SYLVIA PLATH E LE SUE POESIE · Qui tornano le cupi immagini di un rapporto padre -figlia calcato...
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APRILE 2013
SYLVIA PLATH E LE SUE POESIE
L’estate scorsa, in un pomeriggio afoso ed uggioso, ho acceso il televisore e ho ricercato su Sky un film interessante. Girando tra i vari canali , mi sono lasciata attirare da un titolo semplice che conteneva solo un nome: “Sylvia” e così, casualmente, ho conosciuto la poetessa Sylvia Plath.
Naturalmente la visione del film mi ha spinta ad avvicinarmi alle poesie della Plath e, sempre per caso, ho trovato nella mia libreria un libro della raccolta “ I grandi poeti”, dedicato a lei.
La biografia della poetessa inizia così “L’11 febbraio 1963”, Sylvia Plath si uccide infilando la testa nel forno a gas della sua casa di Londra.
La visione del film mi aveva già fatto capire la complessità di questo personaggio, la cui breve vita culmina appunto con un suicidio più volte premeditato, ma sicuramente la lettura delle sue poesie me l’ha fatta conoscere molto più intimamente.
È dal momento della sua morte, come succede sempre, che quest’efficientissima ragazza della provincia americana, che aveva pubblicato una raccolta di poesie ed un romanzo di non grande successo, diventa un’icona.
La perdita di suo padre quando lei ha appena otto anni, la figura preponderante della madre e di altre donne importanti nella sua vita, la sua naturale esuberanza intellettuale, la società americana anni Cinquanta che vuole la donna madre, moglie e poco più, creano in Sylvia i presupposti per un dualismo che la farà sentire perennemente lacerata, alla ricerca della vera se stessa.
Il padre Otto, re delle api, per la sua passione per gli insetti, diventa quel “Colosso” che ricercherà in ogni uomo; alla madre Aurelia si sentirà sempre legata con un cordone ombelicale che vorrebbe recidere senza mai riuscirci.
E poi c’è la “campana di vetro “ del suo tormento, che si solleva quando Sylvia è ottimista e felice, ma che la intrappola ogni qualvolta la vita le riserva insoddisfazioni e delusioni e dalla quale nemmeno la psicoterapia e tantomeno l’elettroschock riescono a sottrarla.
Finalmente incontra Ted Hughes , giovane inglese squattrinato, con uno spiccato talento letterario e poetico ed è convinta di avere trovato quel gigante, lungamente agognato dopo la morte del padre.
Sarà quello di Sylvia e Ted, un amore passionale, in cui la Poesia avrà sempre un ruolo preponderante ma, nonostante i successi di ambedue in campo letterario e la nascita di due figli, Sylvia continuerà ad essere assillata dai suoi fantasmi.
E quando comparirà “ l’altra” ad avvalorare i suoi sospetti di tradimento da parte di Ted , quel colosso che aveva sostituito la figura paterna , si sgretolerà ai suoi occhi e pian piano si avvicinerà al “ limite”, al momento più volte ricercato e mai raggiunto.
Sylvia verrà sepolta nella città natale di Ted. Sulla sua lapide il testo buddista: “ Anche tra fiamme violente si può piantare il fiore di loto”.
Le uniche due opere pubblicate in vita da Sylvia Plath sono The Colossus and Other Poems nl I960 e La Campana di Vetro nel 1963, ma solo nel 1971 il romanzo esce con il nome dell’autrice e non più sotto pseudonimo. Alla morte della moglie, Ted Hughes diventa erede legale di tutto il suo patrimonio letterario e sarà lui a far pubblicare la raccolta di poesie “ Ariel” nel 1965 .
Nel 1981 esce, sempre a cura di Hughes, i Collected Poems, 224 poesie così come la poetessa le aveva scritte in ordine cronologico e l’opera vince il premio Pulitzer per la poesia.
Le Letters Home, enorme epistolario comprendente circa quattrocento lettere scritte dalla Plath alla madre vengono pubblicate nel 1975, in seguito al lavoro di Aurelia che cerca così di riscattare l’immagine negativa di figlia ingrata e di donna cupa che Sylvia si era guadagnata con le sue poesie e il suo romanzo.
L’interesse per la PLath continua e sono vari i contributi artistici che le sono stati conferiti, non ultimo appunto, “Sylvia”, film biografico sulla poetessa, raro caso di omaggio a un poeta.
Ed ora un breve viaggio nel mondo poetico di questa infelice poetessa per conoscere le ansie e i tormenti che le impedirono di essere felice.
Più di mille parole, ben spiega lo stato d’animo di Sylvia una poesia da lei definita “un paesaggio psichico”.
Paesaggio invernale con corvi
L’acqua della gora da una chiusa di pietra
si riversa a capofitto in quello stagno nero
dove, assurdo e inopportuno, un solo cigno
galleggia casto come neve, schermo della mente ottenebrata
che brama strappar giù il bianco riflesso.
L’austero sole scende sulle paludi,
occhio ciclopico arancione disdegnoso di guardare
più a lungo un tale panorama di scontento;
in un nero piumaggio di pensieri, mi aggiro come un corvo,
cupa, mentre scende la notte invernale.
I giunchi dell’estate sono incisi nel ghiaccio
come la tua immagine nel mio occhio; arido gelo
invetria la finestra della mia ferita: quale conforto
può scaturire dalla roccia percossa e rinverdire
il deserto del cuore? Chi mai verrebbe in questo tetro luogo?
Le due poesie che seguono, esprimono perfettamente come Sylvia sia rapita da Ted, al cui passaggio fiorisce la vita e quanto sia vano per lei sfuggire a quella “ pantera”, che la divorerà dopo una caccia spietata.
Ode per Ted
Dove preme lo stivale del mio uomo
spuntano verdi germogli di avena:
egli dà nome a una pavoncella, mette in rotta i conigli
correndo agile all’irta
siepe di rovo, di soppiatto
stana la volpe rossa, l’astuto ermellino.
Le talpe, dice, montagnole d’argilla,
sgusciano fuori dalle scavate dimore dei lombrichi;
vello turchino hanno le talpe; con un colpo di selce
spacca un quarzo nocchiuto;
maturano i colori scorticati
ricchi , bruni, a sorpresa sotto il sole.
A una sua sola occhiata la stenta terra dona messi:
ogni campo solcato dal suo dito
spinge fuori stelo, foglia, fruttiferi smeraldi;
il chicco luccicante che germoglia di rado
egli lo trae innanzi tempo al suo volere;
all’imperioso cenno della sua mano nidificano gli uccelli.
I colombacci posano volentieri nella sua foresta,
intrecciano canzoni intonate al suo umore
quando passa, come potrebbe non essere felice
oltremisura la donna di codesto adamo
quando la terra tutta convocata dalle sue parole
sorge a lodare il sangue di un tal uomo?
Inseguimento
Entro nella torre delle mie paure,
chiudo la porta su quella oscura colpa,
sprango la porta, tutte le porte sprango.
Il sangue corre, mi rimbomba
nelle orecchie: il passo
della pantera è sulle scale,
ora la sento che sale, che sale.
il passo della pantera è sulle scale,
ora la sento che sale, che sale.
Il 20 marzo 1959, convinta di essere incinta, scrive una poesia di nove versi di nove sillabe, “enigma tutto di nove” che richiama simbolicamente i nove mesi di gravidanza e in cui affiorano chiare immagini di maternità.
Metafore
Sono enigma tutto di nove,
elefante, casa massiccia,
popone a spasso su due cirri.
Fragola, avorio, belle travi!
Son pane che fermenta e cresce,
borsa gonfia di soldi nuovi.
Son mezzo, tappa, vacca pregna,
pancia piena di mele acerbe,
sul treno da cui non si scende.
Le muse inquietanti
Si tratta di una poesia del marzo 1958, che fa parte di una serie di testi ispirati ai quadri di Klee, Henri Rousseau e de Chirico. Con le atmosfere straniate e perturbanti di quest'ultimo, la Plath sente una particolare affinità almeno fin dagli anni universitari. La poesia costituisce un atto di accusa contro la madre, che viene incolpata per avere ignorato i terrori che dominano l'inconscio della scrittrice. Come le cattive fate al battesimo, questi terrori sono i compagni di vita più intimi, di cui la madre, lontana dalla realtà della figlia turbata, non vuole ammettere l'esistenza. Nel corso del testo vengono tessuti insieme ricordi dell'infanzia, echi di antiche ballate ("E questo è il regno a cui mi hai portato, mamma, mamma") e la classica fiaba a lieto fine, qui ironicamente capovolta.
Mamma, mamma, quale zia maleducata
o cugina sfigurata e repellente
dimenticasti cosi sconsideratamente
d'invitare al mio battesimo, che quella
al posto suo mandò queste signore
dalla testa come un uovo da rammendo,
per dondolarla e dondolarla ai piedi,
al capo e a sinistra della culla?
Mamma, tu che su ordinazione inventavi le avventure
di Mixie Blackshort, l'orsetto coraggioso,
mamma, tu le cui streghe sempre sempre
finivano cotte in forno insieme al panpepato,
chissà se le hai viste, se hai detto parole
per liberarmi da quelle tre signore
che annuivano di notte intomo al letto,
senza bocca, senz'occhi, la testa calva tutta toppe?
Quando ci fu l'uragano e nello studio
di papà s'incurvarono le dodici finestre
come bolle prossime a scoppiare, tu preparasti
a mio fratello e a me biscotti e Ovomaltina
e ci insegnasti a cantare tutti in coro:
"Thor è arrabbiato: bum bum bum!
Thor è arrabbiato: che ce ne importa?"
Ma quelle signore ruppero le vetrate.
Quando a scuola le bambine eseguirono la danza
sulle punte e facendo lampeggiare le pile
cantarono la canzone delta lucciola, io non riuscivo
a muovere un piede nella mia veste coi lustrini
ma me ne stavo in disparte, goffa,
nell'ombra gettata dalle mie madrine
dalla lugubre testa, e tu piangevi, piangevi,
e l'ombra si allungò, si spensero le luci.
Mamma, mi mandavi a lezione di piano
e lodavi i miei trilli e arabeschi,
benché tutte le maestre giudicassero il mio tocco
stranamente legnoso nonostante le scale
e le ore di esercizio, e il mio orecchio
stonato e, sì refrattario alle lezioni.
Ho imparato, ho imparato, ho imparato altrove,
da muse non assunte da te, mamma cara.
Un giomo mi sono svegliata e ti ho vista, mamma,
che galleggiavi nell'azzurro più azzurro
su una mongolfiera verde coperta di un milione
di fiori e uccellini azzurri che mai mai
si videro, in nessun luogo mai.
Ma il piccolo pianeta volò via saltellando
come una bolla di sapone mentre tu gridavi: "Vieni, vieni!".
E io restai sola davanti alle mie compagne di viaggio.
Giomo e notte ora, al mio capo, al fianco, ai piedi,
stanno a veglia con vesti di pietra,
le facce vuote come il giomo in cui nacqui,
le ombre lunghe nel sole calante
che mai splende più vivo e mai tramonta.
E questo è il regno a cui mi hai portato,
mamma, mamma. Ma nessuna espressione del mio viso
tradirà la compagnia che frequento.
Canto del mattino
E’ una meditazione sul miracolo della nascita ma anche la constatazione di una maternità problematica e di una non perfetta unione tra madre e figlia: la leggerezza e la purezza della neonata contrapposta alla goffa pesantezza della madre.
L’amore ti ha messo in moto come un grosso orologio d’oro. La levatrice ti ha schiaffeggiato sotto i piedi e il tuo nudo grido ha preso il suo posto fra gli elementi.
Le nostre voci echeggiano, esaltando il tuo arrivo. Nuova statua. In un museo pieno di correnti, la tua nudità è ombra della nostra sicurezza. Ti stiamo intorno vacui in viso come pareti.
Non sono tua madre più di quanto lo sia la nuvola che distilla uno specchio per riflettere la propria lenta cancellazione per mano del vento.
Per tutta la notte il tuo respiro di falena tremola fra le piatte rose rosa. Veglio per ascoltare: un mare lontano si muove nel mio orecchio.
Un grido, e scendo dal letto incespicando, pesante come una mucca e floreale nella mia camicia da notte vittoriana. Le tua bocca si apre pulita come quella di un gatto. Il riquadro della finestra
s’imbianca e inghiotte le sue opache stelle. E ora tu provi la tua manciata di note; le vocali chiare salgono come palloncini.
Il Colosso.
Qui tornano le cupi immagini di un rapporto padre-figlia calcato sulla storia di Elettra . Ecco chi è il colosso di cui Sylvia parla nelle lettere e nei diari, la figura grande e forte che ha ricercato negli uomini della sua vita e di cui ha avuto, però, solo un pallido riflesso.
Non riuscirò mai a ricostruirti completamente, rattoppato, incollato e fatto ben combaciare, ragli di mulo, grugniti di porco, e schiamazzi osceni provengono dalle tue nobili labbra. E’ peggio di un cortile.
Forse consideri te stesso un oracolo, portavoce dei morti, o di qualcuno degli dei. Sono trent’anni che fatico per dragare il fango della tua gola. non sono diventata più saggia.
Arrampicandomi su piccole scale con secchi di colla e di lisolo striscio come una formica a lutto sugli acri coperti di erbacce della tua fronte per accomodare le enormi lastre del cranio e ripulire i vuoti bianchi tumuli degli occhi.
Un cielo azzurro proveniente dall’Orestea si inarca su di noi. Oh,padre, da solo sei essenziale e storico come il foro romano. Apro il sacchetto del pranzo su una collina di neri cipressi. Le tue ossa flautate e i capelli d’acanto sono sparsi
fino alla linea dell’orizzonte nella loro antica anarchia. Ci vorrebbe più d’un fulmine per creare un tale disastro. La notte, mi accovaccio nella cornucopia del tuo orecchio sinistro, lontano dal vento,
contando le stelle rosse e quelle color prugna. Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua. Le mie ore sono sposate con l’ombra. Non sto più ad ascoltare il raspare di una chiglia sulle vuote pietre dell’approdo.
Perseguitata dall’ansia di vivere da quel disturbo bipolare, curato con un aberrante elettroshock, Sylvia tenta una via di fuga al male di vivere, rifugiandosi nella poesia e soprattutto nella seguente si avverte il suo sentirsi stretta nella sua realtà di essere vivente, in posizione verticale, mentre vorrebbe essere orizzontale per essere armoniosamente unita alla natura.
Sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
cosi’ da poter brillare di foglie a ogni marzo,
ne’ sono la belta’ di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovro’ perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero e’ immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma piu’ clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto -
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata e’ per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e saro’ utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
Ecco un brano della poesia ‘Parole sentite, per caso, al telefono’, che descrive il momento dell’amara scoperta ( Assia telefona per parlare con Ted, ma alla risposta di Sylvia, simula una voce maschile così goffamente da farsi scoprire)
“… che cosa sono queste parole, queste parole? Cadono con un plop fangoso. Oh dio, come farò a pulire il tavolino del telefono?…. ….Ora la stanza sibila. Lo strumento ritira il suo tentacolo. Ma la poltiglia che ha deposto cola nel mio cuore. È fertile. Imbuto di sozzura, imbuto di sozzura .
Nella poesia “Papà”, il padre Otto non è più elevato alla figura di un dio, ma è una sorta di involucro in cui la poetessa ha vissuto costretta per tutta la vita e liberandosi dalla sua immagine, si libera anche da quel surrogato con cui ha cercato di sostituirlo tutta la vita.
Non funzioni, non funzioni
Più, nera scarpa
In cui ho vissuto come un piede
Per trent’anni, povera e bianca,
Osando appena respirare o fare ecciù.
Papà, ho dovuto ucciderti.
Sei morto prima che ne avessi il tempo –
Pesante come marmo, una borsa piena di Dio,
Spettrale statua con un grigio alluce
Grande come una foca di Frisco
E un promontorio nel capriccioso Atlantico
Dove diluvia verde fagiolo su blu
Nelle acque al largo della bella Nauset.
Ero solita pregare perché guarissi.
Ach, du.
Nella lingua tedesca, nella città polacca
Spianata dal rullo
Delle guerre, guerre, guerre.
Ma il nome della città è comune.
Il mio amico polacco
Dice che ve ne sono una dozzina o due.
Così non ho mai saputo dove tu
Mettessi il tuo piede, le tue radici,
Non sono mai riuscita a parlarti.
La lingua incollata alla mascella
Fu intrappolata nel filo spinato.
Ich, ich, ich, ich,
A mala pena riuscivo a dire.
Io pensai che ogni tedesco fossi tu.
E il linguaggio osceno
Un motore, una macchina
Che mi riduceva in fumo come un ebreo.
Un ebreo a Dachau, Auschwitz, Belsen.
Cominciai a parlare come un ebreo.
Pensai che potevo ben essere un’ebrea.
Le nevi del Tirolo, la birra chiara di Vienna
Non sono molto pure o vere.
Con la mia antenata zingara e il mio profetar fortuna
E il mio mazzo di tarocchi e col mio mazzo di tarocchi
Io posso essere un po’ ebrea.
Sono sempre stata atterrita da te,
Con la tua Luftwaffe, il tuo gergo pomposo
E i tuoi baffi ben curati
E i tuoi occhi ariani, azzurri luminosi.
Uomo-panzer, uomo-panzer, o Tu –
Non Dio ma una svastica
Così nera che nessun cielo riuscì a farla scricchiolare.
Tutte le donne adorano un fascista,
Lo stivale in faccia, il bruto
Bruto cuore di un bruto come te.
Stai in piedi alla lavagna, papà,
Nella foto che ho di te,
Una fessura in mezzo al mento invece del tuo piede
Ma sei nondimeno un diavolo per questo, nondimeno
Sei affatto l’uomo nero che
Spezzò in due il mio rosso cuoricino.
Avevo dieci anni quando ti seppellirono.
A venti cercai di morire
E di tornare, tornare, tornare a te.
Pensai che almeno le ossa l’avrebbero fatto.
Ma mi tirarono fuori dal sacco,
E mi rimisero insieme con la colla.
E allora seppi che cosa fare.
Fabbricai un tuo modello,
Un uomo in nero con un’aria da Meinkampf
E un amore per la distruzione e la tortura.
E io dissi ho fatto la mia parte, ce l’ho fatta.
Così, papà, finalmente ho chiuso.
Il telefono nero ha i fili strappati,
Le voci non possono più strisciare fino qui.
Se ho ucciso un uomo, ne ho ammazzati due –
Il vampiro che disse di essere te
E bevve il mio sangue per un anno,
Sette anni, se lo vuoi sapere.
Papà, puoi giacere tranquillo ora.
C’è un paletto nel tuo grasso nero cuore
E ai compaesani non sei mai piaciuto,
Stanno ballando e calpestando la terra su di te.
Hanno sempre saputo che eri tu.
Papà, papà, tu bastardo, ho finito, chiuso.
Lady Lazarus
Come suggerisce il titolo, la poetessa si immagina come Lazzaro che risorge dalla morte, facendo però della sua resurrezione non un evento mistico, ma uno spettacolo per assistere al quale si deve pagare .Viene messa alla berlina l’esperienza del suicidio; tornano le orribili immagini dell’Olocausto , in cui lei è vittima e il padre il carnefice. Ed infine c’è la sua rivincita su Ted, sul padre, su tutti gli uomini.
L'ho rifatto Un anno ogni dieci Ci riesco Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle Splendente come un paralume nazi, Il mio Piede destro, Un fermacarte La mia faccia un anonimo, perfetto Lino ebraico.
Via il drappo, O mio nemico! Faccio forse paura? Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti? Il fiato puzzolente In un giorno svanirà. Presto, ben presto la carne Che il sepolcro ha mangiato si sarà Abituata a me E io sarò una donna che sorride. No ho che trent'anni. E come il gatto ho nove vite da morire. Questa è la Numero Tre. Quale ciarpame Da far fuori a ogni decennio. Che miriade di filamenti. La folla sgranocchiante noccioline Si accalca per vedere Che mi sbendano mano e piede Il grande spogliarello. Signori e signore, ecco qui Queste sono le mie mani
Le mie ginocchia Sarò anche pelle e ossa, Ma pure sono la stessa, identica donna. La prima volta avevo dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa A insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa
Come una conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare E staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire É un'arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo magistrale. Io lo faccio che sembra come inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione.
E’ facile farlo in una cella. È facile farlo e starsene lì. È il teatrale Ritorno in pieno giorno A un posto uguale, uguale viso, uguale animale Urlo divertito: "Miracolo!" È questo che mi ammazza. C'è un prezzo da pagare Per spiare le mie cicatrici, c'e' un prezzo da pagare per auscultare il mio cuore Eh sì, batte. E c'è un prezzo, un prezzo molto caro, Per una toccatina, una parola, O un po' del mio sangue O di capelli o un filo dei miei vestiti. Eh sì, Herr Doktor. Eh sì, Herr nemico. Sono il vostro opus magnum. Sono il vostro gioiello, Creatura d'oro puro
Che a uno strillo si liquefà. Io mi rigiro e brucio. Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà. Cenere, cenere Voi attizzate e frugate. Carne, ossa, non ne trovate Un pezzo di sapone, Una fede nuziale, Una protesi dentale. Herr Dio, Herr Lucifero, Attento, Attento. Dalla cenere io rinvengo Con le mie rosse chiome E mangio uomini come aria di vento.
Poco prima di essere travolta dalla depressione, Sylvia scrive una poesia colma di immagini materne, in cui mostra un particolare trasporto per il figlio e il suo desiderio di essere una madre come tante.
Bambino
Il tuo occhio limpido è l’unica cosa infinitamente bella.
Voglio riempirlo di colori e anatroccoli,
lo zoo del nuovo
di cui tu mediti i nomi
bucaneve d’aprile, pipetta indiana,
piccolo
stelo senza grinze,
specchio d’acqua in cui le immagini
dovrebbero essere maestose e classiche
non questo angosciato
torcersi di mani, questo buio
soffitto senza una stella.
Quella che segue è l’ultima poesia scritta da Sylvia e sottolinea che il suo destino è ormai compiuto: la sua depressione è sempre più grave ed evidente, ma a nulla valgono i tentativi di coloro che vogliono salvarla da se stessa.
Limite
La donna ora è perfetta. Il suo corpo morto indossa il sorriso della compiutezza, ...l'illusione di una necessità greca fluisce nei volumi della sua toga, i suoi piedi nudi sembrano dire: Siamo arrivati fin qui, è finita. I bambini morti si sono acciambellati, ciascuno, bianco serpente, presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota. Lei li ha raccolti di nuovo nel suo corpo come i petali di una rosa si chiudono quando il giardino s'irrigidisce e sanguinano i profumi dalle dolci gole profonde del fiore notturno. La luna, spettatrice nel suo cappuccio d'osso, non ha motivo di essere triste. È abituata a queste cose. I suoi neri crepitano e tirano.
Rileggendo le poesie, mi è sembrato di “sentire” quel disagio della poetessa, che ci sorprende quando, di fronte a certe situazioni della vita, ci si sente come sdoppiati e incapaci di reagire, perché travolti dagli eventi. Poi, armati di coraggio, “ a muso duro”, ricominciamo la lotta per andare avanti, perché così deve essere.
LA CAMPANA DI VETRO DI SYLVIA PLATH
Di Sylia Plath scrittrice, oltre ai Diari, pubblicati postumi, resta una sola opera in prosa : La campana di vetro.
La prima bozza di questo romanzo vide la luce nella seconda metà degli anni Cinquanta, ma fu solo grazie ad una borsa di studio ottenuta nel 1961 che Sylvia potè ultimare il lavoro e darlo alle stampe a Londra nel febbraio del 1963, con lo pseudonimo di Victoria Lucas..
Forse la poetessa non aveva fiducia nelle sue capacità letterarie o più semplicemente voleva proteggere le persone che compaiono nel romanzo, essendo la fabula prettamente autobiografica.
Infatti Esther, diciannovenne di provincia, studentessa brillante, vincitrice di un soggiorno, offerto da una rivista di moda, non è altri che la stessa Plath, che si sente “come un cavallo da corsa in un mondo senza piste”.
Intorno a lei c’è un mondo alienato, quella “campana di vetro” che la schiaccia, soffocandola pia no piano, ogniqualvolta sente l’incompatibilità tra ciò che “sente” di essere e ciò che invece “dovrebbe” essere, secondo i convenzionali parametri sociali.
Esther-Sylvia vivrà tutti i riti iniziatici tipici di una giovane donna, dall’integrazione sociale nelle feste e nella vita nel college, alla perdita della verginità , lacerata dalla continua dicotomia che la porta a dover scegliere quale personaggio essere: vergine o puttana, moglie sottomessa o donna libera ma sola.
La spirale della depressione la condurrà verso il cammino accidentato e doloroso delle cure psichiatriche: cure inappropriate che non la distoglieranno dal suo proposito di uccidersi , dal quale verrà salvata grazie all’aiuto della dottoressa Nolan, unico personaggio positivo del libro.
E così dopo la discesa all’inferno, una lenta e progressiva rinascita.
A differenza di quanto accade a Esther, Sylvia ha continuato a vivere, a soffrire, a sentirsi, come il giovane Holden di Salinger, “ sul lato sbagliato della vita”, fino ad approdare al suicidio, liberazione dal suo male di vivere.
Scritto con uno stile limpido e teso e con una semplicità agghiacciante, il libro spiega quanto sia difficile per una qualsiasi ragazza troppo sensibile spezzare quegli ingranaggi che la stritolano in una normalità che non le appartiene.
TED HUGHES
Raffinato letterato inglese che nel 1984 venne nominato “Poet Laureate” , poeta di corte della regina Elisabetta.
Ted e Sylvia si erano amati appassionatamente , ma poi lui l’abbandonò per unirsi ad un’altra donna.
Sylvia Plath ne rimase sconvolta e si trasferì con i figli piccoli in Inghilterra.
Il suo suicidio scatenò feroci polemiche contro Ted, agli occhi di molti moralmente responsabile della tragedia.
Poeti sublimi, poeti senza pace ambedue: anche l’amante di Ted si suiciderà Insieme alla loro figlioletta.
Huges scrive “Lettere di compleanno –in memoria di Sylvia” , per ricostruire la sua storia con la poetessa , troppo tempo dopo il suicidio di lei e poco prima della sua morte.
Si erano amati e massacrati e con queste poesie, Ted rompe il silenzio e articola il proprio dolore raccontando una storia di fallimenti, quasi a risarcimento postumo di qualcosa di indefinibile da
spiegare.
Vuole anche assumere il ruolo di custode dell’eredità artistica della moglie, pubblicandone i Diari, ma il loro testo non è integrale perché lo stesso Hughes rivela di aver distrutto certe parti per difendere il ricordo dei figli.
Fu giustiziato idealmente dalle femministe, perché il suo nome venne più volte cancellato dalla lapide di Sylvia.
Le sue poesie d’amore a Sylvia dovrebbero idealmente redimerlo.
CANZONE D’AMORE
Lui la amava e lei lo amava i suoi baci le suggevan via l’intero passato e futuro o così tentavano lui non aveva altro appetito lei lo mordeva lei lo morsicava lei suggeva lo voleva completamente dentro di sé sano e salvo per sempre e poi sempre le loro piccole urla svolazzavano nelle tende
gli occhi di lei volevano che nulla si perdesse gli sguardi di lei gli inchiodavano polsi mani gomiti lui la avvinghiava stretta così che la vita non la trascinasse via da quel momento lui voleva che tutto il futuro cessasse lui voleva buttarsi con le sue braccia intorno a lei
dall’orlo di quel momento e nel nulla o durevole o quel che ci fosse l’abbraccio di lei era un torchio immenso a stamparselo nelle sue ossa i sorrisi di lui erano soffitte d’un palazzo incantato ove non vi giungerebbe mai il mondo reale i sorrisi di lei erano morsi di ragno così lui giacerebbe immoto fino a che lei non si sentisse affamata le parole di lui erano esercizi d’occupazione le risate di lei erano tentativi d’assassino gli sguardi di lui erano proiettili pugnali di vendetta le occhiate di lei erano spettri nell’angolo con orribili segreti i sussurri di lui erano fruste e stivali i baci di lei erano avvocati che non smettevano di scrivere le carezze di lui erano gli ultimi appigli di un naufragio i trucchi d’amore di lei erano frantumazione di legami e i loro gemiti profondi strisciavano sul pavimento un animale trascinante una grossa trappola le promesse di lui erano il bavaglio del chirurgo le promesse di lei scoperchiavano il teschio lei se ne farebbe fare una spilla i giuramenti di lei gli mettevano gli occhi in formalina sul fondo del suo cassetto segreto le loro urla si appiccicavano alla parete
le loro teste si staccavano nel sonno come le due metà d’un melone spaccato, ma è duro da smettere l’amore
nel loro sonno intrecciato si scambiavano braccia e gambe nei loro sogni i loro cervelli prendevano l’un l’altro a ostaggio
il mattino portavano l’uno il viso dell’altro.
Ted Hughes
SYLVIA E TED: UN AMORE FINITO IN TRAGEDIA
Il volto dolce ed angelico di Gwyneth Paltrow è quello di Sylvia Plath, protagonista del film sulla poetessa scrittrice , morta suicida nel 1963.
Un’autrice folle e maledetta con una vita di alti e bassi tra psicoterapie, elettroschock, manie e depressioni. Esuberante e ossessionata, paranoica, bipolare e…..assolutamente geniale.
La regista ha voluto a tutti i costi la Paltrow. Un personaggio complesso, difficile, affascinante, emotivamente faticoso da interpretare, come l’attrice stessa ha confessato.
Nella parte di Huges l’aitante Daniel Craig, meglio conosciuto come il sesto James Bond.
Sceneggiatura e regia sono stati contestati dalla figlia della poetessa, per averne fatto un prodotto commerciale.
La visione del film, dopo la lettura delle poesie e dell’unico libro della Plath, ha lasciato ammutolite per alcuni istanti, noi spettatrici del Salotto.
Certo una grande storia e un grande amore: due grandi poeti, uniti e divisi dalla Poesia.
Trascinati dalla passione (appena conosciuto Sylvia lo morde a sangue sulla guancia), i due vanno subito all’altare ma lei, in preda ad una gelosia ben motivata, perde la sua ispirazione poetica mentre lui ottiene successi letterari e femminili.
Bello ed avvenente, dalla calda voce sensuale, Ted ammalia le donne, ma non riesce ad incarnare quel Colosso che sarebbe dovuto essere per Sylvia, troppo fragile per reggere alla fine di un grande sogno d’amore.
Quando anche l’ultimo tentativo per riprendersi il marito fallisce, la poetessa arriva al triste epilogo della sua breve vita.
Che tristezza quella scena ripresa dall’alto con la neve bianca e la bara rossa!
Che rabbia quel bacio di Ted sul viso senza vita di Sylvia!
Alcune di noi hanno commentato: - Beh, gli uomini sono così!
Io invece mi unisco a chi ha cancellato dalla lapide della Plath il nome di Huges!
Che eredità hanno lasciato i due poeti ai figli?
Frieda, la più grande che aveva solo tre anni quando la madre si suicidò, oggi è pittrice, scrittrice e illustratrice di letteratura infantile; ha anche scritto una poesia “My Mother” contro il film autobiografico su sua madre.
Nicholas, il più piccolo, amante dei pesci come suo padre, si è ucciso nel 2009 in Alaska, dopo aver combattuto per anni contro la depressione.
Si è suicidata anche un’amica di Sylvia, che aveva condiviso con lei l’amore per la poesia.
Un cerchio inquietante che va oltre i legami di sangue.
Ci si chiede : “ Il suicidio è una malattia contagiosa?”
Domanda senza risposta, così come tante domande di Sylvia tra cui: “Parlo a Dio ma il cielo è vuoto!”
Da questa triste storia penso che ognuna di noi ha imparato, se già non lo sapeva, che è necessario in questa vita, darsi sempre delle risposte plausibili, soprattutto quando sembra che non ci siano.
LIVIANA SIMONCINI