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COLLANA

SIMONE RICCIATTI

TATEI KIE INDAGINE ANTROPOLOGICA SUL POPOLO

HUICHOL DELLA SIERRA MADRE OCCIDENTALE

Copyright © 2007 Design copertina © 2007 Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a: ISBN: XXXXX-XX-X Collana Stampato in Italia http://

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RINGRAZIAMENTI DELL’AUTORE Grazie di cuore a tutti coloro che mi hanno aiutato in questo lavoro: Giovanni Azzaroni, Giovanni Marchetti, Rik & Anto, Chiarastella Mantovani, Andrea Cecconi, Giuliano Mensà, Rémi Court, Lilian Robin, Luigi Picinni Leopardi, Hector Gonzales Carrillo, Francisco Salvador, Walter Arias, Juan Carrillo Carrillo, Faustino Salvador Ortiz, Rosalio Rivera Sanchez, Roberto Bonilla, Jesus Himen de la Cruz, Felipe Carrillo Gonzales e tutte le persone incontrate sulla strada, delle quali non ricordo, o non ho mai saputo, il nome.

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Immo fortasse plusculo fructu legetur fabula poetica cum allegoria, quam narratio sacrorum librorum, si consistas in cornice. Erasmo, Enchiridion militis christiani, Basilea 1518

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INDICE

Introduzione 13

PARTE PRIMA: UNA STORIA WIRRARIKA 1. Organizzazione e governo wirrarika 15

1.1 La nascita della luna 15 1.2 I bastoni itsu 16 1.3 Xarikixa, la fiesta del esquite y del cambio de varas de mando (La cerimonia del mais e del cambio dei bastoni del governo)

23 2. La cosmogonia sacra 27

2.1 Il mito della creazione: il dono dei muvieri e la nascita di Tatewari

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2.2 Il furto del fuoco 34 2.3 Xapawiyemeta, il lago di Chapala (come Wata’kami si salvò dal diluvio)

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2.4 Wirikuta 41 2.5 Tau, la nascita del sole 45

3. Oltre la vita 54 3.1 Parlando della morte a colazione 54 3.2 Il regno di Werika Wímari 55 3.3 Tuamurrawi nella casa del mais 64 3.4 Peyote, venado y maiz (Carlos Montemayor) 77

4. Híkuri Neirra 88 4.1 A poche ore dalla celebrazione 88 4.2 L’interno del calihuey 89 4.3 Híkuri Neirra 92

PARTE SECONDA: IL PELLEGRINAGGIO A WIRIKUTA

5. Il pellegrinaggio a Wirikuta 121 5.1 In viaggio 121 5.2 La prima sosta: Chapalangana 123

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5.3 La seconda sosta: Zacatecas 125 5.4 La terza sosta: Bauz 129 5.5 La quarta sosta: Villa de Ramos 130 5.6 La quinta sosta: San Juan Tuzal 123 5.7 La sesta sosta: Cototillo 134 5.8 L’arrivo a Wirikuta: Reunar 137 5.9 Nierica, la visione degli dei 139

PARTE TERZA: CONCLUSIONE 6. Un nuovo inizio 153

6.1 L’arrivo a Tatei Kie 153 6.2 La visione di Rosalio 165

GLOSSARIO 170 BIBLIOGRAFIA 176

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INTRODUZIONE Quello huichol è un popolo caparbio, fiero e resistente: invisibile agli occhi dei conquistadores spagnoli, sordo alle prediche evangelizzanti dei gesuiti, duro al fianco delle forze rivoluzionarie di Pancho Villa per la liberazione nazionale. Un popolo che, da nomade, ha saputo abbandonare la strada della morte e dello schiavismo per rintanarsi in quel groviglio, verde d’arbusti, che è la sierra madre occidentale del Messico, sostituendo alla caccia l’agricoltura, relegando arco e frecce all’attività, essenzialmente, rituale. Non sempre combattere è la soluzione migliore. Oggi, anno duemilasei, sono circa ventimila le persone, divise in cinque comunità principali, sopravvissute a quella scellerata pagina di storia. Chiamano se stessi wirrarika (wirraritari, al plurale), indovini: sono gli uomini e le donne di San Andrés Cohamiata (Tatei Kie), di Santa Caterina Cuexcomatitlán (Tuapurie), di San Sebastián Teponahuaxtlán (Wautia), di Tuxpan de Bolaňos (Tutsipa) e di Guadalupe Ocotán (Xatsitsarie); tutti con loro le danze, i loro rituali, le offerte agli dei. Certo, è innegabile affermare che, in questi centri comunitari, il tempo non abbia fatto il suo dovere: la maggior parte degli indigeni, oggigiorno, veste abiti occidentali, parla perfettamente spagnolo, ha persino accettato qualche compromesso con l’evangelizzazione… tutte cose che non mancherò di approfondire nelle prossime pagine. Sono stato ospite della comunità di Tatei Kie nei mesi di giugno e luglio duemilasei: con gli huicholes ho cantato e danzato il peyote, mangiato la carne sacra del cervo, sofferto la calura del giorno ed il freddo della notte. Soprattutto però, ho ascoltato le loro storie e le ho raccolte nella prima parte di questo mio lavoro.

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Quella huichol è una tradizione orale, una storia fatta plurale e privata della maiuscola: fuori dal tempo, oltre gli anni, per guardare, dicendola con Ende, lo specchio nello specchio, l’infinito riflesso del mito. La seconda parte di questo volume è dedicata al principale cardine del credo huichol: il pellegrinaggio, che ogni indigeno dovrebbe compiere almeno una volta nelle vita, nella terra sacra di Wirikuta, dove il peyote cresce spontaneamente. Non è una cronaca quella che ci si appresta a leggere, bensì un vero e proprio pellegrinaggio intellettuale, scritto di getto, lasciando carta bianca alle idee ed ai ricordi. Questo, credo sia il modo migliore di parlarne, sfuggendo il resoconto, sacrificando il dettaglio all’argomentazione; in fede, non è una scelta di comodo: tutt’altro. La terza parte, che conclude il mio lavoro, porta un titolo paradossale: un nuovo inizio. Da tempo il popolo huichol ha abbandonato il disprezzo per gli uomini “dalla pelle bianca”: l’isolamento è finito, resta la speranza che il “civile” squalo si nutra, per una volta, di rispetto e non di pesci piccoli. È tempo di dialogo. Buona lettura.

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PARTE PRIMA: UNA STORIA WIRRARIKA Capitolo 1: Organizzazione e governo wirrarika 1.1 LA NASCITA DELLA LUNA

Mentre il fuoco bruciava, racconta la leggenda che una vecchia signora gli si avvicinò per riscaldarsi. I cervi guardiani l’avvisarono di stare attenta, così da non finire tra le fiamme, ma la vecchia ricurva si addormentò e ci cadde dentro. Ciò che si vide fu una vampa alta fino al cielo, che penetrò nella terra, poi più nulla. I cervi ascoltarono allora i suoi passi sotto di loro, e furono i primi a vederla apparire in cielo. La prima volta che apparve si chiamava Shewì, e stava in basso, ad oriente. La seconda volta si chiamava Jotariaka, ed era più alta e più chiara. La terza volta si chiamava Kairìaka, la quarta volta Naurìaka. La quinta volta salì in alto, ad oriente ed era piena, si chiamava Aushuwirìaka. Tacutsi Metseri, nostra bisnonna la Luna, aveva però luce debole, e poco vedevano gli abitanti della terra: ancora non si distinguevano le forme del mondo.

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Nel pantheon huichol la Luna è una divinità minore: il suo brevissimo mito sembra in effetti tagliato su misura allo scopo di elencare semplicemente i nomi delle diverse fasi lunari. Bisogna però tener conto del fatto che quella wirrarika è una tradizione orale, che gli anziani tramandano da secoli senza preoccuparsi troppo dei dettagli. Nulla di strano, ad esempio, che durante un qualsiasi rituale, il mara’ákame decida di arricchire i suoi canti con particolari inventati di sana pianta, per rendere più attenta la partecipazione degli astanti, magari facendo coincidere i tratti somatici o caratteriali dei protagonisti con quelli di chi lo sta ascoltando. Succede allora che quelli che in passato potevano essere una manciata di racconti, hanno dato origine ad un repertorio sterminato ed in continua crescita; non serve un grande studioso, ad esempio, per notare le affinità tra il mito appena narrato e questo che segue: 1.2 I BASTONI ITSU

Era mezzanotte, e dalle rupi si sentì un rumore forte, che risuonò incessante per cinque volte. I kakauyari, che erano saggi, pensarono di spedire qualcuno per vedere di che si trattasse: la scelta cadde su Tamatsi Kauyuma’li, poiché aveva il pene più lungo di tutti i suoi compagni.

Si chiamano kakauyari gli esseri leggendari che, prima della venuta dell’uomo, abitavano il nostro pianeta; sono l’incarnazione umana del creato: dalle montagne alle acque, ai

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mari, agli animali… ed i protagonisti indiscussi dell’universo mitologico wirrarika.

Talmente lungo l’aveva, che se lo arrotolava cinque volte attorno al petto. Quando arrivò vide una vecchietta, ma nella forma di un’enorme vampa infuocata, che gli chiese che cosa cercasse. “Mi hanno mandato i kakauyari” le rispose. “Bene, allora salutami” Quando allungò la mano per salutarla, l’anziana signora disse: “non mi devi salutare con la mano, ma con quello che tieni lì arrotolato!” Allora lui cominciò ad allungarlo e, quando ebbe finito, con un colpo secco la vecchietta glielo tagliò via, lasciandogliene attaccato solo un pezzetto, che è quello che abbiamo noi oggi. “Adesso sei libero” disse l’anziana, “quello lì adesso è normale, vai a raccontare tutto ai tuoi compagni e dì loro di venire qui fra cinque giorni”. Tamatsi Kauyuma’li fece ritorno e raccontò tutto; disse di aver incontrato Takùtsi Nakawè.

È comune fra i wirrarika apostrofare i propri dei con parentesi parentali, come a sottolineare una vera e propria discendenza carnale. Tacutsi Nakawé significa letteralmente “nostra bisnonna la Crescita”, è un personaggio molto interessante dell’universo mitico di questo popolo: Juan Carrillo Carrillo, direttore generale di Tatei Kie, la definisce “madre de la que emanan todas las

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madres”, madre dalla quale nascono tutte le madri, ironizzando con me sulla descrizione che Dante dà della Vergine nella Divina Commedia: Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio. Mi racconta che quando il mondo fu creato il suo corpo esplose nell’aria e dove cadeva un suo brandello, lì nasceva un albero o un animale, perché l’uomo potesse sopravvivere. È chiamata “gran hechicera”, la cui traduzione non rende giustizia al concetto: grande stregona. “Mascara del payaso vestito de mujer”: donna con al viso la biacca del pagliaccio, è colei che versò il sangue del primo toro sacrificato nella prima jicara (ciotola votiva). Dea ambivalente, generosa e crudele, benigna e nefasta allo stesso tempo1, sua fu la causa del diluvio che avvolse Wata’kami e uccise i kakauyari… dando la larga al genere umano2.

Trascorsi i cinque giorni, dalle rupi echeggiò lo stesso rumore, ed i suoi compagni capirono che era tempo di mettersi in viaggio. Quando arrivarono però, ad attenderli non c’era che un albero di Brasil: dell’anziana signora nemmeno l’ombra. Proprio mentre cominciarono a dubitare delle parole di Tamatsi Kauyuma’li una voce ordinò loro di tagliare dei rami dell’albero e, da quelli, ricavare dei bastoni. Spiegò loro quanto dovessero essere lunghi e tutto quanto. Erano saggi, e allora capirono che ogni bastone aveva un potere, e che da un potere derivano onori ed oneri.

1 Sull’ambivalenza del mito rimandiamo al paragrafo 2.5: “Tau, la nascita del sole”. 2 L’argomento, nello specifico, è riportato nel paragrafo 2.3: “Xapawiyemeta, il lago di Chapala”.

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L’organizzazione sociale wirrarika poggia ancora oggi su questi bastoni: gli itsu, che conferiscono al detentore pieno e legittimo potere nell’ufficio ad essi corrispondente. È importante sottolineare che è il bastone ad avere il potere; la persona che lo possiede ne è latrice e, proprio per questo motivo, muterà il proprio nome in quello del suo itsu. A titolo di chiarimento, riportiamo una parte del dialogo fra Giuliano Tescari, ricercatore e docente di antropologia culturale dell’Università di Torino e Leocadio Lopez Carrillo, indigeno wirrarika:

G. […] è come per il Governatore, che si chiama Tatowàni perché è incaricato del Tatowàni, del bastone Tatowàni? L. Il bastone è il Tatowàni. G. E quindi è la stessa cosa con la ciotola: la ciotola è il Tsaurìrrikàme, ma una data persona si prende in carico quella ciotola… L. …e assume lo stesso nome.3

Le principali figure della società wirrarika sono quattro (ma sono numerose le ramificazioni che da esse si dipanano): kawitero, wawaute, mayordomo e tatowàni, alle quali si aggiunge quella del mara’akàme. Ho ragionato molto su una definizione esaudiente di quest’ultima: sciamano, curatore, cantore… il mara’akàme è l’umana guida delle anime, l’uomo del peyote, la figura mortale di maggior importanza del credo religioso wirrarika. Data la continua rotazione annuale delle cariche, indispensabile risulta la figura del kawitero, un incarico morale, riservato agli

3 LEOCADO LOPEZ CARRILLO - GIULIANO TESCARI, Vámos a Tûríkyé - Sciamanismo e storia sacra wirrarika, Franco Angeli, Milano, 2000, pag. 124

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anziani che hanno già rivestito alte cariche governative, il cui compito è quello di sognare i futuri mandatari. Il principio che di norma regola questa rotazione è quello della discendenza diretta, ma può accadere che un incarico venga affidato ad un uomo, anche non wirrarika, che mai abbia avuto nulla a che fare con esso. Durante una cena in compagnia di Felipe Carrillo Gonzales è stato lui a dirmi, ovviamente in modo scherzoso e candidamente esplicativo, che sarebbe per me stato opportuno non lasciare Tatei Kie il giorno seguente, data la possibilità che abbracciava anche la mia persona di divenire il nuovo governatore del villaggio. Purtroppo, o per fortuna, non è successo. Il rifiuto ad assumere tale carica non è contemplato e la ragione è semplice: è comune opinione dei wirrarika che la malattia non si manifesti in un uomo per cause esterne, ma per intestine mancanze al proprio dovere. Capita quindi non di rado che i prescelti abbiano famigliari malati, e nessuno davanti a questo bivio decide di ignorare o rifiutare questa mistica chiamata. Naturalmente non è necessaria una disgrazia in famiglia per diventare governatore. È possibile che il kawitero indichi (sempre dopo essersi consultato con il mara’ákame del villaggio) una bambina, o un bambino, che in futuro assumerà il tal incarico e che, data la troppo giovane età, tocchi al padre farne le veci: “lei è troppo giovane, lo farai tu… non vorrai che tua figlia si ammali per non aver adempiuto al suo dovere!”. In questo modo si crea una nuova ramificazione, anch’essa sottoposta al principio che di norma regola i mandatari: la discendenza diretta. Una volta accettato l’incarico, due sono le verifiche a riprova che il consiglio dei kawiteros abbia “visto giusto”: la caccia al

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cervo nelle vicine zone boschive e quella al peyote, per la quale ci si recherà, disagi permettendo, nel territorio sacro di Wirikuta, dove il cactus nasce spontaneamente. La buona riuscita di entrambe le prove sarà la conferma di una scelta mirata. I wawautes sono i custodi delle ciotole votive, ed hanno un mandato non rinnovabile di cinque anni; la loro figura richiama immediatamente quella dei cervi addetti alla custodia di Tatewari, nostro nonno il Fuoco, nel mito della creazione. Ogni villaggio huichol ha al suo interno un tempio principale, il calihuey, dedicato al culto dei kakauyari, divini progenitori, dove suddette ciotole vengono poste, circondato da altri tre, a formare la croce che lega i punti geografici cardinali della cosmologia wirrarika. Quella del mayordomo è l’unica carica ad avere un appellativo spagnolo anziché wirrarika: a lui infatti è affidata la custodia degli idoli di importazione cattolica. Sono tre le figure del Cristo in croce adorate da questo popolo: Tatata (o Tata Cristo), del quale esistono due statue pressoché identiche, a rappresentare i due distinti sessi del genere umano, e Tatekwiyo, di dimensioni minori per facilitarne il trasporto in occasione dei cerimoniali nelle altre comunità. Al primo sono riservate le principali attenzioni: alla sua, ed alla sua soltanto, custodia è addetto uno specifico mayordomo, che prende il nome di returi ed ha il compito di conservare la statua in buono stato per tutti i cinque anni del suo mandato. Ad aiutarlo nell’incarico, due topiles, letteralmente guardie o messaggeri, uno dei quali, chiamato puyuste, ha funzioni di supplenza del returi nel caso questi debba assentarsi e l’altro, chiamato tepotaru, con l’incarico di svolgere le mansioni che, prima della partenza del returi, toccavano al suo superiore.

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Una tentasi, in genere donna e libera da legami sentimentali, è l'addetta alla pulizia del templo, alla profumazione di esso con incensi ed ai pasti del gruppo. Il tatowàni, governatore di carica annuale, è il vero e proprio garante della legge del villaggio. Con lui collaborano l’alcade, il giudice, il kapitan ed il jualguacil, a capo dei topiles, questa volta in veste di braccio operativo. Merita un approfondimento specifico il rituale con il quale avviene il cambio del governo e la conseguente cerimonia dell’investitura, che pone le sue fondamenta sull’originale calendario wirrarika: I MESI DEL SOLE sono quelli della stagione secca: vanno dal cinque di ottobre al quattro di giugno. In barba allo scorrere delle ore, qualsiasi abitante del villaggio, pur avvolto dall’oscurità della notte, durante questi mesi non troverà nulla di strano nell’affermare “è giorno”. I MESI DELLA LUNA sono quelli della stagione delle piogge: vanno dal cinque di giugno al quattro di ottobre. Naturalmente anche per questo periodo vale il discorso appena affrontato: “è notte”, e non c’è niente di illogico. MEZZOGIORNO e MEZZANOTTE sono rispettivamente i giorni centrali di questi due periodi. È comune nelle leggende wirrarika trovare nozioni temporali di questa specie; la stessa storia dei bastoni itsu comincia con “era mezzanotte”, a cavallo, quindi, del cinque di agosto (grosso modo, s’intende: la precisione matematica e la puntualità non sono certo il principale vanto dei popoli amerindi e neolatini).

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1.3 XARIKIXA, la fiesta del esquite y del cambio de varas de mando (La cerimonia del mais e del cambio dei bastoni del governo) Durante i mesi notturni della stagione delle piogge il governo wirrarika viene simbolicamente spodestato: il cinque di giugno Itsukate wamerra, il tavolo governativo, viene ribaltato sulla panca, dove rimarrà fino al quattro di ottobre, data in cui tutto tornerà in ordine per consentire alla “vecchia guardia” di riprendere il lavoro nei restanti tre mesi di governo. Il breve cerimoniale del ribaltamento si consuma in una mattinata: si apre con la sfilata delle autorità che, dalla chiesa, posta a Tatei Kie esattamente di fronte agli uffici governativi, portano Tatata e Tatekwiyo avvolti in una nube di incenso, verso il tavolo in discussione. Adagiati tra le offerte, anche il fascio di bastoni itsu ed i tre piccoli crocefissi delle comunità limitrofe: S. Josè, Cohamiata, Las Guayabas. Ha attirato la mia attenzione un uomo che, dopo aver sradicato da terra quello che credevo essere soltanto il tronco secco di una vecchia pianta, lo ha posto tra gli oggetti sacri, destinando anch’esso alla pulizia simbolica del muvieri ed a quella classica dell’acqua, per poi riporlo nuovamente al suo posto. È stata l’estrema gentilezza di Jesus Himen de la Cruz, che non ringrazierò mai abbastanza, soprattutto per avere pazientemente risposto alle mie mille domande durante la festa del peyote (che vedremo nello specifico in seguito4), a togliermi dagli occhi quell’espressione di vacillante incertezza: “è il palo in cui vengono legati gli animali da sacrificare durante la settimana santa, per questo lo purifichiamo… osserva, ora girano la tavola”.

4 “Híkuri Neirra”, par. 4.3, pag. 82

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Il sacrificio del toro, va detto, anche se di origine preispanica è ormai nell’immaginario huichol un omaggio di carattere essenzialmente cristiano, legato in particolar modo alla Pasqua di resurrezione, i cui giorni di lauda compongono, appunto, la settimana santa. Dopo il ribaltamento che, devo ammetterlo, immaginavo più caratteristico (si tratta schiettamente di ciò che è: il capovolgimento di una tavola) i wirrarika festeggiano la fine della cerimonia con tequila, birra e tejuino, una pastosa bevanda dal sapore orribile, ricavata dalla fermentazione del mais, non alcolica ma, ed è giudizio comune, altamente inebriante. L’atmosfera che si viene a creare è amichevole, tra canti e discussioni: c’è chi suona la chitarra e chi, vinto dai fumi dell’alcol, si addormenta a terra. Io stesso, mentre domandavo a Francisco Salvador, attuale governatore, il permesso di scattare qualche fotografia in giro, mi sono ritrovato in mano una chitarra e a fianco un uomo che insisteva perchè suonassi una canzone italiana. Una facile ballata di quattro accordi dei Modena City Ramblers è stato un buon compromesso con gli effetti del tejuino, se mi si passa il piccolo inganno di aver spacciato alle autorità in festa un modenese stentato per perfetto italiano. È importante sottolineare che, al fine di evitare che il lettore si faccia un’idea sbagliata di questo popolo, all’interno delle comunità huichol è proibito vendere e consumare alcolici. Solo nelle giornate dedicate alle sacre celebrazioni viene dato credito al famoso “strappo alla regola”. La notte che precede questa celebrazione si chiama watukaripa, ed è dedicata all’arte onirica dei kawiteros. È durante la notte che si sogna, ed è con le piogge che si vede sbocciare la nuova semente: questo detto, non ufficiale, spiega

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perché i kawiteros svolgano la parte principale del loro lavoro alla luce fioca della luna. Non tutti coloro che siederanno al tavolo del governo debbono per forza trovarsi al villaggio durante la loro nomina, ma è indispensabile che ci facciano ritorno per celebrare la Xarikixa, rituale che sancisce l’effettivo passaggio della fiducia nel gestire l’istituzione. Servono fondamentalmente a questo gli ultimi tre mesi di carica: a far sì che i futuri mandatari (sanno di esserlo poiché hanno anch’essi fatto lo stesso sogno del kawitero nella notte di watukaripa) tornino a casa. La cerimonia dell’investitura dura cinque giorni, e si apre lontano dalle luci del villaggio, durante la notte (quella vera), per ricreare quell’atmosfera che avvolse i kakauyari alla consegna dei primi itsu. La zona viene delimitata dai falò accesi, uno per ogni futuro addetto, o gruppi di addetti, alla carica, al centro della quale vengono posti, sopra un telo di fibra vegetale, i bastoni del potere. I canti e le preghiere che si alzano da ogni fuoco si mescolano in una cacofonia che terminerà soltanto al primo sole del mattino, quando i partecipanti stringeranno in pugno l’antico oggetto. Ma se le dita della mano potranno finalmente cingere l’onore del bastone, spetta alle spalle farsi carico dell’onere del potere: sono infatti pesanti sacchi, carichi di ogni genere alimentare, quelli che vengono donati ai nuovi mandatari perché siano portati al villaggio, svuotati e divisi con tutti in segno di servigio. Il tempo restante è interamente dedicato al canto, all’interno del tempio del villaggio, delle gesta degli antenati.

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Una volta riunito il nuovo governo, il primo dovere è quello di giustiziare una persona nell’arco di cinque giorni. È ancora in uso tra i wirrarika l’utilizzo del ceppo: uno strumento simile alla gogna che serve ad immobilizzare i piedi di chi commette gravi infrazioni. Le esecuzioni hanno luogo all’interno di stanze chiuse, per evitare ritorsioni e vendette dei famigliari verso il carnefice. Va detto che ormai sono ben rari, e più che altro leggendari, episodi di questo tipo: normalmente il malcapitato viene semplicemente allontanato dal villaggio o consegnato alla giustizia del governo messicano. A dovere di cronaca, mi è stato raccontato che, poco prima del mio arrivo a Tatei Kie, un giovane huichol di diciassette anni di età e qualche furto di troppo sulla coscienza, riuscì a scappare dalle carceri e a dileguarsi nella notte. I neo-eletti avranno a questo punto il diritto di governare senza interruzioni fino alla prossima stagione delle piogge, fatta eccezione per un breve periodo di dieci giorni, corrispondente al nostro carnevale, detto pachitas, in cui i mandatari si riuniranno con i kawiteros per gli ultimi, saggi, consulti. L’ultima figura rimasta da trattare è quella del comisario del bienes comunales, totalmente marginale ed estranea alla cultura indigena. È in pratica un inviato del governo ufficiale messicano che si occupa, tramite l’Istituto Nazionale Indigenista, dei rapporti burocratici legati all’uso delle terre da coltivo.

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Capitolo 2: Cosmogonia sacra 2.1 IL MITO DELLA CREAZIONE: IL DONO DEI MUVIERI E LA NASCITA DI TATEWARI

In origine il mondo era avvolto nell’oscurità, e gli antenati kakauyari non vedevano nulla, e si mangiavano fra loro. Il fioco lume della Luna non migliorò certo le cose: i più forti e veloci, come Namakame, l’uomo-leone, o Urawi tewiali, l’uomo-lupo, avevano la meglio su chi prima poteva almeno contare su una cecità comune. Fu allora che Tatei Yurianaka, nostra madre la Terra, si mosse: alla prima scossa i kakauyari videro una fiamma vaga, alla seconda scossa la fiamma prese vigore. Alla terza scossa la terra si illuminò brevemente, poi tornò il buio. Alla quarta si fece alta e brillò a lungo. Alla quinta scossa la fiamma si alzò in cielo fino a sembrare una stella, poi ricadde sulla terra e la penetrò. Fu allora che gli antenati udirono i passi sotterranei di Tatutsi, e lo seguirono fino a Têaka’ta, dove si alzò e si mostrò, al centro dell’universo.

Tatutsi è il nome che gli huicholes danno al fuoco primitivo, chiamandolo bisnonno. È la prima fiamma e, a differenza di Tatewari, nostro nonno il Fuoco, non è addomesticata dagli uomini. Têaka’ta significa letteralmente “il posto del braciere”, si trova nei pressi della Comunità di Santa Caterina ed è, assieme a

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Teupa, il santuario dedicato al Sole, uno dei posti più sacri per i wirrarika.

Un cervo si avvicinò incuriosito; Tatutsi lo catturò, lo uccise, lo appese ad un albero e ci si sedette sotto. Avvolto dalle fiamme il grasso fondeva e colava sul suo petto nutrendolo, alimentandolo. Poi prese il cervo e lo offrì ai kakauyari, che però non osarono avvicinarsi. Allora Tatutsi se ne andò sul monte, tanto lontano che nessuno riusciva più a scorgere la sua viva fiamma. Tamatsi Kauyuma’li chiese allora perché tutti lo avessero lasciato andare, chè era proprio di quella fiamma che tutti avevano bisogno.

Abbiamo già incontrato Tamatsi Kauyuma’li nel racconto dei bastoni itsu. Gli huicholes lo definiscono “nuestro hermano major venadito del sol”, ovvero “nostro fratello maggiore cervo del sole”. Non sfugga all’attenzione la parola “venadito”: è un’affettuosa espansione del termine “venado”, cervo. Doňa Gaby, che, nel mio primo viaggio, mi ha ospitato nella sua casa, ai piedi della sacra montagna, per un mese e della quale, senza scherzi, non conosco nome e cognome per esteso, amava apostrofare le persone di cui parlo con il termine “los huicholitos” per lo stesso motivo. Tamatsi Kauyuma’li è il dio che diede forma al mondo, il lume tutelare ed il principale tramite del mara’ákame. Incarnazione del cactus peyote, è lui l’astratta forza che tiene uniti fra loro gli antenati, per poter con loro intercedere a nome dei vivi, mantenendo l’armonia necessaria fra le forze opposte.

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La leggenda lo vuole disteso nel vento, con il capo adagiato nel cielo di Wirikuta ed i piedi posati sulle nuvole della costa di San Blas.

Tàmatsi si mise allora a capo degli altri kakauyari e, armati di frecce, andarono a cercare Tatutsi; lo trovarono che stava ancora camminando. La prima freccia ricadde debole al suolo. La seconda freccia bruciò al contatto delle fiamme. La terza e la quarta freccia fecero la stessa fine: nessuna sembrava avere la forza di arrestare il suo cammino. Provò per ultimo Xuarawetemai, la giovane Stella: tese il suo arco e scagliò la sua freccia nel cuore del fuoco. Solo allora Tatutsi si arrestò, curvo ed invecchiato.

Sembra proprio che si parli di Huehueteotl, il Dio Vecchio della cultura azteca, raffigurato sin dall’antichità come un anziano ricurvo che regge un braciere sulle spalle (o sul capo). Il suo nome è legato alla catastrofe che, secondo il calendario azteca, distrusse la quarta epoca e diede inizio alla nuova vita. Dopo il diluvio e l’interminabile oscurità che avvolse la terra, l’unica cosa a brillare era il braciere che il dio vecchio reggeva, come racconta Graham Hancock nell’ottimo “Impronte degli dei”:

Gli dei si riunirono a Teotihuacan e si chiesero ansiosi chi sarebbe stato il nuovo Sole. Al buio era visibile solo il fuoco sacro, ancora tremante in seguito al recente caos.

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“Qualcuno dovrà sacrificarsi e lanciarsi nel fuoco”, gridarono, “solo allora ci sarà un Sole”.5

La leggenda continua con il sacrificio di due dei e la nascita del nuovo sole, Tonatiuh, che sarà protagonista della quinta epoca.

Tamatsi ordinò quindi a Xuarawetemai di restare là, sulla montagna, per vegliare sul nuovo mondo: sarà la prima stella della sera. I kakayuari si avvicinarono: provarono a chiamarlo l’uomo biscia, dalle spirali nere e gialle, poi l’uomo serpente blu, poi l’uomo biscia grigia, ma il vecchio non li ascoltò. Ci provò l’uomo biscia dalle strisce nere e bianche, ma il vecchio restò immobile. La quinta volta si fece avanti Kwatemo’kami, che aveva un solo anno d’età ed era il più giovane dei cervi: alle sue parole il vecchio si voltò e gli parlò, perché egli riferisse al suo popolo quanto aveva udito. Kwatemo’kami disse allora agli altri di presentare al vecchio i loro bastoni; il vecchio ci legò le penne dell’aquila e del falco e glieli restituì.

Sono i muvieri: abbiamo visto di come ogni membro dell’organizzazione governativa wirrarika sia fornito di un bastone itsu. Il muvieri è il bastone del potere del mara’ákame, la cui funzione, strettamente legata a questo personaggio, vedremo in seguito.

5 GRAHAM HANCOCK, Impronte degli dei, Corbaccio, Milano, 1996/7, pag. 212

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Quando fu Tamatsi a presentare il suo bastone, Wawatsa’li e O’to Ta’wi, che erano venuto a tutelarlo, si sedettero, uno alla destra e l’altro alla sinistra del vecchio. Tatutsi ordinò allora di tagliare quattro rami: due di rovere e due di pino e fece porre in croce i rami di rovere, sui quali sedette, ed ai lati di essi i rami di pino.

Qui il riferimento è all’usanza wirrarika di porre, durante le cerimonie, un piccolo pezzo di legno come cuscino del Fuoco: il molìtari.

Tatotzì disse allora: “Wawatsa’li e O’to Ta’wi, voi sarete i miei guardiani, vi chiamerete Tama’ts Wawatsa’li, cervo del sud e Tama’ts O’to Ta’wi, cervo del nord”; poi, rivolgendosi a Tamatsi: “tu sarai il mio cuore, ti chiamerai Tama’ts Tatewari”.

Tatewari è una delle principali divinità adorate dal popolo wirrarika, guida e protezione dei pellegrini in viaggio verso Wirikuta. La traduzione letteraria del suo nome suona come “il fuoco che arde nel centro del circolo” ma la gente di Tatei Kie preferisce descrivermelo con il più confidenziale “el abuelo fuego”: nonno fuoco.

Si infilò la mano nel petto e ne estrasse due pietre focaie; fatto ciò disse: “prima scintilla a nord!” e sfregò le pietre. “Seconda scintilla a sud! Terza scintilla ad oriente! Quarta scintilla a ponente!

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Quinta scintilla al centro!” ed il suo cuore arse, le fiamme divamparono, Tatotzì divenne puro rogo. Era nato Tatewari, nostro nonno, il Fuoco.

La cosmogonia wirrarika poggia su una coppia di vettori direzionalmente opposti, che identificano, incrociandosi, un quinto punto centrale: l’osservatore. L’aspetto direzionale non è di tipo oggettivo, essendo l’uomo il principale fulcro e non un oggetto in esame del quale stabilire la posizione rispetto ad un asse predefinita. Sembra che la direzione venga intesa da questo popolo come riferimento per un cammino più spirituale che fisico: proprio mentre sto scrivendo queste righe, caso vuole che un gruppo di indigeni stia lavorando per terminare la costruzione di cinque piccoli templi dedicati, mi dicono, a cinque elementi naturali. A fianco della mia capanna sorge già quello che omaggia Eakateiwari, il vento, proprio sul ciglio de “el mirador”, uno strapiombo di circa settecento metri che deve il suo nome al fatto che da una pietra sporgente sulla cima si possa ammirare l’indescrivibile paesaggio che offre la sierra ed i fuochi accesi, in basso, della comunità di Las Guayabas. A lui si uniranno quelli dedicati ad Eka, l’aria, ad Hautsima, l’acqua, Kie, la terra e Tatewari, il fuoco. Volendo però rapportare il sistema di coordinate huichol a quello occidentale, potremmo azzardare che il binomio destra-sinistra coincida con l’asse nord-sud; crescita e declino fisico facciano le veci dell’asse est-ovest e,contemporaneamente, quelle delle proiezioni immaginarie di Zenit e Nadir. La verità, pur geografica, credo stia invece nascosta tra le pagine dei libri di storia: è interessante osservare come secoli di plagio religioso abbiano agito sul credo wirrarika mutando certezze indiscutibili in simboli sacri cristiani, fondati quindi sulla fede.

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Mi riferisco alla croce che capeggia di fronte alla chiesa della comunità di San Andres (impossibile non notare che anche il nome originario, Tatei Kie, ovvero “nostra madre la terra”, sia stato mutato da concetto religiosamente astratto ad iconografia cattolica riconosciuta e certificata). Si leggono quattro riferimenti sulle assi che la compongono: l’asse orizzontale conserva incise e ben visibili sul legno le parole Tunuwame – Tseriekame, l’asse verticale cita invece lo sbiadito binomio Wexikta – Kuyuaneneme. Sono la dimostrazione del fatto che, come mi ha giurato Rosalio Rivera Sanchez, guida del villaggio, la croce era già lì da un tempo (forse non la stessa croce) che precede di poco la colonizzazione spagnola e che, aggiungo io, originalmente ben poco aveva a che fare con la storia di un Nazareno sacrificato al potere di un impero. Le parole incise in lingua nahuatl, altro non sono che i nomi dei centri cerimoniali delle comunità che circondano Tatei Kie: Tunuwame è il nome del centro cerimoniale di San Andres Tseriekame è quello di Cohamiata Wexikta è quello di San Josè Kuyuaneneme è quello di Las Guayabas Riferimenti cardinali quindi, di un concetto spaziale sacro. Le principali cerimonie wirrarika vengono ripetute nei quattro centri cerimoniali, identiche, a rotazione, così che ogni singola comunità possa accogliere le autorità delle altre, ed ogni singolo calihuey sia teatro principale della sacra rappresentazione. Mi spiega ancora Rosalio che Tatei Kie si trova al centro di quattro importanti riferimenti direzionali della realtà indigena, dove periodicamente gli huicholes portano le loro offerte:

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Hauxamanaka, ovvero la terra di Durango, a nord, casa del popolo tapewano, perché la pace tra le etnie si conservi solida e duratura. Xapawiyemeta, il lago di Chapala, a sud, la cui storia è legata al diluvio della storia sacra wirrarika. Wirikuta, ovvero il deserto di Real de Catorce nello stato di San Louis Potosì, ad est, meta del pellegrinaggio che ogni huichol dovrebbe compiere almeno una volta nella vita. Haramaratsie, la costa di San Blas, ad ovest, dove troneggia ben visibile la cosiddetta “pietra delle Vergine”, washiewe in lingua nahuatl, faraglione posto a monito al mare, a difendere la vita di ogni uomo del mondo. L’ aspetto più interessante del sistema di coordinate huichol riguarda l’inversione che esse subiscono durante gli usi cerimoniali delle comunità: il quinto punto, l’uomo, che finora abbiamo considerato come l’origine dalla quale si espandono direttive spaziali soggettive, diviene centro unico di convergenza spaziale e temporale. 2.2 IL FURTO DEL FUOCO

Erano quindi i cervi a proteggere Tatewari. Fino ad allora nessuno degli antichi saggi che abitavano la terra aveva mai sentito sulla pelle quel torpore, e in molti si recavano a far visita al neonato Dio. Alcuni si avvicinarono troppo, e si bruciarono, altri cominciarono a pensare quale ingiustizia fosse tenere Tatewari rinchiuso in un solo punto. Il resto del pianeta era infatti ancora rischiarato dalla flebile luce lunare.

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Si decise Tupina, l’uomo-colibrì, che era molto veloce, ma appena mise il becco nel fuoco si bruciò, e tornò indietro a mani vuote. Ecco perché il suo becco è rosso e lungo: perché si sciolse in quel malaugurato tentativo di prendere per sè una scintilla. La stessa sorte toccò ad Háiku tewiali, l’uomo-serpente, e questo spiega il suo corpo maculato dalle ustioni. Altri kakauyari tentarono l’impresa ma, chi per il troppo calore, chi perché sorpreso dai cervi guardiani, nessuno riusciva a portarla a termine. Provò Iaúsu Tewiali,che era l’uomo-opossum: si mise proprio accanto al fuoco, per scaldarsi. Quando i guardiani furono distratti allungò la coda ed afferrò un tronco incandescente per poi infilarselo subito nella borsa che ha nella pancia, e cominciò a percorrere i cinque scalini che lo allontanavano dal pericolo d’esser scoperto: oltre quelli, infatti, i cervi non potevano andare. Quando i guardiani videro il fumo salire dal suo ventre lo inseguirono e, siccome l’opossum era molto goffo e correva poco veloce, lo raggiunsero subito; gliene diedero di santa ragione e lo conciarono proprio per le feste, tanto che alla fine non respirava più. Allora lo lasciarono lì, credendolo morto, ma il suo cuore batteva ancora.

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Si alzò, cominciò a correre come poteva, superò i cinque gradini, raggiunse il centro della terra. Lì offrì una scintilla alle cinque regioni del mondo, lì divampò di nuovo, per tutti, il Fuoco sacro.

Più di un elemento di analisi scaturice da questa storia. L’opossum , prima di varcare i cinque gradini che gli daranno la larga alla fuga, di fatto, muore: quello del sacrificio per ottenere un risultato tangibile è un concetto ricorrente nella simbologia wirrarika. Abbiamo già visto Tamatsi sacrificare la propria virilità e Tatutsi sacrificare un cervo; torneremo ancora sull’argomento già nelle prossime pagine, dedicate al centro della terra e alla nascita del Sole. Quella dei cinque gradini è invece una questione che merita qualche riga in questa sede: si tratta schiettamente di livelli, tappe da superare. Vedremo come la montagna della sacra terra di Wirikuta, Reunar, rappresenti l’ascesa sciamanica attraverso i cinque gradini che separano la terra dal cielo. Non è però soltanto un fatto simbolico o, meglio, spirituale: il modus vivendi del popolo huichol divide ogni prova che la vita ci sottopone, sia essa la gravosa malattia di un parente o, parlando del sottoscritto, un semplice ciclo universitario, in cinque distinte tappe chiamate nùywari: è un tragitto, un cammino che porterà ad un risultato. La prima è la tappa più semplice da sormontare, poi il cammino diventa sempre più difficile, a mano a mano che si prosegue, fino alla fine. Sono le esperienze, è la crescita: la vita è fatta di prove da superare… per dirla con il poeta: gli esami non finiscono mai.

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2.3 XAPAWIYEMETA, IL LAGO DI CHAPALA (come Wata’kami si salvò dal diluvio) Il lago di Chapala, oltre ad essere una bellissima e rilassante località turistica, lega il suo nome ad un episodio importante della storia sacra wirrarika: il diluvio, che lo fece crescere a dismisura, fino a coprire ogni angolo del mondo.

Comincia con la nascita di Wata’kami, il primo uomo, l’anello che lega a noi i kakauyari: era un agricoltore e passava le sue giornate a lavorare per creare il suo coamil, che significa campo coltivato, tagliando gli alberi di “salate” per far spazio sufficiente a piantare grano. Per quanti ne tagliasse, però, la mattina tutto tornava intonso, tutto il suo lavoro si rivelava vano. Il terzo giorno decise allora di attendere che il sole calasse per nascondersi e venire a capo del mistero. Fu così che vide la vecchia Tacutsi Nakawé avvicinarsi al campo con il suo mumurrì e volgerlo alle cinque direzioni. Gli alberi allora crebbero di nuovo, come e forse più forti, che prima d’essere tagliati.

Il mumurrì è un oggetto particolare ed affascinante: si tratta di un bastone senza corteccia che culmina al suo apice con la stilizzazione della testa di un cervo. Vedremo, nello specifico, il suo uso nel capitolo dedicato all’Hikuri Neirra, la celebrazione del peyote.

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Svelato l’arcano, Wata’kami uscì rabbioso dal suo nascondiglio, con tutta l’intenzione di picchiare l’anziana signora. “Calmati” disse lei, “devi sapere che il mondo sta per finire, tutti quelli che conosci periranno annegati a causa di un diluvio: fra cinque giorni comincerà a piovere e moriranno tutti”. Estrasse allora uno specchietto e mostrò come da ogni direzione stesse arrivando pioggia, come da un fiume in piena. Aggiunse anche che l’unico modo che aveva per salvare la pelle era quello di costruire una canoa abbastanza grande da contenere entrambi, e si raccomandò di costruirle un tetto perché potessero ripararsi. “Per questo” aggiunse “ho donato nuova vita agli alberi… se non lo avessi fatto, ora non ce ne sarebbero abbastanza per costruire la nostra imbarcazione”. L’uomo si mise subito al lavoro, tanto velocemente che la mattina del quinto giorno era già terminato. Al sentore delle prime gocce, Tacutsi Nakawé ordinò all’uomo di portarle una giovane cagnetta nera ed una torcia incendiata, di legno di ocote. Poi lo mandò a raccogliere cinque zucche, le tagliò e le svuotò come a formare dei contenitori, dove pose i grani dei cinque differenti colori del mais.

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Già nel racconto dei bastoni itsu ci siamo soffermati sulla figura di Tacutsi Nakawé e sul fatto che, per prima, versò il sangue del toro sacrificato in un contenitore chiamato jicara. Qui scopriamo la fattura di questa “ciotola cerimoniale”, ottenuta svuotando e disidratando una zucca, decorandola poi con perline di colori accesi e sgargianti.

Incendiò quindi una candela, a fianco della prima zucca, che sarebbe rimasta accesa per un anno. Ne avevano cinque, perché erano cinque gli anni durante i quali mai avrebbe cessato di piovere.

Tra le offerte del credo huichol, la candela ha un ruolo primario: un vivido esempio è quello delle quattro candele poste a reggere il mondo, così come lo conosciamo. Come la fiamma consuma la cera, così la vampa vitale di ogni uomo si esaurisce, fino a spegnersi.

Per ultimo raccolse ogni coppia di animali, poi diresse il suo mumurrì in ogni direzione e l’acqua arrivò impetuosa a sollevare la canoa. Il diluvio era cominciato e, per cinque anni, niente e nessuno vide altro che pioggia. Il livello dell’acqua si alzava di anno in anno, cinque livelli, e la navigazione si faceva sempre più difficoltosa: alla fine del quinto anno, anche la montagna più alta era sommersa. Quando infine gli scossoni delle onde cessarono, aprirono il tetto e videro che non pioveva più.

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Fu allora che Tacutsi Nakawé usò il suo mumurrì per solcare in terra vari canali, perchè l’acqua defluisse di nuovo verso il mare. Tutti gli uccelli presero a beccare lungo il passaggio, per questo si formarono le valli, ed i serpenti a strisciare nella fanghiglia che la risacca aveva lasciato, creando i torrenti. Quando tutto tornò normale, un uccello volò a spargere i semi di mais che avevano conservato all’interno delle zucche. Come ultima cosa, Tacutsi Nakawé pose un gigantesco scoglio bianco sulle rive dell’oceano, nel posto chiamato Haramaratsie, come monito al mare, chè mai più tornasse ad alzare le spalle oltre le rive del mondo. Wata’kami riprese la sua solita vita, e lavorava con maggior lena di prima. Mentre tutti gli animali erano ormai andati per le loro vie, con lui era rimasta la sua cagnetta nera, che si chiamava Suk U’ka. Lo strano era che, pur essendo l’unico uomo al mondo, egli trovava, al ritorno dal lavoro, sempre pronte sul tavolo tortillas di mais ad attenderlo. Incuriosito da questo fatto, un giorno, anziché andare a lavorare, si nascose dietro la sua casa ed attese. Sul finire della mattinata vide un filo di fumo uscire dalla sua cucina e subito dopo una donna, completamente nuda, recarsi al torrente per lavarsi, donando la sua pelle umida all’abbraccio asciutto del sole.

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Wata’kami corse allora in cucina, dove trovò, proprio accanto alla pietra usata per macinare il mais, il nero manto della cagnetta. Decise di gettarlo nel fuoco e, mentre lo guardava bruciare, la donna del torrente cominciò ad urlare tanto forte che dalla sua casa Wata’kami cominciò a correre verso quel grido: ciò che trovò fu la donna che piangeva con il corpo coperto di bruciature. La riportò a casa, le curò le ferite e le si dichiarò: “eri la mia cagnetta, ora sarai mia sposa”. Ebbero due figli, primo germoglio del seme, futuro arbusto della natura umana.

2.4 WIRIKUTA Affronteremo ora questo argomento in modo generico, rimandando quello che è l’aspetto principale di questa terra nella vita della comunità, ovvero il pellegrinaggio, alle prossime pagine, dove non mancherò certo di parlarne in modo approfondito ed esauriente. Quella di Wirikuta è sicuramente la tappa più importante del cammino spirituale wirrarika. Si trova sull’altura della sierra madre occidentale, nello stato di San Louis Potosì. L’unica città, o almeno la più importante di questa zona, reca un nome strano ed ambizioso: Real de Catorce. Alla lettera il suo nome significa “Reale dei Quattordici”: si suppone derivi dai quattordici soldati spagnoli che qui trovarono morte per mano indigena attorno al millesettecento.

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Attualmente è poco più che una città fantasma, ma vanta un passato di grande città mineraria, piegata nel primo novecento dal crollo che il prezzo dell’argento subì nei mercati europei. Chiusa la parentesi da guida turistica, l’importanza sacrale di questo luogo sta nel fatto che risieda ai piedi di Reunar, la sacra montagna, e in capo al deserto, arido giaciglio del cactus peyote. Parlando del più e del meno in un caldo pomeriggio di Tatei Kie, doňa Aureliana de la Rosa mi confida di non essere mai stata, nonostante la sua non più giovane età, a Real de Catorce: “si no estas ben limpio, te puede volver loco!” mi dice con quel tono di preoccupata raccomandazione che usano le madri quando il figlio per la prima volta esce dopo cena. Tanta è l’importanza sacrale che i wirrarika attribuiscono a questo posto che i neofiti del pellegrinaggio vengono, alle porte della montagna sacra, bendati, per evitare che la luce che questo luogo emana li renda ciechi. Se non sei puro, ti può far diventare pazzo: significa che per cibarsi del sacro cactus e poter ascoltare il canto degli dei è necessario spogliarsi di ciò che turba l’anima, di ciò che la rende nera. È proprio questo il principale timore che alberga nello spirito di questo popolo: la mancanza, seppur involontaria, di una buona confessione. Posso quindi capire Aureliana, e a nulla valgono i miei entusiastici racconti, che ho forse meno della metà dei suoi anni ed a Real de Catorce ci sono stato già due volte. “Per noi è diverso” mi dice “tu ad esempio che cosa hai visto, chi ti ha parlato?” Resto in silenzio.

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“Nulla, forse. Nessuno. Non sono uno huichol: studio la loro cultura e ne subisco il fascino, ma non mi appartiene” penso con un poco di rammarico. “Non a tutti è concesso di ascoltare la voce degli dei” continua “può succedere che una persona sia pulita: allora il peyote gli parla, gli insegna nuovi canti, gli dice cosa sarà nella vita… allo stesso modo può accadere che la persona abbia ingannato se stessa, presentandosi impura, e il peyote, che non si può ingannare, se ne accorga e la punisca facendola star male. Può anche succedere che il peyote non voglia aprirsi a quella persona: allora non sentirà niente e resterà sola” Mi vengono in mente i versi composti da Antonio Bautista, cantore huichol, che riporto nella versione spagnola e nella felice traduzione di Marino Benzi, nei quali tracima dalla diga del desiderio umano tutto il rammarico di chi non fu ammesso alla sacra udienza: Allá fui. Allá donde los cerros aparecen; nada oí. Allá fui donde aparecen los cerros. No oí nada, nada oí.6 Fui là dove c’è l’Imumui Fui là dove c’è l’Imumui La scala azzurra che sale, Fui là dove i fiori sbocciano

6 FERNANDO BENITEZ, Los indios de Mexico, ERA, Mexico D.F. 2000, 2006/6, pag.134

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Dove i fiori parlano: Ma non udii nulla, nulla udii. Fui là dove le rose cantano Dove i Nostri Padri Le Nostre Madri appaiono, Fui là dove c’è l’Imumui La scala azzurra che sale: Ma non udii nulla, nulla udii.7 È la confessione di un uomo che dopo aver percorso il difficile cammino del pellegrinaggio, fin sulla cima di Reunar (abbiamo già visto come la montagna sacra sia idealmente composta da una scalinata di cinque livelli, chiamata appunto Imúmui) non riceve il dono del verbo divino. Di Aureliana conservo ancora un quadro, realizzato con filo, cera d’api e resina, che mostra fiero al centro di un astratto mosaico la figura ben nitida di un serpente, dedicato alla città fantasma. Sul retro di esso lei stessa ha scritto, come risposta ad una mia muta, ma evidentemente mal celata in animo, perplessità, queste parole, da me tradotte dalla lingua spagnola:

È la sacra collina dove si trova il peyote, dove noi huicholes andiamo a lasciare offerte e dove organizziamo cerimonie, dove ci confessiamo, elencando i nostri peccati davanti a dio ed a tutti i nostri compagni, dove la porta del cielo ci si apre perché tutti possano vedere gli dei e con loro conversare.

7 MARINO BENZI, I canti del cervo azzurro, La Piccola Editrice, Celleno (VT), 1996, pag.27

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Tutto questo è possibile grazie al peyote, che ci fa entrare nel mondo magico dei cieli. Qui è raffigurata la serpe che si prende cura di esso: se non facciamo la cerimonia, se non preghiamo, se non lasciamo offerte non possiamo mangiare peyote. È per questo che essa lo protegge, e attacca chi non ha rispetto delle nostre usanze. Aureliana de la Rosa

Che cosa ho visto? Niente di soprannaturale, solo tre cerchi concentrici di pietre, che la mia guida mi vende come centro del mondo. “Almeno” mi dice “per come lo considerano gli huicholes” e mi racconta di come il popolo wirrarika si fermi proprio in questo luogo a danzare ed a lasciare offerte. È con ironia che mi sento ora di ringraziare quella persona a nome dell’amico Rosalio per la bella risata nata da quel mio racconto. “In parte è vero” esordisce Rosalio “è il centro del mondo perché è lì che è nato il sole… quei cerchi segnano il punto in cui il bambino Tau si è sacrificato per donarci il calore della vita. 2.5 TAU, LA NASCITA DEL SOLE

Una volta che il fuoco fu tra i kakauyari, questi cominciarono ad alimentarlo, ma la sua luce non riusciva certo a rischiarare il mondo.

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Provarono ad offrirgli delle giovani vite in sacrificio: per primo toccò ad Ittàyàme, che aveva cinque anni. Lo gettarono in pasto alle fiamme, e dalle fiamme uscì sotto forma di vero e proprio uccello: Ittàyàme è appunto il nome con il quale i wirrarika chiamano il pettirosso. Fecero altri tre tentativi, con lo stesso risultato, quando videro un bambino brutto e povero, ricoperto di pustole e tumori, che giocava in modo strano: continuava a trafiggere con una freccia il suo nierica, che portava all’interno l’effige sacra dello si’kuli.

Come è stato già accennato, il nierica è una tavola di legno circolare sulla quale vengono realizzate figure mitiche, spesso associate alle visioni dettate dal cactus peyote, durante il pellegrinaggio nella terra sacra di Wirikuta. Lo si’kuli è anch’esso un oggetto celebrativo, formato dall’incrocio di due bastoni che portano alle quattro estremità ed al centro un ricamo geometrico romboidale di vari colori, strutturati in maniera concentrica. Volgarmente chiamato “occhio di Dio”, viene spesso ricollegato alla presenza del medesimo in ogni luogo, pur rappresentando in verità l’espandersi caleidoscopico dei raggi solari, l’espansione della vita fisica e spirituale. Tornando al nostro racconto, abbiamo già parlato di come i wirrarika arricchiscano le loro storie di particolari inventati. In questo caso la spietata descrizione del bambino, oltre che sembrare inopportuna e, francamente, di dubbio gusto, poco ha a che vedere con la bellezza fisica che caratterizza i bambini che numerosi corrono per le strade di San Andres Cohamiata.

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Mi spiega Jesus che stiamo parlando di una antica leggenda azteca: quella del sacrificio del quinto sole a Teotihuacan, dalla quale il racconto di Tau sicuramente deriva. Non è la prima volta che mi rivolgo a Roberto Bonilla, direttore della scuola primaria di Tatei Kie, per avere in prestito libri sulla cultura del suo popolo, ma in questa occasione l’argomento sembra talmente ovvio e conosciuto da non richiedere nessuna ricerca, solo una domanda da parte sua: “Ma non hai visitato il Museo Nazionale di Antropologia del Distretto Federale?” “In verità, sì…” Roberto si riferisce all’enorme monolite che accoglie i visitatori, noto con il nome di “pietra del calendario azteca”, rinvenuto nel millesettecentonovanta in seguito a scavi archeologici nella piazza principale di Città del Messico e trasferito nel milleottocentoottantacinque, per volontà dell’allora presidente Porfirio Diaz, nel Museo Nazionale di Storia in calle Moneda e di lì all’attuale dimora, che lo ospita dal millenovecentosessantaquattro. La pietra rappresenta simbolicamente il cosmo azteca.8 Al centro di essa il volto di Tonatiuh, il dio del sole, coperto da rughe come quello degli anziani, ma dai capelli dorati come quelli di un fanciullo. Duplice è l’interpretazione che viene data alla lingua che penzola dalla bocca aperta del dio: alcuni la ricollegano alla perenne sete di sangue di vittime sacrificali, tesi supportata anche dal fatto che i due artigli ai lati del volto stringano due cuori umani; altri, tra i quali mi schiero, preferiscono avvalorare il fatto che questa sia realizzata in forma di coltello di ossidiana, 8 Per approfondimenti più dettagliati sulla descrizione del calendario azteca si rimanda al seguente sito internet: http://www.mondolatino.it/cultureprecolombine/gliazteca/calendarioazteca.php

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che indicherebbe il sacrificio di se stesso, fonte ciclica d’alternanza di morte e nuova vita. Secondo la cultura azteca l’intera storia di ogni essere vivente è divisa in epoche, o “Soli”. Quando questi si spengono l’intera razza li segue, ad eccezione di una coppia sulle cui spalle graverà l’obbligo, più o meno consolatorio, della riproduzione. I quattro pannelli a rilievo che circondano Tonatiuh rappresentano le precedenti quattro ere cosmogoniche del credo azteca: quella del giaguaro, in alto a destra, quella del vento, in alto a sinistra, quella del fuoco,in basso a sinistra e quella dell’acqua, in basso a destra. L’universo si articola quindi attorno ad una perenne e conscia attesa di distruzione e rinnovamento. L’epoca attuale è quella del “quinto sole di Teotihuacan” La storia è la stessa cui si è accennato parlando di Huehueteotl, il Dio Vecchio, custode del braciere in cui si gettarono due dei: ora ci soffermeremo sui protagonisti della vicenda. Narra la leggenda che il quarto sole si spense sotto il grande diluvio che allagò la Terra. Tutti gli dei si riunirono allora nella città di Teotihuacan per decidere chi avrebbe dovuto offrire la propria vita alla nuova luce. Vennero additati due dei con caratteristiche molto differenti: il primo era bello, ricco e potente; il secondo piccolo di statura e malaticcio. Anche i doni che offrirono al braciere di Huehueteotl li differenziavano: il primo offrì infatti splendide spine di corallo, il secondo spine di un comune arbusto, che colorò con il proprio sangue.

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Quando arrivarono sul ciglio del braciere il dio ricco fu il primo ad allungare la gamba per l’ultimo passo, ma non ne ebbe il coraggio, e la ritirò a sè. Per tre volte tentò, e per tre volte fallì nel suo intento. Allora il dio povero chiuse gli occhi e si gettò, un solo lungo passo il suo, poi un’enorme fiamma e il silenzio. Fu così che il primo, spronato nell’onore, si gettò subito dopo nella timida vampa che rimaneva, consumandosi. Il dio brutto e povero divenne così il quinto sole, ed il dio ricco la luna. Presero a brillare entrambi nel cielo, dello stesso acceso lume, tanto che gli dei, indignati, presero un coniglio e lo gettarono sul viso della luna, per privarla di quel brillio, degno soltanto del principale astro. Fu allora che il sole prese a muoversi, sacrificando al suo rogo la vita di tutti gli dei rimasti, che sparsi nel cielo divennero stelle.

“Quello sarà!” disse allora Tamatsi indicando il bambino, ed inviò i cervi del nord e del sud a convincerlo all’inevitabile sacrificio. Quando giunsero al suo cospetto però, lo videro mutarsi in serpente (Ku è il nome generico di questo animale in lingua nahuatl), si spaventarono e corsero via. Tornarono una seconda volta, ma ad attenderli non c’era più il serpente, bensì Maye, il puma: il risultato fu lo stesso. Al terzo tentativo c’era Tuwe, il giaguaro, ad aspettarli. Tentarono ancora: questa volta ad attenderli trovarono lo stesso bambino che giocava con la sua freccia poco tempo prima.

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Il perché di questi mutamenti è facilmente esplicabile: secondo la tradizione wirrarika, durante la notte il sole cammina nella sierra, assumendo la forma di questi animali per proteggersi nel buio.

Fu allora che presero il coraggio per il gesto definitivo: lo afferrarono, ma videro con stupore che era impossibile anche solo spostarlo: ogni brandello di pelle cadeva al solo tatto, come in un corpo anziano malato di lebbra. Visto che i due cervi non potevano nulla sul bambino, Tamatsi decise di recarsi da lui di persona, gli parlò, accettò le sue richieste: l’insegna del comando, ovvero il primo itsu forgiato da Tacutsi Nakawé nella notte dei tempi, un nierica circolare, una ciotola piena di sangue di cervo, una freccia bagnata dello stesso sangue. Prima di sacrificarsi restituì il bastone a Tamatsi e consegnò due candele, ricavate dal sangue donatogli, ai cervi. Infine intinse la freccia nella ciotola, indicò i quattro punti cardinali, si gettò al centro del fuoco, sparì mangiato dalla terra. Nel buio si mosse per cinque giorni ( o cinque anni, cinque passi, cinque minuti…sarebbe ormai più corretto dire: per cinque tappe ), poi dal buio emerse. Il primo kakauyari ad accorgersi del bagliore fu il tacchino.

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Sembra un particolare inutile: in realtà è questa la motivazione per la quale i peyoteros, durante la caccia al sacro cactus, ornano i loro copricapi di penne di tacchino.

Quando si mostrò a tutti, il calore divenne insopportabile: Tau camminava infatti sulla terra. Tamatsi comprese allora il significato del dono recatogli: impugnò quel bastone e lo diresse verso il cielo, indicando, tra le candele accese dai cervi, la strada al neonato dio. L’infernale calura, che già aveva pietrificato qualche kakauyari, divenne così il piacevole calore che garantisce la vita di ogni essere vivente.

Altri nodi sono venuti al pettine con la conclusione di questa storia: nodi che legano il mondo antico degli aztechi a quello moderno del popolo huichol. In primis la ricorrenza, anche nell’era antica, del numero cinque: quattro sono le ere azteche già trascorse, poste attorno al simbolo del sole, che rappresenta l’uomo attuale. È la riconferma di quanto è già stato detto su questa cifra: rappresenta il centro, il punto di contatto fra il cielo e la terra. Osserviamo inoltre che il terzo cerchio calendariale è diviso in venti figure: sono i venti giorni di ogni mese che componevano l’anno; diciotto mesi in totale, ai quali, per ragioni di calcolo, venivano infine aggiunti cinque giorni. Li troviamo distribuiti nel secondo circolo. Questi ultimi erano giorni di paura e preghiera, giorni che evadevano dalla divisione matematica del ciclo temporale della logica dell’uomo, giorni in cui le ere avrebbero potuto, per mano divina, trovare conclusione.

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In ultimo è importante notare come gli otto cerchi che compongono il calendario dedicato al quinto sole siano chiusi dal morso di due serpenti, evidentemente a rappresentare il giorno e la notte, caratteristica assunta dai due dei sacrificati. A parte il fatto che esiste, nella mitologia wirrarika, la figura di un bellissimo serpente rosso, innocuo e con due teste, che circonda il mondo e morde il sole fino a farlo scomparire nell’incrocio delle fauci (si chiama Tekayupi’su, il serpente bicefalo), è l’aspetto dualistico che compone ogni attività ad essere interessante, e lo troviamo in moltissime concezioni religiose o filosofiche tradizionali: presso il popolo azteca erano due le divinità cui l’uomo faceva riferimento, entrambe di origine tolteca: Quetzalcoatl, il serpente piumato e Tezcatlipoca , lo specchio fumante. Leggenda vuole che la dinastia tolteca sia nata dall’unione tra il capo nonoalco Mixcóatl, ovvero serpente dal cielo, e la sua sposa Chimala, scudo giacente. Ebbero un figlio, fondatore della città di Tula, che assunse il regale nome di Quetzalcoatl, appunto “serpente piumato”. Fu un sovrano buono e pacifico, che dopo venti anni di regno venne spodestato dal fratello Tezcatlipoca , “specchio fumante", malvagio e bellicoso, ed allontanato su una zattera di serpenti dal suo regno. Viaggiò verso il luogo dove nacque il sole. Sono due facce della stessa medaglia: solare e buona la prima, cupa ed avida di sangue sacrificale la seconda. Tau stesso, nella storia che abbiamo appena visto, divide la sua persona tra il rogo terreno della sua comparsa, in cui trovano la morte alcuni kakauyari, e l’allontanamento verso l’alto del cielo, come dispensatore instancabile di vita. Ancora: il cammino nel sottosuolo che precede la sua trionfale apparizione ed il vagare animale a cui è costretto dal buio di

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ogni notte ricordano il mito arcaico di Oceano, che vedeva la sfera celeste immergersi tra le onde, portale di un notturno e silenzioso cammino che da ovest si concludeva ad est, alle prime luci dell’alba. Il cantore di Poliziano incanta la cupa laconicità dell’Ade con la purezza lirica dell’amore.9 Sono esempi di ciò che altro non è che mito, creato forse per certificare l’inspiegabile; per esorcizzare, giocando d’anticipo, la paura di uno dei più grandi misteri della storia: la morte.

9 Il riferimento è al classico di Poliziano Fabula di Orfeo, in POLIZIANO, Stanze Orfeo Rime, libro II, Garzanti, 1998/3, pagg. 147 e ssgg.

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Capitolo 3: Oltre la vita 3.1 PARLANDO DELLA MORTE A COLAZIONE Riporto qua sotto un piccolo scambio di battute fra me e Rosalio Rivera Sanchez, seduti allo stesso tavolo a mangiare qualcosa la mattina della festa dell’Hikuri Neírra. Ero appena rientrato dalla visita alla casa di Pancho Sanchez, addetto alle attività che si svolgono all’interno del calihuey, per domandare il permesso di scattare qualche foto durante la celebrazione. Fatto sta che la casa di Pancho guarda dritto negli occhi un fazzoletto di terra che ospita lapidi e croci cristiane. S.R.- Rosalio, una cosa: ho notato un cimitero davanti alla casa di Pancho… R.R.S.- Sì, sì, c’è il cimitero. S.R.- Pensavo: ma la morte, qui tra voi com’è considerata? Cioè, quando un uomo muore, cosa succede? R.R.S.- Vedi, quando uno muore la sua anima è nera, e continua ad infastidire i parenti… quelli che vivevano con lui, insomma. Di notte, ad esempio, continua a bussare alla porta delle loro case e non li lascia dormire, allora il mara’ákame va nella sua casa e canta per cinque giorni e cinque notti. S.R.- Cinque giorni e cinque notti… R.R.S.- Cinque giorni e cinque notti. E poi lava tutte le sue cose, per purificarle, capisci? Pulisce e lava tutte le sue cose. S.R.- Però mi raccontavi ieri di un uomo trovato morto nella sierra… allora il mara’ákame canta lì sul posto, ma facciamo il caso che il corpo non si trovi… che succede? R.R.S.- No, guarda che non è così… non importa dove muore, perché anche se il corpo è, diciamo, nella sierra, la sua anima nera torna a casa.

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Per questo è importante che il mara’ákame faccia tutto per bene. S.R.- E dopo che il mara’ákame ha fatto tutto quanto, che succede all’anima? R.R.S.- L’anima diventa bianca perché è stata purificata, insomma, è salva. S.R.- Per sempre? Cioè, dove va? In cielo? R.R.S.- Sì, sì, va in cielo (Rosalio con la mano fa il segno del vento: non credo che per cielo intenda il paradiso)…nell’aria, per sempre, perché ora è bianca e salva. 3.2 IL REGNO DI WÉRIKA WIMARI Il mito che ci accompagnerà nel regno dei morti, o delle ombre, per usare una terminologia più consona al linguaggio huichol, è quello di una donna che, sconvolta dalla recente perdita del marito, viene accompagnata al cospetto di Wérika Wimari, custode della porta verde, varco dell’Ade. Oltre la porta una flora boschiva e selvatica, in tutto simile all’ambiente che mi circonda mentre ordino idee ed appunti presi già da qualche giorno, si apre allo sguardo del defunto. In capanne come la mia, diceva Rosalio, vivono le anime. Il regno in cui stiamo per entrare, però, non è che la seconda tappa del cammino: in primis Tamatsi Kauyuma’li conduce l’anima a Reunar. Qui parlerà con lei, di qui l’accompagnerà, se lo merita, nella sua nuova casa. È infatti possibile che non sia ad essa consentito di entrare nel regno di Wérika Wimari, nel caso in cui si sia lasciata morire, con la presunzione di chi osa tirare a sè le eterne redini del fato, frenando anzitempo la cavalcata della vita. A Reunar queste anime si fermano cinque giorni, e narrano ai cantori la loro storia: da chi piegò il capo alla miseria a chi si

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inginocchiò, come la protagonista del nostro racconto, alla tristezza della solitudine.

“Perché mi hai lasciato sola in questo mondo?” continuava a domandare a chi non le poteva dar risposta una vedova, piangendo giorno e notte, in attesa di rivedere il suo compagno. Passando di lì, Ko’ko Ta’mai, lo zopilote mitico, si accostò a lei e la guardò.

Lo zopilote è un uccello rapace che si nutre di carcasse, del tutto simile all’avvoltoio, ma grande non più di una gallina.

“Sono giorni che volo in questa zona, perchè non ti ho mai visto fare altro che piangere?” chiese il rapace. “Mio marito è morto e io sono sola” rispose la donna “e sono molto triste perché non so se è riuscito ad entrare nel regno delle ombre”. Lo zopilote rassicurò allora la donna: “ho visto l’uomo di cui parli proprio ieri, dentro la porta custodita da Wérika Wimari, posso accompagnarti là se non ci credi. Domani mattina partiremo, staremo via cinque giorni; copriti bene, perché dove siamo diretti fa molto freddo, e porta con te del mais rosso per il mio pasto”.

Esistono cinque colorazioni principali del mais: giallo, nero, azzurro, bianco e rosso; più una mista, chiamata “colorcitos”, che reca pannocchie dai chicchi multicolore, con prevalenza di quest’ultimo.

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L’importanza della graminacea ha origini antiche: già il suo nome scientifico, Zea Mexicana, varrebbe da solo a giustificarne l’importanza tra queste etnie. Abbiamo già parlato di come il popolo huichol, sedentario, ponesse nella sua agricoltura gran parte delle speranze nutrizionali, quindi di vita; così come gli aztechi, gli incas peruviani… tutti popoli preispanici che trovavano nel mais l’alimento base della loro dieta. Certo è che Cristoforo Colombo rimase affascinato e stupito da questa pianta, e che ad una generazione di distanza dal suo ritorno in patria il “grano indiano”, o mais, che dir si voglia, era già diffuso ed apprezzato in tutta Europa. Così scriverà l’avventuriero genovese al ritorno dal suo terzo viaggio, nella relazione ai cattolici sovrani:

Fecero quindi portare pane, frutta svariate, vino rosso e bianco, ma non fatti d’uva, bensì dovevano essere di frutta, il rosso di una sorta ed il bianco di un altro e similmente qualche altro vino fatto di maiz che è una semente contenuta in una spiga come una pannocchia che io portai in Castiglia dove già ve n’è molto; e sembra che il migliore venga considerato di grande eccellenza ed abbia grande valore.10

Il mattino seguente lo zopilote si presentò armato di arco e frecce e come la vedova gli salì sulla schiena, stringendolo alla vita, si raccomandò: “durante il nostro viaggio incontreremo molti animali notturni che faranno di tutto per arrestarci, tirandoci pietre e pali… fai quindi attenzione alle virate brusche che sarò costretto a fare per evitare di essere colpito”.

10 Lettera-relazione ai Cattolici Sovrani, terzo viaggio, 1498, in GABRIELLA AIRALDI, a cura di, I viaggi dopo la scoperta, Verona, 1985

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Volarono per molte ore prima di fermarsi, ormai a notte inoltrata, su una collina di roccia rossa dove capeggiava un albero robusto, verde e rigoglioso. La donna, adagiata sulle radici dell’arbusto, si addormentò subito, cullata dalle note amorose che il suo accompagnatore suonava sulla cima, adattando l’arco al ruolo del violino e la freccia a quello dell’archetto. “Addormentati supina, con le gambe e la bocca aperta”, le aveva consigliato lo zopilote, “e le bestie notturne non ti recheranno alcun danno” La donna si era già abbandonata ai sogni quando lo zopilote smise di suonare per andarle vicino e svegliarla con una domanda tanto intima quanto ambigua: “Ti sei bagnata?” chiese. “Sì” rispose la vedova, suscitando l’ilarità del rapace, alimentata ancor più dal prosieguo del discorso: “sei stato tu?” chiese. Nutriva infatti il sospetto che lo zopilote avesse fatto l’amore con lei mentre dormiva.

Il doppio senso sessuale è un ingrediente comico che spesso condisce i discorsi degli huicholes. Lo stesso spagnolo ne è ricco: frasi come “tengo los huevos”, letteralmente “ho le uova” (il riferimento ai genitali maschili, lo ammetterete, è abbastanza ovvio) escono spesso dalle labbra sghignazzanti dei ristoratori.

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Certo è che ora non sono al mercato a chiedere hamburger ma, per altro a stomaco vuoto, in una capanna di legno e paglia, a discutere di storie sacre con Felipe, che non se la smette di ridacchiare. La verità è una donna semplice, non facile, si badi… nel nostro caso una donna piuttosto anziana: Stuluwíakame, la figlia del sole, madre del cervo peyote, dea della nascita e della fertilità, rappresentata nell’iconografia come una bellissima dama circondata da cinque serpenti dalla pelle color del mais. Bellissima come solo una divinità può esserlo, nonostante il suo nome si perda nella nebbia del ricordo, ad annodare le tre cime del filo conduttore della vitale religiosità di questo popolo: mais, cervo e peyote. Non mancherò in seguito di tramutare questo trittongo in trittico, riportando a fine capitolo un articolo di Carlos Montemayor apparso, il venticinque febbraio millenovecentonovantotto, sulle pagine del quotidiano “La Jornada”, che mi sono preso la briga ed il piacere di tradurre. Per ora cerchiamo di non allontanarci troppo dal sentiero tracciato. Il sonno, l’abbandono della ragione, la perdita del controllo del corpo. Sessualità, il corpo vivo di una donna unito ad un rapace che nelle nostre righe assume l’ermetico ruolo di messaggero infernale: “ti sei bagnata?” domanda alla donna lo zopilote, ridendo di lei e della caparbia malizia che l’accompagna. Il piacere umano dell’atto che consacra la vita viene coperto dal nero dossale della morte; qui il corpo si fa terra bagnata e fertile, pronto ad accogliere il seme della pianta, spogliato della guaina, quel chicco di mais tanto caro alle divinità amerindie. Mi si passi il piccolo gioco di parole: la nostra donna muore per tornare a vivere, il corpo si fa terra e germoglio.

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Ormai svegli, a mattino, mangiarono qualcosa e si rimisero in marcia, volando, senza più interruzioni, fino alla porta verde, davanti alla quale sedeva Wérika Wimari. “Porto questa donna a trovare il suo defunto marito” si dichiarò il rapace “poi deciderà se tornare indietro con me” Wérika Wimari aprì loro la porta e i due proseguirono camminando su di un’altura. “Qui abita il tuo sposo, va da lui sola, se vuoi, io non posso accompagnarti oltre” disse la guida. “Legherò su quest’albero un fiocco di seta rosso: finchè lo vedrai io sarò qui ad aspettarti, altrimenti vorrà dire che me ne sono andato. Addio” concluse. La donna entrò sola nella capanna e, come il marito le si presentò dinnanzi, lo abbracciò con tutta la forza che aveva in cuore: “sono venuta qua perché desidero vivere per sempre con te!” esclamò. “No” rispose secca l’anima “non puoi stare qui: gli animali della notte ti feriranno e Toka’kami verrà a cibarsi delle tue vive carni”.

Toka’kami è il signore della morte e dell’oscurità; vive a Huatetuapa, oltre il cancello verde, descritto dalla gente di Tatei Kie come il luogo dove “los huesos bailan hasta hacerse polvo”, le ossa ballano fino a diventare polvere.

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È una divinità cannibale e maligna, rappresentata nella sua forma umana come un gigante paradossalmente aggraziato nei movimenti, che cammina fra le anime circondato dal suo seguito di scheletrici felini. Leggenda vuole che fu Toka’kami, la morte, a rapire Stuluwíakame. A seguito di quel rapimento gli animali sacri alla dea, il picchio ed il pappagallo verde, principalmente, vennero mutati nei “pajaros de la muerte”, uccelli della morte: il gufo, il pipistrello e, se pur spesso dimenticato, il piccione.

La donna aveva con sè farina di granturco per saziare entrambi, ma vide sgradita anche questa seconda sorpresa: “non mangio più ciò che mangiavo in vita, il mio pasto è tutto là, in quelle tre pentole” sentì replicarsi. La prima pentola conteneva carne, viscere e sangue da offrire al passaggio di Toka’kami. La seconda escrementi e pezzi di intestino, la terza acqua putrida e vermi.

Fino ai defunti dell’antico Messico pare essersi diramata la ferrea legge del contrappasso dantesco: prendiamo a modello la pena infernale riservata agli indovini; a questo proposito, forse, l’esempio più esplicativo di questa funerea costrizione. Coloro che in vita vollero vedere sempre troppo avanti, nel futuro, sono costretti dall’infernale legge a camminare con il capo voltato, o “tornato”, per citare testualmente il poeta, al già compiuto passo.

Come ‘l viso mi scese in lor più basso mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso,

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chè dalle reni era tornato il volto, ed in dietro venir li convenìa, perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.11

Così, nella storia che stiamo raccontando, l’uomo che in vita si cibò di mais e buona carne, bevendo acqua pulita, a Huatetuapa si sazierà di sterco, viscere ed acqua putrida.

“Ora devo andare via... così fanno i morti. Tu chiuditi in casa e non aprire la porta fino a mattino; se viene Toka’kami non parlare, perché ti sente e non ti addormentare, o ti mangerà”.

Sono comuni le incursioni dei defunti, nelle ore buie, nel mondo in cui viviamo. I morti possono “scendere” sulla terra, adattandosi alla figura di un animale notturno, semplicemente per rivedere i propri cari; è però molto più spesso una necessità di tipo alimentare a guidare le anime, in particolare quelle che abitano l’Ade da non più di cinque giorni. È infatti uso del popolo wirrarika lasciare, mentre il mara’ákame compie le purificazioni di cui ci ha parlato Rosalio all’inizio di questo capitolo, del cibo sul tetto dell’abitazione. Ecco spiegato perché l’anima continua a disturbare i parenti vivi. Parlando con Rosalio avevo immaginato, lo ammetto, qualcosa di più misterioso o forse, solo più cinematografico, come un film dell’orrore ben diretto, ma dalla trama scontata e banale. L’anima inquieta che troverà pace solo nella vendetta… niente di tutto questo, solo la fame di chi, essendo morto da troppo poco tempo, deve ancora abituarsi al contenuto, per nulla invitante, di due delle tre pentole. 11 DANTE ALIGHIERI, La Divina commedia, Inferno, canto XX, vv. 10-15

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Detto questo, l’uomo afferrò arco e violino e si avviò verso la porta. Rimasta sola, la donna cominciò ad udire più di una voce attorno a lei: “qua c’è una donna viva, ora andremo a prenderla!” Era ormai prossima la mezzanotte, e si sentiva vicino quel rumore che fanno le ossa quando sbattono tra loro: Toka’kami, in forma di lupo, stava avvicinandosi. In un corpo vitreo e scheletrico, che non aveva pelle o muscoli per nascondere le viscere ed il cuore, il suo collare era formato da ossa umane ed i suoi artigli graffiavano, sonori, il legno della porta serrata. Non un respiro si udiva, e neppure un battito di ciglia muoveva l’aria all’interno della capanna. “Ha preso uno di noi!” sentì allora gridare la donna “seguiamo i suoi passi, proviamo a salvarlo!” urlavano voci sempre più distanti. Quando il marito si presentò alla porta, subito la donna, ancora spaventata gli si gettò al collo e prese a raccontare della notte passata. “Devi tornare indietro” sentenziò l’uomo, “qui è troppo pericoloso per te, raggiungi lo zopilote e vattene”. La donna guardò allora l’albero indicatole dal rapace, i cui rami erano ormai spogli del fiocco rosso: la sua guida aveva fatto ritorno senza di lei. “Non posso più tornare” disse con gli occhi rivolti all’arbusto, mentre già il marito le era

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dietro, pronto ad ucciderla, per renderle sicura la vita nel regno della morte.

3.3 TUAMURRAWI NELLA CASA DEL MAIS Il mito è legato alle vicende di Tuamurrawi, gracile figlio della dea Tacutsi Nakawé12 e del suo avventuristico pellegrinare nelle terre dei kakauyari, fino alla casa del Mais.

Tuamurrawi nacque magro e gracile. Siccome scarse erano le riserve di cibo nella sua casa e, a ben vedere, di assai poco stimolo sarebbero state quelle braccia per spronare l’umore dei campi, Tacutsi Nakawé decise di abbandonarlo al suo destino dentro una caverna poco distante dall’abitazione. Chissà come, però, il bimbo crebbe tanto da poter camminare: attraversò Niwa’tali, la montagna dove riposano le nubi, e continuò, via via, fino alla località di Agua Revuelta. Era ancora un bambino che giocava con la terra e la sabbia, grande comunque quanto basta per intendere ed accettare quella difficile situazione, quando suo fratello Wakuri, il bambino-mais, gli si parò davanti. “Che vuoi da me?” domandò Tuamurrawi. “Sono venuto per ricondurti a casa” rispose il fratello.

12 Cfr. paragrafo 1.2: “I bastoni itsu”.

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“Mia madre mi ha abbandonato in una grotta perché il freddo mi uccidesse; ora sono io a non voler tornare”concluse secco. Detto questo cambiò il suo aspetto in quello di un serpente e, infilandosi fra le rocce, strisciò via, svelto, dal fratello, che prese a corrergli dietro, tanto veloce che a Tuamurrawi non riusciva proprio di distaccarlo. Lo seguì come un’ombra per lungo tempo, finchè, giunti alla località di Terra Umida, Tuamurrawi si fermò ed affrontò la caparbia insistenza del suo inseguitore. “Perché ti ostini a seguirmi?” chiese allora il ragazzo “ti ho già detto che non verrò con te”. Wakuri tentò portare a sè con la forza il serpente Tuamurrawi ma, appena lo toccò, questi si irrigidì e mutò in folgore, colpendolo. Lo sventurato esplose in cinque piccoli pezzi; pezzi che volarono fino alla Montagna Azzurra13, dove divennero cinque bambine, le cinque figlie del mais. Finalmente solo, Tuamurrawi continuò il suo cammino e giunse proprio alla Montagna Azzurra, dove vivevano Kukuru Rimari, la

13 La Montagna Azzurra, come Terra Umida e le altre località che compaiono nel racconto, sono evidentemente luoghi inventati, legati ai canoni principali della vita e della mitologia huichol.

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colomba cantatrice e sua figlia, costola, diciamo così, di Wakuri. Pur di passaggio, Tuamurrawi si fermò per un tempo abbastanza lungo; un po’ perché la bambina che aveva conosciuto era un’ottima compagna di giochi, un po’ perché il mais in quel luogo cresceva abbondante. Nulla lasciava presagire il pericolo che lo attendeva. Tsalu tewiali, così si chiamava l’uomo-formica, non potendo più avvicinarsi alla bambina, vinto dai morsi della fame, decise di mettere fuori gioco il rivale: aspettò che Tuamurrawi si addormentasse per staccargli le ciglia ed i capelli. Quando si svegliò era completamente calvo e quasi cieco. Sentì allora cantare Kukuru Rimari. Prima a sud, poi a nord, poi ad est e ad ovest, tutto attorno a lui. Appena capì da dove giungesse il canto, estrasse arco e frecce, pronto ad uccidere la colomba, che credeva responsabile della recente disavventura. “Perché vuoi uccidermi?” domandò stupita lei “se lo fai perché hai fame posso darti da mangiare”. Preparò per Tuamurrawi cinque piccole tortillas di mais nero. “Come potrò sfamarmi con così poco?” si domandò dubbioso lo sventurato “è evidente

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che Kukuru Rimari mi stia prendendo in giro”. Probabilmente ne avrebbe mangiate più del doppio in altre occasioni: si stupì di se stesso quando si sentì sazio senza neppure finire quel modesto piatto che tanto aveva, in cuor suo, criticato. “Grazie del pasto, ora devo andare” disse Tuamurrawi. “Torna domani, quando avrai fame” si raccomandò Kukuru Rimari. Il giorno seguente ad attenderlo non c’era la colomba, né sua figlia, bensì un’anziana signora che disse di chiamarsi Tate’Yulianaka e suo marito, il vecchio Komateáme.

Tate’Yulianaka, alla lettera “”nostra madre terra feconda” (Yuli significa appunto “bagnata”); “la que moja la tierra para que crezca el maiz”: colei che bagna la terra perché cresca il mais, altro non è che uno dei nomi di Tacutsi Nakawé, madre e protettrice delle piantagioni di mais e fagioli, moglie di Komateáme, in germe, il seme.

“Siedi a riposarti” lo invitò gentile la signora. “Servigli da mangiare” esordì il vecchio “credo che questo ragazzo abbia molta fame”. Come il giorno precedente, la signora tornò con cinque piccole tortillas e come il giorno precedente Tuamurrawi non riuscì a

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terminare il suo pasto, chè a metà era già sazio. Si rivolse allora al vecchio: “potete vendermi un po’ del vostro mais?” chiese “vorrei portarlo a mia madre”. Non ebbe risposta… almeno non nei termini che si era immagianato. Komateáme prese il bastone, si incamminò verso una stanza e disse, prima di entrare: “ora chiedo ad una delle mie figlie se vuole accompagnarti”. Tuamurrawi non capì quella bislacca reazione: anche se bellissime e giovani, aveva chiesto mais, non compagnia. La prima interpellata fu Yu’wime, la bambina- mais nero, ma era ancora troppo piccola per mettersi in viaggio. Fu allora la volta di Tarawi’me, il mais giallo, che era malata e non poteva muoversi. Rule’me, che era la bambina-mais rosso, disse di non potersi muovere, o i suoi piedi avrebbero senza dubbio cominciato a sanguinare. Tata’mi, che incarnava il mais bianco, era giovane e, purtroppo, cieca: sarebbe stata un peso, non certo un ausilio, nel cammino. Fu Yoawi’me, la bambina-mais azzurro ad accettare l’invito del padre. “Bene” disse allora Komateáme “Yoawi’me ti accompagnerà a casa”. “Bene” rispose Tuamurrawi “ma il viaggio è lungo… come faremo a sopravvivere in due,

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se non ho nulla da mangiare neppure per me?” “Non ti ho detto che partirete subito” fu la replica del vecchio “ora dovrai preparare nella tua casa un ririki con un altare, una freccia ed una jicara.

Il ririki è un piccolo tempietto, posto spesso all’interno delle già minuscole capanne in cui vivono gli huicholes. A volte si tratta solo di quadretti che rappresentano la tal divinità. Ricorda, ma è un parallelismo tutto personale, quegli altarini dedicati al santo di turno che una volta facevano bella mostra di sé nelle case dei nostri nonni. La jicara, rukuri in lingua nahuatl, ciotola di legno decorato, di piccole dimensioni, spesso venduta ai turisti come “portaoggetti.” Anche in questo caso la fame ed il bisogno di denaro hanno scavalcato il muro della moralità religiosa; quello che per il turista è un ricordo carino ed economico del proprio viaggio, per il popolo huichol è esattamente il contrario: la massima offerta agli dei, comoda da trasportare durante le pellegrinazioni, che spesso, giunta a destinazione, viene data alle fiamme perché divenga cenere, parte integrante del terreno sacro. Rappresenta la divinità femminile; per questo motivo viene spesso accompagnata alla freccia, che ha la medesima funzione rappresentativa del sovrumano di sesso opposto.

Quest’ ultima mettila sopra quattro pannocchie, rivolte verso i principali punti cardinali. Fuori dal ririki costruisci cinque, grandi, contenitori.

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Quando tutto sarà pronto torna da noi, ed avrai mia figlia: portale in dono una candela e della cioccolata. Ora vai.” Tornato a casa, raccontò a sua madre ogni cosa, del suo incontro e delle parole di Komateáme. In capo a cinque giorni, in casa, tutto era pronto per accogliere Yoawi’me. “Ora mia figlia verrà con te” furono le ultime parole del vecchio “bada che sia sempre rispettata e che mai debba lavorare. Siederà sull’altare, a fianco della jicara, per cinque anni.” Giunti a casa, allo scoccare della mezzanotte, Yoawi’me sedette al suo posto e Tuamurrawi accese la candela, la cui fiamma avrebbe resistito per tutto il tempo necessario. Fu al primo timido bagliore della neonata vampa che Tuamurrawi sentì un rumore, dolce e gradevole, simile a quello che fa un granello di mais quando, staccatosi dagli altri, cade in terra e rotola sul pavimento. Venuta l’alba, si preparò per il lavoro nei campi, mentre sua madre già stava preparando tortillas per tutti e tre, chè di sicuro il suo ragazzo sarebbe tornato affamato. Tuamurrawi partì, e lavorò per tre giorni e tre notti tanto duramente che le dita delle mani, all’alba del quarto giorno, gli caddero in terra.

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Fu con stupore che vide le sue dieci dita divenire dieci uomini, pronti ad aiutarlo in quel massacrante lavoro. Era ormai mezzogiorno, quando Tacutsi Nakawé decise di fargli visita e, vedendo tutte quelle persone con suo figlio si rallegrò, perché il lavoro era senza dubbio a buon punto, poi pensò: “che darò loro da mangiare quando rincaseranno? Sola non posso farcela, e Yoawi’me non fa nulla tutto il giorno… questa volta bisognerà che mi aiuti.” “Non me lo chieda, la prego” rispose la giovane “sa che non posso muovermi da qui per cinque anni”. Il quinto giorno Tuamurrawi tornò finalmente a casa, e Yoawi’me gli riferì della richiesta della madre: “non ascoltarla” disse lui, e prima che potesse aggiungere qualcosa d’altro, un tuono lo interruppe, prepotente, da est. “Che cosa è stato?” chiese Tuamurrawi, mentre altri tuoni si alzavano ad ovest, a nord e a sud. “L’attesa è finita” sentenziò Yoawi’me. “Procurati cinque fasci di ocote e recati al campo. Volgili nelle direzioni in cui hai sentito i tuoni; il quinto ponilo al centro e falli bruciare.

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Vedrai alzarsi, denso, un fumo che avvolgerà ogni cosa”.

Quella del fuoco è una tecnica di coltivazione: data la fitta flora della sierra, in attesa delle piogge viene provocato un “incendio controllato” per impastare la terra delle sostanze nutritive presenti nel legno e permettere alla vegetazione di rinnovarsi ciclicamente.

Così fece, ed il fumo si levò alto, fino a divenire una tetra e minacciosa nube, tanto grande che il suo odore arrivò anche alle narici di Komateáme. “Il ragazzo ha finito il suo lavoro” pensò il vecchio “ora è giusto che piova”. La pioggia cadde fitta sull’arida terra di Tuamurrawi, e la cenere dei fuochi sembrava renderla feconda e morbida. “Domani ci recheremo al campo; io, tu e tua madre” promise tranquilla Yoawi’me. Partirono di buon mattino, quando la pioggia si era ormai placata. Yoawi’me chiese allora dove fosse stato acceso il primo fuoco e, come Tuamurrawi gliel’ebbe indicato, toccò cinque volte la terra con un dito e Tacutsi Nakawé ci pose, accesa, una candela. Lo stesso fecero negli altri quattro punti; quando ebbero finito, la pioggia riprese a cadere.

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Dopo cinque giorni il mais era cresciuto rigoglioso, pronto per la falce; Tuamurrawi ora poteva vederlo bene ed anche i suoi capelli erano tornati al loro posto. Cominciò a recidere le spighe spuntate a sud, che erano di mais bianco. Poi quelle spuntate a nord, di mais azzurro, e ad ovest, di mais rosso. Tagliò quindi il mais giallo, cresciuto ad est ed in ultimo il mais nero, del quale il centro del campo era gremito. Yoawi’me lo accompagnava tenendo la gonna a mo’ di sacca e più spighe Tuamurrawi gettava in essa, meno accennava a colmarsi, e sì che ne aveva già raccolto tanto da far strabordare non una, ma cento di quelle ceste improvvisate. Tornati a casa gettarono il mais nei contenitori, uno per ogni colore. Tutto era stato fatto, e Yoawi’me si sentiva davvero molto stanca. “Ora dammi il cioccolato che mi portasti, perché ho bisogno di riposarmi e mi aiuterà a riprendere forza ” disse, prima di addormentarsi all’interno del ririki. Il tempo passava, portando con sè gran parte delle provviste; Yoawi’me, ormai desta, stava seduta sul suo altare ed il campo di Tuamurrawi era tornato arido. Tacutsi Nakawé, come avesse dimenticato gli straordinari servigi resi qualche mese prima,

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non perdeva occasione di rimprovere la giovane per la sua pigrizia. Tanto fece che un giorno, satura dei continui ammonimenti, Yoawi’me uscì dal suo templo, intenzionata ad aiutare la donna nella prepararazione di tortillas e tejuino. Come ci si mise però, ecco che i suoi occhi cominciarono a lacrimare e le sue mani ad imbrattarsi di sangue. Lo stesso mais prese a sanguinare, come se fosse parte di quel corpo ferito. Spaventata, la giovane scappò, sola e senza che nessuno la notasse. Quando Tuamurrawi si rese conto dell’accaduto partì di gran lena alla ricerca della sua compagna, correndo fino a quella casa dove tempo prima l’aveva conosciuta. Tate’Yulianaka e suo marito questa volta non furono affatto cordiali, tanto che neppure ricambiarono il saluto. Era chiaro che sapessero già tutto. “Yoawi’me se n’è andata” disse con le lacrime agli occhi “non per colpa mia, ma di mia madre” “Che venga lei, allora” fu la risposta. Tornato a casa Tuamurrawi si rese conto che nulla poteva andar peggio: anche quel poco mais rimasto era scomparso. Fu allora che la disperazione divenne rabbia: “cosa le hai detto?” chiese scagliandosi sulla madre.

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“Le ho detto che una donna ha il dovere di far da mangiare!” rispose. “Ora verrai con me alla casa del mais” le ordinò Tuamurrawi. “Non voglio farlo, perché mi picchieranno di sicuro; vai tu e chiedi perdono per me”. Come arrivò al cospetto di Komateáme, Tuamurrawi chiese di poter avere nuovamente per sè una figlia dell’uomo, ma le parole del vecchio non lasciarono spazio, seppur minimo, ad alcuna speranza. “Non ho intenzione di darti una seconda occasione” esordì duro “ ma posso venderti il mais che mi hai chiesto la prima volta che ci incontrammo”. Detto questo, diede a Tuamurrawi cinque granelli di mais, uno d’ogni colore, ed un ultimo monito: “d’ora in poi lavorerai il tuo campo da solo, da solo lo brucerai e lo pulirai, da solo attenderai le piogge”. Tornato a casa Tuamurrawi, il niňo-pato, piantò ciò che gli restava: cinque chicchi di mais.

Non tutti i conti tornano in questa bislacca storia: in primis il viaggio di Tuamurrawi, che pare più onirico che fisico. Una marcia che comincia e finisce nello stesso punto, sotto lo sguardo attento di chi dirige il gioco: Tacutsi Nakawè, deuteragonista che, ora come non mai, mostra apertamente la sua duplice natura.

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Da madre degenere, che condanna a morte il proprio figlio, veste in un secondo momento i benevoli panni di Tate’Yulianaka, dea che dona ad esso il nutrimento della vita, per poi tornare, avvolta negli antichi drappi, a mischiare ancora le sue carte in tavola, garantendo alla partita il peggior finale possibile. In secondo luogo la figura di Yoawi’me, il mais-azzurro. Mentre, originariamente, ci viene presentata come una delle principali colorazioni del mais, assume poi il ruolo di matrice divina dell’alimento sacro, base della sopravvivenza di questo popolo, rubando la scena alla “fulminea” apparizione (o sparizione, sarebbe meglio dire) di Wakuri, al quale, sono convinto, alcuni narratori ritaglino un ruolo di ben altro spessore. Mia è stata la decisione di tenere nascosto l’appellativo di Tuamurrawi, “niňo-pato”, fino all’ultima riga, come intenzionale è l’intrusione della lingua spagnola. Questo perché la traduzione letterale, “ragazzo-anatra”, porta a pensare che la storia, svolgendosi all’epoca dei kakauyari, riservi al protagonista una soluzione legata all’animale. Il fatto che anche Rosalio, che tanto ama la sua lingua d’origine da sottolinearmi continuamente il suo “vero” nome, Paritemai, Aurora, si sia servito dell’idioma dei conquistatori, mi ha fatto soffermare sul come questa deduzione fosse, forse, forviante... in concreto: perché accostare all’anatra il padre spirituale dei coltivatori? La morale di Tuamurrawi è, infatti, d’altra questione: quella di dover “pagar el pato”, ovvero “fare da capro espiatorio”, pagare a sue spese l’errore di un’altra persona, alla quale, tra l’altro, ancor oggi ogni coltivatore huichol deve il sudore della sua fronte. Capite quindi il riserbo usato, la discrezione e la prudenza, nell’inserire solo in coda un titolo del genere.

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3.4 PEYOTE, VENADO Y MAIZ14 El indio mexicano posee este conocimiento milenario: el planeta no es algo inerte, inanimado, sino un ser viviente. Esa capacidad de vida se manifesta como una integracion poderosa de entidades que desde lo invisible sostienen lo que es visible. En el pensamiento religioso de Occidente el cielo, el purgatorio, el limbo, el infierno, son “ambitos” sagrados que no estan unidos a lo que vemos. Entre los pueblos indigenas de Mexico, en cambio, se conjugan estrechamente las entidades sagradas invisibles con la vitalidad del mundo. Las entidades conviven con el ser humano, con los pueblos. El indio mexicano sabe ver, distinguir en el espacio visible, el pulso invisible que late y da vida al mundo. Entre estas entidades hay ciertas fuerzas poderosas que parecen poseer la respuesta a todo lo que alienta en el corazon humano. Son entidades mas alla de la lluvia, los rios o el mar, mas alla de las grutas, montaňas o selvas; son entidades que se individualizan como manifestaciones del dios de quien provienen pueblos enteros o del que nace la conciencia que de si mismos tienen los pueblos. A veces las entidades asi individualizadas son reconocidas fielmente en una sola region; otras veces se extienden por la continuidad cultural y geografica de Mesoamerica; otras mas, se adentran en los territorios del norte de Mexico, en culturas indigenas distintas. La serpiente es un profundo simbolo y una poderosa entidad en ciertas regiones mesoamericanas. En otras lo es el venado. En casi todas lo es el maiz: divinidad sustentadora de la vida. Hay ademas en la religiosidad del Mexico indigena una devota relacion con ciertas plantas narcoticas. Estas plantas piensan, hablan, enseňan, se comunican. Tienen “alma”. No pueden estar al servicio de caprichos o aventuras psiquicas de los hombres. Son guias, puertas sagradas que se reverencian y cumplen con la mision de curar y de ayudar al crecimiento espiritual que los pueblos indigenas necesitan para cooperar en la conservacion de la vida, en la conservacion del mundo. El tabaco es una de ellas. Para algunos mayas el humo del tabaco hace recordar al hombre sabio, ayuda a que los pensamientos profundos salgan a la luz; por ello lo fuman en ceremonias de curacion.

14 CARLOS MONTEMAYOR, <<La Jornada>>, 25 febbraio 1998.

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Otros mayas lo trituran, lo mezclan con ciertas sustancias y lo mastican; saben que asi establecen un contacto permanente con el mundo invisible y que podran resistir largas caminatas y atravesar selvas, montaňas, lugares desolados o peligrosos. Entre los mazatecos de Oaxaca, los hongos alucinogenos son la divinidad poderosa e inefable; exigen una profonda pureza del que se acerque a ellos como sacerdote, curandero, paciente o aprendiz. Un largo recorrido espiritual se requiere para conocerlos. Otra planta sagrada es la mariguana. Son multiples sus sentidos y empleo. Entre los tepehuas de Veracruz se le llama Santa Rosa y es considerada madre del maiz; aunque fue su madre, abandona al niňo maiz, que se convertira en dueňo de las entidades de la lluvia y del trueno, en amo de las serpientes de la tierra y de la lluvia y protector de su madre misma; aqui el niňo maiz tiene por padre a una entidad que se transforma en venado. Tambien el peyote es sagrado. Su devocion se extiende fuera de la orbita milenaria de Mesoamerica, en el norte y occidente de Mexico, en particular entre dos pueblos emparentados: los tarahumaras y los huicholes. Los tarahumaras lo consideran hermano de Dios y cuentan que cuando se fortalecio el alma del hombre recien creado, este camino a Umarique, lugar por donde sale el sol, y se encontro con el peyote o Hikuri que ahi habitaba. “Por el alma fuerte del tarahumara”, dicen. Este fortalecimiento es esencial en la formacion del sacerdote indigena, para que un tarahumara llegue a convertirse en Sipame o un huichol en mara'akame. Estamos ante una experiencia interior que no puede ser comprendida con otra mentalidad religiosa. Porque toda religion supone caminos espirituales para el surgimiento de vocaciones sacerdotales. Si despojaramos de sus valores culturales al fraile agustino o franciscano, al jesuita o el metodista, al monje budista o al rabino, sus ayunos, confesiones, sueňos, martirios, vocaciones, luchas interiores, atavios, unciones, certidumbres de haber sido llamados para un destino y otro, no significarian nada mas que ingenuidad, supersticion o delirio. Paralelamente, si descalificaramos el universo cultural, que es profundo y complejo, de los grandes sacerdotes tarahumaras o huicholes, su sabiduria interior podria ser solamente tenida por ensueňo o engaňo. Pues bien, al profundo universo sagrado de los huicholes se refiere la coleccion fotografica, sorprendente y magnifica, de Pablo Ortiz Monasterio, Corazon de Venado. Es una serie que no muestra la vida cotidiana de los huicholes sino su principal ceremonia ritual. Corazon de Venado es un simbolo que enlaza,

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como distintas facetas de una sola divinidad, como distintos rostros de una misma fuerza espiritual y vivificante, al venado, al peyote y al maiz. Un venado celestial, Kauyumari, fecunda con su sangre la tierra donde nace el maiz o Hiku; de su propia sangre el venado celestial renace, resucita, dando vida. El corazon del que mana su sangre, el corazon que sostiene y alienta la vida del Hiku o maiz (y que por ello sostiene y alienta la vida del huichol), tambien es Hikuri, el peyote. Por ese corazon se mide la vida de cada aňo y de cada sacerdote. Los pueblos huicholes emprenden la caceria del venado o marra para ofrendarlo a la madre tierra, a la Tatei Yurienaka, donde el corazon renacera como Hikuri y como vivificante maiz o Hiku. Por eso cazan al venado y al peyote, para ayudar al mundo. De ambos corazones del venado celeste renacera cada aňo el hombre, la mujer, el niňo huichol. Las sorprendentes, vividas, cercanas fotografias de Pablo Ortiz Monasterio registran un peregrinaje sagrado: el viaje desde las montaňas de Jalisco y Nayarit, donde viven las comunidades huicholas, hasta la sierra del Real de Catorce, en San Luis Potosi. En este peregrinaje por el desierto, por Wirikuta, los sacerdotes huicholes van recolectando del suelo, devotamente, los corazones sagrados de peyote. Esta recoleccion es otra “caceria del venado”. Por ello a la Fiesta de Peregrinacion o Pariyatsie yeya le llaman tambien Iweiyari, “La caza”. En la fiesta ritual se funden las dos cacerias, la de Hikuri y la de Marra, el venado sacrificado. Esta conjuncion sagrada es tambien una faceta magica del maiz o Hiku: por un lado, es el venado celeste, por otro, el corazon de ese venado sagrado, el Hikuri. He dicho que el venado celeste tiene un nombre: Kauyumari. La memoria de los huicholes conserva muchos relatos suyos, muchos cantos. En ellos Kauyumari aparece tambien como un verdadero sacerdote huichol, un mara'akame. Por ello los relatos de Kauyumari son el espejo del verdadero huichol, el espejo de su desarrollo espiritual. El alma del peyote es para conocer lo verdadero, para convertirse en un sacerdote que no engaňa, que no pueda ser vencido por ningun engaňo. Uno de los grandes relatos de Kauyumari es por eso su lucha contra una planta engaňosa, otra planta narcotica llamada “arbol del viento” o Kieri Tewiyari.

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Durante esta lucha se evidencia que la formacion del mara'akame es muy minuciosa: se prolonga por cinco aňos y exige seis peregrinaciones por el desierto. En esta lucha Kauyumari actua como un mara'akame y en su critica contra Kieri Tewiyari describe los ritos, danzas, la ingestion de la planta narcotica y sus efectos nocivos: “los toma, los agarra, los muerde, los hace perder el dominio de ellos mismos. Anda cantando, gritando... anda tocando el tambor, anda engaňandolos. Asi es el” . Kauyumari lo vence disparandole con el arco cinco flechas, no seis, para recalcar que se le elimina de los puntos cardinales y del cielo, pero no de la tierra, por lo cual se relaciona particularmente con los reptiles. Cada vez que una flecha lo hiere, el “arbol del viento” vomita cosas venenosas que intoxican a Kauyumari, que empieza “a ahogarse, a toser”. Pero el, como verdadero mara'akame, se aplica peyote molido en las manos, la boca, la cara, y deja de ahogarse, porque el peyote es mas poderoso que el “arbol del viento”. Kauyumari, pues, lo vence, y su contrincante: viajo a un risco para crecer alli, para ser transformado en arbol, porque Nuestro Abuelo y Nuestro Padre no lo admitiran en ninguna parte. “Eres malo! Por eso te quedas aqui en este mundo!”. Llego al risco y alli cayo su alma, cayo como una piedra. Alli se transformo en arbol que empezo a crecer, a crecer para arriba, hasta llegar al quinto nivel; un arbol con cinco ramas. Entonces el viento sintio compasion; le soplo por aca y por alla, en los cinco lados. Le dijo: “alla, en esos campos, alla esta verde, alla puedes crecer”. El relato seňala, significativamente, que los brujos del “arbol del viento” son personas que no completaron su formacion como sacerdote huichol o mara'akame: Y por eso algunos que no alcanzaron la ultima etapa, que no cumplieron sus promesas, se convierten en mentirosos, en engaňadores... Entonces se hacen brujos... Para el mara'akame que es un verdadero huichol, no hay mas que el Hikuri, el peyote. El mara'akame no tiene nada que ver con Kieri. El peyote es el corazon, el corazon del venado, el corazon del maiz. Es ambos, es el venado y es el maiz. Es nuestra vida. Tiene mas poder. El hermano mayor Kauyumari mato a Kieri Tewiyari, aquella persona “arbol del viento”. Lucho contra el con el peyote. No pudo resistir. Solo el mara'akame puede deshacer a uno que ha sido atrapado por Kieri. Solo el mara'akame sabee Asi es, como yo te lo he dicho.

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Posiblemente se designa como Kieri a la datura mateioides, un allucinogeno popularmente llamado en Mexico toloache, considerado sagrado entre los zuňis y los hopis del suroeste de Estados Unidos y que emplean en sus diseňos, confundidos estos a menudo con la estilizacion de la flor de calabaza. En 1994, en una entrevista, Pablo Ortiz Monasterio refirio que fue a Wirikuta durante varios aňos. En cierta ocasion, pregunto a un huichol porque habian escogido como emplazamiento sagrado de su peregrinaje ese sitio rodeado de montaňas en San Luis Potosi. El huichol contesto: “Nosotros no lo escogimos, el nos escogio.” En efecto, los huicholes son un pueblo elegido. PEYOTE, CERVO E MAIS15 L'indio messicano possiede questa conoscenza millenaria: il pianeta non è qualcosa di inerte, inanimato, bensì un essere vivente. Questa vitalità si manifesta come una potente integrazione tra forze che, dall'invisibile, sorreggono ciò che è visibile. Nel pensiero religioso occidentale il paradiso, il purgatorio, il limbo e l'inferno sono “ambiti” sacri, disgiunti da quello che vediamo. Tra le popolazioni indigene messicane, diversamente, le entità sacre invisibili sono strettamente connesse con la vitalità del mondo. Queste forze convivono con l'essere umano, con le popolazioni. L'indio messicano è capace di vedere, di distinguere nello spazio visibile, l’invisibile cuore latente che dà respiro al mondo.

15 La traduzione presenta precisazioni e spaziature assenti nell’originale versione messicana, al fine di garantire un continuum logico con lo stile finora adottato e facilitare la ricerca argomentativa del lettore. A questo scopo sono stati anche tradotti i nomi di luoghi e divinità, facendo fede al volume di RAÚL ACEVES, TEITERI WAYEIYARI: glosario de cultura huichola, Secretaría de cultura de Jalisco, Guadalajara, 2005

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Tra queste entità, ci sono forze potenti che sembrano avere la risposta per tutto ciò che anela nel cuore umano. Sono forze che stanno oltre la pioggia, oltre i fiumi o il mare, più in là delle grotte, delle montagne o della selva; entità individuate come la manifestazione di un dio da cui provengono popolazioni intere e da cui nasce la coscienza che i popoli hanno di loro stessi. A volte le forze identificate in questo modo, vengono riconosciute fedelmente in un unica regione; altre volte si estendono per la continuità culturale di tutto il centro America; altre ancora si addentrano nei territori del Nord messicano, in differenti culture indigene. Il serpente è un profondo simbolo e una potente forza in certe regioni centroamericane. In altre parti lo è il cervo. Praticamente ovunque lo è il mais: divinità che mantiene la vita. Nella religiosità messicana, inoltre, si trova anche una devota relazione con alcune piante narcotiche. Queste piante pensano, parlano, insegnano, comunicano tra loro. Hanno “un’ anima”, non possono stare al servizio del capriccio o di avventure psichiche degli uomini. Sono infatti guide e sacri portali che si venerano e adempiono al compito di curare, aiutare la crescita spirituale di cui le popolazioni indigene hanno bisogno per operare nella conservazione della vita, nella conservazione del mondo. Il tabacco è una di queste. Per alcuni maya fumare tabacco aiuta l'uomo saggio a ricordare, aiuta i pensieri più profondi a venire alla luce, per questo viene fumato durante le cerimonie curative. Altri maya lo triturano, lo mescolano con altre sostanze e lo masticano: sanno che in questo modo si stabilirà un contatto permanente con il mondo invisibile e che li aiuterà nelle lunghe

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camminate attraverso la selva e le montagne, in luoghi desolati o pericolosi. Tra i miztechi di Oaxaca, i funghi allucinogeni rappresentano la divinità potente ed ineffabile; da colui che si avvicina ad essi come sacerdote, curatore, paziente o apprendista, si esige una profonda purezza. È richiesto un lungo percorso spirituale per conoscerli a fondo. Un'altra pianta sacra è la marijuana. Molteplici sono i suoi significati ed impieghi. Tra i tepehuas di Veracruz, viene chiamata Santa Rosa ed è considerata la madre del mais. Nonostante che ne fu la madre, abbandona il bimbo-mais, che diventerà il signore delle forze pioggia e del tuono, si trasformerà in proprietario dei serpenti della terra e della pioggia, oltre che protettore della sua stessa madre. Tra questi indigeni il bimbo-mais ha per padre una forza che si trasforma in cervo. Anche il peyote è sacro. La sua devozione si estende fuori dalle orbite millenarie centroamericane, nel nord e nell’occidente del Messico, in particolare tra due popolazioni imparentate: i tarahumara e gli huicholes. I tarahumara lo considerano fratello di dio e raccontano che quando si rafforzò l’ anima dell’ultimo uomo creato, questi camminò fino a Umarique, luogo in cui sorge il sole e si incontra con il peyote o Hikuri, che abitava lì. “Per l'anima forte del tarahumara”, dicono. Questo rafforzamento è fondamentale nella formazione del sacerdote indigeno, perché un tarahumara arrivi a diventare sipame o un huichol si trasformi in mara’ákame. Ci troviamo di fronte ad un'esperienza intestina, incomprensibile ad altre mentalità religiose.

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Tutte le religioni presuppongono cammini spirituali per la nascita della vocazione sacerdotale. Se spogliassimo dei suoi valori culturali il fragile agostiniano o francescano, il gesuita o il metodista, il monaco buddista o il rabbino, i loro digiuni, confessioni, sogni, martiri, vocazioni, certezza di essere stati chiamati dal destino ed altro, null’altro sarebbero che ingenuità, superstizione o delirio. Parallelamente, se squalificassimo l'universo culturale, profondo e complesso dei grandi sacerdoti tarahumara o huichol, ecco che la loro sapienza interiore diverrebbe soltanto sogno od inganno. Al profondo universo sacro degli huicholes si riferisce la sorprendente e magnifica collezione fotografica di Pablo Oertiz Monasterio, “Corazon de Venado”, una serie di fotografie che non mostra la vita quotidiana degli indigeni, ma la loro principale cerimonia rituale. Corazon de Venado è un simbolo che intreccia le mille sfaccettature di una sola divinità, come distinti volti di una medesima forza spirituale e vivificante, il cervo, il peyote ed il mais. Un cervo celestiale, Kauyuma’li, feconda con il suo sangue la terra da cui nascerà il mais o hikú; dal suo proprio sangue, il cervo celestiale rinasce, resuscita, dando la vita. Il cuore dal quale sgorga il suo sangue, il cuore che sostiene ed alimenta la vita (e che per questo sostiene ed alimenta la vita degli huicholes) è Hikuri, il peyote. Per questa ragione si misura la vita di ogni uomo e di ogni sacerdote. Le popolazioni huicholes intraprendono la caccia del cervo, o Marra, per offrirlo alla Madre Terra feconda, Tatei Yurianaca, dove il cuore rinascerà come Hikuri e come vivificante mais. Per questo cacciano il cervo ed il peyote: per aiutare il mondo.

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Da entrambi i cuori del cervo celeste rinascerà ogni anno l'uomo, la donna ed il bambino huichol. Le recenti fotografie di Pablo Ortis Monasterio registrano, sorprendenti e vitali, un pellegrinaggio sacro: il viaggio dalle montagne di Jalisco e Nayarit, dove vivono le comunità huicholes fino alla Sierra di Real de Catorce, a San Luis de Potosì. In questo pellegrinaggio nel deserto, nella terra di Wirikuta, i sacerdoti huicholes raccolgono dal suolo, con devozione, i cuori sacri del peyote. Questa raccolta è un altro tipo di “caccia del cervo”. Per questo alla festa del Pellegrinaggio, Palia’tsia (letteralmente “luogo dove cresce il peyote”)16 yeya la chiamano anche Iweiyari, “la caccia” all’ Hikuri e quella al Marra, il cervo sacrificale. Questa unione sacra rappresenta anche un aspetto magico del mais o Hiku: da un lato è il cervo, dall'altro il suo sacro cuore: Hikuri. Il cervo azzurro ha un nome: Kauyuma’li. La memoria degli huicholes conserva molti dei suoi racconti e dei suoi canti. In essi Kauyuma’li appare come un vero sacerdote huicholes, un mara’ákame. I racconti di Kauyuma’li sono lo specchio del cuore huichol, lo specchio del suo sviluppo spirituale. L'anima del peyote serve a conoscere la verità, a far convertire il sacerdote perché non inganni e non venga ingannato. Uno dei grandi racconti di Kauyuma’li descrive la sua battaglia contro una pianta ingannatrice, un'altra pianta narcotica chiamata “albero del vento” o Kieli Tewiali.

16 Nota aggiuntiva dell’autore, non presente nel testo originale.

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Durante questa lotta si rende evidente il fatto che la formazione del mara’ákame è molto minuziosa: si prolunga per cinque anni ed esige sei peregrinazioni nel deserto. In questa lotta Kauyuma’li agisce come un mara’ákame e nella sua critica contro Kieli Tewiali descrive i riti, le danze, la ingestione della pianta narcotica ed i suoi effetti nocivi: “li prende, li acchiappa, li morde, gli fa perdere il dominio di loro stessi. Canta, grida..... suona il tamburo, li inganna. Così è lui” Kauyuma’li lo vince tirandogli cinque frecce con l'arco. Non sei, per ricalcare il fatto che lo si elimina attraverso i quattro punti cardinali più il cielo, mentre non con la parte riferita alla terra, che viene messa in relazione con i rettili. Ogni volta che una freccia lo ferisce l’albero del vento vomita delle sostanze velenose che intossicano Kauyuma’li, il quale comincia a tossire, ad affogarsi. Ma lui, come un vero mara’ákame, si mette il peyote sulle mani, sulla labbra, sulla faccia e smette di affogare in quanto il peyote è più potente dell’ “albero del vento”. Kauyuma’li infine vinse, ed il suo concorrente viaggiò fino ad una rupe per crescere lì, per essere trasformato in Albero. Perché nostro Nonno e nostro Padre mai gli permetteranno di stare in nessun altro posto: “sei cattivo, perciò resterai in questo mondo”. Arrivò alla rupe e lì cadde la sua anima, cadde come una pietra. Si trasformò in Albero e cominciò a crescere, sempre più alto, fino ad arrivare al quinto livello: un albero con cinque rami. Allora il Vento ebbe compassione; gli soffiò da una parte all'altra, dai cinque lati, gli disse: “là, in quei campi c'è del verde, potrai crescere là”. Il racconto segnala significativamente che gli stregoni dell’albero del vento sono persone che non completarono la loro formazione come sacerdoti huicholes o mara’ákame: “è per questo che coloro che non arrivano all'ultimo stadio, che non

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compiono le loro promesse, si convertono in bugiardi, in ingannatori....” (assumono il popolare nome di Maxatusa: “venado blanco”, cervo bianco)17 Allora diventano stregoni.... Per il mara’ákame, vero uomo huichol, non c'è altro che Hikuri, il peyote. Il mara’ákame non ha niente a che vedere con Kieli. Il peyote è il cuore, il cuore del cervo, il cuore del mais. In entrambi è il cervo ed il mais. È la nostra vita. Ha più potere. Il fratello maggiore Kauyuma’li uccise Kieli Tewiali, la persona albero del vento. Lottò contro di lui con il peyote. Non gli poté resistere. Solamente il mara’ákame sa: così è, come te lo dico. Probabilmente Kieli è la Danna Mateioides, un allucinogeno che in Messico viene popolarmente chiamato toloache. Considerato sacro tra gli Zuňis e gli Hopis del sudest degli Stati Uniti e che lo usano nei loro disegni e che spesso viene confuso con la stilizzazione del fiore di zucca. Nel 1994, in una intervista, Pablo Ortiz Monasteiro riferì che andò a Wirikuta per molti anni. In una particolare occasione, chiese ad uno huichol come mai avessero scelto proprio questo posto, come sacra meta del loro pellegrinaggio, così circondato da montagne, a San Luis de Potosì. Lo huichol rispose “noi non lo abbiamo scelto. Fu lui a sceglierci”. In effetti, gli huicholes sono un popolo eletto.

17Nota aggiuntiva dell’autore, non presente nel testo originale.

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Capitolo 4: Híkuri Neirra 4.1 A POCHE ORE DALLA CELEBRAZIONE “Allora, questa sera andiamo alla festa?” è stato il buongiorno di Felipe, la mattina del dodici giugno. Finalmente una buona notizia, perché il lusso di una data certa, tra gli huicholes, davvero non è cosa da poco. Dopo giorni passati ad elemosinare notizie al riguardo, collezionando un vasto campionario di risposte approssimative, in coscienza, l’idea di salire su uno dei tre aerei, che ogni settimana atterrano sulla sgangherata pista in erba di Tatei Kie, si stava facendo sempre più concreta. “Parli della festa del peyote?” ho domandato a Felipe, quasi incredulo. “Sì, sì, dell’Híkuri Neirra, stasera ci andremo”. Assopita l’inquietudine del vacuo, anche l’incontro fatto il pomeriggio precedente con Francisco Salvador, il governatore della comunità, nella piazza di San Andres, assume, ora, connotati nitidi e rincuoranti. Le persone che, con lui, riposavano al sole, il tejuino che, per la seconda volta nella mia vita, mi era stato offerto e quel viavai di legna verso il templo, sono tutti dettagli che, scansato il ruolo sfocato della comparsa, orientano sulla loro figura le luci della mia attenzione. Dopo giorni di inconcludenza, l’attesa, anche di un minuto, si impone sul gozzo come un boccone ingerito con troppa fretta: la curiosità è più vorace dello stomaco e io non vedo l’ora di passare a casa di Pancho per avere il permesso di scattare fotografie… la colazione, in fondo, posso finirla più tardi.

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Dall’interno del calihuey, Francisco mi inviata ad entrare. Riconosco gli stessi volti del mio antefatto: le donne stanno pulendo il cortile dalle foglie cadute, gli uomini scherzano tra loro bevendo birra, qualcuno sonnecchia. Tutti sono di ritorno dalla terra di Wirikuta, dove hanno cacciato il cervo-peyote, ascoltato e parlato con i kakauyari. Reduce della madornale svista di qualche ora prima, resto in silenzio, cercando di cogliere quanti più particolari riesca, anche, e soprattutto, quelli che, di primo avviso, appaiono marginali alla mia ricerca. “Stasera” esordisce Francisco, battendomi la mano sulla coscia “stasera…”. 4.2 L’INTERNO DEL CALIHUEY Organizzando uno spazio si ripete l’opera esemplare degli dei18 Il calihuey, o tuki, è il principale centro cerimoniale huichol. È un’enorme capanna circolare, in pietra, dal diametro e dall’altezza di circa otto metri, il cui tetto è sorretto da due colonne di pino, al culmine delle quali trentasei travi si aprono a raggiera, a sostegno della paglia di copertura. Varcato l’uscio, la prima cosa che appare è il cerchio di pietre in terra, all’interno del quale Tatewari prenderà vigore, con accanto offerte rituali, principalmente jicaras e candele. Dietro di esso l’uwene, ovvero la sedia rituale in cui si adagerà il mara’ákame per ufficiare la celebrazione, è già posto tra le due colonne, al centro del tuki; sull’altro lato del calihuey; di fronte alla pedana dei “cantadores”, il mayordomo ha adagiato la bivalente

18 MIRCEA ELIADE, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 1984/3, pag. 14

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effigie di Tatata e appeso il suo kutsu’li, la borsa tipica del costume huichol. In ultimo, sopra le panche, poste soltanto alla destra del templo, da uno strano bastone, appoggiato al muro, fiorisce la cornea figura del cervo. Abbiamo già parlato di come la cosmogonia sacra huichol imploda verso il punto centrale: l’origine, la nascita:

Reintegrare il Tempo sacro originario, significa diventare “contemporanei degli dèi”, quindi vivere alla loro presenza, anche se misteriosa, nel senso che non sempre è visibile. L’intenzionalità contenuta nell’esperienza dello Spazio e del Tempo sacro rivela il desidero di reintegrare una situazione primordiale: quella appunto nella quale gli dèi e gli Avi mitici erano “presenti”, stavano per creare il mondo o per organizzarlo, o per rivelare agli uomini le basi della civiltà. Questa “situazione primordiale” non è storica, non essendo calcolabile cronologicamente; si tratta di un’anteriorità mitica del Tempo “originario”, di ciò che è accaduto in principio. Orbene, in principio accadeva proprio che gli Esseri divini o semidivini svolgessero le loro attività sulla terra. La nostalgia delle “origini” è quindi nostalgia religiosa. L’uomo desidera ritrovare la presenza attiva degli dèi, desidera vivere nel mondo fresco, puro e “forte” che era uscito dalle mani del Creatore.19

È proprio questa retrograda marcia del tempo a generare energia, forza vitale; qui la nascita si contrappone alla morte, l’ala epocale batte a ritroso.

19 MIRCEA ELIADE, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 1984/3, pagg. 60-61

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Non è un caso che solo alla mia destra siano state poste delle panche: all’interno del calihuey si cammina in senso antiorario, contro il tempo. Alla destra dell’unico varco si entra e ci si accomoda, alla sinistra di esso si esce. “Che cos’è quel bastone?” domando a Francisco, ormai vinto dal fascino indiscutibile del luogo. “Quello è il cervo” sorride “se manca il cervo qui non possiamo fare niente”. Quella sagoma è infatti il riassunto del pellegrinaggio nella terra sacra: dopo che i “cantadores” avranno parlato con gli avi kakauyari, un cervo apparirà ai pellegrini, pronto per essere ucciso. Quella che gli huicholes chiamano “caccia al cervo” è in verità il sacrificio, volontario, del medesimo. Il particolare del calihuey che più mi affascina coincide però, come spesso succede, con il più imponente: le due colonne portanti figurano ai miei occhi come qull’axis mundi cristiana che ci innalza alla beatitudine o ci condanna alla sofferenza. Sono curioso di sapere se la mia prima impressione abbia anche un minimo fondamento, con la speranza di essere contraddetto: è vero che l’asse cosmico, chiamiamolo così, è un concetto comune a molte religioni, più o meno antiche, ma non mi è parso che l’ultraterreno huichol sia organizzato per categorie spaziali marcate e finite. “Questo è il palo della pioggia” mi spiega Francisco, toccando la trave a sinistra del tepari “dedicato alla dea Kiewimuka. Quello a fianco è il palo di Nariwame”.

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Kiewimuka è la dea portatrice di pioggia, descritta come un serpente bianco che vive tra le nubi. Scende nel periodo autunnale tra i villaggi, nascosta nella fitta nebbia del mattino. Nariwame ha un ruolo analogo: è chiamata “nuestra madre mensajera de la lluvia”, nostra madre messaggera della pioggia. Rappresentata come un serpente dalla testa color azzurro, vive a Têaka’ta, il luogo dove per la prima volta il fuoco, non ancora ammansito, si mostrò ai kakauyari20. Nel cortile esterno qualcuno ha già posto le cinque sedie sulle quali si adageranno gli anziani; alla mia destra, il palo sacrificale attende la sua vittima. 4.3 HÍKURI NEIRRA Comincia a far buio quando io e Felipe decidiamo di incamminarci verso il templo sacro. Al contrario di ciò che pensavo, non tutti partecipano alla celebrazione. “Non è obbligatorio” mi spiega Felipe, che, ora per la prima volta, vedo calzare il costume tipico huichol 21 “solo chi è tornato

20 L’avvenimento è narrato nel paragrafo 2.1: “Il mito della creazione: il dono dei muvieri e la nascita di Tatewari”. 21 Il costume maschile huichol, bianco e ricamato con riferimenti mitici, comprende: Rupurero: sombrero Kamirra: casacca larga, aperta sotto le ascelle Xuaya’me: fascia di lana, spessa e colorata, stretta alla vita Huerruri: pantaloni lunghi, ricamati nella parte inferiore Al contrario delle donne, gli uomini del popolo huichol raramente indossano il costume tradizionale. Quello femminile è così composto: Ricuri: drappo per coprire la testa

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da Real de Catorce deve andarci, perché questa è la fine del suo viaggio, gli altri avranno tutto il tempo: l’Híkuri Neirra durerà due, forse tre giorni”. La celebrazione si apre ufficialmente con il sacrificio di un toro, la cui carne, in brodo, verrà servita a tutti i partecipanti. All’interno del calihuey, l’avo Tatewari ha preso vigore: è difficile persino tenere gli occhi aperti, tanto il fumo, denso, avvolge ogni cosa ed ogni persona. Fuori alcuni pellegrini stanno accendendo altri tre fuochi, Felipe chissà dove è finito. Mentre mi aggiro tra i partecipanti, è Jesus a notarmi per primo. Mi offre una barretta di mais, che chiama tamal, ancora avvolta nella guaina, spiegandomi che è un omaggio alle persone che prendono parte al rituale. “È il cielo che ti manda!” esordisco io, ironizzando sul suo nome. “No, no… abito qui vicino” mi risponde ridacchiando. Conosco la disponibilità di Jesus: al contrario di molti altri, che, di buon grado, accettano persone esterne alla loro cultura, ma sono reticenti a parlarne; lui, come Rosalio, Felipe e Francisco, credo abbia a cuore che chi si avvicina al loro mondo, porti in patria non soltanto collanine e bracciali. Kutuni: camicia corta, alla cintura, ricamata con motivi geometrici colorati (per lo più strisce orizzontali) Kukama: collare di perline colorate Iwi: gonna lunga, alle caviglie, ricamata nella parte inferiore Entrambi i sessi calzano Huaraches: sandali di cuoio intrecciato, con la suola ricavata dal copertone di automobili.

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Comincia a spiegarmi che chi ha acceso i tre fuochi all’esterno del calihuey sono i pellegrini delle comunità limitrofe: quelle di San Josè, di Las Guayabas e di Cohamiata. Mentre stiamo parlando, un piccolo gruppo di persone esce dal templo: un mara’ákame e tre pellegrini, che immagino siano i rappresentanti delle comunità, cominciano a girare, in senso antiorario e per cinque volte, attorno ad ognuno dei falò ardenti. Per tre volte, due di loro, lo imprigionano nella morsa dei due piccoli bastoni che tengono in mano, mentre il mara’ákame agita il suo muvieri sopra di essi. Poi, infilando i bastoni alla base, sollevano il rogo, mentre il terzo pellegrino ci infila sotto un pezzetto di legno, chiamato molìtari, il cuscino del fuoco. “Ricordano a Tatewari il tempo in cui si chiamava Tatutsi e non era ancora addomesticato”22. Capisco perché la festa del peyote è la più importante fra le attività rituali: a guardarla con attenzione credo si possa ricostruire tutta la storia mitica di questo popolo. Quello che non mi è chiaro è il fatto che, almeno finora, l’avo Tatewari appaia come la figura principale della celebrazione: nulla togliendo alla sua indiscutibile ed ovvia importanza, credevo però che questo onore fosse riservato al cervo-peyote. “È la stessa cosa” mi spiega Jesus “l’Híkuri Neirra è fondato sulla caccia al cervo: il primo fuoco che vedi rappresenta la sua figura retta, in piedi, come quando lo incontri, ma è ancora distante. 22 L’avvenimento è narrato nel paragrafo 2.1: “Il mito della creazione: il dono dei muvieri e la nascita di Tatewari”.

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Il secondo lo rappresenta mentre corre, il terzo sdraiato, come dopo che si è sacrificato”. I bastoni che stringono in mano i pellegrini vengono bagnati dal sangue del cervo, trattenuto in una jicara posta tra le offerte, a fianco della sedia del mara’ákame. Anche all’alba dei tempi, penso fra me, fu il sacrificio di un cervo a nutrire il fuoco… ha dell’incredibile l’immediatezza della rappresentazione a cui sto assistendo. “… e quello?” domando io, a proposito del quarto fuoco, che brilla distaccato dagli altri. “Là stanno mangiando la carne del cervo cacciato, se vuoi ci andiamo”. Ecco di nuovo farsi abissale la differenza tra la mia cultura e quella huichol: mentre lui mangia di gusto quella carne scondita ed immersa nell’acqua, io mando giù un boccone dopo l’altro quasi senza masticare. “È molto buona” dico, mentendo in modo logico, ma spudorato. “Sì, sì…” annuisce Jesus “quando Tau si mostrò per la prima volta ai kakauyari, ordinò loro di cacciare il cervo e di mangiarlo scondito, immerso nell’acqua sacra che scorre nella terra di Wirikuta, perché è così che piace a Tatewari”. Tornati nel calihuey, l’aria è densa, fumosa ed ebbra: tre donne scherzano bevendo tejuino e, proprio a fianco dell’entrata un uomo mostra, divertito, una gallina ai compagni. Anche Jesus ridacchia. “Ora la vanno ad uccidere” mi dice.

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Francamente faccio fatica ad inquadrare il lato comico della cosa. È, ai miei occhi, un sacrificio: non so quale divinità pretenda il sangue di una gallina, ma non mi sembra che, concettualmente, cambi poi molto. “La sacrificano a Tatewari”. Dopo la spiegazione sorrido anch’io: forse non sarà divertente, ma, in compenso, è molto, molto tenero. Immerso in quell’atmosfera sacrale, mi ero quasi scordato dell’ironia che accompagna gli huichol in ogni singolo passo della vita; “el abuelo fuego”, il nonno fuoco, ha ormai i suoi anni: per questo si burlano, affettuosamente beninteso, di lui. Come fosse davvero un parente stretto ed anziano, lo prendono in giro sul fatto che, ormai, non riesca più a distinguere una gallina da un cervo. Il resto della notte è dedicato alla danza dei pellegrini: uso la parola danza nell’accezione più eufemistica possibile del termine. Non ho nessun problema a definire “danza” un girotondo di bambini, ma quello che vedo è piuttosto una processione, attorno alle vampe dei tre centri cerimoniali, sempre in senso antiorario, guidata da un suonatore di violino, strumento caro al popolo wirrarika. È come se si volesse ribadire l’unione, l’amicizia che li ha legati nei giorni del pellegrinaggio. La cantilena che accompagna il ritmo straniero dello strumento appare, a me, incomprensibile e ripetitiva: una nenia altalenante, della quale non saprei dire se allegra o triste. “È la canzone del peyote ” mi spiega Jesus, compiaciuto: “è la nostra storia…”

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Primera canción del peyote 23 Salió el mar, del mar, pasó y detrás del mar vinieron todos los dioses. Los dioses pasaron como flores, en figura de flores vinieron detrás del mar, y llegaron a la placenta, al lugar de la placenta de la que habían nacido. De la placenta salió la nube y de la nube salió el ririki y del ririki nació el venado que se convertió en maiz, que se convertió en nube y llovió sobre la milpa. El mar les habló a los dioses de los cinco rumbos cardinales y del mar se vino el Venado Azul, con mari, el joven venado y otros muchos venado pequeňos. Entonces se vio la flecha y la cabeza del Venado puestas las dos en el itari. Los dioses entendieron el mesaje de la flecha que se volvió nube, el mesaje de la cabeza que se volvió lluvia, 23 ANTONIO BAUTISTA CARRILLO, comunità de Las Guayabas, da FERNANDO BENITEZ, Los indios de Mexico, ERA, Mexico D.F. 2000, 2006/6, pag.135

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y fueron al coamil y en el coamil dejaron su ofrenda. “¿Qué ocurre en el coamil, qué ocurre en el seno de Nuestra Madre Tatei Urianaka? ” -se dijeron los dioses. “Es necesario saber lo que allí ocurre.” Escondidos en el monte, asistieron al divino parto y vieron nacer del itari las caňas, los jilotes tiernos, las calabazas redondas, la flor amarilla del tuki que los dioses cortaron y frotándola entre las palmas de sus grande manos, con el polvo del tuki se pintaron tres rayas en la cara. Dijeron los dioses: “Wiwátzirra fue la cuna del Venado y será su mortaja porque allí lo tenderán cuando lo maten en la sierra.” Al hablar así, salió del mar azul el Venado Azul Marrayueve, parándose derecho en el itari y en el norte y en el sur, en el oriente y el poniente aparecieron Venados Azules. Ho deciso di limitarmi alla traduzione di questi testi, evitando la parafrasi, fornendo soltanto, alla fine di ogni lirica, la

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descrizione dei concetti non ancora affrontati: sconosciuti, quindi, al lettore. Questo perché le traduzioni, in spagnolo di Fernando Benitez e in italiano da parte mia, già snaturano la forza evocativa del canto rituale, sottraendolo, in modo barbaro, alle cadenze ritmiche della sua lingua d’origine e al suo contesto attivo e musicale; lasciare quel che resta, ovvero un testo scritto, alla mercé di chi legge, credo sia, non soltanto una decisione onesta, ma anche, e soprattutto, un sacrosanto ossequio alla visione lirica. La prima canzone del peyote Venne il mare, dal mare lo si vide, ed al di là del mare lo seguirono gli dei. Vennero gli dei come dei fiori, come dei fiori vennero da oltre il mare, il mare fu, per loro, placenta, la placenta dalla quale nacquero. Dalla placenta s’alzò una nube, e dalla nube venne il ririki e dal ririki nacque il cervo che divenne mais, che divenne nube perché piovesse sui campi. Il mare parlò agli dei dei cinque punti cardinali, e dal mare venne il Cervo Azzurro assieme a Mari, giovane cervo e tanti altri cervi, più piccoli. Venne allora la freccia

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e la testa del cervo, tutt’e due poste nell’itari. Gli dei compresero il messaggio della freccia che divenne nube, e quello della testa che divenne pioggia, e andarono al campo, ed al campo lasciarono le loro offerte. “Cosa accade? Che succede al seno di nostra madre, Tatei Yurianaka?” - si domandarono gli dei. “È necessario saperlo, dobbiamo scoprirlo.” Nascosti dietro il monte, assistettero al divino parto e videro, dall’itari, nascere la canna e la tenera spiga, la rotondità della zucca, e i fiori gialli del calihuey che gli dei tagliarono, e sfregandoli tra i palmi delle loro grandi mani, con la polvere del calihuey si dipinsero tre linee sul volto. Dissero allora: “Wiwatzirra, che fu culla del Cervo, sarà per lui letto di morte, perché lì lo poseremo quando verrà ucciso nella sierra”. Detto ciò, venne dal mare Il Cervo Azzurro Maxayuave, fiero e retto nell’itari,

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ed al nord, al sud, ad est e ad ovest apparvero quattro Cervi Azzurri. Itari, la “cama del dios”, il letto del dio: è una piccola sacca consacrata agli avi kakauyari, costruita legando fra loro, con del filo di lana colorato, pezze di cotone dalla forma circolare, quadrata o rettangolare. Viene posata su della fibra di corteccia, in modo che gli avi non riposino sulla nuda terra, ma in un caldo, accogliente e pulito giaciglio. Succede che, dopo essersi prestata a questo scopo, la sacca itari venga usata per avvolgere le offerte votive. Quello che gli huicholes chiamano wiwatzirra è, invece, un vero e proprio, rudimentale, letto di morte: una stoia d’erba in cui viene disteso il cervo abbattuto, attorno al quale si pongono quattro candele24 e mais. Maxayuave è il nome usato per indicare il cervo, il cui sacrificio consacra il rituale. Segunda canción del peyote Vuelan las flores, giran las flores, ma vuelta le dan a Cerro Quemado y del corazón de nostro Abuelo nacen el Venado y el itari. Los dioses están hablando, sí, los dioses nos hablan y nadie es capaz de intenderlos. 24 Mentre le candele utilizzate per scopi primari, come l’illuminazione, sono di cera bianca, quelle rituali sono gialle. Legate al mito della nascita del sole, rappresentano il dono che Tau fece all’uomo perché potesse “vedere oltre la luce”.

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Mas he aquí que se ve la flecha clavada en el centro del itari y la flecha entiende el lenguaje de los dioses. Ahora se ve junto a la flecha la celebra azul, Jaikayuave, la intérprete de los dioses, la que sabe el lenguaje de la flecha. Nace la lluvia del itari se desata la lluvia, y se oye el mensaje de los dioses: “Hermanos, ha llegato el tempo de hacer la flecha de la lluvia.” La cuerda wikurra aparece en la boca de la flecha y de nuevo se alzan las nubes y se forman los dioses de los cuatro rumbos cardinales. Se hablan entre sí, se entienden, están de acuerdo Virikota, Aurramanaka, Tatei Nakawé, Tatei Urianaka, San Andrés. Todos se alzan en el aire, vuelan en torno de Leunar y al descender a la tierra ven la flecha que seňala el lugar donde nació el Venado. Allí está el itari sagrado, y acostando en el itari, descansa Nuestro Hermano Tamatz Kallaumari.

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La seconda canzone del peyote Volano i fiori, girano i fiori sul Cerro Quemado e, dal cuore di nostro Nonno nascono il Cervo e l’itari. Gli dei stanno parlando, sì, gli dei ci parlano ma nessuno riesce a sentirli. Però è qui che sta la freccia, piantata nel centro dell’itari, e la freccia conosce il linguaggio degli dei. Adesso c’è, assieme alla freccia, il serpente azzurro, Jaicu yuave, interprete degli dei, che conosce il linguaggio della freccia. Viene la pioggia dall’itari, cade la pioggia, e si sente ciò che dicono gli dei: “Fratelli, è giunto il tempo di preparare la freccia della pioggia”. La corda Wikuyau appare In bocca alla freccia, e, di nuovo, s’alzano le nubi, e si vedono gli dei dei quattro punti cardinali. Fra loro discutono, sono d’accordoWirikuta, Hauxamanaka, Tacutsi Nakawé, Tate’Yulianaka, San Andrés.25 25 È interessante notare come Antonio Bautista Carrillo elenchi i punti cardinali riservando a quelli più strettamente legati alla pioggia, quindi al raccolto del mais, marcatura divina, anziché geografica.

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Tutti si alzano nell’aria, volano sopra Reunar, e, quando tornano a toccare la terra, vedono la freccia che indica il luogo in cui nacque il Cervo. Lì si trova il sacro Itari e, disteso su di esso, riposa Nostro Fratello Tamatsi Kauyuma’li. Jaicu yuave, il serpente azzurro, è l’astratto sentiero che percorre Tamatsi Kauyuma’li, per giungere ai “cantadores”, tra le rocce di Reunar. La corda wikuyau rappresenta, in concreto, il legame simbolico tra i pellegrini: con essa si legano l’uno con l’altro, durante il cammino nella terra sacra di Wirikuta. Non mancherò di tornare sull’argomento nelle prossime pagine, a chiusura di questo capitolo. Tercera canción del peyote Itari, ahí estás, junto al Fuego y ahí nació el Venado Azul que se convertió en flor. ¿O acaso también el itari es un flor ? Habla la flor. ¿Por qué habla? No, es el itari el que habla. ¿O es el corazón de Nivétzika el que habla por el itari ? por la flor habla Nivétzika:

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“Los pintaré de amarillo.” “¿Por qué los pintas con usha ?” Porque así lo ordena el itari y así lo ordena Tatevarí. “Ah, -dice el Abuelo Fuego-, ya que los dioses no saben comer yo comeré por ellos.” Oímos, oímos bien la voz de Tai, las voces de los kakaullaris: “Ha llegado el tiempo de hablar con el mar.” “¿Acaso no pueden entendernos?” Sí, yo puedo entenderlos. “En Virikota hay una flor que habla y ustedes la entienden.” Sí, yo puedo entenderla y entiendo a Leunar, a Aurramanaka y a Rapavilleme. Los entiendo, se les oye claro: “Aquí se quedó el itari, aquí se quedará con los dioses para siempre.” (El cantador congrega a los dioses en el itari y aňade:) -Vel coamil. Se abrió todo. Todo se vio. Se llenó de caňas y mazorcas y entre las caňas brotaron las orejas de nuestro hermano el Venado Azul. Luego brincó el Venado Azul y se quedó parado sobre la Madre Tierra, Tatei Urianaka. “¿Por qué se quedó ahí parado?” El Venado es el itari que se está renovando.

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Para todos los dioses es el itari y ellos serán los encargados de llevarlo a los Cuatro Rumbos. Sentado se quedó el itari junto al fuego. Del itari brotó una rama y de la rama nacieron las flechas, nació la jícara nació Ruturi, la Flor del Dios, y todo se cambió en una nube. Allí nacieron los cinco iteuri, los cinco árboles elegidos. (El maracame seňala entonces el lugar donde se pueden cortar los árboles:) Y del árbol nacieron los calihueyes. Kievimuka, Aramara, Parítzika, Rapavilleme, elegieron sus árboles. “Los hemano elegido. Ahora deben salir de caza y levantar su calihuey. Junto al fuego quedará el itari para siempre. Allí se va el jaguar. Allí se va. En el Tepari se alza la figura del Venado que los diose vieron correr por una Tierra Blanca.” “Oh, dioses –dice Kauimalli-, su magia siempre me ha parecido estraňa: el Venado estaba en el Tipari y ustedes lo ven correr por una Tierra Blanca. Tienen el poder de hacierlo todo. Conozco sus velas, y yo, Kauimalli, se las entrego. Les entrego sus velas.” Dijeron los dioses de los Cuatro Puntos: “Esta debe ser nuestra ofrenda.

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Así siempre nos será entregada.” “Dime Aurratemai, dime Nakawé ¿cómo haremos para que los niňos no sigan anfermándose?” -pregunta Kauimalli “Esta es nuestra respuesta: Hagan una flecha, una jícara, una vela. Después deben cazar un venado. Si hai vida para los niňos, un venado tiene que morir.” La terza canzone del peyote Lì sta l’itari, vicino al Fuoco, dove nacque il Cervo Azzurro che divenne fiore. O forse è lo stesso itari, un fiore? Un fiore che parla. Perché lo fa? No, non è il fiore a parlare, parla l’itari. O è il cuore di Nematsica26 che parla per lui? Nematsica parla per il fiore: “Lo colorerete di giallo”. “Perché farlo con l’usha27?” Perché così vuole l’itari, così vuole Tatewari. “Ah, -dice il Nonno Fuoco-, gli dei non sanno mangiare, lo farò io, per loro”. Udiamo, udiamo forte la voce di Tau, 26 Nematsica è il “Fratello Maggiore”, un nome con il quale si indica il cactus peyote. 27 Intraducibile: usha (o uxa, urra) è il nome di una radice gialla che cresce nella zona di Real de Catorce.

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la voce dei kakauyari: “È giunto il tempo di parlare con il mare” “Che, forse, non riesca a sentirci?” Sì, posso ascoltarvi. “C’è un fiore, a Wirikuta, che parla e voi potete sentirlo”. Sì, posso ascoltarlo, e posso ascoltare Reunar, Hauxamanaka e Rapawiyeme28. So ascoltarli, si sentono bene: “Qui si fermò l’itari, qui si fermerà con gli dei per sempre” (il cantatore richiama gli dei nell’itari e seguita:) Tutto, nel campo, si spalancò. Tutto fu visibile. Si riempì di canne, zucche, e dalle canne germogliarono le orecchie del fratello Cervo Azzurro. Quindi il Cervo Azzurro si fermò sulla madre terra, Tate’Yulianaka. “Perché si fermò?” Il cervo è l’itari, l’itari che si rinnova. Per tutti gli dei Lui è l’itari, e loro gli incaricati di condurlo ai quattro punti. Seduto, l’itari si riposò vicino al fuoco. Dall’itari germogliò un nuovo ramo, e dal ramo

28 Spirito della pioggia del sud, prese parte al diluvio nel lago di Chapala.

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nacquero le frecce, nacque la jicara nacque Rutu’li, il fiore di Dio, e tutto divenne nube. Lì nacquero i cinque itari, i cinque alberi eletti. (il mara’ákame segnala poi il luogo dove è possibile tagliare questi alberi) e dall’albero nacquero i calihuey. Kiewimutá, Aramara, Palia’tsia, Rapawiyeme29, scelsero i loro alberi. “Fratelli eletti. Adesso uscite dalle vostre case, e costruite il vostro calihuey. Vicino al fuoco poserà, per sempre, l’itari. Lì va il giaguaro, lì. Nel Tepari si alza la figura del Cervo che gli dei videro correre sulla Terra Bianca”. “Oh, dei –dice Kauyuma’li - la sua magia mi è sempre apparsa superiore: il Cervo stava nel Tipari e voi lo avete visto correre in una Terra Bianca. Voi avete il potere di fare ogni cosa. Conosco il potere delle candele, e io, Kauyuma’li, ve le offro. Vi consegno le vostre candele”. Dissero gli dei dei quattro punti: “Questa sarà l’offerta,

29 Kiewimutá è il luogo dove, per la prima volta, spuntò il mais. Aramara, “Nuestra Madre del mar” è, schiettamente, il nome con il quale gli huicholes indicano l’oceano pacifico. Palia’tsia è “il luogo dove cresce il peyote”, il deserto di Catorce. Rapawiyeme è lo spirito della pioggia del sud, che prese parte al diluvio nel lago di Chapala.

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che sempre a noi sarà consegnata”. “Dimmi Hauxatemai30, dimmi Nakawé, come faremo a far sì che i nostri bambini non si ammalino?” – domanda Kauyuma’li. Questa è la risposta: Farete una freccia, una jicara, una candela. Poi caccerete un cervo. Per donare la vita ad un infante, un cervo deve trovare la morte. Rutuli (Iwia’kami, questo il suo nome completo) viene chiamata “falda de flores”, gonna di fiori. Sorella della “Giovane Madre Aquila”, rappresenta l’adolescenza, l’essere bambino ancora implume, al nido, in attesa del lancio nel mondo adulto. È infatti comune credo huichol che il fiore riassuma in se l’energia vitale, la memoria antica degli avi kakauyari. Per questo viene chiamato “espíritu puro”, spirito puro, ed associato alla giovane età. Il disco tepari è un disco in pietra, di circa quarantacinque centimetri di diametro, ornato di simboli sacri in entrambi i lati ed un buco al centro. Simboleggia la realtà rituale, la vita terrena come varco dell’ultramondano, l’ascensione mistica: il passaggio, da quell’unico buco, che lega il mondo mitico degli avi kakauyari alla visione, riflessa, del cielo. Cuarta canción del peyote La nube crecía como la milpa. nació Watukari, crecía y hablaba,

30 Dea cardinale, indica il nord.

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nació el maiz, nació el venado nació el itari y del itari creció el encino y el encino tronaba como la lluvia. “Yo cercaré el coamil yo lo abrazaré, yo lo envolverè yo lo harè florecer por entero.” La lluvia envolvió al coamil y apareció el Venado Azul acompaňado de Mari, su hermano pequeňo. Echó raíces el encino y se plantó en los Cuatro Rumbos: Ahí quedó plantado, echó raíces, ahí tendido se vio el itari, el itari se convertió en nube, y de nuevo llovió sobre la sierra. En los cuatro rumbos tendieron las trampas, los lazos jatevari, y en medio de los lazos brotó el agua sagrada. El agua se llevó al coamil donde estaban los dioses, los kakaullaris reunidos y todo se bendijo, la lluvia cayó sobre todos y la milpa creció sin tardanza. Se llevó la jícara con el maiz al ririki y allí renació el encino, los sostenei del calihuey y ahí renació toda la ofrenda. Los dioses entendieron que ahí sería su casa

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y hablaron de este modo: “Lloverá en el Tokipa y allí aparecerá la cabeza de nuestro hermano Tamatz.” Entonces, de la buena tierra, de la tierra Japuka, nacieron los dioses: Sakaimuka, Dios de las coras, Tukaimuka, Dios de las araňas, Reutari, la Línea de Sombra Kayawarika, Dios del río Tuxpan Y Aturrame, Dios del río Lerma. Todos se dispersaron, se regaron por la sierra. Tomaron sus lugares. La quarta canzone del peyote La nube si alzò, come il mais del campo. Nacque Wata’kami, cresceva e parlava, nacque il mais, nacque il Cervo, nacque l’itari e dall’itari crebbe la quercia, in un tuono come di pioggia. “Io cercherò il campo io lo abbraccerò, lo avvolgerò, io lo farò fiorire in ogni punto”. La pioggia avvolse il campo ed apparve il Cervo Azzurro, accompagnato da Mari, suo piccolo fratello. La quercia mise radici, e si piantò nei quattro punti: Lì restò piantata, lì si radicò,

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lì disteso stava l’itari, l’itari che divenne nube, e di nuovo la pioggia cadde sulla sierra. Nei quattro punti tesero la trappola, i nodi Jatevari,31 e al centro di essi sgorgò la sacra acqua. L’acqua arrivò fino al campo, dove l’attendevano gli dei, i kakauyari riuniti e tutto fu benedetto, la pioggia cadde sopra ogni cosa ed il grano crebbe senza esitare. Portano la jicara con il mais al ririki, e lì rinacque la quercia, a sostenere il calihuey, e lì rinacquero tutte le offerte. Gli dei intesero che quella sarebbe stata la loro casa e dissero: “Pioverà nel templo ed apparirà la testa di nostro fratello Tamatz ”. Quindi, dalla buona terra, dalla terra Japuka32 nacquero gli dei: Sakaimo’ka, Dio dei cora, Tukaimuka, Dio degli aracnidi, Reutari, la Línea d’Ombra 31 Si chiama Jatevari la rete che si usa per catturare il cervo sacro. 32 Uno degli appellativi posti ad indicare l’ascesa. È, in questo caso, “el centro donde se cruzan los caminos”, il centro in cui si incrociano i cammini.

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Kayawarika, Dio del rio Tuxpan e Aturrame, Dio del rio Lerma. Tutti si dispersero, si sparsero per la sierra, trovarono il loro luogo. (Tayau’) Sakaimo’ka è il sole di ponente e viene associato alla regione di Nayarit, dove risiedono, oltre che gli huicholes, i cora. Sono due ramificazioni della stessa etnia, dai tratti somatici praticamente identici, ma dal carattere molto diverso. L’unico contatto che ho avuto con loro è stato nell’ afosa città di Jesus Maria, in una pausa durante il viaggio a Tatei Kie: a differenza del popolo huichol, fiero, in quella malgama di rispetto ed orgoglio delle proprie radici, quello cora appare sguaiato e volgare. Ripeto: la mia è un’impressione senza fondamenta, che poggia sulle spalle di quattro uomini incontrati in un caldo pomeriggio, da non considerarsi in alcun modo indicativa di un intero popolo, che non conosco. È singolare la presenza, nell’elenco di chiusura, di Tukaimuka, Dio degli aracnidi: giustificata dal fatto che, leggendariamente, fu il ragno a tessere la tela con la quale si catturò il primo cervo. Per quanto riguarda reutari, nello stato di Nayarit, è il luogo del circolo, in cui, miticamente, la luce si lega all’oscurità, la vita alla morte, come avremo modo di approfondire nelle prossime righe. Le divinità che chiudono l’elenco sono di carattere soprattutto morfologico: lo stato di Jalisco è di stampo montagnoso, il che favorisce la nascita di ruscelli naturali, spesso dovuti alle abbondanti piogge, come quello di Tuxpan-Naranjo e di Lerma, che nasce nello stato di Mexico e scorre fra le rocce, fino a congiungersi alle sacre acque di Chapala… ma, per dirla con Ende, questa è un’altra storia.

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Al calihuey l’ora si è fatta tarda, e la stanchezza comincia a farsi sentire; dato che quella danza si ripeterà uguale tutta la notte, decido di ritirarmi, per mettere su carta ogni cosa vista e detta e, magari, dormire un poco: saluto Jesus e mi avvio lentamente. La mattina mi accoglie un’atmosfera del tutto differente: alcuni pellegrini, stanchi forse dalla nottata insonne, dormono in terra, nonostante il piacevole caos del giubilo che li circonda. Fuori dal calihuey i bambini giocano, i ragazzi ridono e suonano canzoni tradizionali con la chitarra, alcuni mangiano. L’austerità della sera precedente sembra avere lasciato il posto ad una fiera paesana. È ormai prossimo mezzogiorno quando alcuni pellegrini escono dal cortile del templo in cerca di nuova legna. La mano della sorte, che ieri toccò l’irruenza del toro, oggi lambisce la pacatezza dell’agnello: ucciso, viene spellato ed issato sul palo sacrificale, come un macabro monumento alla luce del sole. Ora i colori della festa si mischiano davvero a quelli della celebrazione rituale.33 Mentre il giubilo continua, Pancho intinge il suo muvieri in una bacinella d’acqua e peyote e, con questo, asperge i quattro punti cardinali, nei cinque nodi nevralgici della celebrazione, come a voler delimitare la zona. Dietro di lui, i pellegrini lasciano un peyote in ogni punto toccato. Credo di aver inteso solo ora il significato più nascosto dello si’kuli 34; ne avevo parlato, nel paragrafo dedicato alla nascita del sole, come l’espandersi di raggi dell’astro, relazionandoli alla vita fisica e spirituale: ora mi appare invece come vivida mappa, limite fisico di un palcoscenico immaginario, solide pareti che 33 Gli huicholes parlano della loro intensa attività rituale servendosi del termine generico “fiestas”. 34 Il disegno all’interno del nierica con il quale giocava Tau, il bambino-sole.

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costringono la rappresentazione ad uno sviluppo necessariamente verticale. Visto con l’occhio della prospettiva, il punto centrale, ovvero il rombo che misura maggior ampiezza, appare innalzato, avanzato verso lo spettatore. All’interno dello si’kuli si danza il peyote. Questa volta non solo i pellegrini partecipano all’Híkuri Neiáli35: persino i bambini si ritagliano il loro spazio. Un’occasione simile non capita certo ogni giorno, ed io cedo alla voglia di prendere parte a quel cerchio festante. Due colpi con il piede destro, uno con il sinistro: questo il ritmo dettato da chi trascina la fila, per cinque volte attorno alle sedie degli anziani, che sonnecchiano tra la polvere alzata dai passi, e poi all’interno del calihuey, abbracciati sul posto, sopra la pedana dei “cantadores”, dando le spalle all’uscio ed il viso alle offerte lasciate a fianco di Tatata. Fuori dal calihuey, Jesus mi guarda compiaciuto: ha piacere che gli invitati alla celebrazione dividano con i pellegrini i passi della danza. È proprio vera quella regola non scritta: la pratica vale mille teorie. L’interno del cerchio è caotico e rumoroso: il battere continuo dei piedi scandisce il tempo alle voci che si mischiano in un unico suono ovattato e confuso. Solo fuori dall’area dei danzatori mi accorgo che nessun canto accompagna i passi, o ne viene accompagnato; come un motivo scomposto in fraseggi, si alternano le voci di questo e quel danzatore senza un ordine stabilito, a volte senza neppure aspettare che chi ha già la parola termini ciò che ha da dire.

35 Híkuri Neiáli: letteralmente, danza del peyote.

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L’impressione è quella di trovarsi davanti, non ad uno scambio di battute, piuttosto ad una riflessione, che ogni tanto sale dal cuore alla bocca, e dalla bocca alle orecchie di tutti, che, ripeto, pare proprio che non se ne curino. “Che cosa dicono?” domando. “Lui sta dicendo che ha tradito la moglie; ora può dirlo perché gli dei, a Wirikuta, lo hanno perdonato”. Si riferisce, evidentemente, alla confessione di cui mi ha parlato doňa Aureliana36. Nello specifico, la confessione del popolo wirrarika ha ben poco a che vedere con quella cristiana: anziché in un confessionale appartato, come se ne trovano in ogni chiesa, i pellegrini confessano i loro peccati davanti a tutti, alla luce del saggio Tatewari. È la lussuria il peso maggiore nell’anima degli huicholes: con gli occhi al fuoco, la voce di ogni pellegrino snocciola, uno dopo l’altro, i nomi delle persone con cui ha avuto rapporti sessuali, fossero anche presenti. Ogni nome è una tacca nella fune della vita, che il mara’ákame annoda prima di gettarla alle fiamme. Qualcosa di analogo succede ora all’interno del templo: con un tizzone ardente, sottratto al fuoco principale, Pancho ricalca la sagoma dei presenti, per poi gettarlo, nuovamente, nel rogo. È questa la “limpia” spirituale, la purificazione dell’anima. Ne esiste una materiale, non meno importante: mens sana in corpore sano, dicevano i latini, ed è indiscusso il fatto che il temazcal37 abbia effetti terapeutici. D’origine azteca, prima dello sbarco spagnolo era parte integrante della medicina tradizionale: in particolare, come 36 Cfr. paragrafo 2.4: “Wirikuta”. 37 Temazcal è un nome composto di due parole in lingua nahuatl: tema, che significa “bagno” e calli, “casa”.

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ancor oggi avviene, al suo interno si rilassavano le donne in dolce attesa, ma ad ambo i sessi erano indirizzati i suoi vapori. Non è difficile immaginare quale effetto fece ai conquistadores questa sorta di bagno turco, in fango e pietra, in cui uomini e donne si recavano nudi e senza alcun divisorio; l’ottusità del tempo classificava come vizioso ed immorale l’atto del “toccarsi”: che il fine fosse erotico od igenico, poco importava agli occhi del Signore. Non è certo mia intenzione fare della polemica gratuita, ma il fatto che la stessa regina d’Aragona amasse far vanto d’essersi lavata soltanto due volte in tutta la sua vita non è retorica: è storia. Comunque i temazcal vennero distrutti, e cento frustate attendevano la schiena di chi ne avesse costruiti di nuovi; chiusa la parentesi. Quando la danza riprende, dopo un’ora circa, salta ai miei occhi un particolare che, precedentemente, non avevo notato; attorno agli anziani il circolo si snoda in due direzioni: cinque volte in senso antiorario, cinque in senso orario. Un voltafaccia che contraddice, apparentemente, quell’accostamento così palese tra regressione temporale e rinascita morale. In verità, la rinascita necessita della morte quanto la morte della vita: questo è il circolo, l’azzurra via di Jaicu yuave: “per donare la vita ad un infante, un cervo deve trovare la morte”, conclude la terza canzone del peyote. Capisco di trovarmi di fronte alla mimesi della caccia al cervo; il raggiro, l’uccisione, la rinascita… e ancora il raggiro:

…una via infinita è quella che segue la linea infinita, a spirale, della forma elementare e originaria del labirinto: il meandro. Questa forma è in origine una figura di danza: «Se danzando si esegue una spirale -la cui riproduzione

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disegnata ad angoli retti è appunto la linea a meandro- e al termine del movimento circolare si fa un voltafaccia, si ritorna al punto di partenza. Sia la spirale sia il meandro vanno intesi come percorsi che si fanno involontariamente avanti e indietro, se si continua a seguirli». Il labirinto non era quindi affatto, come oggi l’intendiamo, un luogo in cui ci si smarrisce, ma un luogo nel quale, grazie ad una conversione che si effettua nel suo centro, si riprende la strada gia fatta per tornare verso la luce. […] Il labirinto è dunque, in origine, nient’altro che il tracciato di una danza; una danza che è il modo di avanzare richiesto da una via che ripiega su se stessa: il «voltafaccia», la «conversione», è la figura specifica di questa danza. La linea che essa segue è la linea infinita dell’immortalità...38

Ancora ed ancora si ripete la danza, noncurante del fatto che il sole abbia ormai abbandonato la sierra, e la temperatura si sia fatta piuttosto rigida. Jesus mi fa cenno si seguirlo, proprio di fronte al calihuey, dove un nuovo fuoco si è, da poco, levato dal campo. Mi spiega che sto per assistere alla conclusione ufficiale dell’Híkuri Neirra, e mi raccomanda di stare ben attento, prima di unirsi al gruppo. Pancho recita la solita, incomprensibile, lauda e i pellegrini rispondono. Una donna distribuisce piccole dosi di mais appallottolato che, ciclicamente, vengono gettate tra le fiamme. Senza interrompere questa operazione viene srotolata la corda wikuyau, passata sopra ogni testa e poi, anch’essa, arsa. Infine è l’acqua a venire gettata sul fuoco.

38 CARLO GENTILI, A partire da Nietzsche, Marietti, Genova, 1998, pagg. 162-163

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Tra i bracieri ancora caldi, tutti si abbracciano; qualcuno piange. Non mi va di disturbare Jesus in un momento che capisco essere per lui molto importante; tanto più che Felipe è a pochi passi da me: “questa è la conclusione della festa del peyote?” gli domando. “Sì…” mi risponde “ora tutti festeggeranno bevendo birra fino a domani, perché è andato tutto bene”. Mi spiega che il mais gettato alle fiamme è il cibo per nutrire il Nonno Fuoco, o il Cervo, che dir si voglia, e che l’acqua gettatagli non ha funzione di reprimerlo, bensì di dissetarlo. “E ora?” domando, ansioso di saperne il più possibile “Che si stanno dicendo?”. “Si stanno salutando, perché i pellegrini delle altre comunità, a breve, lasceranno Tatei Kie. Dicono che sperano di incontrarsi tutti il prossimo anno, che nessuno di loro muoia o si ammali”. Non passa molto che Felipe riprende: “hai visto, là?” mi chiede sorridendo, illuminando con la sua torcia un palo nell’ombra che, finora, non avevo notato. Come issata su una picca, svetta la testa dell’agnello sacrificato.

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PARTE SECONDA: IL PELLEGRINAGGIO A WIRIKUTA Capitolo 5: IL PELLEGRINAGGIO A WIRIKUTA 5.1 IN VIAGGIO I preparativi fervono nei mesi che separano la passata celebrazione del peyote dal pellegrinaggio nella sacra terra di Wirikuta. È ormai gennaio, ed ogni pellegrino ha con sè le sue candele, le sue jicaras… in generale le offerte con le quali omaggerà gli dei durante il cammino. C’è chi porta del tabacco (muchuchi, in lingua nahuatl), considerato il cuore del fuoco, avvolto in una foglia secca di mais, la cui importanza non è legata ad alcun vizioso piacere, bensì alla capacità di creare fumo, perché è il fumo che anticipa la pioggia: ricordiamo che fu il suo acre odore ad avvertire Komateáme quando Tuamurrawi terminò il suo lavoro39. I pellegrini raccolgono le piume di tacchino per ornare i copricapi e le donne preparano tortillas, che saranno l’unico alimento di quel lungo viaggio: sono infatti circa cinquecento i chilometri che separano la sierra dalla sacra montagna.40 Chi non può, per un motivo o per l’altro, partire, delega ai più fortunati i propri doni; all’interno del calihuey, il mara’ákame stringe in pugno le funi della confessione e la corda wikuyau. 39 Argomento trattato nel paragrafo 3.3: “Tuamurrawi nella casa del mais”. 40 Questa distanza, che un tempo veniva affrontata a piedi, viene oggi colmata con l’ausilio di mezzi di trasporto, per la maggior parte forniti, al popolo huichol, dall’I.N.I. (Instituto National Indigenista). Più che il tempo disponibile (anticamente il pellegrinaggio occupava circa due anni della vita di ogni indigeno), è la morfologia del terreno ad aver subito un cambiamento radicale di modernizzazione: come è successo in tutto il mondo, dove prima le piogge bagnavano il terreno, oggi il calore dei pneumatici abbronza l’asfalto.

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Tutto ricomincia dove si era concluso: di nuovo i pellegrini affollano il cortile del templo, dove l’avo Tatewari è tornato a brillare. Alla sua luce le offerte vengono raccolte e lavate, in una parola: purificate. Dedicherò questa seconda parte del mio lavoro non al cammino in sè, del quale, con le sue difficoltà ed i suoi mille, possibili, imprevisti, si sono già occupati molti ottimi autori41, ma ad una riflessione su quella che credo sia l’essenza stessa di questo lungo viaggio: l’iniziazione, ovvero la rinascita spirituale dell’uomo, in quanto

Il termine iniziazione, nel suo senso più generale, indica un complesso di riti e di insegnamenti orali il cui fine è quello di produrre una radicale modificazione dello stato religioso e sociale della persona che deve essere iniziata. In termini filosofici, l’iniziazione equivale a un mutamento ontologico nella condizione esistenziale. Il novizio esce dalla prova rituale come un essere totalmente diverso: è divenuto un altro.42

Sono sette le soste che frammentano il viaggio, ed ognuna è caratterizzata dal proprio, particolare significato; a volte legato al luogo, a volte alla distanza ed alla necessità umana di “riprendere fiato”. La prima è Chapalangana, a circa un’ora da Guadalajara, nello stato di Jalisco.

41 Cito, ad esempio: VICTOR SANCHEZ, I Toltechi del nuovo millennio, AMRITA, Torino, ed ARTURO GUOTIÉRRIEZ, La peregrinación a Wirikuta, Instituto National de Antropología e Historia, Universidad de Guadalajara. 42MIRCEA ELIADE, La nostalgia delle origini – Storia e significato nella religione, Morcelliana, Brescia, giugno 2000/3, pag. 129

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5.2. LA PRIMA SOSTA: CHAPALANGANA È qui che si consuma il rito della confessione. Anche se in modo sommario, già conosciamo l’imbarazzante svolgersi del rituale: ogni pellegrino viene chiamato dal mara’ákame a rendere conto delle sue trasgressioni sessuali, che siano state compiute in solitudine, con uomini, donne o persino animali, non fa nessuna differenza; ciò che conta è arrivare al peyote in uno stato di purezza interiore. Quello che rende abissale la diversità con la confessione del credo cristiano è l’assenza del pentimento e, soprattutto, della penitenza, conditio sine qua non di riconciliazione con il divino. Si tratta, piuttosto, di un doloroso sfoggio di se stessi a se stessi, senza gerarchie d’ordine o d’intercessione: nessuno fa le veci di nessuno, neppure l’essere un mara’ákame esonera da quest’atto di deiscenza. Una presa di coscienza lacerante, che fende le carni umane, fino a scovare il più intimo tra i segreti per poi gettarlo al fuoco; qui il corpo dei viandanti comincia a svuotarsi del superfluo, per divenire involucro della visione essenziale, caldo giaciglio in cui germoglierà il sacro cactus. Ricordo di aver sentito Eugenio Barba parlare a proposito dello “svuotamento” qualche anno fa, durante una conferenza tenuta a Bologna.43 Nonostante le mie ricerche, non sono riuscito a trovare una trasposizione dattilografica delle parole del regista, né una registrazione filmata dell’evento… poco male, ero tra il pubblico, allora alle prese con il mio esame di “storia del teatro”, e conservo ancora il quaderno con tutti gli appunti presi. 43 Si tratta della conferenza che Eugenio Barba tenne il 7 novembre 1998 al teatro “Arena del Sole” di Bologna, in occasione dei festeggiamenti per i compiuti quarant’anni dell’Odin Theatret.

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In quell’occasione Barba paragonò l’uomo ad un vaso, parafrasando il Dante, dubbioso del cammino, del secondo canto infernale, al suo incontro con Virgilio:

Andovvi poi lo Vas d'elezione, per recarne conforto a quella fede ch'è principio a la via di salvazione.44

Vas d'elezione, quindi: il vaso della scelta, il recipiente colmo di grazia divina, che peccando si svuota e che torna a colmarsi di Dio con la confessione. Non si contemplano organi, né esigenze fisiche: il corpo torna ad essere ciò che era: involucro perfetto ed eterno, perchè eterna è la voce degli dei che lo saturano. In termini sicuramente più duri si esprimeva Antonine Artaud, auspicandosi il ritorno ad un “corpo originario”:

Il tempo in cui l’uomo era una albero senza organi né funzione, / ma di volontà che cammina / ritornerà. / Esso è stato e ritornerà. / Perché la grande menzogna è consistita nel fare dell’uomo un organismo / ingestione, assimilazione, / incubazione, escrezione, / ciò che era creò tutto un ordine di funzioni latenti e che sfuggono / al dominio della volontà / deliberatrice / la volontà che decide di sé in ogni istante; / poiché quell’albero umano che avanza questo era: / una volontà che decide di sé ad ogni istante, / senza funzioni occulte, soggiacenti regolate dall’inconscio. […] E dell’albero corpo, / ma volontà pura che eravamo, / hanno fatto questo alambicco da merda, / questa botte di distillazione fecale, / causa di peste, / e di tutte le malattie, / e di questo punto di debolezza

44 DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Inferno, canto II, vv. 28-30

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ibrida, / di tara congenita / che caratterizza l’uomo nato.45

Ed è ancora Artaud l’autore del proclama: “Or c’est l’homme qu’il faut maintenant se décider à émasculer” 46 (è l’uomo che adesso bisogna decidersi ad evirare), identificando nella sessualità il fulcro dell’inutile dissipamento energetico, nel sesso maschile la crepa che continua a perder vita. 5.3 LA SECONDA SOSTA: ZACATECAS È questa la città che ci consente di approfondire l’intrusione della religione cristiana nel pantheon huichol: nella principale chiesa della città, consacrata alla Vergine di Guadalupe, i pellegrini si fermano a lasciare offerte, affinché il resto del cammino si svolga senza intoppi. È quantomeno singolare il fatto che una manciata di indios si raccomandi a mani cristiane e colonizzatrici affinché un rituale d’antico animismo si svolga nel migliore dei modi… prendiamo ad esempio la discussione tra don Pedro de Haro e Victor Sanchez, a proposito delle influenze religiose subite dal popolo huichol:

Nella nostra religione, a differenza di quella dei tewaris (meticci o bianchi), non è questione di credere, ma piuttosto di vedere. Guarda, ti dirò quello che ho detto ad un gringo, uno di quelli che si fanno chiamare pastori e che pensa che siamo tutti del suo gregge.

45 ANTONINE ARTAUD, Lettera a Pierre Loeb del 23 aprile 1947, da MARCO DE MARINIS, La danza alla rovescia di Artaud, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme (BO), 1999, III parte, cap.3, pag.154 46 ANTONINE ARTAUD, Pour en finir avec le jugement de dieu, da MARCO DE MARINIS, La danza alla rovescia di Artaud, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme (BO), 1999, pagg. 14-15

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Era ostinato: e dài con Cristo, e dài con la Bibbia, e allora gli ho detto:

- Bene, bene, come la mettiamo? Come fai a sapere ciò che Cristo faceva o non faceva? Allora? L’hai conosciuto?

- Beh, non di persona. - E conosci qualcuno che l’ha conosciuto di persona? - Naturalmente no, è vissuto duemila anni fa. - Duemila anni fa??? Stai scherzando! E come fai a sapere

se è esistito o se si tratta solo di favole? - Beh, abbiamo la sua parola qui sulla Bibbia. - Oh, povero me, siamo fritti! Io non so nemmeno

leggere! E poi venite a dirci che gli indiani sono stupidi perché credono nella Terra e nel Sole. Stupidi, stupidi! Ma non c’è bisogno che qualcuno mi racconti di Tatei Urianaka (la Terra) perché la vedo tutti i giorni! E tutti i giorni ricevo i suoi frutti, mais, acqua e fagioli. Posso toccarla, camminarci e viverci sopra! E Tau (il Sole). Ogni giorno ricevo il suo calore e il suo nierica (luce, conoscenza, visione, insegnamento). Io non devo far altro che guardare in su, per trovarlo. E inoltre, cosa produceva Cristo? Per quanto ne so io non ha mai prodotto nulla, mentre la Terra basta guardarla: non fa che produrre ogni istante! E ci alimenta ed è così che viviamo. Allora? Chi sono gli sciocchi? È così che ci siamo sbarazzati di quel pastore, ecco perché tutti i tipi di quel genere non sono mai stati capaci d’entrare qui, né loro nè gli altri!47

Pare invece che la storia smentisca la ferma convinzione di don Pedro: in primis il termine “indio”, che si deve ovviamente agli 47 VICTOR SANCHEZ, I Toltechi del nuovo millennio, AMRITA, Torino, 1999, pag.161

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errati calcoli di Cristoforo Colombo, ancor oggi in uso, dimostra quanta poca rilevanza abbia avuto, agli occhi del “vecchio mondo”, una millenaria cultura, il cui unico errore fu quello di trovarsi sulla rotta per le Indie e quanto, invece, abbia influito sui nativi la nuova “civiltà”. Colombo credeva fermamente di aver attraccato sulle solari spiagge di quel Paradiso terrestre, narrato dalla Bibbia, confondendo le correnti incontrate nel golfo di Paria con gli efflussi dei quattro fiumi dell’Eden. I nuovi confini del mondo assumevano quindi, primariamente, un’importanza escatologica, secondo la quale l’indio, figlio della corrotta dinastia di Adamo ed Eva, doveva essere convertito al cristianesimo o soppresso in nome di Dio. In una lettera, indirizzata al principe Giovanni, figlio di Isabella e Ferdinando, l’avventuriero genovese scrisse:

Dio ha fatto di me il messaggero dei nuovi cieli e della nuova terra di cui Egli parlò nell’apocalisse di san Giovanni, dopo aver parlato di ciò attraverso la bocca di Isaia; ed Egli mi ha indicato il luogo in cui trovarla.48

Il rinvenuto Paradiso, verso il quale le imbarcazioni facevano rotta, si rivelò ricco, oltre che d’anime da convertire, di minerali da estrarre e nuove terre da sfruttare. Non solo gli europei, però, avevano un credo religioso: caso volle che il ventuno aprile millecinquecentodiciannove, anno in cui Hernán Cortés raggiunse le coste messicane, coincideva con la data fissata nel calendario azteca per il ritorno in patria di Quetzalcoatl, il serpente piumato.

48 MIRCEA ELIADE, La nostalgia delle origini – Storia e significato nella religione, Morcelliana, Brescia, giugno 2000/3, pag. 106

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Fu quindi, per il sovrano Montezuma II, motivo di gaudio la notizia che “torri galleggianti” stessero sbarcando sulle vicine coste. Accolti come dei, gli spagnoli trovarono terreno di fertile alleanza tra i popoli sottomessi al principale impero: con il loro aiuto, Montezuma II fu spodestato dal suo palazzo. Sotto la dominazione spagnola la vita dei popoli amerindi non migliorò di certo: le malattie portate dagli invasori e l’instaurazione di un regime schiavistico fecero sì che, nell’arco di circa ottant’anni, il numero degli abitanti originari della Nuova Spagna, era questo il nome del Messico della conquista, calasse di ventiquattro milioni di persone. Facile intuire come i nuovi proprietari terrieri accumularono, in tempi anche ridotti, grandi fortune, prosciugando nelle miniere la vita dei nativi. Tutto questo, è giusto ricordarlo, legittimato da un “assoluto credo” che, già in epoca medioevale, si elevava ad unico latore di volontà divina. Imporla ai “selvaggi” era dovere di ogni buon cristiano, a costo della vita. È forse a questi “eroi” che dobbiamo la birra, la tequila, la figura di Tatata, le campane con inciso il logo J.H.P., Jesus Hominum Pastor, (che portano data “millenovecentoquindici”, a riprova che l’opera di conversione non si esaurì in pochi anni, ma persiste ancor oggi) davanti alla chiesa di Tatei Kie, la mutazione di questo nome con quello di un santo ed il rituale che il mara’ákame compie, nella chiesa di Zacatecas, prima di rimettersi in viaggio: dopo aver bagnato il suo muvieri nell’acqua benedetta, accarezza la fronte di ogni pellegrino.

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5.4 LA TERZA SOSTA: BAUZ Questa terza sosta, più che da un’importanza caratteristica del luogo, è giustificata dalla distanza che ancora divide i pellegrini dalla località di Villa de Ramos, di ben altro spessore culturale. A Bauz si conclude il “battesimo” cominciato a Zacatecas. La rinascita huichol, come il senso del peccato, non è legata a questioni morali, ma energetiche. Ogni pellegrino viene investito di un nuovo nome, legato alla località in cui, o alla divinità alla quale, porterà i propri omaggi. La prassi non è nuova: tutto si svolge sotto lo sguardo dell’avo Tatewari. Ad ogni pellegrino il mara’ákame affida un pezzetto di legno, che questi punterà nella direzione in cui si incarnano, metafisicamente parlando, i propri doveri rituali, scandendo il nome della divinità legata al luogo indicato. Ad esempio, il pellegrino volgerà il suo ramo ad est scandendo secco la parola: Tau!, prima di rigettarlo nel fuoco. È forse questo il culmine dello svuotamento: l’abbandono del proprio nome, al quale sono legati gli affetti della genealogia più recente, per poter, al di là di se stessi, vedere. Mi si passi il gioco di parole ma, parlando di visioni, non si può vedere essendo visti, perchè

quelli che vedono, non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi in volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono… Se vuoi stringere sei tu l’amplesso; quando baci, la bocca sei tu…49

49CARMELO BENE, Sono apparso alla Madonna, Bompiani, Milano, 2005, pag. 82

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Siamo ormai prossimi alle porte di Wirikuta: bisogna esser leggeri a ricalzar le impronte degli dei. 5.5 LA QUARTA SOSTA: VILLA DE RAMOS È questa la prima porta di Wirikuta, ed è pericoloso attraversarla senza essere preparati. Qui vengono bendati gli occhi a chi per la prima volta l’oltrepassa, perché la luce di Reunar non li accechi. Quella della luce, a rappresentazione del divino, è una metafora comune alle più svariate religioni; basti pensare alle parole del credo cristiano: “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio Vero” per averne, seppur parzialmente, conferma. Il Corano, ad egual maniera, difende questa affermazione con le parole:

Dio è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, il cui olio sembra illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su luce. Dio guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore. Dio è onnisciente.”50

Lo stesso Dante, nel significare la visione di Dio, nell’ultimo canto del Paradiso, racchiude l’essenza del divino nella parola “luce”: quanto più il poeta le si avvicina, tanto più essa aumenta di potenza. 50 Santo Corano, An-Nûr - 35

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Scrive infatti:

Io credo, per l'acume ch'io soffersi del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi.51

È luce l’occhio di Dio, la visione stessa dell’universo:

O abbondante grazia ond’io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! Nel suo profondo vidi che s'interna legato con amore in un volume, ciò che per l'universo si squaderna.52

Sta nella luce il riassunto del mondo, la spiegazione del perché di ogni gesto, la riunione di ogni significato:

Non perché più ch'un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch'io mirava, che tal è sempre qual s'era davante; ma per la vista che s'avvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandom'io, a me si travagliava.53

Quali riflessi di luce, l’uno sull’altro, vengono, dal poeta, definiti il Padre, il Figlio ed il sacro respiro:

Ne la profonda e chiara sussistenza de l'alto lume parvermi tre giri

51 DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 76-78 52 DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 82-87 53 DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 109-114

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di tre colori e d'una contenenza; e l'un da l'altro come iri da iri parea reflesso, e 'l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri.54

È descrizione di Dio, infine, “luce etterna”, essenza pura che trae vigore da se stessa:

O luce etterna che sola in te sidi, sola t'intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi!55

Papa Benedetto XVI si è espresso, a proposito dei canti appena trattati, in questi termini:

L'escursione cosmica, in cui Dante nella sua “Divina Commedia” vuole coinvolgere il lettore, finisce davanti alla Luce perenne che è Dio stesso, davanti a quella Luce che, al contempo, è “l'amor che move il sole e l'altre stelle”. Luce e amore sono una sola cosa. Sono la primordiale potenza creatrice che muove l'universo. Se queste parole del poeta lasciano trasparire il pensiero di Aristotele, che vedeva nell'eros la potenza che muove il mondo, lo sguardo di Dante tuttavia scorge una cosa totalmente nuova ed inimmaginabile per il filosofo greco. Non soltanto che la Luce eterna si presenta in tre cerchi ai quali egli si rivolge con quei densi versi che conosciamo: “O luce etterna che sola in te sidi, / sola t'intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!”. In realtà, ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore

54 DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 115-120 55 DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv. 124-127

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è la percezione di un volto umano, il volto di Gesù Cristo, che a Dante appare nel cerchio centrale della luce. Dio, luce infinita il cui mistero incommensurabile il filosofo greco aveva intuito, questo Dio ha un volto umano e, possiamo aggiungere, un cuore umano.56

Giunti al compimento di questo breve excursus, siamo tornati al punto di partenza: al concetto di identificazione dell’umano con il divino, che a Villa de Ramos si imprime nel volto dei pellegrini. La radice gialla che cresce in queste zone, chiamata “urra”, muta gli umani tratti del volto dei viandanti in quelli di sette principali divinità: Tatewari, il nonno fuoco Tatutsi Maxacuaxi, il bisnonno Coda di Cervo Tau, il Sole Sakaimo’ka, il Sole di ponente Tamatsi, il fratello maggiore Tatei Nihuetsica, la madre del mais Nariwame, la messaggera della pioggia57 La congerie di elementi, figurativi ed astratti, difficilmente adorna il viso dei pellegrini in modo speculare; sono, infatti, pressoché illimitate le varianti consentite dai due temi principali: la linea ed il circolo. Una forma basica come quella del cactus peyote (un cerchio diviso internamente in spicchi), viene, ad esempio, agghindata, spesso e volentieri, di puntini o lineette, interne ed esterne.

56 Frammento del discorso che Benedetto XVI tenne all’incontro, promosso dal Pontificio Concilio “Cor Unum”, sul tema “ma di tutte più grande è la carità” (1 Corano 13,13) in data 23 gennaio 2006. 57 Cfr. allegato a conclusione della “seconda parte”.

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Lo stesso vale per ogni elemento figurativo: dai cervi, che caratterizzano il volto di Tamatsi, agli uomini, sulle tempie di Tatewari. Legati al più stretto concetto di visione sono invece gli elementi astratti, perlopiù cerchi concentrici e circoli a spirale. Pur mancando di veri e propri codici figurativi, gli ornamenti “punto” e “linea” vengono identificati con i concetti di nube e pioggia, garantendo uno straordinario dinamismo ad un profilo che trova, spesso, nello zigomo opposto, la sua sembianza statica ed umana. Un secondo esplicativo esempio, è quello del simbolismo che, idealmente, lega le antistanti figure dell’aquila sul volto di Tau, alta in cielo, per natura, come il sole allo zenit e del millepiedi che, stagliato tra i lineamenti di Tamatsi, è simbolo del legame con il regno dei morti, trovando vita nel putridume dei tronchi delle piovose conifere. Il cammino prosegue, passando per la località di Agua Medionda, sosta minore e di puro riposo in cui vengono tolte le bende ai neofiti, fino alle umide strade di San Juan Tuzal. 5.6 LA QUINTA SOSTA: SAN JUAN TUZAL L’importanza di San Juan Tuzal sta nel fiume che lo attraversa: qui i pellegrini lavano via la stanchezza del viaggio, prossimo ormai al suo compimento. La riflessione legata a questa quinta sosta è, ancora una volta, di carattere spirituale; oltre che utile, dato il già citato ristoro, le donne e gli uomini in viaggio considerano sacre queste acque, e di buon auspicio il bagnarvicisi: chi per domandar, per sè, grazie e favori, come la salute o il denaro, chi per conto d’altri, quali, ad esempio, la fertilità.

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Come la luce, quello dell’acqua è un concetto ricorrente nella religione, qualunque essa sia: canta l’ebraismo che lo spirito di Yahweh,58 all’alba dei tempi, apparve all’uomo aleggiando sull’acqua; recita il Corano che “nessuno può rifiutare l’acqua in eccedenza senza peccare contro Allah e contro l’uomo”. Ogni mattina gli induisti si immergono nel Gange recitando i testi vedici, sollevando fin sopra il capo le mani, congiunte a coppa, piene di acqua; allo scorrere del fiume vengono anche affidate le ceneri dei defunti, passati a miglior vita attraverso la purificazione del fuoco. Tre sono le divinità acquatiche del Candomblè brasiliano: Yemanjà, divinità del mare, Oxun, dell'acqua dolce e Nana-Buruku, dea delle acque paludose. Tornando al nostro studio, abbiamo già affrontato l’argomento parlando del diluvio, cagione della vita pienamente umana, e delle ere solari del credo azteca. Ma che cos’è l’acqua, per i popoli? Una riflessione tout-court porterebbe a pensare, in modo un po’ banale, ma di certo non errato, che sia fondamentalmente il “riassunto”, il “Bignami” della vita: basti pensare a quanta acqua è presente nel nostro corpo o a quanta differenza fa alla terra, la presenza o la mancanza di essa, al fine del frutto. Mircea Eliade ne dà una definizione, a parer mio, completa ed interessante:

Principio dell’indifferenziato e del virtuale, fondamento di ogni manifestazione cosmica, ricettacolo di tutti i germi, le acque simboleggiano la sostanza primordiale da cui nascono tutte le forme, e alle quali tornano, per regressione o cataclisma. Le acque furono al principio, e tornano alla fine, di ogni ciclo storico o cosmico; esisteranno sempre, però mai sole, perché le acque sono sempre germinative, e

58 Cfr. libro della genesi 1,1

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racchiudono nella loro unità indivisa le virtualità di tutte le forme. Nella cosmogonia, nel mito, nel rituale, nell’iconografia, le Acque svolgono la stessa funzione, quale che sia la struttura dei complessi culturali entro cui si trovano: precedono ogni forma e sostengono ogni creazione.59

Pensiamo al gioco di un bambino, ad un castello di sabbia in preda all’onda: tutto nell’acqua si dissolve, ogni forma si disintegra e l’immersione assume connotati di morte, catastrofica agli occhi di quel bambino che del castello aveva fatto il suo regno. È anche vero, però, che quello che rimane è nuova sabbia da plasmare, morbida, di nuovo vergine di storia, in una parola: pura. Lo stesso battesimo pone fondamenta nel simbolismo dell’immersione, dove il bambino rinasce sotto l’ala protettrice del Creatore, seppellendo il peccato e le sue mille forme. Proprio nelle sacre scritture troviamo le parole che annodano l’immersione battesimale al sacrificio del Cristo: “ignorate voi che noi tutti battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte?” domanda San Paolo60. È questo il senso simbolico dell’immersione: l’uomo, annegando, muore e ne esce purificato, rinato, risorto.

Noi dunque siamo stati sepolti con lui mediante il battesimo per la morte, affinché, come il Cristo è

59 MIRCEA ELIADE, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri., Torino, 2004/5, pagg. 169-170 60 SAN PAOLO, Lettera ai romani, Rm 6,3-4

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resuscitato dai morti per la gloria del Padre, noi camminiamo nello stesso modo in nuova vita. Poiché se abbiamo partecipato, per imitazione, alla sua morte, parteciperemo ugualmente alla sua resurrezione.61

Anche in questo caso sono parole del Vangelo: il fatto che la simbologia del Cristo venga poi riassunta nel sacrificio della croce, piuttosto che nel miracolo della resurrezione, è forse la cosa che maggiormente ci differenzia dalla cultura wirrarika, nella quale, lo abbiamo già detto, non si tratta tanto di “credere”, quanto di “vedere”; non tanto di morire, quanto di rinascere. 5.7 LA SESTA SOSTA: COTOTILLO Cototillo è la seconda, più pericolosa, porta di Wirikuta. Neppure avrebbe, ormai, grande senso fermarsi, tanto vicina è Reunar, la montagna sacra. Credo, ma è mio parere, che questa sosta sia dedicata soprattutto alla riflessione… se pur ben preparati, i pellegrini stanno per incontrare le loro divinità: stanno per ascoltare le voci degli avi. 5.8 L’ARRIVO A WIRIKUTA: REUNAR Wirikóta Wirikóta Dove le Rose nascono Dove le Rose sbocciano

61 SAN PAOLO, Lettera ai romani, Rm 6,3-5

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Ghirlande di fiori Turbini di vento Wirikóta. Là, ai piedi di Reunar Respirano le Rose Soffio divino Rugiada. Dal cuore del Jíkuri La nebbia sale Azzurro Cervo sale La pioggia scende Azzurro Cervo scende. Germoglia il Mais La rosa sboccia E canta la Rosa: Io sono il Cervo E canta il Cervo: Io sono la Rosa. A Wirikóta si ode il canto. Cantano i Nostri-Padri, le Nostre-Madri, I Monti, le Colline cantano E cantano i Fiori. Solo là a Wirikóta si ode il canto della vita Solo a Wirikóta Solo là si ode.62 62 MARINO BENZI, I canti del cervo azzurro, La Piccola Editrice, Celleno (VT), 1996, pag. 14

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Non credo servano, giunti ormai alla fine del nostro cammino, parole esplicative delle metafore racchiuse in questo bellissimo canto, che riassume in poche righe tutto quello che è stato detto finora, traendone l’essenza: E canta la Rosa: / Io sono il Cervo / E canta il Cervo: / Io sono la Rosa. Proprio come fosse un cervo, infatti, viene cacciato, dai pellegrini, il cactus peyote. I cacciatori non prestano, in un primo momento, attenzione ai cactus isolati: muovendosi lentamente, guardinghi e silenziosi, cercano la famiglia, l’agglomerato di peyote, la cui forma ricordi la testa del cervo. Nel momento in cui viene scovato, il gruppo si riunisce attorno ad esso: posto al centro di quattro frecce, volte ai punti cardinali, il mara’ákame, o il kawitero se presente, lo taglia e lo distribuisce tra gli astanti. Da questo momento, ciò che abbiamo definito “caccia”, diviene “raccolta”, libera e senza schematismi, alla quale partecipano tutti, fatta eccezione per chi, anche in nome degli altri, si allontanerà fin sulla cima di Reunar per recare dono a Tau nel luogo della sua nascita. Ricomposto il gruppo, a sera, anche il raccolto viene riunito: pur pensando di portarne buona parte a casa, per coloro che non sono potuti partire e per la prossima celebrazione dell’Híkuri Neirra, ne resta abbastanza da colmare il corpo e la mente, perché il vaso si apra alla visione. 5.9 NIERICA, LA VISIONE DEGLI DEI Non è facile, neppure per un indio huichol, definire questa parola: nierica. Non lo è perché materialmente divina, duplice nella sua sostanza: non si esaurisce nel concetto, già di per sé vago, di visione.

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Nelle discussioni, a questo proposito, con Juan Carrillo Carrillo, maestro d’arte huichol, oltre che coordinatore generale della comunità, metafore come “el instrumento para ver”, lo strumento per vedere, o “la red para atrapar el venado”, la rete per catturare il cervo, o, ancora, “el ojo que ve de noche”, l’occhio che vede nella notte, sempre si sostituivano al vero e proprio definire, arricchendo, tra l’altro, di misticismo quel concetto di così difficile fattura. Potremmo chiamarlo “tramite con il mondo spirituale”, o “specchio nel quale il mara’ákame vede ed ascolta la voce degli avi”, ma credo, in cuor mio, che nessuna definizione ne esplichi il senso in maniera più lucida di quella di Juan Negrín:

El nierica se hace para invocar la presencia de una deidad […] se hace el nierica para conseguir nierica, el don de la vision.63 (Il nierica si costruisce per invocare la presenza di una divinità […] lo si costruisce per conseguire lo stesso nierica, ovvero il dono della visione.)

Sono parole che, anche se in maniera più rozza, o forse soltanto meno ragionata, ho già sentito durante il mio primo viaggio in Messico, quando, ospitato nella casa di Doňa Gaby, cercavo di far luce su quella strana idea del sacro che lega la croce cristiana alla piuma. “È sacro tutto ciò che è importante nella vita” mi spiegava: “ad esempio, tu sei qui per scrivere la tua tesi… il lavoro che stai facendo qui è sacro.” 63 RAÚL ACEVES, TEITERI WAYEIYARI: glosario de cultura huichola, Secretaría de cultura de Jalisco, Guadalajara, 2005, pg.83, traduzione dell’autore.

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Solo ora capisco il significato di quel concetto: ogni oggetto che, nella vita, assume un’importanza particolare per il nostro essere, sia esso un sasso posto quale punto di riferimento, una padella con del cibo, l’inchiostro che ha macchiato i fogli che ora leggete; è sacro in quanto, e quanto, il riferimento indicato dal sasso, la fame saziata dal cibo, la soddisfazione nel terminare questo lavoro… preghiera: questa credo sia la migliore interpretazione della parola nierica. Sono già molti i tasselli votivi incastonati in questo piccolo mosaico liturgico; non manca che una tessera per terminare l’opera: l’offerta del “quadro di filo”, ormai comunemente chiamato anche in Italia con il termine anglosassone “yarn painting”. In queste composizioni si legge la storia del popolo huichol, le intenzioni ed i presagi: non è raro che maestri di quest’arte raffigurino, nelle loro opere, visioni riscontrate, nei giorni del pellegrinaggio, sotto l’effetto del sacro cactus. Vero pioniere dell’“arte del filo” fu Ramón Medina Silva, morto ormai da oltre trent’anni64, amico ed informatore dell’antropologo Peter T. Furst, che gli commissionò una serie di opere per il museo dell’università di Los Angeles, ricordato come un uomo in grado di legare fra loro simboli sacri secondo le leggi dell’artificio narrativo. A riprova di quanto detto, valga la collezione esposta al Museo universitario di Storia Culturale della capitale, di quattro opere dedicate alla battaglia tra Kauyuma’li e Kieli Tediali, tra l’incarnazione del saggio peyote e lo stregone malefico Datura, l’albero del vento. Apriamo una parentesi su quest’ultima pianta, al cui culto era dedita la gente azteca e tuttora diffusa nella fascia sud-ovest

64 Ramón Medina Silva, 1926-1971.

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degli Stati Uniti d’America: anche la Datura, che contiene sostanze topicamente attive e viene usata per curare dolori reumatici e per sanare contusioni, è in grado, in dosi tossiche, di indurre alla visione, essendovi la scopolamina e l’antropina tra i suoi composti psicoattivi. Anche se non esiste una data certa, è sicuro che il popolo huichol abrogò il culto della Datura, in favore del peyote. Nel primo quadro della serie è raffigurato soltanto la Datura. Nel secondo, la pianta appare nella sua duplice forma: botanica e divina, mentre s’adopera nel convincere una giovane donna che la sua carne, il frutto dell’albero del vento, sia buona come quella del mais e del cervo. Nel terzo Kauyuma’li, raffigurato con le corna del cervo, attacca il nemico mentitore, che muore nell’ultimo quadro: trafitto da cinque frecce, ritornerà poi ciò che era, ma sollevato dall’ambiguità dell’inganno. Gli “yarn paintings” sono tavolette di legno, sulle quali viene spalmato un sottile strato di cera d’api e resina. La prima bozza del quadro viene incisa sulla cera con una punta acuminata, come quella di un coltello; essendo questo composto particolarmente corposo e ben propenso all’essiccatura, viene continuamente esposto al sole ed ammorbidito dal calore dei raggi. Una volta delineata la figura, la si riempie con del filo colorato, dai lati fino al centro, con andamento a spirale, schiacciando pazientemente il filo nel composto. I colori usati sono vari, ma sei principalmente si caratterizzano sugli altri: Rosso, come il neonato sole ed il sangue Nero, come l’oscurità della morte Bianco, come le nubi che portano pioggia

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Azzurro, colore della conoscenza e del giudizio Giallo, come il cuore della vampa Verde, come le piante e l’erba su cui si cammina Il risultato è uno sgargiante connubio tra antichità preistorica, tale è la semplicità del tratto, e vitalità, energia, luminosità. Ho parlato finora del capostipite di quest’arte, Ramón Medina Silva; chi si recasse nella città di Tepic può invece incontrare, come è successo a me, il maggior artista contemporaneo vivente: José Benítez Sanchéz, “Yucauye Cucame, el caminante silencioso”. Sarei un ingrato se, per questo incontro, non ringraziassi gli amici Riccardo ed Antonella per avermi lasciato, all’atrio di un alberghetto di Tepic, un memorandum con la scritta:

“Ciao Simone, siamo qui anche noi, domani andiamo da Benítez alle nove. Se vuoi venire ci vediamo alle otto nella caffetteria.”.

Quella mattina, un indio piuttosto disinibito davanti alla telecamera di Riccardo, mostrandoci uno yarn painting sul tema del diluvio, così spiegava i suoi tratti:65 “Molto prima di noi, gli dei scrissero, è scritto, tutto ciò che accade, tutto quello che sta succedendo: il cambio del mondo. Molte cose cambieranno, perché così è scritto. Io nella mia mente vedo una grande quantità di granuli di mais che si sollevano, come un serpente, attorno al mondo, eruttando fuoco, fumo e cenere, e questa cenere cade come pioggia. Verrà un diluvio, un uragano.

65 È possibile scaricare il filmato, gratuitamente, nel sito: www.mexicoart.it

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Le cose stanno peggiorando, molte cose in questo anno, molte rispetto a quello passato, ed ancora di più peggioreranno nel prossimo! Siamo prossimi alla fine, al mondo che sprofonda… certo, questo riguarda noi. Il mondo non finirà: saremo noi ad andarcene con il vento, con le pioggia, con le inondazioni”. Benítez ci mostra, nella sua creazione, come gli spiriti, ora, stiano ripensando il mondo, perché come chi li ha preceduti, anch’essi moriranno con questa realtà; poi continua: “È ora di pensare ad un cambiamento radicale, perché moriranno molte persone… molti affogheranno, portati dalla corrente, con l’acqua che arriverà fin sopra i tetti delle case! Per questo dobbiamo stare ben ancorati alla terra, trattenere le energie senza disperderle. Allora non ci succederà nulla: questo è quello che chiediamo”. “Come lo sai?” lo interrompe Riccardo, incuriosito e, forse, un po’ preoccupato. “Lo so perché sono uno sciamano, la terra parla con me, il sole e tutto ciò che è sacro mi parla e dice… questo animale, ad esempio, si siede con me e io lo ascolto… anche in questo momento mi sta parlando. Questa tartaruga (sono animali raffigurati nel nierica preso in esame) mi dice che sta per piovere. Tutti questi animali lo sanno bene! Questi scarafaggi escono solo quando sta per piovere, prima non si riesce a vederli, tanto si nascondono, ed ora si stanno preparando ad uscire.

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E poi c’è il cervo, che è quello con le corna ed il serpente, che quando sta per piovere cambia la pelle… completamente”66. A volte la visione coincide con una fine, ma, si sa, ad ogni fine segue un nuovo inizio, forse non meno catastrofico… di questo parlerò nella terza, ed ultima, parte del mio lavoro.

66 Trad. dell’autore.

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Tatewari, il nonno fuoco

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Tatutsi Maxacuaxi, il bisnonno Coda di Cervo

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Tau, il Sole

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Sakaimo’ka, il Sole di ponente

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Tamatsi, il fratello maggiore

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Tatei Nihuetsica, la madre del mais

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Nariwame, la messaggera della pioggia

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PARTE TERZA:

CONCLUSIONE Capitolo 6: UN NUOVO INIZIO 6.1 L’ARRIVO A TATEI KIE Per chi volesse raggiungere la sierra, da Tepic, due sono le vie: la prima, quella del volo, è rapida e abbastanza comoda, la seconda è una mulattiera lungo la quale un vecchio autobus, lento e sobbalzante, attraversa un numero spropositato di paesini, case sconosciute anche alle migliori cartine geografiche. Per quanto possa apparire paradossale, io preferisco la seconda, con le sue venti ore di viaggio, fianco a fianco di bambini, uomini e donne huichol, quasi sempre di ritorno dalle coste di San Blas, con le sue mille soste per recuperare i bagagli che cadono ad ogni buca, con il suo autista che, alle due del pomeriggio, spegne il motore perché è stanco e vuole dormire. ¡Así es!, amano dire i wirraritari: così è, non ci si può fare nulla. Sono salito su uno di questi autobus alle quattro del mattino; ho visto, sosta dopo sosta, scendere tutti i miei compagni di viaggio; augurando e sentendomi augurare il meglio, sono arrivato, solo, al capolinea che era da poco passata la mezzanotte. “Dove si può dormire?” domando cortesemente all’autista. “Abbiamo dove farti dormire, ma è distante da qui: meglio se ci vai domani. Se vuoi, stasera, puoi dormire nell’autobus… non ti chiudo dentro, ma non allontanarti troppo, chè fuori è pieno di cani e non conosci la zona. Buonanotte.”

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“Así es…” rispondo, ormai rassegnato all’idea di non potermi riposare come vorrei, “Buonanotte”. Alla luce del mattino, la strada sconnessa e polverosa della sierra, si apre in viottoli anonimi, fin dentro le piccole abitazioni, con muri di mattoni a vista e tetti spioventi, a volte in paglia, altre in lamiera: Tatei Kie. Nessuno, qui, sa del mio arrivo improvviso, senza tutti quei permessi scritti dall’ I.N.I., senza aver affrontato la trafila di peripezie burocratiche che ha fatto impazzire gli autori dei libri che tengo nello zaino: se vado a casa di qualcuno, non credo di dover avere il benestare di nessun altro che non sia lo stesso padrone di casa. Per ora sono solo, con il mio zaino in spalla ed il pensiero fisso, voglioso, di un caffè: più per sentire in mano il calore della tazza che per altro. Un negozietto, sulla mia destra, vende prodotti alimentari: un pezzo di pane, un avocado, una bottiglia di acqua minerale hanno il sapore della colazione; l’uomo che viene verso di me, quello della fiducia. “Sei arrivato questa mattina, con l’aereo?” mi domanda. “No, sono arrivato ieri notte, ho dormito in quel furgone” rispondo sorridendo. Anche lui sorride, poi si presenta. “Io sono Rosalio, il direttore del progetto di eculturismo. Ci sono delle capanne in cui puoi dormire, ti ci accompagno.” Rosalio è una persona molto garbata, che conosce bene la storia del suo popolo e prova gusto nel raccontarla. A differenza di me, ancora indolenzito dalla nottata, è un buon conversatore.

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Mentre camminiamo assieme verso le capanne mi racconta del suo progetto, di come ha a cuore che il mondo conosca il suo popolo e le sue tradizioni: è contento, dice, che anche nella lontana Italia, qualcuno si interessi a loro. “Sei un antropologo, vero?” mi domanda, aspettandosi, chiaramente, una conferma. “No, sono uno studente di teatro… sto scrivendo la mia tesi su di voi.” “Bene, allora ricordati di parlare del mio progetto nella tua tesi, mi raccomando”. 6.2 LA VISIONE DI ROSALIO Quello che Rosalio chiama “eculturismo” è un progetto di accoglienza turistica, indirizzato ad un turismo responsabile e rispettoso delle tradizioni che visita: il neologismo, coniato per l’occasione, non a caso comprende la parola “cultura”. Si tratta di un complesso che integra una ventina di capanne da affittare, servizi igienici funzionanti ed un ristorante del quale, come ho già detto, quasi nessuno, nella comunità, approfitta. Un progetto complesso e, a parer mio, pericoloso. Nulla di male, intendiamoci, nel voler crescere, nel conoscere e nel farsi conoscere: ben venga per i giovani huichol, che manovrano, senza problemi, lunghi coltelli con una sicurezza invidiabile, ma si sposano a dodici anni e, troppo spesso, ignorano il mondo oltre la sierra. Ben venga anche per i commerci: seppur minima, una parte della popolazione di Tatei Kie fa, tranquillamente, già uso di internet per comunicare e vendere prodotti artigianali. Non posso, però, fare a meno di pensare a quante tradizioni, anche millenarie, si siano piegate al turismo, mutando,

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scomparendo, riadattando la cultura all’esigenza del pubblico, pagante quindi rispettabile. La parola fachiro, ad esempio, che in origine indicava un asceta musulmano con il voto della povertà, divenne, sulla labbra dei missionari europei del settecento, sinonimo di mendicante indù, dedito allo yoga. Oggi non credo evochi un pensiero più complesso di questo: uomo che dorme sui chiodi e cammina, scalzo, sulle braci. D’altra parte, la stessa India pullula di falsi santoni che, in cambio di denaro, si fanno tramite delle divinità, manifestate attraverso trucchi da baraccone, agli occhi di gente ormai disposta a credere in ogni cosa nel nome della speranza. Homo homini lupus, diceva Thomas Hobbes. Un altro esempio è quello della “danza dei kriss” di Bali, nella quale uomini e donne, a torso nudo, cadono in trance e si colpiscono il petto con i tradizionali pugnali, che viene oggi riproposta, per il divertimento dei visitatori dei villaggi turistici, con sgargianti costumi, belle coreografie e più sicuri coltelli “a lama retrattile”.67 Tornando al Messico, non è un segreto che la città di Real de Catorce, un tempo meta obbligatoria nella vita di ogni giovane hippie, affascini oggi i seguaci della new age, il cui cammino spirituale sembra non poter fare a meno di quel peyote che, mentre scrivo, rischia seriamente di scomparire dal deserto. Seduti assieme, a cena, discutevamo di questo io, Rosalio, Felipe e Walter, un ragazzone messicano giunto a Tatei Kie da qualche giorno con il suo robusto furgone. “C’è bisogno di gente volenterosa ed onesta che ci aiuti” continuava a ripetere Rosalio, mentre Felipe lo intervallava a suon di “secondo me stiamo dicendo cose giuste”.

67 A questo proposito si invita alla visione del filmato “Trance and dance in Bali”, di M.Mead e G.Bateson, 1938.

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In effetti non c’è niente di sbagliato nel progetto di Rosalio, e le persone di cui parla, seppur quasi invisibili, esistono davvero: hanno i nomi dei ragazzi neolaureati e degli insegnanti in pensione che aiutano, gratuitamente, Roberto nella scuola primaria di Tatei Kie. Non è molto, ma pensiamo che, fino a poco tempo fa, le uniche scuole della sierra erano i centri gestiti dai gesuiti, dove i missionari si impegnavano a fornire un pasto giornaliero ai bambini, che ascoltavano quanto fosse sensato, al fine della salvezza, lodare un unico Dio. Ora, nella nuova scuola, ragazzi come Ricardo Antiveros Enriquez, docente di chimica, disegnano sulla lavagna il composto del tejuino. Non è molto, forse, ma di certo non è poco. Di queste persone fa parte un medico di Guadalajara, che, da tempo, mette la sua arte al servizio degli indigeni, mentre il mara’ákame intona canti di guarigione; parlo di lui, pur senza conoscerne il nome, perché mi è capitato di leggere una sua dichiarazione e di condividere la preoccupazione che emerge da ogni singola parola scritta:

Gli indigeni hanno sempre avuto la tendenza a bere troppo […] ma adesso è peggio. I giovani non bevono per allegria, bevono per disperazione. Pensano che il bello della vita sia avere le cose che vedono in televisione, ma non se le possono permettere, e soffrono. Sognano le donne bionde della pubblicità e delle telenovelas, e le loro, a confronto, gli sembrano troppo nere e inadeguate.

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Temo che la televisione riuscirà dove non sono riusciti i Conquistadores.68

Sono i sogni, le ambizioni, ad essere cambiati. Rosalio dice di aver avuto la visione del suo progetto a Wirikuta; il peyote lo ha indirizzato verso quella strada: “perciò non può portare a nulla di sbagliato”, mi spiega. È proprio questo l’inaccettabile paradosso che confonde la saggezza con l’ingenuità: parlo di quel mondo occidentale perbenista, che sorride alla parola “sciamano” e già la lega al concetto fantasioso di “stregone”, buono o cattivo a seconda dei risvolti della favola. Certo, la bontà va difesa, ed i buoni propositi assecondati… ma la realtà che io conosco è quella delle dure, amare, parole che Eusebio Lopez Carrillo usa per descrivere, al suo intervistatore, Victor Blanco Labra, la sua gente:

Noi Huicholes siamo fottuti. Non possediamo cose, non possediamo nulla: né letto, né mobili. Nulla. Voi invece avete un sacco di cose. Più cose avete più valete, e quelli che possiedono le cose migliori sono i più importanti. Siccome noi non possediamo cose, non ci resta che coltivare lo spirito, e praticare la religione e la tradizione, perché per noi la cosa più importante sono le persone.

68 S.A., Piante allucinogene e culture indiane, in <<HAKOMAGAZINE>>, pg. 38. Presentato alla Commissione dei Diritti Umani dell’O.N.U., Sottocommissione per la prevenzione della discriminazione e per la protezione delle minoranze. Gruppo di lavoro sui popoli indigeni, XI° sessione, Ginevra, Palazzo delle Nazioni, 19-30 luglio 1993. The Fourth World Documentation Project Archives / The Center for World Indigenous Studies hanno gentilmente fornito il documento, consultabile nel sito: www.tabaccheria21.net/hako9.pdf9

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Siamo fottuti, non è così?69 Forse non ancora, forse lo sarà… per ora, ben vengano i vari Faustino Salvador Ortiz, che la vita ha voluto laureato e che, capite le mie intenzioni, mi ha regalato un cd-rom dal titolo completo ed esaustivo: Etnografia del Pueblo Huichol, nato dalla sua collaborazione con l’università di Colima e prodotto dalla C.D.I., la “comisíon nacional para el desarollo de los pueblos indígenas”. Mi racconta di essere stato in Italia, di aver parlato “al mio popolo” della non felice situazione del suo; al mio ritorno ho rintracciato la trascrizione della conferenza stampa70 che tenne, assieme al mara’ákame Alejandro Carrillo Carrillo, il sei ottobre duemiladue, ad Osnago, in provincia di Lecco:

Come nella natura, come nella flora e nella fauna, soffrendo e resistendo, giorno e notte, nella propria carne per lo sfruttamento di cinquecento anni, l’indigeno huichol del Messico ha sofferto tanto quanto tutti gli indigeni del mondo. Gli indigeni huichol vivono al nord del paese, nella Sierra Madre Occidentale dello stato di Jalisco, ad una altezza massima di milleottocento, duemila metri. Il motivo della nostra visita in Italia è quello di far conoscere la nostra cultura, i nostri diritti e di far sapere alla comunità internazionale come viviamo. Il nostro modo di vivere è quello di lavorare i

69 Idem, pg. 37. 70 Il testo della conferenza stampa è riportato, per intero, nel sito: www.mexicoart.it

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campi, prestando attenzione alla nostra cultura e ai nostri luoghi sacri. Parlando di cultura, parliamo, ora, di un luogo, un luogo sacro, Wirikuta, al nord dello stato di San Luis Potosì: nel millenovecentonovantaquattro fu riconosciuto come luogo sacro e meta del pellegrinaggio huichol. Nel duemila l'UNESCO e il WWF hanno riconosciuto, con un decreto, Wirikuta, in San Luis Potosì, come luogo sacro. Successivamente il governo di questo stato non ha rispettato questi riconoscimenti e non ha risposto alle nostre giuste richieste, sfruttandoci politicamente per richiedere aiuti. Il Nepal, insieme a paesi europei, ha dato aiuti economici allo stato di San Luis Potosì, il quale però non li ha utilizzati per questi luoghi ma li ha tenuti per sè, forse perchè il governatore dello stato non è huichol. Per la nostra comunità indigena questo è molto triste, perchè noi vogliamo che i nostri territori vengano giustamente riconosciuti. Anche per quanto riguarda la nostra cultura è la stessa cosa, non abbiamo avuto rispetto, nè riconoscimento. Ultimamente è stata fatta una legge nazionale sulle comunità indigene che non è stata rispettata, come non è stata rispettata la marcia zapatista di Marcos.

Faustino parla del progetto “CO.CO.PA.”, per il riconoscimento dei diritti e della cultura indigena, proposto dai

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deputati e dai senatori della “comisión de concordia y de pacificación”, commissione di concordia e pacificazione, del congresso dell’unione messicana. A questo proposito parlò, per la prima volta, davanti alla totalità dei parlamentari messicani, se escludiamo i membri del P.R.I., la “comandanta” Esther dell’ E.Z.L.N., Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, il ventotto marzo duemilauno. Le sue parole, fiere e toccanti, furono in primis applaudite, poi gettate al vento: il progetto “CO.CO.PA” fu stravolto da mille emendamenti, finchè non divenne sterile, inoffensivo ed a fini pratici, totalmente inutile.

Per questo noi siamo qui, per esporre i nostri problemi e per chiedere aiuto alla comunità internazionale. La nostra comunità di San Andres Cohamiata, riconosciuta internazionalmente, è aperta a tutti i turisti stranieri; altre comunità huichol, per decisione delle assemblee, non accettano gli stranieri. La raccomandazione della nostra assemblea, che diamo ai turisti, è di venire a vedere ma di rispettare il luogo sacro di Wirikuta e il peyote che vi cresce. A causa di persone estranee alla nostra cultura, il governo dice che il peyote è una droga, ma non è una droga per noi. […] Sarebbe lungo parlare della nostra religione, il fondamento principale è il rispetto della natura e il rispetto dei luoghi sacri. Abbiamo molte credenze ma ognuno è lasciato libero di credere a quello che sente; durante i culti noi non chiediamo offerte.

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Ci sono molte feste nella vita huichol, sei o sette feste, ma per me la più bella è quella del peyote. Per partecipare al pellegrinaggio, di quattrocento chilometri, fino a Real de Catorce ci si deve confessare pubblicamente di tutti i peccati commessi, come, ad esempio, con quante donne si è stati: questo vale sia per le donne che per gli uomini. Passano i secondi, i minuti, i giorni, le settimane, i mesi e gli anni, ma noi indigeni continuiamo a sperare nell'appoggio della società civile internazionale, questo vale anche per le generazioni che verranno. Noi speriamo che questa non sia l'ultima visita che vi faremo. In particolare il nostro ringraziamento va all'associazione “Totoyari” che ci ha dato la possibilità di partecipare e lanciamo l'invito anche ad altre associazioni che vogliono collaborare. Tante grazie. 71

L'associazione “Totoyari” non esiste più, né mi risulta esistano, attualmente, associazioni che si muovono in questa direzione: sia, dunque, questo lavoro, invito e sprone al passo.

71 trad. di Chiarastella Mantovani.

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1. L’organizzazione sociale wirrarika poggia ancora oggi su questi bastoni: gli itsu, che conferiscono al detentore pieno e legittimo potere nell’ufficio ad essi corrispondente. È importante sottolineare che è il bastone ad avere il potere; la persona che lo possiede ne è latrice e, proprio per questo motivo, muterà il proprio nome in quello del suo itsu. (pag.19)

2. Sono tre le figure del Cristo in croce adorate da questo popolo: Tatata (o Tata Cristo), del quale esistono due statue pressoché identiche, a rappresentare i due distinti sessi del genere umano… (pag. 21)

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3. Durante i mesi notturni della stagione delle piogge il governo wirrarika viene simbolicamente spodestato: il cinque di giugno Itsukate wamerra, il tavolo governativo, viene ribaltato sulla panca, dove rimarrà fino al quattro di ottobre, data in cui tutto tornerà in ordine per consentire alla “vecchia guardia” di riprendere il lavoro nei restanti tre mesi di governo. (pag. 23)

4. Mi riferisco alla croce che capeggia di fronte alla chiesa della comunità di San Andres […]. Si leggono quattro riferimenti sulle assi che la compongono: l’asse orizzontale conserva incise e ben visibili sul legno le parole Tunuwame – Tseriekame, l’asse verticale cita invece lo sbiadito binomio Wexikta – Kuyuaneneme. (pag.33)

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5. Aggiunse anche che l’unico modo che aveva per salvare la pelle era quello di costruire una canoa abbastanza grande da contenere entrambi, e si raccomandò di costruirle un tetto perché potessero ripararsi. […] Poi lo mandò a raccogliere cinque zucche, le tagliò e le svuotò come a formare dei contenitori, dove pose i grani dei cinque differenti colori del mais. (pag.38)

6. Come ultima cosa, Tacutsi Nakawé pose un gigantesco scoglio bianco sulle rive dell’oceano, nel posto chiamato Haramaratsie, come monito al mare, chè mai più tornasse ad alzare le spalle oltre le rive del mondo. (pag.40)

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7. L’unica città, o almeno la più importante di questa zona, reca un nome strano ed ambizioso: Real de Catorce. Alla lettera il suo nome significa “Reale dei Quattordici”: si suppone derivi dai quattordici soldati spagnoli che qui trovarono morte per mano indigena attorno al millesettecento. (pag.41)

8. […]l’importanza sacrale di questo luogo sta nel fatto che risieda ai piedi di Reunar, la sacra montagna, e in capo al deserto, arido giaciglio del cactus peyote. (pag.42)

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9. Che cosa ho visto? Niente di soprannaturale, solo tre cerchi concentrici di pietre, che la mia guida mi vende come centro del mondo. (pag.45)

10. Il calihuey, o tuki, è il principale centro cerimoniale huichol. È un’enorme capanna circolare, in pietra, dal diametro e dall’altezza di circa otto metri, il cui tetto è sorretto da due colonne di pino, al culmine delle quali trentasei travi si aprono a raggiera, a sostegno della paglia di copertura. (pag.89)

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11. È forse a questi “eroi” che dobbiamo la birra, la tequila, la figura di Tatata, le campane con inciso il logo J.H.P., Jesus Hominum Pastor, (che portano data “millenovecentoquindici”, a riprova che l’opera di conversione non si esaurì in pochi anni, ma persiste ancor oggi) davanti alla chiesa di Tatei Kie… (pag.128)

12. Giunti al compimento di questo breve excursus, siamo tornati al punto di partenza: al concetto di identificazione dell’umano con il divino, che a Villa de Ramos si imprime nel volto dei pellegrini. (pag. 133)

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13. Sono già molti i tasselli votivi incastonati in questo piccolo mosaico liturgico; non manca che una tessera per terminare l’opera: l’offerta del “quadro di filo”, ormai comunemente chiamato anche in Italia con il termine anglosassone “yarn painting”. (pag. 141)

14. “Sei un antropologo, vero?” mi domanda, aspettandosi, chiaramente, una conferma. “No, sono uno studente di teatro… sto scrivendo la mia tesi su di voi.” “Bene, allora ricordati di parlare del mio progetto nella tua tesi, mi raccomando”. (pag.155)

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GLOSSARIO Alcade: giudice Aushuwirìaka: luna piena d’oriente Calihuey: centro cerimoniale huichol Cantadores: cantori del peyote Coamil: campo coltivato Eakateiwari: vento Eka: aria Háiku Tediali: uomo-serpente Haramaratsie: costa di San Blas Hautsima:acqua Hauxamanaka: Durango Híkuri Neiáli: danza del peyote Hikuri Neirra: celebrazione del peyote Huaraches: sandali di cuoio intrecciato, con la suola ricavata dal copertone di automobili Huatetuapa: regno dei morti Huehueteotl: Dio Vecchio della cultura azteca Huerruri: nel costume maschile huichol, pantaloni lunghi, ricamati nella parte inferiore Iaúsu Tediali: uomo-opossum Imúmui: scalinata ideale, di cinque livelli, che porta all’apice di Reunar Itari: piccola sacca consacrata agli avi kakauyari di forma circolare, quadrata o rettangolare Itsu: bastone che indica un incarico governativo Itsukate wamerra: tavolo del governo Ittàyàme: pettirosso Iweiyari: caccia al cervo peyote Iwi: nel costume femminile huichol, gonna lunga, ricamata nella parte inferiore

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Jaicu yuave: sentiero di Tamatsi Kauyuma’li percorre per raggiungere i pellegrini a Reunar Japuka: ascesa spirituale Jatevari: rete usata per catturare il cervo sacro Jicara: ciotola votiva Jotariaka: fase lunare Jualguacil: capo legislativo dei topiles Kairìaka: fase lunare Kakauyari: antenati sacri, né uomini né animali, furono i primi esseri a camminare sulla terra Kamirra: nel costume maschile huichol, casacca larga aperta sotto le ascelle Kapitan: capitano, comandante della polizia della comunità Kawitero: incarico morale riservato agli anziani Kie: terra Kieli Tediali: stregone malefico, Datura Kiewimuka: dea portatrice di pioggia Ko’ko Ta’mai: zopilote mitico, messaggero dell’Ade Komateáme: signore del mais Ku: nome generico del serpente Kukama: nel costume femminile huichol, collare di perline colorate Kukuru Rimari: colomba cantatrice Kutsu’li: borsa tipica del costume huichol Kutuni: nel costume femminile huichol, camicia corta ricamata con motivi geometrici Kuyuaneneme: centro cerimoniale di Las Guayabas Kwatemo’kami: il più giovane dei cervi Limpia: purificazione Mara’ákame: sciamano, guaritore Marra: cervo sacrificale Maxatusa: falso mara’ákame, impostore Maye: puma

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Mayordomo: addetto alla custodia degli idoli di importazione cattolica Molìtari: legnetto che si pone, come cuscino, alla base del fuoco Muchuchi: offerta rituale del tabacco Mumurrì: bastone senza corteccia che culmina al suo apice con la stilizzazione della testa di un cervo Muvieri: strumento sciamanico del mara’ákame Namakame: uomo-leone Nariwame: nostra madre messaggera della pioggia Naurìaka: fase lunare Nierica: visione Niwa’tali: montagna dove riposano le nubi Nùywari: tappe che dividono ogni concetto vitale huichol O’to Ta’wi: cervo del nord Palia’tsia: luogo dove cresce il peyote Puyuste: supplente del returi Rapawiyeme: dea della pioggia del sud Returi: incarico governativo di preservare in buono stato la divinità Tatata Reunar: sacra montagna, vetta di Wirikuta Reutari: luogo del circolo, dove la luce si lega all’oscurità Ricuri: nel costume femminile huichol, drappo per coprire la testa Ririki: piccolo templo personale Rule’me: bambina-mais rosso Rupurero: sombrero Rutuli (Iwia’kami): dea dell’adolescenza Sakaimo’ka: sole di ponente Shewì: fase lunare Si’kuli: occhio di dio Stuluwíakame: madre del cervo peyote, dea della nascita e della fertilità

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Suk U’ka: cagnetta nera che diede origine al mondo conosciuto, sposa di Wata’kami Tacutsi Metseri: nostra bisnonna la Luna Tacutsi Nakawé: nostra bisnonna la crescita Tama’ts O’to Ta’wi: cervo del nord, guardiano del fuoco Tama’ts Tatewari: cuore del fuoco Tama’ts Wawatsa’li: cervo del sud, guardiano del fuoco Tamal: barretta di mais che viene offerta ai partecipanti dell’Híkuri Neirra Tamatsi Kauyuma’li: nostro fratello maggiore cervo del sole Tamatsi: abbreviazione di Tamatsi Kauyuma’li Tarawi’me: bambina-mais giallo Tata’mi: bambina-mais bianco Tatata (o Tata Cristo): divinità di importazione cattolica Tate’Yulianaka: nostra madre terra feconda, moglie di Komateáme Tatei Kie: comunità di San Andres Cohamiata Tatei Nihuetsica: signora del mais Tatei Yurianaka: nostra madre la Terra Tatekwiyo: riproduzione miniaturizzata di Tatata, allo scopo di facilitarne il trasporto Tatewari: nostro nonno il Fuoco Tatowàni: governatore Tatutsi Maxacuaxi: bisnonno Coda di Cervo Tatutsi: primitivo fuoco, non ancora ammansito dall’uomo Tau: bambino-Sole Tayau’ Sakaimo’ka: sole di ponente, associato alla regione di Nayarit Têaka’ta: il posto del braciere, santuario dedicato al fuoco Tejuino: bevanda rituale ricavata dalla fermentazione del mais

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Tekayupi’su: mitico serpente bicefalo che circonda il mondo Temazcal: capanna del sudore Tentasi: donna addetta alla pulizia del templo Tepari: disco in pietra che simboleggia l’ascensione mistica Tepotaru: supplente del puyuste Teupa: santuario dedicato al sole Toka’kami: signore della morte e dell’oscurità Tonatiuh: dio del sole azteca Topiles: guardie o messaggeri Tsalu Tediali: uomo-formica Tseriekame: centro cerimoniale di Cohamiata Tuamurrawi: figlio della dea Tacutsi Nakawé Tuki: calihuey Tunuwame: centro cerimoniale di San Andres Tupina: uomo-colibrì Tuwe: giaguaro Urawi Tediali: uomo-lupo Uwene: sedia rituale riservata al mara’ákame Wakuri: il bambino-mais, fratello di Tuamurrawi Washiewe: pietra delle Vergine Wata’kami: primo uomo Watukaripa: notte in cui i kawiteros ognano i futuri governanti della comunità Wawatsa’li: cervo del sud Wawaute: custode delle jicaras Wérika Wimari: custode dell’Ade Wexikta: centro cerimoniale di San Josè Wikuyau: corda rituale, legame simbolico tra i pellegrini Wirikuta: deserto di Real de Catorce, nello stato di San Louis Potosì Wiwatzirra: stoia d’erba in cui viene disteso il cervo abbattuto Xapawiyemeta: lago di Chapala

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Xarikixa: cerimonia del mais e del cambio dei bastoni del governo Xuarawetemai: prima stella della sera Xuaya’me: nel costume maschile huichol, fascia di lana, spessa e colorata, stretta alla vita Yarn painting: quadro di cera, resina e filo, sul quale vengono riprodotte le visioni date dal peyote Yoawi’me: bambina-mais azzurro Yu’wime: bambina- mais nero

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MATERIALE MULTIMEDIALE: CD-ROM CDI - Comisíon Nacional para el Desarollo de los Pueblos Indígenas, Etnografia del Pueblo Huichol, Cenedic, Universidad de Colima, 2004 FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI Disegni. Giuliano Mensà Fotografie. Simone Ricciatti, tranne: 5, 6, 10, 13, 14. Rémi Court - Lilian Robin 12. Peter Collings

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Autore Titolo ISBN XXXX Edizioni

Questo volume, sprovvisto del talloncino a fronte, è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio (vendita e altri atti di disposizione vietati: art. 17, c.2, l. 433/1941). Esente da IVA (DPR 26/10/1972 n. 633, art. 2, lett. d). Esente da bolla di accompagnamento (DPR 6/10/1978, n. 627, art. 4, n. 6). Finito di stampare nel mese di nomemese 2007 presso la Legatoria nomestampatore – Via indirizzo – NomeCitta – prov.