Teoria del governo d’impresa · 2020. 12. 17. · Egea, 1998; SALVATORE TOMASELLI, Longevità e...

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Riccardo Tiscini Le aziende di famiglia ‘quotate’ Teoria del governo d’impresa 00 pagine iniziali Vol. Tiscini 25-01-2010 16:55 Pagina 1

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Riccardo Tiscini

Le aziende di famiglia ‘quotate’Teoria del governo d’impresa

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A Deborah e Beatrice,gli amori della mia vita

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© Luiss University Press – Pola s.r.l. 2008Proprietà letteraria riservataPrima edizione: luglio 2008ISBN 978-88-6105-028-0

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INDICE

Note introduttive

1. I presupposti teorici e gli obiettivi del lavoro ....................... 02. La definizione dell’oggetto e del metodo dell’indagine........ 0

Capitolo 1. Il modello della società quotata a controllo familiare:Profili storici e quadro internazionale

1.1. Profili storici: dalle imprese familiari al capitalismo familiare........................................................... 0

1.2. Il capitalismo familiare: persistenza o convergenza verso l’azionariato diffuso? ............................. 00

1.3. Alla ricerca delle determinanti del capitalismo familiare: un quadro internazionale in una prospettiva evolutiva ...... 00

Capitolo 2. Teorie del Governo d’impresa e società quotate a con-trollo familiare

2.1. Aziende di famiglia quotate e teorie del governo d’impresa............................................................................... 00

2.2. Aziende di famiglia quotate e teoria dell’agenzia................ 002.3. Le aziende di famiglia quotate e le teorie dei contratti

incompleti, dei costi di transazione e dei diritti di proprietà........................................................... 00

2.4. Le aziende di famiglia quotate e la dicotomia tra teoriadella creazione di valore per gli azionisti e teoria degli stakeholders....................................................... 00

2.5. Le aziende di famiglia quotate, l’approccio dell’altruismoe la stewardship theory......................................................... 00

2.6. Le aziende di famiglia quotate e la teoria sistemica dell’azienda ........................................................................... 00

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2.7. Quale scenario evolutivo per il capitalismo familiare?Verso una teoria del controllo familiare .............................. 00

Capitolo 2. Una teoria del Governo delle aziende di famiglia basa-ta sui benefici privati del controllo nella prospettiva sistemica del-l’impresa

3.1. Benefici privati ed efficienza del controllo azionariodelle imprese ......................................................................... 00

3.2. Il governo delle aziende di famiglia e la teoria sistemicadell’impresa: le interazioni tra i sistemi della famiglia,della proprietà e dell’impresa............................................... 00

3.3. La rilevanza e le strategie di interazione con isovrasistemi della famiglia e della proprietà...................... 000

Capitolo 4. Gli effetti della relazione sistemica tra impresa e pro-prietà familiare: risorse familiari, stabilità del controllo e valored’impresa

4.1. La relazione tra famiglia proprietaria e impresa in unaprospettiva “resource based”: la letteratura ...................... 000

4.2. Famiglia proprietaria e risorse distintive: un modellodi analisi nella prospettiva del valore dell’impresa ........... 000

4.3. Mercato del controllo societario vs. stabilità del controllo:un’analisi nella prospettiva del valore d’impresa .............. 000

4.4. Benefici privati e valutazione del premio di controllo...... 0004.5. Controllo familiare, meccanismi di potenziamento del

controllo e performance d’impresa: evidenze empiriche.. 000

Conclusioni ................................................................................. 000

Bibliografia .................................................................................. 000

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Note introduttive

1. I presupposti teorici e gli obiettivi del lavoro

La società a controllo familiare è il modello di impresa più diffu-so al mondo sui mercati azionari regolamentati. Una tale apoditti-ca affermazione può suonare imprudente a molti cultori dell’eco-nomia delle aziende, ma studi sempre più numerosi sulla strutturaproprietaria delle imprese quotate la confermano. Pur nella diffi-coltà di definire il perimetro esatto dei “modelli di impresa” e dieffettuare classificazioni delle strutture proprietarie universalmen-te riconosciute, non vi è dubbio che il modello della società quo-tata a controllo familiare sia, quantomeno, tra quelli più diffusi estabili.

Con alcune note ed importantissime eccezioni quali gli StatiUniti, il Regno Unito e l’Australia, le famiglie imprenditoriali con-trollano una parte assai significativa della capitalizzazione di borsadelle economie avanzate ed emergenti.

Sorprendentemente, le teorie sull’impresa che si sono sviluppa-te nel novecento sono ritagliate su un modello di impresa assaidiverso da quello dell’azienda di famiglia quotata: la c.d. “publiccompany”, caratterizzata dall’azionariato diffuso e dal governomanageriale.

Tali teorie hanno, non sempre esplicitamente, affermato lasupremazia dell’azionariato diffuso rispetto a modelli alternativicaratterizzati dalla concentrazione azionaria. Secondo molti, laconcentrazione proprietaria sarebbe stata gradualmente superatanei sistemi capitalistici moderni, in cui un ruolo sempre più deter-minante andavano assumendo i mercati finanziari. In tal senso, laregolamentazione a protezione degli investitori avrebbe reso con-veniente la diffusione dell’azionariato, mentre la concentrazione

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proprietaria, meno efficiente in termini di allocazione dei capitali,sarebbe rimasta espressione tipica dei sistemi meno avanzati1.

Negli ultimi dieci anni, tuttavia, la letteratura si è arricchita dinumerosi contributi che evidenziano la persistente diffusione,anche nei sistemi capitalistici più avanzati, del modello di impresaquotata ad azionariato concentrato, cercando di spiegarne le condi-zioni di esistenza e di valutarne la performance economica.

Recentemente, alcuni contributi hanno in particolare analizzatola performance economica delle imprese a controllo familiare, chesono naturalmente un sottoinsieme delle imprese a proprietà con-centrata, evidenziando per esse, non di rado, una performancemigliore delle altre imprese.

Gli studi non consentono allo stato attuale di pervenire a conclu-sioni univoche sulla supremazia di uno o dell’altro modello, né sem-bra corretto porre il problema in termini di ricerca di una soluzio-ne ottimizzante universalmente valida.

Sembra tuttavia indubitabile che, pur nella rilevanza dei fattoridi natura contingente relativi a specifici sistemi Paese, le aziende difamiglia quotate non possano essere ritenute un modello tipico deisistemi meno avanzati o un retaggio di tempi passati.

Esse, a distanza di quasi un secolo da studi che ne preconizzava-no la scomparsa2, costituiscono tuttora una tra le forme organizzati-ve dominanti per le imprese che raccolgono il capitale sui mercatiazionari.

L’obiettivo del presente lavoro è offrire un contributo teorico allaspiegazione della perdurante diffusione delle aziende di famiglia quo-tate. Si analizzeranno inoltre, anche tramite le evidenze empirichedisponibili, le condizioni di successo ed i fattori limitanti del model-lo, al fine di delineare le caratteristiche d’azienda e d’ambiente trami-te le quali le aziende di famiglia quotate possano esprimere al megliole loro potenzialità, tutelando al contempo gli interessi degli azionisti

8 Le aziende di famiglia “quotate”

1 Le imprese avrebbero dovuto essere strutturalmente orientate alla crescita ed alla dimen-sione manageriale. La piccola dimensione e la proprietà familiare erano considerate fasi dipassaggio nel ciclo di vita dell’impresa, salvo lo sfruttamento transitorio di spazi “intersti-ziali” del sistema economico. Si veda, per un celebre approccio teorico di questo tipo:EDITH PENROSE, The theory of the growth of the firm, New York, Wiley, 1959.2 Per tutti, come si discuterà meglio in seguito: ADOLF BERLE – GARDINER MEANS, TheModern Corporation and Private Property, New York, Mac Millan, 1932.

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di minoranza e degli altri stakeholders. Per tale via, esse costituisco-no un motore, e non un freno, per lo sviluppo dei mercati.

2. La definizione dell’oggetto e del metodo dell’indagine

Il filone degli studi sulle aziende di famiglia, a lungo trascurati dallaletteratura accademica3, ha iniziato ad acquisire momento solo neglianni novanta e si è nell’ultimo decennio arricchito di moltissimicontributi. Tali studi presentano tuttavia un oggetto molto vasto emultiforme, in cui il problema definitorio dell’azienda di famiglia (o“family business”) ha rilievo centrale.

Il “family business” non può essere considerato come oggetto distudio unitario, poiché abbraccia tipologie di aziende assai diversetra loro: dall’impresa di piccole dimensioni posseduta e gestita dadue coniugi, fino ai grandi gruppi conglomerati a controllo familia-re tipici dell’Est Asiatico. Non stupisce che alcuni studiosi, in temadi problema definitorio del “family business”, siano recentementepervenuti ad una scala di “familismo” dell’impresa, fondata suvariabili inerenti il potere esercitato dalla famiglia nei confronti del-l’impresa (in termini di presenza nella proprietà, nel governo e nelmanagement), il grado di esperienza della famiglia nei confronti del-l’impresa (relativo ad esempio alle generazioni attive) e la culturadella famiglia imprenditoriale (valori, impegno, concezione dellarelazione famiglia-impresa)4.

9Note introduttive

3 I primi contributi accademici a carattere sistematico sul “family business” sono della finedegli anni ’80. Si può fare riferimento soprattutto al lavoro di John Ward e Miguel AngelGallo: MIGUEL ANGEL GALLO, Las Empresas Familiares,in Enciclopedia de Direccion yAdministracion de la Empresa, Fasciculo 66, 1988; JOHN WARD, Keeping the FamilyBusiness Healthy: How to Plan for Continuing Growth, Profitability and Family Leadership,San Francisco, Jossey Bass, 1986.Con riferimento alla letteratura italiana, tra i primi lavori sistematici si ricordano: GUIDO

CORBETTA, Le imprese familiari. Caratteri originali, varietà e condizioni di sviluppo, Milano,Egea, 1998; SALVATORE TOMASELLI, Longevità e sviluppo delle imprese familiari, Milano,Giuffrè, 1996. 4 Si tratta della c.d. “F-PEC Scale”. Si veda: JOSEPH ASTRACHAN – SABINE KLEIN – KOSMAS

SMYRNIOS, The F-PEC scale of family influence: a proposal for solving the family businessdefinition problem, in PANIKKOS POUTZIOURIS – KOSMAS SMYRNIOS - SABINE KLEIN (Ed.by), Handbook of Research on Family Business, Cheltenhan, Edward Elgar, 2006.

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Il presente lavoro ha ad oggetto un sottoinsieme delle aziende difamiglia numericamente ridotto, ma di estrema importanza in termi-ni di peso ed influenza sui sistemi economici.

Per “società quotate a controllo familiare” si intendono nel pre-sente lavoro le imprese in forma societaria le cui azioni sono nego-ziate sui mercati regolamentati e sulle quali il controllo azionario èesercitato da una famiglia, da più famiglie legate tra loro da vincolidi parentela o di profonda amicizia, ovvero da un individuo, cheabbia tuttavia manifestato l’intenzione di trasferire il controllo aisuoi eredi5.

Per ‘controllo azionario’ si intende la capacità, grazie ai diritti divoto posseduti, anche tramite patti parasociali con altri soci, di eser-citare un’influenza dominante sulla società.

L’indagine è limitata alle società quotate perché la ricerca mira adimostrare se, ed a quali condizioni, l’azienda di famiglia sia unmodello efficiente per la raccolta di capitali sui mercati regolamen-tati. Molte delle problematiche che saranno discusse nel presentelavoro sono tuttavia comuni anche alle aziende di famiglia non quo-tate di dimensioni medio-grandi. Tali aziende, ove strutturino ade-guatamente i loro processi di governo, di management e di control-lo, sono le naturali candidate alla quotazione in borsa6.

E’ opinione di chi scrive che le medie imprese di successo (quel-le più competitive, sulla frontiera tecnologica, internazionalizzate)abbiano caratteristiche molto più simili alle grandi imprese che allepiccole imprese. Curiosamente, esse sono invece assimilate spessoalle piccole, in una tassonomia (piccole-medie imprese da un lato,grandi imprese dall’altro) che attrae verso il basso e svilisce i pregidelle medie imprese. Esse possono invece (e devono) fare il salto diqualità verso la grande dimensione.

Nell’ambito del lavoro si farà pertanto riferimento anche asocietà non quotate, ma potenzialmente candidate alla quotazione.La crescita di tali aziende tramite l’accesso alla borsa è una delle leveprincipali che il Sistema Italia potrebbe attivare per contrastare ildeclino e rilanciare la crescita. Il presente volume intende dare un

10 Le aziende di famiglia “quotate”

5 In sostanza, con adattamenti in ragione degli scopi del presente lavoro, si assume la defi-nizione contenuta in: GUIDO CORBETTA, Le imprese familiari. Caratteri originali, varietà econdizioni di sviluppo, op. cit., 1998, p. 20.

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contributo nel delineare i requisiti di successo (e le minacce diinsuccesso) dell’incontro tra mercati azionari ed aziende di famiglia,nella speranza di incentivare un più ampio ricorso ai mercati azio-nari da parte del gran numero di imprese familiari di dimensionemedia e grande cui spetta a pieno titolo il ruolo di imprese trainodell’intero sistema economico.

Il metodo dell’indagine integra l’approccio deduttivo e l’approc-cio induttivo.

Nei primi due capitoli, dopo l’analisi dei profili storici e delloscenario evolutivo, si verificherà il grado di coerenza tra le principa-li teorie del governo d’impresa e l’universo delle aziende di famigliaquotate, al fine di valutare la capacità esplicativa delle prime rispet-to alle seconde.

Nel terzo capitolo, verrà proposto un approccio teorico di riferi-mento per spiegare la persistenza ed il successo delle aziende difamiglia quotate.

Nel quarto capitolo, tale approccio teorico sarà declinato conriferimento alle implicazioni normative di politica aziendale e rego-lamentare. L’analisi dei principali contributi empirici sul tema e losvolgimento diretto di alcune indagini consentono di ottenere con-ferme scientifiche sulla competitività e sull’efficienza del modello‘azienda di famiglia quotata’.

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CAPITOLO I

Il modello della società quotata a controllo familiare:profili storici e quadro internazionale

1.1 Profili storici: dalle imprese familiari al capitalismo familiare

Le origini delle aziende di famiglia coincidono con quelle dell’im-prenditorialità privata. Le imprese dei mercanti che gestivano icommerci nell’alto medioevo erano generalmente tramandate dipadre in figlio1. Durante la Rivoluzione Industriale si affermaronoimprese a vocazione locale, generalmente di piccole dimensioni, cherichiedevano l’organizzazione ed il coordinamento di processi diapprovvigionamento, produzione, vendita e finanziamento, i qualiavvenivano nell’ambito di una famiglia.

Nell’ottocento, l’avvento delle tecnologie aveva sospinto lo svi-luppo economico, favorendo la crescita di molte imprese fino allagrande dimensione. Tuttavia, ancora alla fine del diciannovesimosecolo, la concentrazione nell’ambito di una famiglia della pro-prietà, del controllo e della gestione caratterizzava sostanzialmentetutte le imprese.

La letteratura di storia economica ha messo in relazione il con-trollo familiare con fattori istituzionali, quali in particolare le diffi-coltà di accesso al credito. Gli ingenti e continui investimenti inimpianti produttivi richiedevano cospicui capitali a medio e lungotermine, ma l’assenza di istituzioni finanziarie (banche specializzatenel credito, fondi di investimento, mercati azionari,...) comportòl’affermazione della grande impresa a controllo familiare, poiché

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1 Vi sono alcune importanti eccezioni, quale la Dutch East India Company, che agli inizidel seicento fu costituita raccogliendo il capitale di oltre mille investitori e dovette con-frontarsi con i classici problemi di governance (P. FRENTOP, A History of CorporateGovernance 1602-2002, Brussels, Deminor, 2003)

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soltanto la famiglia, o un network ristretto di famiglie, erano ingrado di finanziare i fabbisogni di sviluppo dell’impresa, in buonaparte reinvestendo gli utili prodotti2.

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, il progresso tec-nologico e l’espansione dei mercati rese praticabili iniziativeimprenditoriali su larga scala, quali le infrastrutture ferroviarie, stra-dali e di telecomunicazione, che richiedevano una quantità di capi-tali al di fuori della portata delle famiglie imprenditoriali.Cominciarono così ad affermarsi istituzioni finanziarie che racco-glievano i capitali per il finanziamento delle iniziative e manteneva-no poi un ruolo decisionale nell’allocazione delle risorse e nellagestione delle imprese.

Agli inizi del novecento, i sistemi economici avanzati erano anco-ra dominati dal capitalismo familiare e, ove la dimensione degliinvestimenti iniziali non lo consentiva, dal capitalismo finanziario.

Coerentemente con la teoria economica classica, l’evoluzionedelle imprese avveniva come risposta alla struttura dei mercati, ordi-nata dalla mano invisibile delle loro forze, ed al grado, esogeno, diinnovazione tecnologica. La gestione delle imprese da parte di sog-getti diversi dagli imprenditori (o dalle istituzioni finanziarie) che leavevano finanziate era vista con molta diffidenza. Celebre è unpasso dello stesso Adam Smith che dipinge a tinte fosche la diligen-za dei managers non proprietari3.

Il novecento ha visto l’affermarsi di un modello di impresa moltodiverso, in cui lo sviluppo dei mercati azionari ha consentito, nelmondo anglosassone, la frammentazione del capitale azionario econseguentemente l’egemonia decisionale dei managers professio-

14 Le aziende di famiglia “quotate”

2 “Where was long-term capital to come from, except through ploughed-back profits oncea firm was under way? One answer was usually clear: from one’s family and friends.Business operated in as uninstitutional a way as eighteenth-century politics. Kinship wasthe organizing principle of most business – as it usually is when the institutional structureis weak” (PETER MATHIAS, The First Industrial Nation: An Economic History of Britain1700-1914, New York, Routledge, 1983).3 “The directors of such joint-stock companies, however, being the managers rather ofother people’s money than of their own, it cannot well be expected, that they should watchover it with the same anxious vigilance with which the partners in a private copartnery fre-quently watch over their own. … Negligence and profusion, therefore, must always pre-vail, more or less, in the management of the affairs of such a company.” (ADAM SMITH, TheWealth of Nations, New York, Modern Library, 1789).

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nali. È l’avvento della separazione tra proprietà e controllo delleimprese.

Le strategie di espansione imponevano strutture organizzativecomplesse e di grandi dimensioni, che per essere gestite richiedeva-no la nuova funzione economica di ‘coordinamento amministrati-vo’. L’imprenditore, nell’esercizio della sua funzione imprenditoria-le, doveva necessariamente reclutare manager professionali esterniper la gestione di tali complesse organizzazioni, caratterizzate da unnumero elevato di distinte unità organizzative4.

Il presidio della funzione manageriale di coordinamento ammini-strativo e di allocazione delle risorse ha consentito alle imprese diperseguire strategie di espansione, sostituendo gradualmente lerelazioni gerarchiche alle relazioni di mercato5.

Coerentemente, la letteratura economica si è sviluppata su diret-trici distanti dalla teoria economica classica, che vedeva l’impresacome una “black box”, governata da meccanismi in gran parte eso-geni. Nel mondo anglosassone ciò ha condotto alle teorie economi-che sul funzionamento dell’impresa ed agli studi sui processi dimanagement, fiorite a partire dagli anni cinquanta.

In realtà, la necessità della funzione di coordinamento ammini-strativo è indubbiamente collegata alla complessità delle organizza-zioni, ma non è connaturata alla separazione tra proprietà e control-lo ed al c.d. ‘capitalismo manageriale’.

Con riferimento al caso italiano, dove il capitalismo managerialedi stampo anglosassone è rimasto, fino ai giorni nostri, pressochéassente, l’intuizione di Zappa aveva condotto, a partire già daglianni ’20, all’affermazione dell’Economia Aziendale, che pone alcentro dei suoi studi l’analisi delle intime manifestazioni di vita delleaziende, viste come sistemi coordinati di processi amministrativi6.

15Profili storici e quadro internazionale

4 Si veda: ALFRED CHANDLER, The Visible Hand, Cambridge, Belknap Press, 1977.5 La teoria neo-istituzionalista delle organizzazioni ha fornito, a partire dal lavoro semina-le di Coase (RONALD COASE, The Nature of the Firm, in “Economica”, vol. 4, 1937), raffi-nate interpretazioni dei fondamenti economici di tale processo. Si veda, ad esempio:OLIVER WILLIAMSON, The Economic Institutions of Capitalism: Firms, Markets, RelationalContracting, New York, Free Press, 1985. 6 La progressiva messa a fuoco della definizione di azienda come sistema unitario nell’am-bito del quale si compiono processi coordinati di produzione emerge anche dal confrontotra la definizione di azienda presente nelle Tendenze Nuove e quella delle Produzioni. Nellavoro seminale l’azienda è definita come “coordinazione economica in atto istituita e retta

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Tale teoria sistemica dell’azienda7, che è alla base del presente lavo-ro, è tuttora feconda di spunti per l’interpretazione della relazionetra funzione imprenditoriale e funzione manageriale8 nelle impresedi grandi dimensioni.

L’avvento dell’impresa manageriale che si è avuto negli StatiUniti a partire dai primi decenni del ventesimo secolo ha orientato,in maniera pressoché totalizzante, la letteratura anglosassone, e con-seguentemente internazionale, in materia di economia d’impresa emanagement9.

Nel 1932 Berle e Means pubblicarono il pionieristico e celeber-rimo “The Modern Corporation and Private Property”10, in cuiosservavano come gran parte delle grandi imprese statunitensi stes-sero crescendo a ritmi molto elevati e fossero possedute e gestitecon modalità che non erano adeguatamente spiegate dalle teorieeconomiche classiche. In particolare, le grandi corporation non ave-vano un azionista di riferimento che assumeva su di sé il ruolo diproprietario e assuntore del rischio ed erano, quindi, nelle mani deimanager, che prendevano le decisioni di massimo livello in tema diorientamento strategico ed allocazione delle risorse. La proprietà siera dunque frammentata ed il potere concentrato in capo ai mana-ger professionali. La figura dell’imprenditore proprietario chemette a rischio i suoi capitali per perseguire iniziative imprendito-riali sul cui orientamento ha l’ultima parola (anche in presenza di

16 Le aziende di famiglia “quotate”

per il soddisfacimento dei bisogni umani” (GINO ZAPPA, Tendenze nuove negli studi diragioneria, Milano, Istituto Editoriale Scientifico, 1927, p. 30), mentre nell’ultima opera èridefinita come “istituto economico destinato a perdurare che, per il soddisfacimento deibisogni umani, ordina e svolge in continua coordinazione la produzione o il procacciamen-to o il consumo della ricchezza” (GINO ZAPPA, Le produzioni nell’economia dell’impresa,Tomo primo, Milano, Giuffré, 1956, p. 37).7 Per un celebre schema di analisi dell’azienda come sistema: UMBERTO BERTINI, Il sistemad’azienda. Schema di analisi, Torino, Giappichelli, 1990.8 Nell’economia aziendale italiana ha ricevuto notevole attenzione il problema del bilancia-mento tra imprenditorialità e management nel governo del sistema azienda. Si veda:UMBERTO BERTINI, Il governo dell’impresa tra “managerialità” e “imprenditorialità”, inUMBERTO BERTINI, Scritti di politica aziendale, Torino, Giappichelli, 1995.9 Nell’ambito della letteratura italiana, tale approccio totalizzante alla concezione di impre-sa non è andato esente da critiche. Si vedano le lungimiranti posizioni contenute in:VITTORIO CODA, ‘Concezioni di impresa’ e declino economico degli Stati Uniti, in“Economia e Politica Industriale”, n.1, 1988. 10 ADOLF BERLE – GARDINER MEANS, The Modern Corporation and Private Property, NewYork, Mac Millan, 1932.

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17Profili storici e quadro internazionale

deleghe gestionali ai manager) era considerata una figura romanticacarica di emotività, ma non più riscontrabile nella realtà delle gran-di imprese11. Il lavoro di Berle e Means è considerato il più influen-te sulla letteratura in materia di teorie del governo d’impresa fioritanel novecento ed ha posto certamente le premesse teoriche per lacelebre teoria dell’agenzia.

Lo studio di Berle e Means dimostrava come nel 1929, tra le 200più grandi società manifatturiere, 88 fossero controllate dal mana-gement in quanto prive di azionisti di riferimento. In base a questaevidenza, essi si spingevano a preconizzare la scomparsa dei model-li di proprietà e controllo basati sull’azionista/imprenditore di rife-rimento. In effetti, quarant’anni dopo, alcuni studi dimostravanocome il processo di separazione tra proprietà e controllo avesse inte-ressato la quasi totalità delle grandi imprese. Uno studio parallelocondotto nel 1963 mostrava che 169 imprese su 200 (l’84,5%) eranocontrollate dal management12.

I fatti hanno tuttavia dimostrato che la transizione dal “capitali-smo familiare” al “capitalismo manageriale” non soltanto non si èmai del tutto completata nel mondo anglosassone, ma non si è affat-to avviata in molti altri sistemi capitalistici avanzati.

Già negli anni sessanta Burch aveva contestato i dati di Berle eMeans; scegliendo una più bassa soglia di proprietà per la definizio-ne di ‘controllo azionario’ (nel presupposto che in presenza di unazionariato frammentato anche il 5/10% della proprietà può con-sentire il controllo), aveva mostrato come il 43% delle imprese ana-lizzate fossero probabilmente controllate dal management, il 40%fossero probabilmente controllate da famiglie ed il restante 17%fosse anche esso sotto il possibile controllo delle famiglie imprendi-toriali, che detenevano il 4/5% delle azioni13.

11 ADOLF BERLE, The Impact of the Corporation on Classical Economic Theory, in “QuarterlyJournal of Economics”, n. 1, 1965. In questo articolo Berle replica alla diversa posizionedi Peterson, orientate alla difesa dei principi della teoria economica classica (SHOREY

PETERSON, Corporate Control and Capitalism, in “Quarterly Journal of Economics”, n. 1,1965).12 ROBERT LARNER, Ownership and Control in the 200 Largest Non-Financial Corporations,1929 and 1963, in “American Economic Review”, sept., 1966.13 PHILIP BURCH, The Managerial Revolution reassessed: Family Control in America’s LargeCorporations, Massachussets, Lexington, 1972.

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È ovvio come diverse definizioni di controllo azionario conducanoa conclusioni diverse14. Tuttavia, se correttamente interpretati, i datinon dovrebbero condurre a conclusioni divergenti sulla realtà dei fatti.

Rimanendo nell’ambito della realtà statunitense, ricerche piùrecenti mostrano come l’affermazione del “capitalismo manageria-le” sia tutt’altro che completa e come, al contrario, le grandi impre-se a controllo familiare si mantengano quantitativamente assai rile-vanti. Una ricerca del 1993 mostrava come il 37% delle societàincluse nel Fortune 500 fossero a controllo familiare15.

È stato dimostrato che, in relazione alla definizione di controllofamiliare che si adotta, l’incidenza delle imprese familiari sul PILdegli Stati Uniti varia dal 29% al 64%16.

Ancora più importante è tuttavia la circostanza che l’incidenzadel “capitalismo familiare” nei sistemi economici avanzati o emer-genti sia sempre molto superiore (ad eccezione del Regno Unito) aquella statunitense, pur variando sensibilmente da paese a paese17.

È sorprendente che, nonostante ciò, la letteratura internazionaleabbia a lungo trascurato le società quotate a controllo familiare,orientando teorie e lavori empirici allo studio delle “public compa-nies” ad azionariato diffuso.

Nell’ultimo decennio l’attenzione è però andata crescendo sullaspinta di alcuni importanti lavori, tra i quali soprattutto quelli di LaPorta, Lopez de Silanes e Shleifer18. In un articolo del 1999, essi ana-lizzano la struttura proprietaria delle maggiori imprese quotate di

18 Le aziende di famiglia “quotate”

14 Per una trattazione del problema definitorio del ‘family business’ e dei suoi riflessi suidati empirici si veda, con riferimento alla letteratura italiana: CHIARA SANSONE, I riflessidella scelta definitoria sullo studio della diffusione mondiale del family business, in ENRICO

VIGANÒ (a cura di), La sensibilità al valore nell’impresa familiare, Padova, Cedam, 2006.15 H. JETHA, The Industrial Fortune 500 Study, unpublished research, Loyola University, Chicago,1993. Si veda anche: Problems of the Generation Gap, “Financial Times”, 30 marzo 1993.16 JOSEPH ASTRACHAN – MELISSA SHANKER, Family businesses’ contribution to the US eco-nomy: a closer look, in PANIKKOS POUTZIOURIS – KOSMAS SMYRNIOS - SABINE KLEIN (Ed.by), Handbook of Research on Family Business, Cheltenhan, Edward Elgar, 2006.17 Sulle peculiarità dei modelli di corporate governance in relazione all’”effetto-nazione”:ANDREA MELIS, Corporate governance. Un’analisi empirica della realtà italiana in un’otticaeuropea, Torino, Giappichelli, 1999. Con specifico riferimento alle peculiarità delle impresefamiliari nei diversi sistemi economici: DANIELA MONTEMERLO, Il governo delle impresefamiliari. Modelli e strumenti per gestire i rapporti tra proprietà e impresa, Milano, Egea, 2000.18 RAFAEL LA PORTA - FLORENCIO LOPEZ DE SILANES - ANDREI SHLEIFER, CorporateOwnership Around the World, in “The Journal of Finance”, April, 1999.

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27 paesi ad economia avanzata e mostrano come l’incidenza delleimprese a controllo familiare sia molto diversa, da paese a paese, inrelazione a fattori istituzionali legati principalmente alla regolamen-tazione a protezione degli investitori. A prescindere dalla regola-mentazione, tuttavia, tale incidenza è elevata in quasi tutti i paesi, adimostrazione che il modello della “società quotata a controllofamiliare” è uno dei più diffusi al mondo. Gli autori distinguono ipaesi analizzati in due gruppi, in relazione al grado di protezionedegli investitori assicurato dalla regolamentazione societaria, misu-rato sulla base di un indice che tiene conto delle principali disposi-zioni a tutela delle minoranze.

I risultati sono sintetizzati nella tabella 1.Nelle economie avanzate, il 30% delle imprese quotate di più

grande dimensione presenta nell’azionariato una famiglia con alme-no il 20% del capitale. Il dato sale al 35% se si considera comesoglia il 10% del capitale.

In Italia, il 45% delle società quotate presenta nell’azionariatouna famiglia con almeno il 20% del capitale (dati 2005)19.

Emerge con chiarezza il dato che la “società quotata a controllofamiliare” è un modello tuttora assai diffuso in tutto il mondo. Conpoche significative eccezioni (il Regno Unito, l’Irlanda, gli StatiUniti, l’Australia ed il Giappone) il modello ad azionariato diffuso

Tabella 1. IL CONTROLLO DELLE GRANDI IMPRESE QUOTATE NEL MONDOProtezione degli investitori Diffuso Famiglia Stato AltroSoglia di controllo al 20%

Paesi ad alta protezione 48% 25% 14% 13,00%Paesi a bassa protezione 27% 34% 22% 17,00%Tutti i Paesi 36% 30% 18% 16,00%

Soglia di controllo al 10%

Alta 34% 30% 16% 20,00%Bassa 16% 38% 24% 22,00%Tutti i Paesi 24% 35% 20% 21,00%

Fonte: La Porta et al., 1999

19Profili storici e quadro internazionale

19 RICCARDO TISCINI – FRANCESCA DI DONATO, Governance familiare, relazioni di agenzia ecosto del capitale di rischio nelle società quotate in Italia, in ROBERTO CAFFERATA (a cura di),Finanza e Industria in Italia, Atti del Convegno AIDEA 2006, Bologna, Il Mulino, 2007.

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non è quello dominante. L’innovazione e la globalizzazione sui mer-cati finanziari non hanno portato all’egemonia del modello della“public company” manageriale ed alla spersonalizzazione dell’aziona-riato che è assunta alla base della teoria tradizionale della finanza20.Non c’è alcuna evidenza che sia in corso il previsto processo di tran-sizione dal “capitalismo familiare” al “capitalismo manageriale”.

Il quesito di ricerca del presente lavoro intende contribuire acomprendere se tale evidenza empirica si basi su vincoli istituziona-li al perseguimento della struttura proprietaria di massima efficien-za ovvero, al contrario, se sia perfettamente spiegabile anche in ter-mini di efficienza economica. A tal fine si valuterà, con riferimentoalle aziende di famiglia quotate, il potere esplicativo delle teorie delgoverno d’impresa diffusesi negli scorsi decenni, che per lo più rap-presentano una idea spersonalizzata della proprietà azionaria.

Prima di passare a tale analisi, riteniamo tuttavia opportuno unbreve quadro delle caratteristiche distintive delle “società quotate acontrollo familiare” nei diversi contesti economico-sociali.

1.2 Il capitalismo familiare: persistenza o convergenza verso l’a-zionariato diffuso?

Il fenomeno della “società quotata a controllo familiare” è diffusoin tutto il mondo, ma non presenta caratteristiche pienamente omo-genee nei diversi paesi; significativi sono anzi i profili distintivi conriferimento ai singoli contesti nazionali.

Le analisi di corporate governance comparata stanno acquisendonegli ultimi anni un sempre maggiore momento21.

I punti focali delle ricerche sulla corporate governance compara-

20 Le aziende di famiglia “quotate”

20 L’idea dell’azionista/imprenditore vocato al sostenimento dei rischi imprenditoriali èstata considerata da Berle “an emotional desire to find some functional justification forhaving stockholders at all” (ADOLF BERLE, The Impact of the Corporation, op. cit., 1965).21 Si può fare riferimento, ad esempio, ai seguenti volumi: DONALD CHEW (Ed. by), Studiesin International Corporate Finance and Governance Systems. A comparison of the U.S.,Japan, & Europe, Oxford, Oxford University Press, 1997; RANDALL MORCK (Ed. by), AHistory of Corporate Governance around the World. Family business groups to professionalmanagers, Chicago, NBER, 2007; THOMAS CLARKE, International Corporate Governance. Acomparative approach, London, Rotledge, 2007.

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ta possono essere sintetizzati, ad avviso di chi scrive, nei seguenti:– quali sono le determinanti delle diversità riscontrabili nelle

diverse aree geografiche;– cosa influenza il percorso evolutivo nel tempo dei sistemi di

corporate governance.Sotto il primo profilo, la letteratura si è principalmente orientata

ad individuare i fattori istituzionali all’origine dei diversi sistemi dicorporate governance.

Le impostazioni teoriche di Berle-Means e Chandler sull’affer-mazione delle grandi corporation nel capitalismo americano si fon-davano sulla supremazia, in termini di efficienza economica, dellaframmentazione dell’azionariato, ritenuta l’unica via per lo sfrutta-mento delle opportunità di crescita e di rafforzamento strategicodelle grandi imprese, grazie alla capacità di attrarre capitali e pro-fessionalità manageriali. Secondo un approccio evoluzionistico ditipo “darwiniano”, la concentrazione azionaria, ed in particolare ilcontrollo familiare, erano quindi modelli di governo rappresentati-vi di sistemi capitalistici non evoluti.

Una celebre critica a tale impostazione è quella di Roe, secondoil quale la affermazione della grande corporation americana non èascrivibile alla maggiore efficienza economica, ma ha radici politi-che. Un modello di proprietà fondato sulla partecipazione dellegrandi istituzioni finanziarie nelle imprese avrebbe potuto essereuna (forse più) valida alternativa sotto il profilo economico, ma ilmondo politico e l’opinione pubblica americani, culturalmente con-trari alla concentrazione istituzionale di potere, trovò più conve-niente che le aziende fossero governate dai più “gestibili” manager.La regolamentazione restrittiva nei confronti delle istituzioni finan-ziarie scoraggiò la concentrazione proprietaria in capo ad esse efavorì la frammentazione azionaria, lasciando ai manager un poteresostanzialmente incontrastato, sorretto dalle collusioni politiche enon bilanciato dall’effettiva influenza degli azionisti22. Secondo Roe,dunque, le determinanti della diversità nella governance sono ascri-vibili principalmente a fattori culturali e politici.

21Profili storici e quadro internazionale

22 La tesi è ampiamente illustrata e dimostrata in: MARK ROE, Strong Managers, WeakOwners. The Political Roots of American Corporate Finance, Princeton, PrincetonUniversity Press, 1994.

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Il celebre lavoro di La Porta et al. pone invece la regolamentazio-ne societaria come determinante principale delle diversità nellagovernance (c.d. “law matters thesis”23). Nel contesto in cui operanole imprese, le informazioni, le alternative possibili ed i contratti sonoincerti ed incompleti24. I sistemi di common law, grazie soprattuttoall’efficacia della giurisprudenza nel sanzionare le violazioni degliobblighi degli amministratori, garantiscono in tale scenario una mag-giore protezione degli azionisti di minoranza rispetto ai sistemi dicivil law. Conseguentemente, l’azionariato si frammenta laddove laprotezione è maggiore; rimane concentrato dove è minore.

Non mancano tuttavia tesi diverse, secondo le quali i fattori isti-tuzionali, quali la regolamentazione societaria, seguono le esigenzedei mercati e non le determinano25. Secondo tale approccio, l’ambi-to della regolamentazione obbligatoria dovrebbe essere ridotto perlasciare spazio alle strutture di governo più efficienti rispetto allospecifico contesto di riferimento. Ogni struttura ha infatti pregi edifetti e non può essere considerata in re ipsa migliore o peggiore26.Gli obiettivi, gli incentivi e le relazioni tra gli attori dei sistemi eco-nomici sono tra i principali fattori della struttura di governo delleimprese, che si determina per lo sfruttamento dei vantaggi compe-titivi di uno specifico contesto e non può quindi essere efficacemen-te ‘esportato’. Ad esempio, l’azionariato diffuso consente di coglie-re meglio le opportunità di mercati finanziari molto liquidi e spessi,ma la concentrazione azionaria favorisce l’effettuazione di investi-menti “pazienti” e ad alta specificità rispetto all’impresa, poichéconferisce agli azionisti un orizzonte temporale più lungo.

Queste impostazioni teoriche saranno riprese nel seguito delvolume in quanto sono alla base, ad avviso di chi scrive, della persi-stente diffusione del modello dell’azienda di famiglia quotata.

22 Le aziende di famiglia “quotate”

23 RAFAEL LA PORTA - FLORENCIO LOPEZ DE SILANES - ANDREI SHLEIFER – ROBERT VISHNY,Law and Finance, in “Journal of Political Economy”, 1998.24 OLIVER HART – JOHN MOORE, Incomplete Contracts and Renegotiation, in“Econometrica”, 1988.25 FRANK EASTERBROOK, International Corporate Differences: Markets or Law, in “Journalof Applied Corporate Finance”, n. 4, 1997.26 WILLIAM BRATTON – JOSEPH MCCAHERY, Comparative Corporate Governance andBarriers to Global Cross Reference in Corporate Governance Regimes: Convergence andDiversity, Oxford, Oxford University Press, 2002.

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La spiegazione delle diversità esistenti nei sistemi di corporategovernance non può tuttavia limitarsi ad una prospettiva di analisi“statica”, ma deve completarsi con una prospettiva “dinamica”, inchiave evolutiva: i diversi sistemi sono destinati a convergere versoil modello di maggiore efficienza economica o vi sono ragioni teori-che per sostenere che le diversità persisteranno?

Il modello della “convergenza” si basa sull’idea economica neo-classica di una tendenza verso la soluzione di maggiore efficienza,che è generalmente identificata nelle aziende ad azionariato diffusoproprie della realtà anglosassone27. Una diversa teoria della conver-genza è illustrata nella c.d. cross-reference hypothesis, secondo laquale ogni sistema può apprendere dagli altri, incorporandoneanche soltanto singoli elementi, al fine di coprire le sue debolezze.Secondo tale sistema, è prevedibile l’affermazione di best practiceibride nelle diverse aree geografiche28. Infine, l’approccio della“persistenza” si basa sulla concezione dei sistemi di governancecome caratterizzati da importanti indivisibilità ascrivibili alle inter-relazioni tipiche esistenti tra gli attori e gli elementi componenti delsistema29.

L’ultimo approccio, in particolare, potrebbe utilmente spiegarela persistenza delle aziende di famiglia quotate in relazione, adesempio, alla reputazione nei confronti della comunità degli affari.

Bebchuk e Roe hanno proposto una teoria della “path dependen-ce” dei sistemi di corporate governance, secondo la quale l’evoluzio-ne di un sistema dipende dalle circostanze, in termini di struttureproprietarie e di regole, presenti in quel sistema nei periodi prece-denti30. È questa una delle teorie aventi maggiore potere esplicativodella persistente diversità delle strutture proprietarie che tuttora siosservano nei sistemi economici avanzati, nonostante la globalizza-

23Profili storici e quadro internazionale

27 CARL KESTER, American and Japanese Coporate Governance: Convergence to BestPractices, in SUZANNE BERGER – RONALD DORE, National Diversity and Global Capitalism,Cornell University Press, 1996.28 MARK ROE, Chaos and Evolution in Law and Economics, in “Harvard Law Review”, 1996.29 WILLIAM BRATTON - JOSEPH MCCAHERY, Comparative Corporate Governance and theTheory of the Firm: The Case Against Global Cross Reference, in “Columbia Journal ofTransnational Law”, 1999.30 LUCIAN BEBCHUK - MARK ROE, A Theory of Path Dependence in Corporate Ownershipand Governance, in “Stanford Law Review”, 1999.

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zione del contesto economico-sociale31. Le ragioni della persistenzasono individuate sia in termini di efficienza economica, che in ter-mini di radicamento nelle posizioni di potere e di rendita.

Ad esempio, con riferimento alla persistenza delle aziende fami-liari, come sarà meglio discusso in seguito, possono inquadrarsinella teoria della “path dependence” le spiegazioni che ruotano attor-no all’estrazione dei benefici privati del controllo (“rent-seeking”),ma anche il maggior valore specifico che l’accumulazione di cono-scenza tacita nell’ambito della famiglia conferisce all’impresa, diva-ricando il prezzo equo di cessione del controllo dal prezzo massimodi offerta di terze parti. Tale aspetto è inquadrabile, secondo taluni,nel c.d. “endowment effect”32.

1.3 Alla ricerca delle determinanti del capitalismo familiare: unquadro internazionale in una prospettiva evolutiva

L’evoluzione del capitalismo familiare negli ultimi due secoli hadestato un notevole interesse anche nell’ambito degli studi sulla sto-ria d’impresa, soprattutto in ragione dell’evidente divergenza tra isistemi in cui si è verificata una netta transizione dalla struttura pro-prietaria a controllo familiare alla struttura proprietaria ad aziona-riato diffuso (Regno Unito, Stati Uniti, …) ed i sistemi in cui lastruttura proprietaria familiare rimane caratterizzante o dominante(Europa ed Asia dell’Est).

Le posizioni di Chandler e Lazonick sono emblematiche dell’in-terpretazione invalsa nella seconda metà del novecento.

24 Le aziende di famiglia “quotate”

31 Con riferimento al caso italiano, si veda il recente lavoro di Barucci, che in una ampiaanalisi empirica cerca risposte, tra l’altro, agli interrogativi sulla convergenza dei modellidi corporate governante ed in particolare sul perché le riforme della nostra regolamen-tazione societaria non sembrano aver prodotto, tuttora, effetti radicali sulla struttura pro-prietaria e sul modello di controllo delle imprese: EMILIO BARUCCI, Mercato dei capitali ecorporate governante in Italia. Convergenza o path dependance? Roma, Carocci, 2006. 32 L’”endowment effect” è l’atteggiamento di chi per rinunciare ad un oggetto possedutorichiede molto di più di quanto sarebbe disposto a pagare per comprarlo”. In economiaquesto comportamento è stato verificato in numerosi esperimenti. Si veda: STEFFEN HUCK

– GEORG KIRCHSTEIGER – JORG OECHSSLER, Learning to Like What You Have. Explainingthe Endowment Effect, in “The Economic Journal”, july, 2005.

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Chandler, nel lavoro “Scale and Scope”33, attribuisce il declino dicompetitività del Regno Unito tra la fine del diciannovesimo e l’ini-zio del ventesimo secolo al cosiddetto “capitalismo personale”, nelquale l’obiettivo di trasmissione agli eredi della proprietà familiareaveva distolto l’attenzione degli imprenditori dalle più importantiesigenze di sostenere adeguati investimenti nella produzione, nelladistribuzione e nel management delle aziende, divenuti imprescin-dibili con il progresso tecnologico della seconda rivoluzione indu-striale.

Questa posizione tuttavia non è condivisa unanimemente tra glistudiosi di “business history”. E del resto, come già dimostrato, la suageneralizzabilità è de facto smentita dalla persistenza delle struttureproprietarie familiari, che si sono dimostrate finora compatibili conmodelli di business ad alta intensità di investimento tecnologico,quali ad esempio quelli dei settori automotive o dell’elettronica diconsumo (basti pensare a Peugeot, Tata, Michelin, Mitsubishi, ...).

Ampia letteratura34 ha evidenziato come le aziende di famiglia,pur soffrendo di alcune criticità ascrivibili alla gestione dei rappor-ti tra impresa e famiglia (successione, selezione del management,debolezza finanziaria,...), abbiano tuttavia significativi vantaggi intermini di lunghezza dell’orizzonte temporale dei processi di inve-stimento, di sviluppo di cultura ed identità aziendale, di conoscen-za tacita, ecc.

25Profili storici e quadro internazionale

33 ALFRED CHANDLER, Scale and Scope. The Dynamics of Industrial Capitalism, Cambridge,Belknap Press, 1990. Si veda anche: WILLIAM LAZONICK, Business Organisation and theMyth of the Market Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1991.34 Questi temi stanno destando recentemente un crescente interesse nell’ambito della let-teratura economico-aziendale internazionale e nazionale, ma sono stati affrontati anche inalcuni filoni degli studi di “business history” anglosassoni. Si veda, ad esempio:GEOFFREY JONES – MARY ROSE (Ed. by), Family Capitalism, London, Frank Cass, 1993.In particolare, nell’ambito del volume, i seguenti contributi: GEOFFREY JONES – MARY

ROSE, Family Capitalism, in GEOFFREY JONES – MARY ROSE (Ed. by), Family Capitalism,op. cit., 1993; ROY CHURCH, Family Firm in Industrial Capitalism: InternationalPerspectives on Hypothesis and History, in GEOFFREY JONES – MARY ROSE (Ed. by),Family Capitalism, op. cit., 1993. Per quanto riguarda la letteratura economico-aziendale si rinvia al prosieguo della trat-tazione per i numerosi riferimenti bibliografici. A mero titolo esemplificativo si ricorda ilseguente tra i pregevoli interventi di Demattè: CLAUDIO DEMATTÈ, Ricambio o scontrogenerazionale, in “Economia & Management”, n. 2, 1988.

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Su questi aspetti si ritornerà ampiamente nei capitoli seguenti.In questa sede si ritiene utile fare un breve riferimento alle carat-

teristiche distintive delle grandi aziende di famiglia nei diversi con-testi geografici, per comprendere, sia sotto il profilo storico che inuna prospettiva evolutiva, le determinanti che favoriscono la persi-stenza, o il superamento, del capitalismo familiare. Il filone di studisulle determinanti delle strutture proprietarie delle imprese ha for-nito alcune interpretazioni che possono essere utili allo scopo.

Ad avviso di chi scrive, il ruolo delle aziende di famiglia neimoderni sistemi capitalistici può essere analizzato tenendo in consi-derazione i seguenti aspetti, ovviamente tra loro interconnessi:

– la storia;– la cultura;– la politica;– la regolamentazione;– il contesto finanziario.Per quanto riguarda il profilo storico, può farsi un parallelismo

tra la struttura proprietaria delle imprese e le modalità di eserciziodel potere di governo nei secoli antecedenti all’avvento del capitali-smo.

In Inghilterra, paese di common law, lunga è la tradizione di tute-la dei diritti di proprietà privata di tutti i cittadini quale strumentodi equilibrio e contrasto del potere del Re, mentre in paesi quali laFrancia, la Germania o l’India i monarchi erano posti al di sopradella legge. In tal senso, la struttura proprietaria delle imprese tro-verebbe il suo antecedente storico nella ripartizione della terra nel-l’era pre-industriale (più frazionata in Inghilterra ed inNordamerica ed in mano a pochi latifondisti nell’Europa continen-tale, in Sudamerica ed in India, solo per citare alcuni esempi) ocomunque in significativi eventi storici in grado di segnare il corsodegli eventi35.

26 Le aziende di famiglia “quotate”

35 Un esempio di “path dependence” dagli eventi storici è stato considerato quello francese, incui nel ‘700 il paese aveva il sistema finanziario più avanzato e le imprese più grandi delmondo, che avevano iniziato a emettere azioni per sostenere gli investimenti. Ma la domandadi investimenti fu stimolata in eccesso. Nel 1720 la Mississippi Company, e con essa tutto ilsistema economico, implose drammaticamente. La reazione culturale e della regolamen-tazione societaria fu fortissima. La letteratura ha collegato a tale episodio il fatto che la Franciasi è avviata in un sentiero di sviluppo economico in cui la gestione delle imprese da parte delle

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Ciò spiegherebbe perché il capitalismo delle public companies èdominante in Inghilterra e nei paesi civilizzati dal colonialismoinglese, ma non nell’Europa continentale, in Sudamerica o in Asia.

Il radicamento del capitalismo familiare in Italia sarebbe piena-mente coerente con tale approccio, tenendo conto che il ruolo delpapato, del feudalesimo, delle signorie e delle dominazioni napoleo-niche e borboniche hanno comportato lunghi periodi di egemoniadel potere di governo rispetto allo stato di diritto e alla tutela dellaproprietà privata diffusa.

L’eccezione sarebbe costituita dal Giappone, che ha una storia diimperatori non solo al di sopra della legge, ma considerati vere divi-nità, e dove dal secondo dopoguerra le grandi imprese a controllofamiliare sono ridotte ad una minoranza36.

Anche qui la storia ha però un ruolo determinante. Alla metà del-l’ottocento, il Giappone era un paese fortemente conservatore, fon-dato su un sistema di caste, in cui peraltro le famiglie imprendito-riali non avevano posizioni di spicco, di gran lunga superate quantoa potere da sacerdoti e guerrieri. Durante la restaurazione dell’im-pero Meiji, le necessità di rilanciare lo sviluppo industriale e di con-trastare l’avanzata delle imprese statunitensi condusse a forti inno-vazioni culturali, politiche ed economiche. Il governo dapprimafondò il rilancio sulla creazione di grandi imprese a controllo stata-le e poi, sotto il peso dei debiti, le privatizzò, lasciandole nelle manidi pochissime grandi famiglie imprenditoriali (Mitsui, Sumitomo,l’emergente Mitsubishi e poche altre), che crearono immensi grup-pi a struttura piramidale (i c.d. “zaibatsu”).

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il governo di occu-pazione americana esportò in Giappone il modello del “New Deal”Roosveltiano, smantellando gli “zaibatsu” e forzando la vendita alpubblico della proprietà delle imprese. Ma proprio l’assenza di una

27Profili storici e quadro internazionale

famiglie ricche del Paese, sotto la vigilanza stretta dello Stato, ovvero da parte dello Statomedesimo in via diretta, è considerata la forma più sana di capitalismo. In tal senso: ANTOIN

MURPHY, Corporate ownership in France: the importance of history, in RANDALL MORCK (Ed.by), A History of Corporate Governance around the World., op. cit., 2007.36 Per una analisi, in prospettiva storica, degli assetti di corporate governance in Giapponesi veda: RANDALL MORCK – MASAO NAKAMURA, A Frog in a Well Knows Nothing of theOcean: A History of Corporate Ownership in Japan, in RANDALL MORCK (Ed. by), A Historyof Corporate Governance around the World., op. cit., 2007.

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cultura storica della proprietà diffusa ha probabilmente comporta-to che, successivamente, alcune ondate di acquisizioni abbianoriportato il potere di controllo delle grandi imprese nelle mani dialcune elite di finanzieri e manager, coalizzati tra loro attraverso ilpossesso di quote azionarie di blocco (è il noto modello dei “keiret-su”, tuttora il più diffuso per il controllo delle imprese).

La storia, e gli “incidenti storici”, hanno dunque un ruolo impor-tante quali determinanti delle strutture proprietarie. Tuttavia, ove vifosse l’effettiva supremazia di un modello proprietario in terminieconomici, i fattori storici dovrebbero rallentare, ma non annullaredel tutto, il processo di convergenza verso di esso.

Un secondo profilo riguarda la cultura diffusa nella societàcomune in termini di valori, religione, tradizioni. Tale aspetto è,ovviamente, a sua volta fortemente influenzato dai fattori storici.

Il capitalismo, del resto, ha radici Europee profondamente lega-te a fattori culturali e religiosi.

Max Weber, nel celebre lavoro “Etica protestante e spirito delcapitalismo”37, metteva in relazione le origini del capitalismo con letrasformazioni sociali che avevano condotto all’ascesa della borghe-sia ed alla rivoluzione francese, con le rivoluzioni nelle conoscenzescientifiche e con le religioni protestante e calvinista. SecondoWeber, la civiltà del capitalismo è quindi prodotta da uno ‘spirito’particolare, sintesi di religiosità e laicità, ispirato dalla religione cal-vinista38. Il capitalismo è “organizzazione razionale del lavoro for-malmente libero”, con forti legami all’ascesi ed alla morale.

Questo senso etico-religioso pone le famiglie, cellule essenzialiper l’etica dei sistemi sociali, al centro della mentalità capitalista,che in esse può trovare dispiegamento, essere opportunamente con-trollata e moderata dai valori etici e dall’identità familiare, e alfineessere tramandata, come le migliori tradizioni, di generazione ingenerazione.

28 Le aziende di famiglia “quotate”

37 MAX WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965.38 “Poiché per quanto l’uomo moderno in generale non sia in condizione, pur con lamigliore volontà possibile, di immaginarsi nella sua reale grandezza l’importanza che i datidella coscienza religiosa hanno avuto per la condotta della vita, la civilità e il carattere deipopoli, tuttavia non può essere nostra intenzione di sostituire ad una interpretazione cau-sale della civiltà e della storia astrattamente materialistica, un’altra spiritualistica astrattadel pari. Tutte e due sono egualmente possibili …” (MAX WEBER, L’etica protestante e lospirito del capitalismo, op. cit., 1965, p. 307).

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Naturalmente, ciò ha come conseguenza che attori del capitali-smo siano coloro che, per cultura, estrazione sociale ed appartenen-za familiare, siano di tali valori maggiormente intrisi.

Nei paesi anglosassoni, ed in particolare nei paesi nordamericaninati come colonie inglesi, la cultura del merito, della libera iniziati-va, dell’uguaglianza del punto di partenza sono molto più forti inquanto non contaminate da secoli di gestione del potere in una pro-spettiva feudale o di casta39.

In questa prospettiva, il modello dell’azienda di famiglia è piùconnaturato alla cultura dei paesi europei (Francia, Germania,Italia) ed Asiatici (India, Corea, Cina, …), che a quella dei paesianglosassoni. E ciò può spiegare la maggiore persistenza delle azien-de di famiglia nei primi, e non nei secondi.

In India, ad esempio, il sistema sociale delle caste crea i presup-posti per il riconoscimento incontrastato della concentrazione delpotere economico in mano a poche famiglie. Le famiglie Tata e Birlainfluenzano, da secoli e da sole, l’intero sistema economico. E ciònon costituisce un problema, poiché si integra perfettamente nellacultura della società comune e nelle logiche dello Stato.Conseguentemente, questi grandi gruppi familiari riescono ad otte-nere vantaggi competitivi unici grazie alle connessioni politiche econ il mondo finanziario (che in gran parte riescono ad integrare alloro interno). Essi non soffrono dunque delle limitazioni alla cresci-ta tipiche del capitalismo familiare europeo e raggiungono dimen-sioni e livelli di efficienza elevatissimi, presentandosi peraltro moltopiù robusti e solidi di fronte a momenti di crisi40.

Il caso dei “chaebol” della Corea del Sud (i gruppi conglomera-ti a proprietà familiare responsabili dello sviluppo industriale delpaese) presenta molte analogie con il caso indiano, pur caratteriz-zandosi per essere di più recente formazione.

29Profili storici e quadro internazionale

39 Questo principio dell’uguaglianza del punto di partenza ha comportato anche, ad esem-pio nel Regno Unito, l’applicazione di imposte di successione molto alte ed estremamentedisincentivanti per la trasmissione di generazione in generazione dell’aziende di famiglia. 40 La continuità per decenni, e spesso secoli, è considerata uno degli elementi socialmentepiù utili dell’assetto proprietario familiare dei gruppi asiatici. Si veda: TARUN KHANNA

–KRISHNA PALEPU, Is group affiliation profitable in emerging markets? An analysis of diver-sified Indian business groups, in “Journal of Finance”, 2000.

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Diversamente, nei paesi anglosassoni le imprese, spinte dalledinamiche competitive a raggiungere la grande dimensione, nonhanno trovato sponde altrettanto stabili, durevoli ed efficaci nelleconnessioni tra singole famiglie imprenditoriali e politica. Inoltre, lacultura del mercato finanziario era in tali paesi più pronta a sosti-tuirsi alle famiglie nella proprietà delle imprese, che hanno quindiimboccato la via dell’azionariato diffuso. E gli autorevoli studi diBusiness History di Chandler e Lazonick giustificano il declino del-l’industria britannica agli inizi del novecento proprio con il ritardo,rispetto agli Stati Uniti, nel passaggio dal “capitalismo personale”all’azionariato diffuso41.

Infine, due importanti filoni di letteratura, già richiamati nelparagrafo precedente, hanno posto la regolamentazione e la politi-ca tra le determinanti delle strutture proprietarie delle imprese. Talifiloni possono essere denominati rispettivamente “law mattershypothesis” e “political economy hypothesis”.

Come è noto, la “law matters hypothesis”, alimentata da unaserie di articoli di La Porta, Lopez de Silanes, Shleifer e Vishny42,pone la regolamentazione a protezione degli investitori come deter-minante fondamentale delle strutture proprietarie. La tesi di fondoè che gli investitori di minoranza sono meno inclini ad investire neipaesi in cui la regolamentazione li protegge meno.

Conseguentemente, in tali paesi i mercati azionari sono meno svi-luppati e le strutture proprietarie rimangono più concentrate.

Questo filone di studi ha avuto il notevole merito di aprire l’oriz-zonte della letteratura che appariva sulle riviste americane a paesiche non fossero soltanto Stati Uniti, Regno Unito, Germania eGiappone e di risalire alla determinante legale della struttura deimercati finanziari, non fermandosi alla distinzione tra sistemi orien-tati al mercato e sistemi banco-centrici.

30 Le aziende di famiglia “quotate”

41 Si vedano, tra gli altri, i lavori precedentemente citati di questi due autori.42 Il primo studio sul rapporto tra regole e struttura proprietaria è un’analisi cross-sectionaldella regolamentazione societaria in 49 paesi con una prima analisi di correlazione con lastruttura proprietaria: RAFAEL LA PORTA - FLORENCIO LOPEZ DE SILANES - ANDREI SHLEIFER,Law and Finance, in “ Journal of Political Economy”, 1998. Tale lavoro era stato precedutoda un’analisi dell’impatto dei sistemi di regolamentazione sullo sviluppo dei mercatifinanziari: RAFAEL LA PORTA - FLORENCIO LOPEZ DE SILANES - ANDREI SHLEIFER, LegalDeterminants of External Finance, in “The Journal of Finance”, Luglio, 1997. E fu seguito dalgià citato: RAFAEL LA PORTA ET AL., Corporate Ownership Around the World, op. cit., 1999.

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Gli autori classificano i sistemi giuridici in quattro classi: com-mon law inglese, civil law francese, civil law tedesco, civil law scan-dinavo. Il sistema di common law fornisce la migliore protezioneagli investitori; il sistema francese quella peggiore. I sistemi tedescoe scandinavo si collocano in posizione intermedia, ma sono caratte-rizzati da elevata capacità di far rispettare le regole (“enforcement”).

La protezione degli investitori è valutata attraverso un indice chestilizza il sistema di regole prendendo in considerazione alcune tipichedisposizioni che tutelano l’esercizio dei diritti degli azionisti di mino-ranza, quali le deleghe di voto, l’assenza di obbligo di deposito delleazioni, le soglie per la convocazione dell’assemblea e per l’eserciziodell’azione di responsabilità, le clausole di prelazione e gradimento, lapossibilità di emettere azioni senza diritto di voto, il diritto di recesso.

La tesi degli autori è in contrasto con parte del pensiero dominan-te all’epoca. Sotto le ipotesi del teorema di Coase, se i diritti di pro-prietà sono chiaramente definiti ed i contratti possono essere azionatiin giudizio, i mercati finanziari possono regolarsi con la contrattazioneprivata. Una regolamentazione specifica sarebbe quindi irrilevante perla protezione degli investitori43. È questa la tesi di Easterbrook e Fishel,secondo i quali l’autonomia nelle clausole statutarie e nella contratta-zione privata consente l’integrazione e l’aggiramento della regolamen-tazione standard, rendendola di fatto irrilevante44.

Nel successivo lavoro “Corporate Ownership Around theWorld”, gli autori confermano le loro conclusioni in merito alla cor-relazione inversa tra protezione degli investitori e concentrazioneproprietaria, ma evidenziano chiaramente, pur non traendone con-clusioni decisive, come la concentrazione proprietaria ed il control-lo familiare siano largamente diffuse anche in quasi tutti i paesifacenti parte del gruppo con alto indice di protezione degli investi-tori. Ad esempio in Argentina ed Hong Kong, limitandosi al cam-pione delle 20 imprese più grandi, la quota delle imprese a control-lo familiare è del 65/70% e la media del campione di paesi ad altaprotezione degli investitori è comunque del 25%45.

31Profili storici e quadro internazionale

43 RONALD COASE, The Problem of Social Cost, in “Journal of Law and Economics”, 1961.44 FRANK EASTERBROOK – DANIEL FISCHEL, The Economics Structure of Corporate Law,Cambridge Massachusstes, Harvard University Press, 1991.45 RAFAEL LA PORTA ET AL., Corporate Ownership Around the World, op. cit., 1999.

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La tesi secondo la quale buone regole a protezione degli investi-tori conducono alla dispersione dell’azionariato ed allo sviluppo deimercati azionari non è, a tutt’oggi, priva di critici, né del tutto pro-vata empiricamente46.

In primo luogo, rimane da spiegare perché l’evoluzione e la par-ziale convergenza della regolamentazione dei mercati azionari versouna maggiore protezione degli investitori non abbia ancora prodot-to la convergenza globale verso il modello di proprietà ad azionaria-to diffuso47.

Sotto questo profilo, l’Italia si manifesta un caso di estremo inte-resse. Può a ragione sostenersi che le riforme della regolamentazionesocietaria intervenute dagli anni novanta in poi hanno notevolmenteincrementato il livello di tutela degli investitori, ma non hanno anco-ra determinato una riduzione significativa della concentrazione pro-prietaria, né hanno alimentato il mercato del controllo48.

L’ambito empirico di osservazione dell’evoluzione regolamentareè di estremo interesse. A partire dal 1991 si sono rapidamente suc-ceduti la legge sull’intermediazione mobiliare (1991), che ha rifor-mato le categorie professionali dei mercati borsistici; il Testo UnicoBancario (1993), che ha regolamentato ad ampio spettro l’eserciziodelle attività di intermediazione finanziaria e gli intrecci finanza-

32 Le aziende di famiglia “quotate”

46 La “law matters thesis” è stata testata empiricamente, senza trovare riscontro all’ipotesidella dipendenza dello sviluppo dei mercati dalla protezione degli investitori. Si veda:JOHN ARMOUR – SIMON DEAKIN – PRABIRJIT SARKAR – MATHIAS SIEMS – AJIT SINGH,Shareholder Protection and Stock Market Development: An Empirical Test of the LegalOrigins Hypothesis, EGCI – Law Working Paper, may, 2008. 47 La supremazia del modello di common law nel garantire maggiore protezione degli inve-stitori è generalmente spiegata con la più elevata flessibilità decisionale dei giudici, checonsente al sistema di adattarsi più rapidamente all’evoluzione dell’ambiente economico,anche in assenza di interventi normativi. In tal senso: THORSTEN BECK – ASLI DEMIRGUC

KUNT – ROSS LEVINE, Law and Finance: Why does legal origin matter?, NBER Workingpaper, 2002. Altri tuttavia, dimostrano come la convergenza verso la protezione degli inve-stitori prescinde dal sistema legale di origine (common law o civil law). Per uno studio suipaesi dell’ex Unione Sovietica: KATHARINA PISTOR, Patterns of legal change: shareholderand creditor rights in transition economies, in “European Business Organization LawReview”, 2000.48 Per una recentissima indagine empirica che analizza tale fenomeno con un approcciolongitudinale: ALESSANDRO ZATTONI – FRANCESCA CUOMO, L’impatto della tutela legaledegli azionisti sull’assetto proprietario delle grandi imprese. Un’indagine longitudinale sulleimprese italiane quotate, Paper accettato per la presentazione al Convegno AnnualeAIDEA, Napoli, 2008.

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industria; la legge sulle privatizzazioni (1994), cui è conseguita unanotevole riduzione della quota di capitalizzazione di borsa in manoallo Stato; il Testo Unico della Finanza (1998), che ha regolamenta-to l’attività degli emittenti e degli intermediari sul mercato borsisti-co, allineandola agli standard internazionali; il codice di autodisci-plina delle società quotate (1999), che grazie anche ai successiviaggiornamenti ha avuto un ruolo determinante nella diffusione dimigliori pratiche di corporate governance49; la riforma del dirittosocietario (2003), che ha introdotto maggiore flessibilità nell’orga-nizzazione delle società di capitali e maggiori tutele per le minoran-ze; la riforma del risparmio (2005), che (non senza ritardo) sull’on-data degli scandali finanziari ha ulteriormente potenziato la traspa-renza societaria e le tutele per le minoranze.

La struttura proprietaria delle imprese italiane in effetti ha subi-to significativi mutamenti, ma non nel senso della diffusione dell’a-zionariato, bensì in una parziale sostituzione del controllo di dirittocon il controllo mediante il modello delle coalizioni, cioè mediantepatti parasociali tra azionisti rilevanti. La ragione principale di talefenomeno è però ascrivibile alle privatizzazioni di alcune grandiimprese50. Al netto di tale fenomeno, i cambiamenti indotti nellastruttura proprietaria delle imprese quotate italiane dalle riformenormative sembrano trascurabili.

33Profili storici e quadro internazionale

49 Non possono essere negati gli effetti positivi del quadro istituzionale sulle pratiche dicorporate governance delle imprese italiane. L’adozione del codice di autodisciplina, adesempio, ha indubbiamente contribuito all’evoluzione dei sistemi di corporate governan-ce delle imprese, a prescindere dalla struttura proprietaria. Un’indagine su scala mondialeha però dimostrato che l’adozione dei codici di autodisciplina, in una prospettiva istituzio-nale, è motivata più dalla legittimazione delle imprese nazionali nel contesto globale, chedal perseguimento dell’efficienza economica. Si veda: ALESSANDRO ZATTONI – FRANCESCA

CUOMO, Why Adopt Codes of Good Governance? A Comparison of Institutional andEfficiency Perspectives, in “Corporate Governance: An International Review”, n. 1, 2008.50 Dall’inizio degli anni novanta ad oggi, il sistema economico italiano ha vissuto una stagio-ne di privatizzazioni che ne hanno cambiato drasticamente alcuni profili tipici. Ciò hariguardato anche le più grandi società quotate. In molti settori, tuttavia, il processo non hacondotto né a società contendibili, né ad una effettiva situazione di concorrenza (basti pen-sare al sempre attuale problema della rete di telefonia fissa). Per un’analisi delle premesse edei primi sviluppi del processo: LUCA ANSELMI, Le partecipazioni statali oggi. Analisi dellecondizioni di equilibrio aziendale, Torino, Giappichelli, 1994. Sugli effetti delle strategie pri-vatizzazione in termini di risultati delle aziende e di competitività del sistema: LUDOVICO

MARINÒ, Strategie di riforma del settore pubblico in una prospettiva economico-aziendale.Privatizzazione e gestione contrattuale delle public utilities, Torino, Giappichelli, 2005.

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Come può notarsi dalla tabella sottostante, tra il 1996 ed il 2004il mercato azionario è cresciuto notevolmente in termini di peso sulPIL, coerentemente con la tesi della relazione positiva tra protezio-ne degli investitori e sviluppo del mercato dei capitali. Inoltre, laquota dei diritti di voto in mano al primo azionista (o famiglia dicontrollo) è scesa notevolmente, dal 50,4% al 32,7%. Ciò sembre-rebbe pienamente coerente con la tesi della relazione inversa traprotezione degli investitori e concentrazione proprietaria. In realtà,i dati mostrano come la riduzione della concentrazione azionaria incapo al primo azionista sia interamente spiegata dalla riduzione delcontrollo da parte dello Stato (dal 32,5% al 10,7%), come peraltroconfermato dal fatto che si è interamente verificata nel periodo delleprivatizzazioni (1994-1996), rimanendo poi sostanzialmente stabile.

È inoltre interessante notare come tale riduzione non abbia favo-rito l’azionariato diffuso, ma i modelli di controllo di fatto (cioè conquote di partecipazione inferiori al 50% e sfruttamento della c.d.leva azionaria) ed il controllo mediante “coalizioni”. Il controllo difatto è cresciuto dal 12,2% al 27,2% ed il controllo mediante coali-zioni dal 4,8% al 15,1%51. L’incremento delle società senza un azio-

34 Le aziende di famiglia “quotate”

51 Il fenomeno è ben sottolineato in alcuni recenti studi, tra i quali si ricordano: MARCELLO

BIANCHI – MAGDA BIANCO – SILVIA GIACOMELLI – ALESSIO PACCES – SANDRO TRENTO,

Tabella 2. EVOLUZIONE DELLA STRUTTURA PROPRIETARIA IN ITALIA (1996-2004)((SSoocciieettàà qquuoottaattee BBoorrssaa IIttaalliiaannaa)) 11999966 11999988 22000044

N° società quotate 248 243 278Capitalizzazione di borsa (€/mld) 203 485 581Capitalizzazione/PIL 20,6% 45,2% 43,1%

Diritti voto primo azionista 50,4% 33,8% 32,7%Diritti voto dello Stato 32,5% 8,8% 10,7%Società controllate di diritto 66,8% 32,3% 32,7%Società controllate di fatto 12,2% 21,7% 27,2%Società controllate da coalizioni 4,8% 7,4% 15,1%Società non controllate 16,2% 38,6% 25,0%

Capitalizzazione “holdings” 13,8% 17,3% 28,4%Capitalizzazione “famiglie” 19,8% 24,6% 25,2%Capitalizzazione “Stato” 29,8% 8,9% 10,6%Capitalizzazione “Istituzionali ed Esteri” 36,6% 49,2% 35,8%

Fonte: Consob (righe 1-9) e Fese (righe 10-13)

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nista di controllo, inizialmente favorito dalle privatizzazioni, si è,come è noto, poi nuovamente ridotto. (tabella 2)

In secondo luogo, la correlazione osservata tra regolamentazionee struttura proprietaria potrebbe essere frutto di una relazione disegno inverso: se in un paese è dominante una certa struttura pro-prietaria, i soggetti che controllano le imprese eserciteranno azionidi lobbying affinché il sistema delle regole protegga gli assetti pro-prietari esistenti.

Questo approccio è tipico della c.d. “politics matter thesis”, chetrova le sue origini nel celebre lavoro di Mark Roe del 199452 (ogget-to di critica da parte del gruppo della “Law matters thesis”), secon-do il quale lo sviluppo del mercato azionario e la struttura proprie-taria delle grandi società americane dipende dal condizionamentoche i manager esercitano sui gruppi di potere politico e finanziario,al fine di evitare che altre categorie di soggetti acquisiscano il con-trollo azionario delle imprese. In tal modo essi sono in grado di per-petuare il controllo manageriale esercitato sulle imprese, influen-zando di fatto le decisioni fondamentali sul funzionamento dei mer-cati. Ciò spiega la persistenza dei modelli proprietari e costituisceun argomento contro la pretesa supremazia, in termini di efficienzaeconomica, del modello ad azionariato disperso.

La tesi della dipendenza della struttura proprietaria dai gruppi diinfluenza politica è stata sistematizzata da Roe nel successivo lavorodel 2003 “Political determinants of corporate governance”53.L’ideologia di fondo che ispira la politica non è neutrale rispetto aicosti di agenzia indotti dalla separazione tra proprietà e controllo.

Il punto di partenza del ragionamento è che il comportamentodei manager professionali che non sono azionisti (se non in misuraridotta), tenderebbe a privilegiare gli interessi dei lavoratori e deglialtri stakeholders con cui convivono quotidianamente rispetto agliinteressi degli azionisti. I manager preferiscono ad esempio perse-

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Proprietà e controllo delle imprese italiane, Bologna, Il Mulino, 2005; EMILIO BARUCCI,Mercato dei capitali e corporate governance in Italia, op. cit., 2006.Si veda anche, sul legame tra struttura proprietaria e performance delle grandi imprese ita-liane: DAVIDE RAVASI – ALESSANDRO ZATTONI, Grandi imprese e grandi gruppi in Italia.Assetto proprietario e performance, in “Economia % Management”, n. 2, 2000. 52 MARK ROE, Strong managers, weak owners: the political roots of American corporatefinance, Princeton, Princeton University Press, 1994.

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guire la crescita più che la profittabilità, sono poco inclini alleristrutturazioni ed ai licenziamenti, presentano un livello di propen-sione al rischio più contenuto degli azionisti. Se si aggiunge l’argo-mentazione dell’influenza sul sistema di relazioni politiche e finan-ziarie, si spiega l’affermazione del modello ad azionariato diffusonegli Stati Uniti.

Nelle socialdemocrazie europee (quali ad esempio la Germania,la Francia e l’Italia), il potere dei lavoratori è però più elevato54 epiù strettamente connesso con la politica, che tende a difendere iloro interessi. Nei momenti in cui è necessario tutelare gli interessidegli azionisti rispetto a quelli dei lavoratori, anche a garanzia dellastessa continuità aziendale, il modello ad azionariato dispersopotrebbe rivelarsi inefficiente perché i manager avrebbero un pote-re di influenza politica e contrattuale troppo basso per condurre inporto le decisioni gestionali più opportune. Ecco quindi spiegatoperché, nei paesi dell’Europa continentale e nei paesi scandinavi, lastruttura proprietaria concentrata è persistente: essa è economica-mente più efficiente per tutelare il complesso degli stakeholders,inclusi ovviamente gli azionisti, in quanto in tali paesi i costi diagenzia conseguenti alla separazione tra azionariato e managementsono più elevati. La guida dell’azionista imprenditore di riferimen-to consente di mantenere un orientamento strategico vigile edaggiornato lungo il sentiero del successo duraturo dell’impresa piùdi quanto farebbe una guida manageriale55. L’imprenditore, in talsenso, diviene l’interlocutore privilegiato, e più affidabile, delleparti politiche per l’interlocuzione con le parti sociali56.

Anche in questo caso, l’interrelazione tra politica ed imprese

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53 MARK ROE, Political determinants of corporate governance, Oxford, Oxford UniversityPress, 2003.54 Il caso in cui tale fenomeno trova maggiore formalizzazione ed istituzionalizzazione èquella della “codeterminazione” in Germania. La teoria di Roe vale tuttavia anche inassenza di codeterminazione (MARK ROE, Political determinants of corporate governance,op. cit., p. 33).55 L’idea del soggetto economico come motore del successo delle imprese è tipica della dot-trina economico-aziendale italiana. “… il Soggetto economico di qualsiasi azienda, nell’as-solvere il proprio ruolo di ‘stratega del cambiamento’, potenzialmente, è sempre in gradodi esprimere idee vincenti, cioè capaci di determinare il successo dell’impresa” (UMBERTO

BERTINI, In merito alle ‘condizioni’ che determinano il successo dell’impresa, in Scritti di poli-tica aziendale, Torino, Giappichelli, 1995).

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auto-perpetua la struttura proprietaria, impedendone la convergen-za a livello globale57.

In ogni caso, sia la “law matters thesis” che la “politics matters the-sis”, diversamente dall’approccio alla Berle e Means, non prediconola convergenza delle strutture proprietarie verso il superiore modellodell’azionariato diffuso, ma forniscono argomentazioni, ancorchédiverse ed in parte divergenti, sulle ragioni della persistenza dellastruttura azionaria concentrata nella maggior parte dei paesi.

Un ultimo profilo di analisi con riferimento ai fattori determinanti lastruttura proprietaria delle imprese è quello del contesto economico-finanziario, principalmente con riferimento ai tassi di crescita ed allosviluppo dei mercati finanziari. Senza dubbio, si tratta di alcune tra leprincipali variabili di ambiente che influiscono sulla vita delle imprese.

L’aspetto che più interessa in questa sede è quello dei mercatifinanziari. Nel mondo economico contemporaneo si osserva unatendenziale correlazione tra sviluppo dei mercati azionari e disper-sione dell’azionariato. I paesi nei quali l’azionariato è più disperso(Stati Uniti e Regno Unito) sono anche quelli con i mercati aziona-ri più grandi, avanzati e, allo stato attuale, trainanti (c.d. “marketbased system”). Una maggiore concentrazione azionaria si osservainvece nei paesi dove i mercati finanziari sono imperniati sul siste-ma bancario (c.d. “bank based system”)58.

37Profili storici e quadro internazionale

56 Anche questo concetto è caro alla dottrina economico-aziendale italiana (anche se natu-ralmente molto diversa è la prospettiva di analisi del problema dell’Economia Aziendaleitaliana rispetto alla “law matters thesis”). Secondo Coda, il sistema degli interlocutorisociali è uno degli elementi fondamentali di una “formula imprenditoriale” di successo. Siveda: VITTORIO CODA, La valutazione della formula imprenditoriale, in “Sviluppo eOrganizzazione, n. 82, 1985. Ed anche, diffusamente: VITTORIO CODA, L’orientamentostrategico dell’impresa, Torino, Utet, 1988, p. 71 e ss.57 Un caso eclatante è quello svedese, in cui la triangolazione fiduciaria tra potere politico,famiglie imprenditoriali e lavoratori consente il persistere del capitalismo familiare comeforma dominante, con un grado di separazione tra proprietà e controllo molto elevato, otte-nuto tramite le azioni prive di diritto di voto o a voto plurimo (c.d. “dual class shares”), senzache ciò pregiudichi un buono sviluppo dei mercati finanziari. Si veda, con un approccio cri-tico sui risultati del processo in termini di attuale fragilità del sistema economico svedese:PETER HOGFELDT, The history and politics of corporate ownership in Sweden, in RANDALL

MORCK (Ed. by), A History of Corporate Governance around the World., op. cit., 2007.58 Per un’analisi comparata dei principali modelli: FRANCESCA DI DONATO, I diversi model-li di corporate governance. Un’analisi comparata, in GIOVANNI FIORI – RICCARDO TISCINI (Acura di), Corporate governance, regolamentazione contabile e trasparenza dell’informativaaziendale, Milano, FrancoAngeli, 2005.

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Sull’efficienza economica dei diversi sistemi esiste una vasta let-teratura, che osserva una correlazione tra sviluppo dei mercatifinanziari e crescita, ma che non arriva a stabilire la supremazia diun sistema rispetto all’altro59. L’efficienza economica comparata deidue sistemi dipende dal tasso di sviluppo del sistema economico (lebanche contribuiscono meglio alla crescita dei paesi in via di svilup-po60) e si differenzia soprattutto per la capacità di allocare capitali erischi in una prospettiva di medio-lungo periodo, tipica del sistemabancocentrico61, e di finanziare l’innovazione, cui contribuisce mag-giormente il mercato azionario62.

Tornando al problema della struttura proprietaria, la letteraturanon sembra pervenuta alla definizione di una relazione causaledimostrata. La diffusione dell’azionariato potrebbe non essere laconseguenza dello sviluppo dei mercati azionari, bensì la causa: imercati si sviluppano laddove altre condizioni di contesto determi-nano condizioni favorevoli per la dispersione dell’azionariato.

Un’analisi profonda dei fattori che determinano la struttura pro-prietaria delle imprese esula dagli obiettivi del presente lavoro, chenella prospettiva aziendalistica intende analizzare i punti di forza edi debolezza del modello dell’azienda di famiglia quotata sui merca-ti azionari.

L’analisi consente tuttavia di pervenire ad alcune osservazionipreliminari utili alle finalità del presente lavoro.

In primo luogo, i sistemi capitalistici hanno vissuto nel ventesimosecolo stravolgimenti molto intensi ed il processo di globalizzazio-ne, negli anni più recenti, ha smussato molte differenze a livello difunzionamento e regolamentazione dei mercati finanziari. Tuttavia,ciò non ha prodotto, e non sembra stia producendo, l’affermazione

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59 ROSS LEVINE, Finance and Growth: theory and evidence, NBER Working Paper, 2004. Latesi trova le sue origini nella teoria dello sviluppo economico di Shumpeter: JOSEPH

SCHUMPETER, A theory of economic development, Cambridge Mass., Harvard UniversityPress, 1911.60 RAGHURAM RAJAN – LUIGI ZINGALES, Financial dependence and growth, in “TheAmerican Economic Review”, 1998.61 FRANKLIN ALLEN – DOUGLAS GALE, Comparing financial systems, Cambridge Mass.,MIT Press, 2001. Secondo gli autori, un sistema finanziario ottimale deve fondarsi sullacompresenza tra mercati ed intermediari efficienti.62 BENGT HOLMSTROM – JEAN TIROLE, Market liquidity and performance monitoring, in“Journal of Political Economy”, 1993.

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del modello di governance dell’impresa manageriale ad azionariatodiffuso.

Inoltre, le teorie della “path dependence” dei sistemi di governan-ce e gli approcci di tipo storico e culturale spiegano soltanto parzial-mente la persistenza del modello di governo familiare. La tesi dellaminore efficienza economica di tale modello dovrebbe infatti com-portarne, seppure con sentieri e tempi molto diversi, la progressivascomparsa.

Tenendo conto della velocità di cambiamento dei sistemi econo-mici contemporanei, ci si dovrebbe aspettare che tale processo siachiaramente visibile. L’evidenza empirica, tuttavia, non confermatale ipotesi.

Inoltre, anche gli approcci “law matters” e “politics matters”,pur generando fecondi filoni di letteratura e ricchissimi avanzamen-ti scientifici in materia, non giungono a spiegare la persistenza delmodello di azienda a governo familiare in paesi dove il livello di pro-tezione degli investitori ed il grado di liberismo nella politica econo-mica sono molto alti (si pensi ad esempio al Canada, in cui il 30%delle prime 20 imprese per dimensione è a controllo familiare)63.

In una prospettiva evolutiva, non può poi sottacersi che l’aumen-to di peso delle economie dei paesi emergenti (si pensi ad esempio,a Brasile, Russia, India e Cina, ma anche ad economie già da tempoimportanti quale quella della Corea del Sud) ripropone con forza larilevanza del modello dell’azienda di famiglia per il governo dellegrandi imprese. Sarà in effetti molto interessante vedere se lo svilup-

39Profili storici e quadro internazionale

63 Il caso del Canada è interessante perché, dopo un processo di diffusione dell’azionaria-to culminato negli anni ’60 del secolo scorso, la proprietà delle imprese è tornata a concen-trarsi significativamente nelle mani delle famiglie imprenditoriali. Secondo alcuni autori,ciò sarebbe ascrivibile in primo luogo a fattori fiscali (la riduzione delle imposte sulle pro-prietà private e sulla successione) ed ad un aumento dell’intervento dello Stato nell’econo-mia. Si veda: RANDALL MORCK – MICHAEL PERCY – GLORIA TIAN – BERNARD YEUNG, Therise and fall of widely held firm: A history of corporate ownership in Canada, in RANDALL

MORCK (Ed. by), A History of Corporate Governance around the World., op. cit., 2007.Si ritiene, tuttavia, che tali fattori spieghino solo in parte l’aumento del grado di concen-trazione proprietaria nelle mani delle famiglie, tenendo in considerazione che, rispetto allesocialdemocrazie europee prese ad esempio da Roe, il Canada si differenzia per una mag-giore caratterizzazione liberista e per un minore potere dei lavoratori e delle organizzazio-ni sindacali. I fattori della “politics matters view”, da soli, difficilmente avrebbero contra-stato una strutturale minore efficienza economica del modello azienda di famiglia rispettoagli altri, in modo tale da provocarne la diffusione dopo la sostanziale scomparsa.

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po dei mercati finanziari in tali paesi condurrà al superamento dellestrutture proprietarie attuali o se invece esse persisteranno acqui-sendo anzi peso sull’economia mondiale.

In questo scenario, il presente lavoro si propone di indagare “lecondizioni di esistenza e le manifestazioni di vita”64 delle aziende difamiglia quotate al fine di contribuire a spiegarne, tramite unmodello teorico, la diffusa persistenza nei sistemi economici attuali,nonché ad individuarne, in una prospettiva aziendalistica, i fattoricritici di successo e le cause di innesco delle crisi, i punti di forza edi debolezza. Riteniamo che, nelle aziende di famiglia quotate, ladiffusione di una cultura aziendale mirata alla valorizzazione deiprimi ed alla gestione consapevole dei secondi sia infatti una chiavefondamentale per il successo.

A tal fine, si ritiene utile analizzare la capacità esplicativa delleteorie sul governo d’impresa maggiormente diffuse in campo nazio-nale ed internazionale rispetto al fenomeno dell’azienda di famigliaa capitale aperto, quotata sui mercati azionari.

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64 L’espressione è tratta dalla celeberrima definizione che Zappa stesso diede all’EconomiaAziendale nelle “Tendenze nuove”. GINO ZAPPA, Tendenze nuove negli studi di ragioneria,Milano, Istituto Editoriale Scientifico, 1927.

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CAPITOLO II

Teorie del governo d’impresa e società quotate a controllo familiare

2.1. Aziende di famiglia quotate e teorie del governo d’impresa

La letteratura sulle aziende di famiglia ha non di rado posto in evi-denza come lo sviluppo delle teorie dell’impresa nel ventesimo seco-lo abbia trascurato di spiegare adeguatamente la persistenza delmodello dell’azienda di famiglia quotata, di grandi dimensioni.Nel corretto intento scientifico della generalizzazione, tali teoriehanno spesso spersonalizzato la figura degli azionisti, vedendolicome una categoria uniforme di anonimi investitori razionali.

Il presente paragrafo intende analizzare brevemente le teorie del-l’impresa1 che maggiormente hanno ispirato gli studi sull’economiadelle aziende a livello internazionale, nella prospettiva della lorocapacità di spiegare le manifestazioni di vita delle aziende di fami-glia quotate. Tali teorie dell’impresa hanno infatti ispirato notevol-mente gli studi di diverse discipline (governance, management,accounting, corporate finance, organization theory) e su di esse sifonda dunque un corpus di conoscenze di rilevanza determinanteper la comprensione dei comportamenti aziendali. In Italia, gli studidi Economia Aziendale si sono sviluppati sulla base di una teoriagenerale dell’azienda con premesse autonome ed originali, che nonè sovrapponibile alle teorie dell’impresa maggiormente diffuse incampo internazionale. Per tale ragione, l’impostazione aziendalisti-ca italiana sarà analizzata separatamente.

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1 Tali teorie saranno analizzate con particolare riferimento ai profili del governo d’impre-sa. Le espressioni “teoria dell’impresa” e “teoria del governo d’impresa” saranno, per que-sta ragione, utilizzate indifferentemente.

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L’idea di fondo muove dalla premessa che la famiglia imprendi-toriale non è soltanto un investitore che conferisce capitale dirischio. Conseguentemente, le teorie generali che vedono gli azioni-sti come una categoria indifferenziata di soggetti potrebbero noncogliere adeguatamente alcuni profili delle aziende oggetto del pre-sente studio.

2.2. Aziende di famiglia quotate e teoria dell’agenzia

La teoria dell’agenzia, come è noto, pone al centro dell’attenzione larelazione (appunto, relazione di agenzia) nella quale un soggetto,denominato “principale” (principal) delega ad un altro soggetto,denominato “agente” (agent), tramite un accordo formale o infor-male, le decisioni riguardanti la gestione per suo conto di risorse chesono nella sua titolarità2.

Tale teoria ha avuto un enorme successo in letteratura ed è stataampiamente impiegata per spiegare le relazioni sussistenti tra ifinanziatori delle imprese (sia a titolo di capitale di rischio che a tito-lo di capitale di credito) ed il management.

Tra i lavori pionieristici riferiti alla struttura proprietaria delleimprese, una rilevanza preminente spetta senza dubbio all’articolodi Jensen e Meckling del 1975, che spostano l’attenzione dai com-portamenti massimizzanti dell’impresa quale entità atomistica delsistema economico (la c.d. “black box”) ai comportamenti massi-mizzanti degli individui coinvolti nella vita dell’impresa, che si fon-dano su interessi spesso confliggenti3.

Prendendo le mosse dal noto passo di Adam Smith, già citato nelprimo paragrafo del presente lavoro, gli autori evidenziano i costi, equindi la riduzione del valore di impresa, che la separazione fra pro-prietà (i principal-azionisti) e controllo (gli agent-manager) puòingenerare.

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2 Tra i lavori fondativi della Teoria dell’Agenzia: STEPHEN ROSS, The economic theory ofagency: the principal’s problem, in “The American Economic Review”, may, 1976. 3 MICHAEL JENSEN – WILLIAM MECKLING, Theory of the firm: managerial behavior, agencycosts and ownership structure, in “The Journal of Financial Economics”, n.3 1976.

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I problemi principali riguardano la divergenza di interessi e ladiversa propensione al rischio che caratterizza azionisti e manager.Gli azionisti perseguono la massimizzazione del valore delle loropartecipazioni, mentre i manager perseguono la massimizzazionedella loro remunerazione. Gli azionisti hanno una propensione alrischio maggiore dei manager, i quali non sono inclini ad intrapren-dere iniziative ad alto rischio e altro rendimento, che però in caso diinsuccesso potrebbero far perdere loro il posto.

Ulteriore fonte di costi di agenzia è l’asimmetria informativa checaratterizza la relazione tra azionisti e manager. I manager hannomaggiori informazioni sulla gestione dell’impresa e sulle loro stessecompetenze e ciò genera due tipi di comportamenti opportunistici:

– un comportamento opportunistico ex ante, di tipo pre-con-trattuale, consistente nel fatto che l’agente nasconde al princi-pale le sue reali capacità di assolvere la delega ed il principalenon ha sufficienti informazioni per valutare adeguatamente lecapacità dell’agente (c.d. adverse selection)4;

– un comportamento opportunistico ex post, di tipo post-con-trattuale, consistente nel fatto che l’agente può adottare com-portamenti “sleali”, non in linea con gli interessi degli azioni-sti, bensì con i suoi personali interessi, contando sul fatto cheil principale non ha strumenti ed informazioni adeguati percontrollarlo efficacemente (c.d. moral hazard)5.

Nelle applicazioni riferite alla struttura proprietaria delle impre-se, tale teoria ha elegantemente ed efficacemente spiegato i proble-mi legati alla separazione tra proprietà e controllo e la conseguentenecessità di creare meccanismi di incentivo per l’allineamento degliinteressi di azionisti e manager.

Gli azionisti sono visti come soggetti che perseguono la massi-mizzazione della loro ricchezza economica e quindi del valore delle

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4 È molto nota l’illustrazione della adverse selection di Akerlof, riferita al mercato delleauto usate (“mercato dei limoni”), in cui i compratori non hanno sufficienti informazioniper valutare il grado di “spremitura” dell’auto: GEORGE AKERLOF, The market for”lemons”: Quality uncertainty and the market mechanism, in “The Quarterly Journal ofEconomics”, n. 3, 1970.5 Il termine fu coniato dagli assicuratori nel 1600. Per l’impiego nell’ambito dei rapporti diagenzia: KENNETH ARROW. Essays in the Theory of Risk-Bearing, New York, North-Holland, 1971.

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azioni, mentre i manager, nell’intento di massimizzare la propriafunzione di utilità, sono maggiormente orientati all’incrementodimensionale dell’impresa, cui è collegato maggiore prestigio eremunerazione6.

Ne derivano dunque i costi di agenzia, che sono costituiti dallasomma tra:

– costi di monitoraggio (c.d. monitoring costs), che includono icosti sostenuti dai principal, relativi ai sistemi di controllo edorientamento dei manager (controllo direzionale, controllointerno, sistemi di remunerazione collegata ai risultati, ecc.);

– costi di “bonding”, che includono i costi sostenuti dagli agentiper instaurare la relazione, dimostrando che opereranno cor-rettamente nell’interesse dei principal;

– la perdita residua, che subisce il principal in termini di minoriprofitti, ascrivibile all’impossibilità di controllare perfettamen-te i managers e di allineare completamente i loro interessi aipropri7.

La teoria dell’agenzia si è sviluppata su due filoni di letteratura:l’approccio positivista e l’approccio della teoria generale principale-agente8. Il primo è orientato allo studio di situazioni concrete in cui

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6 Le teorie manageriali avevano già messo a fuoco come i manager delle grandi corporationperseguissero l’obiettivo dell’incremento dimensionale, soprattutto con riferimento allevendite, considerando il profitto da generare per gli azionisti come un vincolo. Tra le operedi maggior rilievo di tale filone ricordiamo quelle di Baumol, che spiega il fenomeno conla minore propensione al rischio dei managers (WILLIAM BAUMOL, Business behavior, valueand growth, New York, Harcourt Brace, 1959); di Marris, che lega la sopravvivenza delleimprese alla capacità dei managers di “appiattire la forma ad U della curva dei costi”, sfrut-tando le economie di scala (ROBERT MARRIS, The economic theory of managerial capitalism,New York, Macmillan, 1964); di Galbraith, che vede nella tecnologia il principale fattoredi sviluppo (KENNETH GALBRAITH, The new industrial state, Boston, Houghtown Mifflin,1971). Anche la dottrina italiana destinò una rilevante attenzione agli obiettivi della gran-de impresa managerializzata ed al loro rapporto con quelli degli azionisti (ma anche deglialtri stakeholders), contemperando però le posizioni del managerialismo americano inrelazione al diverso contesto delle realtà europee e di quella italiana in particolare. Si rin-via per approfondimenti al successivo paragrafo sulla teoria degli stakeholders. Si veda, adesempio: GIANFRANCO ZANDA, La grande impresa. Caratteristiche strutturali e di comporta-mento, Milano, Giuffré, 1974.7 MICHAEL JENSEN – WILLIAM MECKLING, Theory of the firm: managerial behavior, agencycosts and ownership structure, op. cit. 1976.8 MICHAEL JENSEN, Organization theory and methodology, in “Accounting Review”, n.2,1983.

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si manifestano relazioni di agenzia problematiche, in particolare conriferimento alla vita delle imprese; il secondo è maggiormente rigo-roso dal punto di vista formale e mira alla costruzione di una teoriagenerale dell’agenzia, valida per ogni tipologia di relazione (datoredi lavoro-lavoratori, cliente-avvocato, fornitore-cliente, …).

In questa sede si fa riferimento soprattutto al primo filone distudi, che in larga parte, per molti anni, si è occupato quasi esclusi-vamente della relazione di agenzia esistente tra azionisti e managernelle grandi corporation quotate a proprietà diffusa (secondo ilmodello della public company)9.

Fino ad alcuni anni fa, la teoria dell’agenzia non ha alimentatostudi dedicati al modello dell’azienda di famiglia, anche se in essa siritrovano dei presupposti molto forti per l’affermazione della supe-riorità, in termini di efficienza economica, di tale modello rispettoalla public company.

Nel citato articolo di Jensen e Meckling del 1976, la dimostrazio-ne dei costi di agenzia si basa proprio sulla riduzione del valore d’im-presa che si ingenera nelle imprese a gestione manageriale rispetto aquelle a proprietà concentrata, gestite dall’”unico proprietario”.

Nel celebre articolo di Fama e Jensen del 1983 “Separation ofownership and control”, gli autori sostengono che i costi di agenziatendono a ridursi quanto più chi gestisce l’impresa ne è anche pro-prietario. Dopo aver operato la distinzione tra “gestione delle deci-sioni” (decision management, che spetta ai managers esecutivi),“controllo delle decisioni” (decision control, che spetta al board) e“assunzione del rischio residuale (residual risk bearing, che spettaagli azionisti, detti residual claimants), affermano che quando è effi-ciente unire la gestione delle decisioni e la funzione di controllo inuno o pochi agenti, è altresì efficiente governare i problemi di agen-zia tra azionisti e manager limitando l’ingresso nell’azionariato aisoli soggetti che gestiscono l’impresa10.

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9 KATHLEEN EISENHARDT, Agency theory: An assessment and review, in “Academy ofManagement Review”, n. 1, 1989.10 “When it is efficient to combine decision management and control functions in one or afew agents, it is efficient to control agency problems between residual claimants and deci-sion makers by restricting residual claims to the decision makers” (EUGENE FAMA -MICHAEL JENSEN, Separation of ownership and control, in “Journal of Law andEconomics”, 1983).

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In particolare, gli autori riconoscono espressamente che nellesocietà a capitale chiuso, quali le “partnership”, i diritti residuali diazionisti sono detenuti da soggetti le cui strette relazioni con gliagenti responsabili delle decisioni sulla gestione dell’impresa con-sentono di governare i problemi di agenzia senza necessità di sepa-rare le funzioni di gestione e di controllo delle decisioni. L’esempioesplicito che gli autori fanno è proprio quello dei membri di unafamiglia che hanno relazioni durevoli di vario tipo, che conferisco-no vantaggi nel monitorare e disciplinare l’operato degli agentiappartenenti alla medesima famiglia11.

Nell’alveo della teoria dell’agenzia nella sua formulazione classi-ca possono quindi trovarsi alcune importanti argomentazioni asostegno dell’efficienza economica non soltanto del generale model-lo di impresa ad azionariato concentrato, ma più in particolare delmodello delle aziende di famiglia, proprio in ragione delle relazionifamiliari che legano principali e agenti12.

Le principali argomentazioni per le quali il modello dell’aziendadi famiglia dovrebbe avere minori costi di agenzia possono esserecosì sintetizzate:

– in primo luogo, il fatto che, quando i managers sono ancheazionisti rilevanti componenti della famiglia, le figure di titola-re dei diritti residuali e delle decisioni sulla gestione dell’im-presa finiscono in larga parte per coincidere, determinando inre ipsa l’allineamento degli interessi;

– inoltre, l’allineamento delle preferenze in termini di crescita erischio tra azionisti familiari che non gestiscono l’impresa ecoloro che la gestiscono, che sono a loro volta azionisti edhanno quindi propensioni simili con riferimento alle combina-zioni rischio/rendimento;

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11 “For example, family members have many dimensions of exchange with one anotherover a long horizon and therefore have advantages in monitoring and disciplining relateddecision agents” (EUGENE FAMA - MICHAEL JENSEN, Separation of ownership and control,op. cit., 1983).12 L’efficienza economica del modello dell’azienda di famiglia è sostanzialmente ricondot-ta all’unificazione tra proprietà e controllo. Alcune ricerche empiriche degli anni novantahanno confermato l’esistenza di vantaggi di perfromance derivanti dalla proprietà e dalmanagement familiare: (CATHERINE DAILY – MARC DOLLINGER, An Empirical Examinationof Ownership Structure in Family and Professionally Managed Firm, in “Family BusinessReview”, June, 1992).

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– ed ancora, la ridotta rilevanza della propensione dei familiariche hanno deleghe esecutive ad assumere comportamentiopportunistici a danno degli azionisti loro familiari, in quantoin tal caso i manager familiari subordinerebbero il persegui-mento dei loro interessi personali al benessere collettivo dellafamiglia;

– infine, le maggiori capacità di controllo che gli azionisti fami-liari comunque avrebbero rispetto ai familiari cui sia delegatala gestione, sia in ragione della rilevanza quantitativa delle par-tecipazioni azionarie detenute, sia per le relazioni di conoscen-za intima e profonda in tal caso sussistenti tra azionisti e mana-ger familiari.

Eppure, il filone di studi sulla teoria dell’agenzia, per oltre 25anni, si è concentrato sullo studio dei meccanismi di allineamentodegli interessi di manager ed azionisti nelle public company, senzache le premesse teoriche richiamate fossero approfondite con l’in-tento di spiegare forze e debolezze delle aziende di famiglia.

Più recentemente, alcuni studi hanno iniziato ad approfondire ilproblema dell’effettiva applicabilità della teoria dell’agenzia alleaziende di famiglia, avviando un filone di studi che negli ultimi annista crescendo notevolmente13.

In particolare, il controllo familiare delle imprese può incentiva-re una serie di comportamenti opportunistici generatori di costi diagenzia, pur se di natura diversa rispetto a quelli della relazioneazionisti-manager nelle public company.

In via generale, occorre innanzitutto evidenziare come le relazio-ni di agenzia nelle aziende di famiglia a capitale aperto si complichi-no notevolmente. Pur rimanendo nell’ambito del solo capitale dirischio, alla relazione tra azionista non familiare e manager nonfamiliare (che può rimanere nel caso di manager esterni, ma che

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13 I due lavori che hanno avviato tali studi sono considerati i seguenti: WILLIAM SCHULZE

– MICHAEL LUBATKIN – RICHARD DINO – ANN BUCHHOLTZ, Agency relationships in familyfirms: Theory and evidence, in “Organization Science”, n. 2, 2001; LUIS GOMEZ-MEJIA –MANUEL NUÑEZ-NICKEL – ISABEL GUTIERREZ, The role of family ties in agency contracts, in“Academy of Management Journal”, n. 1, 2001. Tali studi presentano un focus rivoltosoprattutto alle imprese non quotate a proprietà e management familiare. Nel seguito dellavoro le nostre osservazioni si riferiranno invece principalmente al caso delle società quo-tate a controllo familiare.

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assume connotati molto diversi da quella esistente nelle public com-pany), si affiancano le relazioni tra azionisti di maggioranza familia-ri ed azionisti di minoranza non familiari, che diventa la principalefonte di problemi di agenzia, ma anche le relazioni interne alla fami-glia, quale quella tra gli azionisti familiari con deleghe di gestionedell’impresa e gli azionisti familiari non impegnati nella gestione.

Quanto detto è schematizzato nella figura 1.Ciascuna di tali relazioni ha caratteristiche peculiari e deve esse-

re studiata separatamente. Non è tuttavia affatto agevole risolvere ilproblema di fondo dell’efficienza economica, ossia capire se i costidi agenzia complessivamente sopportati in tali relazioni siano supe-riori o inferiori a quelli della relazione tra azionisti e manager nellepublic company. Come si vedrà in seguito, ciò è dimostrato dalle evi-denze empiriche non univoche che caratterizzano gli studi chehanno affrontato tale aspetto.

Passando all’analisi dei comportamenti opportunistici che sonoall’origine di maggiori costi di agenzia nelle aziende di famigliarispetto alle public company, non può sottacersi che alcuni dei mec-canismi che favoriscono l’allineamento degli interessi tra azionisti emanagers non funzionano nelle aziende a controllo familiare.

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Fig. 1 - Le relazioni di agenzia nelle aziende di famiglia quotate

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In primo luogo, rimanendo nell’ambito della teoria dell’agenziaclassica, non funziona il c.d. mercato del controllo societario, poi-ché le aziende a controllo familiare sono generalmente non conten-dibili. Ciò è vero per le imprese non quotate, per le imprese quota-te dove la famiglia esercita il controllo di diritto (possedendo diret-tamente, indirettamente ed anche tramite accordi con altri soci, lamaggioranza assoluta dei diritti di voto), ma anche per quelle dovela famiglia esercita il controllo di fatto, possedendo la maggioranzarelativa dei diritti di voto, ma tale da rendere la società sostanzial-mente non scalabile.

Ciò contribuisce ad acuire, nelle aziende di famiglia, il problemadel management “trincerato” (entrenched) nel suo incarico, anchein presenza di performance insoddisfacenti e di convenienti alterna-tive per la sua sostituzione14. In questi casi, il CEO azionista familia-re è libero di perseguire i propri interessi personali alle spese degliazionisti di minoranza non familiari (ma anche, se non funziona ildisincentivo morale della parentela ed il CEO è anche l’azionista dicontrollo, degli altri azionisti familiari non esecutivi)15. In questocaso, gli azionisti di minoranza sono “ostaggio” dell’azionista dimaggioranza, generando un tipico problema di “hold up”16.

Inoltre, un secondo interessante problema evidenziato dallo stes-so Jensen è costituito dal c.d. “self-control”, inteso come la neces-sità che anche i comportamenti dei proprietari/managers, i cui inte-ressi economici sono allineati con quelli degli altri azionisti, richie-dano meccanismi di controllo ed incentivo in ragione di interessiextra-economici. Ad esempio, il proprietario/manager può rinun-ciare ad un’iniziativa imprenditoriale conveniente perché alterereb-

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14 Il problema è da tempo stato posto nell’ambito della letteratura sulla teoria dell’agenzia.Jensen, nell’articolo del 1993 di seguito citato, scrive che nelle società non contendibili è“extremely difficult for adjustments to take place until long after the problems havebecome severe, and in some cases even unsovable”. Si vedano: MICHAEL JENSEN, The mod-ern industrial revolution, exit and the failure of internal control systems, in “Journal ofFinance”, n. 3, 1993; RENÉ STULZ, On takeover resistance, managerial discretion and share-holder wealth, in “Journal of Financial Economics”, n. 1, 1988. 15 Si veda: RANDALL MORCK – BERNARD YEUNG, Agency problems in large family businessgroups, in “Entrepreneurship: theory and practice”, n. 4, 2003.16 Il problema di “hold up” è affrontato da Williamson nell’ambito della teoria dei costi ditransazione. Si veda: OLIVER WILLIAMSON, The economic institutions of capitalism, Boston,The Free Press, 1985.

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be lo status quo e gli richiederebbe un maggiore sforzo manageria-le, ovvero al contrario potrebbe intraprendere iniziative non conve-nienti, ma che conferiscono visibilità e prestigio, solo per il gusto delpotere. In questi casi la scelta è giustificata da un criterio di massi-mizzazione dell’utilità personale del manager non strettamente eco-nomico e può essere perseguita, entro certi limiti, anche ove riducail valore azionario dello stesso proprietario/manager e degli azioni-sti di minoranza.

Tale problema è stato presentato come un “problema di agenziacon se stesso”17 e può essere particolarmente forte nelle aziende difamiglia in cui vi sia un leader riconosciuto titolare della maggioran-za azionaria, come avviene spesso nelle aziende gestite dal fondatore18.

Peraltro, se gli azionisti possono considerarsi avere preferenzeallineate sotto il profilo economico, essi di sicuro hanno preferenzeassai diverse in termini extra-economici e ciò origina il problema diagenzia.

Il terzo problema rappresenta un fenomeno di adverse selectionnella attribuzione delle deleghe manageriali, generato tuttavia nontanto dalle asimmetrie informative, quanto da un processo di selezio-ne del management che tende ad operare in maniera non efficiente.

Schulze et al. evidenziano i numerosi problemi di selezione delmanagement che caratterizzano le imprese familiari non quotatequali il non poter offrire stock options e percorsi di carriera adegua-ti e perdere quindi i manager dalle migliori capacità, l’assenza dipercorsi strutturati ed articolati di carriera che generano competi-

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17 Jensen (MICHAEL JENSEN, Self-interest, altruism, incentives and agency, in “Journal ofApplied Corporate Finance”, n. 2, 1994), nel replicare a Brennan sulla necessità degliincentive manageriali, parla di “agency problems with oneself”. L’autore scrive: “Money isnot always the best way to motivate people. But where money incentives are required, theyare required precisely because people are motivated by things other than money”. Il pro-blema dei comportamenti massimizzanti sulla base di preferenze che sono anche non eco-nomiche è stato sistematizzato da Jensen e Meckling in “The nature of man”, in cui gliautori affermano la superiorità del modello REMM (Resourceful Evaluative MaximizingModel) nella spiegazione dei comportamenti umani (MICHAEL JENSEN – WILLIAM

MECKLING, The nature of man, in “Journal of Applied Corporate Finance”, n. 2, 1994).18 La gestione del “potere” nell’azienda di famiglia è uno degli aspetti più delicati da cuidipende la continuità dell’impressa stessa. Si veda: SALVATORE TOMASELLI, Il patto difamiglia, quale strumento per la gestione del rapporto famiglia-impresa, Milano, Giuffrè,2006, p. 206 e ss..

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zione e reciproco controllo tra gli aspiranti managers all’interno del-l’azienda, la difficoltà di valutare la performance in assenza del rife-rimento costituito dal prezzo delle azioni19.

Non è questa la sede per approfondire e discutere tali aspettiperché la loro portata si indebolisce molto con riferimento alleaziende di famiglia quotate. Tuttavia, riteniamo che il problema difondo sussista anche nelle aziende oggetto del presente lavoro. Inmolte imprese c’è una palese tendenza, quando non una regola, perla quale le posizioni di vertice sono occupate da componenti dellafamiglia. In tal caso, l’agente selezionato potrebbe non essere il piùidoneo al raggiungimento degli obiettivi degli azionisti20.

Basti pensare che, come si vedrà in successivi capitoli, da un’ana-lisi compiuta da chi scrive sul caso italiano, è emerso come nel 36%delle imprese quotate c’è un amministratore delegato componentedella famiglia di controllo (su un totale di imprese a controllo fami-liare pari al 56%)21.

Infine, tipica minaccia per le aziende di famiglia è costituita dal-l’assunzione di comportamenti altruistici privi di razionalità econo-mica. L’altruismo è un comportamento ben noto, anche se nonmolto studiato in economia. È generalmente definito come un com-portamento che lega il benessere di un individuo al benessere deglialtri, consentendo di soddisfare contemporaneamente le preferenze

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19 WILLIAM SCHULZE – MICHAEL LUBATKIN – RICHARD DINO – ANN BUCHHOLTZ, Agencyrelationships in family firms: Theory and evidence, op. cit., 2001, p. 101.20 Per una rassegna di letteratura ed un’analisi sistematica del problema della “professional-izzazione” nelle aziende di famiglia: LUCREZIA SONGINI, The professionalization of familyfirms: theory and practice, in PANIKKOS POUTZIOURIS – KOSMAS SMYRNIOS - SABINE KLEIN

(Ed. by), Handbook of Research on Family Business, Cheltenhan, Edward Elgar, 2006.Peraltro, non sono univoche le evidenze empiriche sugli effetti economici della “professio-nalizzazione” rispetto al coinvolgimento dei familiari nel management e sull’impiego dimeccanismi di controllo dei costi di agenzia quali il consiglio di amministrazione. Per un’a-nalisi riferita alle imprese non quotate: LUCA GNAN - LUCREZIA SONGINI, The professiona-lization of family firms: the role of agency cost control mechanisms, in PANIKKOS

POUTZIOURIS – LLOYD STEIER (Ed. by), New frontiers in Family Businessresearch: the lea-dership challenge, IFERA-FBN Publications, 2003. 21 L’analisi, che esclude le imprese dei settori bancario, assicurativo e delle public utilities,deriva dal seguente lavoro: RICCARDO TISCINI –FRANCESCA DI DONATO, The impact of fam-ily control and corporate governance practices on earnings quality of listed companies , paperpresentato al Eiasm workshop on Family Firms, Napoli, 2008 ed accettato per la presen-tazione al Convegno Annuale AIDEA, Napoli, 2008.

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proprie e quelle altrui22. Applicato alla relazione genitori-figli nelleaziende di famiglia, l’altruismo può indurre comportamenti oltre-modo generosi nei confronti dei figli, cui vengono assicurate posi-zioni lavorative, remunerazioni e benefici indiretti (quali ad esem-pio l’utilizzo di beni societari) eccessivi e non commisurati alle pras-si di mercato. Tali comportamenti non sono privi di effetti positiviin termini di fedeltà all’impresa e di identità familiare23, contribuen-do a fare delle aziende di famiglia una classe di imprese molto par-ticolare, ma anche molto apprezzata da numerosi interlocutoriesterni per la sua stabilità nel tempo24. Tuttavia, essi possono gene-rare comportamenti opportunistici da parte dei figli (che hannopotenti incentivi a sfruttare la situazione), frustrare le ambizioni deimanagers esterni migliori, che probabilmente si allontaneranno, edrenare benefici privati verso la famiglia di controllo a scapito degliazionisti di minoranza. Anche questo comportamento è tipico delleimprese piccole e medie, ma è talvolta riscontrabile anche nelleimprese di maggiori dimensioni che fanno ricorso al capitale dirischio “esterno”; in esse, ancora di più, costituisce una seria minac-cia alla attrattività ed alla performance dell’impresa.

Quando l’altruismo trova ampio spazio nelle logiche di gestionedell’impresa, aumentano i costi di agenzia nei confronti deglistakeholders non familiari, tra i quali principalmente gli azionisti diminoranza. È stato peraltro dimostrato che quando la generosità neiconfronti dei figli si canalizza sulla pianificazione della successionenel patrimonio immobiliare e mobiliare della famiglia (trasferimen-to di immobili e partecipazioni), diminuiscono le remunerazioni chedall’impresa affluiscono ai familiari delle nuove generazioni25. È

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22 MARIA TERESA LUNATI, Ethical issues in Economics: from Altruism to cooperation to equi-ty, London, MacMillan, 1997.23 Proprio per l’esistenza di funzioni di utilità complesse non è facile pervenire ad una con-clusione univoca sul problema dell’entità dei costi di agenzia. Si veda, sul tema: GUIDO

CORBETTA – CARLO SALVATO, “Self-serving or self-actualizing? Models of man and agency costsin different types of family firms, in “Entrepreneurship: Theory and Practice”, n. 4, 2004. 24 Per un lavoro sistematico che sottolinea come una chiave del successo delle aziende difamiglia sia la necessità di gestire nel tempo l’evoluzione della famiglia e dell’impresa,traendo dai comportamenti solidali tra generazioni i massimi benefici: KELIN GERSICK –JOHN DAVIS – MARION MC COLLOM HAMPTON – IVAN LANSBERG, Generation to genera-tion. Life cycles of the Family Business, Boston, Harvard Business School Press, 1997.25 WILLIAM SCHULZE – MICHAEL LUBATKIN – RICHARD DINO, Towards a theory of agencyand altruism in family firms, in “Journal of Business Venturing”, Luglio, 2003.

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questo un comportamento che consente di ridurre gli effetti negati-vi dell’altruismo in termini di costi e rischi di agenzia.

In definitiva, l’approccio positivo classico della teoria dell’agen-zia sembra spiegare solo parzialmente l’esistenza ed i comportamen-ti delle aziende di famiglia. I comportamenti vengono modellati inuna prospettiva individualistica ed assumendone l’uniformità tratutti i principali e tutti gli agenti. Inoltre, la teoria è centrata sul per-seguimento di interessi egoistici in una logica di razionalità econo-mica pura.

La costruzione teorica ben si adatta alla relazione esistente tra l’a-zionariato diffuso di una public company ed il suo potente CEO, eha infatti trovato fecondi sviluppi nella messa a punto di strumentiche allineassero gli interessi di manager ed azionisti nelle impresemanageriali.

Con riferimento alle imprese familiari quotate, la teoria dell’a-genzia stilizza in misura eccessiva comportamenti e relazioni chesono in realtà molto più complessi ed articolati. È stato già eviden-ziato come nelle aziende di famiglia quotate l’interazione tra mana-ger ed azionisti si complichi notevolmente, in quanto vi sono diver-se categorie di azionisti e diverse categorie di manager, ciascuna conpreferenze ed interessi distinti. Gli azionisti della famiglia di con-trollo non si sentono meri investitori/principal, quand’anche nonabbiano ruoli esecutivi nell’impresa; i managers familiari, allo stessomodo, non si sentono meri agenti degli azionisti, siano essi familia-ri o non familiari.

In definitiva, l’interazione sistemica di impresa e famiglia, ancor-ché in misura e con modalità diverse rispetto alle imprese a capita-le chiuso, permea di sé le relazioni di agenzia che si instaurano.

Il carattere familiare (o non familiare) delle relazioni di agenzia èstato invece a lungo trascurato dalla letteratura.

In un importante lavoro del 2001, Gomez-Meija et al. evidenzia-rono come le relazioni familiari abbiano un impatto molto rilevantesui contratti di agenzia26. I contratti di agenzia tra familiari sono ditipo “relazionale”, nel senso che sono basati su una relazione di

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26 LUIS GOMEZ-MEJIA – MANUEL NUÑEZ-NICKEL – ISABEL GUTIERREZ, The role of familyties in agency contracts, op. cit., 2001

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lungo periodo e statuiscono in termini generali le condizioni delcontratto, senza entrare nella disciplina dettagliata delle circostanzepossibili. In un contratto di tipo “relazionale” le asimmetrie infor-mative sono inferiori e così i rischi di comportamenti opportunisti-ci27. Nelle aziende di famiglia, ciò è reso possibile dal legame diparentela, e quindi di fiducia, che sussiste a monte della relazione diagenzia. La fiducia e la conoscenza profonda tra le parti riducono icosti di agenzia, ma tali contratti sono conseguentemente anche piùambigui. In particolare, le parti vi fanno convergere interessi edobiettivi che vanno al di là di quelli puramente economici, maappartengono piuttosto alla sfera emozionale28.

Da un lato, ciò può avere effetti positivi sulla performance e sul-l’efficienza economica del modello dell’impresa familiare, quali adesempio quelli derivanti dalla motivazione di manager emotivamen-te coinvolti nelle vicende dell’impresa. Dall’altro, tuttavia, l’ambi-guità del contratto tra familiari rischia di generare costi di agenziaancor più elevati poiché il CEO familiare potrebbe non avere glistessi interessi degli altri azionisti. Anche i CEO familiari sono sog-getti ad incentivi al consumo di benefici privati che riducono laremunerazione degli altri azionisti (sia familiari che non familiari).Inoltre, poiché la loro posizione di comando può derivare non solodai loro meriti e dalle loro capacità manageriali, ma anche dal lorostatus nell’ambito della famiglia (il fondatore, il figlio primogenito,…), sorgono rilevanti costi di agenzia connessi a problemi di“adverse selection”, ancorché collegati alla relazione familiare e nonad asimmetrie informative, e di “hold up”. Sotto questo secondoprofilo, in particolare, quando la posizione di potere deriva dallostatus familiare più che dai meriti manageriali, il top managementha la possibilità di permanere al comando dell’impresa indefinita-mente a prescindere dai risultati (effetto “entrenchment” molto ele-

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27 Sui contratti “relazionali” si veda: PAUL MILGROM – JOHN ROBERTS, Economics, organi-zation and management, Englewood Cliffs, Prentice Halls, 1992 (cap. VII).28 Lo stesso Jensen, come si è già osservato, ha ammesso che la formulazione iniziale dellateoria dell’agenzia non teneva esplicitamente in considerazione che l’uomo può esserespinto da motivazioni non economiche. L’estensione della teoria, tuttavia, è possibile senzapregiudicarne le implicazioni fondamentali, soprattutto in tema di incentivi comportamen-tali. Si veda: MICHAEL JENSEN, Self-interest, altruism, incentives and agency, op.cit., 1994.

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vato), tenendo in tal modo in ostaggio gli azionisti non familiari, chenon hanno strumenti per rimuoverlo29.

La teoria dell’agenzia, nella versione classica, non coglie compiu-tamente il fenomeno delle aziende di famiglia quotate.

Da una prospettiva teorica, essa sembra fornire una fortissimagiustificazione per l’esistenza ed il successo delle aziende di fami-glia. In concreto, però, la letteratura si è occupata in misura limita-ta delle applicazioni di tale teoria alle aziende di famiglia quotate,probabilmente in quanto la stilizzazione del modello, che ruotaattorno a contratti e comportamenti di individui, non esprime com-piutamente le manifestazioni di vita delle aziende di famiglia, chesono il frutto dell’interazione tra i due sistemi della famiglia e del-l’impresa, ognuno dei quali a sua volta composto da una moltepli-cità di individui, di capacità e competenze distintive, di preferenzeindividuali.

Opportunamente integrata, tale teoria continua tuttavia a forni-re spunti assai interessanti per la soluzione dei conflitti di interessetra azionisti e manager. In particolare, la varietà, la complessità el’articolazione delle relazioni tra proprietà e management nellegrandi aziende di famiglia a capitale aperto può essere in gran partespiegata in termini di conflitti di agenzia. Quello che la teoria dell’a-genzia non riesce a spiegare adeguatamente sembra essere invecel’effetto dell’interazione sistemica tra proprietà, impresa e famiglia.Tale interazione tra i sistemi costituisce un quid pluris rispetto allerelazioni che si instaurano tra gli individui che ne fanno parte e puòessere all’origine di processi di creazione o distruzione di valore cheuna teoria dell’impresa deve tenere in debita considerazione.

Nell’ambito della teoria dell’agenzia gli assetti di corporategovernance sono visti come strumenti di allocazione di remunera-

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29 Come si vedrà meglio nel quarto capitolo, non vi è ancora un’evidenza empirica unifor-me in merito agli effetti dei fenomeni di “entrenchment” sul valore dell’impresa. Essi sibilanciano con i fenomeni di allineamento degli incentivi comportamentali lasciando lar-ghe aree di incertezza riguardo agli effetti finali. È stato dimostrato come la proprietà con-centrata abbia effetti positivi sul valore d’impresa, ma non se meccanismi di potenziamen-to del controllo consentono di avere diritti di voto maggiori dei diritti di proprietà: STIJN

CLAESSENS – JOSEPH FAN – SIMEON DJANKOV – LARRY LANG, Disentangling the incentiveand entrenchment effects of large shareholdings, in “The Journal of Finance”, n. 6, 2002. Iltema è ripreso nel quarto capitolo.

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zioni e rischi tra i soggetti coinvolti nella vita dell’impresa. Proprietàe controllo incidono sulla ripartizione sostanziale (anche a prescin-dere da quella formale) del valore dell’attivo operativo d’impresa trai diversi aventi diritto (azionisti di controllo, azionisti di minoranza,finanziatori, management). Della corporate governance dovrebbeinvece considerarsi anche il potenziale effetto in termini di genera-zione (o distruzione) di nuovo valore operativo30. È questo, ad avvi-so di chi scrive, il principale aspetto che la teoria dell’agenzia lasciairrisolto.

2.3. Le aziende di famiglia quotate e le teorie dei contratti incom-pleti, dei costi di transazione e dei diritti di proprietà

La teoria dell’agenzia, sulla base dell’intuizione pionieristica diCoase31, vede l’impresa come un nesso di contratti, cioè un insiemedi contratti collegati (“nexus of contracts”). Nell’approccio tradi-zionale alla teoria dell’agenzia, vi è un focus molto elevato sullaredazione di contratti tra principali ed agenti, in modo da garantireopportuni incentivi affinché gli agenti agiscano nell’interesse deiprincipali. In tal senso, la teoria dell’agenzia è vista come una teoriadei contratti completi, cioè in grado di disciplinare ex ante tutti ipossibili corsi di azione.

Nel paragrafo precedente sono stati già evidenziati alcuni deiprofili delle aziende32 che non sembrano adeguatamente rappresen-tati da questa impostazione teorica.

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30 La teoria dell’agenzia ha legami forti con la teoria della creazione di valore (si veda, adesempio: ANDREA MELIS, Creazione di valore e meccanismi di corporate governance, Milano,Giuffrè, 2002), ma sembra, con riferimento alle aziende di famiglia, non coglierne unaparte importante dei processi di generazione.31 Coase (RONALD COASE, The Nature of the Firm, op. cit., 1937) vede l’impresa come ilsuperamento del meccanismo dei prezzi di mercato per il governo delle transazioni econo-miche e spiega come e quando l’attività di coordinamento dell’imprenditore divenga unostrumento di governo maggiormente efficiente del mercato. L’approfondimento del ruolodi coordinamento dell’imprenditore ha importanti implicazioni, che saranno discusse nelseguito, ai fini del presente lavoro. 32 Sia consentita una breve digressione. Il termine “profili” può essere qui inteso nel suosenso generale, ma molte delle caratteristiche delle aziende di famiglia quotate che le teo-rie contrattualiste dell’impresa non rappresentano efficacemente costituiscono anche“profili” dell’impresa nel senso amaduzziano del termine, cioè “la categoria di possibili

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La letteratura economica ha comunque ampiamente evidenziato,negli anno ’80 e ’90, come i contratti che compongono l’impresa,lungi dall’essere completi, sono invece largamente “incompleti” etalvolta anche “impliciti”33.

Sarebbe oltremodo costoso cercare di disciplinare tutte le possi-bili evenienze nell’ambito della relazione che lega i manager all’im-presa e agli azionisti, ma soprattutto ciò è impossibile in quantogran parte dei comportamenti e delle variabili rilevanti (quali adesempio l’impegno profuso dai managers o il percorso logico delleloro decisioni) non sono, pur volendo, osservabili ex post.

Le transazioni governate da contratti sono pertanto necessaria-

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elementi che valgono a dare una identità all’impresa, considerata, dalle sue origini, nellesue manifestazioni di vita (oggetto, modo, finalità del suo operare)”. Si veda l’ultima edi-zione dell’opera di Amaduzzi: ALDO AMADUZZI, L’azienda nel suo sistema e nei suoi princi-pi, Torino, Utet, 1991, p. 734. In essa l’ultimo capitolo è frutto delle ultime riflessionidell’Autore, che sono a tratti un grido di allarme nei confronti dell’evoluzione dei compor-tamenti umani (si veda anche: ALDO AMADUZZI, Economia imprenditoriale nel “mondo checambia”, in “Rivista di Ragioneria e di Economia Aziendale”, n. 1, 1987). Il mondo delleaziende di famiglia ha un radicamento alle origini ed una proiezione nel futuro che in talsenso appare a chi scrive un valore, anche etico, importantissimo su cui costruire benesse-re (gestendo opportunamente le minacce del governo familiare). Lo stesso Amaduzzi, nellasua trattazione dei “profili dell’impresa”, fa due esempi assai pertinenti alle problematicheinerenti continuità ed innovazione nelle aziende di famiglia: “La determinazione di classidi profili di impresa è variabile a seconda dei tempi e delle esperienze.Se poniamo, ad esempio, il profilo delle ‘origini’ dell’impresa, che si traduca ‘Casa forma-ta nel 1810’, la vetustà segnala un fattore di imprenditorialità sana, normalizzata e traman-data da saggi uomini fondatori, a eredi o comunque ad altri imprenditori altrettanto saggi.Ma se accostiamo il profilo delle antiche origini, di per sé favorevole, a quello del ‘gradotecnologico’ degli investimenti dell’impresa, ecco che quel profilo può assumere diversovalore.” (ALDO AMADUZZI, L’azienda nel suo sistema e nei suoi principi, op. cit., p. 737). Per l’evoluzione più recente del pensiero amaduzziano, anche in relazione al ruolo dellaconoscenza profonda nelle aziende, che è ulteriore profilo distintivo delle aziende di fami-glia: GIUSEPPE PAOLONE, L’economia aziendale e la ragioneria nella teoria e nelle specializ-zazioni, Milano, FrancoAngeli, 2007. La conoscenza profonda ha notevoli relazioni con la“tacit knowledge”, che nella letteratura internazionale è stata indicata come uno dei puntidi forza delle aziende di famiglia, che denotano una migliore capacità di trasferirla neltempo, di generazione in generazione (sul tema: LLOYD STEIER, Next generation entrepre-neurs and succession: an exploratory study of modes and means of managing social capital, in“Family Business Review”, n. 2, 2001).Profili dell’impresa e conoscenza profonda comprendono peraltro, e qui finisce la digres-sione, elementi e risorse che non possono essere oggetto di “contrattazione” completa.33 GEORGE BAKER – ROBERT GIBBONS – KEVIN MURPHY, Relational contracts and the theo-ry of the firm, in “Quarterly Journal of Economics”, february, 2002.

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mente costose34. Ed il rapporto tra i costi delle transazioni sul mer-cato ed i costi del coordinamento all’interno dell’impresa (gerar-chia) spiega l’esistenza e la dimensione delle imprese.

Nella “transaction costs economics” l’esistenza e la crescita delleimprese è spiegata principalmente dal concetto di “asset specificity”,ossia dall’esistenza di investimenti “idiosincratici”, riferibili specifica-mente ad una relazione di lungo termine, nell’ambito della qualegenerano un valore maggiore di quello ottenibile con usi alternativi aldi fuori della relazione (le c.d. quasi-rent). L’impresa è quindi lo stru-mento che consente la generazione e l’appropriazione di tali “quasi-rendite” tramite opportuni meccanismi di governo fondati sull’auto-rità all’interno di una gerarchia. La corporate governance è tra i prin-cipali di questi meccanismi ed è responsabile della protezione degliinvestimenti ad alta specificità compiuti dagli azionisti e dai manager.

Ciò che la teoria dei costi di transazione non spiegava fino infondo era quale fosse la fonte dell’autorità.

La teoria dei Diritti di Proprietà (“Property Rights”) vede la fontedi tale autorità nella proprietà degli assets dell’impresa da parte del-l’imprenditore, cui sono pertanto ascrivibili i diritti di assumere ledecisioni apicali su come impiegare gli investimenti ad alta specifi-cità (fermi restando i vincoli stabiliti dai contratti stipulati riguardoalla parte contrattualizzabile della relazione). Conseguentemente,all’imprenditore titolare dei diritti di proprietà spettano anche idiritti a beneficiare della parte del valore creato che non è allocatacontrattualmente (“residual claim”)35.

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34 L’origine dei costi di transazione è da ricercarsi in alcune caratteristiche essenziali deicomportamenti umani (la razionalità limitata, l’opportunismo, l’attitudine al rischio) e del-l’ambiente nel quale essi si dispiegano (l’incertezza, le asimmetrie informative, l’impossi-bilità di misurare comportamenti e performance ed in generale, appunto, l’impossibilità diredigere contratti completi). Tale filone teorico ha le sue radici nell’intuizione di Coase e,come è noto, ha subito un impulso determinante per effetto di alcuni fondamentali lavoridi Oliver Williamson, in buona parte frutto della necessità di spiegare l’affermazione deiprocessi di integrazione verticale. Tra questi lavori si ricordano: OLIVER WILLIAMSON, Thevertical integration of production: market failure considerations, in “American EconomicReview”, n.2, 1971; OLIVER WILLIAMSON, Markets and Hierarchies: Analysis and antitrustimplications, New York, The Free Press, 1975; OLIVER WILLIAMSON, Transaction CostEconomics: the governance of contractual relations, in “Journal of Law and Economics”,october, 1979.35 Gli autori principali di questo filone sono Grossman, Hart e Moore. Si ricordano, tra glialtri, i seguenti lavori: SANFORD GROSSMAN - OLIVER HART, The costs and benefits of owner-

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Pur essendo approcci teorici fondati sul controllo delle impresecome via efficiente per gestire le relazioni economiche che non sonocontrattualizzate, in ragione appunto dell’incompletezza dei con-tratti, questi filoni di studi non hanno trattato esplicitamente il temadel controllo familiare. Più in generale, essi non hanno posto al cen-tro dell’attenzione il tema della separazione tra proprietà e control-lo delle imprese, che è invece oggetto largamente preponderantedella teoria dell’agenzia.

Inoltre, ciò che tali teorie non spiegano fino in fondo è il proble-ma dell’appropriabilità delle quasi-rendite derivanti da investimen-ti di natura intangibile, quali quelli in capitale umano.

Nella teoria dei diritti di proprietà, gli azionisti delegano lagestione dell’impresa, e quindi una parte dei diritti di controllo, aimanager, ma rimangono in ultima analisi titolari dei diritti residualidi controllo e possono togliere al management la gestione dei loroassets.

In questo modo, però, il manager non ha incentivi ad effettuareinvestimenti in capitale umano ad alta specificità rispetto all’impre-sa. Il management familiare che unisca proprietà e controllo dell’im-presa, al contrario, può avere maggiori incentivi ad investire in capi-tale umano specifico nell’impresa. La teoria dei diritti di proprietàè infatti essenzialmente una teoria imprenditoriale, che può essereutilmente impiegata per spiegare alcuni tratti della persistenza e delsuccesso delle aziende di famiglia di grande dimensione. Essa foto-grafa la realtà delle imprese a proprietà concentrata, ma non dastrumenti per analizzare a fondo il fenomeno della separazione traproprietà e controllo nell’ambito delle imprese con un azionista dimaggioranza, quali le imprese familiari che fanno ricorso a capitaledi rischio esterno, ma mantengono saldo il controllo. È una teoriadell’imprenditore, ma vede nella proprietà degli assets fisici la legit-timazione piena all’esercizio del controllo societario da parte di unacategoria di soggetti considerata omogenea: gli azionisti.

Una più approfondita analisi della complessità e della varietàdella compagine azionaria, nonché della tipologia delle risorse

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ship: a theory of vertical and lateral integration, in “Journal of Political Economy”, n. 4,1986; OLIVER HART – JOHN MOORE, Property rights and the nature of the firm, in “Journalof Political Economy”, n. 6, 1990.

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imprenditoriali che legittimano e rendono efficacemente durevole ilcontrollo delle imprese da parte delle famiglie imprenditoriali, sonole direttrici di ricerca il cui sviluppo può contribuire alla costruzio-ne di una teoria esplicativa delle aziende di famiglia quotate.

La teoria dei costi di transazione (TCE), analogamente, si è perlungo tempo fondata sulla specificità delle risorse di tipo tangibile,la cui gestione interna consente economie sul fronte dei costi ditransazione.

A partire dagli anni novanta, l’evidenza empirica e la letteraturahanno espresso notevole consonanza nel riconoscere alle risorseimmateriali un ruolo centrale per il successo delle imprese. Il filonedi studi della “Resource Based View” (RBV) e le numerose variantida esso scaturite hanno proposto una teoria dell’impresa fondatasulla generazione e l’accumulazione di risorse immateriali, in termi-ni principalmente di capacità e competenze distintive36.

La RBV si è posta in contrasto anche aperto con la teoria dei costidi transazione37, affermando che il successo delle imprese non è dovu-to alla minimizzazione dei costi di transazione, bensì alla creazione deipresupposti per l’appropriazione del valore derivante dalle risorseimmateriali. La RBV spiega la performance aziendale con fattori inter-ni, quali la generazione di risorse, capacità e competenze in grado diprocurare vantaggi competitivi. La TCE è invece principalmente foca-lizzata su fattori esterni, quali i costi di utilizzo del mercato38.

Ad avviso di chi scrive, tuttavia, i due approcci non sono incom-patibili39. L’approccio fondato sulle risorse e sulle competenze arric-

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36 Il filone di letteratura della RBV e quelli da esso scaturiti sono sterminati. Si richiama in que-sta sede uno dei lavori seminali sulla teoria dell’impresa basata sulle risorse: BIRGER

WERNERFELT, A resource based view of the firm, in “Strategic Management Journal”, n. 5, 1984.37 Critiche a cui lo stesso Williamson ha esplicitamente replicato in: OLIVER WILLIAMSON,Strategy research: governance and competence perspective, in “Strategic ManagementJournal”, n. 20, 1999. 38 Williamson (OLIVER WILLIAMSON, Strategy research: governance and competence perspec-tive, in “Strategic Management Journal”, n. 20, 1999) sostiene che l’impresa è la soluzioneresiduale per l’organizzazione delle transazioni economiche: “The firm is usefully thoughtof as the organization form of last resort: try markets, try hybrids (long term contractualrelations into which security features have been crafted) and resort to firms when all elsefails (comparatively)”.39 Per una più ampia trattazione del tema nella prospettiva qui presentata: RICCARDO

TISCINI, Informativa aziendale e innovazione tecnologica. Profili di valutazione, controllo ecomunicazione esterna della performance innovativa, Milano, Giuffré, 2003, p. 53 e ss.

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chisce l’impostazione transazionale di nuove applicazioni, mostran-done la capacità di spiegare fenomeni aziendali inizialmente nonconsiderati all’interno della teoria. I confini dell’impresa rimangonodefiniti dalle scelte sulla più efficiente forma di governo delle tran-sazioni, ivi incluse le transazioni aventi ad oggetto le risorse imma-teriali, che assumono un ruolo centrale per il successo dell’impresa.

Tali risorse sono ad alta specificità, in quanto presentano elevaticosti di trasferimento (o sono tout-court intrasferibili) e sono carat-terizzate da elevata incertezza in ordine all’appropriabilità dei bene-fici. Conseguentemente, le transazioni di mercato non garantisconoun efficace ed efficiente trasferimento dei benefici legati a tali risor-se. Ciò spiega la strategia di molte grandi imprese moderne cheinvestono direttamente nelle risorse immateriali “core” ed esterna-lizzano largamente gli altri processi produttivi che riguardano i benied i servizi correnti (costi di produzione e commercializzazionediretti, costi di struttura)40.

Questo approccio sinergico tra TCE e RBV sembra a chi scrivefecondo per la ricerca di spiegazioni alla persistenza ed al successodelle grandi aziende di famiglia.

La generazione di risorse immateriali ad alta specificità all’inter-no dell’impresa dipende in larga parte dal capitale umano, che inultima analisi ha positivi riflessi anche sul capitale relazionale e sulcapitale organizzativo41. Tale generazione è più intensa ed efficace sele risorse umane critiche (in particolare il top management) hannoadeguati incentivi ad effettuare investimenti “firm-specific”.Quando ciò avviene si creano “complementarità” uniche tra lerisorse umane e le risorse critiche aziendali, che rendono convenien-te l’alimentazione continua degli investimenti “firm-specific”42. Lerisorse umane trovano possibilità di espressione e di risultato chenon avrebbero altrove e l’impresa beneficia di performance che non

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40 Si pensi ad esempio alle scelte strategiche delle imprese dell’industria della Moda inItalia. Si veda, ad esempio, il seguente studio: FRANCO FONTANA – MATTEO CAROLI (a curadi), L’industria della moda in Italia. Strutture del settore, dinamiche competitive e lineamen-ti di politica industriale, Roma, Rirea, 2004.41 Con riferimento alla letteratura italiana si può fare riferimento, ad esempio, ai lavori diRullani: ENZO RULLANI, La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la conoscenza,Roma, Carocci, 2004.42 LUIGI ZINGALES, In search of new foundations, in “Journal of Finance”, august, 2000.

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potrebbe replicare con altre risorse umane (se non iniziando nuova-mente lunghi processi di investimento “firm-specific” da parte dellenuove risorse umane).

Diviene quindi centrale il tema dei meccanismi di governance,che dovrebbero contribuire a creare incentivi adeguati per l’alimen-tazione degli investimenti “firm-specific”43. Un mondo caratterizza-to da contratti di agenzia conflittuali tra azionisti e managers e daproprietari titolari dei diritti decisionali residuali che possono sot-trarre alla direzione aziendale in ogni momento la delega a gestire iloro assets non sembra essere l’ambiente ideale per l’effettuazionedi investimenti “firm-specific” in capitale umano.

Una compagine imprenditoriale che garantisca maggiori beneficialle risorse umane che effettuano investimenti specifici, e soprattut-to che garantisca loro l’accesso alle risorse critiche aziendali neces-sarie a sviluppare tali investimenti specifici nel tempo è invece unambiente ideale per la generazione di risorse immateriali.

Sotto questo profilo, l’azienda di famiglia è un ambiente che puòpresentare incentivi molto forti. Lo è sicuramente per i componen-ti della famiglia, per i quali la relazione con l’azienda è duratura efortemente emotiva. Inoltre, il ruolo stabile ed il coinvolgimentointenso che la famiglia ha nella predisposizione dei meccanismi digoverno dell’impresa rende maggiormente credibile l’impegno digarantire alle migliori risorse umane l’accesso alle risorse criticheaziendali al fine di creare le predette complementarità tra risorseumane e risorse dell’impresa.

Per altro verso, l’alterazione dei meccanismi di selezione e remu-nerazione del management a favore dei componenti familiari puòessere un deterrente per l’effettuazione di investimenti firm-specific44.

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43 La relazione tra assetti di governo delle imprese e generazione di risorse immateriali èuna direttrice di studi su cui ancora molto deve essere spiegato. Per un lavoro sulla corpo-rate governance in relazione alle risorse immateriali: ARTURO CAPASSO, Assetti proprietarie governo d’impresa. ‘Corporate governancÈ e risorse immateriali, Padova, Cedam, 1996.44 Ad esempio, le teorie sulla “distributive justice” suggeriscono che se le risorse non sonoallocate correttamente tra i vari soggetti interessati, la ripartizione stessa sarà percepitacome ingiusta e ne soffriranno sia la performance che la fedeltà dei dipendenti (MICHAEL

LUBATKIN – YAN LING – WILLIAM SCHULZE, Explaining agency problems in family firmsusing behavioral economics and justice theories, Academy of Management meetings, 2003).Si veda anche: MICHAEL LUBATKIN – YAN LING – WILLIAM SCHULZE, Altruism., utilityfunction and agencyproblems at family firms, in CRAIG GALBRAITH, Strategies andOrganizations in transition, London, Blackwell, 2001.

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Il tema rilevante è che, in presenza di contratti incompleti, l’in-vestimento in risorse specifiche per l’impresa è favorito da relazionidi lunga durata tra organi imprenditoriali e risorse umane. Tali rela-zioni45, se correttamente gestite, sono una caratteristica distintivadelle aziende di famiglia di grande dimensione.

Inoltre, è stato osservato come la frammentazione del potere dicontrollo (che ha il pregio di accrescere la democrazia societaria e dibilanciare il potere degli azionisti di controllo) presenti seri rischi perla conservazione e l’accrescimento del capitale intellettuale46. Poichénessuna categoria di stakeholder ha da sola la titolarità dei dirittiresiduali e di conseguenza i relativi poteri decisionali di controllo,nessuno interiorizza come proprio il problema della conservazione edell’accrescimento del capitale intellettuale47, con le ovvie conse-guenze negative in termini di competitività duratura dell’impresa.

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45 Alcuni autori hanno parlato, in proposito, di “contratti relazionali”: GEORGE BAKER –ROBERT GIBBONS – KEVIN MURPHY, Relational contracts and the theory of the firm, op. cit.,2002.46 Nell’ambito delle teorie dell’impresa basate sulle risorse immateriali, un filone di studimolto ricco è stato quello del “capitale intellettuale”, che rappresenta in sostanza il com-plesso dei valori aziendali ulteriori rispetto al valore del patrimonio netto contabile, cioè ilvalore delle risorse immateriali e il valore di avviamento. Il capitale intellettuale è vistocome costituito dal capitale umano, dal capitale organizzativo (attinente al funzionamentodei processi interni dell’azienda, inclusi quelli innovativi) e dal capitale relazionale (rappre-sentativo delle relazioni con i mercati esterni ed in particolare con quello dei clienti). Talivalori, singolarmente considerati, sono difficilmente esprimibili con misure economiche.La letteratura sul capitale intellettuale è pertanto fortemente orientata all’individuazionedi modelli non economico-finanziari di misurazione degli elementi del capitale intellettua-le che ne favoriscano una efficace gestione. Tra le prime pubblicazioni internazionali di rilievo sul tema si ricordano: LEIF EDVINSSON

– MICHAEL MALONE, Intellectual capital. The proven way to establish your company’s realvalue by measuring its hidden brainpower, New York, HarperBusiness, 1997; THOMAS

STEWART, Intellectual capital. The new wealth of organizations, London, Brealey, 1998;KARL SVEIBY, The new organizational wealth. Managing and measuring knowledge-basedassets, S. Francisco, Berret-Koehler, 1997. Con riferimento alla letteratura italiana si ricor-dano: ANDREA LIPPARINI, La gestione strategica del capitale intellettuale in azienda,Bologna, Il Mulino, 2002; PIERLUIGI LIZZA, Il capitale intellettuale: profili di gestione e divalutazione, Milano, Giuffré, 2005; ADELE DEL BELLO – ANDREA GASPERINI, Il valore delcapitale intellettuale, Milano, Ipsoa, 2006. 47 L’argomentazione è presente in: LUIGI ZINGALES, In search of new foundations, op. cit.,2000, p. 1648. L’autore si riferisce all’espressione “organizational capital”, che è stata quiliberamente tradotta in capital intellettuale, del quale il capitale organizzativo è un ele-mento.

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Argomentando al contrario, quindi, la concentrazione del poteredi controllo produrrebbe benefici sul capitale organizzativo e sullacompetitività duratura dell’impresa in ragione della continuità digoverno dell’impresa48.

Recentemente, Carney e Gedaijlovic hanno presentato unworking paper in cui vi sono alcune prime riflessioni per una “teo-ria dei costi di transazione” dell’impresa familiare. Gli autori spie-gano l’esistenza delle aziende di famiglia con il fatto che esse sonopotenti generatori di “capitale sociale” e di relazioni di fiducia dure-voli, le quali sono leve per il vantaggio competitivo, non sono neces-sariamente firm-specific, ma hanno invece la caratteristica di nonessere negoziabili proprio in quanto legate alla famiglia.L’opportunità di sfruttare tale capitale sociale spiegherebbe l’esi-stenza delle aziende di famiglia; l’eventuale evoluzione verso unaistituzione gerarchica a controllo diffuso determinerebbe infatti ladispersione di tale capitale49.

Quanto sopra contribuisce a spiegare il successo e la persistenzadel modello di governance familiare nelle grandi imprese. Le stesseimpostazioni teoriche ne evidenziano tuttavia le possibili debolezze,ad esempio costituite da un approccio di tipo “parentale” alla sele-zione del management, che frustra la crescita delle risorse manage-riali dell’impresa e la gestione del ricambio.

Le teorie dei contratti incompleti, ed in particolare la teoria deicosti di transazione e la teoria dei diritti di proprietà non spieganocompiutamente l’esistenza ed il ruolo delle aziende di famiglia digrandi dimensioni, ma forniscono spunti interessanti che nel segui-to del lavoro saranno ripresi ed approfonditi.

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48 La relazione tra capitale intellettuale e aziende di famiglia sarà approfondita nel capitoloseguente. L’argomento è di recente dibattuto nell’ambito della letteratura italiana ed inter-nazionale. Per un recente lavoro italiano che affronta il tema nella prospettiva delle piccolee medie imprese e pone il capitale intellettuale come fulcro dei processi di successione gene-razionale è: ANDREA BRACCI – EMIDIA VAGNONI, Le piccole imprese familiari. Il capitale intel-lettuale nella gestione del ricambio generazionale, Milano, Franco Angeli, 2008.49 Il lavoro è ad oggi ancora largamente non scritto, ma l’intuizione in esso contenuta vanella stessa direzione dell’impostazione teorica presentata nel presente volume: MICHAEL

CARNEY – ERIC GEDAJLOVIC, A transaction cost theory of family enterprise, working paperpresented at the Easm Workshop on Family Firms, Naples, 2008.

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2.4. Le aziende di famiglia quotate e la dicotomia tra teoria dellacreazione di valore per gli azionisti e teoria degli stakeholders

Uno dei dibattiti economico-aziendali più vivi degli ultimi ventianni è quello che vede contrapposti lo “shareholders’ approach” e lo“stakeholders’ approach”. In ragione della prospettiva dicotomicadel dibattito, ma anche perché i due approcci possono essere inqua-drati nell’ambito di una teoria generale che vede nella creazionedurevole di nuovo valore il fine principale delle aziende, l’analisi deidue approcci teorici è qui compiuta congiuntamente.

La visione dell’azienda come sistema orientato alla creazione divalore economico, a prescindere dai soggetti ai quali tale valore siadistribuito, è tutt’altro che nuova per la dottrina aziendalistica ita-liana, nell’ambito della quale dunque la dicotomia tra i due approc-ci può ben comporsi in una teoria generale dell’azienda nell’ambitodella quale vi sia piena consapevolezza del ruolo dei diversi porta-tori di interessi50. Piace qui ricordare il pensiero di Giannessi, secon-do il quale l’azienda “deve avere un solo fine e questo è la produ-zione di ricchezza”51. E proprio a dimostrazione di come l’economiaaziendale italiana manifesti una percezione in fondo unitaria degliapprocci teorici l’Autore scrive: “il problema non è solo economico,come volgarmente si crede, ma anche sociale. La ricchezza, pervenire distribuita, deve essere prima prodotta”.

Il rapporto tra la teoria economico-aziendale italiana e la gover-nance familiare delle aziende sarà approfondito in un successivoparagrafo.

65Teorie del governo d’impresa

50 Ad esempio, la scuola di Masini comprende nel soggetto economico non solo i prestato-ri di capitale proprio, ma anche i lavoratori, che sono considerati “membri dell’istituto”azienda e titolari delle “condizioni primarie di produzione”, cui spettano, di conseguenza,prerogative di governo dell’impresa. Si veda, diffusamente: CARLO MASINI, Lavoro e rispar-mio. Economia d’azienda, Torino, Utet, 1970.51 L’argomentazione del fine unico discende in Giannessi dall’unitarietà del fenomenoaziendale (EGIDIO GIANNESSI, Appunti di Economia Aziendale, Pisa, Pacini, 1979). Il con-cetto di unitarietà del sistema azienda è tipico della tradizione economico-aziendale italia-na e discende dall’impostazione zappiana, che vede l’azienda come un “tutto coordinato”,una “coordinazione economica in atto” (GINO ZAPPA, Tendenze nuove negli studi diRagioneria, Milano, Istituto Editoriale Scientifico, 1927) e che arrivo a sostenere l’inscin-dibilità dell’azienda (GINO ZAPPA, Le produzioni nell’economia delle imprese, Tomo I,Milano, Giuffré, 1956). Si veda, a tale proposito: GIOVANNI FIORI, Le scissioni nell’econo-mia e nei bilanci delle aziende, Milano, Giuffré, 1995.

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In questa sede si vuole invece analizzare in che misura la “sha-reholders’ view” e la “stakeholders’ view” contribuiscano a spiegarela fenomenologia della proprietà e del controllo delle imprese, ed inparticolare la persistente rilevanza delle aziende di famiglia quotate.

Le due teorie hanno approcci molto diversi riguardo alla destina-zione del valore creato dall’impresa. Nel caso della “shareholders’view” (SHV) la creazione di valore è riferita agli azionisti; nel casodella “stakeholders’ view” (STV) a tutti i soggetti portatori di inte-ressi rilevanti ed influenti nei confronti dell’impresa.

L’approccio della SHV si fonda sull’assunto secondo il qualel’impresa deve essere orientata alla massimizzazione degli interessidei suoi proprietari, cioè degli azionisti52. La SHV è quindi in sinto-nia con la teoria dei diritti di proprietà. Gli azionisti assoggettanopienamente il loro capitale al rischio d’impresa, conseguentementehanno diritto alla remunerazione residuale e detengono il poterevolitivo53. La posizione degli altri interlocutori è, al contrario, garan-tita da contratti che stabiliscono prestazioni e controprestazioni.

66 Le aziende di famiglia “quotate”

52 Questa teoria ha avuto un gran successo pratico, anche se il suo assunto non è nuovosotto il profilo teorico. Essa ha dato notevole impulso a nuovi metodi di gestione e mis-urazione della creazione di valore per gli azionisti.Il lavoro che ha aperto il filone di studi può considerarsi il seguente: WILLIAM FRUHAN,Financial Strategy: Studies in the creation, transfer and destruction of shareholder value,Homewood, Irwin, 1979. Tra i principali studi sistematici sul tema, di carattere sia acca-demico che pratico, si ricordano: ALFRED RAPPAPORT, Creating shareholder value. Thenew standard for business performance, New York, The Free Press, 1986; TIM COPELAND

– TOM KOLLER – JACK MURRIN, Valuation. Measuring and managing the value of compa-nies, New York, Wiley, 1990; BENNET STEWART, The quest for value: the EVA managementguide, London, HarperCollins, 1991. In Italia la teoria della creazione di valore per gliazionisti, che pure ha trovato fecondi sviluppi, è stata introdotta con i seguenti lavori:FABIO BUTTIGNON, La strategia aziendale e il valore economico del capitale, Padova,Cedam, 1990; GIORGIO DONNA, La valutazione economica delle strategie d’impresa,Milano, Giuffré, 1991; LUIGI GUATRI, La teoria di creazione del valore. Una via europea,Milano, Egea, 1991.53 Ciò è coerente con l’impostazione più tradizionale della dottrina economico-aziendaleitaliana, che vede nel soggetto economico colui che principalmente sostiene il rischio del-l’impresa ed ha quindi diritto alla remunerazione residuale ed alle decisioni supreme sul-l’impresa. Il tal senso, il soggetto economico è “esclusivo portatore della volontà azienda-le” (UMBERTO BERTINI, In merito alle ‘condizioni’ che determinano il successo dell’impresa,op. cit. 1995), egli comprende nella sua area sia la “creatività imprenditoriale” che la“creatività manageriale” (UMBERTO BERTINI, Creatività e gestione strategica dell’azienda,in Scritti di politica aziendale, Torino, Giappichelli, 1995).

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Il valore dell’impresa per gli azionisti diviene quindi il fulcro delsistema di finalità dell’impresa e della misurazione della sua perfor-mance54.

I problemi principali nella concreta attuazione della filosofiagestionale della creazione di valore sono:

– il conflitto di interessi tra azionisti e manager, i quali in man-canza di adeguati incentivi hanno una propria funzione-obiet-tivo diversa da quella degli azionisti;

– i conflitti di interesse tra azionisti ed altri stakeholders, cherende parziale l’approccio fondato esclusivamente sulla crea-zione di valore per gli azionisti.

Il pregio di questa teoria è aver significativamente contribuitoalla implementazione di strumenti operativi per la soluzione delprimo di tali conflitti. Alla SHV è infatti ascrivibile l’enorme diffu-sione, durante gli anni novanta, delle remunerazioni dei managerlegate al valore per gli azionisti e soprattutto delle “stock-options”,che hanno consentito (e consentono ancora) ai manager guadagnielevatissimi in caso di forte incremento del valore di borsa dell’im-presa. Il presupposto teorico, nell’alveo della teoria dell’agenzia, èche legare i guadagni del management al valore azionario allinea gliinteressi dei manager con quelli degli investitori azionisti55.

67Teorie del governo d’impresa

54 Nella teoria del valore, è molto ricca la letteratura che dai principi sulla finalità d’im-presa ha derivato strumenti operativi per la valutazione della performance ed il control-lo della gestione. Lo stesso già citato lavoro di Rappaport è orientato alla valutazionedella performance ALFRED RAPPAPORT, Creating shareholder value. The new standard forbusiness performance, op. cit., 1986). Con riferimento alla letteratura italiana, si ricorda-no, tra gli altri, i seguenti lavori: GIUSEPPE BRUNI, Contabilità del valore per aree strate-giche di affari, Torino, Giappichelli, 1999; FABRIZIO DI LAZZARO, La performance delvalore. Per l’analisi aziendale, Torino, Giappichelli, 2003; LUCIANO OLIVOTTO, Valore esistema di controllo, Milano, McGraw Hill, 2000; ANGELO PROVASOLI, Problemi di misu-razione della performance aziendale nei ‘modelli di valore’, in “La valutazione delle azien-de”, n. 7, 1997. La teoria del valore è anche alla base di teorie alternative al calcolo delreddito ai fini del bilancio: PELLEGRINO CAPALDO, Reddito, capitale e bilancio d’esercizio,Milano, Giuffrè, 1998. 55 Per una trattazione sistematica del tema: STEFANO BOZZI, Stock options. Aspetti economi-ci, fiscali e contabili, Milano, Università Bocconi Editore, 2006. Come è noto, lo strumen-to delle stock-options è stato per anni assai gradito alle imprese anche perché riceveva untrattamento contabile che di fatto consentiva di non iscrivere come costo il differenziale divalore che i piani consentivano a favore del management. Si veda: SIMONA CATUOGNO,L’esperienza contabile internazionale sulle stock-options come strumento di retribuzionedegli alti dirigenti, Padova, Cedam, 1996.

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A partire dal 2000, prima la bolla dei titoli della c.d. “new eco-nomy” e poi l’ondata di frodi contabili (con Enron in testa), hannomostrato tutti i limiti di tale approccio concettuale fondato sull’effi-cienza in forma forte dei mercati azionari56, le cui condizioni nonsono riscontrabili nella realtà in quanto gli operatori sui mercatiazionari non sono né del tutto razionali, né perfettamente informa-ti57. Gli interessi di azionisti e manager sarebbero compiutamenteallineati solo ove le quotazioni di borsa esprimessero sempre il realevalore economico dell’impresa, riflettendone costantemente le pro-spettive di redditività e rischio nel lungo periodo. Poiché così nonè, la fiducia cieca nella creazione di “valore borsistico” si è rivelataeffimera ed ha non di rado portato a guadagni strabilianti per imanager (che hanno tempestivamente esercitato e, o, venduto leloro stock-options) ed a perdite ingenti per gli azionisti. I mercati sisono spesso mostrati più attenti a fenomeni congiunturali e alrispetto dei risultati trimestrali attesi piuttosto che alla valutazionedelle strategie e dei piani aziendali.

Questo orientamento al breve termine del mercato (market myo-pia) si è riflettuto sui comportamenti dei manager, spinti ad avereun’attenzione spasmodica ai risultati di breve periodo ed alle quo-tazioni borsistiche, anche a scapito dei processi di innovazione edella sostenibilità dei risultati (quando non della correttezza e del-l’etica d’impresa).

Gli eventi, già richiamati, che ne sono derivati hanno messo sottoaccusa la SHV ed hanno condotto molti a rivalutare l’approccio deglistakeholders. Ad avviso di chi scrive, i fondamenti teorici della teoriamantengono tutta la loro validità, mentre non altrettanto può dirsi del-l’equivalenza tra valore per gli azionisti e valore di borsa. Sceverata ditale equivalenza, tuttavia, la teoria rimane priva di una parte importan-te degli strumenti operativi che ne avevano determinato il successo.

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56 Sul rapporto tra corporate governance, incentivi dei mercati e frodi contabili si veda:GIOVANNI FIORI, Corporate governance e qualità dell’informazione esterna d’impresa,Milano, Giuffrè, 2003.57 Le condizioni per l’efficienza in forma forte dei mercati azionari sono le seguenti: a) tuttele informazioni rilevanti sono alla portata di tutti gli investitori; b) tutte le informazionirilevanti, non solo quelle pubbliche, si riflettono nei prezzi. Si veda, ad esempio, il seguen-te celebre manuale (nella edizione italiana): RICHARD BREALEY – STEWART MYERS –SANDRO SANDRI, Principi di finanza aziendale, Milano, Mc Graw Hill, 2007.

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Con riferimento agli scopi precipui del presente lavoro, l’impor-tanza concettuale della creazione di valore per gli azionisti comefondamentale obiettivo e parametro di performance dell’impresacontribuisce a spiegare la diffusione del modello dell’azienda difamiglia quotata sui mercati azionari. Nella prospettiva della SHV,l’azienda di famiglia ha il vantaggio di recuperare più facilmentel’allineamento di interessi tra azionisti e managers in virtù delleseguenti circostanze:

– la presenza nel top management di componenti della famigliadi controllo, che comporta il naturale orientamento delle stra-tegie aziendali alla creazione di valore nel tempo;

– il coinvolgimento di componenti della famiglia negli organi digoverno della società (tipicamente il consiglio di amministra-zione), attraverso il quale la famiglia azionista esercita unmonitoraggio continuo dell’azione manageriale, orientandolaalla creazione di valore;

– la costante credibilissima minaccia che la famiglia di controllosostituisca il top management ove i suoi comportamenti nonsiano mirati alla creazione sostenibile di valore azionario(diversamente da quanto avviene nelle public company).

Nell’approccio SHV, tali circostanze dovrebbero produrre signi-ficativi vantaggi nell’orientamento al valore dell’azione manageriale.I conflitti di interesse con gli azionisti di minoranza e lo sfruttamen-to dei benefici privati del controllo, tradizionalmente indicati comedanni della concentrazione proprietaria, potrebbero essere più checompensati da questi vantaggi, motivando così l’efficienza economi-ca del modello dell’azienda di famiglia quotata. Gli azionisti diminoranza beneficerebbero in altre parole della stabilità, della con-tinuità e dell’orientamento al valore dell’azienda di famiglia quota-ta, risparmiando in costi di informazione e di monitoraggio deicomportamenti manageriali. E tali vantaggi andrebbero confrontaticon le distrazioni di valore legate ai benefici privati del controllo;ove fossero superiori, il modello del controllo familiare si rivelereb-be economicamente più efficiente di quello dell’azionariato diffuso.

La teoria della creazione di valore per gli azionisti non ha peròaffrontato in maniera esauriente il problema dei conflitti di interes-se tra azionisti ed altri stakeholders. Nella SHV si afferma che il per-seguimento della creazione di valore per gli azionisti, garantendo

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stabilità economica all’impresa nel lungo periodo, contribuisce alcontemporaneo raggiungimento degli interessi degli altri stakehol-ders58.

La teoria degli stakeholders muove invece dal presupposto che ilfinalismo dell’impresa non può essere spiegato soltanto in termini divalore azionario, ma che l’impresa dovrebbe perseguire un equili-brato contemperamento degli interessi di tutti i soggetti coinvoltinelle vicende aziendali in ragione delle risorse da essi impiegate, edassoggettate a rischio, in tali vicende59.

Il fatto che le risorse siano costituite dal capitale di rischio piut-tosto che dal capitale di credito, dal lavoro, dai redditi consumatiper l’acquisto dei prodotti dell’impresa stessa da parte dei clientinon giustifica una diversa gerarchia degli interessi che l’aziendadeve perseguire. Anche i lavoratori, ad esempio, destinano risorseintellettuali all’impresa e sostengono il rischio di perderle ove l’im-presa fallisca e le competenze acquisite siano “firm-specific”, cioènon impiegabili in altre imprese. Anzi, la Blair ha sostenuto, a ragio-ne, che la specificità delle risorse che i dipendenti investono nell’im-presa è molto maggiore di quella del capitale azionario, soprattuttose riguarda società quotate60.

Non è quindi giustificato l’assunto, tipico della SHV, secondo ilquale l’impresa dovrebbe perseguire i fini degli azionisti in quantola loro posizione è meno garantita di quella dei lavoratori o deglialtri stakeholders. Tutti coloro che sopportano una parte del rischiod’impresa, cioè che hanno remunerazioni future incerte, sono legit-timati ad essere coinvolti nel governo dell’impresa61. Inoltre, nellateoria degli stakeholders la finalità dell’impresa è la creazione di

70 Le aziende di famiglia “quotate”

58 Si veda, ad esempio: LUIGI GUATRI, La teoria di creazione del valore, op. cit., p. 23.59 La teoria degli stakeholders nasce come approccio al management strategico. Tra i primilavori che hanno aperto il filone teorico si possono ricordare: RICHARD FREEMAN, StrategicManagement. A stakeholder approach, Marshfield, Pitman, 1984; ARCHIE CARROLL,Business & Society. Ethics and stakeholder management, Cincinnati, South-Western, 1993.60 Margaret Blair ha impostato un approccio alla corporate governance fondato suglistakeholders, definiti come quei soggetti “who have contributed input sto the enterpriseand who, as results, have at risk investments that are highly specialized to the enterprise”.Si veda: MARGARET BLAIR, Ownership and control. Rethinking corporate governance for thetwenty-first century, Washington, Brookings, 1995, p. 239.61 CLAUDIO DEMATTÉ, Le fonti di legittimazione del governo d’impresa, in “Economia eManagement”, settembre, 1991.

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valore per tutti gli stakeholders, ossia di distribuire remunerazionisoddisfacenti a tutti gli interlocutori62.

Anche tale approccio non può ritenersi totalmente innovativo.Basti pensare che la dottrina italiana, pur non avendo assegnatoun’etichetta quale quella della “stakeholders’ view” alle proprie ela-borazioni teoriche, ha da lungo tempo affermato l’importanza dellapartecipazione al rischio ed ai rendimenti dell’impresa dei portato-ri di interessi diversi dagli azionisti63.

Non è questa la sede per approfondire il pur rilevantissimo pro-blema della ricerca di una sintesi tra i due approcci che consenta lacostruzione di una teoria unitaria delle finalità aziendali.

71Teorie del governo d’impresa

62 Si tratta di una diversa “concezione di impresa”, da cui derivano però implicazioni assairilevanti in termini di competitività e successo dell’impresa. A cavallo tra gli anni ’80 e ’90,ad esempio, fu lampante come la “concezione d’impresa” tipica degli Stati Uniti (l’impre-sa manageriale che crea valore per gli azionisti) avesse forti debolezze competitive rispettoalle imprese giapponesi o tedesche, proprio in ragione del fatto che queste ultime eranovissute come una comunità di persone ed interessi, stimolando maggiori livelli di impegnoe partecipazione da parte delle risorse umane e della collettività. In tal senso: VITTORIO

CODA, ‘Concezioni d’impresa’ e declino economico degli Stati Uniti, in “Economia e PoliticaIndustriale”, n. 57, 1988. Si veda anche, per il rapporto tra diverse concezioni di capitali-smo e diverse concezioni di impresa nella prospettiva della creazione di valore: LUIGI

GUATRI – SALVATORE VICARI, Sistemi d’impresa e capitalismi a confronto. Creazione di valo-re in diversi contesti, Milano, Egea, 1994. In quegli anni, la fluidità dell’allocazione delcapitale alle imprese statunitensi, in contrapposizione alla stabilità riscontrabile nel model-lo renano di corporate governance, è stata da Porter considerata uno “svantaggio compe-titivo”: MICHAEL PORTER, Capital disadvantage: America’s failing capital investment system,in “Harvard Business Review”, n. 5, 1992. 63 In primo luogo, è stato sostenuto che il “rischio economico generale” “investe l’essenzadella vita dell’azienda” e riguarda, conseguentemente, tutti i soggetti in essa coinvolti(UMBERTO BERTINI, Introduzione allo studio dei rischi in economia d’azienda, Pisa, Cursi,1969). Tuttavia, le posizioni di Bertini sono per una netta distinzione tra il rischio sostenu-to dal soggetto economico ed il rischio sostenuto dagli altri interlocutori aziendali. I rife-rimenti a posizioni maggiormente vicine alla teoria degli stakeholders potrebbero esseremoltissimi. Oltre al già citato approccio di Masini, che vede i lavoratori come partecipi del-l’istituto azienda e delle sue prerogative di governo (CARLO MASINI, Lavoro e risparmio, op.cit., 1970), si veda anche, a mero titolo di esempio, il seguente passo di Onida: “al rischioeconomico d’azienda, …, partecipano … tutti coloro che prestano fattori produttivi a que-st’ultima, contro rimunerazione posticipata” (PIETRO ONIDA, Economia d’Azienda, Torino,Utet, 1965). Più recentemente, la dottrina italiana si è orientata verso definizioni di sogget-to economico di tipo aperto, atte a rappresentare la flessibilità con cui diversi gruppi disoggetti interagiscono ed esercitano un’influenza significativa sulla funzione di governo(ROSELLA FERRARIS FRANCESCHI, L’azienda: caratteri discriminanti, criteri di gestione, strut-ture e problemi di governo economico in ENRICO CAVALIERI – ROSELLA FERRARIS

FRANCESCHI, Economia Aziendale, Torino, Giappichelli, 2000, p. 103).

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Brevemente, si può ritenere, ad avviso di chi scrive, che i dueapprocci possono trovare equilibrata composizione nell’ambito diuna teoria della “creazione di valore illuminata”64, in cui la creazio-ne di valore per gli azionisti sia ottenuta incrementando il flussocomplessivo di valore generato e non mediante la compressionedelle remunerazioni degli altri stakeholders, che dovrebbero anzipartecipare, in misura proporzionata ai loro apporti ed ai rischisostenuti, alla distribuzione del valore creato65.

Negare tout court il primato degli azionisti come titolari di unaremunerazione residuale e del potere volitivo ci sembra innanzitut-to non rappresentativo della realtà osservata (e la diffusione delmodello dell’azienda di famiglia quotata, peraltro, ne è la dimostra-zione palese), ma soprattutto lascia il problema delle finalità delleimprese indeterminato. L’impresa non massimizzerebbe alcunavariabile, ma ottimizzerebbe un vettore di molteplici variabili-obiet-tivo tra loro non comparabili (ad esempio, i dividendi per gli azio-nisti ed il benessere sociale collegato allo sviluppo economico di unadeterminata area territoriale), con il risultato di non avere punti diriferimento solidi per la valutazione della performance e la costru-zione di logiche e strumenti per il management66.

72 Le aziende di famiglia “quotate”

64 L’espressione “enlightened value maximization” è di Michael Jensen (MICHAEL JENSEN,Value maximization, stakeholder theory and the corporate objective function, in “Journal ofApplied Corporate Finance”, n. 3, 2001), che le attribuisce un valore sostanzialmente equi-valente a quella di “enlightened stakeholders theory”. Se infatti la logica del valore aziona-rio viene temperata tenendo conto dei vincoli posti dalle funzioni-obiettivo degli altristakeholders e, correlativamente, la logica degli “stakeholders” viene arricchita di criteridecisionali univoci e strumenti di valutazione della performance, le due teorie finisconoinevitabilmente per convergere.65 Si tratta, in altre parole, di un problema di “massimizzazione vincolata”: GIORGIO

DONNA, La creazione di valore nella gestione dell’impresa, Roma. Carocci, 1999, p. 32.In una prospettiva più ampia, quindi, può parlarsi di “creazione di valore sui mercati realie finanziari e nel sistema economico-sociale”, essendo la prima più strettamente legata aicicli gestionali di finanziamento, acquisto, produzione e vendita e la seconda un proces-so “non … legato allo scambio di beni o di capitali”, trattandosi “di un valore realizzatonel sistema sociale mediante la credibilità e la fiducia che gli esponenti aziendali riesconoa suscitare”. Si può distinguere quindi tra creazione di valore nella prospettiva drell’a-zienda, nella prospettiva del cliente e nella prospettiva dell’azionista. Così: MICHELE

GALEOTTI, Governo dell’azienda e indicatori di performance, Torino, Giappichelli, 2006,p. 97.66 Nel senso del “relativismo” cui condurrebbe la negazione del primato degli azionisti:PAOLO BASTIA, Istituzioni di Economia Aziendale, Padova, Cedam, 1999, p. 57.

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Nella prospettiva che qui interessa, la teoria degli stakeholderspropone una visione dell’impresa che apparentemente mal si conci-lia con la proprietà concentrata nelle mani di una famiglia.L’influenza dominante e l’orientamento alla massimizzazione dellaricchezza degli azionisti di controllo, addirittura tramite l’estrazionedi benefici privati, sembrano agli antipodi di una concezione del-l’impresa come “entità sociale”67, che effettua una “produzione inteam”68 e persegue congiuntamente ed equilibratamente gli interes-si di tutti coloro che in tale produzione sono coinvolti.

L’allocazione dei diritti di controllo sull’impresa, nella STV, deveessere effettuata tra tutti coloro che contribuiscono alla creazionedel valore complessivo, in base alle risorse che conferiscono all’im-presa ed ai rischi che assumono; il primato dei conferenti capitale dirischio ne risulta, pertanto, ingiustificato. In una tale concezione,che vede l’impresa come “istituzione” e non come “proprietà”, nonvi sarebbe particolare ragione per mantenere elevati livelli di con-centrazione proprietaria, a meno che ciò non sia una condizionenecessaria per apportare all’impresa risorse di tipo ulteriore (emolto meno fungibile) rispetto al mero capitale, ovvero per sfrutta-re contesti regolamentari che consentono agli azionisti di controllodi sottrarre remunerazioni altrimenti spettanti ad altri stakeholders.

Nel secondo caso, la concentrazione proprietaria in mano allefamiglie, conducendo ad un modello di impresa economicamenteinefficiente, andrebbe contrastata dalla regolamentazione societaria.

Sotto il primo profilo, tuttavia, l’azienda di famiglia potrebbetrovare razionalità economica nella capacità della famiglia impren-ditoriale di porsi al centro di una rete stabile di relazioni con glistakeholders, nell’ambito della quale essi possano trovare un rap-porto remunerazione/rischio più favorevole di quello che trovereb-bero in altri modelli di impresa. Ad esempio, i lavoratori potrebbe-ro trovare nella stabilità della compagine azionaria un incentivoall’effettuazione di investimenti “firm-specific” in conoscenza, lebanche potrebbero valutare più favorevolmente il merito di credito

73Teorie del governo d’impresa

67 WILLIAM ALLEN, Our schizophrenic conception of the business corporation, in “CardozoLaw Review”, n. 2, 1992.68 MARGARET BLAIR, Corporate Governance, in “International Encyclopedia of the Socialand Behavioral Sciences”, December, 1999, p. 23.

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una volta instaurato un rapporto di fiducia con la compagineimprenditoriale69.

Inoltre, le stesse risorse imprenditoriali distintive della famigliadi controllo potrebbero essere all’origine della creazione di valoreaggiuntivo, da ripartire a beneficio degli azionisti stessi, ma anchedegli altri stakeholders.

Ad avviso di chi scrive, la teoria degli stakeholders non è quindiincompatibile con l’esistenza delle aziende di famiglia di grandidimensioni e quotate, anche se, per quanto di nostra conoscenza,non vi è letteratura mirata a spiegarne l’esistenza con la teoria stes-sa70. Il volume approfondirà in seguito alcuni di tali aspetti.

2.5. Le aziende di famiglia quotate, l’approccio dell’altruismo e lastewardship theory

Nella prospettiva dell’impresa come istituzione superiore di interes-se collettivo, tipica della “stakeholders theory”, si inscrive anche la“stewartdship theory”, che è posta come approccio alternativo econtrastante rispetto alla “agency theory”, anche se gli sviluppi dellateoria hanno evidenziato le complementarità, più che i contrasti, trale due teorie71. Il tema è collegato anche alle teorie dell’”altruismo”,di cui si è già accennato in un precedente paragrafo72.

La “stewardship theory” è basata sull’assunto secondo il qualecomportamenti cooperativi e basati sul benessere collettivo genera-

74 Le aziende di famiglia “quotate”

69 PRAMODITA SHARMA, Stakeholders mapping technique: towards the development of a fam-ily firm typology, paper presented at the Academy of Management Annual Congress,Denver, 2003.70 Si veda anche il seguente lavoro di rassegna: JAMES CHRISMAN – JESS CHUA - PRAMODITA

SHARMA, Current trends and future directions in family business management studies:toward a theory of the family firm, Coleman White Paper Series, 2003. 71 Il lavoro seminale della teoria è: LEX DONALDSON – JAMES DAVIS, Stewardship theory oragency theory: CEO governance and shareholders returns, in “Australian Journal ofManagement”, june, 1991. Per il lavoro successivo che unifica le due teorie in un quadrodi scelte comportamentali alternative ed influenzate da specifiche contingenze: JAMES

DAVIS – DAVID SCHOORMAN - LEX DONALDSON – Towards a stewardship theory of manage-ment, in “Academy of Management Review”, january, 1997.72 WILLIAM SCHULZE – MICHAEL LUBATKIN – RICHARD DINO, Towards a theory of agencyand altruism in family firms, op. cit.

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no in ultima analisi maggiori utilità dei comportamenti individuali-stici e basati sugli interessi personali73.

Per quanto riguarda i comportamenti manageriali, la teoria vedeil management come “steward” dell’impresa, che sente gli interessidell’organizzazione al di sopra di ogni altro interesse individuale,compresi quelli personali. In caso di disallineamento tra interessipersonali ed interessi dell’impresa, egli perseguirà i superiori inte-ressi dell’impresa. E tale comportamento è considerato razionale,proprio perché egli sa che, così facendo, procura maggiori utilitànon solo agli altri, ma anche a se stesso. Incrementando la perfor-mance dell’impresa, infatti, vi saranno azionisti ed altri stakeholderssoddisfatti, ed il management non solo vedrà aumentate le possibi-lità di rimanere al proprio posto e le proprie prospettive di remune-razione, ma avrà generato una serie di utilità indotte che potrannotornargli utili al momento giusto.

In tal senso, i comportamenti a favore dell’organizzazione sonoquelli che generano maggiori utilità per tutti, compreso ilmanager/steward.

L’approccio della “stewardship theory” presenta dunque analo-gie e divergenze rilevanti con quello dell’”altruismo” di Shulze et al.Le analogie principali riguardano il completamento della teoria del-l’agenzia con lo studio di comportamenti diversi da quelli pretta-mente individualistici. Inoltre, in entrambi i casi i comportamentisono compatibili con il perseguimento di una utilità individuale erimangono quindi nella sfera della razionalità.

La differenza fondamentale tra gli approcci riguarda invece lafunzione di utilità alla base dei comportamenti ed i soggetti o l’isti-tuzione cui si indirizzano i benefici.

L’altruismo è visto come comportamento coerente con i principidi razionalità economica, che tende però a generare benefici per lafamiglia, anche a danno di altri stakeholders quali gli azionisti diminoranza o i dipendenti. È il caso del CEO fondatore che permet-

75Teorie del governo d’impresa

73 La “stewardship theory” ha i suoi antecedenti teorici in alcuni studi sul comportamentoorganizzativo fondati sulla razionalità collettiva (GEERT HOFSTEDE, CulturÈs consequences.International differences in work’s related values, Beverly Hills, Sage, 1980) e sulla auto-realizzazione nelle organizzazioni (CHRIS ARGYRIS, Integrating the individual and the organ-ization, New York, Wiley, 1964; CHRIS ARGYRIS, Organization man: Rational and self-actu-alizing, in “Public Administration Review”, july, 1973).

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te ai propri figli di godere di benefici particolari all’interno dell’a-zienda. Di tali comportamenti la letteratura sottolinea gli effettinegativi sui costi di agenzia e sulla performance dell’impresa74.

La “stewardship theory”, diversamente, amplia lo spettro dellafunzione di utilità a benefici di natura non economica, relativi allaauto-realizzazione ed al benessere personale75, e pone l’interesse del-l’azienda al di sopra di quelli personali. I comportamenti cooperati-vi a favore dell’organizzazione si riflettono in utilità anche per gliindividui; per questo il management si comporta come “steward”dell’organizzazione.

L’approccio dell’altruismo spiega molti dei comportamentidisfunzionali delle aziende di famiglia, anche di grande dimensione,quale quello della sovrapposizione degli interessi della famiglia conquelli dell’impresa, che indeboliscono l’essenziale caratteristica diautonomia dell’azienda e ne frenano la performance76.

La “stewardship theory”, per contro, spiega alcuni dei compor-tamenti virtuosi del management familiare, quale l’attaccamentoemozionale all’impresa77 che stimola il massimo sforzo per salva-guardarne la continuità e la performance, che consente di effettua-re maggiori investimenti in capitale di conoscenza “firm-specific”,di valorizzare e fidelizzare nel tempo le risorse umane, di sostenerel’autofinanziamento rinunciando a parte delle remunerazioni neimomenti nei quali l’impresa è in difficoltà78, di alimentare gli inve-stimenti nelle competenze critiche per l’azienda, con orizzonte tem-porale di lungo periodo (anche ove riducano i profitti immediati). Ilmanagement familiare, infatti, è uno “steward” particolarmente sol-lecito e premuroso nei confronti dell’azienda di famiglia, ne cura

76 Le aziende di famiglia “quotate”

74 WILLIAM SCHULZE – MICHAEL LUBATKIN – RICHARD DINO, Towards a theory of agencyand altruism in family firms, op. cit.75 Oltre ai già citati lavori di Argyris, l’antecedente teorico è qui: ALFRED MASLOW,Motivation and personality, New York, Harper and Row, 1970.76 È il c.d. “myopic altruism”: MICHAEL LUBATKIN – YAN LING – WILLIAM SCHULZE,Explaining agency problems in family firms using behavioral economics and justice theories,op. cit.77 GUIDO CORBETTA – CARLO SALVATO, “Self-serving or self-actualizing? Models of man andagency costs in different types of family firms, op. cit., 2004. 78 Il ruolo della proprietà forte può essere determinante per la sopravvivenza dell’impresain momenti di crisi finanziaria, ma può anche determinare un forte vincolo al finanziamen-to della crescita.

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accuratamente la reputazione perché da essa dipende la sua ricchez-za ed il suo stesso status personale79.

I due filoni teorici sono, ad avviso di chi scrive, la rappresenta-zione di approcci comportamentali molto diversi alla vita dell’azien-da di famiglia. Entrambi mettono in evidenza la c.d. “sovrapposizio-ne istituzionale” tra azienda e famiglia, ma ne fotografano modalitàdi gestione sostanzialmente opposte. L’altruismo miope che condu-ce a far prevalere gli interessi della famiglia su quelli dell’impresafrena la performance dell’impresa stessa e finisce per essere anti-economico nel medio-lungo termine. Tuttavia, in una prospettivaintergenerazionale limitata alla generazione presente ed a quellasuccessiva, può assicurare rilevanti benefici ai familiari. Al contra-rio, la “stewardship theory” suggerisce comportamenti lungimiran-ti per la continuità ed il successo dell’impresa di generazione ingenerazione.

Ad avviso di chi scrive, il problema non deve essere posto in ter-mini di correttezza o falsità delle teorie, poiché entrambe spiegano,in una prospettiva positiva, parte della realtà. In una prospettivanormativa, tuttavia, tali teorie evidenziano l’importanza dei sistemidi incentivi e controlli per l’orientamento verso i comportamentipiù virtuosi80.

La letteratura sulla “stewardship theory”, accreditando compor-tamenti spontaneamente orientati all’interesse aziendale, nonaffronta esplicitamente questo tema, che sembra invece una stradada percorrere per incrementare l’efficienza economica delle aziendedi famiglia e limitare le aree di inefficienza legate allo sfruttamentodei c.d. “benefici privati del controllo”. Gli scandali finanziari cheperiodicamente colpiscono i sistemi capitalistici non lasciano dubbisul fatto che non tutti gli imprenditori, così come non tutti i mana-ger, sono dei buoni “stewards”. Ma la stewardship theory spiega icomportamenti delle imprese più virtuose, e le motivazioni compor-tamentali alla base della teoria sono particolarmente forti nelleaziende di famiglia. Per questo, la stewardship theory contribuisce

77Teorie del governo d’impresa

79 DANNY MILLER – ISABELLE LE BRETON-MILLER, Family governance and firm performan-ce: agency, stewardship and capabilities, in “Family Business Review”, n. 1, 2006.80 In tal senso, con riferimento ai percorsi di dissesto: UMBERTO BERTINI, Dissesti aziendalie sistemi di controllo interni, Note e studi di economia, n. 2, 2004.

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significativamente alla spiegazione del fenomeno delle aziende difamiglia quotate di grande dimensione.

2.6. Le aziende di famiglia quotate e la teoria sistemica dell’azienda

Di particolare rilievo per la spiegazione del fenomeno delle aziendedi famiglia quotate è infine la teoria generale dell’azienda della dot-trina economico-aziendale italiana, sviluppatasi con numerosevarianti a partire dalla concezione zappiana.

Come è noto, Zappa nelle “Tendenze nuove” definì l’aziendacome “una coordinazione economica in atto istituita e retta per ilsoddisfacimento dei bisogni umani”81, ossia “una coordinazione dioperazioni economiche, di cui l’uomo e la ricchezza sono elementivitali”82. Rispetto agli approcci dell’epoca, la novità principale con-sisteva nel mettere a fuoco e nel sottolineare il carattere di sistemaorganizzato, quindi di organizzazione, o se si vuole di organismo83,in cui nell’ambito di un’entità unitaria molteplici processi trovava-no composizione per il raggiungimento di un fine. Non più, quindi,“somma di fenomeni o negozi”84, ma istituto autonomo. E ciò appa-re ancora più esplicito e chiaro nella definizione di azienda cheZappa diede nelle “Produzioni”: un “istituto economico destinato aperdurare che, per il soddisfacimento dei bisogni umani, ordina esvolge in continua coordinazione la produzione, o il procacciamen-to o il consumo della ricchezza”85.

Da queste premesse si sono sviluppate almeno due generazioni diaziendalisti italiani i cui studi ruotano intorno ad una concezione diazienda come sistema dinamico, sociale ed aperto86.

78 Le aziende di famiglia “quotate”

81 GINO ZAPPA, Tendenze nuove negli studi di ragioneria, Milano, Istituto EditorialeScientifico, 1927, p. 30.82 GINO ZAPPA, Tendenze nuove negli studi di ragioneria, op. cit., 1927, p. 40.83 GIUSEPPE CATTURI, Lezioni di Economia Aziendale, Padova, Cedam, 1997, p. 22.84 FABIO BESTA, La ragioneria, Milano, Vallardi, 1932.85 GINO ZAPPA, Le produzioni nell’economia delle imprese, Milano, Giuffré, 1956, Tomo I, p. 37.86 Secondo Ferrero, l’azienda è “sistema sociale, teleologico, aperto, dinamico e articolato insub-sistemi” (GIOVANNI FERRERO, Impresa e management, Milano, Giuffré, 1987, p. 5 e ss.). Trale definizioni di azienda che incorporano esplicitamente il concetto di sistema si può fare rife-rimento a quella di Amaduzzi, che parla di “sistema di forze economiche” (ALDO AMADUZZI,L’azienda nel suo sistema e nell’ordine delle sue rilevazioni, Torino, Utet, 1953, p. 16).

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In particolare, la dinamicità è caratteristica essenziale dell’azien-da, ma è naturale conseguenza del carattere sociale ed aperto dell’a-zienda stessa. Un “sistema sociale è sempre dinamico”87; l’azienda èdinamica “nel senso che si rinnova continuamente per effetto delmutare dei vincoli interni e delle condizioni ambientali”88.

La teoria generale dei sistemi89 ha dunque rappresentato, nella dot-trina italiana, un modello di grande efficacia per lo sviluppo di teoriesull’azienda, proprio in quanto presenta un forte potere esplicativo delfenomeno azienda visto nella sua unitarietà e molteplicità90: un entitàunica, con proprie manifestazioni di vita e proprie finalità, compostada elementi strutturali, da processi produttivi e da relazioni funziona-li molteplici e varie tra tali elementi e processi; relazioni sia interne cheesterne, che orientano elementi e processi verso i fini aziendali.

Un approccio dunque perfettamente coerente con la teoria gene-rale dei sistemi, che vede gli elementi qualificanti di un sistema nellasua struttura (le parti componenti), nei suoi processi (le attivitàcoordinate delle parti) e nel complesso dei suoi fini.

Nella letteratura aziendalistica italiana, sono state variamenteapprofondite le proprietà e le caratteristiche del sistema azienda. Inparticolare, la dottrina ha sottolineato:

– la proprietà olistica del sistema aziendale, secondo la qualel’interazione tra le parti genera forze aggiuntive rispetto a quel-le delle singole parti autonomamente considerate91;

79Teorie del governo d’impresa

87 UMBERTO BERTINI, Il sistema d’azienda. Schema di analisi, Torino, Giappichelli, 1990, p.31 (ed. orig. Pisa, Opera Universitaria, 1976). Un sistema sociale è dinamico anche se losvolgimento dei suoi processi richiede la predisposizione di strutture (per loro natura sta-tiche). “Il dinamismo ha permeato a tal punto le manifestazioni sociali da rendere dinami-co ciò che per definizione, nella sua più generale accezione, è statico: la struttura”(UMBERTO BERTINI, Il sistema d’azienda, op. cit., 1990, p. 31).88 UMBERTO BERTINI, Il sistema d’azienda, op. cit., 1990, p. 29.89 L’approccio sistemico alle scienze è stato teorizzato dal noto biologo americano di origi-ne tedesca Ludwig von Bertalanffy, che è pervenuto, partendo dalla biologia, ad unapproccio di sintesi mirabilmente interdisciplinare denominato “teoria generale dei siste-mi”. Per il lavoro in cui il suo percorso trova finale compimento (nell’edizione italiana):LUDWIG VON BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo e applicazio-ni, Milano, Isedi, 1971. 90 Secondo la nota definizione di Onida, l’azienda è un “mobile complesso e sistema dina-mico nel quale si realizzano in sintesi vitale l’unità nella molteplicità, la permanenza nellamutabilità” (PIETRO ONIDA, Economia d’azienda, Torino, Utet, 1965, p. 4.).91 Le nuove forze attribuiscono al sistema, in condizioni fisiologiche, un valore superiore aquello delle singole parti (GIOVANNI FERRERO, Impresa e management, op. cit., p. 6).

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– la legge della neghentropia, per la quale un sistema aperto ha lacapacità di evolvere verso stati di ordine92;

– il carattere distintivo dell’economicità, inteso come “principiodi convenienza economica”93, ossia come capacità di attrarre eremunerare soddisfacentemente tutti i fattori produttivi, inclu-so il capitale di rischio, raggiungendo così il sistema dei finidell’azienda94;

– il carattere distintivo dell’autonomia, “intesa come esistenzadistinta ed individua dell’azienda, che possiede comportamen-ti ed andamenti propri, diversi da quelli delle persone chel’hanno costituita e che vi operano”95.

L’approccio economico-aziendale italiano è ricco di numerosiprofili assai interessanti per la spiegazione delle manifestazioni divita delle aziende di famiglia in generale, e delle aziende di famigliadi grande dimensione e, o, quotate in particolare. La teoria genera-le dei sistemi consente di studiare non soltanto il funzionamento diciascun sistema, ma anche le relazioni con i sotto-sistemi che locompongono e con i sovra-sistemi con i quali esso entra in relazio-ne. Inoltre, il focus sul carattere sociale del sistema azienda consen-te di leggerne le manifestazioni di vita nella prospettiva dei compor-tamenti umani, che sfuggono a regole deterministiche, ma per iquali possono tuttavia essere individuati modelli comportamentali96.

80 Le aziende di famiglia “quotate”

92 L’ordine può essere riferito al modo con il quale si combinano i fattori produttivi (ordi-ne combinatorio), al modo in cui sono legate a sistema le operazioni ed i processi (ordinesistematico), al modo in cui il sistema si compone con l’ambiente esterno (ordine di com-posizione). Si veda: EGIDIO GIANNESSI, Appunti di Economia Aziendale, op. cit., 1979, p.15 e ss.93 ROSELLA FERRARIS FRANCESCHI, L’azienda: caratteri discriminanti, criteri di gestione, strut-ture e problemi di governo economico op. cit., 2000, p. 73. Nell’ambito dei gruppi di lavo-ro per il primo convegno Sidrea (Società Italiana dei Docenti di Ragioneria e di EconomiaAziendale), l’economicità è stata definita94 Nell’ambito del gruppo di lavoro “Oggetto” per il primo convegno Sidrea (SocietàItaliana dei Docenti di Ragioneria e di Economia Aziendale), l’economicità è stata defini-ta, con un’accezione orientata più alle determinanti che ai risultati, come “permanente ten-sione all’efficacia strategica e all’efficienza operativa” (ENRICO CAVALIERI, Relazione delGruppo di Studio “Oggetto”, I° Convegno Sidrea, Siena, 2008). 95 ENRICO CAVALIERI, Relazione del Gruppo di Studio “Oggetto”, op. cit., 2008. “L’azienda èun istituto che ha propria capacità di esistenza, indipendentemente anche dalla persona odalla collettività nell’interesse della quale è stata costituita o è temporaneamente ammini-strata”, il che implica autosufficienza economica e patrimoniale: GINO ZAPPA, Le produzio-ni nell’economia delle imprese, op. cit., 1957, p. 65 e ss.

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Ad avviso di chi scrive, pertanto, la teorica economico-aziendaleitaliana costituisce un ambito molto fecondo per la spiegazione dellerelazioni tra impresa e famiglia. Tuttavia, sono rari gli studi chehanno affrontato esplicitamente l’applicazione della teoria sistemicadell’azienda alle aziende di famiglia.

Anche la famiglia, al pari dell’azienda, può essere considerata unsistema sociale, in quanto dotata di una struttura e di processi mira-ti al raggiungimento di un complesso di fini, riassumibili nella ricer-ca del “bene comune” e comunque riconducibili alla sfera della sod-disfazione dei bisogni97.

Il sistema dei fini della famiglia comprende sia fini di ordine eco-nomico (il consumo di risorse scarse) che fini di ordine non econo-mico (es. la realizzazione affettiva dei familiari), ma il peso di questiultimi è maggiore di quanto non avvenga, in linea generale, per leimprese.

Nelle aziende di famiglia, la famiglia esercita un’influenza fortesulle vicende aziendali, ancorché con una graduazione di intensitàmolto diversa in relazione alla dimensione dell’impresa ed alla con-figurazione delle relazioni sistemiche tra impresa e famiglia. Proprioper questo, l’approfondimento delle relazioni tra famiglia e impresaè molto importante per spiegare il fenomeno delle aziende di fami-glia; in quest’ambito, riteniamo che la teoria sistemica dell’aziendapossa dare preziosi contributi.

81Teorie del governo d’impresa

96 La teoria sistemica dell’economia-aziendale italiana ha un approccio assai diverso rispet-to alle teorie economiche e manageriali statunitensi. Maggiori analogie, soprattutto in ter-mini di attenzione all’unitarietà del sistema organizzato, si riscontrano con le teorie orga-nizzative e comportamentali. La funzione imprenditoriale, ad esempio, può dirsi caratte-rizzata da “razionalità intuitiva”. In tal senso: HERBERT SIMON, Causalità, razionalità, orga-nizzazione, Bologna, Il Mulino, 1985. Nell’approccio economico-aziendale italiano, i com-portamenti decisionali non sono rigidamente stilizzati, ma sono essi stessi ricomposti asistema ed analizzati in sotto-sistemi. Essi consistono, come è stato affermato, nell’”attivitàdel sistema umano”: PAOLA MIOLO VITALI, Il sistema delle decisioni aziendali. Analisi intro-duttiva, Torino, Giappichelli, 1993. 97 Chi scrive concorda sul fatto che la famiglia, pur essendo un sistema sociale, non è un’a-zienda e non rientra nel campo di studi dell’economia aziendale, che si occupa di “fatti diproduzione” e non di “consumo”. Nello sviluppo della letteratura aziendalistica si è peròa lungo affermata la distinzione tra aziende di produzione ed aziende di consumo (pertutti: GINO ZAPPA, L’economia delle aziende di consumo, Milano, Giuffrè, 1957). Tra que-ste ultime, secondo l’approccio in parola, sarebbero rientrate le famiglie. Per uno studiomonografico sull’economia dell’azienda familiare, intesa come famiglia: LINO CAMILLO

LUCIANETTI, L’economia dell’azienda familiare, Milano, Giuffré, 1984.

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Il problema non può però essere risolto in via generale. Nelle imprese di piccola dimensione a proprietà chiusa e mana-

gement interamente familiare, vi è una compenetrazione intensissi-ma tra i due sistemi. Al limite, gli stessi confini tra impresa e fami-glia tendono a sfumarsi. Il sistema impresa, in tal caso, potrebbequasi essere visto come un sub sistema della famiglia, avente un fineparticolare (la creazione di nuova ricchezza), strumentale al rag-giungimento del fine generale della famiglia. In realtà non è così:anche le piccole imprese devono essere caratterizzate da autonomiasistemica rispetto alla famiglia, ancorché naturalmente le relazioniche avvincono i due sistemi siano pervasive. Nel modello dell’im-presa “padronale”, sentita dal fondatore come un’estensione di sé egestita in modo “personalistico”, alcune importanti proprietà siste-miche dell’impresa, quali l’autonomia ed il finalismo98, vengonoalterate irrimediabilmente. Le relazioni tra famiglia ed impresa, intal caso, non sono più relazioni tra due sistemi autonomi, ma assu-mono, almeno parzialmente, le proprietà delle relazioni tra un siste-ma (la famiglia) ed un suo sottosistema (l’impresa).

All’opposto vi è il caso che più interessa in questa sede. In unagrande azienda quotata a controllo familiare e management professio-nale, la famiglia e l’impresa sono due sistemi caratterizzati da elevataautonomia reciproca, ancorché siano anche ampiamente interagenti.

Tali ipotesi limite rappresentano gli estremi di un “continuum” all’in-terno del quale qualsiasi azienda di famiglia può essere posizionata99.

È quindi necessario studiare il “grado di autonomia” dell’azien-da dalla famiglia, che dipende congiuntamente:

– dalle relazioni tra famiglia ed azienda; – dalle relazioni tra l’azienda e l’ambiente esterno non familiare.Nella tipologia di aziende oggetto del presente studio il grado di

autonomia è molto più elevato, ovviamente, di quanto avviene nellepiccole imprese familiari. Riteniamo però che, anche con riferimen-

82 Le aziende di famiglia “quotate”

98 Le finalità della famiglia si sovrappongono alle finalità dell’impresa, generando il notoproblema della c.d. “sovrapposizione istituzionale” (IVAN LANSBERG, Managing humanresources in family firms: the problem of institutional overlap, in “OrganizationalDynamics”, summer, 1983).99 Sul tema, si veda anche quanto già trattato, pur con un oggetto diverso, in: RICCARDO

TISCINI, Il valore economico delle aziende di famiglia. Dinamiche di formazione e criteri distima nelle aziende di dimensione minore, Milano, Giuffré, 2001.

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to alle aziende di famiglia quotate, l’analisi del grado di autonomiasia di pieno interesse.

Le variabili rilevanti sono:– la numerosità ed il peso delle relazioni azienda-famiglia rispet-

to a quelle con il mondo esterno non familiare;– soprattutto, i criteri con i quali tali relazioni sono istaurate,

ossia se esse competono, in base a criteri di convenienza eco-nomica, con potenziali relazioni esterne alternative;

– conseguentemente, il grado di allineamento ai valori di merca-to delle remunerazioni che l’azienda eroga alla famiglia.

Il “grado di autonomia” dell’impresa è tanto maggiore quantopiù le relazioni con l’ambiente esterno non dipendono da variabililegate alla famiglia e le relazioni con la famiglia sono frutto di scel-te condotte secondo criteri di razionalità economica, cioè finalizza-te al raggiungimento dei fini dell’impresa.

Generalmente, un alto “grado di autonomia” dalla famiglia favo-risce la continuità ed il successo nel lungo periodo dell’azienda,anche se una maggiore identificazione con la famiglia imprendito-riale può essere favorevole nelle fasi di rapido sviluppo.

Ad esempio, il ruolo del fondatore può essere determinante perlo sviluppo di un’impresa che abbia raggiunto la dimensione mediae si sia quotata in borsa. L’elevata dipendenza dal fondatore riducein tal caso il grado di autonomia, ma ciò risponde a criteri di razio-nalità economica e favorisce lo sviluppo grazie alle risorse impren-ditoriali apportate dal fondatore stesso.

Alcune leggi della teoria generale dei sistemi contribuisconoquindi a spiegare le relazioni tra azienda e famiglia. Ad esempio, ilprincipio dell’”entropia negativa” afferma che un sistema aperto hala capacità di evolvere verso stati di ordine. Quando le finalità dellafamiglia si sovrappongono a quelle dell’impresa, il processo negh-entropico della prima interferisce con quello della seconda, impe-dendo il raggiungimento di un conveniente ordine della gestioneaziendale. È il caso, ad esempio, della selezione del managementeffettuata secondo il criterio dell’appartenenza alla famiglia e delruolo all’interno di essa, anziché secondo criteri meritocratici e diselezione delle migliori risorse sul mercato. Ed alcune evidenzeempiriche, di cui si tratterà in seguito, confermano l’effetto positivosulla performance dell’impresa del CEO fondatore, ma l’effetto

83Teorie del governo d’impresa

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negativo del CEO discendente del fondatore (proprio perché, evi-dentemente, selezionato per meriti familiari e non aziendali)100.

Nel seguito del lavoro tali aspetti saranno ampiamente ripresi edapprofonditi.

In sintesi, riteniamo comunque che l’analisi del carattere sistemi-co sia dell’impresa che della famiglia, teorizzato dalla dottrina azien-dalistica italiana, sia molto utile alla comprensione del fenomenoaziende di famiglia. Inoltre, la dottrina aziendalistica italiana haposto da decenni l’accento su una definizione generale delle figureamministrative (soggetto economico, soggetto giuridico)101, viste nonsoltanto come soggetti titolari di diritti e poteri attribuiti loro formal-mente dalla legge o da contratti e generalmente portatori di interes-si conflittuali con quelli dell’azienda, ma anche come persone inte-grate nel sistema aziendale, con le proprie motivazioni e con specifi-che qualità e competenze. Il legame di tali figure con l’azienda nonpuò quindi essere rappresentato soltanto da un contratto tra particontrapposte, ma da una relazione di tipo generalmente più com-plesso e duraturo (una relazione sistemica, appunto), nell’ambitodella quale si possono realizzare utili sinergie. La concezione unita-ria dell’impresa come “istituto destinato a perdurare”102, come siste-ma nel quale durevolmente alcuni soggetti apportano risorse, comeorganismo vivente o vitale103, comunque caratterizzato da autonomiarispetto alle parti che lo compongono, ma ad esse sovra-ordinato, nelquale si compiono con continuità processi di generazione e rigenera-zione di nuove risorse104, consente di spiegare le relazioni esistenti trafamiglie ed aziende di famiglia molto meglio delle teorie che vedonol’impresa come insieme di contratti o di relazioni.

84 Le aziende di famiglia “quotate”

100 Per alcune analisi empiriche sul tema si veda il paragrafo 4.5.101 “Il soggetto giuridico è la persona sulla quale convergono i diritti e le obbligazioni rela-tivi all’attività aziendale. Il soggetto economico è la persona che, in effetti, esercita il pote-re decisionale nello svolgimento dell’attività aziendale” (CARLO CARAMIELLO, L’azienda.Alcune brevi riflessioni introduttive, Milano, Giuffré, 1993).102 GINO ZAPPA, Le produzioni nell’economia dell’impresa, op. cit., 1956, p. 37.103 La definizione dell’impresa come sistema vivente è di Vicari: SALVATORE VICARI,L’impresa vivente: itinerario di una diversa concezione, Milano, Etas, 1991. L’espressione“impresa sistema vitale” è invece di Golinelli: GAETANO GOLINELLI, L’approccio sistemicoal governo dell’impresa. Vol. I. L’impresa sistema vitale, Padova, Cedam, 2001.104 Si veda la concezione dell’impresa come sistema auto-poietico, cioè capace di produrrei propri componenti rigenerando continuamente la propria organizzazione, grazie a pro-cessi interni che lo rendono autonomo da contesto. Sul tema si veda, oltre ai sopra citati:

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2.7. Quale scenario evolutivo per il capitalismo familiare? Versouna teoria del controllo familiare

L’analisi, condotta nei paragrafi precedenti, delle teorie sul governod’impresa può sembrare oltremodo lunga, ma riteniamo che ognitassello di essa sia utile ai fini della proposta di una sintesi teoricariferita alle aziende di famiglia quotate. Piuttosto, sarebbero utilinumerosi ulteriori tasselli che per ragioni di spazio non possono tro-vare accoglimento in questa sede, ma non possono essere trascuratinel quadro della necessaria prosecuzione della ricerca, quali adesempio l’approfondimento delle implicazioni delle teorie sulle pra-tiche di governo delle imprese.

Del resto, è opinione di chi scrive che la costruzione di una teo-ria non possa che fondarsi su un’accurata analisi delle teorie esisten-ti, in relazione a ciò che esse spiegano, ma anche e soprattutto a ciòche esse non spiegano.

Gli obiettivi del presente paragrafo sono tre:– presentare una sintesi dell’ampia analisi condotta nei paragra-

fi precedenti, focalizzata sulla capacità esplicativa del fenome-no delle aziende di famiglia a capitale aperto;

– delineare possibili tendenze evolutive del capitalismo familiare;– porre le basi per la costruzione di una teoria esplicativa delle

aziende di famiglia a capitale aperto105.Una sintesi sulle teorie del governo d’impresa e sulla loro capa-

cità esplicativa del fenomeno delle aziende di famiglia è presentatain forma sinottica nella tabella 1.

85Teorie del governo d’impresa

GAETANO GOLINELLI, L’approccio sistemico al governo dell’impresa. Vol. I. L’impresa siste-ma vitale, op. cit., 2001 e SALVATORE VICARI, L’impresa vivente, op. cit., 1991; anche ilseguente lavoro, che vede l’approccio sistemico come filosofia di pensiero ed azione: PIERO

MELLA, Dai sistemi al pensiero sistemico. Per capire i sistemi e pensare con i sistemi, Milano,Franco Angeli, 1997.105 L’espressione “a capitale aperto” è usata in senso equivalente a “quotate sui mercatiregolamentati”. Naturalmente, tale espressione, in un senso più ristretto, potrebbe riferir-si ad imprese familiari che abbiano aperto il capitale a soci non familiari, quali ad esempioi fondi di private equity. Il rapporto tra aziende di famiglia e private equity è un tema estre-mamente stimolante e di grande interesse scientifico in questi anni. Si vedano, ad esempioil seguente studio: ANNA GERVASONI – FRANCESCO BOLLAZZI, L’impatto economico del pri-vate equity nel processo di sviluppo delle imprese familiari, Convegno AIDEA, Milano,2007. Tale tema, in generale, esula però dagli scopi del presente lavoro.

02 Cap. 2 Vol. Tiscini 25-01-2010 16:53 Pagina 85

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86 Le aziende di famiglia “quotate”

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La sintesi suggerisce le seguenti considerazioni.In primo luogo, è alquanto sorprendente che, pur essendo l’azien-

da di famiglia il modello di governo maggiormente diffuso al mondonon soltanto nelle piccole imprese, ma anche sui mercati azionariregolamentati, le più importanti teorie del governo d’impresa vi siriferiscano solo episodicamente e mai in maniera sistematica.

Una teoria del governo d’impresa dovrebbe, in altre parole, spie-gare per quali motivi ed in relazione a quali variabili gli assetti dellaproprietà e del controllo delle imprese assumono determinate con-figurazioni. Le teorie esistenti, invece, assumono implicitamente unmodello di impresa di riferimento, lasciando sostanzialmente irrisol-to il problema delle determinanti del modello di governance.

Ma ancora più sorprendente è il fatto che le teorie del governod’impresa maggiormente affermate si fondano sul modello dell’im-presa manageriale ad azionariato diffuso, trascurando altri modellidi governance quali l’azienda di famiglia a capitale aperto, ma anchel’impresa a partecipazione pubblica o l’impresa governata da coali-zioni, che pure sono molto diffuse e di grande rilevanza per il siste-ma economico generale.

Gli azionisti sono generalmente considerati come una categoriauniforme, caratterizzata da interessi e motivazioni indifferenziati. Larealtà smentisce tale assunzione; ed alcune recenti estensioni dellateoria dell’agenzia mostrano quanto fecondo sia lo studio dei conflit-ti di agenzia tra azionisti di controllo ed azionisti di minoranza106.

Inoltre, l’impresa è vista come un insieme di relazioni o di con-tratti dai confini e dalle caratteristiche mutevoli. Poco diffusa incampo internazionale è invece la visione dell’impresa come organi-smo, o sistema, unitario e vitale, che instaura relazioni con altri siste-mi, ma che non si identifica con esse. Un sistema che ha manifesta-zioni di vita proprie, che si proiettano su un orizzonte temporaleche supera di gran lunga le relazioni in essere e gli attori che ne sonoprotagonisti.

Molti degli interrogativi cui le teorie sul governo delle imprese

87Teorie del governo d’impresa

106 Il tema ha acquisito rilevante momento da alcuni anni, ma è stato per molto tempo deltutto trascurato. Un articolo che può essere considerato pionieristico è: ANDREI SHLEIFER

– ROBERT VISHNY, Large shareholders and corporate control, in “Journal of PoliticalEconomy”, n. 3, 1986.

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non danno risposte esaurienti sono legati a tali aspetti. Cosa deter-mina la concentrazione e la separazione di proprietà e controllodelle imprese? È possibile delineare un modello di sintesi dellagovernance che esprima (e non trascuri con assunzioni semplifica-trici) l’indubitabile complessità delle relazioni tra azionisti, mana-ger, dipendenti e stakeholders in generale? In che misura il valore ele risorse generate ed accumulate nelle imprese sono delle impresestesse piuttosto che dei loro azionisti o stakeholders? E qual è ilruolo dei sistemi di governance in tale processo di generazione edaccumulazione di risorse? Come possono contemperarsi le motiva-zioni economiche e quelle non economiche, giacché entrambe sem-brano avere un ruolo non trascurabile nella vita delle imprese?

La tabella di sintesi presentata nella pagina precedente mostracome queste lacune esplicative caratterizzino sostanzialmente tuttele teorie del governo di impresa di più larga diffusione in campointernazionale. Negli anni recenti molti studi empirici stanno ten-tando di dare risposte a tali interrogativi, senza peraltro arrivare aconclusioni univoche e soprattutto senza convogliarsi in una teoriaunitaria.

L’economia aziendale italiana ha un’impalcatura teorica di stam-po molto diverso. Fin dalle premesse fondative tale filone di studi siè caratterizzato per un approccio di tipo sistemico, che vede l’im-presa come entità autonoma destinata a perdurare, caratterizzata daproprietà olistiche (costituendo dunque un quid pluris rispetto aisingoli elementi che la compongono e non semplicemente la lorosomma107) e che si proietta su un orizzonte temporale che eccede digran lunga la vita delle persone che in via contingente vi operano inun dato momento108. Gli studi si sono orientati a definire un model-

88 Le aziende di famiglia “quotate”

107 “L’azienda, come ogni unità economicamente coordinata, è qualcosa di più della sommadei suoi componenti; il complesso ha proprietà che i suoi elementi non posseggono e nonvalgono a definire; né possono le caratteristiche del complesso essere date da una meracomposizione delle caratteristiche dei componenti.” (GINO ZAPPA, Il reddito d’impresa,Milano, Giuffré, 1937, p. 13).108 Espressioni di questo tipo sono presenti in diversi punti dell’opera di Zappa. In econo-mia aziendale si è parlato a tale proposito di “durabilità”. Si veda: GIUSEPPE AIROLDI –GIORGIO BRUNETTI – VITTORIO CODA, Lezioni di economia aziendale, Bologna, Il Mulino,1989, p. 328.

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lo generale di azienda, che potesse essere poi declinato con riferi-mento alla casistica riscontrabile nella prassi109.

Ciò ha condotto, ad esempio, a profonde elaborazioni dottrinalisul concetto di soggetto economico, definibile come il soggetto, o ilgruppo di soggetti, ai quali fa capo il potere volitivo, ossia il poteredi prendere le decisioni di massima importanza riguardanti la vitadell’azienda, le sue finalità ed il suo orientamento strategico difondo110. Il soggetto economico non è dunque definito con riferi-mento ad una specifica categoria di persone, ma può accogliere alsuo interno diverse categorie di persone in relazione ai diversi ruoliche esse assumono nell’azienda111.

In questo senso può parlarsi di una costruzione teorica flessibile aidiversi modelli di governo riscontrabili nella realtà, cioè in grado dispiegarli nelle loro diversità e nel loro comune denominatore.Rimanendo nel campo delle imprese a capitale aperto e solo per farealcuni esempi, nel soggetto economico possono identificarsi l’impren-ditore-fondatore, la famiglia imprenditoriale complessa tipica delle

89Teorie del governo d’impresa

109 È stato autorevolmente osservato come queste enunciazioni generali non siano affattosuperate dalle dottrine economiche e di management nord-americane, cui offrono anzi“spunti originali per lo sviluppo di nuovi schemi”. L’attenzione a questi aspetti generali haperò forse condotto a trascurare un adeguato approfondimento, in termini anche operati-vi, degli studi di management, dove “il contributo della dottrina di oltre oceano è unani-memente riconosciuto” (UMBERTO BERTINI, Il sistema d’azienda. op. cit., 1990, p. 29).110 In tal senso, si richiama, tra le tante autorevoli, la definizione di Onida: “Chiamiamosoggetto economico dell’azienda la persona o il gruppo di persone che di fatto ha ed eser-cita il supremo potere nell’azienda, subordinatamente solo ai vincoli d’ordine giuridico emorale ai quali deve o dovrebbe sottoporsi. Il soggetto economico costituisce un organodell’amministrazione economica e, precisamente, l’organo nel quale si accentra o al qualefa capo di fatto, il supremo potere volitivo” (PIETRO ONIDA, Economia d’azienda, Torino,Utet, 1962, p. 22). L’orientamento strategico di fondo di un’impresa “può definirsi in prima approssimazionecome la sua identità ‘profonda’ o, se si preferisce, la parte nascosta e invisibile del suo dise-gno strategico, che sta al di sotto delle scelte concrete esplicitantisi nel profilo strategico visi-bile.” (VITTORIO CODA, L’orientamento strategico dell’impresa, Torino, Utet, 1988, p. 25). 111 Nella dottrina economico-aziendale italiana si riscontra una gamma di definizioni di sog-getto economico variamente graduate tra un approccio centrato sul vertice aziendale (sociodi controllo, top management di una public company) ed un approccio più ampio, a ricom-prendere altre categorie di soggetti portatori di interessi rilevanti (stakeholders, leggeremmooggi). Tra le prime si ricordano, tra le tante: EGIDIO GIANNESSI, Le aziende di produzioneoriginaria, Pisa, Cursi, 1960; GIOVANNI FERRERO, Istituzioni di economia d’azienda,Torino,Utet, 1968. Tra le seconde: GINO ZAPPA, Le produzioni nell’economia delle imprese, Milano,Giuffrè, 1957; CARLO MASINI, Lavoro e risparmio. Economia d’Azienda, Torino, Utet, 1970.

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aziende di famiglia dalla seconda generazione in poi, il managementnelle public companies, la coalizione azionaria di controllo legata daun patto di sindacato o gruppi di persone latrici di istanze diverse neimodelli fondati sulla codeterminazione. A ben vedere, la funzioneimprenditoriale del soggetto economico può anche essere assolta,contemporaneamente, in parte da una categoria di soggetti ed inparte da un’altra. È quello che avviene ad esempio nei grandi gruppifamiliari quotati, in cui il management esterno assume la parte dellafunzione imprenditoriale cui, per carenza di competenze tecniche, lafamiglia di controllo non potrebbe assolvere adeguatamente112.

Inoltre, il concetto di orientamento strategico di fondo di Codacaratterizza, o dovrebbe caratterizzare, tutte le imprese, ma nella suarelazione con il soggetto economico, che tale orientamento deve impri-mere, può assumere un grado di stabilità e di profondità diverso. Leaziende di famiglia, grazie alla stabilità ed alla più immediata ricono-scibilità del soggetto economico, hanno forse un orientamento strate-gico di fondo più visibile, più chiaro, più stabile, più profondo?113

Riteniamo dunque che la teoria generale dell’azienda propriadella tradizione italiana offra spunti di grande interesse per lacostruzione di una teoria del governo d’impresa di carattere genera-le, ma che in particolare spieghi anche le condizioni di esistenza e disuccesso delle aziende di famiglia a capitale aperto.

Nell’economia aziendale italiana, dalle premesse teoriche digrande interesse possono ancora seguire, nonostante la vastità e laprofondità degli studi a carattere sia teorico che empirico114, decli-

90 Le aziende di famiglia “quotate”

112 In tal senso: SALVATORE SARCONE, L’azienda. Caratteri d’Istituto – Soggetti - Economicità,Milano, Giuffrè, 1997, p. 176.113 “L’OSF (orientamento strategico di fondo, n.d.a.) è una realtà nascosta e impalpabile,perché è fatto di idée guida, valori, convincimenti e atteggiamenti di fondo, I quail per loronatura non possono rendersi visibili direttamente, ma solo attraverso le scelte e i compor-tamenti concreti che essi animano. L’OSF è un insieme di idee radicate negli attori-chiavedell’impresa e, nelle aziende a cultura forte e coesiva, anche nel personale tutto, nella strut-tura e nei meccanismi operativi. E queste idee possono avere radici così profonde nella cul-tura di determinati soggetti e dell’impresa da essere operanti per così dire a livello incon-scio. Il che accresce l’impressione di trovarsi di fronte ad una variabile sfuggente, anche seper questo non meno reale.” (VITTORIO CODA, L’orientamento strategico dell’impresa, op.cit., 1988, p. 25-26).114 Il governo delle imprese è tema classico dell’economia aziendale. Recentemente, esso hatrovato declinazione coerente con l’evoluzione degli studi interdisciplinari inerenti la cor-porate governance. Tra i diversi lavori si ricordano: FABIO FORTUNA, Corporate governan-

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nazioni ed aggiornamenti teorici sistematici che l’evoluzione deisistemi economici moderni continua a richiedere.

Nel presente lavoro, si tenterà di costruire, sulla teoria generaledell’azienda propria della dottrina italiana, una proposta teorica perla spiegazione del governo familiare delle imprese quotate. Ad avvi-so di chi scrive, infatti, le proprietà sistemiche dell’impresa sonoutilmente impiegabili per spiegare le condizioni di efficienza econo-mica della permanenza di una famiglia al governo di un’impresaquotata.

Tale proposta teorica intende, tra l’altro, contribuire alla spiega-zione della persistenza del modello familiare. Come si è già visto, l’i-potesi della persistenza del modello azienda di famiglia è tradizio-nalmente posta in contrapposizione con l’ipotesi della convergenzadei sistemi capitalistici verso il modello anglosassone, basato suimercati azionari e sulla proprietà diffusa115.

Chi scrive condivide l’opinione, di crescente diffusione, che oggiil problema vada posto diversamente.

L’evoluzione dei mercati sembra smentire l’ipotesi della conver-genza verso il modello della public company. Esso rimane largamen-te diffuso solo negli Stati Uniti e nel Regno Unito e lo scenario evo-lutivo dei mercati non sembra accreditarne, come preconizzato damolti autori, la diffusione su scala globale.

La dicotomia tra aziende di famiglia - aventi un ruolo attivo nellosviluppo di nuove imprese, nello sfruttamento di nicchie non occu-pate dalle grandi imprese, in singole fasi di processi produttivi leg-geri e flessibili – e imprese manageriali – viste come unica formaorganizzativa efficiente per l’attuazione delle produzioni su largascala, ad alta intensità di capitale116 – appare smentita dai fatti.

91Teorie del governo d’impresa

ce. Soggetti, modelli e sistemi, Milano, FrancoAngeli, 2001; MARCO LACCHINI, Corporategovernance e bilanci d’impresa nella prospettiva della riforma, Torino, Giappichelli, 2002;ANTONIO PARBONETTI, Corporate governance, problemi di configurazione dell’organo digoverno e riflessi sugli andamenti aziendali, Milano, Giuffrè, 2006; RAFFAELE

TREQUATTRINI, Economia aziendale e nuovi modelli di corporate governance. Esperienze aconfronto, Torino, Giappichelli, 1999. 115 MARY ROSE, Introduction, in MARY ROSE (ED. BY), Family Business, Aldershot, Elgar, 1995.116 Questa visione dicotomica trova uno dei sostenitori in Edith Penrose, che approfondì ladiversità di ruolo dei due modelli di impresa, vedendo il sistema industriale come popola-to da “caterpillars and butterflies” (EDITH PENROSE, The theory of the growth of the firm,New York, Wiley, 1959).

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È stato sostenuto, nell’ambito di studi storici, come questi duemodelli non vadano visti come due mondi separati, bensì come gliestremi di un continuum117, nell’ambito del quale ottimizzare, rispet-to ad una serie di variabili, la scelta della forma organizzativa. In talecontinuum, l’azienda di famiglia non può essere considerata né unanacronismo (come la visione classica suggerirebbe), né un validosostituto dell’impresa manageriale (in una sorta di teoria della con-vergenza opposta). Essa, piuttosto, fa strutturalmente parte del por-tafoglio di forme organizzative che possono essere scelte per l’eser-cizio delle attività d’impresa sui mercati118.

Questo punto sembra ormai acquisito nell’ambito degli studieconomico-politici, economico-aziendali e di storia economica e neè prova la esponenziale crescita degli studi sulla struttura proprieta-ria familiare delle grandi imprese negli ultimi cinque anni. Studi che,peraltro, non si sviluppano più soltanto sul terreno delle riviste spe-cializzate, quali ad esempio la Family Business Review, ma hanno ini-ziato a trovare spazio significativo sulle riviste di maggiore prestigio.

Alcuni quesiti di ricerca rimangono tuttavia irrisolti ed altriacquisiscono rilevanza con l’evoluzione dei mercati.

In primo luogo, nonostante significativi avanzamenti degli studisul tema, i motivi della persistenza delle aziende di famiglia rimango-no ancora largamente inspiegati e le posizioni della letteratura sonoancora discordanti. Ad estremi opposti possono porsi le posizioni dichi ascrive la persistente diffusione delle aziende di famiglia alla inef-ficienza della regolamentazione societaria e dei mercati119, e quelle di

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117 ANDREA COLLI, Capitalismo famigliare, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 69 (nell’edizioneitaliana del lavoro: ANDREA COLLI, The history of family business 1850-2000, Cambridge,Cambridge University Press, 2003).118 MARK CASSON, Enterprise and Leadership. Studies on firms, markets and networks,Cheltenham, Elgar, 2000.119 Si veda, ad esempio: RANDALL MORCK – BERNARD YEUNG, Special issues relating to cor-porate governance and family control, World Bank Policy Research Working Paper, 2004.Gli autori sottolineano le conseguenze negative, a livello macroeconomico e di governan-ce delle imprese, del controllo familiare, se esteso a larga parte del sistema economico. Siveda anche il già citato lavoro di La Porta et al., sostenitori della c.d. “law matter thesis”,secondo la quale la diffusione del controllo familare è ascrivibile ad imperfezioni nellaregolamentazione societaria e dei mercati, che non protegge a sufficienza gli investitori diminoranza: RAFAEL LA PORTA - FLORENCIO LOPEZ DE SILANES - ANDREI SHLEIFER –ROBERT VISHNY, Law and Finance, op. cit., 1998.

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chi invece la spiega con la capacità di sfruttare competenze distintiveper l’ottenimento di vantaggi competitivi non altrimenti ottenibili120.

Non è un caso, ad avviso di chi scrive, che le posizioni favorevo-li a vedere nel family business un modello efficiente siano maggior-mente diffuse nell’ambito degli studi di management, mentre suposizioni critiche siano gran parte degli studiosi di economia politi-ca e di law and economics.

L’azienda di famiglia di grandi dimensioni a capitale aperto nonè infatti facilmente spiegabile sulla base delle teorie economiche tra-dizionali, come si è visto anche nei precedenti paragrafi, poiché lascarsa mobilità del capitale di rischio è vista come un fattore di inef-ficienza. La proprietà familiare delle grandi imprese è consideratouno strumento per lo sfruttamento delle rendite di posizione, con iquali meccanismi di natura politica alterano il corretto funziona-mento del sistema economico121.

Un utile contributo alla spiegazione del successo delle aziende difamiglia di grande dimensione può venire dalle prospettive di stu-dio dell’economia aziendale (e quindi del management), orientate aimeccanismi interni di funzionamento delle aziende. Si tratta quindidi definire quali siano gli effetti del controllo familiare sulla genera-zione, sul mantenimento e sul rinnovamento dei vantaggi competi-tivi che sono all’origine del successo delle imprese122.

Riteniamo che questo sia un passaggio fondamentale per lacostruzione di una teoria esplicativa dell’esistenza delle aziende difamiglia quotate.

93Teorie del governo d’impresa

120 Questa posizione può inquadrarsi nel filone di studi della “resource based view” e saràampiamente trattata nel seguito del presente lavoro. Sul tema si può fare riferimento, oltreche ad alcuni articoli, al seguente lavoro monografico dei coniugi Miller: DANNY MILLER –ISABELLE LE BRETON-MILLER, Managing for the long run. Lessons in competitive advantagefrom great family businesses, Boston, Harvard Business School Press, 2005 (ed. it. Mantenereil successo. Lezioni di vantaggio competitive dalle grandi imprese familiari, Milano, Etas, 2005).121 RANDALL MORCK – BERNARD YEUNG, Family control and the rent-seeking society, in“Entrepreneurship theory and practice”, 2004.122 Bertini, in merito alle condizioni che determinano il successo dell’impresa, distingue trafattori soggettivi ed oggettivi, ma attribuisce una rilevanza fondamentale ai comportamen-ti del Soggetto economico, che impronta di sé sia gli uni che gli altri. “I fattori del succes-so si restringono perciò, in questa ottica, ad una sola categoria riconducibile al comporta-mento soggettivo dell’impresa, espressione della creatività e della fantasia, dello spiritoideativo e costruttivo dell’uomo al servizio dell’azienda” (UMBERTO BERTINI, In merito alle‘condizioni’ che determinano il successo dell’impresa, op. cit., 1995, p. 101).

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Vi sono evidenze empiriche che mostrano come la proprietàfamiliare possa essere in alcune circostanze un freno competitivo edin altre un motore del successo123.

La sfida principale per la teoria è quindi la messa a punto dimodelli interpretativi che consentano di discernere con chiarezza ipunti di forza e di debolezza del modello, supportando le impresenel far leva sui primi neutralizzando i secondi; ma soprattutto, dicomprendere le condizioni di azienda e di ambiente in relazione allequali i primi superano i secondi, determinando la continuità nellungo termine delle aziende di famiglia.

La letteratura ha dimostrato che le imprese familiari sono unmodello pienamente attuale, che continua a caratterizzare tutte leeconomie avanzate. L’anello mancante è una spiegazione sistemati-ca del perché ciò accada.

Ciò consentirebbe anche di formulare più consapevolmente ipo-tesi sul ruolo che le aziende di famiglia a capitale aperto sono desti-nate ad avere in futuro. Gli studi storici e l’evidenza empirica hannomostrato la persistenza del ruolo primario delle aziende di famiglia,ma una sistemazione teorica dovrebbe consentire anche di spiegarei cambiamenti che tale ruolo potrà subire in relazione all’evoluzio-ne del sistema economico e finanziario. E non vi è dubbio che i cam-biamenti cui attualmente si assiste sono di portata epocale.

In primo luogo, il processo di globalizzazione dell’economia stacontinuando ad avanzare a grandi passi, pur in un mondo che pre-senta ancora diversità culturali, sociali ed economiche rilevantissime

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123 Le espressioni “freno competitivo” e “motore dello sviluppo” sono tratte da: DANIELA

MONTEMERLO, Il governo delle imprese familiari. Modelli e strumenti per gestire i rapportitra proprietà e impresa, Milano, Egea, 2000. Numerosi casi di studio evidenziano questoduplice possibile effetto, il cui risultato finale può essere di volta in volta positivo o nega-tivo. Non sorprende, quindi, che gli studi empirici quantitativi sulla performance delleaziende di famiglia non siano ad oggi pervenuti a conclusioni concordi. La letteratura sullaperformance delle aziende di famiglia sta crescendo moltissimo negli ultimi anni. Il temasarà trattato più approfonditamente nel seguito. Per il momento si richiamano, a mero tito-lo esemplificativo, i seguenti lavori che evidenziano più le luci che le ombre che il control-lo familiare proietta sulla performance economica d’impresa: RONALD ANDERSON – DAVID

REEB, Founding-family ownership and firm performance: evidence from the S&P 500, in“Journal of Finance”, n. 3, 2004; ROBERTO BARONTINI - LORENZO CAPRIO, The effect offamily control on firm value and performance: evidence from continental Europe, in“European Financial Management”, n. 5, 2006.

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a livello locale. Le imprese sono quindi poste di fronte a sfide edinterlocutori globali, pur rimanendo ancora influenzate dai contestilocali.

I sistemi economici dell’Est Asia stanno crescendo a tassi moltoelevati ed è ormai opinione unanimemente condivisa che il baricen-tro del potere economico si sposterà nei prossimi anni a favore ditali paesi c.d. “emergenti”. Le grandi aziende di famiglia sono,anche in ragione di fattori culturali incompatibili con i paesi occi-dentali, una caratteristica distintiva di tali paesi. Sarebbe quindiinteressante capire se le aziende di famiglia sono destinate a vedereulteriormente aumentato il loro peso sull’economia mondiale ovve-ro se, al contrario, la globalizzazione ne diminuirà il peso nei paesiattualmente emergenti.

Inoltre, il quadro degli investitori in capitale di rischio si è note-volmente arricchito. Anche in questo caso, la dicotomia tra famiglieimprenditoriali e fondi di investimento non è più sufficiente a rap-presentare una realtà in cui i fondi di private equity ed altre formedi investitori istituzionali specializzati hanno acquisito un peso assairilevante. Essi hanno dato notevole liquidità al mercato del control-lo societario e rappresentano oggi una diffusa via di uscita dal con-trollo, o comunque di apertura del capitale, per le famiglie impren-ditoriali.

I fondi di private equity possono infatti costituire uno strumentoaggiuntivo per la continuità e la crescita delle aziende di famiglia,ovvero investitori alternativi alle famiglie per l’acquisizione del con-trollo delle imprese. Un ulteriore quesito di ricerca riguarda quindiil ruolo prospettico delle famiglie e dei fondi di private equity nelcontrollo delle imprese. Una teoria delle aziende di famiglia, chespieghi le determinanti del controllo familiare, dovrebbe quindidare risposte anche a questo interrogativo.

Analogamente, la specializzazione degli intermediari finanziari el’espansione dei “fondi sovrani” potrebbero costituire altri fattori ingrado di modificare il peso delle aziende a controllo familiare.Anche in questo caso, ciò dipende da quali sono le effettive causedeterminanti del controllo familiare nelle grandi imprese.

Sembra ormai chiaro che il capitalismo familiare, tuttora vitaledopo la seconda e la terza rivoluzione industriale, non sarà sostitui-to dall’egemonia dell’impresa manageriale, ma vivrà momenti di

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ulteriore forte discontinuità per effetto dell’espansione di investito-ri specializzati quali i fondi di private equity ed i fondi sovrani.L’ingente disponibilità di capitali di tali fondi può aprire opportu-nità di sviluppo delle imprese che le famiglie imprenditoriali nonsarebbero in grado di garantire. Per altro verso, il capitalismo fami-liare potrebbe uscire rafforzato dalla affermazione delle sue capacitàdistintive nel mantenimento di vantaggi competitivi di lungo perio-do rispetto ai fondi specializzati, cui è spesso rimproverato unapproccio speculativo ed un orizzonte temporale di investimentotroppo limitato per garantire il successo duraturo delle imprese124.

I capitoli che seguono proporranno un’interpretazione delledeterminanti del controllo familiare, che può contribuire alla com-prensione degli scenari evolutivi che si prospettano alle aziende difamiglia quotate.

96 Le aziende di famiglia “quotate”

124 I fondi di private equity, a tale proposito, sono stati chiamati fondi “locusta”. Parte delladottrina aziendalistica italiana è critica rispetto ai criteri decisionali di tali fondi ed è arri-vata a negare loro, anche in presenza del controllo azionario, la qualifica di soggetto eco-nomico: “la qualifica di soggetto economico, a ben vedere, non dovrebbe essere assegnataa quegli investitori-speculatori che acquistano il pacchetto di controllo di un’impresa,inducono i manager a trascurare la gestione produttiva a favore di una gestione esclusiva-mente orientata a far lievitare il valore delle azioni nel breve periodo e liquidano rapida-mente l’investimento realizzando plusvalenze a danno dei soci di minoranza e di ogni altrosoggetto.” (ENRICO CAVALIERI, Il comportamento strategico d’impresa. Variabilità, strutturee rischio, Torino, Giappichelli, 2008, p. 84).

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CAPITOLO III

Una teoria del governo delle aziende di famigliabasata sui benefici privati del controllonella prospettiva sistemica dell’impresa

3.1. Benefici privati ed efficienza del controllo azionario delleimprese

I benefici privati del controllo possono essere definiti come le remu-nerazioni che, a valere sul valore dell’impresa, affluiscono ai sogget-ti che la controllano e non alla generalità degli azionisti in propor-zione alle azioni possedute.

Il controllo è inteso come la capacità di esercitare un’influenzadominante sulle decisioni di massima importanza per l’impresa.Spostando la prospettiva della definizione dal profilo oggettivo aquello soggettivo, la nozione di controllo può essere assimilata aquella di soggetto economico tipica della dottrina aziendalistica ita-liana. Il controllo è quindi generalmente nelle mani dell’azionista dimaggioranza o del manager apicale esecutivo, nelle società ad azio-nariato diffuso.

I benefici privati del controllo sono oggetto di attenti studi dacirca venti anni. Precedentemente, la teoria tradizionale della finan-za assumeva l’uguaglianza di tutti gli azionisti e la proporzionalitàdelle rispettive remunerazioni con le azioni possedute. La nozionedi benefici privati del controllo ha la sua origine nel filone teoricodei “diritti di proprietà”, anche se in quel filone non ha trovatocompleto sviluppo1.

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1 SANFORD GROSSMAN - OLIVER HART, Takeover bids, the free rider problem, and the theoryof the corporation, in “Bell Journal of Economics”, n. 1, 1980. In questo lavoro i beneficiprivati del controllo sono principalmente uno strumento per modellare i processi di acqui-sizione.

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Negli ultimi anni, invece, il tema ha avuto una crescente attenzio-ne, sia dal punto di vista teorico, che da quello empirico.

Nell’ambito delle teorie sulla corporate governance, i beneficiprivati del controllo sono considerati una forma di remunerazioneche il soggetto controllante ottiene a scapito degli azionisti non dicontrollo e sono pertanto considerati economicamente inefficienti2.Essi sono all’origine della concentrazione della struttura proprieta-ria, che non persiste in quanto economicamente efficiente, ma soloperché consente al soggetto controllante il godimento di beneficiaggiuntivi3.

Dal punto di vista empirico, il valore dei benefici privati del con-trollo è stato misurato principalmente sulla base del premio, cioèdel maggior valore, al quale sono scambiati i pacchetti di controllorispetto alla quotazione dei titoli4. A maggiori benefici privati delcontrollo, in genere, è stato associato un più basso livello di prote-zione degli azionisti di minoranza5.

Recentemente, alcuni lavori hanno approfondito lo studio dellanatura di tali benefici privati, pervenendo a tassonomie che ne evi-denziano la varietà.

Nella visione classica, i benefici privati sono estratti dal soggettoeconomico a scapito degli azionisti di minoranza6. Si tratta quindi divera e propria distrazione di risorse finanziarie, che può avveniretramite utilizzo del patrimonio sociale per finalità di consumo per-sonale (ad esempio, addebitando alla società i consumi della fami-glia di controllo), tramite la sovrastima delle remunerazioni fisse per

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2 In realtà, come si vedrà più avanti, la tassonomia dei benefici privati del controllo si compli-ca perché non sempre la loro estrazione avviene “a scapito degli azionisti non di controllo”. 3 LUCIAN BEBCHUK, A rent protection theory of corporate ownership and control, NBER WorkinPaper, 1999.4 Per il primo lavoro che ha presentato tale metodologia: MICHAEL BARCLAY – CLIFFORD

HOLDERNESS, Private benefits of control of private corporations, in “Journal of FinancialEconomics”, n. 2, 1989. Si veda anche, per una più recente analisi a livello internazionale:ALEXANDER DYCK – LUIGI ZINGALES, Private benefits of control: an international comparison,in “Journal of Finance”, n. 2, 2004.Con riferimento alla letteratura italiana: GIANFRANCO GIANFRATE, La valutazione dei beneficiprivati del controllo, in “La valutazione delle aziende”, n. 42, 2006.5 RAFAEL LA PORTA - FLORENCIO LOPEZ DE SILANES - ANDREI SHLEIFER, Investor protectionand corporate governance, in “The Journal of Financial Economics”, n. 2, 2000.6 Sulla relazione tra strutture proprietarie e benefici privati, nell’ambito della letteratura ital-iana: FABRIZIO ROSSI, Strutture proprietarie e benefici privati di controllo, Roma, Aracne, 2005.

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i manager-proprietari, oppure tramite transazioni con parti nonindipendenti a condizioni non di mercato (ad esempio, la vendita dibeni ad una società sotto comune controllo a prezzi minori di quel-li di mercato)7. Si tratta, nella maggior parte dei casi, dei c.d. feno-meni di insider dealing, che sono infatti oggetto di particolare atten-zione nelle moderne regolamentazioni societarie8.

Tale tipologia di benefici privati è senza dubbio economicamen-te inefficiente, poiché disincentiva l’investimento in capitale dirischio da parte degli azionisti di minoranza, cui vengono sottratterisorse, senza incentivare comportamenti all’origine della creazionedi nuova ricchezza (il presupposto, infatti, è che le prestazioni effet-tuate dall’azienda sovra-remunerano le eventuali controprestazioniricevute). Si parla, in questo caso, di “stealing”.

Ma essi costituiscono soltanto una parte della realtà. Gilson propone la distinzione tra benefici privati del controllo

“pecuniari” e “non pecuniari”. I primi sono essenzialmente quellicollegati ai fenomeni di “stealing”, cioè a vera e propria distrazionedi risorse (letteralmente: “furti”).

I benefici privati “non pecuniari” sono “benefici del controllo dinatura psichica o di altra natura, che non comportano trasferimen-to di risorse reali dalla società e non hanno effetti diluitivi non pro-porzionali sulle azioni detenute dagli investitori diversificati” (diminoranza)9.

Ad esempio, il controllo di una grande impresa da parte di unafamiglia attribuisce uno status sociale desiderabile e non altrimentiottenibile. Altri esempi di benefici privati “non pecuniari” sono ori-ginati dalle strategie di crescita e “creazione di imperi” che i mana-

99Benefici privati del controllo e prospettiva sostemica

7 Tale comportamento è stato denominato “tunnelling”. SIMON JOHNSON - RAFAEL LA

PORTA - FLORENCIO LOPEZ DE SILANES - ANDREI SHLEIFER, Tunnelling, in “The AmericanEconomic Review”, n. 1, 2000.8 L’insider dealing è una materia difficile da regolare per legge. Le best practices di corpo-rate governance prevedono infatti un ampio ricorso a codici di comportamento interno. In Italia, l’art. 152-octies del Regolamento Consob n. 11971 prevede inoltre obblighi dicomunicazione all’Autorità ed al mercato delle operazioni effettuate tra la società ed isoggetti c.d. “rilevanti” (componenti degli organi sociali, alti dirigenti, soci di controllo ocon almeno il 10% delle quote, nonché tutti i soggetti ad essi “strettamente legati”). 9 Salva la parentesi, la traduzione della definizione di Gilson è letterale. Si veda: RONALD

GILSON, Controlling shareholders and corporate governance: complicating the comparativetaxonomy, in “Harvard Law Review”, 2006.

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ger hanno incentivo a perseguire per incrementare il loro prestigiopersonale, anche se esse sono sub-ottimali in termini di creazione divalore per gli azionisti. Ed ancora, può rientrare in questa fattispe-cie il caso dei comportamenti “altruistici” del soggetto di controllo(CEO familiare) verso i suoi parenti10.

Gilson complica la tassonomia dei benefici privati del controllodopo aver complicato quella delle strutture proprietarie, sostenen-do che la dicotomia “azionariato diffuso vs. azionisti di controllo”semplifica la realtà, poiché vi sono azionisti di controllo “inefficien-ti” ed azionisti di controllo “efficienti”. I primi sfruttano le maglielarghe delle regolamentazioni che non garantiscono un’adeguataprotezione degli investitori per estrarre i benefici privati “pecunia-ri”. I secondi, invece, sfruttano i benefici privati “non pecuniari”,ma non comportano trasferimento di risorse a danno degli azionistidi minoranza e, riunendo proprietà e controllo delle imprese, ridu-cono i costi di agenzia.

Questa interpretazione è di grande interesse in quanto contribui-sce a spiegare perché la concentrazione proprietaria è largamentepresente in paesi dove l’espropriazione delle minoranze non è maistato un problema (quale la Svezia) e non è affatto scomparsa neipaesi che vantano un alto grado di protezione degli investitori(quale gli Stati Uniti).

Soprattutto, ai fini del presente lavoro, la tassonomia di Gilsonscioglie l’equivalenza tra concentrazione proprietaria ed inefficien-za, che è contraddetta in primis dall’osservazione sistematica dellarealtà, ma anche da molta parte delle più rigorose evidenze empiri-che esistenti in letteratura. La vera dicotomia è quindi tra regole chenon impediscono assetti proprietari inefficienti, consentendo losfruttamento dei benefici privati “pecuniari”, e regole che impedi-scono tale sfruttamento, lasciando poi libero il mercato di orientar-si verso la struttura proprietaria più adatta al caso specifico, a pre-scindere da quanto concentrata essa sia11.

100 Le aziende di famiglia “quotate”

10 WILLIAM SCHULZE – MICHAEL LUBATKIN – RICHARD DINO, Towards a theory of agencyand altruism in family firms, op. cit., 2003.11 È questa la condivisibile posizione del noto studio di Demsetz e Lehn: HAROLD DEMSETZ

– KENNETH LEHN, The structure of corporate ownership: causes and consequences, in“Journal of Political Economy”, n. 6, 1985.

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Anche la tassonomia di Gilson, tuttavia, è insoddisfacente nellamisura in cui non tratta, nell’ambito dei benefici privati “non pecu-niari”, i possibili effetti sugli azionisti di minoranza. In generale, talieffetti non possono considerarsi neutrali, potendo invece esseredannosi o favorevoli a seconda dei casi.

All’origine dei benefici privati “non pecuniari” vi sono infattitipici fenomeni di “shirking”12 (letteralmente anche “imboscarsi”),cioè di comportamenti che perseguono interessi propri del sogget-to controllante, evitando in maniera indiretta di perseguire la mas-simizzazione del valore azionario. Tali comportamenti sono danno-si per gli azionisti di minoranza poiché, pur non sottraendo lororisorse, le impiegano in strategie sub-ottimali in termini di creazio-ne di valore. Gli azionisti sopportano dunque una perdita di valorein termini di costo opportunità di impieghi alternativi (in ultimaanalisi, si tratta di costi di agenzia).

Il quadro fin qui descritto sembra tuttavia incompleto, poichénon contempla la possibilità che ai benefici privati del controllo (diseguito anche BPC) si accompagnino comportamenti in linea conl’obiettivo di massimizzazione del valore per gli azionisti. Unarecente teoria colma questa lacuna.

Pacces propone una tassonomia dei benefici privati del control-lo basata su una triplice distinzione13. I benefici privati del control-lo possono essere:

– “diversionary” (o anche “bad”);– “distorsionary” (o anche “ugly”);– “idiosyncratic” (o anche “good”).I primi (che chiameremo “distrattivi”) sono quelli relativi ai com-

portamenti di “stealing” (sostanzialmente i “pecuniari”) e realizza-no un vero e proprio trasferimento al soggetto di controllo disomme che spetterebbero agli azionisti di minoranza.

101Benefici privati del controllo e prospettiva sostemica

12 Il termine “shirking”, in affiancamanento al diverso termine “stealing”, è usato anche in:MARK ROE, The institutions of corporate governance, Discussion Paper Harvard LawSchool, 2004.13 ALESSIO PACCES, ‘The Good, the Bad, and the Ugly’ private benefits of control and theirregulatory implications, in “Journal of Corporate Ownership and Control”, n. 6, 2008. Lateoria è parte del volume: ALESSIO PACCES, “Featuring control power. Corporate law andeconomics revisited”, Rotterdam, RILE, 2008.

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I secondi (“distorsivi”) sono quelli relativi ai comportamenti di“shirking” (con molte somiglianze con i “non pecuniari”) e, purnon generando distrazione di somme, comportano decisioni sub-ottimali, con un costo opportunità per gli azionisti che supera ibenefici attesi. Pertanto, ne consegue la distruzione di valore per gliazionisti.

Ancorché in maniera indiretta, essi possono essere per gli azioni-sti anche più dannosi dei precedenti, conducendo l’azienda su per-corsi di decadimento strategico capaci di distruggere, nel lungoperiodo, gran parte del valore dell’impresa.

Infine, l’ultima categoria (BPC “idiosincratici”) completa la tas-sonomia prendendo in considerazione i benefici privati che costitui-scono la remunerazione di risorse imprenditoriali firm-specificapportate dal soggetto di controllo. Tali risorse sono costituite, adesempio, da un talento imprenditoriale distintivo14, che consenteuna creazione di valore non altrimenti ottenibile. Pertanto, non visono per gli azionisti di minoranza né danni, né costi di agenzia.Essi, al contrario, possono beneficiare della quota di tali benefici dicui il soggetto di controllo non riesca ad appropriarsi.

In sostanza, si tratta della remunerazione che deriva dalla possi-bilità di liberare il potenziale di successo dell’impresa, che il merca-to non è ancora in grado di prezzare. Le risorse all’origine dei BPCidiosincratici sono risorse non verificabili e quindi non possonoessere oggetto di contrattazione; non avendo utilizzi alternativi nonhanno costo-opportunità. Per questo soltanto questi benefici priva-ti, e non tutti i benefici non pecuniari, sono veramente idiosincrati-ci15.

Tale approccio, proprio in ragione della non negoziabilità deiBPC idiosincratici, è compatibile con la teoria dei contratti incom-pleti, ma non con la teoria dell’agenzia.

102 Le aziende di famiglia “quotate”

14 L’idea di una parte dei BPC visti come remunerazione prospettica dell’imprenditorialità,alternative ai rendimenti finanziari (almeno fintantoché l’incertezza impedisca a tali rendi-menti di essere scontati dai mercati finanziari) è in: COLIN MAYER, Firm control, in J.SCHWALBACH, Corporate governance: Essays in honor of Horst Albach, Springer-Verlag,2001. Cenni ad una triplice categorizzazione dei BPC (con una categoria avente conno-tazione positiva, ancorché essenzialmente psichica), sono presenti, nell’ambito di una dif-ferenziazione tra ruolo ed incentivi degli imprenditori e degli investitori, anche in: OLIVER

HART, Financial contracting, in “Journal of Economic Literature”, n. 4, 2001.15 ALESSIO PACCES, Featuring control power, op. cit., 2008.

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L’approccio principale-agente, per certi versi, sembra rappresen-tare un modello non in sintonia con gran parte della realtà.

Nei rapporti di agenzia esistenti tra azionisti e manager e tra azio-nisti di minoranza e soci di controllo con ruolo attivo nel governod’impresa, l’agente (manager o socio di controllo) è visto come un sog-getto che opera su delega del principale, che gli ha trasferito il control-lo di alcuni beni. Osservando il concreto funzionamento delle aziendedi famiglia quotate e delle public company ad azionariato diffuso, ver-rebbe di pensare esattamente l’opposto. Il socio di controllo (maanche il manager di una vera public company) ha in mano il controllopieno degli assets, e coinvolge i finanziatori esterni per la raccolta dicapitale, fintantoché ciò non mette a repentaglio il suo controllo.

Questa prospettiva spiega molto meglio perché il controllo del-l’impresa sia in effetti, nella maggior parte dei casi, entrenched (cioè“trincerato” e di fatto non contendibile)16.

Ciò che rimane ampiamente da spiegare, ad avviso di chi scrive,è se tale propensione al controllo delle imprese dipenda dallo sfrut-tamento di benefici privati di natura psichica (il gusto del comando,il prestigio sociale per sé e per i figli, …), ovvero di natura economi-ca (la remunerazione di capacità imprenditoriali distintive, …).

L’idea di fondo qui presentata è che il controllo dell’impresa è spie-gato dalla possibilità di appropriarsi di benefici privati di natura econo-mica, che tuttavia possono essere qualificati come ‘buoni’, in quantocontribuiscono positivamente alla creazione di valore aziendale, con-sentendo l’estrazione del valore da risorse altrimenti non sfruttabili.

In generale, la tassonomia dei benefici privati assunta alla basedel presente lavoro, nella prospettiva della creazione di valore e delrapporto tra azionisti di controllo17 ed azionisti di minoranza18, puòquindi essere sintetizzata come segue:

103Benefici privati del controllo e prospettiva sostemica

16 La teoria dei diritti di proprietà ha in nuce l’idea che il controllo dei beni costituisce unincentivo ai comportamenti imprenditoriali e che essi vadano adeguatamente remunerati,anche con benefici privati (OLIVER HART, Firm, contracts and financial structure, Oxford,Oxford University Press, 1995, p. 208).17 Il riferimento è agli azionisti di controllo, aventi o meno ruoli esecutivi nel managementdell’impresa. In relazione alla definizione della tipologia di impresa oggetto del presentelavoro, la compagine azionaria di controllo deve comunque avere un ruolo attivo nelgoverno dell’impresa (es. Presidenza, componenti familiari nel CdA, …).18 La tassonomia rimane valida anche per il caso della relazione di agenzia tra azionisti emanager.

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– BPC “distrattivi”, che incidono sulla allocazione del profittoex post, alterando la proporzionalità tra gli azionisti di control-lo/managers e gli azionisti di minoranza, a favore dei primi;l’effetto è quindi una riduzione secca del valore dell’impresaper gli azionisti di minoranza;

– BPC “distorsivi”, che incidono ex ante sulla generazione delprofitto, orientando l’impresa verso strategie che non massi-mizzano la creazione di valore (ad esempio, privilegiando lacrescita dimensionale alla redditività, c.d. “empire building”);l’effetto negativo (o al limite nullo) sul valore per gli azionistidi minoranza è quindi da intendersi principalmente in terminidi costo opportunità;

– BPC “idiosincratici”, che incidono ex ante sulla generazionedel profitto, orientando l’impresa verso strategie che massimiz-zano la creazione di valore e che non si sarebbero potute rea-lizzare senza l’apporto di risorse specifiche del soggetto di con-trollo (ad esempio, il patrimonio di relazioni ed il talentoimprenditoriale posseduti); l’effetto sul valore per gli azionistidi minoranza è quindi positivo (o al limite nullo), anche in pre-senza di una ripartizione non proporzionale (o al limite riser-vata ai soli soci di controllo) di tali benefici.

Ad avviso di chi scrive, la rigida proporzionalità, rispetto al capi-tale posseduto, delle remunerazioni che affluiscono agli azionisti(principio di proporzionalità al capitale) non è quindi necessaria-mente, di per sé, un requisito di efficienza delle imprese. Ciò checonta è che le remunerazioni corrispondano agli apporti di risorseeffettuati dai soci (principio di proporzionalità agli apporti).

E tali apporti19 possono consistere in:– denaro ed altri beni contrattualizzabili20;– risorse non contrattualizzabili. Nel primo caso gli apporti sono imputabili al capitale21. Il princi-

104 Le aziende di famiglia “quotate”

19 Il concetto di apporti è inteso in un senso più ampio di quello giuridico, comprendendoanche risorse non imputabili al capitale sociale in sede di emissione di azioni.20 Per essere “contrattualizzabile”, un bene deve essere verificabile nelle sue qualità e valu-tabile attendibilmente dal punto di vista economico.21 Sull’imputabilità al capitale delle risorse conferite: ENRICO LAGHI, La contabilizzazionedelle operazioni di conferimento, in “Rivista Italiana di Ragioneria e di EconomiaAziendale”, n. 1, 2001.

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pio di proporzionalità al capitale, pertanto, salvaguarda pienamen-te il rispetto del principio di proporzionalità agli apporti.

Nel secondo caso, al contrario, le risorse apportate dal soggettocontrollante (il patrimonio di relazioni, il talento imprenditoriale,…) non sono imputabili al capitale. Una volta nell’impresa, essecontribuiscono alla generazione del valore di avviamento22, ma nonsono verificabili e valutabili al momento dell’emissione delle azioni.Il principio di proporzionalità agli apporti può pertanto essererispettato solo violando quello di proporzionalità al capitale.

Poiché tali risorse sono idiosincratiche, il soggetto controllantenon potrebbe goderne i benefici se non avesse il controllo dell’im-presa.

Riteniamo che tale modello sia di estrema importanza per spiega-re la concentrazione del controllo di società quotate in capo allefamiglie imprenditoriali.

In particolare, nella prospettiva economico-aziendale e con par-ticolare riferimento alle aziende di famiglia, è necessario spiegare,:

– quali siano le risorse distintive che giustificano l’estrazione dibenefici privati idiosincratici, in cosa consistano e come trasfe-riscano i loro effetti sul valore d’impresa;

– come possa il soggetto di controllo appropriarsi di tali benefi-ci e come tale appropriazione possa avvenire in assenza dell’e-strazione di benefici privati distrattivi o distorsivi.

A questi quesiti di ricerca è destinata la parte rimanente del pre-sente lavoro.

L’analisi si fonderà sull’approccio teorico dell’impresa comesistema, al quale è dedicato il paragrafo successivo.

3.2. Il governo delle aziende di famiglia e la teoria sistemica del-l’impresa: le interazioni tra i sistemi della famiglia, della proprietàe dell’impresa

L’applicazione di un approccio sistemico allo studio delle aziende difamiglia è tutt’altro che nuovo sia nella dottrina italiana che in quel-

105Benefici privati del controllo e prospettiva sostemica

22 In merito al concetto di avviamento nella dottrina italiana: SILVIO BIANCHI MARTINI,Interpretazione del concetto di avviamento, Milano, Giuffrè, 1996.

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la internazionale. Tuttavia, la letteratura non sembra aver sfruttatoappieno il potenziale esplicativo della teoria dei sistemi.

Il punto centrale è la capacità esplicativa della teoria dei sistemirispetto alla fenomenologia delle interazioni tra l’impresa e la famiglia,giacché entrambi possono essere a ragione considerati dei sistemi23.

Da un iniziale orientamento a evidenziare la contrapposizione divalori e di finalità tra il sistema famiglia ed il sistema impresa24, si èpiù recentemente acquisita consapevolezza riguardo al potenziale di

106 Le aziende di famiglia “quotate”

23 In questo senso, molto prima del fiorire di studi sulle aziende di famiglia: ALBERTO

RIPARBELLI, Correlazioni e interdipendenze tra organismi aziendali, Pisa, Cursi, 1962.24 I primi lavori della letteratura accademica nordamericana sul family business, pur nonavendo effettuato applicazioni formalizzate ed esplicite della visione sistemica dell’impre-sa, erano fortemente accomunate da questa visione conflittuale del sistema impresa e delsistema famiglia, i cui effetti principali si riverberano nel processo di successione genera-zionale. Si veda, oltre al lavoro di Lansberg citato di seguito: RICHARD BECKHARD –WALTER DYER, Managing continuity in the family owned business overlap, in“Organizational Dynamics”, n. 1, 1983.Per quanto riguarda tale approccio nell’ambito della letteratura italiana: CARMELA ELITA

SCHILLACI, I processi di transizione del potere imprenditoriale nelle imprese familiari,Torino, Giappichelli, 1990; CARLO SORCI, Preparing the generational turnover in the enter-prise, in “Economia Aziendale”, n. 1, 1991.

Fig. 1 - Il problema della “sovrapposizione istituzionale” (Lansberg)

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positiva interazione tra i due sistemi25, fermi restando i gravi proble-mi che sorgono in caso di un’interazione non funzionale alle finalitàdell’impresa, nonché la complessità delle politiche di armonizzazio-ne di proprietà, famiglia ed impresa26.

Si pensi ad esempio alla diversa sottolineatura tematica dell’“institu-tional overlap” di Lansberg27 e del “three circe model” di Tagiuri e Davis.

Il primo evidenzia le contrapposizioni di valori tra la famiglia el’impresa, evidenziando i profili problematici della sovrapposizionedi logiche familiari a logiche aziendali. (Figura 1)

Il “three circles model”, utilizzatissimo negli studi sul familybusiness, muove dalla esigenza di complicare la rappresentazionedell’interazione tra sistemi per tenere conto della fondamentale dif-ferenza tra familiari coinvolti e familiari non coinvolti nel manage-ment dell’impresa. Ai sistemi dell’impresa e della famiglia si aggiun-ge pertanto il sistema della proprietà28.

Tale modello consente di rappresentare meglio soprattutto leimprese di generazioni successive alla prima, in cui la compagineproprietaria si complica per effetto della deriva generazionale edeventualmente dell’apertura del capitale a terzi29. Ai soci familiarioperativi nell’impresa (I + F + P) si affiancano quindi ulteriori cate-gorie di persone che possono far parte di uno o due dei sistemi inte-ragenti, ma non di tutti e tre.

107Benefici privati del controllo e prospettiva sostemica

25 Secondo un approccio olistico, Schillaci esprime l’auspicio di “abbandonare un approc-cio di tipo dualistico e conflittuale, sulla base del quale un sistema si avvantaggia a dannodi un altro, per accoglierne uno più ampio e sistemico, che includa ed integri entrambe leistituzioni sociali” (CARMELA ELITA SCHILLACI, I processi di transizione del potere impren-ditoriale nelle imprese familiari, op. cit., 1990).26 Il filone di studio sul family business sta crescendo notevolmente in queste direzioni di ricer-ca. Tuttavia, i lavori sistematici sulle aziende di famiglia sono, nell’ambito della letteratura ital-iana, ancora relativamente pochi. Oltre ai già citati lavori di Corbetta, Tomaselli e Montemerlo,può farsi riferimento ai seguenti recenti lavori: LUCA DEL BENE, Aziende familiari: tra impren-ditorialità e managerialità, Torino, Giappichelli, 2005; CLAUDIO DEVECCHI, Problemi, criticità eprospettive dell’impresa di famiglia, Milano, V&P, 2007; DONATA MUSSOLINO, L’impresa famil-iare. Caratteri evolutivi e tendenze di ricerca, Padova, Cedam, 2008.27 IVAN LANSBERG, Managing human resources in family firms: the problem of institutionaloverlap, op. cit., 1983.28 RENATO TAGIURI – JOHN DAVIS, Bivalent attributes of the family firms, in “FamilyBusiness Review”, n. 2, 1988.29 Alla complessità della struttura proprietaria si accompagna generalmente una maggiorecomplessità degli assetti di corporate governance. Un’analisi di tali assetti è in:ALESSANDRO ZATTONI, Assetti proprietari e corporate governance, Milano, Egea, 2006.

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Il modello è quindi di particolare interesse ai fini del presentelavoro, poiché esprime lo stadio evolutivo di maggiore sviluppo del-l’azienda di famiglia: l’azienda di grandi dimensioni quotata suimercati regolamentati. Ciò non toglie, naturalmente, che il modelloben rappresenti anche gli stadi precedenti del ciclo di vita delleaziende di famiglia, in cui i sistemi hanno dei gradi di sovrapposi-zione maggiori30. (Figura 2)

Nell’approccio sistemico, l’impresa è vista come un sistema aperto,che opera interagendo con altri sistemi, qualificabili come sovrasistemi31.

108 Le aziende di famiglia “quotate”

30 L’approccio evolutivo del ciclo di vita è molto usato negli studi sulle aziende di famiglia,soprattutto in relazione al tema della crescita. Per uno dei primi approcci di questo tipo:RICHARD PEISER – LELAND WOOTEN, Life-cycle changes in small family business, in“Business Horizons”, may, 1983. Per un successivo celebre lavoro che ha sistematizzato edinnovato il tema: KELIN GERSICK – JOHN DAVIS – MARION MC COLLOM HAMPTON – IVAN

LANSBERG, Generation to generation, op. cit., 1997.31 L’interazione di un sistema aperto con altri sistemi consiste nell’interscambio di flussi dienergia, di materia e di informazioni (LUDWIG VON BERTALANFFY, Teoria generale dei siste-mi, op. cit., 1971).

Fig. 2 - Impresa - Famiglia - Proprietà: il Three - Circle model (Tagiuri-Davis)

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Tale apertura non è tuttavia completa, giacché le interazioni conl’ambiente non sono incontrollate e incondizionate32, ma seleziona-te sulla base di un processo mirato ad ammettere gli influssi positi-vi (che favoriscono l’economicità) e ad ostacolare quelli negativi(che alimentano il disordine del sistema)33. Si parla, pertanto, di“grado di apertura” del sistema aziendale.

Il successo del sistema azienda, cioè la sua capacità di sopravvi-vere indefinitamente tendendo al potenziamento delle condizioni dieconomicità, dipende pertanto dalla possibilità di ottimizzare lerelazioni con i sovra-sistemi (oltre che naturalmente dal funziona-mento coordinato della sua struttura interna e dei sub-sistemi di cuisi compone34).

L’organo di governo è la componente del sistema aziendale deputa-to all’esercizio del potere volitivo, ossia delle decisioni di massimaimportanza, consistenti nell’indirizzo strategico e nella predisposizio-ne dei meccanismi di coordinamento atti a preservare l’unitarietà delsistema. L’organo di governo è pertanto responsabile dell’orientamen-to del sistema impresa verso le finalità che gli sono proprie (la soprav-vivenza in condizioni di economicità, ovvero la creazione di valore)35.

109Benefici privati del controllo e prospettiva sostemica

32 In tal senso: GAETANO GOLINELLI, L’approccio sistemico al governo dell’impresa, op. cit.,2001. L’Autore richiama una classificazione tra sistemi completamente aperti e sistemi par-zialmente aperti, contenuta in un lavoro di due studiosi cileni: HUMBERTO MATURANA –FRANCISCO VARELA, L’albero della conoscenza, , Milano, Garzanti, 1987 (titolo originale: Elarbor del conocimiento, 1984).33 Secondo Ferrero, “… il significato del vocabolo ‘aperto’ va sempre inteso in senso rela-tivo ‘ non esistendo organizzazioni sociali – quali sono le imprese – completamente chiuseo aperte’. Ciò significa che ‘l’impresa è selettivamente aperta agli inputs, rispondendo cosìsolo in parte (né potrebbe fare diversamente) a tutte le influenze e sollecitazioni ambien-tali” (GIOVANNI FERRERO, Impresa e management, Milano, Giuffré, 1987, pag. 127).34 Secondo Cafferata, infatti, l’equilibrio del sistema d’impresa si compone dell’equilibrioeconomico, dell’equilibrio finanziario e dell’equilibrio organizzativo. Quest’ultimo è con-cetto dinamico riferito non solo all’armonia funzionale dei sottosistemi, ma anche all’ar-monia sociale, in una prospettiva di cooperazione tra i partecipanti. Si veda: ROBERTO

CAFFERATA, Sistemi ambiente e innovazione, Torino, Giappichelli, 1995, p. 21-26.Nella tradizione economico-aziendale italiana l’approccio sistemico è proprio degli studidi economia aziendale generale, ma anche di quelli specifici dei problemi di gestione, diorganizzazione e di ragioneria. Si veda, ad esempio: FRANCO FONTANA, L’impostazionesistematica dei problemi organizzativi – schema di analisi, in “Rivista Italiana di Ragioneriae di Economia Aziendale”, n. 11, 1973.35 È stato osservato come il concetto di finalità sia riferibile non tanto al sistema in sé, quan-to al soggetto economico che, pro tempore, orienta le decisioni dell’organo di governo(UMBERTO BERTINI, Il sistema d’azienda, op. cit., 1990).

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Nella gestione delle relazioni con i sovra-sistemi, l’organo digoverno deve perseguire l’acquisizione di risorse critiche per l’im-presa, soddisfacendo le attese dei sovra-sistemi e mantenendo alcontempo la coerenza tra le finalità dell’impresa e quelle dei sovra-sistemi. Soltanto così, infatti, possono garantirsi processi di creazio-ne di valore duraturi. Ove tale coerenza mancasse, si genererebbe-ro tensioni difficilmente compatibili con l’alimentazione durevole ditali processi.

Recentemente, nell’ambito dell’approccio all’impresa come siste-ma vitale, Golinelli ha affermato che “la capacità del sistema impre-sa di conseguire il proprio fine di sopravvivenza, mediante la crea-zione di vantaggi competitivi e la generazione di valore, dipendedalla capacità di soddisfare un duplice ordine di condizioni:

– di consonanza e, se ritenuto opportuno dall’organo di gover-no, di risonanza con i sovra-sistemi;

– di consonanza e, se possibile, di risonanza tra i sub-sistemi36”.L’organo di governo, in altre parole, rappresenta il principale

artefice della realizzazione del complessivo grado di risonanza delsistema impresa con il suo ambiente.

La consonanza è intesa come compatibilità tra sistemi, comecapacità di rapportarsi e di raccordarsi contribuendo positivamentealle finalità reciproche.

La risonanza è “lo sviluppo ideale della consonanza”. In tal caso,sulla condizione di consonanza si costruisce una condizione di con-divisione di finalità, caratterizzata da appartenenza e sintonia, finoad arrivare al progressivo attenuarsi dei confini37 strutturali del siste-ma per effetto di un massimo grado di apertura38.

Queste categorie concettuali sono molto importanti per l’analisidel rapporto tra proprietà, famiglia ed impresa nell’ambito delleaziende di famiglia.

Riteniamo infatti che il successo duraturo delle aziende di fami-glia dipenda proprio dalla capacità dell’organo di governo di creare

110 Le aziende di famiglia “quotate”

36 GAETANO GOLINELLI, L’approccio sistemico al governo dell’impresa, op. cit., 2001, p. 206.37 In merito alla complessa definizione dei confini dei sistemi aziendali, che lungi dall’esse-re dati sono leve di scelte strategiche: STEFANO GARZELLA, I confini dell’azienda, Milano,Giuffrè, 2000. 38 GAETANO GOLINELLI, L’approccio sistemico al governo dell’impresa, op. cit., 2001, p. 178 e ss.

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tali condizioni di compatibilità (consonanza) ed armonia di fini(risonanza) tra l’impresa e due sovra-sistemi di massima rilevanza: laproprietà e la famiglia.

La rilevanza di un sovrasistema dipende essenzialmente da duevariabili:

– la criticità delle risorse che esso cede all’impresa nell’ambitodella relazione instaurata, a sua volta dipendente dal contribu-to di tali risorse alla generazione ed al rinnovamento dei van-taggi competitivi;

– l’influenza che esso esercita sul sistema dell’impresa, ossia lacapacità di ridurne i gradi di libertà mediante la proiezione diattese e pressioni39.

La criticità delle risorse trasferite dal sovrasistema dipende dallecaratteristiche intrinseche della risorsa stessa (specificità d’impiego,innovatività, scarsa sostituibilità, …) e dai benefici conseguibili dal-l’impresa con la risorsa (miglioramento dell’immagine, sinergie realiz-zabili, opportunità strategiche, accesso a patrimoni di relazioni, …).

Il potere di influenza del sovrasistema può derivare dall’esisten-za di vincoli e regole, dall’attività di controllo esercitata, ovvero dalcosto-opportunità del rapporto (tempi e costi per la ricerca di risor-se alternative, effetti negativi della rottura del rapporto, …).

Il sovrasistema della proprietà è senza dubbio uno dei sovrasiste-mi più influenti sulla vita delle imprese. Le differenze tra i diversimodelli di governance possono essere letti proprio in relazione aldiverso atteggiamento del rapporto tra sistema della proprietà esistema impresa. Sotto questo profilo, le aziende di famiglia quota-te presentano evidenti specificità, la cui analisi appare necessariaper la spiegazione del fenomeno.

Con riferimento ad esse, può definirsi un modello di analisi dellerelazioni sistemiche tra proprietà, famiglia ed impresa che identifichi:

– l’impresa come sistema oggetto di analisi;– la proprietà e la famiglia, come sovrasistemi rilevanti;

111Benefici privati del controllo e prospettiva sostemica

39 L’impostazione è presente in: GAETANO GOLINELLI, L’approccio sistemico al governo del-l’impresa, op. cit., 2001. In particolare, per approfondimenti sul modello della rilevanzadei sovrasistemi, si veda: SERGIO BARILE – CLAUDIO NIGRO – MARIAPINA TRUNFIO,Problematiche metodologiche per la qualificazione del modello della rilevanza dei sovrasiste-mi, in SERGIO BARILE (a cura di), L’impresa come sistema. Contributi sull’ApproccioSistemico Vitale (ASV), Torino, Giappichelli, 2006.

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– l’organo di governo, il management e la residua parte dellastruttura operativa come sub-sistemi caratterizzati da partico-lari relazioni con i predetti sovrasistemi rilevanti. Rispetto al “three-circle model”, trovano qui particolare evi-

denza l’organo di governo ed il management, in quanto la loro con-figurazione è strettamente dipendente dalla relazione dell’impresacon i sovrasistemi della proprietà e della famiglia.

Il modello può essere impiegato per analizzare la rilevanza dellerelazioni sistemiche nei diversi modelli di governance ed è rappre-sentato con la Figura 3.

Il modello è di carattere generale. Nel caso in cui l’impresa nonsia a controllo familiare il sovrasistema della famiglia non sarà pre-sente. Nelle imprese ad azionariato diffuso, il sistema della proprietànon è sovrapposto con altri sovrasistemi rilevanti. Diversamente, incaso di presenza di azionisti rilevanti diversi dalla famiglia, il sovrasi-stema di tali azionisti rilevanti si sostituirà a quello della famiglia.

112 Le aziende di famiglia “quotate”

Fig. 3 - Impresa - Famiglia - Proprietà: Le relazioni sistemiche

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Di particolare rilievo sono le sovrapposizioni parziali tra i sistemi.Con riferimento alle aziende di famiglia quotate, la proprietà è

parzialmente sovrapposta alla famiglia. L’area di sovrapposizionecontiene gli azionisti di controllo familiari. Le aree non sovrapposterappresentano invece l’esistenza dei proprietari non familiari e deifamiliari non proprietari.

Inoltre, l’organo di governo può accogliere proprietari/familia-ri, proprietari non familiari (es. azionisti di minoranza con rappre-sentanti diretti nel CdA) ed altri soggetti non proprietari, né fami-liari.

Al vertice della compagine manageriale, infine, ci sarà un compo-nente dell’organo di governo (es. l’amministratore delegato oCEO), che potrà essere un familiare, un proprietario non familiare(più raramente) o un manager esterno alla famiglia ed alla proprietà.

Il paragrafo seguente affronta le strategie di interazione tra isistemi rilevanti.

3.3. La rilevanza e le strategie di interazione con i sovrasistemidella famiglia e della proprietà

Sulla base delle variabili che determinano la rilevanza dei rappor-ti intersistemici, le diverse configurazioni dei sovrasistemi proprietàe famiglia possono essere collocate in una matrice a due dimensioni(la criticità delle risorse ed il potere di influenza) al fine di indivi-duare le più opportune strategie di gestione della relazione40.

Negli schemi presentati non è considerato il caso di azionisti dicontrollo (anche tramite coalizioni) diversi dalla famiglia. Talemodello di concentrazione azionaria non è oggetto del presentelavoro e la sua mancata trattazione non inficia le conclusioni delragionamento.

Nella Figura 4 che segue è presentato il caso dell’azienda di fami-glia quotata.

113Benefici privati del controllo e prospettiva sostemica

40 La matrice delle strategie “interazionali” attuabili nei confronti dei sovra sistemi, che haispirato la presente applicazione contestualizzata alle aziende di famiglia è presente in:SERGIO BARILE – CLAUDIO NIGRO – MARIAPINA TRUNFIO, Problematiche metodologiche perla qualificazione del modello della rilevanza dei sovrasistemi, op. cit., 2006.

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La concentrazione del controllo in mano alla famiglia fa sì che gliazionisti non familiari difficilmente riescano ad avere un significati-vo potere di influenza sull’impresa.

Il potere di influenza sarà naturalmente maggiore ove gli azioni-sti di minoranza abbiano rappresentanti nell’organo di governo; allostesso modo, sarà maggiore nel caso di investitori istituzionali chenon nel caso di privati risparmiatori.

Tuttavia, se la famiglia possiede il controllo azionario e l’impresanon è di fatto contendibile, l’influenza degli azionisti non familiarinon può essere considerata elevata.

I familiari che sono fuori dall’organo di governo mantengono uncerto potere di influenza nell’ambito della formazione delle decisio-ni volitive in cima alla catena di controllo (ad esempio, nelle c.d.casseforti di famiglia), ma la loro influenza sul sistema impresa nonpuò considerarsi elevata.

Gli azionisti familiari con ruoli di governo o di management nel-l’impresa sono le uniche categorie di soggetti che uniscono all’ele-vato potere di influenza anche il probabile apporto di risorse criti-

114 Le aziende di famiglia “quotate”

Fig. 4 - Strategie di relazione con i sovrasistemi proprietà e famiglia:il caso dell’azienda di famiglia quotata

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che. Il grado di criticità delle risorse, naturalmente, dipende daltalento imprenditoriale, dalle capacità manageriali, dal patrimoniodi relazioni e dalle altre capacità distintive che effettivamente carat-terizzano gli azionisti familiari con ruoli di governo.

Laddove gli azionisti familiari coinvolti nel governo non fosseroportatori di risorse critiche, il sovrasistema della famiglia proprieta-ria migrerebbe verso sinistra, nel primo quadrante. Come si vedràmeglio in seguito, questo è il caso in cui il controllo familiare noncontribuisce alla creazione di valore per gli azionisti e rappresentaquindi un modello proprietario economicamente inefficiente.

Infine, per completezza abbiamo inserito nello schema anche ilmanagement non familiare, che nelle società a controllo familiare haun ridotto potere di influenza, anche se è (o dovrebbe essere) por-tatore di risorse critiche.

Prima di affrontare il tema delle strategie di interazione con isovrasistemi rilevanti, è interessante confrontare lo schema appenaesposto con una analoga figura (Figura 5) riferito al modello del-l’impresa manageriale a capitale diffuso.

115Benefici privati del controllo e prospettiva sostemica

Fig. 5 - Strategie di relazione con i sovrasistemi proprietà e famiglia:il caso dell’impresa manageriale

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In questa figura, il management non fa parte del sistema pro-prietà o ne fa parte quale azionista non rilevante. Può ritenersi che,anche quando il management possieda un certo quantitativo di azio-ni della società che gestisce (in genere per effetto dei contratti diincentivo di tipo “stock option plan”) il suo potere di influenza e lacriticità delle risorse che apporta non vengono significativamentemodificate. Nella figura, la criticità delle risorse apportate dal mana-gement è rappresentata come leggermente più elevata per l’effettodi allineamento dei contratti di incentivo.

L’analisi delle principali differenze, in termini di rilevanza dellerelazioni intersistemiche tra proprietà ed impresa, nei due modellipresentati consente utili prospettive di osservazione riguardo aglieffetti della struttura proprietaria sui processi decisionali di gover-no dell’impresa, nonché sulla disponibilità e generazione di risorsedistintive.

In primo luogo, è evidente che nelle aziende di famiglia le rela-zioni intersistemiche tra proprietà ed impresa sono molto più arti-colate e complesse. Ciò deriva naturalmente dall’esistenza di unaproprietà forte, influente sulle decisioni dell’organo di governo, maanche caratterizzata da un’ampia varietà all’interno. La strutturaproprietaria comprende familiari e non familiari, coinvolti anche nelgoverno e, o nel management o meno; e tale struttura interagisce (edè parzialmente sovrapposta) con il sistema della famiglia, dal chepuò scaturire ad esempio una certa influenza dei familiari (formal-mente) non azionisti sull’impresa.

È opinione di chi scrive che ciò rappresenti uno dei motivi prin-cipali per i quali i modelli teorici dell’impresa che assumono catego-rie spersonalizzate ed uniformi di azionisti e di manager non riesco-no a spiegare l’esistenza e la diffusione della grandi aziende di fami-glia quotate.

Per quanto riguarda le differenze tra i modelli, a parte l’ovviaassenza del sistema famiglia, risalta la differenza riguardo ai sogget-ti aventi un’influenza dominante sull’impresa (gli azionisti familiariimpegnati nel governo in un caso, i manager nell’altro). Con riferi-mento a questa ulteriore, anch’essa ovvia, differenza, il vero quesitocui la letteratura non ha ancora risposto in maniera condivisa è se ilpotere di influenza e le risorse critiche del soggetto di comando (siaesso l’azionista di riferimento o il top manager) abbiano un grado di

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intensità diverso nelle aziende di famiglia e nelle altre imprese.Il punto è di estremo interesse per la valutazione dell’efficienza

economica e della competitività delle aziende di famiglia quotate.Sotto il profilo del potere di influenza, vi sono indicazioni dal-

l’osservazione della realtà che sembrano confermare il maggiorpotere di influenza dell’azionista dominante rispetto al managerdella public company.

Nonostante il diffuso fenomeno dell’”entrenchment” del mana-gement, non può sottacersi che l’evoluzione della regolamentazionesocietaria in tutto il mondo ha notevolmente incrementato la parte-cipazione alla vita societaria degli investitori ed ha arricchito l’am-piezza e la profondità dei meccanismi di controllo sull’operato delmanagement. Sembra aumentare la frequenza di casi in cui l’opera-to di investitori attivisti coagula il consenso del sistema proprietà alfine di sostituire manager “trincerati”41. Anche in presenza di unmercato del controllo societario che non svolge la funzione di sele-zione del management che la teoria economia e di finanza classichegli attribuiscono42, il management delle public company non puòcontare sul fatto di non vedersi sostituire.

La non contendibilità (formale o anche solo sostanziale) del con-trollo è un importante fattore aggiuntivo di protezione dell’”entren-chment” che l’azionista di riferimento può vantare rispetto al mana-ger della public company. L’azionista di riferimento può scegliere inmaniera relativamente più libera di ridurre i gradi di libertà delsistema impresa senza (o con minore) timore di perdere il control-lo. L’orizzonte temporale del suo processo decisionale resta indefi-nitamente lungo e dipende sostanzialmente solo dalla scelta di cede-re il pacchetto azionario di controllo.

Per questo il modello teorico qui presentato assume che la famigliaazionista di riferimento abbia un potere di influenza sul sistema impre-

117Benefici privati del controllo e prospettiva sostemica

41 Famoso è il caso del Presidente della Carlton, pubblicamente umiliato in assemblea nel2004 ed obbligato alle dimissioni. L’influenza degli investitori attivisti, anche a prescinde-re da certe spettacolarizzazioni, sta comunque significativamente aumentando. Ne è provaanche la nuova regolamentazione, esistente ad esempio nel Regno Unito, che consente agliazionisti di esprimere un parere sui compensi del management. E’ ad esempio assurto aglionori delle cronache il caso GlaxoSmithkline, in cui il management ha espressamente rice-vuto voto contrario alla sua proposta. 42 Si veda: LUCA ENRIQUES, Mercato del controllo societario e tutela degli investitori. La disci-plina dell’OPA obbligatoria, Bologna, Il Mulino, 2002.

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sa maggiore di quello dei manager nelle società a capitale diffuso(ancorché in entrambi i casi tale potere possa considerarsi elevato)43.

Sotto l’ulteriore profilo della criticità delle risorse trasferiteall’impresa, è opportuno distinguere tra:

– risorse manageriali, relative alla capacità analitica di disegnarele strategie e di coordinare i processi della struttura operativa;

– risorse imprenditoriali, relative alla attitudine intuitiva di gene-rare nuove opportunità di business e di sostenerne i relativirischi.

Ovviamente, sia l’azionista di controllo con incarichi esecutiviche il manager professionale devono essere portatori di risorse sia ditipo manageriale che di tipo imprenditoriale44.

L’azionista di controllo non può (e non dovrebbe) assumere ilruolo di CEO se non ha le caratteristiche professionali richieste,così come un buon manager professionale non può (e non dovreb-be) arrivare al vertice della gerarchia manageriale se non possiedeuna buona dose di attitudini imprenditoriali.

Detto questo, è del tutto ragionevole ritenere che la risorsadistintiva del management professionale sia principalmente di tipotecnico-gestionale, mentre l’imprenditore azionista di maggioranzacon incarichi esecutivi avrà probabilmente maggiori attitudiniimprenditoriali.

In un’azienda di famiglia in condizioni di equilibrio, e quindi ditensione alla sopravvivenza ed alla creazione di valore, la famigliaazionista di controllo dovrebbe attribuire a familiari il ruolo diCEO soltanto ove riscontri in qualche membro della famiglia atti-tudini manageriali pienamente adeguate all’incarico. In caso con-trario, dovrebbe delegare la funzione manageriale a manager pro-

118 Le aziende di famiglia “quotate”

43 Per quanto di nostra conoscenza non vi sono ricerche empiriche specifiche sul tema, checostituisce pertanto un interessante filone di sviluppo per la ricerca sulla corporate gover-nance in generale e sulle aziende di famiglia in particolare. 44 Tali risorse, naturalmente, non sono alternative e non pertengono necessariamente a sog-getti diversi (il manager da un lato e l’imprenditore dall’altro). Bertini afferma che nella“moderna realtà aziendale le due anime devono coesistere, l’una implica l’altra. Per cuipossiamo affermare che, come non esiste azienda senza imprenditorialità, così non esisteazienda senza managerialità. ‘Imprenditorialità’ e ‘managerialità’ esprimono, dunque, duedistinti e imprescindibili aspetti della moderna realtà soggettiva dell’azienda; …”(UMBERTO BERTINI, Il governo dell’impresa tra ‘managerialità’ e ‘imprenditorialità’, in Scrittidi politica aziendale, Torino, Giappichelli, 1995, p. 31).

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fessionali esterni, mantenendo, in tutto o in parte, la funzioneimprenditoriale45.

È il caso ad esempio dell’imprenditore fondatore che decide dinominare un CEO non familiare, avendo compreso che né egli stes-so, né i suoi figli, sono in grado di assicurare all’impresa un’effica-cia manageriale equivalente, ma mantiene un ruolo attivo (ad esem-pio come presidente) nell’impostazione delle strategie e nella crea-zione delle opportunità di business.

Così facendo, egli garantisce all’impresa un mix ottimale di risor-se imprenditoriali e manageriali, a prescindere dal fatto che il topmanagement sia familiare o meno.

Diversamente, nelle public company può essere più difficile rag-giungere tale complementarità tra risorse manageriali e risorseimprenditoriali. Ove il management non abbia attitudini imprendi-toriali molto spiccate, esse non possono essere attinte nel sistemadella proprietà, ma soltanto tramite la sostituzione del managementstesso.

Tuttavia, l’imprenditorialità del management professionale nellepublic company, anche ove sia presente in termini di attitudini perso-nali, è frenata dalla natura della posizione ricoperta. Come si è visto,il potere di influenza del management nella public company è mag-giormente minacciato dalla prospettiva della sostituzione46; il mana-ger professionale tenderà conseguentemente ad avere un orizzontetemporale delle decisioni sensibilmente più breve rispetto a quellodell’azionista di controllo coinvolto nel governo dell’impresa.

Poiché la funzione imprenditoriale, per attuare il processo di“distruzione creatrice” à la Schumpeter47, ha bisogno di esprimersisu orizzonti temporali lunghi, ne deriverebbe uno strutturale mino-re orientamento all’imprenditorialità delle grandi imprese manage-riali rispetto alle aziende a controllo familiare.

Il problema dell’orizzonte temporale limitato del management(management myopia, short-termism) è un problema molto studiato

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45 In merito alla distinzione ed alle relazioni tra funzione imprenditoriale e funzione man-ageriale: GIOVANNI FERRERO, Impresa e management, Milano, Giuffré, 1980.46 Si veda: ANDREI SHLEIFER – ROBERT VISHNY, Management entrenchment. The case ofmanagement-specific investments, in “Journal of Financial Economics”, n. 1, 1989.47 JOSEPH SCHUMPETER, A theory of economic development, Cambridge Mass., HarvardUniversity Press, 1911.

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in letteratura, così come crescente è la corrente di pensiero che ponel’accento sulla lunghezza dell’orizzonte decisionale delle famiglieimprenditoriali. Si tratta, in realtà, di due facce della stessa meda-glia.

Per le ragioni esposte, nel modello presentato si è assunto che lerisorse critiche derivanti dal sistema della proprietà (rectius, dellafamiglia) nelle aziende di famiglia quotate siano complessivamentemaggiori di quelle trasferite dal top management di una public com-pany.

Un tale assunto si riferisce all’ipotesi di ottimale interazione trafamiglia ed impresa ed è basato sul fatto che le risorse managerialisiano integrabili nel sistema impresa mediante acquisizione dall’e-sterno (manager professionale), mentre lo stesso non può dirsi dellerisorse imprenditoriali.

Con ciò non si vuole dire che, per tale differenziale di risorse, laperformance delle aziende di famiglia sia migliore di quella delleaziende non familiari. La gestione ottimale dell’interazione tra siste-ma famiglia e sistema impresa è infatti tutt’altro che facile da otte-nere e le imprese familiari hanno, conseguentemente, una elevataprobabilità di insuccesso legata proprio ad una interazione disfun-zionale tra famiglia ed impresa.

Tale problema, legato ai criteri di definizione delle strategie diinterazione dell’impresa con i sovra sistemi della proprietà e dellafamiglia, sarà ripreso più diffusamente nel seguito.

Prima di approfondire il tema delle strategie di interazione, siritiene opportuno sottolineare che i due profili del potere diinfluenza e della criticità delle risorse sono, a ben vedere, tra lorocollegati.

Il potere di influenza sull’impresa e la conseguente ragionevoleconfidenza di stabilità della relazione costituiscono infatti incentiviall’effettuazione di investimenti firm-specific, in risorse che favori-scono la generazione di vantaggi competitivi per l’impresa, ma nonpotrebbero trovare adeguata remunerazione in altre imprese.

Questo è un altro tassello molto importante di un modello teori-co mirato alla spiegazione del fenomeno delle aziende di famigliaquotate. La concentrazione proprietaria attribuisce un elevato pote-re di influenza alla famiglia imprenditoriale. Ciò può generare feno-meni di abuso del potere a danno dell’impresa, che è asservita agli

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interessi personali dei familiari (come avvenuto ad esempio in alcu-ni recenti scandali che hanno coinvolto imprese familiari, qualiAhold e Parmalat48). Ma quando l’interazione sistemica tra famiglia,proprietà ed impresa è canalizzata verso la ricerca della consonanzae della risonanza, la stabilità dell’influenza è un potente incentivoall’effettuazione di investimenti in risorse firm-specific, che in quan-to distintive dell’impresa possono essere all’origine di vantaggi com-petitivi durevoli. Inoltre, si deve considerare anche la continuagenerazione di opportunità di business i cui rendimenti si proietta-no nel lungo periodo e sono la fonte del rinnovamento dei vantaggicompetitivi. Tale generazione di opportunità deriva soprattutto dalpatrimonio di relazioni della famiglia imprenditoriale; è dunque unarisorsa family-specific, che viene trasferita integralmente a beneficiodell’impresa proprio in virtù della stabilità della relazione diinfluenza.

Le strategie di interazione con i sovrasistemi della famiglia e dellaproprietà sono dunque le leve attraverso la quale l’organo di gover-no dell’impresa può estrarre il potenziale di valore connesso allerisorse imprenditoriali distintive dell’azionista di controllo.

In termini generali, le strategie di interazione con i sovrasistemipossono essere poste in relazione alla criticità delle risorse ed alpotere di influenza secondo la seguente matrice49, che conduce all’i-dentificazione di quattro modelli strategici (Figura 6):

– la strategia di condivisione dei valori;– la strategia di co-evoluzione;– la strategia di miglioramento dell’efficienza intersistemica;– la strategia di ponderazione.Quando sono elevati sia il potere di influenza che la criticità delle

risorse l’impresa deve cercare di soddisfare il sovrasistema, mirando

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48 Per un’analisi di tali scandali finanziari, accompagnati da frodi contabili favorite propriodallo “strapotere decisionale” dell’azionista di controllo: GIOVANNI FIORI – RICCARDO

TISCINI (a cura di), Corporate governance, regolamentazione contabile e trasparenza del-l’informativa aziendale, Milano, Franco Angeli, 2005. In particolare, si veda il cap. 3:RICCARDO TISCINI – FRANCESCA DI DONATO, Le frodi contabili. Analisi dei casi empirici, inGIOVANNI FIORI – RICCARDO TISCINI (a cura di), Corporate governance, regolamentazionecontabile e trasparenza dell’informativa aziendale, op. cit., 2005.49 Il modello è tratto, con adattamenti che non ne modificano le conclusioni di fondo, da:SERGIO BARILE – CLAUDIO NIGRO – MARIAPINA TRUNFIO, Problematiche metodologiche perla qualificazione del modello della rilevanza dei sovrasistemi,op. cit., 2006.

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al raggiungimento di una condivisione dei valori (condizione dirisonanza).

Quando invece influenza e criticità sono bassi, la relazione con ilsovrasistema è una mera relazione di mercato, della quale va ricer-cata la massima efficienza, ma che non determina, né caratterizza,l’orientamento dell’impresa.

Quando la criticità delle risorse trasferite è alta e il potere diinfluenza è basso, l’obiettivo è ottenere i benefici della risorsamediante un strategia di co-evoluzione, come tipicamente avvienenelle joint venture strategiche (in cui non c’è un soggetto dominan-te, ma si sviluppano risorse distintive congiuntamente).

Infine, quando la criticità delle risorse è bassa e l’influenza è ele-vata, l’impresa rischia di divenire ostaggio del sovrasistema edovrebbe liberarsi da esso; poiché ciò non sempre è possibile,occorre ponderare (e quindi verosimilmente contenere) il coinvolgi-mento dell’impresa rispetto al suo sovrasistema.

Dall’applicazione di tale schema logico alle aziende di famigliaemergono una serie di considerazioni, che sono sintetizzate nellaseguente Figura 7.

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Fig. 6 - Strategie di interazione con i sovrasistemi

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Quando la famiglia non si caratterizza solo per il potere diinfluenza, in quanto azionista di controllo, ma anche per la criticitàdelle risorse distintive che investe e trasferisce nell’impresa, l’organodi governo dell’impresa deve ricercare la massima condivisione divalori con la famiglia e la proprietà. È questa la situazione più favo-revole, dalla quale nascono le grandi aziende di famiglia di successo.

In concreto, i familiari impegnati nel governo dell’impresa, con-giuntamente ai leader della famiglia, devono impostare strategiefamiliari mirate alla continuità generazionale. L’accuratezza, l’equi-librio e la razionalità delle scelte inerenti il top management costi-tuiscono il punto centrale di questa strategia. Il top managementdeve essere familiare solo se la famiglia dispone di un erede adegua-to all’incarico. Se ve ne è più di uno la decisione deve essere lo stes-so univoca, chiara e compiuta con una scelta di tempi assai delicata.Non troppo presto, per evitare di frustrare le ambizioni di chi, piùgiovane, deve ancora dimostrare il suo potenziale; non troppo tardi,per evitare demotivazione e stallo competitivo.

Se l’operazione “interna” riesce (e non avviene spesso) l’impresarimarrà competitiva pur continuando ad essere gestita da un familiare.

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Fig. 7 - Strategie di relazione con i sovrasistemi proprietà e famiglia:il caso dell’azienda di famiglia quotata

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In mancanza di un candidato adeguato al compito, di granderesponsabilità e delicatezza, di gestire una grande impresa quotatasui mercati azionari, la scelta tempestiva del reclutamento di mana-ger professionali è però l’unica via possibile.

La valorizzazione delle risorse imprenditoriali distintive puòavvenire in tal caso attraverso il coinvolgimento dei familiari nell’or-gano di governo.

La figura di maggior spicco e maggiore energia imprenditorialepotrà occupare il ruolo di presidente del CdA ed avere alcune dele-ghe, soprattutto in materia di sviluppo delle opportunità del busi-ness e di relazioni esterne50. Come si vedrà meglio in seguito, alcunedelle risorse distintive delle aziende di famiglia sono costituite pro-prio dalla reputazione, dall’immagine, dalla fiducia e dal patrimoniodi relazioni che sono risorse family-specific51. Sono risorse distintivedell’impresa, ma dipendono dalla famiglia e soltanto tramite que-st’ultima può essere estratto il loro potenziale di valore52.

Anche il coinvolgimento di altri familiari nel board è da vedersipositivamente: per rendere più efficace il monitoraggio sull’operatodel management, per alimentare il contributo di idee imprenditoria-li, per preparare le future generazioni alle sfide che li attendono.

Se tutto ciò non avviene, cioè in altre parole la famiglia è pove-ra di risorse imprenditoriali nelle nuove generazioni, l’impresa sci-vola lentamente dal quarto al primo quadrante: la transizionegenerazionale non si compie in modo corretto. Si è in questo caso

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50 Nelle aziende di famiglia quotate, il CdA è per eccellenza il luogo di composizione degliinteressi e delle competenze della famiglia e degli altri stakeholders. Si veda: GUIDO

CORBETTA – ALESSANDRO MINICHILLI, Board of directors in Italian public family-controlledcompanies, in PANIKKOS POUTZIOURIS – KOSMAS SMYRNIOS - SABINE KLEIN (Ed. by),Handbook of Research on Family Business, Cheltenhan, Edward Elgar, 2006.51 La famiglia può avere un ruolo molto importante nella costruzione della reputazione suimercati finanziari. Sul tema: PIETRO MAZZOLA – DAVIDE RAVASI – CLAUDIA GABBIONETA,How to build reputation in Financial Markets, in “Long Range Planning”, n. 4, 2006.52 Con un parallelo tra le “resources” della RBV e le “dynamic capabilities” alla Teece-Pisano-Schuen, tali risorse possono essere qualificate come capacità dinamiche familiari,poiché non sono costituite soltanto da risorse immediatamente sfruttabili, ma anche dallapotenzialità dinamica di generare nuove risorse sfruttabili in futuro (si pensi ad esempioalla rete di relazioni personali). In tal senso: CARLO SALVATO – LEIF MELIN, Dynamic familycapabilities: from social capital to intergenerational value creation, paper al convegno FamilyBusiness Research and its State of Art: the Italian Community Meets the World, Milano,Bocconi, 2007.

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nel classico esempio di società a controllo familiare in cui perònon si ravvisa un contributo distintivo della famiglia in termini dirisorse imprenditoriali.

La famiglia in questo caso deve ponderare il “passo indietro”. Il potere di influenza collegato al controllo azionario, unito al

persistente coinvolgimento (evidentemente non neutro) in ruoli digoverno, può frustrare le ambizioni del management e generareconflittualità nell’organo di governo, che se prolungata genera ildecadimento competitivo.

Le famiglie imprenditoriali in questa situazione sono le miglio-ri candidate alla cessione del controllo. Poiché la famiglia non tra-sferisce all’impresa risorse imprenditoriali distintive, la cessionedel controllo favorisce la ripresa di percorsi di creazione di valo-re53. È probabile, al contrario, che il mantenimento del controllosia premessa per il declino, non solo in relazione alla difficoltà dimotivare e fidelizzare il management migliore, ma anche per lascarsa attrattività sul mercato del capitale di rischio. Si consideri,inoltre, che il vincolo del controllo impone limiti agli aumenti dicapitale, che sono tarati sulla possibilità di finanziamento dellafamiglia, privando l’impresa di risorse finanziarie per lo sviluppo.

Le strategie dei quadranti bassi della matrice riguardano inve-ce, principalmente, l’interazione con il sistema della proprietà nonfamiliare e con il management.

Sotto il primo profilo, si tratta di una relazione di mercato aven-te ad oggetto il capitale di rischio. Il sovrasistema della proprietànon familiare è tenuto distinto da quello della proprietà familiarein quanto assai diverso per articolazione ed interessi. Le attese delsovrasistema della proprietà non familiare devono essere soddisfat-te soprattutto in termini di combinazione rendimento/rischioofferta. La redditività del capitale, unita al controllo strategico delrischio ed alla trasparenza nella governance sono i presupposti percontinuare ad attrarre capitali e finanziare lo sviluppo.

La relazione con il management è funzione delle scelte digoverno della famiglia. Le aziende che risolvono il problema del-l’interazione tra sistema famiglia e sistema impresa sono più attrat-

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53 CARLO SALVATO – FRANCESCO CHIRICO – PRAMODITA SHARMA, Le strategie di uscita dalbusiness nelle imprese familiari, Convegno Annuale AIDEA, Milano, 2007.

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tive per il management di buona qualità e sono quindi in una posi-zione migliore per motivarlo e fidelizzarlo. Vi sono esempi dimanager rimasti per anni fedeli alla famiglia di controllo, mante-nendo sempre l’impresa ad un ottimo livello di competitività54.

La famiglia che sia scivolata in un controllo societario ostinatoanche in assenza di risorse imprenditoriali adeguate diviene al con-trario poco attrattiva per i migliori manager. In tal caso, anche ilmanagement finisce per non essere più portatore di risorse critichee il declino è inevitabile.

* * *

Ad avviso di chi scrive, la visione dell’impresa come sistema daun contributo importante alla comprensione del fenomeno delleaziende di famiglia quotate, in quanto consente di valutarne, sia inchiave positiva che in chiave normativa, la complessità dei rapportiesistenti tra la proprietà familiare, la proprietà non familiare, lafamiglia e l’impresa.

Inoltre, la visione sistemica si integra perfettamente con la dina-micità di tali rapporti. Un sistema ed il suo ambiente sono in conti-nua evoluzione, proprio come i rapporti e le caratteristiche dellaproprietà, della famiglia e dell’impresa.

In tal senso, le strategie presentate nel presente paragrafo nonvanno intese come rigide e irreversibili, ma contingenti al mutaredelle variabili di riferimento. Il cambiamento di una strategia haovviamente dei costi, ma se è necessario per garantire la continuitàe la competitività dell’azienda i suoi benefici (soprattutto in terminidi mancato declino) saranno con ogni probabilità di gran lungasuperiori.

La tabella 1 che segue riepiloga alcune delle differenze principa-li tra la visione dell’impresa come sistema e quella dell’impresacome nesso di contratti (propria della teoria dell’agenzia e dellealtre teorie contrattualiste), nella prospettiva specifica dello studiodelle interazioni tra proprietà, famiglia ed impresa.

126 Le aziende di famiglia “quotate”

54 Peraltro, il management fidelizzato alle famiglie imprenditoriali acquisisce spesso unospiccato senso imprenditoriale. Si pensi ad esempio a Favrin, per un’intera vita lavorativacon la famiglia Marzotto e poi, recentemente, imprenditore in proprio.

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Tra i profili che maggiormente caratterizzano le aziende di fami-glia di successo vi sono la longevità e la stabilità del rapporto tral’impresa e la famiglia.

È per questo che le aziende di famiglia trovano nella teoria deisistemi un quadro concettuale in grado di ben spiegarne alcuni mec-canismi tipici, che non sono invece adeguatamente colti da teoriebasate sull’impresa come nesso di contratti.

Un sistema è per sua natura destinato a durare indefinitamente etrova nelle relazioni che si instaurano tra le sue parti e con altri siste-mi la sua sostanza economica ed istituzionale. Il sistema aziendale èun qualcosa di ulteriore rispetto alle sue parti, che si sostanzia edacquisisce valore nell’interrelazione delle parti stesse.

In tal senso, non è un insieme, o un’accolta55, di elementi.La visione del nesso di contratti è invece fondata sull’insieme

degli elementi; il focus è sugli elementi, più che sulle relazioni. Ecomunque le relazioni sono viste nei loro effetti uti singuli (relazio-ni principale-agente) e non come sistema.

Conseguentemente, la logica decisionale nelle impostazioni con-trattualiste è una logica soggettiva, cioè riferita a specifici individuio a gruppi omogenei di individui, che perseguendo la loro utilitàinfluenzano la vita dell’azienda (e se ne costituiscono il soggettoeconomico imprimono l’orientamento verso la finalità).

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55 “L’azienda non è una massa dissociata, non è una accolta, non un accostamento tempo-raneo di fattori e di fenomeni disgiunti” (GINO ZAPPA, Le produzioni nell’economia delleimprese, Milano, Giuffrè, 1956, p. 37).

Tabella 1 - ?????????????????????

Relazioni Impresa - Proprietà Teoria dell’agenzia Teoria sistemicaConcezione dell'impresa Nesso di contratti Sistema produttivoUnità di analisi Relazioni contrattuali Interazioni tra sistemiOrizzonte temporale Durata dei rapporti Tendenzialmente

contrattuali indefinitoLogica decisionale Soggettiva SistemicaProspettiva di analisi dei soggetti Uniforme e Sistemi sociali

spersonalizzataOggetto delle relazioni Beni valutabili Risorse

(contrattabili)

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Al contrario, la logica sistemica considera l’impresa come un’isti-tuzione autonoma che persegue fini suoi propri, anche se nel fareciò deve ottimizzare le relazioni con tutti i soggetti, compreso il sog-getto di comando, ed anche se tale soggetto di comando prende, peril tramite dell’organo di governo, le decisioni di massima importan-za per la vita dell’impresa.

In tal senso, il successo delle aziende di famiglia quotate nondipende dal perseguimento di una funzione di utilità propria delsoggetto di controllo, ma da una visione del sistema aziendale comeentità autonoma destinata a perdurare. La cessione del controllo daparte della famiglia si palesa a volte la soluzione migliore, ancorchépossa non massimizzare la (peraltro complessa) funzione di utilitàdel soggetto economico. Ciò avviene, ad esempio, quando il sogget-to di comando estrae tramite il controllo benefici privati distrattivie distorsivi.

Le teorie contrattualistiche stilizzano i comportamenti dei sin-goli soggetti, spersonalizzandoli ed inquadrandoli in categorie disoggetti omogenei. Le teorie basate sui sistemi riconoscono inveceil carattere sociale del sistema aziendale e tendono ad evitare stiliz-zazioni eccessive dei comportamenti, che vengono piuttosto analiz-zati in una prospettiva contingente, di volta in volta influenzatadalle variabili sociali cui il sistema e le persone che vi operano sonoesposti.

Ad esempio la teoria dell’agenzia vede gli azionisti come unacategoria uniforme di soggetti, mentre possono esservi significatividisallineamenti di interessi all’interno del complessivo sistema dellaproprietà (non solo tra azionisti familiari e minoranze, ma ancheall’interno della stessa famiglia). L’approccio della gestione strategi-ca dell’interazione sistemica coglie l’ampio spettro di possibili solu-zioni di volta in volta ottimizzanti, più di quanto non faccia lo stiliz-zato modello contrattuale principale-agente.

Infine, le teorie contrattualiste spiegano le relazioni in cui ogget-to di scambio è un bene o una risorsa identificabile e valutabile, cioèpassibile di essere contrattualizzata. Le teorie dei contratti incom-pleti (quale ad esempio quella dei contratti relazionali56) tendono a

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56 GEORGE BAKER – ROBERT GIBBONS – KEVIN MURPHY, Relational contracts and the theo-ry of the firm, op. cit., 2002.

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rimuovere questa limitazione, riferendosi a relazioni di lungo perio-do in cui non tutte le circostanze sono definibili (e quindi contrat-tualizzabili) ex ante.

La teoria dell’impresa come sistema è tuttavia ontologicamentepiù adatta a rappresentare una relazione (quella tra impresa e fami-glia proprietaria) nella quale i flussi di scambio comprendono perlarga parte risorse e benefici non facilmente valutabili ex ante (iltalento imprenditoriale che genera future opportunità di businessoppure i benefici non pecuniari derivanti dallo status sociale).

In conclusione, la teoria sistemica dell’impresa consente di spie-gare la persistenza delle grandi aziende di famiglia quotate, rispettoal modello della piena separazione tra proprietà e controllo, in ter-mini di analisi comparativa tra l’impresa ed il suo sovrasistema dimaggiore rilevanza (cioè quello del soggetto economico). In altreparole, il confronto è tra:

– la relazione del sistema impresa con il sovrasistema della pro-prietà familiare, nelle aziende di famiglia;

– la relazione del sistema impresa con il sovrasistema del mana-gement, nelle public company.

Nell’ambito di tale relazione, deve essere ricercata la condizionedi massima armonia e condivisione di intenti (risonanza) tra l’impre-sa ed il sistema del soggetto che detiene il potere di controllo del-l’impresa, cioè il soggetto economico.

In relazione al potere di influenza ed alla criticità delle risorseapportate, la ricerca delle condizioni di risonanza tra impresa e fami-glia di controllo è più agevole che non tra impresa e management.

La principale spiegazione risiede nella congruenza naturale, nelprimo caso, del vettore degli interessi perseguiti dal sistema impre-sa e dal sistema famiglia, che trova un denominatore comune nellasopravvivenza di lungo periodo dell’impresa in condizioni di econo-micità (cioè di creazione di valore). In ultima analisi, tale congruen-za è dovuta al fatto che l’orizzonte temporale delle decisioni, perentrambi i sistemi, è indefinitamente proiettato nel lungo periodo.

Questa stessa circostanza dovrebbe costituire un incentivo allalimitazione dell’estrazione di benefici privati distrattivi e distorsivida parte del soggetto di controllo. Nel primo caso perché potrebbe-ro nel lungo termine danneggiare la capacità dell’impresa di attrar-re capitali di rischio, comportando una distruzione di valore (o una

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perdita di opportunità) maggiore dei benefici privati estratti.Occorre infatti notare che i benefici privati distrattivi riallocano unaquota di remunerazione dagli azionisti di minoranza al soggettocontrollante, ma la perdita di opportunità conseguente alla sfiduciadel mercato azionario incide sul valore totale delle remunerazioni(cioè sul valore d’impresa) e può avere effetti molto pesanti Inoltre,la valutazione degli effetti dei benefici privati del controllo sugliazionisti di minoranza non familiari dovrebbe essere complessiva ecomprendere anche gli effetti positivi dei benefici privati del con-trollo idiosincratici (quelli ‘buoni’), che comportano un incrementodel valore d’impresa.

Diversamente, nel caso della relazione tra impresa e manage-ment, l’allineamento degli interessi non è naturale. In primo luogo,come è noto dalla letteratura manageriale e dalla letteratura econo-mica sulla teoria dell’agenzia, in quanto il management ha un vetto-re di interessi poco congruente con quello dell’impresa (remunera-zione e prestigio personale da un lato, sopravvivenza e creazione divalore dall’altro). Ma anche qualora opportuni contratti di incenti-vo allineino tali interessi, rimane un disallineamento nell’orizzontetemporale: il management ha un orizzonte temporale limitato allasua aspettativa di permanenza nell’impresa; l’impresa, invece, èdestinata a perdurare indefinitamente.

In presenza di mercati finanziari non perfettamente efficienti, leremunerazioni basate sulle azioni non raggiungono lo scopo di alli-neare gli orizzonti temporali delle decisioni, perché il prezzo delleazioni non riesce ad incorporare tutte le informazioni riferite allungo periodo57, tra le quali principalmente le opportunità di busi-ness futuro non ancora sfruttate. Se il mercato non prezza taliopportunità, il manager (ancorché titolare di azioni) ne prescinderànelle sue scelte, manifestando quindi un orizzonte temporale delledecisioni inferiore a quello che il carattere sistemico e durevole del-l’azienda richiederebbe.

In sintesi, il modello proprietario dell’azienda di famiglia quota-ta sui mercati azionari presenta, nel caso in cui si ottengano le con-

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57 È il problema del noto short-termism dei mercati finanziari. Ad esempio si veda, inproposito, per un modello analitico: ANDREI SHLEIFER – ROBERT VISHNY, Equilibrium shorthorizons of investors and firms, in “American Economic Review”, n. 2, 1990.

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dizioni di risonanza tra sistemi, un potenziale addizionale di crea-zione di valore rispetto alla public company, derivante dall’orienta-mento al lungo periodo. Lo stesso potrebbe dirsi rispetto ad altreforme di controllo societario diffuse nell’economia moderna, qualiquelle del private equity o delle coalizioni temporanee.

È però necessario riconoscere che, nel caso in cui non si ottenga-no le condizioni di risonanza tra i sistemi, la proprietà familiare puògenerare essa stessa problemi di continuità dell’impresa, determi-nando un accorciamento dell’orizzonte temporale delle decisionidell’organo di governo dell’impresa ed effetti molto negativi in ter-mini di sopravvivenza e creazione di valore.

Ne deriva l’ulteriore proposizione secondo la quale il successodelle aziende di famiglia quotate e lo sfruttamento del loro poten-ziale di creazione di valore dipende dal successo della strategia digestione della relazione intersistemica tra famiglia ed impresa,secondo quanto ampiamente illustrato nei precedenti paragrafi.

Per dare contenuti concreti all’approccio teorico proposto,rimangono ora da approfondire le modalità con le quali le dimensio-ni risorse critiche e potere di influenza producono effetti sullasopravvivenza dell’impresa e sui suoi processi di creazione di valore.

In altre parole, si tratta di rispondere ai seguenti quesiti:– qual è il ruolo del potere di influenza della famiglia? Come

contribuisce alla generazione delle risorse critiche?– quali sono le risorse critiche distintive che la famiglia mette a

disposizione dell’impresa? come esse contribuiscono al van-taggio competitivo? Come si accumulano e si rinnovano neltempo?

Nei capitoli seguenti, si analizzeranno gli effetti del potere diinfluenza della proprietà familiare attraverso la lente delle teoriedella valutazione d’impresa e la generazione di risorse critiche nellaprospettiva della “resource based view”.

L’ipotesi teorica alla base del lavoro è che, in ultima analisi, i van-taggi che le aziende di famiglia possono estrarre dalla condizione dirisonanza con il sistema della proprietà familiare derivano dalladurata e dalla stabilità della relazione esistente.

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CAPITOLO IV

Gli effetti della relazione sistemica tra impresa eproprietà familiare: risorse familiari,

stabilità del controllo e valore d’impresa

4.1. La relazione tra famiglia proprietaria e impresa in una prospet-tiva “resource based”: la letteratura

Negli ultimi anni la letteratura di management sul family businessha accostato la prospettiva di analisi dei sistemi proprietà, famigliaed impresa al filone di studi della “resource based view”.

L’interazione tra proprietà, famiglia ed impresa crea, se ben gesti-ta, condizioni sistemiche distintive che generano effetti positivi sul-l’azienda di famiglia come sistema sociale. Questo effetto sistemicodella famiglia può essere spiegato tramite l’analisi delle risorse edelle capacità dell’organizzazione1.

La “resource based view” (RBV) è un approccio degli studi distrategia alla teoria dell’impresa, secondo il quale l’origine del van-taggio competitivo risiede nella disponibilità e nella capacità disfruttare un fascio di risorse distintivo2, cioè difficilmente imitabilee sostituibile.

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1 TIMOTHY HABBERSHON – MARY WILLIAMS, A resource-based framework for assessing thestrategic advantages of family firms, in “Family Business Review”, n. 1, 1999.2 Il lavoro seminale per l’approccio alla’impresa basato sulle risorse può essere considera-to quello di Wernerfelt: BIRGER WERNERFELT, A Resource Based View of the Firm, in“Strategic Management Journal”, n.5/1984.La teoria si è poi rapidamente sviluppata con una serie di ulteriori importanti contributi. Trai primi si segnalano: RICHARD RUMELT, Toward a Strategic Theory of the Firm, in ROBERT

LAMB, Competitive Strategic Management, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1984; JAY

BARNEY, Firm Resources and Sustained Competitive Advantage, in “Journal of Management”,n. 17, 1991; INGEMAR DIERICKX – K. COOL, Asset Stock Accumulation and Sustainability ofCompetitive Advantage, in “Management Science”, n.35/1989; ROBERT GRANT, TheResource-Based View of Competitive Advantage: Implication for Strategy Formulation, in“California Management Journal”, spring, 1991; RAPHAEL AMIT – P.J. SCHOEMAKER,Strategic Assets and Organizational Rent, in “Strategic Management Journal”, n. 1/1993.

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Tali risorse sono essenzialmente di tipo immateriale: marchi, rela-zioni con i clienti, know how tecnologico, conoscenze del capitaleumano, competenze manageriali ed ovviamente molto altro.

Il punto centrale della teoria è che tramite la generazione, losfruttamento ed il rinnovamento di tali risorse si possono sostenerenel medio-lungo termine, grazie ai vantaggi competitivi generati,profitti superiori alla media (rendite).

Dal punto di vista economico, le rendite basate su risorse nonimitabili e non sostituibili sono di tipo ricardiano. Essendo stretta-mente legata alla scarsità delle risorse, tale tipo di rendita può dura-re nel lungo termine3.

Nell’impostazione originaria, le risorse sono distintive soprattut-to in quanto rare, inimitabili4 e generate da un’organizzazione orien-tata alla loro valorizzazione (anche tramite la creazione di barriereall’imitazione)5. Il modello di condotta strategica è quindi fondatosui “rendimenti organizzativi”, in quanto i sovraredditi sono attri-buibili alle capacità di sviluppare, sfruttare e proteggere, tramiteopportuni meccanismi di isolamento, le risorse distintive6.

Studi successivi hanno completato il quadro teorico dellaResource Based View, ricercando un modello interpretativo ingrado di cogliere pienamente le fonti dei rendimenti eccedenti ditipo “schumpeteriano”, legate non tanto alla naturale esclusivitàdelle risorse possedute quanto alla loro innovatività7.

Secondo l’impostazione delle “dynamic capabilities” di Teece,Pisano e Schuen, che costituisce un ponte concettuale con il filonedelle teorie evolutive8, il vantaggio competitivo e la creazione di ric-

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3 DAVID RICARDO, Principles of Political Economy, Cambridge University Press, Cambridge, 1812.4 Secondo Barney, ciò è possibile se le risorse sono “valuable”, cioè strategicamente impor-tanti, rare, imperfettamente imitabili e non sostituibili (JAY BARNEY, Firm Resources andSustained Competitive Advantage, op. cit., n. 17, 1991).5 Si tratta, in tal senso, di un patrimonio allargato di risorse, che ricomprende le competen-ze delle persone, dell’organizzazione, le risorse di fiducia ecc. (VITTORIO CODA, Il proble-ma della valutazione della strategia, in A. GOZZI (a cura di), La definizione e la valutazionedella strategia aziendale, Milano, Etas, 1991).6 “Organizational Rent” è l’espressione utilizzata da Amit e Schoemaker (RAPHAEL AMIT –P.J. SCHOEMAKER, Strategic Assets and Organizational Rent, op. cit., 1993).7 JOSEPH SCHUMPETER, The Theory of Economic Development, Oxford University Press,Oxford, 1912.8 Il lavoro fondativo di tale teoria è: RICHARD NELSON – SIDNEY WINTER, An EvolutionaryTheory of Economic Change, Cambridge, Harvard University Press, 1982.

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chezza in ambienti caratterizzati da rapidi cambiamenti si fondanosu capacità tecnologiche, organizzative e manageriali in grado digarantire un continuo rinnovamento delle risorse distintive sfrutta-te ed una costante ed efficace analisi delle nuove opportunità dibusiness che l’ambiente offre9. Tali capacità sono dette “dinamiche”in quanto costituite da competenze diffuse all’interno dei processiorganizzativi e manageriali, che consentono all’impresa di seguiresentieri coerenti di continua innovazione. Esse non sono legate aspecifiche risorse, ma ne generano sempre di nuove, in un processodinamico di ricerca dell’incontro ottimale tra azienda ed ambiente.

Nell’approccio basato sulle risorse, il vantaggio competitivo puòpertanto originarsi:

– dalla capacità di proteggere i benefici di risorse idiosincratiche,cioè specifiche dell’impresa e non disponibili ai concorrenti;

– dalla capacità dinamica di rinnovare tali risorse idiosincratiche.Habbershon e Williams sono stati tra i primi ad applicare alle

aziende di famiglia la prospettiva di analisi strategica della RBV,facendo riferimento al concetto di ‘familiness’ dell’impresa come alfascio di risorse e capacità idiosincratiche derivanti dall’interazionetra i sistemi della famiglia proprietaria e dell’impresa10.

Quest’approccio andava nella direzione di colmare una impor-tante lacuna che era stata evidenziata negli studi sulle aziende difamiglia: l’attenzione ai modelli di management strategico11.All’approfondimento delle relazioni famiglia-proprietà-impresa nonsi erano accompagnate sufficienti analisi sulle modalità con le qualidall’interazione tra i sistemi, nell’ambito di un processo di manage-ment strategico, scaturissero i vantaggi competitivi (o gli svantaggicompetitivi) delle aziende di famiglia.

La strategia impresa-famiglia era stata vista come un processomirato a contemperare gli interessi concorrenti della famiglia e del-

135Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

9 Si fa riferimento, ovviamente, al celebre articolo: DAVID TEECE – GARY PISANO – AMY

SCHUEN, Dynamic Capabilities and Strategic Management, in “Strategic ManagementJournal”, n. 7, 1997.10 TIMOTHY HABBERSHON – MARY WILLIAMS, A resource-based framework for assessing thestrategic advantages of family firms, op. cit., n. 1, 1999.11 PRAMODITA SHARMA – JAMES CHRISMAN – JESS CHUA, Strategic management of the fami-ly business: past research and future challenges, in “Family Business Review”, n. 1, 1997.

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l’impresa12, più che a estrarre dalla relazione il massimo valore possi-bile facendo leva sulle risorse distintive e sulle sinergie realizzabili.

In un interessante successivo articolo, Habbershon et al. svilup-pano il filone di studi proponendo un approccio unificato all’inte-razione tra i diversi sistemi, analizzandone la trasmissione deglieffetti sulla performance dell’impresa13. Essi definiscono l’“enterpri-sing families system” (cioè il sistema delle famiglie che fanno impre-sa) come un meta-sistema sociale composto da tre sottosistemi: 1) lafamiglia di controllo; 2) l’azienda di famiglia; 3) i singoli familiaricoinvolti nell’impresa.

L’impresa è l’unità generatrice di ricchezza; la famiglia rappre-senta la storia, le tradizioni e l’unità che agisce da collante nellegenerazioni; i singoli familiari sono di volta in volta portatori di inte-ressi e competenze specifiche. Tra tali sottosistemi si realizzano pro-cessi continui e circolari di interazione e di feed-back, che generanorisorse e capacità idiosincratiche per il metasistema. Ogni sottosiste-ma produce dei risultati, che possono avere un valore strategico peraltri sottosistemi e quindi per il metasistema, il quale viene quindiad avere una funzione di utilità sua propria, composta da una seriedi variabili che influenzano positivamente il valore del metasistemaattraverso le generazioni e sono all’origine dei vantaggi competitivi:le risorse e le capacità che costituiscono la “distinctive familiness”(familiarità distintiva)14.

Ovviamente, l’effetto di tali sub-sistemi può anche essere negati-vo, generando vincoli alla competitività del metasistema. Gli autorihanno parlato, in questo caso, di “constrinctive familiness” (familia-rità vincolante).

Coerentemente con la RBV, tali risorse e competenze sono diffi-cili da imitare o da sostituire, in quanto promanano specificamente

136 Le aziende di famiglia “quotate”

12 RANDEL CARLOCK – JOHN WARD, Strategic planning for the family business: parallel plan-ning to unify the family and the business, New York, Palgrave, 2001. Si veda anche: JOHN

WARD, Keeping the family business healthy. How to plan for continuing growth, profitabili-ty and family leadership, San Francisco, Jossey-Bass, 1987.13 TIMOTHY HABBERSHON – MARY WILLIAMS – IAN MACMILLAN, A unified systems perspec-tive of family firm performance, in “Journal of Business Venturing”, july, 2003.14 In generale, l’effetto delle risorse e delle capacità dei singoli sub-sistemi e chiamato “f-factor”. TIMOTHY HABBERSHON – MARY WILLIAMS – IAN MACMILLAN, A unified systemsperspective of family firm performance, in op. cit., 2003.

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dalla famiglia e non potrebbero esplicare i loro effetti in capo ad undiverso soggetto economico.

Gli studi successivi del filone della RBV applicata alle aziende difamiglia hanno cercato di individuare quali in concreto siano le risor-se e le competenze all’origine della familiarità distintiva (o vincolante).

Per quanto riguarda l’effetto finale della “familiarità”, la lettera-tura non ha posizioni univoche, anche se è riscontrabile una semprepiù diffusa tendenza a sottolinearne i vantaggi complessivi.

Ad esempio, Sirmon e Hitt identificano cinque forme di risorseche l’azienda di famiglia genera e sfrutta in maniera caratteristica: ilcapitale umano, il capitale sociale, il capitale di sopravvivenza15, ilcapitale paziente e le strutture di governo. Su alcuni versanti (qualiad esempio la capacità di attrarre capitale umano o la capacità disopravvivenza in presenza di gravi conflitti familiari) ci sono signifi-cativi problemi, ma complessivamente le caratteristiche differenzia-li delle aziende di famiglia sembrano contribuire positivamente allagenerazione del vantaggio competitivo16.

Tale vantaggio è stato messo in relazione anche con la maggiorecapacità di trasferire conoscenza tacita di generazione in generazio-ne, rispetto alle imprese non familiari17.

Non mancano in verità posizioni, anche autorevoli, maggiormen-te critiche. Barney et al. sostengono che i legami familiari affievoli-scono la capacità di creare altri legami sociali e difficilmente gene-rano risorse distintive. Tuttavia, essi possono contribuire favorevol-mente all’identificazione delle opportunità di business poiché ifamiliari sono soliti scambiare più apertamente informazioni, ancheriservate, tra loro18.

137Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

15 Si tratta di risorse patrimoniali della famiglia che possono essere impiegate a beneficiodella continuità dell’impresa in caso di necessità.16 DAVID SIRMON – MICHAEL HITT, Managing resources: linking unique resources, managementand wealth creation in family firms, in “Entrepreneurship Theory and Practice”, n. 4, 2003.17 Si veda: KATIUSKA CABRERA-SUAREZ – P. DE SAA-PEREZ – D. GARCIA ALMEIDA, The suc-cession process from a resource- and knowledge-based view of the family firm, in “FamilyBusiness Review”, n. 1, 2001; LLOYD STEIER, Next generation entrepreneurs and succession:an exploratory study of modes and means of managing social capital, in “Family BusinessReview”, n. 2, 2001.18 JAY BARNEY – C. CLARK – S. ALVAREZ, Where does entrepreneurship come from: networkmodels of opportunity recognition and resource acquisition with application to the family firm,Paper presentato alla “Theories of the Family Enterprise Conference”, Philadelphia, 2002.

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Altri autori hanno sottolineato come l’approccio resource-basedfondato sulla ricerca di vantaggi competitivi di natura economica siaparziale, in quanto i titolari di aziende di famiglia di grandi dimen-sioni hanno la percezione di una serie di responsabilità ed obblighidi natura etica, sociale ed ambientale che ne influenzano decisioni ecomportamenti19.

Recentemente, Dyer ha proposto un interessante modello di ana-lisi mirato ad isolare l’effetto della famiglia da quello di variabilidiverse, ancorché collegate alla famiglia20. Ad esempio, molte anali-si mirate a verificare se la performance delle imprese familiari siasuperiore o inferiore a quella delle imprese non familiari incorpora-no nel modello variabili quali la posizione del fondatore o la con-centrazione della proprietà in capo alla famiglia. Non vi è dubbioche la famiglia influenzi tali variabili, ma esse non misurano inmaniera pulita l’”effetto familiarità”, bensì piuttosto l’effetto “fon-datore” o l’“effetto concentrazione proprietaria”.

Nel modello di Dyer, i drivers familiari della performance sonoisolati secondo lo schema che segue, distinguendo tra quelli ascrivi-bili alla relazione di agenzia tra proprietà e management e quelliascrivibili alle risorse (con accezione attiva o passiva) derivanti dallasfera familiare. (Tabella 1)

138 Le aziende di famiglia “quotate”

Tabella 1 - “Drivers familiari” della performance aziendale

Fattori di miglioramento della performance Fattori di peggioramento della performance

Minori costi di agenzia Maggiori costi di agenzia

Allineamento di interessi proprietà-management Conflitti di interessi tra familiariFiducia e valori condivisi tra familiari Opportunismo, "shirking", adverse selection

per altruismo

"Attività" familiari "Passività" familiari

Capitale umano: formazione, competenze, Capitale umano: carenza di competenze, abilitàflessibilità, motivazione e formazione per esperienze circoscritte, carenza di talentoCapitale sociale: relazioni personali con stakeholders che Capitale sociale: Sfiducia degli stakeholders in caso digenerano goodwill "amoral familism"Capitale sociale: immagine positiva del marchio di Capitale sociale: Immagine negativa da conflitti in famigliafamigliaCapitale fisico e finanziario: beni di famiglia possono Capitale fisico e finanziario: utilizzo privato di benisupportare l'impresa dell'impresa

19 JAMES CHRISMAN – JESS CHUA – SHAKER ZAHRA, Creating wealth in family firms throughmanaging resources, in “Entrepreneurship theory and practice”, n. 2, 2003.

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Non tutte le variabili elencate sono ugualmente applicabili alleaziende di famiglia quotate.

Tuttavia, il modello evidenzia il duplice riflesso della familiaritàsulla performance dell’impresa. La famiglia può assumere compor-tamenti virtuosi ed apportare il suo patrimonio di relazioni e valori,incrementando la performance; o può assumere comportamentiviziosi, drenando risorse e frenando la performance aziendale.

Incrociando le dimensioni dello schema che precede, Dyer iden-tifica quattro tipologie di aziende di famiglia:

– “Clan”, con bassi costi di agenzia e alte “attività” familiari;– “Professional”, con alti costi di agenzia e alte “attività” familiari;– “Mom & Pop”, con bassi costi di agenzia e alte “passività”

familiari;– “Self-interested”, con alti costi di agenzia e alte “passività”

familiari.Anche se la classificazione non è strettamente legata alla variabi-

le dimensionale, il modello più rappresentativo dell’azienda di fami-glia di medio-grande dimensione a capitale aperto è senza dubbio laseconda. Nella tipologia “professional”, i costi di agenzia sononecessariamente alti perché le organizzazioni complesse di grandedimensione richiedono sistemi di controllo interno e di gestionecostosi21. In tal modo però si ottiene il duplice vantaggio di monito-rare efficacemente il management professionale cui è affidata lagestione dell’impresa, ma anche i comportamenti opportunistici deifamiliari, che devono pertanto adeguarsi ad un codice di condottadi tipo professionale.

In tal modo possono ottenersi i benefici derivanti dai valori fami-liari, come nella tipologia dell’impresa “clan”22, ad un prezzo (i costidi agenzia in termini di sistemi di controllo) che, ad avviso di chiscrive, l’azienda avrebbe comunque dovuto sostenere in conseguen-

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20 GIBB DYER, Examining the “Family Effect” on firm performance, in “Family BusinessReview”, n. 2, 2001.21 La dimensione e la complessità aziendale comportano una naturale crescita dei costi deisistemi informativi e di controllo interno. Sul tema: LUCIANO MARCHI, Revisione azienda-le e sistemi di controllo interno, Milano, Giuffrè, 2004; LUCIANO MARCHI, I sistemi infor-mativi aziendali, Milano, Giuffrè, 2003. 22 Sulla logica di “clan” nelle imprese familiari: PIERO MASTROBERARDINO, Significato eruolo dei clan familiari nel governo dell’impresa, Padova, Cedam, 1996.

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za della sua dimensione, a prescindere dalla proprietà familiare.È questo il modello di grande impresa a controllo familiare che

ottimizza gli effetti della “familiarità” in termini di performance.Recentemente, Salvato e Melin, anche sulla base di una indagine

empirica, hanno sostenuto come i vantaggi competitivi delle impre-se familiari non derivino tanto da possesso di risorse uniche, madalla capacità della famiglia di rinnovare continuamente le risorsefonte del vantaggio competitivo attraverso la riconfigurazione delleinterazioni sociali, rispetto all’evoluzione dell’ambiente esterno23. Sitratta di una prospettiva molto simile a quella à la Teece, Pisano eSchuen, che gli autori chiamano “capacità familiari dinamiche”.

4.2. Famiglia proprietaria e risorse distintive: un modello di ana-lisi nella prospettiva del valore dell’impresa

Gli studi sulla performance delle aziende di famiglia (piccole e gran-di, quotate e non) non sono ancora pervenuti a modelli teorici la cuicapacità esplicativa della realtà sia scientificamente condivisa, néhanno fornito evidenze empiriche uniformi.

Ad avviso di chi scrive, ciò è dovuto da un lato al fatto che il filo-ne di studi è giovane e la ricerca deve ancora esprimere tutte le suepotenzialità, dall’altro al fatto che la “familiarità” in sé non connotapositivamente o negativamente la performance aziendale, ma intro-duce tra le determinanti della performance l’ulteriore profilo dellarelazione proprietà familiare-impresa, che in relazione alla strategiadi gestione può agire da motore o da freno della performance24.

Sulla base della letteratura esistente e dell’osservazione dellarealtà è possibile identificare i principali effetti differenziali che laproprietà familiare produce sulla performance, identificata a questifini con il valore dell’impresa (non approfondendo pertanto le pro-blematiche relative alla performance di natura extra-economica).

140 Le aziende di famiglia “quotate”

23 CARLO SALVATO – LEIF MELIN, Dynamic family capabilities: from social capital to interge-nerational value creation, paper al convegno Family Business Research and its State of Art:the Italian Community Meets the World, Milano, Bocconi, 2007.24 In tal senso, con espressioni simili: DANIELA MONTEMERLO, La proprietà familiare: moto-re per la crescita o impianto frenante?, in GUIDO CORBETTA (a cura di), Capaci di crescere.L’impresa italiana e la sfida della dimensione, Milano, Egea, 2005.

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In tal modo possono essere individuate le risorse critiche sullequali far leva per trarre dalla relazione con il sistema della proprietàfamiliare il massimo risultato in termini di economicità.

Il modello di analisi può essere sintetizzato nella Tabella 2.Le finalità sono funzione dell’approccio comportamentale di

fondo della famiglia imprenditoriale.Comportamenti ispirati dai meri interessi familiari e dall’estra-

zione di benefici privati a danno degli azionisti di minoranza sonopatologici e non funzionali alla sopravvivenza duratura dell’impre-sa. Essi diminuiscono generalmente di frequenza all’aumentaredella storia, della dimensione e della rilevanza sociale dell’impresastessa, mentre sono relativamente diffusi nelle imprese a proprietàfamiliare ancora non molto grandi, di prima generazione, spessogovernate dal fondatore.

L’allineamento degli interessi, l’obiettivo della sopravvivenza digenerazione in generazione e l’attaccamento emozionale all’impresasono invece fenomeni strutturali, che si riscontrano in tutte leimprese familiari, siano esse giovani o caratterizzate da lunga storiae tradizione25.

141Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

25 Rimangono fuori dalla categoria delle imprese familiari, invece, le società a proprietàconcentrata di cui siano titolari del controllo persone fisiche, in cui però non sia ancorachiaro l’intento di trasferire l’impresa alle generazioni successive. L’intento potenzialmente

Tabella 2 - Aziende di Famiglia quotate: Risorse Distintive e valore d’impresa

Dimensione Creazione di valore Distruzione di valoreFinalità Allineamento di interessi Interessi familiari

Attaccamento emozionale Benefici privati (stealing, shirking)Imprenditorialità Minore avversione al rischio

Maggiori opportunità di business Scarsa dinamicità (focus sul business)Orizzonte temporale di lungo periodo

Governance Migliore controllo del management esterno Eccessiva discrezionalità del CEO familiareCondivisione valori e fiducia Problemi nella successione generazionale

Controllo debole del CEO familiareManagement Stewardship del management esterno (fiducia) Adverse selection (scarsa attrattività)

Adverse selection (management familiare)Capitale finanziario Capitale paziente Carenza di capitali per lo sviluppo

Capitale di sopravvivenza Sfruttamento delle minoranze (benefici privati)Capitale umano Condivisione valori/Comunità Gestioni padronali demotivanti (PMI)

Maggiori investimentiCapitale relazionale Fiducia Conflitti tra familiari

Contatti e relazioni personali Diluizione per deriva generazionaleFamily brand

Capitale organizzativo Ridotta burocrazia/informalità Minore rigore proceduraleSnellezza decisionale Controlli deboli

Capitale tecnologico Investimenti nel lungo periodo Minore dinamicità

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Il profilo dell’imprenditorialità è quello in cui la proprietà fami-liare è portatrice delle risorse distintive di maggior valore.

La famiglia intende trasferire l’azienda di generazione in genera-zione e, in relazione a tale finalità, mantiene il controllo dell’impre-sa in maniera tale da non renderla contendibile. L’orizzonte tempo-rale delle decisioni di investimento è quindi di lungo periodo.Evitando che il controllo possa essere perso in conseguenza di untakeover ostile, l’imprenditore familiare può investire in risorse firm-specific senza temere di perdere il valore di tali investimenti in casodi perdita del controllo.

Dall’orizzonte temporale di lungo periodo discendono dueimportanti conseguenze.

La prima è la minore avversione al rischio. Il manager professio-nale è poco incline ad investire in iniziative i cui ritorni sono moltoincerti e proiettati nel lungo periodo. Egli tende ad avere un oriz-zonte temporale commisurato alla durata attesa del suo incarico esoprattutto non ama iniziative ad alto rischio ed alto rendimento,che in caso di insuccesso genererebbero forti perdite, mettendo arischio il suo posto. Tali iniziative tuttavia, costituiscono spesso leopportunità di business a più alto potenziale di creazione di valore,che la proprietà familiare è più incline a sfruttare, non avendo laminaccia della perdita del controllo in caso di insuccesso.

La seconda è collegata e riguarda l’alimentazione del portafogliodi opportunità di business ancora da sfruttare.

Il management professionale è concentrato a sfruttare al meglio iprogetti di business esistenti e ad avviare quelli che possono darglibenefici nell’ambito del ridotto orizzonte temporale cui fa riferi-mento. Le opportunità di business meramente eventuali e con ritor-ni di lungo periodo non lo interessano, soprattutto se in esse devo-no essere investite ingenti risorse finanziarie.

La famiglia imprenditoriale, al contrario, è alla continua ricercadi tali opportunità di investimento, perché sa che da esse dipende lacontinuità intergenerazionale dell’impresa. Rispetto all’impresa

142 Le aziende di famiglia “quotate”

speculativo, in tal caso, riduce gli effetti del reciproco condizionamento tra impresa efamiglia. Si veda, per i profili definitori dell’impresa di famiglia basati sul concetto di rec-iproco condizionamento: GUIDO CORBETTA, Le imprese familiari. Caratteri originali, vari-età e condizioni di sviluppo, Milano, Egea, 1998.

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manageriale, quindi, l’azienda di famiglia ha spesso un più riccoportafoglio di opportunità ancora non sfruttate, soprattutto conriferimento a quelle aventi orizzonti temporali molto lunghi.

Per contro, alle aziende di famiglia è talvolta rimproverata unaminore dinamicità nelle scelte imprenditoriali riguardanti la diversi-ficazione e le ristrutturazioni strategiche (che nelle imprese manage-riali sono favorite dal ricambio del management).

Per quanto riguarda il profilo della governance, si può osservarein linea generale che la proprietà familiare consente un più efficacemonitoraggio del management esterno. La condivisione di valori efiducia nell’ambito dell’organo di governo è un facilitatore del suc-cesso strategico, ma i rappresentanti della famiglia nell’organo digoverno esercitano generalmente anche un ruolo di controllo e con-sulenza attivo.

Per contro, quando il CEO è familiare, è frequente riscontraresistemi di controllo del management deboli, che lasciano al proprie-tario-manager una amplissima discrezionalità decisionale. Quandotale discrezionalità sfocia in strapotere decisionale, le stesse finalitàdell’organizzazione vengono frustrate da una gestione padronale ela performance, presto o tardi ne risente. In questi casi, il rischiopercepito dagli investitori è, a ragione, elevato (come dimostranoalcuni casi di frode che hanno interessato imprese familiari di que-sto tipo26).

Inoltre, il problema forse più grave cui le aziende di famigliavanno incontro è quello della successione generazionale.L’indecisione sul ricorso ad un manager esterno esterno o riguardoalla designazione del leader emergente può creare situazioni di stal-lo decisionale pericolosissime per la competitività aziendale ed invi-se agli investitori.

E qui si collegano altri temi riferiti al management.Il problema più rilevante è quello di adverse selection che si gene-

ra quando i ruoli manageriali ricoperti dai familiari non sono giusti-ficati dalle competenze possedute. Ciò può succedere per altruismofamiliare o, più spesso, per il desiderio di controllare pervasivamen-

143Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

26 Si veda anche, sul punto: RICCARDO TISCINI – FRANCESCA DI DONATO, The relationbetween accounting frauds and corporate governance systems: an analysis of recent scandals,in “Global Business and Finance Review”, s.i., 2005.

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te i processi dell’impresa, non lasciando ad altri la gestione del pro-prio asset più importante. Si tratta di una scelta non dettata darazionalità, ma da aspetti psicologici (o peggio dalla sola prospetti-va di perpetuare i benefici privati distrattivi)27. Il danno sul valoredell’impresa, però, può essere irreparabile.

Collegato a questo vi è l’ulteriore problema di adverse selectionconseguente alla scarsa attrattività, per le risorse manageriali dimaggior talento, delle imprese gestite con logiche non razionali opadronali.

Per contro, il rapporto di fiducia tra famiglia proprietaria e mana-ger esterno facilita talvolta un approccio fortemente di tipo steward-ship. Il manager è un devoto servitore della causa dell’azienda difamiglia, fino ad assumere le logiche tipiche della famiglia stessa. Ilsuo incarico può durare in questi casi per un’intera generazione.

Per quanto riguarda il capitale finanziario, la famiglia costituiscefonte di importanti risorse, ma anche di indesiderabili vincoli.

L’orizzonte decisionale di lungo periodo consente al capitale dirischio familiare di essere particolarmente paziente. Remunerazioninel breve termine possono ben sacrificarsi per più elevate prospet-tive di remunerazione in futuro. Gli investitori in capitale di rischiosui mercati azionari sono invece molto più impazienti. L’ossessioneai risultati trimestrali è innaturale per le aziende che perseguono sta-bili condizioni di economicità e successo ed è stata indicata come lacausa principale del dannoso fenomeno della miopia manageriale28.

Inoltre, l’orizzonte di lungo periodo consente alla famiglia di pia-nificare la disponibilità di un “capitale di sopravvivenza”29, da

144 Le aziende di famiglia “quotate”

27 In tal senso: FAUSTO PANUNZI – MIKE BURKART – ANDREAI SHLEIFER, Family Firms,working paper Fondazione Mattei - Harvard, 2002.28 Nelle imprese manageriali ed in quelle imprenditoriali con vocazione più speculativa chefamiliare, è diffuso un atteggiamento ossessivo verso la capitalizzazione di borsa. A chi scri-ve è capitato di discutere di politiche contabili sulla base di un criterio valutativo del tipo15.x, cioè riferito al fatto che ogni variazione dell’Ebit, a prescindere dal suo contenuto,valeva 15 volte tanto in termini di capitalizzazione. Nelle aziende di famiglia, al contrario, è diffuso un atteggiamento quasi di incredulità e iro-nia rispetto alle quotazioni di borsa. Ed è capitato, all’opposto, di sentire frasi del tipo:“Oggi il nostro titolo è salito del 10%, chissà perché? Non lo so, queste sono cose chefanno loro (gli operatori sul mercato n.d.a.) … che facciano, a noi poco interessa”.29 DAVID SIRMON – MICHAEL HITT, Managing resources: linking unique resources, manage-ment and wealth creation in family firms, op. cit., 2003.

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risparmiare in capo alla famiglia nei periodi positivi per poi even-tualmente reimmetterlo a sostegno dell’impresa nei momenti dicrisi. Non pochi sono i turnaround delle imprese familiari sostenu-ti da cospicue immissioni di mezzi freschi da parte della famiglia.Questo è un importante fattore di sopravvivenza delle aziende difamiglia, in conseguenza del quale diminuisce il rischio dell’investi-mento percepito dagli azionisti di minoranza.

Per contro, il vincolo del mantenimento del controllo si tramutaper le aziende di famiglia quotate in un vero e proprio vincolo allacrescita, determinato dall’immissione massima di capitale proprioche può essere effettuata senza che la famiglia proprietaria si dilui-sca al di sotto di una soglia di ‘rischio scalata’.

Inoltre, comportamenti mirati all’estrazione di benefici privati adanno degli azionisti di minoranza minano la fiducia nella famigliaproprietaria da parte degli investitori e sono percepiti come un fat-tore di rischio.

Sotto il profilo del capitale umano i profili distintivi delle azien-de di famiglia sembrano a chi scrive meno marcati.

Una buona filosofia aziendale può ben generare capitale organiz-zativo che attrae e motiva le risorse umane, nei family business comenei non family business.

Tuttavia, è vero che l’identificazione dei valori aziendali con unafamiglia ne facilita la condivisione da parte del personale. Tale con-divisione è spesso costruita sulla fiducia che la famiglia ispira.

Inoltre, molte aziende di famiglia sono particolarmente attente aibisogni della comunità dei loro dipendenti. Creano occasioni dicondivisione di eventi, valori ed esperienze che creano una vera epropria comunità30.

In genere, a ciò si accompagna un livello di investimenti in for-mazione e sviluppo del capitale umano superiore alla media.

All’opposto, quando la gestione dell’azienda di famiglia è padro-nale e scarsamente meritocratica, l’ambiente di lavoro è demotivan-te per le risorse migliori, che l’azienda non riesce ad attrarre.

145Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

30 Secondo i coniugi Miller questa è una delle priorità portanti delle grandi aziende difamiglia: DANNY MILLER – ISABELLE LE BRETON-MILLER, Managing for the long run.Lessons in competitive advantage from great family businesses, Boston, Harvard BusinessSchool Press, 2005 (ed .it. Mantenere il successo. Lezioni di vantaggio competitive dallegrandi imprese familiari, Milano, Etas, 2005).

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Page 146: Teoria del governo d’impresa · 2020. 12. 17. · Egea, 1998; SALVATORE TOMASELLI, Longevità e sviluppo delle imprese familiari, Milano, Giuffrè, 1996. 4 Si tratta della c.d.

Fortunatamente, non è questa la tipologia di azienda di famigliaquotata di maggiore diffusione.

Un altro elemento del capitale in cui risiedono risorse distintivedelle aziende di famiglia è il capitale relazionale.

La famiglia imprenditoriale occupa costantemente nel tempouna posizione prestigiosa in termini di status sociale, che le conferi-sce innumerevoli relazioni personali e durature con l’establishmentpolitico, imprenditoriale e dirigenziale. Ciò moltiplica le opportu-nità di business.

La famiglia comunica fiducia alle controparti contrattuali, sianoessi clienti, fornitori, autorità o altro; e la fiducia è un potente faci-litatore del business. Un elemento importante di tale fiducia è costi-tuito dal marchio di famiglia. Il family brand delle famiglie miglioriè una garanzia di qualità e serietà e vale a prescindere dal prodottocui si riferisce.

Ovviamente, presupposto di tutto questo è che la famiglia nonfinisca, in conseguenza di problematiche interne ad essa, per comu-nicare all’esterno un’immagine di inaffidabilità e conflittualità. Intal caso, ovviamente, l’effetto sul capitale relazionale sarebbe grave-mente negativo.

Inoltre, anche nelle famiglie più equilibrate ed autorevoli, la deri-va generazionale può indebolire la capacità della famiglia di costrui-re capitale relazionale. L’interscambio di informazioni tra familiari el’immagine di unità della famiglia si affievolisce. Gli interlocutorisono molteplici ed è più difficile identificare i centri nevralgici delsistema di relazioni, che subisce spinte divergenti.

Il capitale organizzativo è invece un altro elemento dove le diffe-renze tra aziende di famiglia e aziende non di famiglia non sembra-no generare risorse distintive all’origine di un chiaro differenziale diperformance.

I tipici vantaggi delle aziende di famiglia sono costituiti dal mino-re grado di burocrazia, in parte conseguente a procedure decisiona-li più snelle e flessibili. Ruoli e job description hanno un livello diformalizzazione molto minore che nelle imprese manageriali.

Per contro, il minore rigore procedurale si accompagna non dirado a controlli interni più deboli, che penalizzano la salvaguardiadel patrimonio aziendale e comportano un incremento del rischiopercepito dagli investitori di minoranza.

146 Le aziende di famiglia “quotate”

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Infine, l’effetto della proprietà familiare sulla capacità innovativadell’impresa (capitale tecnologico) non è chiaro. Vi sono studi sultema che giungono a conclusioni discordanti31.

L’orizzonte decisionale di lungo termine e la minore avversioneal rischio dovrebbero stimolare maggiori investimenti in innovazio-ne, soprattutto in quella radicale, che richiede l’alimentazione dinumerose opportunità innovative nel breve termine per avernequalcuna sul mercato nel lungo termine. Oltre un determinato livel-lo dimensionale, tuttavia, la cultura organizzativa genera maggioreimprenditorialità dell’approccio individualistico32.

La focalizzazione sul business e non di rado l’attaccamento alletecnologie tradizionali possono tuttavia provocare una minore dina-micità innovativa e di business da parte delle aziende di famiglia.

* * *

Questa ampia rassegna di risorse distintive consente ora di per-venire ad alcune osservazioni conclusive.

L’origine dei fattori di incremento o riduzione del valore attribui-bili alla relazione proprietà familiare-impresa, in ultima analisi, puòessere ricondotta ad una delle seguenti tre sfere:

1)Costi della relazione di agenzia tra azionisti di controllo fami-liari ed azionisti di minoranza;

2)Valore emozionale della relazione intersistemica tra famiglia eimpresa;

147Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

31 Il problema era e rimane sostanzialmente aperto. Si veda, ad esempio: FRANK HOY –TRUDY VERSER, Emerging business, emerging field: entrepreneurship and the family firm, in“Entrepreneurship: Theory and Practice”, 1994.Un’analisi sui modelli configurazionali evidenzia le condizioni per il comportamentostrategico innovativo delle imprese familiari (di piccola e media dimensione): CRISTIANA

COMPAGNO – DANIEL PITTINO – FRANCESCA VISINTIN, Tipologie strategiche nelle piccole emedie imprese familiari: un test ed un’estensione dell’approccio configurazionale, ConvegnoAnnuale AIDEA, Milano, 2007.Recentemente anche: ANITA VAN GILS – WIM VOORDECKERS, Nurturing innovation in fam-ily firms. The influence of managerial and family characteristics, IFERA Annual Congress,Nyenrode, 2008.32 In tal senso: SHAKER ZAHRA – JAMES HAYTON – CARLO SALVATO, Entrepreneurship in fam-ily vs. non-family: a resource-based analysis of the effect of organizational culture , in“Entrepreneurship, theory and practice, n. 4, 2004.

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148 Le aziende di famiglia “quotate”

Tabella 3 - Aziende di famiglia quotata: risorse distintive e valore d’impresa

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3)Orizzonte decisionale di lungo periodo, conseguente alla sta-bilità del controllo.

Naturalmente l’origine dei fattori elencati non è mai netta enumerosi sono i rapporti di concausa. Tuttavia, stilizzando il ragio-namento, l’origine dei driver familiari del valore può essere rappre-sentata nella tabella 3.

È interessante notare che i profili con effetti negativi sul valorederivano esclusivamente dalla relazione di agenzia e dalla sfera emo-zionale, che tuttavia sono anche all’origine di molti dei fattori dicreazione di valore.

Nell’ambito di un corretto approccio strategico alla gestione dellarelazione di agenzia e della relazione intersistemica famiglia-impresatali aspetti dovrebbero trovare un opportuno bilanciamento.

La condivisione della qualità di azionisti che lega famiglia eminoranze, che da un lato genera costi di agenzia, dall’altro risolveil problema (ancor più grave ad avviso di chi scrive) della relazionedi agenzia tra azionariato diffuso e management professionale.

Allo stesso modo, se da un lato la sfera emozionale del rapportofamiglia-impresa può generare conflittualità, altruismo e adverseselection, dall’altro costruisce un patrimonio di fiducia dalle eleva-tissime potenzialità di sfruttamento economico.

Inoltre, il perseguimento della risonanza nel rapporto intersiste-mico, cioè della piena condivisione di valori tra famiglia ed impre-sa, dissolve la gran parte dei fattori di distruzione di valore.

La conflittualità generazionale sarebbe pianificata strategicamentee risolta nel modo più opportuno (sia esso la designazione di un eredeal comando dell’impresa, il reclutamento di management esterno oaddirittura la cessione del controllo) ed anche lo sfruttamento degliazionisti di minoranza sarebbe contenuto per non danneggiare l’at-trattività di lungo periodo dell’impresa sui mercati azionari.

La regolamentazione societaria ha la responsabilità di limitare losfruttamento dei benefici privati distrattivi e distorsivi. E ciò sta ineffetti avvenendo in molti paesi tradizionalmente caratterizzati daun basso livello di tutela degli investitori. L’Italia, con le riformedegli ultimi anni, dal Testo Unico della Finanza in poi, è uno degliesempi più nitidi di tale tendenza.

La famiglia, anche in mancanza di adeguata tutela degli investi-tori, ma ancor di più se tale tutela è buona, ha la responsabilità di

149Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

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prendere coscienza che la gestione della relazione famiglia-impresadeve avvenire nella piena condivisione dei valori dell’impresa. Essisono del tutto compatibili con i valori della famiglia e vanno con essiarmonizzati. Questa è la vera responsabilità sociale delle famiglieimprenditoriali che hanno aperto il capitale ai mercati azionari.

L’interazione sistemica famiglia-impresa è la base su cui deveessere costruito il successo dell’azienda di famiglia quotata.

Ciò è vero soprattutto perché consente di preservare l’efficacia diulteriori importantissimi driver del valore collegati all’orizzonte tempo-rale di lungo periodo ed al sistema delle relazioni sociali della famiglia.

L’assunzione di un corretto grado di rischio, la generazione diopportunità di business per il lungo periodo, la relativa indipenden-za dalle pressioni di breve periodo derivanti dai mercati azionarisono elementi determinanti per la performance e sono tutti ascrivi-bili alla stabilità del controllo ed al conseguente orientamento allungo periodo.

La stabilità del controllo (ed il conseguente mancato funziona-mento del mercato del controllo societario) è ritenuta da moltaparte della letteratura economica il principale responsabile dell’i-nefficienza della concentrazione proprietaria (in particolare se nellemani di poche famiglie33). Tale stabilità ha tuttavia riflessi positiviimportantissimi sull’economia dell’azienda, che non possono esseretrascurati. Sono essi, anzi, che conferiscono il vero orientamentoalle aziende di famiglia che uniscono successo strategico ed apertu-ra del capitale.

Il paragrafo che segue approfondisce le modalità con le quali ilpotere di influenza della famiglia sull’impresa, e quindi la stabilitàdel controllo, influisce sul valore e sulle sue dinamiche.

4.3. Mercato del controllo societario vs. stabilità del controllo:un’analisi nella prospettiva del valore d’impresa

Le risorse distintive (o vincolanti) analizzate nel paragrafo prece-dente hanno caratteristiche di elevata specificità rispetto al sistema

150 Le aziende di famiglia “quotate”

33 Si veda, ad esempio: RANDALL MORCK – BERNARD YEUNG, Special issues relating to cor-porate governance and family control, World Bank Working Paper, September, 2004.

04 Cap. 4 Vol. Tiscini 25-01-2010 16:54 Pagina 150

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complessivo proprietà-famiglia-impresa34, nel senso che non potreb-bero essere utilizzate con altrettanta efficacia al di fuori di esso.

Ai fini della comprensione della relazione esistente tra stabilitàdel controllo e valore d’impresa è opportuno analizzare più in det-taglio tale specificità. In particolare, occorre distinguere tra risorse:

– firm-specific, cioè idiosincratiche rispetto all’impresa, che siperderebbero ove fossero trasferite ad utilizzi esterni ad essa;

– owner-specific, cioè idiosincratiche rispetto al soggetto di con-trollo, che si perderebbero ove il controllo venisse deconcen-trato a favore dell’azionariato diffuso;

– family-specific, cioè idiosincratiche rispetto alla famigliaimprenditoriale, che si perderebbero ove il controllo venisse trasfe-rito al di fuori della famiglia.

Anche in questo caso, la classificazione non è netta e tra le cate-gorie vi sono confini sfumati in ragione dell’effetto congiunto cheproprietà, famiglia e impresa possono esercitare sulla generazionedella risorsa.

Con qualche semplificazione ed avendo riguardo al fenomenoritenuto prevalente, è tuttavia possibile operare la classificazioneillustrata nella tabella 4.

Pur senza entrare in una prolissa esposizione delle ragioni dell’at-tribuzione delle singole risorse ad una delle classi sopra elencate, sipuò utilmente sintetizzare il ragionamento considerando che:

– i fattori derivanti dalla relazione di agenzia tra il soggetto dicontrollo e gli azionisti di minoranza sono generalmente ditipo “owner specific”, cioè ascrivibili alla concentrazione delcontrollo, più che alla sua “familiarità” (si pensi, ad esempio,al migliore monitoraggio del management);

– i fattori derivanti dalla sfera emozionale della relazione trafamiglia ed impresa sono “family specific” in quanto ascrivibiliproprio al legame affettivo della famiglia verso l’impresa,impensabile al di fuori del controllo da parte della famigliafondatrice (le relazioni personali basate sulla fiducia nellafamiglia ne sono un esempio);

151Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

34 Il modello di un sistema sociale unico della famiglia nell’impresa, che è qui richiamato ameri fini descrittivi è contenuto in: TIMOTHY HABBERSHON – MARY WILLIAMS – IAN

MACMILLAN, A unified systems perspective of family firm performance, op. cit., 2003.

04 Cap. 4 Vol. Tiscini 25-01-2010 16:54 Pagina 151

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152 Le aziende di famiglia “quotate”

Tabella 4 - Aziende di famiglia quotata: risorse distintive e valore d’impresa

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– i fattori derivanti dall’orizzonte decisionale di lungo periodo(in ultima analisi collegati alla stabilità del controllo) sono inparte “owner specific” ed in parte anche “family specific”; essiderivano naturalmente dalla stabilità del controllo, ma in alcu-ni casi non esisterebbero al di fuori della famiglia (ad esempio,le opportunità di business collegate alla rete di contatti perso-nali che la famiglia consente di mettere a fattor comune); infi-ne, vi sono alcuni tipi di investimenti (in capitale umano, intecnologia), che sono favoriti dall’orientamento al lungo perio-do, ma potrebbero in fondo essere utilizzati e replicati ancheda altri soggetti di controllo (o in un’impresa manageriale).

Questa analisi conduce ad una conclusione molto importante,ancorché per certi versi intuitiva.

La concentrazione del controllo in capo ad una (o poche) fami-glie favorisce la generazione di risorse distintive che sono “ownerspecific” o “family specific”, e soltanto in limitata parte “firm specific”.

Nei paragrafi precedenti si è dimostrato che, quando la relazionesistemica famiglia-impresa e la relazione di agenzia controllante-minoranze sono gestite alla ricerca dell’armonia tra sistemi (risonan-za), gli effetti delle risorse “vincolanti” sono indeboliti e le risorse“distintive” del controllo familiare, al netto di tali effetti, contribui-scono positivamente alla creazione di valore.

La performance in termini di creazione di valore è quindi, inquesti casi, migliore e ciò va a beneficio sia degli azionisti di control-lo che degli azionisti di minoranza.

La parte di questo valore ascrivibile alle risorse distintive “owner-specific” o “family-specific” è però dipendente rispettivamente dallaconcentrazione del controllo e dal controllo familiare.

Ciò significa che tale valore sarebbe perso in caso di perdita delcontrollo. Più precisamente:

– il valore ascrivibile alle risorse “owner-specific” sarebbe persoin caso di deconcentrazione del controllo;

– il valore ascrivibile alle risorse “family-specific” sarebbe persoin caso di cessione del controllo da parte della famiglia.

Il problema sarà più ampiamente ripreso in seguito, ma questo èil motivo principale per cui i passaggi del controllo in blocco ed ifamily buy-out sono di gran lunga più frequenti della deconcentra-zione tramite offerta pubblica e dei takeover ostili.

153Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

04 Cap. 4 Vol. Tiscini 25-01-2010 16:54 Pagina 153

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La teoria sulla valutazione delle aziende contribuisce a spiegareil fenomeno.

Come è noto, la dottrina più accorta distingue, pur con sfumatu-re terminologiche e concettuali significative, tra il valore economicodel capitale ed altre configurazioni di valore quali il valore strategi-co, il valore potenziale, il valore di acquisizione.

Il concetto di valore di un’impresa rimane indeterminato se nonsi precisano alcune dimensioni della valutazione, ed in particolare:

– la prospettiva di valutazione (cioè nell’ottica di quale soggettola valutazione è effettuata);

– le ipotesi per la stima dei flussi futuri di risultato (cioè la con-figurazione delle variabili d’azienda e d’ambiente in base allequali effettuare la stima);

– gli scopi della valutazione (cioè l’ambito nel quale essa è neces-saria).

Il concetto di valore economico del capitale, fulcro delle teorieaziendalistiche italiane sulla valutazione d’azienda, si riferisce sol-tanto alle valutazioni in cui la prospettiva è astratta35 (cioè non rife-rita ad uno specifico soggetto) e le ipotesi sono di continuità gestio-nale (cioè riferite agli andamenti futuri della gestione, sulla basedelle condizioni d’azienda e di ambiente che possono essere previ-ste al momento della valutazione, ma senza introdurre scenari alter-nativi frutto di scelte ancora da effettuare).

In quanto valore “astratto”, il valore economico del capitale nondeve tenere conto di condizioni ascrivibili ad uno specifico soggetto36.

154 Le aziende di famiglia “quotate”

35 La distinzione tra valore “astratto” e valore “concreto” è, con sfumatura concettuale leg-germente diversa da quella qui utilizzata, di Caramiello: CARLO CARAMIELLO, La valutazio-ne dell’azienda, Milano, Giuffrè, 1993. La prospettiva “astratta” è stata anche denomina-ta, con diverse sfumature concettuali, generale (LUIGI GUATRI, La valutazione delle azien-de, Milano, Egea, 1995), e più recentemente neutrale (LUIGI GUATRI, Trattato sulla valuta-zione delle aziende, Milano, Egea, 1998). Per la valutazione riferita ad uno specifico sog-getto si è invece fatto riferimento, oltre al valore “concreto”, anche ai concetti di valorestrategico (GIANFRANCO ZANDA – MARCO LACCHINI – TIZIANO ONESTI, La valutazionedelle aziende, Torino, Giappichelli, 1997) o valore di acquisizione (LUIGI GUATRI – MAURO

BINI, Nuovo trattato sulla valutazione delle aziende, Milano, Egea, 2005). 36 “Il capitale economico d’impresa non esprime dunque il massimo valore d’acquisto o ilminimo valore di vendita a cui rispettivamente il cessionario e il cedente intendono addi-venire alla negoziazione né esprime il prezzo che presumibilmente potrà rappresentare ilpunto d’incontro dei due contraenti, ma è soltanto un indice significativo dei prezzi nego-ziabili, avuto riguardo non già alle circostanze che definiscono le convenienze economiche

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Esso è il valore37 che un generico operatore razionale correttamenteinformato attribuirebbe all’azienda38.

Quando invece la valutazione assume la prospettiva riferita aduno specifico soggetto economico può ben tenere conto di condi-zioni e risorse ascrivibili ad esso, ma non alla generalità degli altripossibili soggetti economici39.

Tenendo conto delle diverse dimensioni inerenti alla prospettivadella valutazione ed alle ipotesi gestionali alla base di essa, possonoconfigurarsi quattro nozioni di valore d’impresa40. (Figura 1)

Il valore dell’impresa controllata dalla famiglia è da intendersicome “valore strategico odierno”, che tiene conto delle risorse spe-cificamente ascrivibili al soggetto di controllo (“owner-specific”) edalla famiglia in senso lato (“family-specific”).

Se tali risorse contribuiscono positivamente alla creazione divalore, il “valore strategico odierno” è superiore al “valore econo-mico del capitale”, che è il valore che un generico operatore razio-nale pagherebbe per l’azienda.

Il “valore economico del capitale” è quindi il riferimento teoricodel valore di scambio dell’azienda, assumendo di non considerare

155Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

particolari di due aziende scambiste e le loro forze contrattuali, ma alle circostanze gene-rali di svolgimento economico delle gestioni patrimoniali” (VITTORIO CODA, Introduzionealle valutazioni dei capitali economici d’impresa, Milano, Giuffrè, 1963, p. 57 e s.).37 Si tratta di un concetto di valore simile a quello di “fair market value” della dottrina valu-tativa nord-americana, nonché a quello di “fair value” dei principi contabili internazionali.Più precisamente, con riferimento ai pacchetti azionari, se ne differenzia per non tenereconto dell’entità e della natura dello specifico pacchetto. Il “notional fair market value” è il“prezzo fattibile” per un determinato pacchetto azionario, a sua volta corrispondente alvalore economico più o meno eventuali premi o sconti, per i quali si veda infra nel seguen-te paragrafo. Tale nozione è un valore e non un prezzo. Esso è quindi da tenere ben distin-to rispetto all’”open market price”, che è invece un “prezzo fatto”. In tal senso: LUIGI

GUATRI – MAURO BINI, Nuovo trattato sulla valutazione delle aziende, op. cit., 2005, p. 590. 38 In altre parole, esso può essere considerato “il riferimento teorico del valore di scambioattribuibile al capitale proprio aziendale” (GIOVANNI FERRERO, La valutazione economicadel capitale d’impresa, Milano, Giuffrè, 1966, p. 5).39 In merito alle finalità strategiche delle valutazioni aziendali: MICHELE GALEOTTI, La valu-tazione strategica, nell’ipotesi di cessione d’azienda, Milano, Giuffrè, 1995; RICCARDO

VIGANÒ, Il valore dell’azienda. Analisi storica e obiettivi di determinazione, Padova,Cedam, 2001. Con specifico riferimento al family business si veda anche: VIGANÒ

RICCARDO, Valore del family business e valutazione strategica, in VIGANÒ ENRICO (a curadi), La sensibilità al valore nell’impresa familiare, Padova, Cedam, 2006.40 RICCARDO TISCINI, Il valore economico delle aziende di famiglia. Dinamiche di formazionee criteri di stima nelle aziende di dimensione minore, Milano, Giuffrè, 2001, p. 177.

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risorse specifiche dell’attuale soggetto economico, ma neancherisorse specifiche di possibili futuri soggetti economici compratori(cui sarebbe trasferito il controllo)41.

Il “valore economico del capitale” è dunque il valore che si rea-lizzerebbe in caso di deconcentrazione della proprietà, ad esempioin seguito ad una offerta pubblica di vendita con la quale il control-lo della società divenga contendibile.

In tutti i casi in cui il valore delle risorse42 “owner-specific” e“family-specific” è positivo, il “valore strategico odierno” si manterràal di sopra del “valore economico del capitale”. La famiglia proprie-taria, conseguentemente, non deciderà di deconcentrare la pro-prietà con un’offerta di vendita, poiché con tale scelta avrebbe unaperdita di valore pari alla differenza tra “valore strategico odierno”

156 Le aziende di famiglia “quotate”

41 Nella corporate finance, si parla, con alcune sfumature concettuali, di valore stand-alonee di valore delle takeover synergies. Si veda, ad esempio: ASWATH DAMODARAN, Damodaranon Valuation. Security analysis for investment and corporate finance, New York, Wiley,1994.42 Il termine risorse è utilizzato in questa sede comprendendo sia i fattori di incremento chei fattori di decremento del valore d’impresa.

Fig. 1 - La matrice delle nozioni di valore d’impresa

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e “valore economico del capitale” (senza considerare, ai fini che quiinteressano, altri fattori attinenti all’andamento contingente delmercato o alla sfera dei benefici extra-economici).

In questi casi, l’azienda ha un valore addizionale per la famigliaimprenditoriale43, del quale beneficiano anche gli azionisti di mino-ranza per la parte che è ascrivibile a risorse che contribuiscono posi-tivamente alla creazione di valore (incrementando i flussi di risulta-to attesi o riducendone il rischio) e che è pertanto divisibile. La per-dita del controllo e la deconcentrazione della proprietà farebberoinvece venire meno tale valore e la perdita di valore inciderebbe nonsoltanto sugli azionisti di controllo, ma anche sugli azionisti diminoranza.

Sotto tali condizioni, dunque, la concentrazione proprietaria nonsolo contribuisce al successo dell’impresa, ma è economicamentevantaggiosa anche per gli azionisti di minoranza.

La famiglia di controllo è incentivata a cedere il controllo del-l’impresa solo quando le viene offerto un prezzo almeno pari al“valore strategico odierno”. Quando ciò avviene, la famiglia trovaremunerazione per le risorse distintive specifiche ad essa ascrivibili.La cessione del controllo, in tal caso, non produce perdite di valorein capo alla famiglia (può anzi generare incrementi di valore nelcaso di prezzo offerto superiore al “valore strategico odierno”).

157Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

43 Il tema della valutazione delle imprese familiari è rimasto fino a pochi anni or sono ine-splorato sia dalla letteratura nazionale che da quella internazionale. Recentemente, rilevan-do la scarsa dimestichezza dei piccoli imprenditori con il concetto di valore della loroimpresa, ha ricevuto un rilevante interesse da un gruppo di studiosi coordinati da EnricoViganò, secondo il quale: “Preparare la successione significa fare dei patti (…) nei qualiprevedere – fra le altre necessità – l’assetto proprietario dopo la successione con passaggi– a titolo gratuito o di pagamento – delle quote di capitale e attribuzione di altri beni fami-liari. L’impresa va valutata: nasce la sensibilità per il valore globale che attualmente mancatotalmente al Family Business europeo. Il criterio di valutazione deve essere semplice epossibilmente oggettivo: p.e. multipli di mercato.Il Family Business deve conseguire maggiore consapevolezza al valore che spesso mancatotalmente in tutti i soci e nell’intera famiglia. Sovente non hanno contezza del capitaleinvestito, del livello di rischio, del suo rendimento.Acquisita la sensibilità al valore per la successione, va sviluppata quella per giungere al giu-dizio sul grado di economicità dell’impresa.” (ENRICO VIGANÒ, Il valore dell’impresa nellasuccessione familiare, Padova, Cedam, 2005, p. 71).Si veda quindi il lavoro di ricerca ad ampio spettro contenuto in: ENRICO VIGANÒ (a curadi), La sensibilità al valore nell’impresa familiare, Padova, Cedam, 2006.

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Poiché tale offerta non può che derivare da un soggetto econo-mico che, comportandosi razionalmente, ritiene di poter trasferireall’impresa risorse distintive di valore almeno pari a quelle trasferi-te dalla famiglia, la transazione comporta in generale la cessione delcontrollo da parte della famiglia, ma non la deconcentrazione dellaproprietà. La proprietà, pertanto, rimane concentrata in capo ad unnuovo soggetto economico.

Gli azionisti di minoranza, in linea di principio, non dovrebberorimanere danneggiati da una tale operazione, sia che aderiscano, siache non aderiscano all’offerta (ed a prescindere dal fatto che taleofferta sia pubblica o privata).

Se essi aderiscono all’offerta, monetizzano il valore delle risorsedistintive del soggetto di controllo incumbent. Se essi, al contrario, nonaderiscono all’offerta, potranno contare sul valore delle risorse che ilnuovo soggetto di controllo acquirente trasferirà all’impresa (in man-canza, delle quali l’acquirente, comportandosi razionalmente, nonavrebbe offerto un prezzo almeno pari al “valore strategico odierno”).

Il ragionamento, si deve sottolineare, non tiene conto di compor-tamenti irrazionali e della possibilità, per l’acquirente, di estrarrebenefici privati distrattivi o distorsivi. Ad esempio, gli azionisti diminoranza sarebbero danneggiati se l’acquirente avesse offerto quelprezzo al solo fine di eliminare un concorrente dal mercato (si trat-terebbe, in tal caso, di benefici privati distorsivi).

In linea generale, si può tuttavia concludere che la concentrazio-ne della proprietà in capo ad un soggetto di controllo (ed alle fami-glie imprenditoriali in particolare) è spiegata razionalmente dallaconvenienza a non deconcentrare il controllo per non perdere ilvalore dei benefici privati idiosincratici, cioè relativi alle risorsedistintive ascrivibili al soggetto di controllo (e alla famiglia impren-ditoriale in particolare).

È di tutta evidenza che i ragionamenti sopra esposti sono all’ori-gine del “premio di controllo”, cioè del maggior valore per azioneche un acquirente è disposto a pagare rispetto al valore economico44

158 Le aziende di famiglia “quotate”

44 In letteratura il “premio di controllo” è osservato come differenza di valore tra prezzofatto in una transazione del controllo e valore di borsa successivo all’operazione, assumen-do l’equivalenza tra valore economico e valore di borsa. Ciò è necessario in quanto il valo-re economico è un valore non osservabile. Il “premio di controllo”, come si vedrà in segui-

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se il pacchetto azionario oggetto di acquisizione attribuisce il con-trollo della società (e consente quindi il trasferimento di risorse“owner-specific” e “firm-specific”).

In merito alla valutazione del premio di controllo è tuttavianecessario effettuare più approfondite considerazioni, che sonooggetto del paragrafo seguente.

4.4. Benefici privati e valutazione del premio di controllo

La nozione di premio di controllo è alquanto discussa nella lettera-tura aziendalistica45.

In questa sede, come detto, si assume una definizione di “premiodi controllo” che ricomprende tutte le componenti della differenzatra prezzo di un’acquisizione (in cui si trasferisce il controllo socie-tario) e valore economico della società. Tale nozione potrebbemeglio definirsi come “valore del controllo”, poiché comprendetutti i benefici addizionali che il soggetto che detiene il controllopuò ottenere dalla società rispetto ai benefici ottenibili da un gene-rico compratore46. I benefici ottenibili da un generico compratoresono anche identificati come flussi stand-alone. Il loro valore attua-le, secondo tale terminologia, determina il valore stand-alone del-l’impresa.

Nella prospettiva di una transazione del controllo, il “valore delcontrollo” così definito è pari alla differenza tra “valore di acquisi-zione” di un pacchetto azionario e corrispondente quota del valore

159Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

to, è ampiamente utilizzato come proxy del valore dei benefici privati del controllo. Siveda, ad esempio: ALEXANDER DYCK – LUIGI ZINGALES, Private benefits of control: anInternational comparison, op. cit., 2004. 45 Ad essa fa anche riscontro, specularmente, una discussa nozione degli sconti di mino-ranza. Si veda, in proposito: TIZIANO ONESTI, Sconti di minoranza e sconti di liquidità.Ridotti poteri e mancanza di mercato nella valutazione delle partecipazioni, Torino,Giappichelli, 2002.46 Autorevole letteratura ha assunto definizioni molto più restrittive del premio di control-lo, distinguendo tra fattori che incidono sul valore fondamentale delle azioni, determi-nando una differenza tra valore fondamentale delle azioni di controllo e valore fondamen-tale delle azioni di minoranza, e fattori che determinano il premio puro di controllo. Intal senso: LUIGI GUATRI – MAURO BINI, Nuovo trattato sulla valutazione delle aziende, op.cit., 2005.

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dell’impresa “stand-alone”. In letteratura, esso comprende leseguenti componenti47:

– il valore delle “sinergie da acquisizione” divisibili, cioè destina-te a remunerare sia il socio di controllo che le minoranze;

– il valore dei benefici privati “distrattivi”, che generano corri-spondenti riduzioni a valere sui flussi stand-alone;

– il valore dei benefici privati “distorsivi”, che non danno luogo ariduzioni palesi dei flussi aziendali, ma possono generare ridu-zioni di valore dell’impresa in termini di flussi-opportunità.

Secondo l’approccio proposto nel presente volume, ad essi deveessere aggiunto il valore dei benefici privati “idiosincratici”, chesono ascrivibili a risorse idiosincratiche del soggetto di controllo egenerano incrementi di valore per l’impresa48 senza generare ridu-zioni di valore a carico degli azionisti di minoranza.

Il valore di acquisizione di un pacchetto azionario pari ad unaquota · del capitale è quindi dato, nella prospettiva dell’acquirente,dalla seguente formula:

Va = (Ve + Vsd – Vbps’) α + Vbps’ + Vbpd’

dove:Va = valore di acquisizione del pacchetto azionario;Ve = valore economico, o stand-alone;Vsd = valore delle sinergie da acquisizione divisibili;α = quota di capitale trasferita;

160 Le aziende di famiglia “quotate”

47 Per una classificazione simile: MARIO MASSARI – LAURA ZANETTI, Valutazione.Fondamenti teorici e best practice nel settore industriale e finanziario, Milano, McGraw Hill,2008. Gli autori tengono conto di una categoria di benefici privati “che non danno luogoa riduzioni dei flussi aziendali” relativi a sinergie del soggetto di controllo esterne all’im-presa acquisita. Tale fattispecie ha delle somiglianze con quella dei benefici privati “distor-sivi”, ma se ne discosta in quanto, contrariamente a questi ultimi, non genera riduzioni divalore dell’impresa. Tale categoria di benefici privati non intacca il valore dell’impresa. Èuna fattispecie di benefici privati a metà tra quelli “distorsivi” e quelli “idiosincratici”. Ainostri fini essa può essere assimilata ai benefici privati “idiosincratici”. Ancorché non com-porti benefici per l’impresa, essa è comunque economicamente efficiente nella misura incui comporta benefici per il soggetto di controllo senza comportare perdite per le mino-ranze.48 Secondo quanto detto nella nota precedente, i benefici privati idiosincratici potrebberoanche generare benefici nella sfera del soggetto di comando, ma non dell’impresa (fermorestando che non generano perdite per gli azionisti di minoranza).

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Vbps’ = valore dei benefici privati distrattivi (o sottrattivi) realiz-zabili dall’acquirente;

Vbpd’ = valore dei benefici privati distorsivi realizzabili dall’ac-quirente.

Nella prospettiva del venditore, non si pone il problema dellesinergie da acquisizione (il soggetto di controllo non realizza siner-gie prospettiche vendendo), ma occorre considerare i benefici rife-ribili alle risorse idiosincratiche del soggetto di controllo.

Nella misura in cui tali risorse incrementano la performance del-l’impresa, essi costituiscono benefici divisibili, ancorché ascrivibili arisorse proprie del soggetto di controllo. Inoltre, assumendo di esse-re in un regime giuridico di tipo “equal opportunity rule”, il sogget-to di controllo sa di dover dividere tali benefici anche in sede ditransazione del controllo. Secondo la “equal opportunity rule”, incaso di transazione del controllo l’acquirente deve lanciare un’offer-ta pubblica di acquisto agli stessi prezzi offerti al soggetto control-lante (o, in funzione della specifica normativa applicabile, a prezziad essi molto prossimi).

Poiché i benefici derivanti dalle risorse idiosincratiche sono inquesto caso considerati divisibili, essi non dovrebbero chiamarsi“benefici privati”. Per chiarezza espositiva ed in ragione del ragio-namento che sarà effettuato in seguito, la terminologia è però man-tenuta invariata anche con riferimento a questo scenario.

Il valore di cessione può quindi essere espresso, in prima appros-simazione, nel modo seguente:

Vc = (Ve - Vbps) α + Vbps + Vbpd + Vbpi x α

dove:Vc = valore di cessione (di equilibrio) del pacchetto azionario;Ve = valore economico, o stand-alone;α = quota di capitale trasferita;Vbps = valore dei benefici privati distrattivi (o sottrattivi) realiz-

zabili dal controllante;Vbpd = valore dei benefici privati distorsivi realizzabili dal con-

trollante.Vbpi = valore dei benefici ascrivibili alle risorse idiosincratiche

del controllante.

161Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

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Ai fini di analizzare la relazione tra risorse idiosincratiche di perti-nenza della famiglia e valore del controllo, si assuma quindi l’ipotesidi una possibile transazione del controllo che vede la famiglia impren-ditoriale in qualità di soggetto venditore. Si vuole individuare il prez-zo minimo al quale la famiglia è indotta a cedere il controllo49.

Poiché l’obiettivo è analizzare il ruolo dei benefici idiosincratici,si assuma l’assenza di benefici privati del controllo “distrattivi” e“distorsivi”. Si assuma altresì il modello reddituale puro, o della capi-talizzazione perpetua di redditi costanti, per la valutazione dell’azien-da. Le assunzioni non modificano le conclusioni del ragionamento.

La soglia di efficienza della transazione del controllo si ha quan-do l’acquirente è in grado di generare lo stesso valore d’impresa delsoggetto di controllo incumbent.

162 Le aziende di famiglia “quotate”

49 Benefici privati di natura extra-economica non sono inclusi esplicitamente nel modello,ma possono essere assimilati ai benefici privati “distorsivi”. Poiché essi inducono la fami-glia imprenditoriale a comportamenti non ispirati da razionalità economica, essi potrebbe-ro facilmente condurre ad una riduzione del valore d’impresa.

Tabella 5 - Cessione del controllo “Equal Opportunity Rule”

n° azioni 1000quota della famiglia 60%

Scenario stand-alone Scenario risorse idiosincratiche

Flusso di redditi 100 110Costo del capitale 10% 9%Valore 1000 1222Valore pacchetto controllo 600 733Valore per azione 1,00 1,22

Vbpi 222Vbpi x · 133Vc 733

Vsd 222Va 733Inv. max acquirente (EOR) 1222Inv. max acquirente (MR) 1133

Vc soglia per cessione 822Valore per azione 1,37Inv. max acquirente 1370

Inv. Max acquirente (mista) 1222

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Si assumano i dati e risultati della tabella 5.L’acquirente è disposto a pagare per l’acquisizione del 100%

della società un valore pari al “valore strategico odierno” per il sociodi controllo.

Si tratta dunque della soglia di efficienza della transazione del con-trollo. Al di sopra di tale importo, l’acquirente è il soggetto economi-co che ha le maggiori possibilità di creare valore per gli azionisti.

Eppure, la famiglia imprenditoriale potrebbe essere indotta anon cedere il controllo. Un “premio di controllo” pari a 133 udm50,infatti, non remunera interamente l’investimento in risorse idiosin-cratiche che la famiglia ha fatto nell’impresa. Tale investimento(Vbpi) vale infatti 222 udm.

La famiglia riceverà piena remunerazione delle sue risorse idio-sincratiche solo in caso di cessione del pacchetto di controllo per unvalore pari a 822 udm (la somma tra Ve e l’intero importo di Vbpi),corrispondenti ad un valore per azione di 1,37 udm.

In tal caso, tuttavia, l’investimento massimo per l’acquirentesarebbe 1370 udm (822 udm più l’importo massimo da mettere adisposizione per il servizio dell’OPA a 1,37 udm per azione).

Tutte le transazioni in cui l’acquirente è disposto a pagare unimporto compreso tra 1222 udm e 1370 udm tenderanno a non rea-lizzarsi, anche se garantirebbero maggiore creazione di valore pergli azionisti di minoranza.

Nel caso, invece in cui la regolamentazione societaria consentis-se la fissazione del prezzo per il trasferimento del controllo sullabase della negoziazione con il socio di maggioranza, senza necessa-riamente dover riconoscere lo stesso prezzo agli azionisti di mino-ranza (c.d. “market rule”), il socio di controllo potrebbe appro-priarsi dell’intero ammontare dei benefici privati idiosincratici.

Il valore di cessione soglia al quale la famiglia è disposta a cede-re il controllo sarebbe pertanto dato dalla seguente formula:

Vc = (Ve - Vbps) α + Vbps + Vbpd + Vbpi

A parità di prezzo di cessione del pacchetto di controllo (822udm), l’esborso massimo per l’acquirente sarebbe di 1222 udm (822

163Risorse familiari, stabilità del controllo e valore d’impresa

50 Unità di moneta

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udm più 400 udm per le minoranze); l’offerta pubblica, in tal caso,potrebbe essere evitata.

Il soggetto di controllo remunerato potrebbe trovare remunera-zione, in caso di cessione del controllo, dell’intero valore dei bene-fici derivanti dalle risorse idiosincratiche trasferite all’impresa.

Gli azionisti di minoranza vedrebbero incrementate le prospetti-ve di creazione di valore in quanto le sinergie divisibili realizzabilidal nuovo soggetto di controllo sarebbero superiori (o almenouguali) ai benefici da risorse idiosincratiche della famiglia proprie-taria incumbent.

In conclusione, la libera negoziabilità del premio di controllonon è necessariamente espropriativa e distorsiva degli interessi degliazionisti di minoranza.

Al contrario, il premio di controllo appare una soluzione effi-ciente per consentire alla famiglia controllante l’appropriazione deibenefici derivanti dalle risorse “family-specific”, senza che ciò com-porti pregiudizi per gli azionisti di minoranza51.

Se la regolamentazione societaria e i suoi strumenti di enforcementsono tali da impedire al soggetto di controllo l’estrazione di beneficiprivati “distrattivi” e da limitare il consumo di quelli “distorsivi”, ilpremio di controllo sarà principalmente riferibile alle risorse idiosin-cratiche e sarà, pertanto, economicamente efficiente. Se, al contrario,vi è consumo di benefici privati “distrattivi” e “distorsivi”, il premiodi controllo sarà economicamente efficiente soltanto per la parte dibenefici privati “idiosincratici” eventualmente eccedente i beneficiprivati “distrattivi” e “distorsivi”. L’analisi delle risorse distintive dellafamiglia, in tal caso, è uno strumento utile per l’apprezzamento(anche se non per la valutazione puntuale) della quota di premio dicontrollo riferibile a tali benefici.

Dall’analisi svolta derivano alcune implicazioni in termini diincentivi alla concentrazione del controllo in capo alle famiglieimprenditoriali.

164 Le aziende di famiglia “quotate”

51 Occorre considerare che l’acquirente, ove acquistasse il solo pacchetto di controllo adun prezzo di 822 udm (e non l’intero capitale a 1222 udm), potrebbe trovare remuner-azione delle sinergie da acquisizione soltanto tramite l’estrazione di benefici privati.L’equilibrio dell’operazione per l’acquisto del solo pacchetto di controllo potrebbedunque trovarsi nell’intervallo compreso tra 733 e 822 udm.

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Innanzitutto, elevati premi di controllo non sempre rappresenta-no un sintomo del consumo di benefici privati “distrattivi” o“distorsivi”, con conseguenze negative sul valore per gli azionisti diminoranza. Essi possono invece rappresentare il valore delle risorseidiosincratiche (“family-specific”) della famiglia.

Il mercato del controllo societario è meno attivo dove si applicala regola della “equal opportunity” (come ad esempio in Italia) e piùattivo dove vigono regole simili alla “market rule” (ad esempio StatiUniti e Regno Unito).

Di conseguenza la “equal opportunity rule” genera incentivi allaconcentrazione della proprietà in capo alle famiglie imprenditoriali.Essa, inoltre, genera disincentivi alla quotazione.

L’azienda a controllo familiare quotata è pertanto la risposta allanecessità di appropriarsi di una quota dei benefici privati di tipo“idiosincratico”, che andrebbero invece dispersi in caso di decon-centrazione della proprietà.

Gran parte di tali benefici sono ascrivibili alle opportunità diinvestimento alimentate dalla famiglia per il lungo termine. Il mer-cato non può prezzare tali opportunità in ragione dei loro contornisfumati, dell’estrema incertezza e dell’assenza di adeguate informa-zioni. L’azienda di famiglia è dunque una risposta all’esigenza disfruttare e non disperdere tali risorse imprenditoriali.

Quando ciò non avviene attraverso la cessione del controllo, ilsoggetto di comando tende a recuperare la quota di benefici priva-ti idiosincratici che va a beneficio degli azionisti di minoranza tra-mite il consumo di benefici privati di tipo “distrattivo” o “distorsi-vo”, che sono tuttavia economicamente inefficienti in quanto ridu-cono il valore dell’impresa o ne alterano la distribuzione. La regola-mentazione societaria ha la responsabilità di limitare tali fenomeni(ed in particolare i benefici “distrattivi”) o quantomeno di renderlinoti, così che gli investitori di minoranza possano valutarli compa-rativamente alla creazione di valore derivante dai benefici “idiosin-cratici”.

La separazione tra proprietà e controllo mediante meccanismi dipotenziamento del controllo (strutture piramidali, diverse classi diazioni, …) è in effetti una risposta a tale esigenza di conservazionedei benefici privati “idiosincratici”. In tali casi, essi possono assu-mere connotati positivi nella misura in cui consentono la crescita e

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la conservazione dei benefici privati “idiosincratici”, accompagnan-dosi quindi ad una migliore performance aziendale. Di questa,beneficiano anche gli azionisti di minoranza.

4.5. Controllo familiare, meccanismi di potenziamento del con-trollo e performance d’impresa: evidenze empiriche

Il filone di studi sulla performance comparata delle imprese familia-ri e delle imprese non familiari quotate sui mercati regolamentati èrelativamente recente e non ha raggiunto evidenze empiricheuniformi.

Tuttavia, vi sono consistenti evidenze empiriche che sembranoconfermare una performance differenziale a favore delle impresefamiliari.

Ciò confermerebbe la tesi del controllo familiare come strumen-to per lo sfruttamento di benefici idiosincratici ascrivibili a risorsedistintive, che andrebbero altrimenti persi, rispettivamente in tuttoo in parte, in caso di deconcentrazione del controllo o di trasferi-mento di esso a soggetti di comando non familiari.

Nel presente paragrafo si illustreranno alcune evidenze empiri-che relative ai seguenti aspetti:

– la performance delle imprese familiari, confrontata con quelladelle imprese non familiari;

– l’effetto del coinvolgimento attivo dei familiari nel governo enel management dell’impresa;

– l’effetto dei meccanismi di potenziamento del controllo;– l’effetto della proprietà e del governo familiare sui costi di

agenzia, sul costo del capitale e sull’orizzonte temporale delledecisioni.

Per meccanismi di potenziamento del controllo si intendono glistrumenti che i soggetti controllanti adottano per incrementare iloro diritti e poteri di controllo in misura più che proporzionalerispetto al capitale conferito. I più utilizzati sono le azioni di classespeciale (privilegiate, postergate, con diritto di voto non proporzio-nale, …), i patti parasociali, le strutture piramidali e la rappresen-tanza più che proporzionale all’interno del board.

Alcuni studi hanno direttamente affrontato il tema della perfor-

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mance delle imprese sui mercati azionari, mettendo a confronto leimprese a controllo familiare con le altre imprese.

Anderson e Reeb52, pur partendo da premesse teoriche opposte,hanno dimostrato che nell’ambito del campione S&P 500 le impre-se familiari hanno avuto performance migliori delle imprese nonfamiliari. La performance è stimata con parametri sia contabili(ROA) che di mercato (Tobin’s Q). Inoltre, le imprese con il CEOfamiliare hanno realizzato performance migliori delle imprese conCEO esterno. Infine, la relazione tra proprietà familiare e perfor-mance, pur rimanendo sempre positiva, non è lineare (è prima cre-scente, poi decrescente). Ciò suggerisce che la raccolta di capitaliper lo sviluppo unita al controllo familiare ed al coinvolgimentodella famiglia nella governance conduce ai migliori risultati, mentrela mera concentrazione azionaria è meno efficace.

Amit e Villalonga53, con uno studio simile sul campione Fortune500, dimostrano che le imprese familiari con il CEO o il Chairman(Presidente) familiare hanno performance migliori delle impresenon familiari. L’uso di meccanismi di potenziamento del controllo,tuttavia, ne riduce l’effetto. È interessante notare come le impresegovernate dai discendenti hanno, al contrario, performance peggio-ri delle imprese non familiari. Gli autori concludono che i costi diagenzia della relazione famiglia-minoranze sono minori di quellidella classica relazione proprietari-manager.

Tali evidenze empiriche contrastano con studi meno recenti rife-riti alla realtà statunitense54 o con analisi riferite ad altri contesti ter-ritoriali quali l’Asia dell’Est, in cui la minore tutela degli investitorigarantita dalla regolamentazione societaria potrebbe favorire l’e-strazione di benefici privati espropriativi a danno degli azionisti diminoranza55. Con riferimento all’Europa continentale, uno deglistudi più completi è quello di Barontini e Caprio, che conferma la

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52 RONALD ANDERSON – DAVID REEB, Founding-family ownership and firm performance: evi-dence from the S&P 500, in “The Journal of Finance”, n. 3, 2003.53 BELEN VILLALONGA – RAPHAEL AMIT, How do family ownership, management and con-trol affect firm value?, in “Journal of Financial Economics”, n. 2, 2006.54 CLIFFORD HOLDERNESS – DENNIS SHEENAN, The role of majority shareholders in publiclyheld corporations, in “Journal of Financial Economics”, n. 2, 1998.55 MARIA FACCIO – LARRY LANG – LESLIE YOUNG, Dividends and expropriation, in“American Economic Review”, n. 1, 2001.

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superiorità della performance delle imprese familiari, anche quandonella governance siano impegnati gli eredi del fondatore (meglioperò se siedono nel board senza essere CEO)56.

Alcuni di tali studi (ad esempio quello di Amit e Villalonga), purconfermando la migliore performance delle imprese familiari, evi-denziavano crescenti criticità, in termini di costi di agenzia e diperformance, al crescere del cuneo della separazione tra proprietà econtrollo57.

Numerosi studi sul tema sembrano confermare maggiori costi diagenzia e minore performance in presenza di un maggiore grado diseparazione tra proprietà e controllo, cioè di una maggiore differen-za tra diritti sui flussi di cassa e diritti di voto. Tra i lavori più noti ecompleti è possibile ricordare quello di Cronqvist-Nilsson, riferitoalla realtà svedese, in cui sono diffusissime le c.d. dual-class sha-res”58, e quello di Claessens et al., riferito all’Asia dell’Est59.

Recentemente, anche la letteratura sul cuneo tra proprietà e con-trollo sta però affinando le proprie analisi. La separazione tra pro-prietà e controllo è fenomeno articolato che può servire vari interes-si e finalità e la misura unitaria del fenomeno come differenza tradiritti di proprietà e diritti di voto non lo rappresenta adeguatamen-te. Gli approfondimenti del fenomeno hanno rimesso in discussio-ne la tesi dell’impatto negativo del cuneo.

Almeida e Wolfenzon, ad esempio, presentano un modello anali-tico che giustifica razionalmente le strutture piramidali senza ricor-rere all’ipotesi dei benefici privati di natura “espropriativa”60. Talistrutture consentono di finanziare lo sviluppo dando al soggetto dicomando il pieno accesso alle riserve di utili delle società che già

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56 ROBERTO BARONTINI – LORENZO CAPRIO, The effect of family control on firm value andperformance: evidence from continental Europe, in “European Financial Management”, n.5, 2006.57 In letteratura è invalso l’uso del termine “wedge” (cuneo, appunto) per evidenziare ladivergenza tra percentuale di proprietà ed influenza amplificata sul controllo. 58 HENRIK CRONQVIST – MATTIAS NILSSON, Agency costs of controlling minority sharehold-ers, in “Journal of Financial and Quantitative Analysis”, n. 4, 2003.59 STIJN CLAESSENS – SIMEON DJANKOV – JOSEPH FAN - LARRY LANG, Separation of owner-ship from control of East Asian firms, in “Journal of Financial Economics”, n. 1, 2000.60 HEITOR ALMEIDA –DANIEL WOLFENZON, A theory of pyramidal ownership and familybusiness groups, in “Journal of Finance”, n. 6, 2006.

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controlla e permettono al contempo di dividere con le minoranze iritorni della nuova iniziativa61.

In altri lavori, sono stati evidenziati altri ruoli positivi delle strut-ture piramidali, che possono supportare accordi strategici di tipo“equity”62, e dei patti parasociali, che possono favorire coalizioni incui si realizzano bilanciamento di poteri e stimolo reciproco all’im-pegno63.

Amit e Villalonga hanno proposto un modello di analisi delcuneo tra proprietà e controllo capace di distinguere fra i diversimeccanismi di potenziamento del controllo64. I risultati empiricidimostrano che le strutture piramidali e i patti parasociali hannoeffetti positivi sulla performance65, mentre le azioni con diritti diffe-renziati e la rappresentanza non proporzionale nell’organo di gover-no hanno effetti negativi.

Il modello di analisi di Amit e Villalonga distingue i seguentilivelli di controllo:

1. O = azioni possedute con o senza diritti di voto (diritti sui flus-si di cassa, o diritti di proprietà);

2. V = voti posseduti (diritti di voto), cioè diritti di voto associa-ti alle azioni possedute;

3. C = voti controllati (diritti di controllo), cioè diritti di voto difatto esercitabili lungo la catena di controllo, misurati dallapercentuale di voto più bassa in tale catena (the “weakestlink”66);

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61 Risultati empirici, basati anche sull’osservazione di casi storici, che vanno nella stessadirezione possono riscontrarsi, con riferimento rispettivamente all’Asia dell’Est edall’Italia, in: ALEXANDER AGANIN – PAOLO VOLPIN, History of corporate ownership in Italy,in RANDALL MORCK (Ed. by), The history of corporate governance around the world, op. cit.,2005; TARUN KHANNA –KRISHNA PALEPU, Is group affiliation profitable in emerging mar-kets? An analysis of diversified Indian business groups, in “Journal of Finance”, n. 2, 2000. 62 JEFFREY ALLEN –GORDON PHILLIPS, Corporate equity ownership, equity alliances, andproduct market relationships, in “Journal of Finance”, n. 6, 2000.63 MORTEN BENNEDSEN –DANIEL WOLFENZON, The balance of power in closely held corpo-rations, in “Journal of Financial Economics”, n. 1, 2000.64 BELEN VILLALONGA –RAPHAEL AMIT, How are U.S. family firms controlled, in “Review ofFinancial Studies” (forthcoming), 2008.65 La performance è stimata in termini di valore di mercato dell’impresa, tramite la Tobin’s Q.66 Ad esempio, se la famiglia possiede il 80% della Società A, che possiede il 40% dellaSocietà B, potendo però esercitare il 60% dei voti grazie all’esistenza di azioni senza dirit-to di voto, la percentuale di voti controllati (il “weakest link”) è il 60%.

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4. B = componenti del CdA controllati (diritti di nomina), cioè lapercentuale dei componenti dell’organo di governo che ènominata dalla famiglia di controllo (o comunque dal socio dicontrollo).

La separazione complessiva tra proprietà e controllo è misuratadalla differenza tra diritti di nomina e diritti di proprietà: (B – O).

Tale separazione complessiva può tuttavia essere facilmentescomposta nel modo seguente:

(B - O) = (V – O) + (C – V) + (B – C)

Dove:– le azioni con diritti di voto differenziati (“dual class shares”)

sono responsabili della differenza tra diritti di voto e diritti diproprietà (V – O);

– le strutture piramidali e i patti parasociali sono responsabilidella differenza tra diritti di controllo e diritti di voto;

– la rappresentanza non proporzionale nel board è responsabiledella differenza tra diritti di nomina e diritti di controllo.

In sintesi i risultati di Amit e Villalonga confermano, con riferi-mento agli Stati Uniti, che i meccanismi di potenziamento del con-trollo puri (cioè non aventi altre finalità) peggiorano la performan-ce, mentre quelli aventi anche altre finalità la migliorano.

Ciò supporta la tesi secondo la quale la concentrazione proprie-taria in mano alle famiglie imprenditoriali, anche potenziata dastrutture piramidali e accordi tra soci, può contribuire positivamen-te alla creazione di valore laddove sia mirata alla conservazione edall’alimentazione delle risorse distintive “family-specific”.

Naturalmente, le strutture di controllo più semplici e trasparen-ti sono in generale preferibili. Ma i sistemi di potenziamento delcontrollo possono essere accettabili se il prezzo da pagare è, alter-nativamente, la perdita del controllo e del valore delle risorse“family-specific”, ovvero la rinuncia alla crescita ed allo sfruttamen-to delle opportunità strategiche (in ragione del vincolo finanziarioimposto dalla necessità di mantenere il controllo).

In tal senso, l’evoluzione degli investitori specializzati in capitaledi rischio verso atteggiamenti meno speculativi e di protezione dalrischio potrebbe contribuire più diffusamente alla crescita delle

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aziende di famiglia, riducendo il ricorso a meccanismi di potenzia-mento del controllo.

Alcuni studi hanno cercato di comprendere se il modello digovernance familiare generi maggiori o minori costi di agenzia.

Chrisman, Chua e Litz classificano i costi di agenzia in quattrocategorie, in relazione al fatto che originino da:

– altruismo asimmetrico;– separazione tra proprietà e management;– conflitti di interesse tra proprietari e finanziatori esterni;– conflitti di interesse tra azionisti di controllo e minoranze67. Analisi empiriche per la misurazione di tali costi sono assai diffi-

coltose. Gli autori ne valutano l’entità studiando l’effetto dei mec-canismi di controllo di tali costi sulla performance, tenendo altresìconto del grado di coinvolgimento dei familiari. In linea generale, instudi riferiti alle imprese non quotate, i risultati sembrano confer-mare che le aziende di famiglia sono caratterizzate da minori costidi agenzia complessivi e che tali costi si riducono all’aumentare delcoinvolgimento dei familiari nel governo dell’impresa68.

Gli studi sui costi di agenzia delle aziende di famiglia quotatehanno analizzato anche le relazioni con il costo del capitale dirischio e con la qualità dell’informativa esterna.

Chi scrive ha analizzato tali aspetti con riferimento alle societàquotate italiane, trovando relazioni significative tra la familiaritàdell’impresa e, rispettivamente, il rischio azionario e la “earningsquality”.

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67 JAMES CHRISMAN – JESS CHUA - REGINALD LITZ, Comparing the Agency Costs of Familyand Non-Family Firms: Conceptual Issues and Exploratory Evidence., in “Entrepreneurship.Theory and Practice”, n. 3, 2004.68 Oltre al già citato studio di Chrisman, Chua e Litz, si vedano i seguenti ulteriori lavoririferiti al caso italiano: STEFANO CASELLI – ALBERTA DI GIULI, The importance of blockhol-der ownership, board of directors and supervisory board in the agency cost cutting: evidencefrom family and non family firms, paper presentato al convegno GSA AIDEA, Bocconi,Milano, 2007; STEFANO CASELLI – STEFANO GATTI - ALBERTA DI GIULI, Family Firms’Performance and Agency Theory: What’s Going on in the Italian Market?, in “The IcfaiJournal of Corporate Governance”, n.1, 2008. Il primo è relativo alle società non quotatee non trova rilevanza statistica della differenza tra i costi di agenzia nelle imprese familiarie nelle imprese non familiari, trovando però una relazione negativa tra coinvolgimento deifamiliari e costi di agenzia. Il secondo lavoro si riferisce alle società quotate e confermacome le aziende di famiglia quotate costituiscano un modello caratterizzato da bassi costidi agenzia solo se vi è ancora coinvolto il fondatore.

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Sotto il primo profilo, il rischio azionario è stato espresso dalBeta levered e mostra una correlazione negativa significativa con ilcontrollo familiare dell’impresa. Le aziende di famiglia, pertanto,sarebbero meno rischiose per gli investitori di minoranza rispettoalle aziende non di famiglia69.

Ciò è coerente con l’orientamento al lungo periodo e con altrilavori empirici70 e metodologici71 riferiti alle aziende di famiglia. Ilrisultato è però parzialmente contrastante con altri studi in meritoalla relazione tra concentrazione proprietaria e costo del capitale72.La spiegazione razionale può dunque risiedere nelle risorse distinti-ve ascrivibili alle famiglie proprietarie (ampiamente analizzate nelpresente capitolo), ma non alla generalità degli azionisti di bloccodelle società quotate.

Per quanto riguarda invece la qualità dell’informativa societaria,un modello di misura della “earnings quality” basato sulle politichedi bilancio di breve periodo delle società quotate ha confermato l’e-sistenza di una migliore qualità dei bilanci delle aziende di fami-glia73. Inoltre, l’effetto è più significativo quanto più alto è il coinvol-gimento dei familiari nell’organo di governo. Ciò è coerente con leassunzioni di un naturale allineamento di interessi tra soggetto dicontrollo ed azionisti di minoranza, con il ruolo di monitoring eser-

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69 RICCARDO TISCINI –FRANCESCA DI DONATO, Governance familiare, relazioni di agenzia ecosto del capitale di rischio nelle società quotate in Italia, in “Finanza e Industria in Italia –RomAidea06, 29° Convegno Annuale dell’AIDEA”, Bologna, Il Mulino, 2007.70 Sotto diverse prospettive di analisi, vi sono lavori che mostrano come le aziende di fami-glia abbiano performance migliori e scelgano strutture finanziarie meno rischiose delleaziende non di famiglia (DANIEL MCCONAUGHY – CHARLES MATTHEWS – ANNE FIALKO,Founding family controller firms: performance, risk and value, in “Journal of Small BusinessManagement”, n. 1, 2001) e come esse abbiano un costo del debito inferiore alle aziendenon familiari, evidenziando l’esistenza di minori costi di agenzia del debito (RONALD

ANDERSON – SATTAR MANSI – DAVID REEB, Founding family ownership and the agency costof debt, in “Journal of Financial Economics”, n. 2, 2003).71 THOMAS ZELLWEGER, Time horizon, cost of equity capital and generic investment strategiesof firms, in “Family Business Review”, n. 1, 2007.72 HOLLIS ASHBAUGH –DANIEL COLLINS – RYAN LAFOND, Corporate governance and thecost of equity capital, paper presented at the EAA Congress 2005 and available at SSRN,december, 2004.73 RICCARDO TISCINI –FRANCESCA DI DONATO, The impact of family control and corporategovernance practices on earnings quality of listed companies , paper presentato al Eiasmworkshop on Family Firms, Napoli, 2008 ed accettato per la presentazione al ConvegnoAnnuale AIDEA, Napoli, 2008.

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citato dalla famiglia sul management, nonché con gli effetti positividell’orizzonte temporale di lungo periodo (che riduce gli incentivi apolitiche di earnings management).

In conclusione, è in crescita il numero e l’importanza degli studiche sottolineano i tratti positivi, in termini di performance e costi diagenzia, delle aziende di famiglia quotate. Il problema dell’efficien-za delle strutture proprietarie, che la finanza d’impresa pone tradi-zionalmente in termini di minore efficienza della concentrazioneazionaria, deve quindi essere analizzato sotto diverse prospettive.Quella economico-aziendale delle risorse distintive ascrivibili allafamiglia costituisce un significativo contributo alla spiegazione delleevidenze empiriche.

Il problema dell’espropriazione delle minoranze, tuttavia, è lungidall’essere risolto e non va certo trascurato. Le leve per la tuteladelle minoranze devono però essere azionate avendo anche riguar-do alle risorse che, in assenza della concentrazione proprietaria incapo alle famiglie imprenditoriali, andrebbero disperse.

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Conclusioni

Le aziende di famiglia sono antiche quanto le aziende, ma l’interessedegli studi accademici per questo mondo è relativamente recente.

In economia è generalmente considerato un modello inefficiente.Una parte della letteratura preconizzava la scomparsa delle grandiaziende di famiglia ed un ruolo interstiziale per le piccole.

Le principali teorie sul governo d’impresa non spiegano adegua-tamente perché il controllo delle imprese quotate dovrebbe rimane-re in capo alle famiglie.

Eppure le aziende di famiglia sono tuttora una parte importan-tissima dei sistemi economici contemporanei; nella piccola dimen-sione, ovviamente, ma anche nella grande. Molte grandi aziende difamiglia sono casi di successo da decenni, ma raramente sono stu-diate nella prospettiva della loro “familiarità”. Gli studi economico-aziendali sulle grandi aziende di famiglia, quindi, non sono molti.

Da queste premesse l’interesse per i quesiti di ricerca. Possibileche la diffusione del fenomeno derivi soltanto da un problema ditutela degli investitori non protetti dall’estrazione di benefici priva-ti? O dalla psicologia del potere e delle emozioni? Possibile che ilpersistente successo delle grandi aziende di famiglia sia indipenden-te dalla loro “familiarità”?

L’ipotesi avanzata in questo volume è che il fenomeno si spieghiinvece con fattori del tutto economici, ed anche economicamenteefficienti.

Essi risiedono principalmente nella stabilità delle relazioni siste-miche tra famiglia, proprietà ed impresa. L’orientamento di fondodelle aziende non deriva da contratti tra soggetti, ma da relazioni trasistemi. E la caratteristica distintiva delle aziende di famiglia quota-te è la stabilità della loro relazione con la famiglia e la proprietà, che

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conferisce alle decisioni strategiche e di governo un orientamento allungo termine difficilmente riscontrabile in altri modelli di pro-prietà.

La stabilità consente una valutazione delle combinazionirischio/rendimento di più ampio respiro. Non c’è l’assillo dei mer-cati o la minaccia di perdere il controllo, quindi si può investire nel-l’impresa tutto quello che si ha ed aspettarne “pazientemente” iritorni.

Ma cosa hanno in più le famiglie imprenditoriali rispetto aimanager ed alle altre categorie di azionisti? Se l’oggetto dell’analisisono le grandi imprese quotate, non vi è alcuna ragione per cui lafamiglia debba sistematicamente possedere competenze imprendi-toriali e manageriali migliori degli altri.

Le vere risorse distintive sembrano essere la capacità di genera-zione di opportunità di business, che deriva dalle relazioni sociali edi fiducia che la famiglia instaura con gli interlocutori esterni, e l’o-rientamento al lungo periodo, che suggerisce di mantenere “in por-tafoglio” tali opportunità di business in quantità molto maggiore diquanto non farebbe il manager di una public company o un fondo diprivate equity.

Questo è un valore, anche se ha origine in flussi futuri che il mer-cato non può “prezzare” e in una valutazione soggettiva del rischio“smussata” dalla lunghezza dell’orizzonte decisionale.

L’impresa, quindi, ha un valore strategico per la famiglia che èsuperiore a quello che il mercato può esprimere: c’è un premio divalore “family-specific”. Ai valori di mercato, quindi, la famiglia noncede il controllo.

Il mercato del controllo societario è fermo. A ben vedere non cisono però particolari ragioni per cui debba muoversi, almeno finchénon c’è un potenziale compratore che stima sinergie da acquisizio-ne maggiori del premio di valore “family-specific”. In questo caso sìche il mercato del controllo deve muoversi, ma ciò avviene solo sela famiglia può ottenere una remunerazione pari al valore delle suerisorse “family-specific”.

Senza particolari vincoli di regolamentazione dei takeover (c.d.“market rule”), la famiglia otterrebbe un premio di controllo com-misurato al valore di tali risorse.

Si tratta di benefici privati, perché è un valore che il mercato non

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riesce a “prezzare” e che al mercato non spetta (sono risorse“family-specific”, di cui le minoranze beneficeranno solo quando,gradualmente, si convertiranno in flussi di risultato valutabili). Sonoperò benefici privati “idiosincratici” (secondo la tassonomia diPacces), proprio in quanto ascrivibili esclusivamente all’interazionesistemica famiglia-impresa.

Il premio di controllo non ha quindi solo connotati di inefficien-za; è efficiente quando è a fronte di tali benefici privati “idiosincra-tici”. E in questi casi, dunque, deve essere libero di formarsi sulmercato.

In presenza di tali benefici privati “idiosincratici”, le regole ditipo “equal opportunity” sembrano quindi frenare ingiustificata-mente il mercato del controllo. Non danneggiano tanto le famiglieimprenditoriali, che continuano a godere delle loro risorse distinti-ve (e, perché no, dei loro benefici psicologici) rimanendo nel con-trollo; piuttosto, innalzando la soglia di convenienza dell’operazio-ne, fanno perdere al mercato l’opportunità di potenziali comprato-ri con sinergie da acquisizione superiori al premio di valore “family-specific”.

Il controllo familiare ha valori e disvalori, che sono lo specchiodei benefici privati. Questi ultimi sono di vario tipo: possono rap-presentare una distrazione di risorse dagli azionisti di minoranza alsocio di controllo, ma anche valori idiosincratici aggiuntivi che ilsocio di controllo trasferisce all’azienda (e quindi anche alle mino-ranze). L’importante è che le regole fermino gli abusi e che le deci-sioni economiche possano compiersi tenendo conto delle diversefacce della medaglia.

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