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IL dio che emerge dalla lettura biblica attraversio il silenzio è un Dio sofferente, la sofferenz di Di o non è compatibile con l’idea che deriva dalla lettura biblica attraverso la parola Teologia del silenzio: idea di un Dio che diviene Teologia della parola: essenza di Dio resta sempre uguale Il silenzio è visto da Neher come una modalità attraverso cui analizzare il silenzio, ciò che faremo in questo paragrafo più specificamente e nel corso dell’intero capitolo in generale è mostrare come questa lettura sia, secondo noi, una presa di posizione nei confronti di Dio stesso e che questa lettura porti ad una ridefinizione dello stesso concetto di Dio. Il primo elemento che analizzeremo è il concetto di parola. Anzi vedremo che rapporto abbiano i due personaggi con la parola, e più specificamente con il dialogo, il quale può essere sia orizzontale, i dialoghi che riguardano i personaggi umani delle due vicende e sia il dialogo verticale, il dialogo cioè che hanno gli uomini con Dio. Vedremo come da un lato esiste un dialogo aperto e fecondo tra Abramo e i personaggi umani e tra Abramo e Dio, dialogo che avrà delle ripercussioni anche sull’episodio dell’aqedah, dall’altro lato non esiste nessuna forma di dialogo non solo tra Dio e Giobbe, ma anche tra Giobbe e i personaggi con cui si imbatterà, e questa mancanza di dialogo avrà enormi conseguenze sulla sua vicenda. Una parola che “ritorna migliaia di volte nella Bibbia” è dabar. È una parola per certi versi strana, perché tiene uniti due campi semantici apparentemente diversi. Infatti questo termine è tradotto sia come “parola” sia è come “cosa”. Tiene uniti dunque sia il campo semantico del “verbo” sia il campo semantico dell’azione, rinvia “all’ordine dell’agire e all’ordine del parlare senza che fra questi sia possibile individuare una cesura, un taglio o una differenza” facioni pag 23. È una parola che è allo stesso tempo un’azione (nota Austin performativi). La creazione di Dio nel primo libro della Genesi sembra essere l’esempio più illustre del termine dabar: abbiamo infatti la narrazione di un Dio che parlando compie delle vere e proprie azioni. E il quarto vangelo sembra riprendere la stessa idea di fondo: “In principio era il Verbo.” Sia la creazione del mondo in

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IL dio che emerge dalla lettura biblica attraversio il silenzio è un Dio sofferente, la sofferenz di Di o non è compatibile con l’idea che deriva dalla lettura biblica attraverso la parola

Teologia del silenzio: idea di un Dio che diviene

Teologia della parola: essenza di Dio resta sempre uguale

Il silenzio è visto da Neher come una modalità attraverso cui analizzare il silenzio, ciò che faremo in questo paragrafo più specificamente e nel corso dell’intero capitolo in generale è mostrare come questa lettura sia, secondo noi, una presa di posizione nei confronti di Dio stesso e che questa lettura porti ad una ridefinizione dello stesso concetto di Dio.

Il primo elemento che analizzeremo è il concetto di parola. Anzi vedremo che rapporto abbiano i due personaggi con la parola, e più specificamente con il dialogo, il quale può essere sia orizzontale, i dialoghi che riguardano i personaggi umani delle due vicende e sia il dialogo verticale, il dialogo cioè che hanno gli uomini con Dio. Vedremo come da un lato esiste un dialogo aperto e fecondo tra Abramo e i personaggi umani e tra Abramo e Dio, dialogo che avrà delle ripercussioni anche sull’episodio dell’aqedah, dall’altro lato non esiste nessuna forma di dialogo non solo tra Dio e Giobbe, ma anche tra Giobbe e i personaggi con cui si imbatterà, e questa mancanza di dialogo avrà enormi conseguenze sulla sua vicenda.Una parola che “ritorna migliaia di volte nella Bibbia” è dabar. È una parola per certi versi strana, perché tiene uniti due campi semantici apparentemente diversi. Infatti questo termine è tradotto sia come “parola” sia è come “cosa”. Tiene uniti dunque sia il campo semantico del “verbo” sia il campo semantico dell’azione, rinvia “all’ordine dell’agire e all’ordine del parlare senza che fra questi sia possibile individuare una cesura, un taglio o una differenza” facioni pag 23. È una parola che è allo stesso tempo un’azione (nota Austin performativi). La creazione di Dio nel primo libro della Genesi sembra essere l’esempio più illustre del termine dabar: abbiamo infatti la narrazione di un Dio che parlando compie delle vere e proprie azioni. E il quarto vangelo sembra riprendere la stessa idea di fondo: “In principio era il Verbo.” Sia la creazione del mondo in sei giorni sia l’idea che in principio era il verbo partono da un’idea sostanzialmente comune: cioè all’inizio esiste la parola. Non c’è spazio per le cesure, non c’è spazio per il silenzio. Tutto è pieno e non c’è spazio per il vuoto. Questo discorso lo riprenderemo nel terzo paragrafo laddove vedremo come Neher capovolge il pensiero di pensatori come Agostino, Maimonide e Leibniz i quali appunto sostengono l’impossibilità del silenzio all’interno della Bibbia. Per ora noteremo semplicemente come il termine dabar venga usato per la prima volta nell’undicesimo capitolo della Genesi. Fino a questo punto preciso della Genesi “rispetto a Dabar, rispetto a questo termine che ch’ora designerà per eccellenza la Parola, il Logos, il Verbo, ma anche la Cosa, l’Oggetto, l’Avvenimento, rispetto a questo termine dabar, grazie al quale d’ora in poi la Parola, il Mondo e la Storia potranno essere enunciati con maiuscole e nell’autorità piena del loro significato, nulla è ancora esistito.”pag 104 Questo perché fino all’undicesimo capitolo all’interno della Bibbia non esiste alcuna forma di dialogo, né orizzontale, cioè tra gli uomini, né verticale, cioè tra uomo e Dio. Iniziamo con il dialogo orizzontale: prima della vicenda di Abramo si incontrano nella Bibbia due coppie: quella di Adamo ed Eva e quella di Caino e Abele. Entrambe le coppie sono caratterizzate dalla manca completamente il dialogo. Si badi bene ciò che manca non è la parola, sia Adamo che Eva parlano molto, però queste parole costituiscono dei monologhi e non dialoghi.Le prime due persone della creazione sono due persone che non si rivolgono la parola, e mentre Adamo fa effettivamente un monologo (nota), Eva parla con il serpente, parla con Satana.

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L’altra coppia è quella di Caino e Abele. Anche in questo caso il dialogo viene completamente a mancare.Entrambe le coppie non sanno inventare il dialogo, le loro parole hanno al loro interno, paradossalmente, l’alone del silenzio, il quale ha come sua conseguenza la morte. Sembra che << l’obliterazione del dialogo fosse all’origine dell’omicidio.>>107 Il silenzio porta alla morte. Silenzio in questo caso non inteso come mancanza di parola ma come mancanza di dialogo.

Il primo personaggio che inaugura il dialogo non solo con Dio ma con gli altri uomini è proprio Abramo. Egli infatti “Dà del tu alla moglie Sara”124 dà del tu a Lot e in questo modo “riscatta in certo qual modo i “peccati di silenzio della prima coppia di sposi e della prima coppia di fratelli: aggancia il dialogo orizzontale all’accordo coniugale e alla concordia fraterna; stabilisce la comunicazione attraverso le forme fondamentali del “darsi del tu” dell’amore. E in Giobbe? Esiste dialogo orizzontale. Curiosamente i due tipi di personaggi con cui Giobbe verrà ad incontrarsi sono la moglie e gli amici. Dal nostro punto di vista però la vicenda di Abramo sembra essere un caso diverso sia delle prime due coppie incontrate nella Bibbia in cui il dialogo era assente, sia rispetto al caso di Abramo in cui il dialogo tra i personaggi umani era fecondo. Da questo punto di vista la vicenda di Giobbe sarà un caso sui generis, in cui gli si verranno ad intrecciare elementi che riguardano sia i casi in cui il dialogo era nullo, sia il caso di Abramo in cui il dialogo è invece florido.Dal punto di vista orizzontale ci sembra di poter dire che, mentre da un lato Giobbe ha dei dialoghi con i personaggi con cui si incontra, dall’altro lato però questi dialoghi sono destinati a fallire, e gli stessi concetti di amicizia e di amore coniugale, che erano apparsi per la prima volta in Abramo sembrano capovolgersi. Il primo personaggio con cui Giobbe si imbatte dopo aver perso tutto è la moglie. La sua apparizione è fugace quanto profonda. Le sue sole parole sono: << Rimani ancora fermo nella tua integrità? Maledici Dio e muori.>> C’è quel “tu” inaugurato Abramo, ma in questo caso l’accordo coniugale che evinceva dal dialogo di Abramo con Sara qui è totalmente assente. Anzi è lo stesso Giobbe che lo tronca repentinamente: << Parli come un’insensata! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?.>> Non potrebbe esserci disaccordo più ampio. Questo perché mentre Giobbe sta (almeno nella prima parte del libro) dalla parte di Dio ed è pronto ad accettare le disgrazie così come si accettano le buone notizie, la moglie sta dalla parte di Satana.Il ruolo tentatrice della donna non è nuovo nella Bibbia, basti pensare alla moglie di Potifar o alle mogli di Salomone. Ma l’antesignana delle donne tentatrici è proprio Eva. Dice Neher :<<[S]e infatti Eva è più astuta del serpente, la moglie di Giobbe è più astuta di Satana.>> Gli offre un modo per mettere fine alle proprie sofferenze, la moglie sostiene il campo semantico della morte, Giobbe quello della vita, ma sia vita e sia morte hanno in questo momento come sfondo il silenzio, Giobbe <<[N]on evaderà verso il silenzio della morte; continua ad affrontare il silenzio della vita.>>Esiste dunque un dialogo, seppure fugace, tra Giobbe e la moglie, però questo dialogo mostra due punti di vista completamente diversi. Dialogo si, ma senza nessun accordo, perché i punti di vista sono ancora una volta differenti.La stessa cosa si può dire riguardo al rapporto tra Giobbe e gli amici. Anche in questo caso esiste il dialogo, e anzi questo dialogo occuperà gran parte del libro, ma è un dialogo, ancora una volta, tra sordi. In quanto i primi sono i portatori di <<argomenti logici>>lancellotti 59, mentre per Giobbe i discorsi degli amici sono insufficienti a spiegare il suo dramma e chiede a più riprese il confronto con Dio.Passiamo, invece, al dialogo verticale, al rapporto cioè dei due personaggi con Dio.Abbiamo detto come Abramo sia colui che inaugura il dialogo orizzontale, non

Per quel che riguarda il dialogo verticale vediamo invece come ci sia un vero e proprio nascondimento dei personaggi biblici nei confronti di Dio, <<[L]a colpa di Adamo non è stata di mangiare il frutto proibito, ma di nascondersi da Dio dopo averlo mangiato>> Heschel 135

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Una parola che nella Bibbia è usata sovente è quella di dabar. Questo termine è, innanzitutto, un termine che tiene insieme significati diversi, o quantomeno, è un termine che in altre lingue deve essere necessariamente reso attraverso l’utilizzo di due parole. In questo caso dabar, per esempio in italiano dovrebbe essere tradotto con “parola” e “cosa”, o ancora in greco antico sarebbe tradotto in λόγος e τά όντα. In altre parole il termine ebraico “ha una sostanziale corrispondenza di significato, origine culturale e religiosa con il Logos cristiano” (corpo a corpo). Questo significa che il termine dabar è sostanzialmente un performativo, cioè un termine attraverso cui si ha un’azione, si ha una creazione. Dabar è parola e cosa insieme, attraverso il dabar Dio crea. Il problema però consiste nel fatto che questo termine appare per la prima volta soltanto nel XI capitolo della Genesi. “Come! La Bibbia non è la parola di Dio? Dio non ha parlato, non ha creato? […] Dobbiamo arrenderci all’evidenza: […] Rispetto a dabar, rispetto a questo termine che d’ora in poi designerà per eccellenza la Parola, il Logos, il Verbo, ma anche Cosa, l’Oggetto, l’Avvenimento, rispetto a questo termine dabar, grazie al quale d’ora in poi la Parola, il Mondo e la Storia potranno essere enunciati con maiuscole e nell’autorità piena e nell’autorità piena del loro significato, nulla è ancora esistito fino a questo momento”. Fino all’undicesimo capitolo della Bibbia dunque non abbiamo dabar, abbiamo un altro verbo e più specificamente il verbo amar, che non significa parlare ma più semplicemente dire. Il motivo perché avviene tutto questo deriva dal fatto che fino all’XI capitolo della Genesi ogni forma di dialogo è destinato a fallire, anzi non abbiamo nessun tipo di dialogo. Fino ad Abramo abbiamo a che fare con ciò che Neher indica come monologhi. O paralleli come quello tra Adamo ed Eva o fratricidi come quello tra Caino e Abele. Detto in altri termini c’è in questi primi capitolo della Genesi una sorta di nascondimento dell’uomo nei confronti di Dio, come dice Joshua Heschel: “La colpa più grave di Adamo non è stata di mangiare il frutto proibito, ma di nascondersi da Dio dopo averlo mangiato.«Dove sei?» Dov'è l'uomo? è il primo interrogativo che si incontra nella Bibbia.” Hesc pag135 Nei primi capitolo della Genesi dunque esiste uno sfondo silenzioso, i protagonisti si portano dietro di sé il germe del silenzio o comunque del non dialogo.Con Abramo tutto muta. Con questa figura non solo abbiamo l’inizio del dialogo orizzontale (cioè del dialogo che riguarda gli uomini), ma anche del dialogo verticale( del dialogo che riguarda l’uomo e Dio). In questo modo “Abramo ha ridato al Dabar il suo significato umano: ha introdotto la Parola nella Storia”124. Ma oltre al dialogo orizzontale, è iniziatore del dialogo verticale, del dialogo con Dio. Non è più Dio che cerca il dialogo come era avvenuto fino ad ora, ma è l’uomo che prende l’iniziativa, è Abramo che “ con un atto iniziatore lancia a Dio la sfida del dialogo”. Il dialogo non è qualcosa che l’uomo ottiene da Dio, ma è una vera e propria conquista fatta dall’uomo. Da questo punto di vista Abramo libera, come detto, il dabar, la quale “non è più una cosa morta “, ma diventa una cosa viva, diventa Storia. E Giobbe in tutto questo come si colloca?.Ora, è difficile rintracciare nell’opera di Giobbe il concetto di dialogo, o meglio del concetto di dialogo così come è presente nella vicenda di Abramo. Pensiamo innanzitutto a quello che Neher chiama dialogo orizzontale, il dialogo cioè con gli altri uomini. Nel caso di Giobbe, rispetto agli altri personaggi ( gli amici, e la moglie) non si può assolutamente parlare di dialogo. Anzi, proprio questi personaggi rappresentano degli ostacoli. Si ha un capovolgimento, in questo senso del sentire comune, la moglie e gli amici non fanno quello che di solito fanno le mogli e gli amici, ma si uniscono e diventano entrambi nemici di Giobbe. Così come nel primo capitolo abbiamo visto che il dialogo con Dio in realtà era un dialogo impossibile, qui diremo (e avremo modo di tornarci) che il dialogo da punto di vista orizzontale nel libro di Giobbe è assente sia verso gli amici che verso la moglie. E con Dio?, o meglio, utilizzando il linguaggio di Neher è possibile vedere in Giobbe un dialogo verticale?. La situazione è un po’ complessa, ciò che possiamo dire sicuramente è che a Giobbe ciò che non manca è l’iniziativa. Di fronte al silenzio prolungato di Dio è l’uomo che cerca il dialogo con Dio, o meglio cerca più che altro un confronto. Eloquenti da questo punto di vista sono frasi del tipo “ voglio discutere con Dio” mostra la volontà di Giobbe di dialogo. Per la

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seconda volta è l’uomo che cerca il contatto con Dio. Però le analogie finiscono qui, in primo luogo perché è Dio che non accetta il dialogo, è lo stesso Giobbe a dire: “[P]erchè mi nascondi il tuo volto e mi consideri come un tuo nemico?”. Mentre in un caso Dio accetta il dialogo, nell’altro caso le parole cozzano inesorabilmente con il silenzio più profondo di Dio. Il primo elemento da rilevare dunque nel rapporto tra Abramo e Giobbe è che mentre in un caso siamo nel completo dialogo, nell’altro caso il dialogo è assente sia dal punto di vista orizzontale che dal punto di vista verticale. Cioè mentre in Abramo la parola diventa parola viva, in Abramo lo sfondo è uno sfondo silenzioso. Anche le parole nel dramma di Giobbe hanno questa caratteristica: quella di essere parole con il marchio del silenzio.Comunemente si ritiene come le vicende di Giobbe e quella di Abramo siano equiparabili almeno da un lato: cioè entrambi i personaggi hanno a che fare con delle prove. Entrambi i personaggi sono accomunati dal fatto che Dio li sceglie per delle prove. Ed è proprio all’interno della prova che il silenzio, almeno quello di Dio, trova il suo posto centrale, durante la prova “ è la rottura, il silenzio, la sfida”. La differenza, però, secondo Neher, delle due vicende è molto ampia, tanto che mette in dubbio la possibilità che per entrambe le vicende si possa parlare legittimamente di “prova”. Questo perché mentre una prova va a buon fine (quella di Abramo) l’altra fallisce. Abbiamo detto precedentemente come sia Abramo a inaugurare quello che è il dialogo verticale, il dialogo cioè tra Dio e l’uomo, più in generale il dialogo tra Dio e Abramo è sempre presente e lo è anche nel ventiduesimo capitolo. Il quale si apre con la chiamata di Dio nei confronti di Abramo. Abramo dice subito si, dice “eccomi” senza sapere a cosa possa portare quel dire di si. Però questo “eccomi” non può essere scisso dai capitoli precedenti, in cui il dialogo con il Signore è stato costante, in più nel momento in cui viene chiamato, per l’ultima volta, dal Signore, si era praticamente avverata quella che era stata la promessa di Dio, “ [I]l figlio della promessa era nato […], la terra era stata appena riconosciuta con un patto solenne concluso con uno dei sovrani della Filistea” 184 L’”eccomi” di Abramo ha quindi tante giustificazioni, in più è lo stesso Dio a specificargli in cosa consisteva la sua prova. Ad Abramo è stato chiesto di sacrificare Isacco, a Giobbe nulla è stato chiesto. Dicevamo all’inizio come le vicende di Giobbe e di Abramo si distinguessero nella loro similitudine. Il fatto, per esempio, che in entrambe le vicende siano implicati i figli dei due personaggi è un elemento che solo apparentemente accomuna i suoi drammi, in realtà li diversifica in maniera totale. Una prima diversificazione deriva proprio dal fatto che mentre ad Abramo Dio chiede di sacrificare il figlio, a Giobbe non chiede nulla. Per cui mentre << Abramo era pronto a dare suo figlio, Giobbe non ha dato nulla per la semplice ragione che non gli è stato chiesto.142 In un caso abbiamo la voce “amica” di Dio, nell’altro caso abbiamo il silenzio più totale. Inoltre Neher afferma come l’atteggiamento di Dio nei confronti di Giobbe <<sa di brigantaggio, e persino di doppiezza, poiché l’aggressione non è neppure compiuta da Lui, ma da uno dei suoi sostituti –Satana!”143 Il fatto che la prova in Abramo inizi con la chiamata di Dio significa inoltre che la prova ha un suo inizio. Mentre per Giobbe la prova non ha un inizio vero e proprio (si noti che stiamo parlando di Giobbe e non di noi lettori). E questo significa altresì che mentre la prova di Abramo avrà una fine, quella di Giobbe non la potrà avere, in primo luogo per una motivazione essenzialmente logica, infatti la prova di Giobbe non inizia. Ma se la prova di Giobbe non ha un inizio né una fine ha senso chiamarla ancora prova?. Dice Neher << Ogni prova è infatti limitata nel tempo. Possiede un inizio; possiede una fine. All’inizio, Dio e l’uomo sottoposto alla prova si conoscono, si parlano, si stimano reciprocamente. Alla fine, Dio e l’uomo provato si riconoscono, riannodano il dialogo, ritrovano la loro reciproca stima.>>141 Queste parole vanno bene per il dramma di Abramo ma appaiono fuori luogo nella vicenda di Giobbe. Abbiamo già detto che in Giobbe non esiste un inizio e una fine certa in più nella vicenda di Giobbe non c’è da riannodare

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nessun dialogo, perché questo dialogo è assente. Ancora più in generale la vicenda di Abramo può essere considerata una prova perché ha al suo interno una circolarità: all’inizio c’è una situazione amena, nel mezzo c’è una peripezia con il conseguente silenzio e infine si ha un ritorno perfetto alla situazione iniziale. Il finale da questo punto di vista può esserci solo in questa maniera, solo cioè se si ritorna alla situazione iniziale. E in Abramo questo avviene. All’inizio della vicenda Abramo tiene per mano Isacco, situazione che si ripeterà perfettamente alla fine. Lo stesso episodio segna idealmente l’inizio e il termine della prova. In Giobbe tutto questo non avviene. Non esiste una situazione finale che corrisponda perfettamente alla situazione finale. Ancora una volta, apparentemente la vicenda si svolge allo stesso modo. La situazione è amena e felice, irrompe poi una peripezia che mette a soqquadro la situazione iniziale, e alla fine si ha il ritorno della situazione iniziale. In fin dei conti all’inizio Giobbe possiede ricchezze che avrà anche alla fine, anzi saranno moltiplicati. All’inizio della vicenda Giobbe possiede dei figli e anche alla fine della vicenda possiederà dei figli. Ma in realtà durante l’ampio arco di tempo che intercorre tra la situazione iniziale e quella finale irrompe un elemento che metterà fine a qualsiasi possibilità di riconciliazione con il passato: entra in gioco la morte. I figli che Giobbe possiederà alla fine della vicenda lungi dall’essere gli stessi che possedeva all’inizio sono diversi. Sono dei nuovi figli. E i figli vecchi che fine hanno fatto?, semplicemente sono morti, e non sono stati riscattati. Da questo punto di vista questa vicenda ricorda da vicino la vicenda degli ebrei del ‘900, anche in quel caso i morti dei campi di sterminio non sono riscattati. Gli ebrei sopravvissuti avranno nuovi figli che però non saranno i vecchi. Su questo ci ritorneremo nel prossimo paragrafo. Quello che ci interessa qui è il fatto che per Giobbe, in definitiva “ i figli che aveva perduto sono perduti per sempre. Non li ritrova; ne ha altri; con procreazioni dolorose, come ogni generazione esposta a rischi. Giobbe alla fine del racconto, non ha l’happy end della bella addormentata che ritrova ciò che aveva perduto” ebraismo 104. È questa una delle differenze sostanziali tra il dramma di Giobbe e quello di Abramo. Mentre per quest’ultimo tutto si conclude con l’ultima parola del capitolo, per Giobbe la conclusione non è data affatto dalle parole di Dio. In più la teofania, l’apparizione di Dio non spiega nulla della vicenda di Giobbe. Come già avevamo visto nel primo capitolo, le parole di Dio sono completamente avulse dal dramma di Giobbe, non riguardano questa vicenda. La diversità delle due vicende non consiste solo nel fatto che i due personaggi hanno due atteggiamenti diversi nei confronti di Dio, ma la differenza consiste nel fatto che anche Dio ha con questi due personaggi un atteggiamento diverso. Leale nel primo caso, meschino nell’altro caso. Ciò che vengono ad entrare in conflitto sono due visioni teologiche completamente diverse. Una la possiamo identificare con la vicenda di Abramo, l’altra con la vicenda di Giobbe. Il Dio all’opera nella vicenda di Giobbe, dice Neher, è il Dio dei ponti sospesi. Dio, idealmente costruisce un ponte, lo fa mettendo alla prova Abramo, ma questo ponte è destinato a tenere. Tiene “perché un Altro vigila ai due capi del ponte .“ I ponti sospesi sono destinati a vacillare ma a mantenere. Mentre in Giobbe il ponte non tiene, il ponte si spezza, e si spezza in primo luogo perché la prova è attraversata dalla morte. In questo caso non possiamo parlare più di ponte sospeso, dobbiamo parlare di arcata spezzata. Entrano in gioco due concezioni diverse di Dio, la prima in cui il negativo è completamente lasciato in disparte. Non a caso questa concezione teologica ha secondo Neher “una fine conciliatrice.” L’altra concezione, invece, quella di Dio come arcata spezzata ha invece al suo interno il concetto di negativo, in questo caso la conciliazione è completamente assente.

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La prima, banale, constatazione che si può fare è che in un caso una vita viene, miracolosamente, risparmiata. Infatti, proprio nel momento dell’esecuzione, l’intervento provvidenziale dell’Angelo del Signore evita che Abramo uccida l’innocente Isacco; mentre nell’altro caso, nel caso dei figli di Giobbe, viene violato il quinto comandamento, e vengono uccisi dieci innocenti. Ma ciò che ci interessa in modo particolare è il fatto che alla fine del libro, quando cioè Dio riprende la parola e ridà al povero sventurato quello che ha perduto, i figli non vengono riscattati. Cioè sono dati a Giobbe dei figli, però questi non sono quelli persi, ma sono “nuovi”. Proprio questo mancato riscatto dei figli è un elemento doppiamente importante in quanto da un lato è uno degli elementi che contribuisce a creare intorno alla vicenda di Giobbe un’aura di mistero e di enigmaticità che ha portato tanti studiosi a confrontarvisi(e tra poco ci ritorneremo), dall’altro mostra proprio ciò che abbiamo detto precedentemente. Infatti, apparentemente in entrambe le vicende sembra svolgersi il medesimo schema: abbiamo una situazione iniziale amena che viene rotta, poi abbiamo il momento della prova in cui si concretizza il silenzio di Dio e alla fine si ha oltre che il ritorno della parola divina, il ritorno alla situazione amena e tranquilla da cui era partito il dramma. Lo schema, apparentemente, è seguito in entrambe le vicende. Ma in realtà non è così, in quanto schema può applicarsi in modo precipuo solo alla vicenda di Abramo. Solo in questo caso, infatti, la situazione finale equivale a quella iniziale. Nella situazione iniziale Isacco è vivo e lo è anche alla fine. In Giobbe, proprio perché i figli non vengono riscattati, la situazione finale differisce da quella iniziale. Per Giobbe, in definitiva “ i figli che aveva perduto sono perduti per sempre. Non li ritrova; ne ha altri; con procreazioni dolorose, come ogni generazione esposta a rischi. Giobbe alla fine del racconto, non ha l’happy end della bella addormentata che ritrova ciò che aveva perduto” ebraismo 104. Quindi mentre in un caso, nel caso di Abramo, la parola di Dio ristabilisce l’ordine che era stato rotto per dare avvio alla prova, nella vicenda di Giobbe la parola divina non ha la stessa efficacia. Abbiamo detto nell’introduzione a questo capitolo come il confronto tra la vicenda di Giobbe e quella di Abramo avrebbe condotto alla paradossale affermazione secondo cui si ha una vera e propria prova solo nella vicenda di Abramo e non in quella di Giobbe. E proprio il mancato riscatto dei figli è uno degli elementi che conduce a questa affermazione paradossale. Infatti dice Neher: “ La prova di Abramo fu una prova autentica […] perché, in quella prova, ci fu un saldo, un pareggio contabile con il quale l’inizio ( Abramo che tiene Isacco per mano) si ritrova in modo identico nella fine”.143 Invece nella vicenda di Giobbe è “eccessivo” parlare di una prova, in primo luogo per il fatto che il saldo è iniquo. Questa biforcazione tra una prova vera (Abramo) e una prova falsa (Giobbe) la ritroveremo anche più tardi. Abbiamo lasciato un elemento in sospeso. Abbiamo detto che il mancato riscatto dei figli rappresenta uno degli elementi che rendono ancora di più problematico il dramma di Giobbe e che ha spinto molti intellettuali a concentrarvisi. E proprio su questo tema specifico si è, per esempio, interrogato più volte Fedor Dostoevskij. Ne I fratelli Karamazov si ha una vera e propria parafrasi del libro di Giobbe, con la sostituzione “ dei diversi termini utilizzati dalla Bibbia- << syno’jà, òtroki>> (figli, adolescenti) - con l’unico termine << deti>>(bambini, figli)- il quale, con la sua ambivalenza, sposta il rifermento semantico dal piano dell’età a quello del rapporto filiale- e la ripetuta introduzione di una nota di amore paterno assente nell’originale, parrebbero infatti centrare la narrazione unicamente sul mistero dell’amore verso i nuovi figli” (ghini). Si viene a creare all’interno del romanzo una dialettica tra due personaggi che prendono posizione, seppure in maniera diversa, nei confronti del tema su cui abbiamo puntato la nostra attenzione. I due personaggi sono lo starec Zosima e Ivan Karamazov. È proprio padre Zosima, sul letto di morte, che propone la perifrasi già citata e dice: “ Dio risolleva Giobbe un’altra

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volta, gli restituisce la ricchezza, passano molti anni, ed ecco che egli ha di nuovo figli, altri figli e li ama.”pag 391 Padre Zosima mette in dubbio la felicità di Giobbe di fronte al fatto che i vecchi figli non gli sono restituiti: “Ma come poteva amare questi nuovi figli ci si domanda, quando i primi non c’erano più, quando li aveva perduti tutti? Ripensando a loro, è possibile che fosse pienamente felice come prima, con i suoi nuovi figli, per quanto cari gli fossero”391 Ma alla fine questo personaggio vede come “possibile” per Giobbe la felicità nonostante la morte dei suoi dieci figli. L’altro personaggio in questione è Ivan Karamazov, il personaggio ateo del romanzo. Il suo ateismo è fondato sulla sofferenza degli innocenti e in particolar modo dei bambini: “ Io non parlo delle sofferenze dei grandi, quelli hanno mangiato il frutto proibito, e vadano pure al diavolo tutti quanti! Ma i bambini, i bambini…”324 Nello specifico ciò che Ivan rifiuta è la strumentalizzazione dei bambini, cioè il loro uso in vista di un altro scopo e nel caso specifico lo scopo ultimo è l’armonia finale che si ha in paradiso. La sofferenza è il prezzo da pagare per una futura armonia, così anche la sofferenza dei bambini funge da “concime”. È su questo punto che si basa l’ateismo di Ivan: ” se tutti devono soffrire per comprare con le loro sofferenze un’armonia che duri eternamente, cosa c’entrano però i bambini, dimmi? Non si capisce assolutamente perché debbano soffrire anche loro, e perché debbono pagare quest’armonia con le loro sofferenze!!327 Ciò che avviene nel libro di Giobbe, in realtà, non è così dissimile. Anche in questo caso le sofferenze dei bambini sono strumentali, hanno una loro funzionalità, in quanto fungono da “concime” per la prova di Giobbe. Per cui con Franco Rella si può dire che la restituzione è “beffarda, perché nessuno può fare che quel dolore non sia stato, nessuno può restituire alla vita gli incolpevoli figli di Giobbe. Ivan Karamazov avrebbe ancora una volta ragione per restituire il biglietto d’accesso al Regno di Dio, in quanto tra quei morti e i nuovi vivi, tra quel dolore e la sazietà successiva non c’è alcun rapporto e quindi la riparazione non ripara nulla di quanto è avvenuto” rella 61 Così, seppure questo personaggio non citi mai Giobbe, indirettamente prende posizione sul dramma, posizione che si rivela essere diversa da quella dello starec Zosima. Mentre quest’ultimo ritiene, seppure attraverso ” un grande mistero della vita umana”391, possibile la felicità per Giobbe nonostante il mancato riscatto della morte dei bambini, la posizione di Ivan Karamazov è opposta. In questo caso una possibile felicità per Giobbe è negata proprio dal fatto che la sofferenza dei bambini non è in alcun modo riscattabile e il dolore commesso nei confronti di un bambino non è perdonabile “ neanche se il bambino stesso lo perdonasse”328. Ritorniamo al nostro discorso riguardante la diversità del concetto di “parola”. Se abbiamo individuato nell’efficacia un primo elemento di rottura, il secondo elemento di rottura può essere costituito dal concetto di chiarezza. Vedremo come anche questo concetto porti alla conclusione di dividere le due vicende in prova vera e prova falsa. In questo caso dobbiamo prendere in esame due diverse prospettive: quella che riguarda i protagonisti del dramma e quella che riguarda i lettori dei due libri. E dobbiamo chiederci se la parola di Dio appare chiara o enigmatica. Partiamo dalla prima prospettiva. Prendendo in considerazione i due protagonisti la parola divina appare in entrambi i casi enigmatica. Questo può apparire paradossale, perché almeno nella vicenda di Abramo sembra che, attraverso il dialogo diretto tra Dio ed Abramo appunto, tutto sia chiaro. In realtà non è cosi. Per Neher Abramo è l’inventore del si, è colui cioè che dice si alla promessa, al sogno e alla prova. E nel XXII capitolo Abramo dice si, dice “eccomi” due volte: “al versetto 1 della prova e nel suo momento cruciale, al versetto 11”186. Ma il si in entrambi i casi non è legato in alcun modo a ciò che verrà detto successivamente. Infatti Abramo non sa che il primo si equivale alla rottura, alla prova e alla perdita di tutto ciò che ha, così come non sa che il suo secondo “eccomi” equivale invece al recupero di tutto ciò che sta per perdere. Quindi da questo punto di vista l’attenzione di Neher riguarda soprattutto l’immediatezza con cui Abramo ha detto

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si: “ Questo sì-io infatti, Abramo lo pronuncia fin dal versetto 1 molto prima che il versetto 2 adduca le tragiche precisazioni con le quali viene a sapere che l’avvenire gli sarà tolto”186. Abramo, quindi, non sa. Non sa che ad aspettarlo è una prova, non sa che il vocativo con cui lo chiama l’Angelo del Signore indica il recupero. Da questo punto di vista Abramo e Giobbe sono legati da questa “ignoranza”, da questo non sapere. Nel caso di Giobbe il dialogo con Dio viene completamente a mancare. Non è né Dio né qualcuno che ne faccia le veci ad introdurre a Giobbe le sue sventure. Dio in questo caso rimane velato, rimane nascosto, così che viene eliminata la possibilità per Giobbe di dire si o no. “Ad Abramo Dio almeno dice: Prendi tuo figlio e cammina!”, a Giobbe non dà nessun cenno. Se prendiamo in considerazione invece la seconda prospettiva, cioè i lettori dei due drammi le cose cambiano. Il lettore della vicenda di Abramo è avvertito. Il testo dice esplicitamente: “Dio mise alla prova Abramo”. Neher sia analizzando il libro di Giobbe, sia analizzando la vicenda di Abramo, considera i lettori come degli spettatori che assistono ad uno spettacolo. E gli spettatori del XXII capitolo della Bibbia comprendono quale sia il canovaccio. Ciò a cui stanno assistendo è una prova. Per cui l’eclisse della parola è funzionale alla prova stessa., “il sipario che è appena calato sulla parola si rialzerà fatalmente.”37 Nel libro di Giobbe anche i lettori/spettatori condividono con il protagonista la sua non conoscenza, “la parola prova non è né pronunciata né suggerita”.40 Quindi in un caso le parole di Dio sono chiare, nell’altro caso no. Anzi in un caso la parola di Dio è presente ed annuncia la prova, nell’altro caso no. Per cui “se Abramo era pronto a dare suo figlio, Giobbe invece non ha dato nulla, per la semplice ragione che nulla gli è stato chiesto”. L’autenticità della prova di Abramo deriva dal fatto che “ tutto dipendeva dalla sua lucida volontà”143. Da questo punto di vista la vicenda di Giobbe è avvicinata a quella di Noemi, il personaggio che si trova nel libro di Rut e che perde sia il marito che i due figli. Sia nel caso di Noemi che nel caso di Giobbe “un destino venne loro imposto dal di fuori senza che né l’una né l’altro abbiano potuto né accettarlo né rifiutarlo”143 Abbiamo detto che la parola di Dio nel libro di Giobbe è poco chiara. E lo è anche all’epilogo della vicenda. Infatti “ la ricomparsa della parola di Dio non chiarisce né spiega nulla. Nessuna delle parole pronunciate da Dio, nell’uragano verbale che si scatena sulla testa di Giobbe a partire dal primo versetto del capitolo XXXVIII concerne il suo caso, né il suo processo, né le sue requisitorie”. Mentre in Abramo il ritorno della parola chiarisce il silenzio precedente e in un certo senso conclude il dramma, in Giobbe, ancora una volta, tutto prende una piega diversa. La parola di Dio in Giobbe non conclude il dramma, proprio perché le parole pronunciate non riguardano direttamente il dramma in questione. Una conseguenza di ciò è il fatto che ci sia una vera e propria scissione tra le parole che Dio pronuncia nel prologo e quelle che pronuncia all’epilogo. Non esiste tra le due “parole” una linea di continuità. Abbiamo una vera e propria linea spezzata. Nulla del discorso divino riporta al dialogo con Satana. Abbiamo parlato fino ad ora della differenza che intercorre nelle due vicende bibliche nel concetto di “parola”, ora vediamo come sia lo stesso concetto di “silenzio” a differire nei due libri. Vedremo nel terzo paragrafo come il silenzio di Dio venga delineato da Neher come “fiore del male”, nel senso che questo silenzio pone delle incertezze riguardo la sua origine. In questo paragrafo vedremo degli elementi che distinguono i due tipi di “silenzio”. In primo luogo ciò che distingue il silenzio di Dio all’interno del libro di Giobbe e quello all’interno di Abramo è la loro lunghezza. Mentre in Abramo il silenzio è di soli tre giorni, in Giobbe “ il quadro dei tre giorni, con la sua virtù simbolica, è totalmente polverizzato e si ha lo svolgimento interminabile di una durata senza inizio né fine”39.Questa lunghezza è una caratteristica che il libro di Giobbe ha in comune con la vicenda di Giuseppe, e in entrambe le vicende “ l’ipertrofia della durata introduce […] un elemento di

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angoscia […] reale.39. Ciò che avviene in generale è che la linearità che caratterizza la vicenda di Abramo si ripercuote sul concetto di “silenzio”. Solo in questo caso esso è una parentesi all’interno del testo. È una parentesi che verrà chiusa a breve. E la parola di Dio in questo caso segna il confine del silenzio stesso. E la lunghezza del silenzio equivale alla lunghezza della prova che Abramo deve sopportare. Il testo di Giobbe, invece, come abbiamo dimostrato finora, ha una struttura sui generis, e anche il silenzio non fa eccezione. In questo caso il silenzio non fa da confine alla prova, per il solo fatto che la prova non inizia con una parola. E se è presente nel testo la parola di Dio, non è sotto forma di dialogo con il servo, ma è sotto forma di dialogo con il diavolo. Da questo punto di vista la vicenda di Giobbe si distingue anche dalla vicenda di Noemi. In quel caso il silenzio di Dio è totale e non esiste la cospirazione. Però il silenzio di Giobbe si distingue da quello di tutti gli altri per un altro elemento fondamentale. Infatti solo in Giobbe abbiamo ciò che possiamo definire un “meta-silenzio”, cioè un discorso che cerca di interpretare lo stesso silenzio. In questo paragrafo accenneremo solamente a questo discorso che riprenderemo nel paragrafo conclusivo. In Abramo questo discorso non è possibile per diversi motivi. In primo luogo per l’esiguità del silenzio di Dio, che come detto dura solo tre giorni. In secondo luogo per il fatto che durante l’eclisse della parola divina gli unici personaggi a prendere la parola sono proprio i due personaggi implicati nella prova e cioè Abramo e Isacco. Non c’è nessuno che si “intromette”, nessuno cerca di “condividere il loro dolore, né soprattutto di alleviarlo”44. In questo caso il concetto di “silenzio” è la faccia di una medaglia dietro la quale sta la “solitudine”. In Giobbe, invece, la lunghezza delle sue sofferenze e del silenzio di Dio ha come conseguenza l’entrata in scena di altri personaggi che hanno come loro scopo originale quello di consolare Giobbe dalle pene che sta soffrendo, ma che in realtà romperanno quel legame di silenzio e solitudine presente in Abramo. Quindi, se Abramo risponde al silenzio di Dio con il silenzio, Giobbe oppone al silenzio di Dio “le sue grida, assillanti ma inutili”. Ora, prima di passare al paragrafo successivo faremo un’ultima riflessione, che ha come centro il termine shadday. Questo termine da un lato ci permetterà di sintetizzare quello che abbiamo detto sinora dall’altro ci consentirà di creare un ponte con il paragrafo successivo. Col termine shadday o el shadday si indica quello che è un nome di Dio. Neher individua di questo termine due significati principali: uno indica il Dio della promessa e del silenzio, un altro che indica il Dio onnipotente. Partiamo dal primo significato. Sadday indicherebbe il Dio della promessa. Tutti i patriarchi presenti nella Genesi entrerebbero in contatto con Dio attraverso la dimensione di sadday. E solo con Mosè, nell’Esodo, ci sarebbe il passaggio dalla promessa alla realizzazione. La promessa viene vista come qualcosa di manchevole, è una prefazione, “essa non ha significato se non in rapporto a un messaggio ulteriore, a un testo che la scandisce e la segue”.140 Quindi Dio mostrandosi come sadday ai patriarchi, si mostra non nella sua completezza, è come se le apparizioni di Dio “non fossero state che l’ombra di una parola, un brancolamento”. La prova è quella situazione in cui Dio non si mostra nella chiarezza della parola, ma si mostra nell’ombra del silenzio. Neher riprende a questo punto delle riflessioni del teologo medievale Mahmanide in cui sostiene che Dio durante le prove non si espone al rischio di un fallimento perché sceglie di proposito quei personaggi della cui fedeltà è sicuro. Ora, Neher introduce la suggestiva immagine della prova come un ponte sospeso. Ancora dovremo distinguere tra una prova vera e una prova falsa, cosa che ci condurrà inevitabilmente a distinguere ulteriormente il dramma di Giobbe dalla vicenda di Abramo. La prova che Abramo svolge la svolge su un ponte sospeso. Dio lo abbandona ma all’inizio e alla fine del ponte c’è un destino più alto che vigila sulla prova. In Giobbe invece, per riprendere la stessa immagine, il ponte non tiene, si spezza, e la prova, in questo caso fallisce. E il motivo per cui fallisce ci è già familiare. Fallisce perché in questo caso entra in gioco la morte, e in modo

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specifico la morte dei figli. In questo caso, per comprendere l’atteggiamento di Dio non ci basta più il primo significato di sadday, abbiamo bisogno dell’altro. Sadday è Dio che non ha bisogno di nessuno, che è Onnipotente. “Il Dio che basta a sé stesso –sadday- è il Dio che non ha bisogno degli uomini non più di quanto ha bisogno di alcun essere che non sia il Suo”, Neher questo Dio lo chiama metadialogale, o meglio ancora il Dio del Silenzio assoluto. Giobbe è l’esempio più vivido di Dio del Silenzio assoluto. Il libro di Giobbe è il libro in cui vengono a scontrarsi due concezioni teologiche quasi antitetiche: la prima che sostiene come la conciliazione sia più forte di qualsiasi rottura (nota Mamenide bella addormentata nel bosco); la seconda invece “introduce in questo edificio troppo bello l’indizio di insicurezza, non proteggendo il ponte contro alcuna scossa accidentale” 146. E ad Auschwitz il ponte ha retto o è crollato?

Quindi dal paragrafo precedente è emerso come la lettura biblica fondata sul silenzio metteva in crisi la concezione classica di un Dio inteso come onnipotente e come garante della creazione. Questo paragrafo vuole essere la continuazione del discorso precedente, anzi ha come obiettivo quello di mostrare come all’interno della stessa Bibbia ci sia una biforcazione tra due idee diverse di Dio: una compatibile con la “teologia della parola”, l’altra compatibile con “la teologia del silenzio”. Tutto ciò emerge dal confronto che Neher fa (seppure non in maniera diretta) tra la vicenda di Abramo narrata nel XXII capitolo del libro del Genesi e la vicenda di Giobbe. Innanzitutto sono proprio quelle di Giobbe e di Abramo le figure bibliche che più si avvicinano alla vicenda dell’Olocausto. Giobbe è il servo sofferente, punito da Dio senza un apparente motivo, mentre dall’altro La vicenda di Abramo ha un posto notevole all’interno del libro del Genesi. La sua vicenda va dal capitolo XII al capitolo XXV. In particolare l’attenzione di Neher si concentra sul XXII capitolo, capitolo in cui Abramo è messo alla prova da Dio. Ora, naturalmente tra le due vicende esistono diversi elementi di contatto e diversi elementi di rottura. Quello che vedremo, in generale, è come queste due vicende si distinguano nella loro apparente omogeneità. Seguono cioè degli schemi simili, che solo dopo un’attenta analisi appaiono invece diversi. Il primo elemento che hanno in comune queste due vicende è il fatto che in entrambi i casi silenzio e parola costituiscono due macro-strutture, due veri e propri protagonisti dei due drammi. E la diversità, anzi la sostanziale opposizione delle due vicende deriva proprio dal fatto che all’interno dei due drammi silenzio e parola hanno funzioni e scopi diversi. Questa diversità porta con sé a due concezioni diversi di Dio, o se si vuole, a due idee teologiche diverse. La vicenda di Abramo porta con sé l’idea di un Dio conciliatore, in cui il male o comunque la negatività trova una conciliazione con esso. La vicenda di Giobbe invece porta con sé l’idea di un Dio in cui la negatività è un suo tratto essenziale. Ma andiamo per ordine. Sia nel libro di Giobbe sia nella parte del libro della Genesi dedicato ad Abramo i concetti di parola e di silenzio si intrecciano, nel senso che tutti i personaggi implicati nelle due vicende alternano sia la parola sia il silenzio. Iniziamo dai protagonisti prinicipali: Abramo è da un lato colui che parla, (vedremo tra poco che è colui che inaugura all’interno della Bibbia sia il dialogo orizzontale, cioè quello con gli altri uomini, che quello verticale, cioè il dialogo con Dio) è colui che dice subito “si eccomi”, colui che accetta la prova già prima di sapere che la chiamata di Dio sia il preludio di una prova. È fin troppo evidente il motivo per cui Giobbe è colui che parla, l’abbiamo detto diffusamente: Giobbe è colui che non riconosce nell’agire divino una giustizia, per cui per questo motivo accusa Dio. Ma Giobbe è anche colui che tace: tace una prima volta appena riceve la visita degli amici, la seconda volta quando è Dio in persona ad apparire. Questa dicotomia parola-silenzio si adatta perfettamente a Dio stesso: in Abramo le parole di Dio hanno lo scopo di delimitare il

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tempo della prova. Infatti Dio parla all’inizio quando espone la prova e alla fine ( attraverso l’Angelo) quando alla prova mette fine. Durante l’aquedah invece Dio resta in silenzio. Anche in Giobbe in Dio si alternano parola e silenzio. Egli parla all’inizio del dramma, quando stipula con Satana le modalità della prova, e parla alla fine quando espone a Giobbe tutta la maestosità del creato. In realtà gli elementi comuni finiscono qua. E non finiscono qua non solo le analogie tra i due personaggi, ma finiscono anche le analogie che riguardano il comportamento di Dio.Infatti le domande che ci porremo è: Dio, nelle due vicende, si comporta allo stesso modo?, o meglio il silenzio e la parola di Dio nelle due vicende è uguale?.La risposta è no. Apparentemente il ritmo sembra essere identico: prima c’è la parola di Dio, poi il silenzio e poi ancora una volta la parola. Sembra che il silenzio di Dio sia, utilizzando un’espressione di Martin Buber, una vera e propria eclissi, passeggera. Ma questo schema è adattabile solo per la vicenda di Abramo. In questa vicenda infatti, come già accennato, il silenzio di Dio è non solo temporaneo, ma è anche geometrico, nel senso che inizia dopo aver enunciato che ciò che il lettore sta per andare a leggere è una prova e finisce nel momento in cui la prova è stata superata. Questo è un silenzio delimitato , circoscritto. In Giobbe invece questa circoscrizione è completamente assente. Anzi il silenzio di Dio in questo caso è molto più lungo rispetto a quello presente in Abramo1 e soprattutto non è geometrico: perché non c’è nulla nella vicenda di Giobbe che prelude alla parusia divina. E quando la parola divina ritorna (o meglio, agli occhi di Giobbe appare per la prima volta) è sconnessa con la sua vicenda. Per cui mentre in Abramo il ritorno della parola significava un ritorno della chiarezza, in Giobbe la parola di Dio non fa che complicare il suo dramma. Così che l’unica risposta possibile non può che essere: << Mi tappo la bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò. Ho parlato due volte, ma non continuerò.>> È come se durante la sua assenza Dio non avesse visto cosa Giobbe abbia fatto, è << come se Dio nulla avesse visto, nulla avesse sentito, come tutto avessesse dimenticato delle parole che pure aveva pronunciato all’inizio dell’eclissi>>43. Dio lascia il suo servo più fedele nelle mani di Satana. In Abramo invece Dio partecipa all’aqedah, è come se viglilasse dall’altro alla buona riuscita della prova. Da questo punto di vista Abramo è colui che è visto da Dio anche quando lui stesso non vede.2 L’unico elemento comune consiste nel fatto che in entrambi i casi abbiamo a che fare con un Dio che si nasconde. Da questo punto di vista emerge un nome ben preciso di Dio che è quello di Shadday3

Questo termine appare nella Bibbia per ben 48 volte nella Bibbia, e nella maggior parte delle volte appare proprio nel libro di Giobbe. Neher dà di questo termine due significati diversi: in primo luogo lo considera come << il Dio della pienezza ultima della Storia, Colui la cui essenza rimane velata all’interno della Storia>>,138 in secondo luogo, per Neher Shadday è il Dio della prova, non a casa appare maggiormente in Giobbe. Però entrambi questi significati hanno una stretta parentela con il concetto di “silenzio di Dio”. Più precisamente il concetto di shadday legato a quello della promessa. Nel XVII capitolo del Genesi Dio appare ad Abram e disse: << Quindi dal paragrafo precedente è emerso come la lettura biblica fondata sul silenzio metteva in crisi la concezione classica di un Dio inteso come onnipotente e come garante della creazione. Questo paragrafo vuole essere la continuazione del discorso precedente, anzi ha come obiettivo quello di mostrare come all’interno della stessa Bibbia ci sia una biforcazione tra due idee diverse di Dio: una compatibile con la “teologia della parola”, l’altra compatibile con “la teologia del silenzio”. Tutto ciò emerge dal confronto che Neher fa (seppure non in maniera diretta) tra la vicenda di Abramo narrata nel XXII capitolo del libro del Genesi e la vicenda di Giobbe. Innanzitutto sono proprio quelle di Giobbe e di Abramo le figure bibliche che più si avvicinano alla vicenda dell’Olocausto. Giobbe è il

1 << Ma ciò che colpisce per prima cosa in questi due racconti ( Giuseppe e Giobbe), e che li distingue fortemente dal racconto dell’aqeda, è che la durata dell’avventura è intollerabilmente lunga. In essi, il quadro dei tre giorni, con la sua virtù simbolica, è totalmente polverizzato e si ha lo svolgimento interminabile di una durata senza inizio né fine, ventidue anni per Giacobbe e Giuseppe (vedere i calcoli di Rashi), quarantacinque anni per Giobbe (vedere le stime del midrash), comunque un buon tratto di vita umana, densa e vulnerabile.>> Andre Neher, L’esilio della parola, cit. p. 39.2 << Abramo infatti non è forse l’uomo visto, quando lui stesso non vede>>.3 Per una completa genealogia del termine Shadday si rimanda a W.F. Albright, The name of Shaddai, in Journal of Biblical Literature, Atlanta, 1935, Vol. 54, No.4, pp 173-204.

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servo sofferente, punito da Dio senza un apparente motivo, mentre dall’altro La vicenda di Abramo ha un posto notevole all’interno del libro del Genesi. La sua vicenda va dal capitolo XII al capitolo XXV. In particolare l’attenzione di Neher si concentra sul XXII capitolo, capitolo in cui Abramo è messo alla prova da Dio. Ora, naturalmente tra le due vicende esistono diversi elementi di contatto e diversi elementi di rottura. Quello che vedremo, in generale, è come queste due vicende si distinguano nella loro apparente omogeneità. Seguono cioè degli schemi simili, che solo dopo un’attenta analisi appaiono invece diversi. Il primo elemento che hanno in comune queste due vicende è il fatto che in entrambi i casi silenzio e parola costituiscono due macro-strutture, due veri e propri protagonisti dei due drammi. E la diversità, anzi la sostanziale opposizione delle due vicende deriva proprio dal fatto che all’interno dei due drammi silenzio e parola hanno funzioni e scopi diversi. Questa diversità porta con sé a due concezioni diversi di Dio, o se si vuole, a due idee teologiche diverse. La vicenda di Abramo porta con sé l’idea di un Dio conciliatore, in cui il male o comunque la negatività trova una conciliazione con esso. La vicenda di Giobbe invece porta con sé l’idea di un Dio in cui la negatività è un suo tratto essenziale. Ma andiamo per ordine. Sia nel libro di Giobbe sia nella parte del libro della Genesi dedicato ad Abramo i concetti di parola e di silenzio si intrecciano, nel senso che tutti i personaggi implicati nelle due vicende alternano sia la parola sia il silenzio. Iniziamo dai protagonisti prinicipali: Abramo è da un lato colui che parla, (vedremo tra poco che è colui che inaugura all’interno della Bibbia sia il dialogo orizzontale, cioè quello con gli altri uomini, che quello verticale, cioè il dialogo con Dio) è colui che dice subito “si eccomi”, colui che accetta la prova già prima di sapere che la chiamata di Dio sia il preludio di una prova. È fin troppo evidente il motivo per cui Giobbe è colui che parla, l’abbiamo detto diffusamente: Giobbe è colui che non riconosce nell’agire divino una giustizia, per cui per questo motivo accusa Dio. Ma Giobbe è anche colui che tace: tace una prima volta appena riceve la visita degli amici, la seconda volta quando è Dio in persona ad apparire. Questa dicotomia parola-silenzio si adatta perfettamente a Dio stesso: in Abramo le parole di Dio hanno lo scopo di delimitare il tempo della prova. Infatti Dio parla all’inizio quando espone la prova e alla fine ( attraverso l’Angelo) quando alla prova mette fine. Durante l’aquedah invece Dio resta in silenzio. Anche in Giobbe in Dio si alternano parola e silenzio. Egli parla all’inizio del dramma, quando stipula con Satana le modalità della prova, e parla alla fine quando espone a Giobbe tutta la maestosità del creato. In realtà gli elementi comuni finiscono qua. E non finiscono qua non solo le analogie tra i due personaggi, ma finiscono anche le analogie che riguardano il comportamento di Dio.Infatti le domande che ci porremo è: Dio, nelle due vicende, si comporta allo stesso modo?, o meglio il silenzio e la parola di Dio nelle due vicende è uguale?.La risposta è no. Apparentemente il ritmo sembra essere identico: prima c’è la parola di Dio, poi il silenzio e poi ancora una volta la parola. Sembra che il silenzio di Dio sia, utilizzando un’espressione di Martin Buber, una vera e propria eclissi, passeggera. Ma questo schema è adattabile solo per la vicenda di Abramo. In questa vicenda infatti, come già accennato, il silenzio di Dio è non solo temporaneo, ma è anche geometrico, nel senso che inizia dopo aver enunciato che ciò che il lettore sta per andare a leggere è una prova e finisce nel momento in cui la prova è stata superata. Questo è un silenzio delimitato , circoscritto. In Giobbe invece questa circoscrizione è completamente assente. Anzi il silenzio di Dio in questo caso è molto più lungo rispetto a quello presente in Abramo4 e soprattutto non è geometrico: perché non c’è nulla nella vicenda di Giobbe che prelude alla parusia divina. E quando la parola divina ritorna (o meglio, agli occhi di Giobbe appare per la prima volta) è sconnessa con la sua vicenda. Per cui mentre in Abramo il ritorno della parola significava un ritorno della chiarezza, in Giobbe la parola di Dio non fa che complicare il suo dramma. Così che l’unica risposta possibile non può che essere: << Mi tappo la bocca. Ho parlato

4 << Ma ciò che colpisce per prima cosa in questi due racconti ( Giuseppe e Giobbe), e che li distingue fortemente dal racconto dell’aqeda, è che la durata dell’avventura è intollerabilmente lunga. In essi, il quadro dei tre giorni, con la sua virtù simbolica, è totalmente polverizzato e si ha lo svolgimento interminabile di una durata senza inizio né fine, ventidue anni per Giacobbe e Giuseppe (vedere i calcoli di Rashi), quarantacinque anni per Giobbe (vedere le stime del midrash), comunque un buon tratto di vita umana, densa e vulnerabile.>> Andre Neher, L’esilio della parola, cit. p. 39.

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una volta, ma non replicherò. Ho parlato due volte, ma non continuerò.>> È come se durante la sua assenza Dio non avesse visto cosa Giobbe abbia fatto, è << come se Dio nulla avesse visto, nulla avesse sentito, come tutto avessesse dimenticato delle parole che pure aveva pronunciato all’inizio dell’eclissi>>43. Dio lascia il suo servo più fedele nelle mani di Satana. In Abramo invece Dio partecipa all’aqedah, è come se viglilasse dall’altro alla buona riuscita della prova. Da questo punto di vista Abramo è colui che è visto da Dio anche quando lui stesso non vede.5 L’unico elemento comune consiste nel fatto che in entrambi i casi abbiamo a che fare con un Dio che si nasconde. Da questo punto di vista emerge un nome ben preciso di Dio che è quello di Shadday6

Questo termine appare nella Bibbia per ben 48 volte nella Bibbia, e nella maggior parte delle volte appare proprio nel libro di Giobbe. Neher dà di questo termine due significati diversi: in primo luogo lo considera come << il Dio della pienezza ultima della Storia, Colui la cui essenza rimane velata all’interno della Storia>>,138 in secondo luogo, per Neher Shadday è il Dio della prova, non a casa appare maggiormente in Giobbe. Però entrambi questi significati hanno una stretta parentela con il concetto di “silenzio di Dio”. Più precisamente il concetto di shadday legato a quello della promessa. Nel XVII capitolo del Genesi Dio appare ad Abram e disse: << Io sono Dio onnipotente: cammina nella mia presenza e sii integro. Stabilirò la mia alleanza tra me e te, e ti moltiplicherò grandemente>>, ora il Dio onnipotente è una traduzione proprio di Shadday. Dio appare ad Abram come Shadday, cioè come Dio della promessa, e allo stesso modo apparirà ad Isacco e Giacobbe. È in definitiva il modo in cui appare ai profeti. La promessa però (nel senso della potenza aristotelica) è un elemento che ha al suo interno una mancanza. Lo scopo della promessa non è altro che quello di permettere la realizzazione, di permettere l’atto. Questa visione specificamente aristotelica, non è altro che una continuazione di ciò che abbiamo detto nel primo paragrafo e cioè della differenza tra una “teologia della parola” e una “teologia del silenzio”. Infatti

>>, ora il Dio onnipotente è una traduzione proprio di Shadday. Dio appare ad Abram come Shadday, cioè come Dio della promessa, e allo stesso modo apparirà ad Isacco e Giacobbe. È in definitiva il modo in cui appare ai profeti. La promessa però (nel senso della potenza aristotelica) è un elemento che ha al suo interno una mancanza. Lo scopo della promessa non è altro che quello di permettere la realizzazione, di permettere l’atto. Questa visione specificamente aristotelica, non è altro che una continuazione di ciò che abbiamo detto nel primo paragrafo e cioè della differenza tra una “teologia della parola” e una “teologia del silenzio”. Infatti

Quindi dal paragrafo precedente è emerso come la lettura biblica fondata sul silenzio metteva in crisi la concezione classica di un Dio inteso come onnipotente e come garante della creazione. Questo paragrafo vuole essere la continuazione del discorso precedente, anzi ha come obiettivo quello di mostrare come all’interno della stessa Bibbia ci sia una biforcazione tra due idee diverse di Dio: una compatibile con la “teologia della parola”, l’altra compatibile con “la teologia del silenzio”. Tutto ciò emerge dal confronto che Neher fa (seppure non in maniera diretta) tra la vicenda di Abramo narrata nel XXII capitolo del libro del Genesi e la vicenda di Giobbe. Innanzitutto sono proprio quelle di Giobbe e di Abramo le figure bibliche che più si avvicinano alla vicenda dell’Olocausto. Giobbe è il servo sofferente, punito da Dio senza un apparente motivo, mentre dall’altro La vicenda di Abramo ha un posto notevole all’interno del libro del Genesi. La sua

5 << Abramo infatti non è forse l’uomo visto, quando lui stesso non vede>>.6 Per una completa genealogia del termine Shadday si rimanda a W.F. Albright, The name of Shaddai, in Journal of Biblical Literature, Atlanta, 1935, Vol. 54, No.4, pp 173-204.

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vicenda va dal capitolo XII al capitolo XXV. In particolare l’attenzione di Neher si concentra sul XXII capitolo, capitolo in cui Abramo è messo alla prova da Dio. Ora, naturalmente tra le due vicende esistono diversi elementi di contatto e diversi elementi di rottura. Quello che vedremo, in generale, è come queste due vicende si distinguano nella loro apparente omogeneità. Seguono cioè degli schemi simili, che solo dopo un’attenta analisi appaiono invece diversi. Il primo elemento che hanno in comune queste due vicende è il fatto che in entrambi i casi silenzio e parola costituiscono due macro-strutture, due veri e propri protagonisti dei due drammi. E la diversità, anzi la sostanziale opposizione delle due vicende deriva proprio dal fatto che all’interno dei due drammi silenzio e parola hanno funzioni e scopi diversi. Questa diversità porta con sé a due concezioni diversi di Dio, o se si vuole, a due idee teologiche diverse. La vicenda di Abramo porta con sé l’idea di un Dio conciliatore, in cui il male o comunque la negatività trova una conciliazione con esso. La vicenda di Giobbe invece porta con sé l’idea di un Dio in cui la negatività è un suo tratto essenziale. Ma andiamo per ordine. Sia nel libro di Giobbe sia nella parte del libro della Genesi dedicato ad Abramo i concetti di parola e di silenzio si intrecciano, nel senso che tutti i personaggi implicati nelle due vicende alternano sia la parola sia il silenzio. Iniziamo dai protagonisti prinicipali: Abramo è da un lato colui che parla, (vedremo tra poco che è colui che inaugura all’interno della Bibbia sia il dialogo orizzontale, cioè quello con gli altri uomini, che quello verticale, cioè il dialogo con Dio) è colui che dice subito “si eccomi”, colui che accetta la prova già prima di sapere che la chiamata di Dio sia il preludio di una prova. È fin troppo evidente il motivo per cui Giobbe è colui che parla, l’abbiamo detto diffusamente: Giobbe è colui che non riconosce nell’agire divino una giustizia, per cui per questo motivo accusa Dio. Ma Giobbe è anche colui che tace: tace una prima volta appena riceve la visita degli amici, la seconda volta quando è Dio in persona ad apparire. Questa dicotomia parola-silenzio si adatta perfettamente a Dio stesso: in Abramo le parole di Dio hanno lo scopo di delimitare il tempo della prova. Infatti Dio parla all’inizio quando espone la prova e alla fine ( attraverso l’Angelo) quando alla prova mette fine. Durante l’aquedah invece Dio resta in silenzio. Anche in Giobbe in Dio si alternano parola e silenzio. Egli parla all’inizio del dramma, quando stipula con Satana le modalità della prova, e parla alla fine quando espone a Giobbe tutta la maestosità del creato. In realtà gli elementi comuni finiscono qua. E non finiscono qua non solo le analogie tra i due personaggi, ma finiscono anche le analogie che riguardano il comportamento di Dio.Infatti le domande che ci porremo è: Dio, nelle due vicende, si comporta allo stesso modo?, o meglio il silenzio e la parola di Dio nelle due vicende è uguale?.La risposta è no. Apparentemente il ritmo sembra essere identico: prima c’è la parola di Dio, poi il silenzio e poi ancora una volta la parola. Sembra che il silenzio di Dio sia, utilizzando un’espressione di Martin Buber, una vera e propria eclissi, passeggera. Ma questo schema è adattabile solo per la vicenda di Abramo. In questa vicenda infatti, come già accennato, il silenzio di Dio è non solo temporaneo, ma è anche geometrico, nel senso che inizia dopo aver enunciato che ciò che il lettore sta per andare a leggere è una prova e finisce nel momento in cui la prova è stata superata. Questo è un silenzio delimitato , circoscritto. In Giobbe invece questa circoscrizione è completamente assente. Anzi il silenzio di Dio in questo caso è molto più lungo rispetto a quello presente in Abramo7 e soprattutto non è geometrico: perché non c’è nulla nella vicenda di Giobbe che prelude alla parusia divina. E quando la parola divina ritorna (o meglio, agli occhi di Giobbe appare per la prima volta) è sconnessa con la sua vicenda. Per cui mentre in Abramo il ritorno della parola significava un ritorno della chiarezza, in Giobbe la parola di Dio non fa che complicare il suo dramma. Così che l’unica risposta possibile non può che essere: << Mi tappo la bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò. Ho parlato due volte, ma non continuerò.>> È come se durante la sua

7 << Ma ciò che colpisce per prima cosa in questi due racconti ( Giuseppe e Giobbe), e che li distingue fortemente dal racconto dell’aqeda, è che la durata dell’avventura è intollerabilmente lunga. In essi, il quadro dei tre giorni, con la sua virtù simbolica, è totalmente polverizzato e si ha lo svolgimento interminabile di una durata senza inizio né fine, ventidue anni per Giacobbe e Giuseppe (vedere i calcoli di Rashi), quarantacinque anni per Giobbe (vedere le stime del midrash), comunque un buon tratto di vita umana, densa e vulnerabile.>> Andre Neher, L’esilio della parola, cit. p. 39.

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assenza Dio non avesse visto cosa Giobbe abbia fatto, è << come se Dio nulla avesse visto, nulla avesse sentito, come tutto avessesse dimenticato delle parole che pure aveva pronunciato all’inizio dell’eclissi>>43. Dio lascia il suo servo più fedele nelle mani di Satana. In Abramo invece Dio partecipa all’aqedah, è come se viglilasse dall’altro alla buona riuscita della prova. Da questo punto di vista Abramo è colui che è visto da Dio anche quando lui stesso non vede.8 L’unico elemento comune consiste nel fatto che in entrambi i casi abbiamo a che fare con un Dio che si nasconde. Da questo punto di vista emerge un nome ben preciso di Dio che è quello di Shadday9

Questo termine appare nella Bibbia per ben 48 volte nella Bibbia, e nella maggior parte delle volte appare proprio nel libro di Giobbe. Neher dà di questo termine due significati diversi: in primo luogo lo considera come << il Dio della pienezza ultima della Storia, Colui la cui essenza rimane velata all’interno della Storia>>,138 in secondo luogo, per Neher Shadday è il Dio della prova, non a casa appare maggiormente in Giobbe. Però entrambi questi significati hanno una stretta parentela con il concetto di “silenzio di Dio”. Più precisamente il concetto di shadday legato a quello della promessa. Nel XVII capitolo del Genesi Dio appare ad Abram e disse: << Io sono Dio onnipotente: cammina nella mia presenza e sii integro. Stabilirò la mia alleanza tra me e te, e ti moltiplicherò grandemente>>, ora il Dio onnipotente è una traduzione proprio di Shadday. Dio appare ad Abram come Shadday, cioè come Dio della promessa, e allo stesso modo apparirà ad Isacco e Giacobbe. È in definitiva il modo in cui appare ai profeti. La promessa però (nel senso della potenza aristotelica) è un elemento che ha al suo interno una mancanza. Lo scopo della promessa non è altro che quello di permettere la realizzazione, di permettere l’atto. Questa visione specificamente aristotelica, non è altro che una continuazione di ciò che abbiamo detto nel primo paragrafo e cioè della differenza tra una “teologia della parola” e una “teologia del silenzio”. Infatti

Il termine shaddai

8 << Abramo infatti non è forse l’uomo visto, quando lui stesso non vede>>.9 Per una completa genealogia del termine Shadday si rimanda a W.F. Albright, The name of Shaddai, in Journal of Biblical Literature, Atlanta, 1935, Vol. 54, No.4, pp 173-204.