per soli 4 anni del carbone, in alternativa si potrebbero occupare 3.850 persone per 10 anni nell’eolico onshore; 2.900 nel caso dell’eolico offshore; 3.070 nel FV. Ripeto per 10 anni non per soli quattro anni.

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B. per il funzionamento e la manutenzione degli impianti (occupazione a lungo termine) in confronto al carbone che occuperebbe solo circa 200 addetti, si occupereb-bero 1.000 persone nel caso dell’eolico onshore, 750 con l’eolico offshore, 320 nel caso di investimento nel solare FV, 3.410 attraverso le biomasse. Dunque i posti di lavoro sono sempre maggiori per gli investimenti in fonti rinnovabili. A conferma della convenienza anche solo dal punto di vista occupazionale potrei continuare citando i rapporti del Politecnico di Milano, dell’IRES CGIL, del Consi-glio Nazionale degli ingegneri. Perché allora non si va in questa direzione? Una ragione la ricaviamo dalle dichiarazioni di Assoelettrica. La sfacciataggine di questi oligopolisti è arrivata al punto di affermare che per “ogni 1000 MW di energia rinnovabile che viene ottimizzata i produttori da fonti tradizionali perdono nel loro insieme 100 milioni di margini” (Repubblica 8 ottobre 2011). Ne deriva che le nostre ragionevoli alternative non potranno affermarsi solo invocandole. Come scrive il nostro amico e compagno Mario Agostinelli:«La costruzione di un modello di sviluppo sostenibile supportato dalla fonte solare richiede che si prenda coscienza del fatto che esso non può essere conseguito per opera del mercato e tanto meno per via tecnica, bensì per via politica. Certamente un diverso modello di svi-luppo non può prescindere dalle tecnologie e dalle conoscenze che ne rappresentano la base materiale; tuttavia esse non s’impongono con la forza della necessità o della loro peculiarità o desiderabilità. Per abbandonare e sostituire un sistema energetico con le caratteristiche di quello odierno, occorrerebbe contemporaneamente individuare non solo un’alternativa all’attuale modello di produzione e di consumo e di controllo autoritario delle società, ma anche sostenerla con grande convinzione politica, anche ricorrendo a imponenti ed estese lotte, che non possono prescindere da un impegno diretto del mondo del lavoro».

Noi siamo qui oggi per fare la nostra parte.

Nella pagina di fronte: Paesaggio collinare tra Conegliano e Vittorio Veneto

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PAESAGGIO E CONSUMO DI SUOLO NEL VENETO

Relazione di Sergio Lironi

Distruzione del paesaggio e crisi di un modello insediativo

Vi è chi, prescindendo dagli aspetti estetici e paesaggistici ed evidenziandone so-prattutto gli effetti economici e sociali, ha in anni passati decantato i caratteri fonda-mentalmente positivi del processo di dispersione insediativa, residenziale e produttiva, che ha caratterizzato le trasformazioni territoriali del Veneto negli ultimi decenni. La stretta integrazione tra un contesto rurale in fase di modernizzazione e gli insediamenti della piccola e media industria, peculiare del modello insediativo della nostra regione, fornendo spazi e manodopera a basso costo e consentendo una maggiore ”flessibilità” produttiva rispetto alle grandi concentrazioni industriali del Nord-ovest, sarebbe risul-tata uno dei fattori determinanti per l’affermarsi del tanto celebrato “miracolo econo-mico” del Nordest. Un processo di crescita economica e di sfruttamento intensivo del territorio solo in parte spontaneo, promosso ed incentivato con appositi provvedimen-ti legislativi, da quelli relativi alle cosiddette “aree depresse” a quelli che hanno discipli-nato l’edificazione in aree agricole, e con piani e norme urbanistiche regionali e locali volutamente permissivi. Un processo di “nebulizzazione insediativa” che ha interessato soprattutto l’area centrale del Veneto, comprendente tutta la provincia di Treviso ed

una parte consistente delle province di Venezia, Padova e Vicenza, dove la densità abi-tativa è più che doppia rispetto alla media regionale, mentre preoccupanti fenomeni di abbandono si sono manifestati in altre parti del territorio regionale. Numerose sono state le voci critiche - soprattutto di esponenti del mondo della cultura, di scrittori e poeti quali Eugenio Turri, Mario Rigoni Stern ed Andrea Zanzotto - nei confronti di questa incontenibile crescita esponenziale delle infrastrutture viarie e delle urbanizzazioni, una crescita del tutto indifferente alla storia, alla natura dei luoghi ed ai valori del paesaggio veneto, ma è solo a partire dalla fine degli anni Novanta che anche nelle forze politiche e nelle classi dirigenti locali è sembrata emergere la con-sapevolezza dell’insostenibilità non solo ambientale ma anche economica e sociale di questo modello di sviluppo. L’edilizia è stata uno dei settori trainanti dell’economia veneta, ma anche in questo settore sempre più dominanti sono oggi la rendita parassitaria ed i processi di finanzia-rizzazione: gli investimenti delle società immobiliari, più che rispondere ad un fabbi-sogno reale ed anziché puntare sull’innovazione progettuale, sembrano principalmente rispondere alle logiche della speculazione fondiaria, appropriandosi del differenziale di valore generato dai cambiamenti di destinazione d’uso consentiti dai piani urbanistici o dagli accordi di programma con le pubbliche amministrazioni. Operazioni immo-biliari che attraggono grandi quantità di capitali, che diversamente potrebbero essere investiti in settori economici più innovativi e competitivi. La dispersione insediativa e la conseguente congestione delle infrastrutture della mobilità generano costi crescenti per la collettività (adeguamento delle reti viabilisti-che, servizi, disinquinamento ambientale, danni alla salute, ...) e per le stesse industrie per l’approvvigionamento delle materie prime e la distribuzione e commercializzazione dei prodotti, in una fase storica in cui giustamente la Comunità europea ed il mercato tendono sempre più a richiedere certificazioni di qualità e sostenibilità ecologica riferi-te non solo al prodotto bensì anche a tutto il ciclo produttivo. Va infine sottolineato come la cementificazione dei suoli abbia in particolare riguar-dato i terreni più fertili della pianura veneta, mentre la costruzione di sempre nuove strade, autostrade, superstrade, svincoli e tangenziali ha determinato una devastante frammentazione degli spazi destinati all’agricoltura e quindi la crisi di un settore che potrebbe tornare ad essere vitale per la ripresa economica del nostro paese.

La nuova legge urbanistica regionale e le trasformazioni in atto

Anche la terra è una risorsa limitata, un prezioso bene comune che non può essere dilapidato e degradato con un indiscriminato sviluppo di attività economiche del tutto incompatibili. Di questo sembrava essersi accorto agli inizi degli anni Duemila lo stesso Consiglio regionale veneto con l’approvazione della legge 11/2004 per il governo del territorio. La nuova legge urbanistica dichiara infatti di volersi ispirare ai principi dello

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sviluppo sostenibile, della partecipazione, della tutela del paesaggio e delle identità sto-rico-culturali. Ma cos’è in realtà avvenuto negli anni 2000 nel Veneto e come sono stati recepiti i principi dello sviluppo sostenibile nei piani territoriali ed urbanistici degli ultimi anni? Il primo effetto della legge, grazie alle proroghe concesse, fu la corsa dei Comu-ni alle Varianti di piano per aumentare le superfici e le volumetrie edificabili: nel solo 2005 vennero adottate e presentate alla Regione 1.276 Varianti generali o settoriali predisposte secondo la vecchia normativa (con un incremento del 220% rispetto alla media delle Varianti presentate negli anni precedenti) e di queste ben 241 su iniziativa dei privati (PIRUEA). Tra il 2002 ed il 2010 si sono realizzati oltre 164 milioni di mc di edifici commercia-li, industriali e direzionali pur con una diffusa presenza in tutti i comuni di capannoni ed edifici abbandonati e da anni inutilmente offerti in vendita o in affitto. Tra il 2000 ed il 2010 si sono ultimate 367.354 nuove abitazioni per una volume-tria complessiva di oltre 148 milioni di mc. Un’offerta di edilizia abitativa teoricamente sufficiente (utilizzando lo standard ottimale indicato dalla Regione di 150 mc/abitan-te) per una popolazione di quasi un milione di abitanti: più del doppio dell’incremento effettivo di popolazione registrato negli anni 2000, pari a 429.274 abitanti (incremen-to in larga misura dovuto alla nuova immigrazione). La continua crescita della rendita fondiaria e gli enormi profitti derivanti dal cambiamento di destinazione d’uso dei ter-reni, trasformando l’edilizia in un bene rifugio alternativo agli investimenti in borsa o nel settore industriale, hanno fatto sì che si sia costruito troppo rispetto alla domanda, ma soprattutto che si sia costruito male, disperdendo le iniziative nel territorio e realiz-zando tipologie edilizie di lusso, certo non rispondenti alla domanda prevalentemente costituita da giovani, anziani, lavoratori precari e immigrati. La regione calcola che tra il 1983 ed il 2006 il suolo urbanizzato sia stato pari a 29.059 ettari, ma i dati relativi alla perdita di terreni agricoli sono enormemente supe-riori. Tra il 1982 ed il 2010 la superficie agraria totale (SAT) nel Veneto è diminuita di 298.845 ettari, mentre la superficie agraria utilizzata (SAU) è diminuita di 107.698 ettari. Ancor più impressionante è esaminare l’andamento della perdita annua di suolo agricolo. Se negli anni Ottanta si registrava annualmente una diminuzione di 72 milio-ni di mq all’anno di SAT, negli anni Novanta la media è salita a 97 milioni di mq/anno, per poi raddoppiarsi negli anni 2000 raggiungendo la cifra record di 182 milioni di mq/anno.

Piani e programmi della Regione

Questa la realtà dei fatti. A fronte di tutto ciò quali sono gli indirizzi e gli strumenti operativi posti in campo dal nuovo Piano Territoriale Regionale di Coordinamento? Una gran mole di documenti di analisi e di dichiarazioni di principio, a cui però non

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corrisponde alcuna prescrizione e norma cogente. La voluta genericità della normativa tecnica, la successiva adozione da parte della Regione dell’impropriamente detto “Pia-no casa”, con cui si legittimano ampliamenti edilizi e ricostruzioni di edifici al di fuori di ogni regola edilizia, e nel contempo l’assenza di un progetto strategico per l’edilizia residenziale pubblica, le nuove norme sull’edilizia rurale, l’esclusione nei Piani inter-comunali (PATI) dei tematismi relativi all’agricoltura ed all’edilizia residenziale, inco-raggiano di fatto la prosecuzione delle politiche di indiscriminata cementificazione del territorio. Per le zone produttive e commerciali il PTRC fornisce solo alcune generi-che indicazioni di principio, che non hanno in alcun modo condizionato i PAT ed i PATI adottati dai Comuni negli anni successivi, con i quali si è in generale confermata la volontà di continuare a consentire il proliferare di detti insediamenti al di fuori di ogni schema razionale. Nei territori extraurbani vengono identificate quattro categorie di aree rurali, ma anche in questo caso non si individuano gli strumenti operativi per incentivarne la salvaguardia e la progressiva riconversione verso produzioni di qualità, ambientalmente sostenibili, e per tutelare e valorizzare il carattere identitario dei luo-ghi. L’unico settore in cui il PTRC fornisce precisi indirizzi d’intervento è quello relati-vo alla grande viabilità. Un diluvio di nuove infrastrutture stradali e autostradali, i cui svincoli offrono l’occasione per immaginare, con l’adozione di appositi “progetti strate-gici regionali”, nuovi mega centri commerciali e nuove polarità insediative extraurbane, in deroga ad ogni norma urbanistica e ad ogni limite sul consumo di suolo per un raggio di due chilometri attorno ai caselli. Secondo Paolo Feltrin, uno degli ideologi del pia-no, questi nuovi insediamenti extraurbani dovrebbero divenire i nuovi “iconemi” della città diffusa, contenitori metropolitani nei quali far convivere “... grandi mall terziari, strutture sanitarie, auditorium, centri congressi, complessi commerciali e direzionali, aree produttive, centri logistici e simili”. Una indicazione che sembra voler giustificare e nobilitare i molti progetti di cementificazione dei suoli agricoli promossi in questi anni da Regione e Comuni: da Veneto City tra Dolo e Mirano, a Tessera City nei pressi del-l’aeroporto di Venezia, a Motorcity nel veronese. Sempre secondo Feltrin, il Passante di Mestre ed il Grande Raccordo Anulare previsto a Padova (GRAP) dovrebbero offrire l’occasione per nuove densificazioni urbane: il Passante di Mestre, in particolare, “po-trebbe essere interpretato come una nuova, più ampia cinta muraria, il nuovo confine di una diversa città con ambizioni di capitale regionale”. Tra gli aspetti più negativi del PTRC veneto va poi sottolineato il fatto che non gli è stata attribuita valenza paesaggistica. Al piano è stato allegato un Atlante ricogni-tivo degli ambiti di paesaggio, contenente valutazioni sulle caratteristiche ambientali, storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi nonché suggerimenti ed orientamenti per i programmi d’intervento, ma dette linee di indirizzo non si sono tradotte in norme di salvaguardia e prescrizioni cogenti per gli altri strumenti della pianificazione territoria-le e urbanistica, così come richiederebbe il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. 20

Nuovi paradigmi di gestione dell’economia e del territorio

E’ difficile immaginare che dalla crisi strutturale attraversata dal nostro paese e dal Veneto in particolare si possa uscire riproponendo politiche e strategie degli anni pas-sati, ovvero un modello di crescita economica fondato su di un illimitato consumo di risorse ambientali ed energetiche, sulla distruzione dei beni comuni, sulla privatizzazio-ne dei guadagni e sulla socializzazione delle perdite. Occorre progettare e lavorare per un diverso modello di gestione dell’economia e del territorio, prendendo coscienza del fatto che il suolo è una risorsa finita, che i nuovi scenari delle relazioni internazionali - oltre che ragioni di equità sociale - ci impongono una drastica riduzione della nostra “impronta ecologica”, che le attività manifatturiere per reggere la competitività devono innescare processi di aggregazione e devono certificare l’ecosostenibilità del loro ciclo produttivo ed infine che la valorizzazione e la riqualificazione del paesaggio e delle ri-sorse ambientali possono essere alla base di nuove attività economiche autosostenibili. Ma concretamente per quali riforme legislative e per quali scenari di trasformazione territoriale dobbiamo batterci? Una riforma legislativa fondamentale dovrebbe, a mio avviso, riguardare il sistema fiscale. Criterio essenziale della riforma dovrebbe non solo essere quello della diminu-zione delle diseguaglianze e della redistribuzione della ricchezza (condizione necessaria per ricreare una adeguata domanda interna e per superare l’attuale crisi da sovrappro-duzione), ma anche quello di far pagare alle imprese ed a chi opera nel territorio i costi ambientali con una tassazione crescente in relazione al consumo di suolo (ed in parti-colare dei suoli più fertili), al consumo di energia proveniente da fonti non rinnovabili (carbon tax), all’inquinamento indotto ed alle emissioni di gas climalteranti.

Sempre a livello nazionale va rivendicata l’istituzione di un Osservatorio sul consumo di suolo e l’approvazione di una legge che ponga precisi limiti alle espansioni urbane, reintroducendo altresì l’obbligo di utilizzare gli oneri di urbanizzazione versati ai Co-muni esclusivamente per servizi ed opere di riqualificazione ambientale, anziché per la spesa corrente degli enti locali. Normative tecniche regionali e comunali, che già oggi nel Veneto prevedono un limite quantitativo alla trasformazione d’uso dei suoli agrari utilizzati (SAU), do-vrebbero estendere tale limite a tutte le superfici agrarie (SAT) e dovrebbero imporre che per il rispetto di tale limite si proceda alla revisione ed al ridimensionamento delle previsioni espansive già inserite nei PRG vigenti (mentre nell’interpretazione corrente il limite SAU viene utilizzato solo per le nuove espansioni previste dai PAT e dai PATI aggiuntive rispetto a quelle dei PRG). Va inoltre cancellata la norma che consente di derogare in toto dall’applicazione di detti limiti nel caso di progetti speciali di interesse regionale, quali quelli relativi alle aree limitrofe ai caselli autostradali per un raggio di due chilometri.

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La pianificazione territoriale ed urbanistica incide profondamente sul livello dei consumi energetici e sul livello delle emissioni climalteranti e deve quindi confrontarsi con gli impegni assunti dal nostro paese a livello di comunità europea su questo fronte (il famoso 20-20-20 programmato per il 2020). La Valutazione Ambientale Strategica (VAS) che accompagna i diversi piani dovrebbe quindi obbligatoriamente contenere un bilancio delle emissioni conseguenti all’attuazione del piano (nuove strade, incre-mento del traffico veicolare, nuovi insediamenti, ...) e precise prescrizioni per l’attuazio-ne delle misure tendenti a contrastare dette emissioni (rete dei trasporti collettivi, fo-restazione, agricoltura biologica, norme per l’edilizia ecosostenibile, ...). E’ significativo che nei casi in cui - su sollecitazione delle organizzazioni ambientaliste - detto calcolo è stato effettuato i numeri hanno clamorosamente smentito le dichiarazioni di soste-nibilità di norma contenute in tutte le relazioni di piano: nel caso del PATI dell’area metropolitana Padova è ad esempio risultato che nel prossimo decennio l’incremento del traffico favorito dalle nuove strutture viabilistiche produrrà un aumento del 40% delle emissioni di gas climalteranti ed un aumento del 19% delle polveri sottili, mentre un ulteriore aumento del 23% delle emissioni sarà causato dai nuovi insediamenti com-merciali e produttivi previsti diffusamente in tutti i comuni. Va infine richiesto che le norme tecniche dei PAT e dei PATI impongano per tut-ti i Piani urbanistici attuativi relativi ad insediamenti produttivi e commerciali, così come per le nuove infrastrutture viarie, il calcolo delle emissioni climalteranti prodotte e l’obbligo di misure mitigative e compensative (riduzione dei consumi energetici ed utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, sistemazione a verde degli spazi aperti e delle coperture, versamento alle casse comunali di contributi economici vincolati all’imple-mentazione delle reti ecologiche, ...) da porre a carico dei soggetti attuatori.

Pianificazione d’area vasta e modelli insediativi

Alla rivendicazione delle riforme legislative e normative indicate va affiancata una più generale battaglia culturale per modificare i contenuti dei piani ed i modelli inse-diativi oggi prevalenti. Gli aspetti paesaggistici e le problematiche ambientali, connesse alla chiusura dei fondamentali cicli ecologici, ai flussi di materie prime e di energia, all’approvvigionamento alimentare, alla gestione dei rifiuti, alla messa in sicurezza del territorio, all’organizzazione dei trasporti collettivi, alla formazione delle infrastrutture verdi, richiedono un disegno unitario del territorio a scala regionale ed una pianifi-cazione d’aria vasta, superando il particolarismo ed il localismo che per molti aspetti contraddistinguono la società veneta. Molto schematicamente riteniamo che alcuni punti fermi di questo disegno unita-rio debbano essere: 1. L’adozione di un modello di riaggregazione policentrica degli insediamenti pro-duttivi e residenziali, fondato sulla riqualificazione urbana, la bonifica e la rigenerazio-

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ne con nuove funzioni delle aree industriali dismesse (basti pensare a Porto Marghera ed alla miriade di siti industriali disseminati nella pianura veneta) ed il recupero edilizio dei centri esistenti, da collegarsi con una efficiente rete di trasporti collettivi (SFMR e metropolitane di superficie). Individuate le polarità del sistema, nelle quali concentrate i servizi e le attività essenziali atte a garantire una pluralità di funzioni ed uno standard elevato di qualità urbana (effetto città), nessuna nuova espansione dovrà essere consenti-ta se prima non verranno effettuate una realistica quantificazione del fabbisogno ed una attenta ricognizione degli spazi e degli immobili abbandonati o sottoutilizzati. 2. La ricostruzione dei margini urbani, con la formazione di estese “cinture verdi” costituite da aree di valore naturalistico e da parchi agricoli multifunzionali. In molte nazioni europee è questa la soluzione adottata per porre un limite all’espansione ur-bana. Non un vincolo passivo facilmente aggirabile con l’adozione di nuove varianti urbanistiche, bensì un vincolo attivo generato dalla costruzione e gestione di progetti finalizzati alla valorizzazione delle attività agricole periurbane (orticoltura, prodotti tipici, prodotti biologici e di qualità, ...) in stretta connessione con attività integrative quali l’agriturismo e le fattorie didattiche e con nuove forme di commercializzazione (agricoltura a chilometro zero, mercati rionali, mense scolastiche ed aziendali, ...). 3. Il potenziamento e la valorizzazione delle infrastrutture verdi e della biodiver-sità, ovvero dei parchi e delle riserve naturali, delle reti ecologiche e dei corsi d’acqua, a cui va affiancato un più generale progetto di riconversione ecologica delle pratiche agricole, che attualmente troppo spesso si caratterizza per una tendenza all’industria-lizzazione ed alla monocoltura con effetti devastanti per il paesaggio e per l’ambiente (inquinamento dei suoli e delle falde, eliminazione di siepi e zone alberate, riduzione della fertilità naturale, ecc.). D’altra parte il tema dei fiumi e dei bacini idrografici, in una regione quale quella veneta, oltre ad essere strettamente connesso alle problemati-che delle reti ecologiche, risulta fondamentale per la messa in sicurezza del territorio. Da troppo tempo ormai è carente una seria azione di governo su questo fronte e con sempre più frequenza si verificano eventi alluvionali di disastrosa entità. 4. Gli investimenti per la messa in sicurezza del territorio (tra i quali dovrebbero essere inserite opere strategiche quali l’idrovia Padova-Mare) potrebbero avere impor-tanti riflessi per la ripresa economica e l’occupazione soprattutto se riguarderanno non solo la realizzazione di opere ingegneristiche, ma anche la promozione di programmi di più ampio respiro di riqualificazione ambientale, di salvaguardia e valorizzazione delle aree con valenza naturalistica e di trasformazione delle colture agricole. L’agri-coltura, dopo decenni nei quali nel nostro paese è stata considerata quasi un’attività residuale, sta tornando oggi di attualità quale potenziale settore strategico per l’eco-nomia nazionale. Un ritorno alla coltivazione dei campi che deve significare anche su-peramento dell’agricoltura industriale, che con i suoi pesticidi e fertilizzanti derivati dal petrolio - come sostiene Carlo Petrini - è una «dichiarazione di guerra alla terra». Una nuova agricoltura che si basi sulla biodiversità e che faccia parte integrante di una

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rete di economie locali, saltando la maggior parte delle intermediazioni distributive. Un’agricoltura che, fondandosi su un’alleanza tra uomo e natura, sia in grado di ridar vita a paesaggi di elevato valore estetico.

Piano paesaggistico, programmi di settore e nuove economie

Quelli qui richiamati, ovviamente, sono solo alcuni auspicabili indirizzi di fondo per il superamento delle logiche del laissez faire e di uno sviluppo economico oggi uni-camente regolato dalle logiche del mercato. Indirizzi finalizzati all’attivazione di reali politiche di governo del territorio in grado di integrare la pianificazione urbanistica e le scelte localizzative con i programmi di settore riguardanti il sostegno allo sviluppo agricolo, alle attività produttive e all’occupazione, il risparmio e l’approvvigionamento energetico, i trasporti e la mobilità delle persone, la gestione dei parchi e delle riserve naturali, la valorizzazione del patrimonio storico-culturale, le incentivazioni al turismo ecosostenibile, la riqualificazione urbana, l’edilizia sociale e la bioarchitettura, i prov-vedimenti antinquinamento e per la riduzione delle emissioni climalteranti, la gestione dei rifiuti... Su molti di questi fronti forze politiche di sinistra e associazioni ambien-taliste hanno sviluppato in questi anni importanti battaglie, coinvolgendo cittadini ed opinione pubblica ed ottenendo talvolta qualche significativo successo. Ciò che forse è però sino ad oggi mancato è la costruzione di una visione d’insieme in grado di connet-tere rivendicazioni ed obiettivi settoriali in un coerente disegno strategico, un disegno che va costruito con la partecipazione diretta dei cittadini. Per quanto possa apparire uno strumento di pianificazione riservato a specialisti ed addetti ai lavori, ritengo che un’utile occasione per lavorare in questa direzione può attualmente esserci fornita dall’elaborazione del Piano paesaggistico regionale, che - come in altri contesti si è dimostrato - può divenire, se correttamente impostato, un ef-ficace strumento di indirizzo per più generali politiche di riconversione delle economie locali secondo criteri di sostenibilità ambientale ed equità sociale. Ho già in precedenza osservato come, contrariamente a quanto avvenuto in altre regioni ed invertendo le priorità, la Regione Veneto abbia in prima istanza adottato nel febbraio 2009 un Piano territoriale Regionale di Coordinamento privo di prescrizioni e norme cogenti, rinviando ad una fase successiva l’adozione del Piano Paesaggistico, che, secondo quanto previsto dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e dalla Con-venzione Europea del Paesaggio, deve definire regole certe, parametri vincolanti, meto-dologie di salvaguardia e criteri di gestione non solo dei beni paesaggistici già ricono-sciuti e vincolati, ma anche per la riqualificazione degli insediamenti urbani degradati e per la cura dei contesti agricoli. Indirizzi e prescrizioni che il Codice precisa debbano risultare vincolanti ed immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi dei piani territoriali ed urbanistici e dei programmi di settore. Sono passati più di due anni dalla sottoscrizione del Protocollo d’intesa tra Regione

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e Ministero per i Beni e le Attività Culturali (15 luglio 2009) finalizzato alla redazione del Piano paesaggistico, ma gli studi relativi sono ancora in alto mare. L’apposito Co-mitato Tecnico, a cui partecipano funzionari della Regione e del Ministero, si è riunito saltuariamente con cadenza trimestrale, mentre i gruppi di lavoro attivati dalla Direzio-ne regionale del MiBAC e dalle Soprintendenze, a quanto si è potuto sapere nei pochi incontri pubblici organizzati o dalla lettura delle scarne notizie riportate nel sito web della Regione, si sono quasi esclusivamente occupati del censimento e della mappatura dei vincoli paesaggistici esistenti e della delimitazione e rappresentazione dei beni in-dicati dall’articolo 142 del Codice (parchi e riserve naturali, montagne, litorali, corsi d’acqua, boschi, zone d’interesse archeologico, ...). Quasi nulla si è d’altra parte fatto per una reale costruzione sociale del piano, in evidente contrasto con quanto indicato dalla Convenzione Europea che, estendendo il concetto di paesaggio a tutte le parti del territorio così come percepite dalle popolazioni, esplicitamente richiede l’attivazione di procedure di partecipazione degli abitanti nelle definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche. Un obbligo ribadito anche dal Codice dei Beni Culturali.

Come coniugare il paesaggio ad un modello di sviluppo autosostenibile

Occorre dunque rivendicare un radicale cambiamento degli indirizzi e delle mo-dalità di lavoro sin qui seguiti dalla Regione Veneto nell’elaborazione del Piano paesag-gistico, così come una decisa accelerazione dei tempi per impedire che nel frattempo si continui nella sistematica devastazione del territorio che per molti decenni ha caratte-rizzato il nostro modello di sviluppo. Un positivo esempio di un diverso modo di procedere ci viene dalla Regione Puglia. In questo caso la volontà dichiarata della Giunta regionale è stata quella di assumere «... la tutela, messa in valore e riqualificazione del paesaggio come condizione per promuovere uno sviluppo autosostenibile e durevole, in antitesi con la consueta integrazione ex post dei valori paesaggistici nel governo del territorio». Dunque un Piano paesaggistico che assume anche una valenza urbanistico-territoriale (e non viceversa): un piano a cui ogni altra pianificazione deve essere subordinata. Il Piano paesaggistico della Puglia delinea quindi alcuni scenari strategici, essenziali non solo per salvaguardare il paesaggio, ma anche per avviare una ripresa economica secondo modelli alternativi (sistemi produttivi a base locale) a quelli del passato. Tra questi: la definizione di un nuovo patto tra città e campagna, finalizzato ad elevare la qualità del vivere e dell’abitare sia nei contesti urbani che nei territori agricoli; la costruzione di una rete ecologica quale sistema di invarianti ambientali; la valorizza-zione integrata dei paesaggi costieri (waterfront urbani, sistemi dunali, zone umide, agricoltura) e dei beni culturali e paesaggistici delle zone interne (organizzati in sistemi territoriali) con la promozione di un turismo eco-sostenibile e con progetti di ospitalità diffusa; la formazione di un sistema infrastrutturale per la “mobilità dolce”, fondata sui

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trasporti collettivi terrestri e marittimi e la realizzazione di una fitta rete di percorsi ciclo-pedonali. Uno degli aspetti più interessanti riguarda riguarda poi le modalità seguite per la costruzione del piano ed il ruolo fondamentale attribuito alla partecipazione dei cit-tadini e dei “portatori di interesse”. I principali strumenti di partecipazione sono state le Conferenze d’area, l’elaborazione delle “Mappe di comunità” e l’attivazione di un sito web interattivo, nonché la previsione di processi innovativi di governance quali i “Con-tratti di fiume”, i Progetti integrati di paesaggio e gli accordi di programma. Già in fase di costruzione del quadro conoscitivo si è promossa la formazione via internet di un ”Atlante delle segnalazioni”, raccogliendo le segnalazioni di abitanti ed associazioni (con relative dettagliate schede descrittive) in relazione a quattro temati-che: beni paesaggistici ritenuti meritevoli di tutela; offese al paesaggio; buone pratiche paesaggistiche (in relazione in particolare alla gestione delle attività agricole e delle risorse naturalistiche ed ambientali, all’offerta agrituristica, alla riqualificazione urbana ed all’inserimento ambientale di nuove infrastrutture); cattive pratiche paesaggistiche. In diversi contesti territoriali, con l’istituzione di appositi laboratori di progetta-zione partecipata, sono state costruite le cosiddette “Mappe di comunità” finalizzate a promuovere il ruolo degli abitanti nella rappresentazione del proprio territorio, degli spazi maggiormente vissuti, delle tradizioni e dei valori paesaggistici e culturali social-mente riconosciuti. Mappe realizzate dagli abitanti con l’aiuto di facilitatori, artisti e storici locali e che sono alla base dell’individuazione degli obiettivi di qualità paesag-gistica, di valorizzazione dei beni culturali e naturali e di costruzione degli scenari di trasformazione. Un ultimo accenno merita il tema dei “Contratti di fiume”, non vi è dubbio infatti che gli interventi finalizzati alla sicurezza idraulica ed alla riqualificazione funzionale ed ambientale dei bacini idrografici possono svolgere un ruolo essenziale per la realiz-zazione di più generali progetti di riequilibrio degli assetti territoriali e di salvaguardia e/o formazione di nuovi paesaggi. I “Contratti di fiume”, proposti già nel 2000 dal World Water Forum, prevedono forme di accordo tra pubbliche amministrazioni, as-sociazioni ambientaliste e di categoria, nonché soggetti privati direttamente interessati, che permettano di «adottare un sistema di regole in cui i criteri di pubblica utilità, rendimento economico, valore sociale, sostenibilità ambientale intervengono in modo paritario nella ricerca di soluzioni efficaci per la riqualificazione di un bacino fluviale». Forme di accordo in grado di stimolare la progettualità territoriale dal basso, coinvol-gendo le comunità nella valorizzazione del proprio territorio.

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TASCHE PIENE E TERRITORIO BUCATONei buchi delle cave prolifera la rendita fondiaria e precipita la pianificazione pubblica

Relazione di Luca De Marco

Quando si parla di consumo del territorio siamo soliti riferirci alla continua ed ec-cessiva espansione cementizia sugli spazi ancora liberi. Ma c’è un modo di consumare il territorio ancora più sciocco e altrettanto definitivo, che è quello di farlo sparire, vendendolo dopo aver scavato. È il tema delle cave. Il Veneto è la Regione che il mag-gior numero di cave attive in Italia. La provincia di Treviso in primis, è quella che ha fornito negli ultimi anni quasi il 60% della ghiaia estratta in regione. Ma tocca anche il veronese, il vicentino e le altre province. In Italia la regolamentazione delle attività di cava è particolarmente carente. Bisogna risalire al Regno d’Italia per trovare una normativa nazionale in materia (Regio Decreto 1443 del 1927). La legge sulla materia e stata poi dalla Repubblica affidata alle Regioni (DPR 616/78). E in questo quadro il Veneto ha un primato negativo. È infatti l’unica tra le regioni del centro nord che non è dotata di un piano regionale di escavazione. Tra le regioni del sud (isole escluse) c’è invece il primato positivo della Puglia che è l’unica ad averlo. Il piano per le attività di cava (PRAC) doveva esser fatto secondo quanto previsto dalla legge regionale sulle attività di escavazione, che risale al 1982 (L.R. 44). Sono passati ben tre decenni e ancora il PRAC non ha visto la luce. Secondo la legge dell’82 le autorizzazioni a scavare le concede la provincia, però solo dopo l’approvazio-ne del PRAC. Dunque vige da trent’anni in Veneto un regime transitorio nel quale le autorizzazioni vengono date dalla Regione senza alcuna pianificazione, attenendosi al solo criterio fissato dalla legge: non è scavabile più del 3% in caso di sabbie e ghiaie, e del 5% in caso di argille, rispetto alla superficie agricola dei comuni identificati come scavabili. Nelle altre regioni l’autorizzazione a cavare viene data perlopiù dal comune, oppure dalla provincia. È noto come la lobbie dei cavatori sia particolarmente attiva e influente, e come il meccanismo autorizzativo in mano alla Regione si sia prestato a pesanti ombre di illegalità. Il capo dell’ufficio geologia della Regione, Michele Ginevra, venne arrestato nel 2002 con 17.000 euro in tasca in un ristorante di Pieve di Soligo, ospite di un ca-vatore. Disse che si trattava di una delle tante, cospicue gratifiche che da un decennio riceveva da alcuni cavatori per agevolare le autorizzazioni. Il processo iniziò solo anni dopo, quando il funzionario era già deceduto, ma restavano i verbali della confessione. In primo grado gli imputati furono condannati a parecchi anni di reclusione e a pene

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pecuniarie, nel 2010 furono invece assolti in appello. In ogni caso, la vicenda dimostra come la centralizzazione regionale ben si presti a creare zone di opacità nell’attività amministrativa. È dunque urgente che si approvi il PRAC, e di conseguenza il potere di autorizzazione passi alle province, più vicine ai comuni e con apparati amministrativi molto più ridotti e più facilmente controllabili. In Consiglio Regionale ci fu un tentativo di coinvolgere le province nelle autoriz-zazioni. Nella finanziaria del 2004 si stabilì che il parere della Provincia diventasse da consultivo a vincolante. Il meccanismo è stato però aggirato attraverso la valutazione di impatto ambientale, di competenza regionale, e dunque di fatto resta tutto in capo alla Regione tranne qualche ampliamento.

L’escavazione al centro della rendita fondiaria La questione delle cave non è solo un capitolo a se stante del consumo di territorio ma, perlomeno in provincia di Treviso, si è andata intrecciando con tuti gli aspetti del “saccheggio” del Veneto. Per citare casi concreti, anni fa nel comune di Nervesa della Battaglia viene avanzata la proposta di un PIRUEA su un’area, quella della frazione di Bidasio, martoriata dalle cave. La trovata geniale è quella di proporre come riqualificazione ambientale la crea-zione di un laghetto naturalistico, da realizzare attraverso la escavazione del terreno agricolo contiguo alle cave in essere: in pratica, una estensione del 25% delle cave pre-senti nell’area. La furbata viene bocciata sia dal Tar che dal Consiglio di Stato. Oggi i PIRUEA sono stati archiviati, ma sussistono altri meccanismi derogatori. Uno di questi è l’accordo di programma ex art. 32 della legge 35/2001. Si tratta di un accor-do, sia urbanistico che di altro tipo, che per finalità di interesse pubblico consente di de-rogare a tutto quanto e diventa operativo con un decreto del presidente della Regione. In questo modo a Colle Umberto si tenta di recuperare un altro PIRUEA bocciato da TAR e Consiglio di Stato, per consentire la costruzione di un centro commerciale dove un tempo sorgeva una scuola superiore per l’agricoltura. In questo modo Ikea vuole far passare la trasformazione di un’area agricola di 400.000 mq nel comune di Casale sul Sile da agricola a edificabile, per la creazione di un enorme polo commerciale dove il negozio Ikea sarebbe solo una parte dell’intervento. Ed è sempre attraverso un accordo di programma che a Vedelago i cavatori propon-gono una operazione gigantesca nella frazione di Barcon: aggiungere un casello alla costruenda Pedemontana, che sia di servizio alle cave della Zona (Vedelago è il comu-ne dal quale più si estrae in Provincia di Treviso), con la viabilità di collegamento alle cave, e in cambio trasformare quasi 90 ettari (893.023 mq, 125 campi di calcio) di area agricola in area industriale e commerciale. Una parte del terreno agricolo verrebbe uti-lizzata per insediarvi uno stabilimento per la produzione del latte, per la macellazione e la lavorazione dei derivati, e accanto una specie di enorme supermercato per prodotti a km zero. Un’altra parte verrebbe occupato da una cartiera, che si svilupperebbe su due 28

piani, uno dei quali interrato, e per far questo, ovviamente, bisogna scavare. L’estratto calcolato è poco meno di 2 milioni di metri cubi, praticamente una cava. Anche a Santa Lucia di Piave sull’A27, tra Conegliano e Treviso, si vuol fare un nuovo casello utile ai cavatori. Lo svincolo e la nuova viabilità cancellerebbe vigneti di pregio, alcuni con l’impianto a belussera. Il casello sarebbe collocato in una zona densamente popolata di cave, alle quali offrirebbe un ingresso quasi diretto in autostrada. Allora, ricapitolando: in una sostanziale deregulation, la questione dell’escavazione si infila nei meccanismi dell’urbanistica concordata, si intreccia con la questione delle infrastrutture, con un certo tipo di agricoltura intensiva, con l’assetto idrogeologico. Come una sorta di moltiplicatore del danno al territorio, un sistema semplice e veloce di incamerare denaro. È uno degli aspetti della rendita fondiaria. Quella che una politi-ca di sinistra deve puntare a ridimensionare perché drena risorse al circuito produttivo e concentra la ricchezza dove già c’è, alimentando l’ingiustizia sociale.

I Prac peggiorativi, la legge inesistente e la Regione assente Il PRAC, previsto dalla legge del 1982, viene adottato dalla Giunta Regionale nell’ot-tobre del 2003 e comunicato agli Enti Locali per la raccolta delle osservazioni. Il piano prevede un fabbisogno di materiale da cava esagerato, 17.250.000 metri cubi di sabbia e ghiaia, dei quali il 50% da estrarre in provincia di Treviso, il 30% in provincia di Verona, il 17% a Vicenza e il 3% a Padova. La proposta incontra un mare di contrarietà. Il piano prevede di scavare oltre i limiti del 3 e del 5% fissati dalla legge vigente. A Paese, dove insistono ben 29 cave, si amplia la possibilità di scavare. A Montebelluna, dove si è già superato il 3% del territorio agricolo, si potrebbe ora raggiungere l’8%. Quindi, assieme al PRAC viene presentato dalla Giunta Galan un disegno di legge per modificare la legge sull’escavazione. In pratica, il PRAC presentato non si fonda sulla legge vigente ma sulla nuova legge ancora da approvare. Oltre a confermare gli ambiti estrattivi già in essere, il piano aggiunge altre aree come scavabili. È il caso della zona del Borgo Malanotte, a Vazzola. Un’area di pregio natu-ralistico e agricolo per la coltivazione del raboso, unico vitigno autoctono trevigiano, e di valore storico culturale per la conservazione dell’antico borgo rurale. Nel 2008 un privato, che possiede i terreni in quell’area e che è il presidente dei cavatori di Con-findustria, “offre” al Comune e al Consorzio di Bonifica Piave di costruire delle casse di espansione, su un’area di 50 ettari, per la laminazione delle piene del Piave e come serbatoio per l’irrigazione. A giugno questo imprenditore invia una lettera agli enti in-teressati per sostenere il proprio progetto, ventilando la chiusura delle propria aziende e la conseguente perdita di occupazione se non arriverà la luce verde dalle istituzioni. Il Consiglio Comunale, con qualche difficoltà dentro la maggioranza leghista, esprime un voto contrario. La palla passa alla Regione. Tornando al PRAC, nel 2008 la giunta adotta un nuovo piano modificato: il nuovo fabbisogno stimato scende a 13.650 metri cubi, dei quali la metà in capo alla provincia

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trevigiana. Neanche questo arriverà mai all’approvazione, che spetta al Consiglio Re-gionale. Abbiamo visto come la Regione utilizzi il regime transitorio per non cedere potere alle province. Nell’urbanistica, questo meccanismo le ha consentito di tirare avanti 25 anni, e di avviare solo nel 2011 il trasferimento delle competenze alle province. E sa-rebbe superfluo qui ricordare come la gestione dell’urbanistica da parte regionale abbia consentito la ipertrofia costruttiva e la offesa continua al territorio e al paesaggio veneto che è ormai oggetto diffuso di una nuova consapevolezza. Basti dire che il Documento Programmatico Preliminare della prima Giunta Regionale, nel 1972 si esprimeva con preoccupazione: “Di fronte alla massiccia occupazione territoriale da parte degli insedia-menti (occupazione che procede con un ritmo che in pianura entro pochi decenni potrebbe partire ad un integrale ed irrazionale consumo del territorio) questa azione di salvaguar-dia dovrà tendere al recupero ed alla riutilizzazione, sempre con forme e modi appropriati, del patrimonio di edifici e di manufatti attualmente esistente”. Questa consapevolezza non pare aver evitato le conseguenze peggiori già preconizzate allora. Del resto, già 10 anni prima il poeta Andrea Zanzotto, in un articolo per la rivista della Provincia di Treviso del ‘62, indicava le conseguenze dello sviluppo caotico di quegli anni “nella proliferazione casuale e mostruosa delle città, nella devastazione della campagna che sta coprendosi di un caotico e sfilacciato tessuto urbano, nello sfregio, infine, del paesaggio, che si sta perpetrando in tutto il paese”. E concludeva: “Bisogna capire che salvare il paesaggio della propria terra è salvarne l’anima e quella di chi l’abita”. Allora bisognerà, prima o poi, fare un bilancio del regionalismo italiano, e di quello Veneto in particolare, e lo stato in cui versa il territorio rappresenta una cartina di tor-nasole di quanto la dimensione regionale abbia saputo dimostrarsi adeguata alla piani-ficazione e alla programmazione di uno sviluppo ordinato e sostenibile. Si avverte dunque con forza l’esigenza di una legge quadro nazionale sulle cave, che ponga dei binari precisi ad una attività particolarmente impattante sul territorio, e che ponga in connessione l’attività estrattiva con le esigenze di pianificazione territoriale, e di salvaguardia ambientale e paesaggistica. Che introduca standard minimi riguardo alle aree da sottrarre alla escavazione e alla regolamentazione sul recupero delle aree e sulle compensazioni ambientali. SEL dovrebbe farne uno dei punti della propria piat-taforma programmatica.

Sanzioni e controlli L’azione di controllo e di sanzione, per quello strano combinato legislativo che si ricordava sopra, è in capo alle province, che versano poi alla Regione l’incasso delle sanzioni. La Provincia di Treviso ha avviato una campagna di controllo delle escavazioni sotto falda, attraverso un innovativo sistema di ecoscandaglio delle cave in falda. Si è così accertato un volume di 358.000 mc di materiale scavato in più rispetto a quanto auto-30

rizzato. Solo una parte è stato sanzionato, perché in caso di infrazioni avvenute più di 5 anni prima non si può procedere, e il più delle volte non vi è la possibilità di datare esattamente l’abuso. L’importo delle sanzioni sarà comunque inferiore, per il cavatore, di quanto ricavato dalla vendita del materiale estratto in più. La legge regionale stabili-sce infatti che ai fini del calcolo della sanzione sia la Camera di Commercio provinciale a fissare un valore di mercato per la ghiaia estratta. Questo valore non viene aggiornato da anni, e dunque si ha un valore sanzionatorio di 6,36 a mc, che viene ridotto ad un terzo per la ditta che provvede al pagamento entro i termini senza far ricorso. Quindi le sanzioni della Provincia non hanno alcun potere deterrente: il cavatore ci guadagna comunque anche se viene beccato e sanzionato. Appare dunque urgente portare le sanzioni a un multiplo del prezzo commerciale stabilito dal listino camerale. Nel disegno di legge della Giunta Galan si prevedeva di aumentare la sanzione di tre volte. Ma poiché esiste la riduzione di un terzo ai sensi della normativa nazionale, anche questo aumento sarebbe insufficiente a dare un valore deterrente. Bisognerebbe prevedere un aumento di almeno 6 volte il valore della Came-ra di Commercio.

Indennizzi Ai sensi della legge regionale, i cavatori versano ai comuni dove scavano un contri-buto di indennizzo. Attualmente il contributo è di 0,62 euro (1.200 Lire) a metro cubo in Veneto. In alcune regioni d’Italia è stato elevato a 2,00 euro. In Lombardia questo contributo spetta anche alle province per il 15%. In Emilia Romagna sono ripartiti tra Comune, Provincia e Regione. A noi pare corretto che, viste le ripercussioni che le atti-vità estrattive hanno sul territorio, vi sia un indennizzo anche alla Provincia, competen-te sia sulle infrastrutture di carattere provinciale, sia sull’attività di controllo dell’attività di cava. Un contributo aggiuntivo e non sostitutivo di quello comunale. I margini di guadagno dell’attività estrattiva, pur nella congiuntura economica sfavo-revole, sono comunque tali da consentire aumenti significativi del contributo. Secondo i dati di Legambiente, in Veneto i canoni pagati dai cavatori corrispondono al 4,9% del prezzo di vendita: 4.362.591 Euro di canoni a fronte di un prezzo di vendita di 87.955.462 Euro. Tutt’altro che una tariffa insostenibile, dunque. Nella nuova legislazione si dovrebbe prevedere un contributo, indicizzato e non fis-so, che ci avvicini ai 2 Euro. Il Consiglio Regionale dell’Emilia Romagna ha approvato a marzo di quest’anno una risoluzione a del Gruppo SEL-Verdi che impegna la Giunta a portare il costo da 0,57 Euro al metro cubo a 2,00 Euro.

Conclusioni L’attività di escavazione è uno degli elementi del consumo del territorio, tra i più impattanti per la rilevanza del danno e la sua connessione con l’aspetto urbanistico e infrastrutturale e con l’aspetto strettamente ambientale della salvaguardia del territo-

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rio. L’escavazione costituisce inoltre il meccanismo principale di approvvigionamento della materia prima per la cementificazione del territorio, e sta dunque a monte del diluvio cementizio che deve essere oggi uno degli obbiettivi di un attacco critico verso un modello di sviluppo vorace da superare e riconvertire. Per citare Edgar Morin: “Oc-corre reinventare questo concetto di sviluppo, la cui applicazione ovunque nel mondo distrugge le solidarietà tradizionali, fa dilagare la corruzione e l’egocentrismo. Bisogna che il concetto di sviluppo subisca una metamorfosi in quello di fioritura”. L’intero settore abbisogna dunque di un quadro normativo adeguato alla contem-poraneità, e che crei un minimo di omogeneità sul territorio nazionale. Le Regioni lasciate a se stesse si sono dimostrate infatti largamente supine ai desiderata dei cavatori, non solo al Sud ma anche in una Regione come il Veneto, dove i cavatori costituisco-no comunque una delle più potenti lobbies, i cui interessi sono stati messi alla pari, e spesso privilegiati, rispetto agli interessi delle comunità e del territorio. Per invertire la tendenza la Regione dovrebbe emanare regole certe e pianificare l’attività di cava in base ai fabbisogni realistici, tenendo conto dei volumi da scavare già autorizzati e della quota di recupero e riciclo degli inerti, che dovrà essere via via crescente e incentivata, anche attraverso la prescrizione nei capitolati di opere pubbliche di utilizzare quote di materiale riciclato. Tenendo nel computo anche le escavazioni in alveo, che passano per regimazione idraulica ma che comportano la vendita di inerti e dunque vanno a ridurre il fabbisogno. Dovrebbe poi aumentare il costo del materiale per chi lo scava e lo vende, elevando gli indennizzi e ripartednoli tra i diversi enti. E rendere efficaci e deterrenti le sanzioni per chi scava oltre l’autorizzato, superando un meccanismo che allo stato attuale è premiante per chi sgarra e non per chi rispetta le regole. La questione dell’escavazione si intreccia con gli altri “malanni” del territorio veneto: la mancanza di una seria programmazione degli interventi per la difesa idrogeologica del territorio, che lascia spazio all’attivismo interessato dei cavatori, la mancanza di una pianificazione seria e vincolante sull’urbanizzazione del territorio, che lascia spazio a meccanismi derogatori volti a produrre enormi colate di calcestruzzo, la programma-zione confusa delle opere viarie e infrastrutturali. Si propone dunque di considerare la questione all’interno del più generale quadro del conflitto in atto contro il territorio e contro l’ambiente. La crisi la si vuol far pagare nei suoi costi sociali ai ceti popolari, e ci si vuole pure aggiungere il costo ambientale di un assalto al territorio e all’ambiente giustificato sotto la falsa insegna delle esigenze occupazionali e lavoristiche. La rendita fondiaria va a braccetto con la speculazione finanziaria, per depauperare il paese e i suoi abitanti e arricchire i sodali della cricca globale. Sinistra Ecologia Libertà è nata anche per superare, già dalla traccia programmatica della sua denominazione, le contrapposizioni esclusive tra le ragioni dell’ambiente, del lavoro e dei diritti, e per includerle in una proposta di modernità nuova, all’altezza del nuovo secolo.

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Sinistra Ecologia Libertà

SEL promuove una campagna in difesa del territorio e del suolo

TERRA NOSTRA

Riassetto idrogeologico, adattamento, messa in sicurezza e cura del territoriosono la prima urgente grande opera pubblica di cui ha bisogno l’Italia

Le risorse finanziarie necessarie a promuovere il riassetto idrogeologico, l’adattamento, la messa in sicurezza e la cura del territorio italiano si aggirano sui 40 miliardi di euro, mentre quelle realmente investite negli ultimi 20 anni sono state appena 400 milioni di euro. Per indennizzi, ricostruzioni e riparazione dei danni a posteriori si sono spesi (male e, molto spesso, per ricostruire negli stessi luoghi interessati da inondazioni e frane) 52 mi-liardi di euro in cinquant’anni; se sommiamo gli indennizzi post terremoti, la cifra arriva a 213 miliardi di euro.

L’assenza di qualsiasi riferimento ai temi della qualità dello sviluppo e alla sostenibilità ambientale nel recente discorso di insediamento del Presidente del Consiglio ci ha delusi e ci preoccupa perché sono migliaia i cittadini italiani in lotta da mesi con il fango. Tra economia ed ecologia vi sono molti più legami di quelli che tanti economisti assai poco in-novatori e riformatori riescono a vedere: un territorio sicuro per i cittadini e per le attività produttive è la condizione prima di qualsiasi sviluppo possibile, un paesaggio di qualità è la ricchezza fondamentale dell’Italia. Non possiamo più sprecare soldi e natura, non vo-gliamo perdere altre vite umane.

Va colto appieno l’aggravamento dell’intreccio fatale tra cambiamento climatico e scarsa cura del territorio. Gli eventi estremi (periodi di siccità alternati a piogge violente che ar-rivano fino al 18-25% in più di intensità) rendono ancora più a rischio un territorio già fragile, con il 47% del territorio colpito dal dissesto. Dal 1998 (tragedia di Sarno) al 2007, secondo statistiche ufficiali, ci sono state un centinaio di vittime e 7,5 miliardi di danni cui vanno aggiunti quelle degli ultimi 4 anni.

In Italia l’impermeabilizzazione sottrae all’agricoltura e alla vita di altre specie porzioni sempre crescenti di terreno, limita e impedisce l’infiltrazione delle acque e la funzione di ritenzione, aumenta le possibilità di repentini eventi di piena. Oltre il 6% del territorio nazionale è impermeabilizzato e, nell’ultimo decennio, vi è stato un consumo medio di

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suolo di circa 36.500 ettari l’anno, ossia 100 ha ogni giorno, un ritmo doppio rispetto al de-cennio precedente. Il processo è evidente nelle grandi città: ad esempio, a Roma l’espansione dell’area urbana ha portato a una crescita del suolo impermeabilizzato dal 4% nel periodo 1994-2000 al 7% nel periodo 2000-2006. Il consumo e l’impermeabilizzazione del suolo sono tra le principali cause delle morti e delle devastazioni che gli eventi meteorologici estre-mi causano sul territorio italiano (anche quando non sono estremi). Con circa 45 milioni di tonnellate di cemento prodotto nel 2008, il nostro Paese è al quarto posto nel mondo per rapporto tra cemento prodotto e superficie territoriale e al quinto posto per rapporto tra cemento prodotto e numero di abitanti.

Lo sviluppo edilizio e infrastrutturale dovrebbe seguire il principio di evitare, limita-re e compensare l’impermeabilizzazione dei suoli. Regolamenti stringenti, sul modello di quelli già esistenti in altri Paesi UE, possono ridurre gradualmente il consumo di suolo, entro una specifica scadenza temporale, fino ad avere “zero” consumo ulteriore di suolo. Da subito, possono anche essere avviate specifiche politiche per la protezione dei paesaggi, dei suoli agricoli e degli ecosistemi ad alto valore naturalistico, per evitarne consumo e imper-meabilizzazione, diffondendo le migliore tecniche disponibili.

La protezione e la cura del territorio sono una vera riforma e una “grande opera”. La proponiamo alle forze sociali, politiche, economiche e al Governo e ne facciamo da oggi un impegno costante del lavoro politico di SEL, innanzitutto attraverso una campagna di di-scussione e consultazione che svilupperemo nazionalmente e in tutte le regioni e negli Enti Locali dove siamo presenti, anche attraverso proposte precise ed iniziative istituzionali.

(novembre 2011)

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Sinistra Ecologia e LibertàCoordinamento regionale Veneto