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DINGIR TASCABILI DI STORIA DELLE RELIGIONI

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DINGIR

TASCABILI DI STORIA DELLE RELIGIONI

Direttori

Nicola GUniversità degli Studi di Udine

Paolo SUniversità degli Studi di Padova

Paolo TUniversità degli Studi dell’Aquila

Comitato scientifico

Chiara CUniversità degli Studi di Padova

Fabrizio FUniversity of Chester

Chiara LUniversità degli Studi di Milano-Bicocca

Marcello MUniversità degli Studi di Roma “Tor Vergata”

Tadhg Ó AUniversity College Dublin

Cristina PUniversidade de São Paulo

Gisli SÁrni Magnússon Institute Reykjavik

Michela ZUniversità degli Studi di Padova

DINGIR

TASCABILI DI STORIA DELLE RELIGIONI

La collana è dedicata ad accogliere saggi brevi, di qualità scien-tifica, ma rivolti anche a lettori non specialisti della materia.Per lo più si tratterà di lavori originali. Potranno inoltre esserecurate nuove edizioni di studi del passato, così come traduzionidi testi antichi o medioevali. In ogni caso, saranno opere che,muovendo dall’analisi dei fenomeni tradizionalmente com-presi sub specie religionis, siano volte a stimolare e diffondere laconoscenza storico–comparativa delle civiltà.

Le proposte di pubblicazione saranno sottoposte a revisione con il sistema del“doppio cieco” (double blind peer review process), a meno che non si tratti di opereredatte su espresso invito dei condirettori.

Paolo Taviani

Ridere un mondo

Temi storico–religiosi in Pettazzoni,Brelich, de Martino

Copyright © MMXIIARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, /A–B Roma()

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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: ottobre

Indice

Introduzione

Capitolo ILa religione dei Celti nelle opere di Pettazzoni e Brelich

Capitolo IIRidere e disporre della propria vita: Il trickster neglistudi di Angelo Brelich

Capitolo IIIFuror bellicus e voluptas necandi: un confronto adistanza tra Dumézil, Caillois e de Martino

Bibliografia

Tre fotografie

Introduzione

La prima foto la vedevo a La Sapienza, a Roma. Si percorrevala scalinata della Facoltà di Lettere, poi il grande corridoiod’ingresso, quattro rampe di scale, al secondo piano si girava adestra e si arrivava a metà corridoio, sulla soglia di un ampiostudio. Un tempo era stata la stanza degli assistenti di RaffaelePettazzoni. Tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottantaera lo studio di Dario Sabbatucci, Marcello Massenzio ed altridocenti dell’Istituto di studi storico–religiosi. Nella parete difronte alla porta, tra due grandi finestre, piuttosto in alto, eraappesa l’immagine del maestro: una foto in bianco e nero, inuna cornice molto semplice. Il viso di Pettazzoni vi apparivaleggermente rivolto di lato, ma con lo sguardo diretto all’obiet-tivo. Il ritratto non era particolarmente bello — in seguito neho visti di migliori — ma era efficace. Lo sguardo di Pettazzo-ni era intenso, maturo. Emanava sicurezza e stabilità. Aiutavaa sciogliere le incertezze, spronava e incoraggiava.

La seconda foto la vidi poi in un libro, il terzo numerodi Religioni e civiltà, pubblicato nel , che raccoglie unaserie di scritti dedicati a Brelich. Subito dopo il frontespizio,sta una pagina in cui è riprodotta la sua immagine, con unaminima didascalia: «Angelo Brelich (–)». La foto è in

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un bianco e nero un po’ sgranato. Brelich è ripreso per trequarti, in piedi, illuminato dal sole: camicia bianca, cravattachiara, giacca appena aperta, mano sinistra in tasca, tra le ditadella destra una sigaretta. Il viso sorride all’obiettivo. Ma nonè il solito sorriso di circostanza. È un sorriso sornione, e altempo stesso sincero e solare. Soprattutto è convincente, unsorriso che rincuora, che fa sorridere.

La terza foto la vidi molti anni dopo, in un altro libro, fratante altre belle fotografie. È uno scatto di Franco Pinna, ese-guito a Montemurro, in Lucania, nell’agosto del . La metàinferiore dell’immagine è occupata da una grande cattedraricurva, di legno chiaro. Sul fronte della cattedra, poco sottoil piano, c’è una scritta in lettere maiuscole, scure: «La leggeè uguale per tutti». Sopra la cattedra sta seduto Ernesto deMartino. Gambe penzoloni, calze, sandali di cuoio, pantaloniscuri, camicia chiara, un po’ sbottonata, maniche tirate su. Lamano sinistra poggia sulla gamba, la destra regge una pennache stuzzica le labbra. Gli occhi guardano di lato, verso l’alto.In quella stanza de Martino e i suoi assistenti registravanocanti e danze popolari, in particolare lamentazioni funebri,eseguite da un gruppo di voci e strumenti. Sulla cattedra iricercatori redigevano i loro appunti. De Martino è colto inuna pausa di lavoro, o al termine di una seduta. L’intera suafigura esprime fatica e soddisfazione. E poi esprime una sortadi serena trasgressione, la consapevole capacità di rompere glischemi.

Da ragazzo, in una palestra di arti marziali orientali, co-nobbi per la prima volta un’usanza, che poi ritrovai anche

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altrove. Al termine dell’allenamento gli allievi rivolgevano ilsaluto al maestro. Poi, insieme a lui, rivolgevano il saluto almaestro del maestro, che appariva in una fotografia sbiadita,appesa al centro della parete. Da allora, nei tanti anni che sonotrascorsi, mi è capitato spesso di ricordare quell’usanza e disentire quanto fosse sensata, necessaria.

I maestri trapassati, quelli che non hai fatto in tempo aconoscere, sono un bene prezioso: sono sempre disponibili avenirti in aiuto.

Nelle pagine che seguono ho raccolto alcuni esempi di taledisponibilità. La materia di ciascuno dei capitoli è stata presen-tata, in forma di abbozzo, in tre distinti incontri di studio. Inognuna di quelle occasioni ho ricevuto suggerimenti e utiliosservazioni dalle persone che vi presero parte. In particola-re desidero ringraziare: Pietro Angelini, Giovanni Casadio,Chiara Cremonesi, Clara Gallini, Nicola Gasbarro, MarcelloMassenzio, Enrico Montanari, Paolo Scarpi. Ringrazio inoltrel’amico Roberto Tinti, che ha letto il dattiloscritto e mi hadato un aiuto decisivo per la scelta del titolo.

. Religion in the History of European Culture (Mesina, – September ),European Association for the Study of Religion th Conference; Pulcinella. L’eroecomico nell’area euromediterranea (Fisciano — Napoli, – luglio ), convegno inter-nazionale organizzato dall’Università degli Studi di Salerno; Le religioni e la complessitàdei mondi (Roma, marzo ), seminario di studi organizzato dall’AssociazioneInternazionale Ernesto de Martino.

Capitolo I

La religione dei Celti nelle operedi Pettazzoni e Brelich

Nelle opere di Pettazzoni e di Brelich la religione dei Celtinon ha un grande rilievo, tuttavia è interessante il modo incui entrambi affrontarono l’argomento, laddove ritennero didoverlo affrontare. Un modo insolito, presago di prospettivenuove, che però si sarebbero palesate solo in tempi molto piùrecenti, ben oltre la scomparsa dei due grandi storici dellereligioni.

Tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso gli studisui Celti, e di conseguenza anche gli studi sulla religione deiCelti, hanno vissuto una repentina evoluzione. Quasi una ri-voluzione, ancora prolifica di dibattiti e discussioni, ma checomunque ha segnato una svolta non più reversibile. Direi chead innescare questa svolta potrebbero essere stati i contributidi Trevor–Roper e di Morgan alla celebre raccolta di saggidedicata a L’invenzione della tradizione, curata da Hobsbawm,nel . Entrambi, Trevor–Roper e Morgan, si confrontaronocon la ‘tradizione celtica’ e dovettero constatare che ad essacorrisponde un modo di concepire i Celti che in realtà è moltorecente. Furono le tensioni politiche, culturali e commercialiche caratterizzarono l’Europa del Settecento a generare l’idea

Ridere un mondo

di ‘Celti’, che poi divenne canonica negli studi dell’Ottocentoe di gran parte del Novecento. I Celti, così come li abbiamopensati fino a poche decine di anni fa, sono un’invenzionedella storiografia settecentesca.

Non fu la scoperta di nuove testimonianze letterarie o ar-cheologiche ad avviare la svolta. Le scoperte degli archeologiarrivarono dopo, anche grazie al fatto che era cambiato il mo-do di guardare all’intera questione. Dall’intreccio di riflessionestoriografica e nuove ricerche archeologiche è scaturito un nuo-vo scenario, in molti tratti ancora aperto ad ulteriori verifiche ecorrezioni, ma ormai condiviso da gran parte degli studiosi.

Proverò a sintetizzare questo nuovo scenario, seppure inmodo inevitabilmente approssimativo. Penso si possa artico-larlo in cinque punti.

a) A partire dalla metà dell’Ottocento, molti insediamen-ti neolitici europei vennero catalogati come ‘celtici’ apriori, cioè per ragioni estranee all’analisi archeologi-ca.

b) Tanto dalle fonti classiche, quanto dai dati archeologi-ci, non emergono elementi tali da dare fondamentoall’idea di una pretesa unità o identità ‘celtica’.

c) I dati archeologici sembrano piuttosto mostrare unalto grado di variabilità culturale e tecnologica tra igruppi esistenti nell’Europa dell’età neolitica.

. Con i lavori di ricercatori quali J.D. Hill, S. Jones, J. Collis, e S. James, pubblicatitra la fine degli anni ottanta e la metà dei novanta, tutti in qualche modo ispirati anchedalla nuova ipotesi interpretativa concernente le popolazioni ‘indoeuropee’ propostada Colin Renfrew, nel suo Archaeology and Language. Per i riferimenti bibliografici vd.T : n. , n. .

. La religione dei Celti nelle opere di Pettazzoni e Brelich

d) Le affinità riscontrabili tra questi gruppi, laddove effet-tivamente si riscontrano, non dipesero tanto da migra-zioni di popolazioni, ma piuttosto da successive ondated’imitazione di particolari modelli; una sorta di mo-de, che coinvolsero le aristocrazie dei diversi gruppi, eche influenzarono poco o nulla la vita delle comunitàintese nel loro insieme.

e) Infine, le affinità tra le cosiddette ‘lingue celtiche’ nondipendono dalla discendenza da una lingua madre co-mune, ma piuttosto da un loro parallelo sviluppo astretto contatto l’una con l’altra, forse già a partire dalIV millennio avanti la nostra era.

Ciascuno dei cinque punti meriterebbe argomentazionie trattazioni approfondite, che però ci porterebbero lontanodall’oggetto di queste pagine. Ciò che qui serve evidenziare èla sorprendente compatibilità tra il nuovo scenario appena il-lustrato e quanto Brelich scrisse a proposito della religione deiCelti nella sua Introduzione alla Storia delle religioni, pubblicatanel . Mi limiterò a richiamarne solo pochi tratti essenziali.Brelich esordisce respingendo quella che allora era ancoral’idea dominante circa gli ‘Indoeuropei’: «il mito scientifico diuna ‘civiltà superiore indoeuropea’». Poi scrive:

È a priori inverosimile che si possa parlare di una religione celtica:ciascuna formazione politica dominata da elementi celti dovevacrearsi la propria religione, anche se, naturalmente, non si possaescludere che queste varie religioni conservassero elementi co-muni [. . . ]. In questo genere di casi ogni posizione aprioristica è

. B : –.

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pregiudizievole per l’obiettività della ricerca: sia il ‘dogma’ dell’uni-tà religiosa celtica (o addirittura indoeuropea), sia la sua dogmaticaesclusione; solo l’analisi dei fatti documentati può dare risultatifidati.

Più avanti, Brelich ammette un’affinità linguistica (affinità,non filogenia, tiene a specificare) tra le cosiddette popolazioni‘celtiche’, e ammette anche la possibilità (da verificare) che ilsacerdozio druidico fosse un loro tratto comune. Ma, per ilresto, Brelich demolisce l’idea di un pantheon pan–celtico, esoprattutto demolisce l’idea che una qualsiasi concezione poli-teista — vale a dire un qualsiasi modo di concepire il mondoattraverso un sistema di dèi — fosse un tratto comune a tutti i‘Celti’. È un’osservazione a cui Brelich tiene particolarmente,tanto che la ribadisce in chiusura del capitoletto, laddove, aproposito dei druidi, precisa che: «un simile sacerdozio, delresto, non richiede necessariamente una religione politeistica».Vale a dire: ammesso pure che il ‘druidismo’ sia stato un fat-tore unitario caratterizzante i diversi popoli ‘celtici’, ciò nonimplica il fatto che tutti questi popoli fossero politeisti, e menoche mai che abbiano condiviso lo stesso politeismo.

Quella di Brelich è dunque una visione profondamentenon unitaria dei Celti. Una visone che prefigura il nuovo sce-nario emerso negli studi a partire dagli anni ottanta del secoloscorso. A leggerle oggi, quelle pagine impressionano. PerchéBrelich anticipò di un ventennio i risultati della riflessionestoriografica e della ricerca archeologica. E tanto più impres-

. B : –.

. B : .

. La religione dei Celti nelle opere di Pettazzoni e Brelich

sionano se si tiene conto del fatto che Brelich non era unospecialista del settore. La sua lungimiranza dipese per lo piùdall’ampiezza e dall’acutezza del suo sguardo comparativo. Ilproblema che però si pone è di vedere se, ed eventualmentein quale misura, anche la vicinanza e la collaborazione conPettazzoni possano aver influenzato, e magari assecondato, lasua visione innovativa e fuori dal coro. Ci fu un’influenza diPettazzoni, e fino a che punto, in quali termini? Ho raccoltoqualche elemento di osservazione sulla spinta di questi inter-rogativi. Elementi ancora parziali, sicuramente suscettibili diulteriori approfondimenti e verifiche, ma quantomeno utiliper una prima valutazione del problema.

Pettazzoni si occupò dei Celti in due principali occasioni.Nella prima metà degli anni venti, in preparazione del saggiosu I misteri (pubblicato nel , poco dopo aver ottenutola cattedra universitaria a Roma), e poi tra gli anni trenta equaranta, in preparazione del capitolo dedicato ai “Celti” nellasua opera più nota, L’onniscienza di Dio ().

Nel saggio su I misteri Pettazzoni è alla ricerca di un me-todo proprio, nuovo e autonomo, ma appare ancora moltoinfluenzato dagli studiosi della seconda metà dell’Ottocento. Illibro è ispirato ai lavori di Frazer e Mannhardt e di conseguen-

. Quando conobbe Pettazzoni, nel , Brelich stava per concludere gli studiuniversitari sotto la guida di Kerényi e Alföldi. Dal Pettazzoni volle le suerecensioni per Studi e materiali di Storia delle religioni. Di lì cominciò un’intensacollaborazione intellettuale che riprese con vigore nel dopoguerra e proseguì, seppurecon qualche momento di attenuazione, fino alla scomparsa del maestro. Fu lo stessoPettazzoni a volere che Brelich gli succedesse alla cattedra di Storia delle religionidell’Università ‘La Sapienza’ (vd. B : in part. , , , ).

. P : xv.

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za appare condizionato tanto dall’evoluzionismo del primo,quanto dall’enfasi dei culti agrari tipica del secondo. «Alla basedei singoli misteri», scrive Pettazzoni nella prefazione,

noi abbiamo creduto di poter constatare la presenza di culti agrari,o per lo meno di un complesso di pratiche e di credenze aventistretta connessione coi culti agrari.

Ancora nella prefazione troviamo impostata la metaforaevolutiva su cui è strutturato l’intero libro, dal principio allafine, quella delle linee di sviluppo: «Una moltitudine di lineeparallele che partono da un piano comune di base e giungonoa diverse altezze», ciascuna delle quali corrisponde ad unareligione misterica, «una pluralità di svolgimenti indipendentisimili da principi elementari simili». Qualche linea si esten-de molto in altezza, altre meno, altre pochissimo («sviluppiparziali, rudimentali e quasi atrofici»). I misteri di Eleusi —tanto per fare un paio di esempi — sono una linea molto alta,mentre i misteri degli Aranda australiani sono una linea moltobassa.

Né alta, né bassa — cioè semiprimitiva, o semievoluta —è la linea che corrisponde al «druidismo». Pettazzoni vi ac-cenna nella prefazione, poi vi si sofferma nell’ultimo capitolo(il settimo: “Teoria storico–religiosa dei misteri”), prima diconsiderare la leggenda del Graal, quelle di Baldr e di Loki,l’induismo e, infine, il cristianesimo.

. P : xiii.

. P : xiv, .

. P : xiv, –.

Capitolo II

Ridere e disporre della propria vita

Il trickster negli studi di Angelo Brelich

Quel che segue è un breve percorso tematico nel territoriodelle opere di Angelo Brelich e intorno alla figura del trickster.Lo spunto per intraprendere tale percorso è dato dall’uscitadel quarto volume della collana ‘Opere di Brelich’, nel quale,tra l’altro, sono ripubblicati due importanti saggi (“Aspetti reli-giosi del dramma greco”, del , e “Aristofane: commediae religione”, del ’) in cui Brelich si riferisce al trickster perproporre un’originale lettura della commedia greca antica.Questa sua propensione, e più in generale il suo interesse perla particolare ‘figura mitica’ del trickster, risale però a qualcheanno prima. Infatti, è nel primo fascicolo di Studi e materiali diStoria delle religioni del che Brelich pubblicò sia una recen-sione del celebre libro di Radin, Kerényi e Jung (The Trickster. Astudy in American Indian Mythology), sia un saggio ispirato pro-prio dall’opera recensita, e intitolato “Un mito «prometeico»”.I due contributi costituiscono un dittico coerente, l’espressionearticolata di una medesima riflessione sul tema del trickster. Per

. B : –, –.

Ridere un mondo

introdurci negli studi di Brelich, e tentare di recuperare la suavisione del trickster, occorre partire da qui.

Gran parte della recensione è dedicata al lavoro di Radin.Come sempre, Brelich è accorto e meticoloso, però appa-re subito evidente che la «scoperta» di Radin gli piace. Percominciare troviamo una presentazione del trickster come‘figura’:

Si tratta di un’altra figura tipica di innumerevoli religioni primi-tive (e non soltanto primitive), d’una specie di ‘eroe’ [. . . ] che sidistingue per una particolare ambivalenza di carattere; bestiale esovraumano, gratuitamente nocivo e fonte d’ogni sorta di beneficie, inoltre, divertente soggetto e oggetto di grossi tiri giocati; inquesto suo ultimo aspetto (che tuttavia non ha sempre lo stessorilievo, né sempre è presente in figure che per altri versi risultanoindubbiamente affini), questo tipo di personaggio ha da tempo unnome inglese: trickster — termine ugualmente convenzionale chesi può applicare al ragno Ananse dell’Africa occidentale non menoche al Prometheus greco, al Coyote nordamericano come al biblicoGiacobbe, e che ormai è usato in tutte le lingue.

Brelich poi mette in evidenza due punti fondamentali dellateoria di Radin. Il primo consiste nell’idea che il trickster siauna delle più antiche espressioni dell’umanità, e «la più anticadi tutte le figure della mitologia indiana». In proposito scrive:

Questa tesi — che richiederà naturalmente prove non ancora date— ha un’importanza fondamentale, perché rovescia molte opinioni

. B cita dall’edizione londinese, del , dove il lavoro di Radin appareampliato rispetto alla versione contenuta nella prima edizione del libro, Der GöttlicheSchelm ().

. B b: .

. Ridere e disporre della propria vita

comuni e posizioni troppo facilmente accettate: l’uomo educatonelle condizioni culturali determinate dalla civiltà classica e dalCristianesimo non è stato finora disposto ad ammettere che unafigura così ridicola e mostruosa, ma nello stesso tempo creatricee oggetto di miti sacri, potesse esser altro che una forma decadutadi qualche tipo di figura più sublime. Sarà compito dell’avvenireprovare o confutare questa tesi, ma Radin ha il merito di averlaformulata ed enunciata.

«Richiederà naturalmente prove non ancora date», scriveBrelich, ma si ha netta la sensazione che questa dell’arcaicitàdel trickster sia una tesi che gli piace fin da principio, per via diquel rovesciamento delle opinioni che ne deriva. Brelich vedecon favore l’idea che «una figura così ridicola», così da ridere,possa aver preceduto ogni successiva figura divina: tanto ledivinità degli antichi pantheon cari ai classicisti, quanto il Diounico dei vari monoteismi.

Quando passa a valutare il secondo punto della teoria, Bre-lich scrive: «Giustamente Radin sottolinea che questa figuraè anteriore ad ogni distinzione tra divino e non divino». Èun aspetto della questione che a Brelich sta particolarmen-te a cuore, in virtù della distinzione tra ‘esseri extraumani

. B d: ; il riferimento a «l’uomo educato nelle condizioni culturalideterminate dalla civiltà classica e dal Cristianesimo» ha una portata generale, maanche una direzione più specifica verso i sostenitori del ‘monoteismo primordiale’ (lascuola di Wilhelm Schmidt), e forse anche una tutta particolare verso Ugo Bianchi,che negli stessi anni trattava il trickster in modo esattamente inverso rispetto a quellodi Brelich, vale a dire riconoscendo il Dio unico all’origine del trickster, e tra leambigue caratteristiche di quest’ultimo enfatizzando le ‘alte’, anziché le ‘basse’; vd.B .

. B d: .

Capitolo III

Furor bellicus e voluptas necandi

Un confronto a distanza tra Dumézil, Caillois e de Martino

Sullo sfondo sta la teoria di Georges Dumézil sul furor bellicusindoeuropeo. Ma non è da lì che vorrei partire. Il camminosarà a ritroso e il punto di partenza è un articolo piuttostonoto, pubblicato su Le Monde, il gennaio , e firmato dallacorrispondente da Stoccolma, Eva Freden.

Nell’articolo, Freden racconta gli atti vandalici che centina-ia di giovani hanno scatenato nel centro della città la notte diCapodanno: passanti molestati, auto rovesciate, vetrine infran-te, tentativi d’incendio; divelte perfino le pietre tombali pressouna chiesa; aggrediti e malmenati i primi agenti di polizia chearrivano sul posto. I giovani innalzano barricate e sembra im-possibile fermarli. Allora la polizia affluisce in forze, ma riescea sedare il tumulto solo dopo diverse cariche «a sciabola sguai-nata» e ore di scontri. Molti i danni, decine i feriti, parecchipoliziotti in ospedale, quaranta arresti. Il Prefetto dichiara chesi è trattato degli scontri più gravi mai avvenuti nella capitale.

Freden osserva che la cosa «inquietante», la cosa che più«indigna», e che porta «pedagoghi, educatori, la Chiesa e le in-numerevoli organizzazioni sociali molto attive nelle comunità»

Ridere un mondo

ad «interrogarsi angosciosamente», è la gratuità e la spontanei-tà di tutto ciò che è avvenuto. Gratuità e spontaneità aggravatedal fatto che episodi simili, anche se di minore entità, si anda-vano ripetendo già da qualche tempo, sempre di sabato sera.Gli incidenti di Capodanno, scrive Freden,

presentano un carattere quasi «kafkiano» di angoscia. Perché questimovimenti non sono né organizzati, né premeditati; la manifesta-zione non avviene «per» qualcosa, né «contro» qualcuno. Inspiega-bilmente, delle decine, delle centinaia, e lunedì [ gennaio ]delle migliaia di giovani si ritrovano là. Non si conoscono tra loro,non hanno niente in comune se non l’età, non obbediscono a unaparola d’ordine né a un capo. Sono, con tutto il senso tragico chederiva da questa espressione, dei «ribelli senza causa».

Poi continua con una interessante nota personale:

Per lo straniero [cioè per lei, Eva Freden], che sotto altri cieli havisto dei giovani farsi uccidere per qualcosa, questa bagarre nelvuoto appare tanto incredibile quanto incomprensibile. Si trattassealmeno di una gioiosa burla di cattivo gusto per ‘fare un po’ di pauraai borghesi’, ci rassicurerebbe. Ma i volti di questi adolescenti sonochiusi e cattivi. Non si divertono. Esplodono di colpo in una folliadi muta distruzione. Perché la cosa più impressionante in quellaloro folla è il loro silenzio.

Freden prosegue cercando delle possibili motivazioni. Citaun passo di una recente opera divulgativa di François–RégisBastide dedicata alla Svezia per ipotizzare il «terrore dellasolitudine», o forse «l’angoscia animale [. . . ] suscitata dallalunga notte d’inverno che comincia alle due del pomeriggio».

. Cfr. B : –.

. Furor bellicus e voluptas necandi

Ma infine sembra più propensa ad indicare la causa di tuttoin un relativo benessere che «abolisce l’angoscia del domani»e che però priva l’aggressività «di un valido campo d’azione»,la fa «esplodere di colpo in uno scatenamento cieco e privo disenso».

Fin qui il documento, la cronaca di un avvenimento forte,emblematico, che già suscita qualche riflessione nella testi-mone diretta. Ma la notorietà dell’articolo di Freden dipendedal fatto che nell’arco di poco più di un anno ebbe la sortedi essere riportato e utilizzato in due opere famose, primada Roger Caillois, poi da Ernesto de Martino. È interessantevedere come venne diversamente utilizzato dai due autori.

Caillois riporta quasi per intero la corrispondenza di Fre-den in uno dei dossier che chiudono Les jeux et les hommes,pubblicato nel . È un libro notissimo, ricco d’intelligen-za e di suggestioni, e difficilmente riducibile ad una sintesi.Mi limiterò a richiamarne la griglia di montaggio. La primaparte del libro ha un taglio sincronico: Caillois definisce l’og-getto della ricerca e imposta i parametri per una tipologia deigiochi. Abbiamo così quattro tipi di giochi, rispettivamentecaratterizzati da quattro elementi fondamentali: competizione(agon), fortuna e caso (alea), mascheramento (mimicry), verti-gine (ilinx). E abbiamo due diverse modalità, o direi tonalitàdi gioco, inversamente proporzionali, e che possono più omeno investire ciascuno dei quattro tipi: quella fantasiosa e

. F . Per un gioco circolare delle citazioni, a pag. della traduzioneitaliana del libro di Bastide (pubblicata nel ) si trova una nota dell’editore (l’unicain tutto il libro) che riporta la notizia giornalistica degli scontri del Capodanno ,definendo il fenomeno una «malattia del benessere».