Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

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Partendo dalla grande crisi, un tentativo di distruggere i feticci della società attuale alla ricerca della sostenibilità ambientale e sociale.

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Dedicato a tutte le persone che hanno reso la mia vita meritevole di essere vissuta, alcune

delle quali non sapranno mai quanto mi sono state care

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INTRODUZIONE

“Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere” (Mahatma Gandhi)

Waangari Maathai era solita descrivere l’importanza dell’impegno individuale attraverso

una favola, la favola del colibrì:

È la storia di un colibrì e di un’immensa foresta divorata dal fuoco. Tutti gli animali escono dalla foresta e rimangono paralizzati, mentre guardano la foresta bruciare e sentono di essere impacciati, impotenti, tranne un piccolo colibrì. Lui dice “devo fare qualcosa per questo fuoco” e così vola fino al torrente più vicino prende un po’ d’acqua e la butta sul fuoco, e va su e giù, su e giù più veloce che può. Nel frattempo, tutti gli altri animali, alcuni di loro molto grossi, come gli elefanti, con una grande proboscide, che potrebbero portare molta più acqua, stanno lì, impotenti, inermi, e dicono al colibrì: ma cosa pensi di fare? Sei troppo piccolo! Questo incendio è troppo grande, le tue ali sono piccole, il tuo becco è così piccolo, puoi portare solo un po’ d’acqua alla volta. Ma mentre loro continuano a scoraggiarlo, lui torna da loro, senza perdere tempo, e dice: “io faccio del mio meglio e questo, secondo me, è quello che ognuno di noi dovrebbe fare”. Tutti noi dovremmo sempre fare come il colibrì. Io posso sentirmi insignificante, ma di sicuro non voglio essere come gli altri animali della foresta, che guardano mentre il pianeta va in fumo. Io sarò un colibrì e farò del mio meglio.

Quello che state per leggere è per l’appunto il contributo di una persona senza troppe

pretese e potenzialità, come il colibrì della favola. Come lui, per varie ragioni, non ho più

saputo resistere alla tentazione di spegnere il fuoco della foresta, che vedo bruciare

oramai da tanti anni, fin dall’adolescenza quando mi sono interessato ai movimenti contro

la globalizzazione neoliberale. Forse la scintilla decisiva è stato vedere la mia nazione

subire un vero e proprio golpe finanziario con la nomina a presidente del consiglio di Mario

Monti, plenipotenziario dei poteri forti al punto da affermare che lo scopo del suo governo

è convincere i cittadini ad “accettare senza eccessive reazioni sacrifici pesanti”; forse è

stato assistere da spettatore impotente alla macelleria sociale riservata alla Grecia e alla

Spagna, che i tecnocrati vorrebbero presto estendere al resto d’Europa.

Ma la motivazione maggiore probabilmente mi deriva dalla professione di insegnante nella

scuola superiore, dove lavoro a stretto contatto con giovani generazioni per lo più ignare

delle tegole che stanno cadendo sulla loro testa. Solo pochi riescono a intravedere il futuro

cinereo che persone molto più ciniche e anziane stanno preparando loro, ed è difficile

immaginare come reagiranno questi ragazzi – probabilmente in modo furioso e irrazionale

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come nelle rivolte delle banlieu parigine e nei riot di Londra – quando ne saranno

consapevoli.

A differenza del protagonista della favola, in questo tentativo di spegnere l’incendio non

sono solo, perché molti altri animali della foresta hanno reagito manifestando in varie

forme sotto svariate etichette: Indignati, movimento dei forconi, movimenti per i beni

comuni, contro le grandi opere, per la protezione dell’ambiente, laboratori politici

alternativi... tutti mossi da un sentire comune che però fatichiamo ancora a razionalizzare.

Nella mia opera di colibrì ho attinto da acque molto pregiate, forse insufficienti per

spegnere l’incendio, ma da cui sicuramente tutti dovrebbero abbeverarsi. Fuori dalla

metafora, ho provato a mettere insieme quelli che, a mio giudizio, sono i pensieri più

avanzati per una società realmente sostenibile sul piano umano e ambientale. So che in

queste pagine c’è materiale degno di lettura perché in gran parte mi sono limitato a

fungere da link, tentando di interconnettere aspetti diversi di un quadro comune e solo

nell’ultima sezione prevalgono le mie idee personali. Anche per questa ragione ho lasciato

ampio spazio alla citazione, sia per non appropriarmi del pensiero altrui sia per apprezzare

i contributi che provengono da una pluralità di fonti che, pur esprimendo concetti comuni,

quasi mai vengono accostate l’una con l’altra, mentre invece sono come legate dallo

stesso filo conduttore.

Fin da quand’ero ragazzo ho cercato di essere un osservatore attento e dai molteplici

interessi, sono sempre rimasto affascinato da quello che Pasolini definiva il compito

dell’intellettuale, ossia quello di “seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che

se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche

lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente

quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e

il mistero”. Non ho la pretesa di considerarmi un intellettuale ma, avendo avuto per

privilegio sociale la possibilità di studiare e di arricchire la mia cultura leggendo libri,

frequentando l’università, partecipando a conferenze, ecc. ritengo sia mio dovere

comportarmi come se lo fossi, un impegno che è diventato più pressante conoscendo tanti

studenti a cui è stata negata questa possibilità. Per alcuni i manuali scolastici sono gli unici

libri a disposizione in casa e, avendo ricevuto input solo da televisione, internet, telefoni

cellulari, videogiochi ecc. molti presentano i sintomi del cosiddetto ‘analfabetismo di

ritorno’ e viene il sospetto che la desuetudine totale alla lettura abbia inficiato lo sviluppo

cognitivo, impedendo così la piena realizzazione delle potenzialità intellettive: i rapporti

PISA che denunciano l’incapacità di quasi il 50% degli studenti italiani di comprendere un

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testo di media difficoltà sono solo uno dei tanti esempi che si potrebbero portare. In quelle

situazioni capisci quanto sei stato fortunato, in termini economici ma soprattutto familiari,

perché hai avuto la possibilità di crescere in un contesto aperto alla stimolazione culturale,

permettendoti molteplici prospettive.

Questo libro è basato sulla raccolta di materiale accumulato nel corso di diversi anni.

Molto spesso, nelle discussioni su blog e forum, ho dovuto scontrarmi con persone che

non si accontentavano di ragionevoli constatazioni (ad esempio sulla limitatezza delle

risorse naturali) e volevano continuamente numeri che giustificassero le mie asserzioni; io

stesso ho dovuto informarmi per smentire cifre e statistiche altrui. Chi ha bisogno di

stroncare cifre alla mano tutta la mitologia che aleggia intorno all’ideologia della crescita o

alle tecnologie salvifiche come il nucleare, ad esempio, in questo pagine sarà

abbondantemente accontentato.

Mi ritengo una persona idealista, perché credo nel valore dell’utopia, ma allo stesso tempo

pragmatica: non ho ideologie da difendere, ho sempre cercato di prendere il meglio –

almeno ciò che a me sembrava tale – da ogni movimento di pensiero, e se dovessi

descrivere la mia visione del mondo essa è un mix di marxismo, ecologismo, anarco-

socialismo e filosofia della decrescita. Un’influenza molto importante mi deriva

dall’adolescenza e dalla passione per il punk politico, che mi ha suggestionato parecchio

soprattutto per quanto riguarda la necessità di apertura mentale rifiutando discriminazioni

ed etichettature.

Questo contributo si divide in quattro parti:

- nella prima viene affrontata l’origine della crisi economica, con spiegazioni molto diverse

da quelle consuete;

- nella seconda vengono demoliti tre idoli che ancora dominano l’immaginario delle

persone dichiaratamente ‘progressiste’ o ‘di Sinistra’, ossia crescita economica, sviluppo

sostenibile e socialdemocrazia;

- nella terza si illustrano le ragioni della sconfitta storica della Sinistra in tutte le sue forme

e si cerca di ‘disfare’ il suo patrimonio ideale allo scopo di recuperare elementi utili per un

nuovo approccio culturale;

- nella quarta troviamo la pars costruens, le proposte concrete su cui fondare una società

su basi nuove;

- nella quinta, sicuramente la più discutibile perché frutto in gran parte di riflessioni

personali, sono proposte alcune strategie di azione politica.

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Nella lettura qualcuno forse rimarrà perplesso dai giudizi molto critici nei confronti della

Sinistra, specialmente di quella ‘radicale’ e magari li troverà eccessivi, simili alla reazioni

stizzite di un amante tradito. Pur non avendo un passato da vero e proprio militante, non

essendo mai stato iscritto a partiti o sindacati – ho solo brevemente collaborato come

traduttore con Liberazione e in un caso con la Manifestolibri – sono sempre stato convinto

che la Sinistra, almeno quella meno compromessa, avesse i mezzi intellettuali per dare

risposte concrete alle gravi problematiche che ci troviamo ad affrontare; ed è motivo per

me di grande delusione, ad esempio, sentire gli sproloqui di uomini politici

orgogliosamente comunisti capaci solo di liquidare come ‘depressive’ le misure di austerità

anti-crisi, come dei keynesiani qualsiasi, oppure di difendere a oltranza il sistema sociale

europeo senza proporre reali alternative e anzi insistendo nel proporre alleanze politiche

inconcludenti. Ho lesinato meno critiche ai Verdi ai movimenti ambientalisti sia perché più

giovani e quindi storicamente meno responsabili, sia perché nelle coalizioni di governo di

cui hanno fatto in Italia parte sono sempre stati ampiamente subalterni al Centro-Sinistra –

a differenza di Rifondazione Comunista, che è stata determinante per gli equilibri dei due

governi Prodi - cosa che ovviamente non attenua le loro responsabilità. Forse avrei dovuto

soffermarmi sul movimento emergente Europa Ecologie guidato da Daniel Cohn-Bendit,

visti i suoi recenti successi elettorali, tuttavia la mia posizione sullo sviluppo sostenibile e

le critiche di Cohn-Bendit sulla decrescita in favore del Green New Deal bastano per

capire se ritengo la strategia politica di questo partito compatibile con la mia visione. Ho

invece quasi totalmente escluso il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo perché è ancora

troppo presto per capire se riuscirà a dare una forma concreta alla sua proposta politica

basata sulla democrazia diretta su base digitale, al di là dei recenti successi elettorali nelle

elezioni amministrative.

Dovendo limitare l’ambito della trattazione, ho tralasciato a malincuore argomenti a cui

sono molto affezionato, come la questione di genere e la lotta alla discriminazione, che

ritengo imprescindibili per una società basata su nuovi convincimenti. Non ho affrontato

tematiche spinose come il signoreggio bancario o la sovranità monetaria non perché non

le ritenga importanti ma perché le dottrine che si propongo come solutrici si interessano

esclusivamente agli aspetti economici della crisi, suggerendo come soluzione universale

dei problemi la riforma dei sistemi di emissione della moneta (vedi la cosiddetta Modern

Money Theory), per proseguire sostanzialmente il business as usual della civiltà

industriale avanzata, che è invece l’oggetto della mia critica.

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Un’ultima importante premessa. Pur ragionando in termini globali, perché le varie crisi che

ci troviamo ad affrontare presentano un carattere planetario, le mie riflessioni sono molto

improntate all’agire locale, non solo per non peccare di presunzione sbandierando

soluzioni universali ma anche perché nell’universalismo ho proprio smesso di crederci:

oggi lo ritengo niente più della veste nobile dell’etnocentrismo occidentale responsabile del

colonialismo, delle guerre mondiali e della globalizzazione neoliberista. In molte parti del

mondo stanno pensando alla difficile transizione che ci aspetta – penso ad esempio alla

concezione del buen vivir sudamericana o alla Shakti indiana – e noi occidentali possiamo

apprendere ma difficilmente calarci ancora nei panni, a noi tanto abituali, dei sapienti che

devono indicare la via della salvezza al resto dell’umanità. Mi limito quindi a condividere le

mie idee con i miei concittadini.

Ravenna, 24/12/2012

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PRIMA PARTE

SOLO UN BLUFF FINANZIARIO? LA LUNGA ORIGINE DELLA GRANDE CRISI

“E’ impossibile che il capitalismo possa sopravvivere, innanzitutto perché ha bisogno di sangue da succhiare. Prima era come un’aquila, ma ora assomiglia di più a un avvoltoio”. (Malcolm X)

Chi è responsabile della grande crisi economica che stiamo vivendo, iniziata tra il 2007 e il

2008, deflagrata con il clamoroso fallimento della banca d’affari Lehman Brothers? Per l’ex

presidente della FED Alan Greenspan la colpa è della natura umana e della sua tendenza

agli eccessi speculativi durante i periodi di prosperità1. Secondo Padre Gabriele Amorth,

prete esorcista frequentatore di molti programmi televisivi, è stato invece Satana a

suggerire scelte sbagliate ai mercati, agli esperti e agli investitori2.

Secondo la maggioranza dei media meno inclini alle speculazioni filosofiche e/o

teologiche, i guai sono dovuti alla spregiudicatezza della finanza, all’uso indiscriminato di

strumenti ad alto rischio come i derivati o i mutui subprime, con questi ultimi accusati di

essere i principali artefici del dissesto. Essendo i subprime finanziamenti ad alto rischio di

insolvenza perché rivolti a disoccupati e redditi medio-bassi, forse Greenspan e Padre

Amorth apprezzeranno che queste fasce di popolazione siano i principali bersagli delle

politiche di risanamento - un giusto castigo per espiare il peccato di aver voluto “vivere al

di sopra delle proprie possibilità”. Le banche, da parte loro, hanno beneficiato dai governi

di ‘programmi di stabilizzazione’ multimiliardari, su tutti il piano Paulson statunitense che

ha elargito ben 700 miliardi di dollari. Insomma, Satana avrà anche consigliato male gli

investimenti ma alla fine ci ha pensato la Provvidenza a sistemare tutto: alcuni (pochi)

sono ricchi come e più di prima mentre per (tanti) altri si apriranno nuove vie di

beatitudine, perché “la crisi economica e la sofferenza possono avvicinare l'uomo

maggiormente a Dio”3 (parola non di Padre Amorth questa volta bensì di un altro prelato,

Monsignor Mimmo Cornacchia, Vescovo di Lucera-Troia).

Forse ispirate della Spirito Santo, ben prima del 2007 alcune Cassandre inascoltate

parlavano apertamente del rischio di una catastrofe finanziaria. Nel 2000 è stato

1www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2009/09/greenspan.shtml? uuid=4a793e54-9d2c-11de-8a87-777d1fe84fe8&DocRulesView=Libero 2www.pontifex.roma.it/index.php/interviste/religiosi/1059-la-crisi-economica-mondiale-colpa-di-satana-il- demonio-suggerisce-sceglie-sbagliate-solo-per-dividerci-molti-vescovi-non-credono-al-maligno 3www.pontifex.roma.it/index.php/interviste/religiosi/3237-la-crisi-economica-e-la-sofferenza-possono- avvicinare-luomo-maggiormente-a-dio-l-avvento-sia-tempo-di-speranza-attiva-da-vivere-senza-le-braccia-conserte-dobbiamo-essere-ottimisti

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pubblicato un libro molto interessante, intitolato Rapporto Lugano: ovvero come salvare il

capitalismo nel XXI secolo, ispirato ai club semi-segreti delle élite mondiali come il

Bilderberg Group, la Trilateral o l’Aspen Institute. Scritto dall’economista e militante di

ATTAC Susan George, si tratta di un romanzo fanta-politico che narra dell’incontro di un

gruppo di scienziati e accademici di varie discipline convocati da misteriosi committenti (si

sa solo che sono importantissime personalità dell’establishment politico-economico

mondiale) in una villa di Lugano per studiare le prospettive del sistema capitalistico, al fine

di preservarlo dalle sue crisi interne e perpetuare lo status quo della politica globale:

vengono proposte soluzioni su come manipolare l’opinione pubblica mondiale e

mantenere il giogo sui paesi del Sud del mondo, su come favorire indirettamente il

genocidio dei popoli africani per contenerne la minaccia demografica, con toni ovviamente

cinici ma anche pseudo-razionali, che ricordano molto le tesi di analisti come Henry

Kissinger, Samuel Huntington, Edward Luttwak o dei think thank conservatori, solo con

toni un po’ più espliciti - neppure troppo, per la verità - di quelli usati in dichiarazioni

pubbliche e del tutto in linea con molti documenti riservati desecretati4. La verosimiglianza

è accresciuta dal fatto che solo nella post-fazione conclusiva la George svela l’artificio

letterario, quando oramai il lettore è convinto davvero di aver letto un rapporto segreto

sfuggito di mano, che finalmente gli ha permesso di togliere ogni velo alla realtà e di

comprendere la coerenza di strategie politiche in piena contraddizione con gli intenti

dichiarati dei potenti della Terra, sempre pronti a riempirsi la bocca di belle parole sul

rispetto dei diritti umani e la diffusione di benessere e democrazia.

I precetti del Rapporto Lugano sono stati seguiti abbastanza fedelmente, nel senso che

sfruttamento, traffico di armi, carestie, flagelli sanitari e denutrizione hanno sicuramente

prosperato nell’ultimo decennio; è stata però quasi del tutto ignorata la sezione introduttiva

dell’opera, dove gli esperti ammonivano di operare una vasta opera di risanamento

ambientale del pianeta e, per quanto fosse spiacevole, di regolare il mercato con leggi

chiare e rigide, alla stregua di quanto fece Roosevelt con il New Deal, altrimenti sarebbe

stata inevitabile una crisi finanziaria di proporzioni colossali. Gli analisti del Rapporto, per

quanto strenui sostenitori del capitalismo, si dimostravano molto scettici sulle possibilità di

invertire la rotta e salvare il sistema:

Speculatori, individuali, grandi società, banche, agenzie di intermediazione, fondi pensione e molti altri ricevono tali e tanti benefici dal sistema che non vogliono e non

4Si pensi al National Security Study Memorandum 200, firmato da Henry Kissinger, redatto per l’Amministrazione Ford nel 1974 e desecretato nel 1990, dove di fatto si consiglia di utilizzare il genocidio come mezzo di politica estera per contenere l’espansione dei paesi in via di sviluppo.

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possono prendersi cura del sistema stesso. Gli operatori sono esseri razionali e il mercato si basa su azioni razionali, sulle conoscenze e la partecipazione di tutti coloro che ne fanno parte. In ambito finanziario, però, sono le decisioni del momento ad avere la meglio: i diritti immediati di un operatore prendono il posto della conservazione di quello stesso sistema che li fornisce. Come si possono limitare le tendenze pericolose o prevenire un disastro globale in un contesto del genere?5

Non la stupidità quindi, bensì un eccesso di ‘razionalità economica’ avrebbe spinto gli

operatori sull’orlo del precipizio, dal momento che la speculazione ha creato una sorta di

microcosmo a sé stante incapace di ragionare nel lungo periodo e di rapportarsi con le

problematiche del mondo reale, comprese quelle della ristretta super-classe che prospera

grazie a questo sistema.

Nel 2007, poco prima del ‘big bang’, André Gorz aveva lucidamente descritto i meccanismi

dell’inganno finanziario:

Il denaro stesso è la sola merce che l’industria finanziaria produce con operazioni sempre più azzardate e sempre meno controllabili sui mercati finanziari. La massa di capitale che l’industria finanziaria drena e gestisce supera di gran lunga la massa di capitale che valorizza l’economia reale (il totale degli attivi finanziari rappresenta 160.000 miliardi di dollari, cioè da tre o quattro volte il PIL mondiale). Il ‘valore’ di questo capitale è puramente fittizio: esso riposa in gran parte sull’indebitamento e il good will, cioè su anticipazioni: la Borsa capitalizza la crescita futura, i futuri profitti delle impresa, la futura salita dei prezzi degli immobili, i guadagni che potranno svincolare le ristrutturazioni, fusioni, concentrazioni, ecc. Le quotazioni di Borsa si gonfiano di capitali e dei loro plusvalori futuri, e le famiglie vengono incitate dagli istituti di credito a comprare (tra l’altro) azioni e certificati di investimento immobiliare, ad accelerare così la salita delle quotazioni, a chiedere in prestito alla propria banca somme crescenti mano a mano che aumenta il loro fittizio capitale finanziario. La capitalizzazione delle anticipazioni di profitto e di crescita incoraggia l’indebitamento crescente, alimenta l’economia con liquidità dovuta al riciclaggio bancario di plusvalenze fittizie, e permette agli Stati Uniti una ‘crescita economica’ che, fondata sull’indebitamento interno ed estero, è di gran lunga il principale motore della crescita mondiale (compresa la crescita cinese).6

Di fronte al disastro dell’architettura finanziaria, si sono levate da più parti voci per un

‘ritorno all’economia reale’, in modo assolutamente bipartisan, visto che tale proclama è

stato fatto proprio dalle organizzazioni degli industriali fino all’estrema Sinistra. Secondo il

segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero

La stagnazione dell’economia è il risultato diretto e logico delle politiche restrittive della BCE e dei governi europei. Questi delinquenti che ci governano, trincerandosi

5George 2000, 41-426Gorz 2009, 31-32

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dietro le stupidaggini del neoliberismo diffuse a reti unificate, per difendere i privilegi di banchieri, imprenditori e manager, stanno demolendo l’economia reale, aumentando la disoccupazione e tagliando lo Stato sociale7.

Ne consegue quindi che solo la stoltezza e l’avidità delle classi dirigenti impediscono il

ritorno alla normalità? Che basterebbe sostituire gli ‘stupidi criminali’ con personalità un

po’ più illuminate? Con buona pace di Ferrero, forse per avere un quadro più completo

della situazione è bene rivolgersi alle analisi di marxisti più competenti e documentati.

Il Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES)8, attraverso tre dei suoi

principali ricercatori (Luciano Vasapollo, Rita Tartufi, Joaquin Arriola) ha redatto un

pamphlet ironicamente intitolato Il risveglio dei maiali (chiaro riferimento ai paesi indicati

con l’acronimo PIIGS – Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna – la cui fragilità

economica sta mettendo a rischio l’esistenza stessa dell’Euro). Nell’introduzione dell’opera

viene esposta una teoria della crisi ben diversa da quella presentata correntemente da

media, politici ed economisti, anche perché basata su di un’analisi di lungo periodo e non

solo sul trend degli ultimi anni. Gli ultimi cinquant’anni di storia economica del capitalismo

vengono divisi dagli autori in tre fasi principali:

- una prima fase che va dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio degli anni

Sessanta, dove gli Stati Uniti emergono prepotentemente come maggior potenza

economica mondiale, impegnandosi nella ricostruzione dell’Europa e del Giappone, che

causa i postumi del conflitto non possono proporsi come concorrenti commerciali. È il

momento dell’estensione delle politiche keynesiane alle zone del pianeta sotto l’influenza

statunitense, Italia compresa, dove i lavoratori riescono a concordare con il capitale una

nuova ridistribuzione della ricchezza e maggiori diritti, favorendo così una forte espansione

economica;

- la seconda fase ha inizio a partire dagli anni Sessanta, quando i partner degli USA

diventano dei concorrenti minacciosi e la politica militare, contrassegnata dalle guerre in

Corea e Vietnam, inizia a pesare sul bilancio statunitense. Nel 1971, con un atto

unilaterale, Richard Nixon pone fine alla convertibilità del dollaro in oro, abolendo gli

accordi di Bretton Woods che fin lì avevano retto le sorti dell’economia mondiale; nel 1973,

7http://lnx.paoloferrero.it/blog/?p=3868 8Per comodità nelle pagine successive chiameremo ‘neomarxisti’ il CESTES e gli studiosi di orientamento affine. Rispetto ai marxisti tradizionali cercano di superare la riflessione prettamente operaista e industrialista, aprendosi ai movimenti sociali internazionali soprattutto sudamericani. Solitamente hanno posizioni molto critiche nei confronti dei partiti della Sinistra radicale europea, anche di quelli dichiaratamente comunisti.

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la crisi petrolifera e l’aumento dei prezzi delle materie prime contribuiscono alla recessione

globale;

- la terza fase, iniziata a partire dagli anni Ottanta con la presidenza Reagan, segna l’inizio

della deregulation finanziaria, dello smantellamento del sistema keynesiano-fordista

attraverso le privatizzazioni e della rivalsa del capitale sul lavoratori. Questi ultimi,

subendo manovre come la delocalizzazione produttiva, vedono enormemente ridotti i loro

margini di contrattazione. L’innovazione tecnologica, in particolare la robotica e

l’informatica, ricoprono un ruolo di primo piano in questi processi di divisione

internazionale del lavoro.

Queste tre fasi sono direttamente concatenate tra loro. Negli anni Sessanta, dopo la

ricostruzione post-bellica e la diffusione dello stile di consumo statunitense in Europa e

Giappone (il cosiddetto boom economico), il mercato cominciava a saturarsi perché i

principali prodotti industriali di massa (automobili ed elettrodomestici, in particolare) si

erano oramai diffusi in modo capillare. Si era chiuso un ciclo espansivo e le strutture di

potere capitalistico per mantenere la loro posizione di privilegio dovevano trovare nuovi

mercati oppure una nuova fonte di ricchezza, che venne individuata nella rendita

finanziaria. Per usare la terminologia del sociologo Zygmunt Bauman, si assisteva al

passaggio dalla società ‘solida’ fordista improntata sulla fabbrica a quella ‘liquida’ post-

fordista basata su reti economiche transnazionali, grazie allo sviluppo dell’informatica.

Secondo la visione degli studiosi del CESTES, non ha alcun senso rimpiangere la

‘vecchia, cara economia reale’, perché la finanziarizzazione è stata la logica conseguenza

del tentativo del capitalismo di perpetuare se stesso:

Anche se la crisi attuale si manifesta inizialmente come stallo delle finanze internazionali, come si è visto non è questa la sua causa principale. Le misure per ridurre il peso del mercato monetario internazionale e del credito possono essere parte di un programma di emergenza, ma non rappresentano un’alternativa alla crisi mondiale. L’attuale crisi manifesta, attraverso i suoi aspetti finanziari, la futilità dell’intento del capitale di andare sempre oltre i propri limiti... Nel tentativo, impossibile, vista la sua natura strutturale, di uscire dalla crisi che si protrae ormai da oltre 35 anni, più concretamente di non voler prendere atto e fare i conti con le vere cause sistemiche, i capitalismi internazionali hanno usato la finanza in maniera sovrastrutturale, ma anche sostitutiva in chiave speculativa, per supplire alle forti difficoltà dei processi di accumulazione del capitale. In questo senso si è giunti a una prevalenza e autonomizzazione, fino a un vero dominio, dei processi della finanza speculativa proprio per tentare di recuperare l’insufficiente produzione di plusvalore in relazione alla sovrapproduzione di merci e capitali, o meglio alle loro relazione di valorizzazione, con una significativa crisi di accumulazione del capitale.

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In quest’ottica anche il problema del debito assume una nuova valenza:

L’attuale crisi del capitale, quindi, viene da lontano e mostra la sua strutturalità già dai primi anni ’70, con una tendenza al ristagno, con forti e continue tensioni recessive, in parte attenuate dai ripetuti processi di ricomposizione della localizzazione dei centri di accumulazione mondiale del capitale, con una riduzione temporale dei cicli delle crisi finanziarie, che hanno evidenziato come le diverse forme di indebitamento crescente, interne ed esterne, pubblico e privato, abbiano di fatto garantito la sopravvivenza degli storici centri di accumulazione del capitale del Nord America e dell’Europa Occidentale. Le distinte forme di indebitamento presenti in questa crisi sono il risultato disperato del capitale di prolungare nel tempo la riproduzione di se stesso, mantenendo l’aumento del consumo di massa in relazione all’aumento della produttività del lavoro e la riduzione dei salari e della massa salariale in relazione all’aumento di produttività...È per questo che in un disonesto gioco massmediatico si vuol far credere che l’attuale crisi sia di natura finanziaria e dovuta a un’eccessiva liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati, che ha provocato bolle speculative, finanziarie e immobiliari, e la sostituzione del profitto produttivo ‘buono’ ai guadagni del capitale finanziario ‘cattivo’, con l’eccesso di rendite finanziarie, immobiliari e di posizione9.

È facile quindi comprendere perché il settore finanziario abbia aumentato a dismisura la

propria importanza fino a superare di più di quattro volte (dato del 200710) l’economia

reale. Da una parte le aziende necessitano di liquidità per sostenere gli investimenti,

dall’altra i consumatori hanno bisogno di credito per consolidare il potere d’acquisto, in un

circolo vizioso che per sostenersi invade ogni settore della società umana creando bolle

speculative di ogni genere. Con l’avvento della finanziarizzazione, lo stesso concetto di

impresa ha subito un cambiamento strutturale: da istituzione unitaria complessa, si è

trasformata in una complessa rete di contatti, variabili e rescindibili in ogni momento, dove

il ‘principale’ non è più la proprietà – il ‘padrone’, in stile Henry Ford o Giovanni Agnelli –

ma gli azionisti. Sono subentrati agenti-manager, il cui impegno nell’azienda è

estemporaneo (in genere non durano in carica più di qualche anno), sostenitori della teoria

contrattualistica dell’impresa, in base a cui

ogni contratto va rispettato solo fino a quando sia possibile dimostrare che il rendimento d’una data quota dell’uno o dell’altro sia al minimo pari, e possibilmente superiore, agli standard di mercato. Le imprese debbono rinunciare a esercitare qualsiasi controllo sul capitale fisico, sulla forza lavoro e sul capitale finanziario. Provvede il mercato a fare affluire queste diverse risorse”.11

9Vasapollo, Martufi e Arriola 2011, 29-3110Gallino 2011, 5511Gallino 2009, 109

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In questa visione, l’elemento centrale è il valore di mercato dell’impresa, la sua quotazione

borsistica, mentre passano in secondo piano considerazioni come posizione sul mercato,

innovazione tecnologica, numero di dipendenti, interessi dei lavoratori e della comunità

locale.

L’impresa appare come un fascio accidentale di attivi e passivi che esiste per essere di continuo ri-arrangiato allo scopo di massimizzare il valore per gli azionisti. L’impresa con le sue forze di lavoro sono diventate, in via di principio, oggetti a perdere.12

L’obiettivo principale è quindi la compravendita di azioni, la distribuzione di dividendi e

interessi, l’elargizione di stock options, il tutto a scapito della produzione, dell’innovazione

e dell’adeguamento di salari e condizioni di lavoro: il rendimento a breve termine è

nettamente privilegiato rispetto alle strategie di ampio respiro.

Partendo da questa mission, Luciano Gallino delinea alcuni comportamenti tipici del

mondo imprenditoriale presentati come conseguenze ‘naturali’, accidenti inevitabili

dell’economia globalizzata, e che invece sono predeterminati a tavolino, rivelandosi

quindi profezie che si autoavverano:

- creare divisioni finanziarie dell’impresa, con servizi molto simili a quelli bancari;

- non assumere dipendenti con contratti stabili e assegnare a ditte esterne il maggior

volume di produzione con contratti a termine (nel 2008 oltre il 70% delle nuove

assunzioni è avvenuto con contratti a termine);

- premere per il blocco dei salari;

- chiudere impianti produttivi, indipendentemente dalla loro efficienza.

Tutte queste operazioni presentano un fine comune: aumentare la disponibilità finanziaria

dell’impresa per investimenti speculativi e realizzare ininterrottamente plusvalenze. Ecco

spiegato perché, normalmente, la quotazione del titolo borsistico di un’impresa sale alla

notizia di licenziamenti e chiusura di impianti, in quanto il denaro risparmiato su stipendi e

spese di gestione potrà essere utilizzato per nuovi movimenti finanziari.

Nel quadro della società transnazionale si modifica anche il ruolo dello Stato, in un

quadro che molti commentatori hanno definito come il passaggio dall’era del governo a

12Ibidem, 111

15

Page 16: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

quello della governance13. Nella governance lo Stato abdica alle tradizionali prerogative di

indirizzo politico-economico per diventare il mediatore di interessi rappresentativi di

diverse realtà sociali (in particolare imprese e sindacati), allo scopo di assicurare le

migliori condizioni costi/benefici per i mercati internazionali; in sostanza lo Stato

abbandona il perseguimento dell’interesse generale per una gestione di tipo aziendale

della cosa pubblica.

In definitiva, quel fenomeno che per anni abbiamo chiamato vagamente ‘globalizzazione’

nasce da questi tre elementi – finanziarizzazione e transnazionalizzazione dell’economia,

finanziarizzazione dell’impresa e ridefinizione dello Stato – e la crisi del 2008 rappresenta

il logico esito di questa fase (finale?) del capitalismo. Possiamo quindi rassicurare Padre

Amorth sul fatto che Satana non c’entra nulla, o meglio: la logica stessa del capitale è

intrinsecamente ‘diabolica’ e autodistruttiva senza richiedere alcun intervento aggiuntivo

del Maligno.

Uno squarcio nel velo

Sulla base delle considerazioni fin qui esposte, continuare a sostenere che la crisi

economica internazionale sia iniziata solo alla fine del 2008 suona non solo falso ma

anche fortemente classista e ideologico: si è parlato apertamente di ‘crisi’ solo quando è

stato coinvolto il grande capitalismo finanziario e transnazionale, perché le difficoltà di

lavoratori e piccola impresa erano da tempo preesistenti e la progressiva libera

circolazione delle merci e dei capitali aveva già devastato negli anni Novanta non solo le

fragili economie di stati africani, asiatici e latino-americani, ma persino gli stessi USA, dove

nel 2004 – quando Greenspan e compagnia si compiacevano per la salute e la stabilità

dell’economia mondiale – il tasso di povertà superava il 12% e il Dipartimento del lavoro

segnalava la graduale contrazione dei salari14. Tuttavia, i mass media hanno cominciato

ad allarmarsi solo quando la ristretta ‘super-classe’ composta da meno del 2% della

popolazione mondiale non ha più potuto perpetrare impunemente quello che, di fatto, era

uno stratagemma contabile destinato a scoppiare prima o poi come una bolla di sapone e

c’è da scommettere che la crisi sarà dichiarata ‘conclusa’ non appena tale cerchia avrà

ristabilito con gli interessi i propri privilegi, con buona pace del resto dell’umanità.

13Petrella in Cacciari 2010, 65-6714Chomsky 2007, 240. Bisogna anche fare attenzione ai criteri utilizzati dalle istituzioni per rilevare crescita economica e occupazione. Secondo l’economista John Williams, curatore del sito Web Shadow Government Statistics (www.shadowstats.com), i dati ufficiali del governo USA sarebbero in gran parte mistificatori, e dalle sue analisi si evince che la recessione economica sarebbe iniziata già a partire dalla fine del secondo millennio.

16

Page 17: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

L’analisi neo-marxista del CESTES è molto più completa e accurata di quelle proposte

dagli economisti classici, tuttavia – proprio perché marxista – si concentra quasi

unicamente sulle dinamiche dei flussi economici. È possibile integrarla con altri tipi di

analisi? In particolare, lo stallo dell’economia dovuto alla sovrapproduzione è legato solo

alla ciclicità delle crisi? Quali sono le conseguenze della sovrapproduzione sul pianeta

Terra, forse non più in grado di reggere le pretese produttive capitaliste? Per rispondere a

questa domanda bisogna consultare altre fonti15.

La crisi di un pianeta svuotato

Ugo Bardi, docente presso il Dipartimento di chimica dell’Università di Firenze e membro

dell’ASPO (Association for the Study of Peak Oil, associazione che studia il picco di

produzione del petrolio) nel libro La Terra svuotata affronta con stile divulgativo ma rigore

scientifico il tema dell’esaurimento delle risorse e del futuro energetico dell’umanità. Nel

capitolo intitolato L’ankus del re: la storia dei combustibili fossili, è presente una disamina

storica dell’era industriale condotta con l’occhio dell’esperto energetico che, se integrata

con la valutazione economica neomarxista, permette di trarre alcune importanti

conclusioni.

La fase storica keynesiana della ricostruzione post-bellica e del boom economico coincide

con la disponibilità di immense risorse petrolifere a buon mercato, sia per la pressione

esercitata sui paesi produttori (alcuni dei quali ancora sotto il giogo coloniale europeo) sia

per l’abbondanza e la facilità di estrazione degli idrocarburi. Solo un geologo molto

lungimirante, Marion King Hubbert, capì che abbondanza non significa infinità e cominciò

a elaborare un modello teorico (noto come Picco di Hubbert) in base al quale si prevedeva

che l’estrazione di greggio degli USA avrebbe raggiunto l’apice nel 1970 per poi crollare:

previsione che effettivamente si avverò.

15I neomarxisti non sono affatto privi di sensibilità ecologica, ma tendono a ridurre il problema ambientale all’interno del conflitto capitale-lavoro. Ne Il risveglio dei maiali, a pagina 33, troviamo scritto: “Si può dissentire sul fatto che il consumo intensivo di materie abbia gravissime conseguenze sulla salute del pianeta, come affermano i sostenitori della ‘crescita zero’ (vengono citati il Club di Roma, Latouche e Georgescu-Roegen, n.d.r.)... Tuttavia, è indubbio che l’utilizzo di criteri di mercato nella gestione di queste risorse sia apparentemente irrazionale”. Questa affermazione contiene due errori di fondo: il primo è che il Club di Roma o Georgescu-Roegen hanno elaborato analisi sulla base di evidenze scientifiche, da cui si può dissentire solo esponendo dati altrettanto concreti; nel caso specifico delle risorse planetarie, il compito è abbastanza arduo perché bisogna confutare le leggi dell’entropia e della termodinamica. Inoltre lo sfruttamento intensivo degli ecosistemi è sempre dannoso, a prescindere che a guidarlo siano logiche di mercato, socialiste, collettiviste o di altro tipo. La scomparsa del Lago Aral e i rovinosi disastri ecologici perpetrati nella Cina maoista contro i ‘quattro flagelli’ ne sono una chiara testimonianza.

17

Page 18: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

All’inizio degli anni Settanta, nella seconda fase indicata neomarxisti, quella della

sovrapproduzione e della stagnazione, gli USA si ritrovarono quindi privi di un’importante

fonte di approvvigionamento, situazione che peggiorò nel 1973 quando – così almeno

racconta la vulgata storica – i paesi arabi chiusero i rubinetti del petrolio agli occidentali

per protestare contro l’appoggio accordato a Israele nella cosiddetta Guerra del Kippur

con l’Egitto. Le riflessioni di Bardi permettono di vedere l’intero fenomeno della crisi

petrolifera sotto una nuova luce:

La crisi petrolifera del 1973 prese un po’ tutti alla sprovvista; ma per chi sapeva guardare non era affatto inaspettata. Già negli anni Sessanta, Pierre Wack, analista della Shell, aveva cominciato a ragionare sulla possibilità di una scarsità petrolifera imminente. Wack non usava la teoria di Hubbert che, probabilmente, nessuno conosceva. Studiava però gli stessi fenomeni con un metodo che era stato sviluppato in campo militare da Herman Kahn della Rand Corporation. Si chiamava “scenario planning”, detto anche “pensare l’impensabile”. Questo metodo non è quantitativo, ma è un modo per essere preparati davanti a eventi improvvisi; come devono fare, in effetti, i militari. Con i suoi scenari, nel 1972 Wack fu in grado di allertare i dirigenti della Shell che all’orizzonte c’era qualcosa di brutto che si preparava...Nel 1973, i nodi vennero al pettine. Quell’anno, i prezzi del petrolio greggio schizzarono verso l’alto con la causa scatenante che fu la “guerra del Kippur” fra arabi e israeliani. Ne seguì il famoso embargo dell’OPEC; l’organizzazione dei paesi produttori petroliferi. L’embargo focalizzò l’attenzione di tutti sulla dimensione politica della crisi ma, in realtà, la questione politica rimase sempre marginale nell’influenzare la disponibilità di petrolio16.

Cessato l’embargo, la decadenza produttiva durò circa dieci anni raggiungendo l’apice con

la rivoluzione iraniana del 1979, una crisi politica che tra il 1978 e il 1980 portò alla

sparizione del 6% della produzione mondiale. Negli anni Ottanta – terza fase del modello

neomarxista, quella neoliberale – grazie alla riammissione della quota produttiva iraniana

e all’innovazione tecnologica, che permise di effettuare perforazioni a profondità maggiori

e di sfruttare nuovi pozzi come quelli situati nel mare del Nord, la produzione cominciò

gradualmente a risalire, per poi scendere nuovamente:

...Già oggi, nel 2011, possiamo dire che qualcosa si è verificato con il petrolio verso il 2004-2005 che ha interrotto una crescita che, sia pure con qualche sussulto, era continuata fin dalla fine della prima crisi petrolifera... Dal 2004 al 2011 la curva di produzione petrolifera mondiale è sostanzialmente piatta.Invece i prezzi non sono stati assolutamente costanti in questi anni. Anche qui, qualcosa sembra essere successo verso la fine degli anni Novanta che ha dato inizio a una rampa di aumenti che è partita da un valore intorno ai 20 dollari al barile e ha

16Bardi 2011, 128-129

18

Page 19: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

portato gradualmente a culminare nel massimo storico del barile che è arrivato a quasi 150 dollari nell’estate del 2008. Il prezzo si è poi abbassato bruscamente, scendendo fino a sotto i 40 dollari al barile per poi risalire oltre i cento dollari al barile nel 2010. Un secondo ciclo di crollo dei prezzi sembra essere in corso al momento (metà del 2011). Tutti questi sconvolgimenti indicano che il picco è vicino o forse già arrivato17.

La tempistica è importante: la produzione di petrolio giunge al culmine nel 2004-2005

mentre il prezzo schizza alle stelle nel 2008, cioè proprio nell’anno della grande crisi. È

bene precisare che, vivendo in una società basata sui risorse fossili, non dobbiamo

pensare al suo utilizzo solo come combustibile, ma anche come fonte di materie prime

(plastica e nylon), di fertilizzanti e pesticidi; essendo la moderna agricoltura industriale

basata sulla meccanizzazione e sui fertilizzanti derivati dagli idrocarburi, in un certo senso

‘mangiamo petrolio’ e non può essere una coincidenza che anche la recente crisi

alimentare si sia verificata nel periodo 2006-2008. L’Oil Market Report 2011 della Agenzia

Internazionale dell'Energia (IEA) ha confermato le constatazioni dell’accademico italiano,

sottolineando come da più di un anno e mezzo il mondo stia consumando

approssimativamente un milione di barili di petrolio in più di quelli che produce.

Bardi, insieme al fisico Marco Pagani, si è interessato anche al picco di estrazione dei

minerali e i risultati dei loro studi sono stati resi noti su di un articolo 18 pubblicato su The

Oil Drum: dalla loro ricerca condotta sui database della United States Geological Survey

(USGS), si deduce che alcuni metalli come il piombo e il mercurio hanno già raggiunto da

molti anni il picco di estrazione (nel 1986 per il piombo e addirittura nel 1962 per il 17Ibidem, 134-13518Peak Minerals, disponibile on line all’URL http://europe.theoildrum.com/node/3086

19

Grafico 1

Produzione

mondiale di

petrolio

(fonte: ASPO

Italia)

Page 20: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

mercurio), mentre molti materiali utilizzati come semiconduttori in campo elettronico,

elettrotecnico e informatico – tellurio, cadmio, renio, gallio - lo hanno registrato tra gli anni

Ottanta e Novanta; la produzione di ferro sarebbe stabile dalla metà degli anni Ottanta. A

suffragare i dati di Bardi e Pagani, il 13 maggio 2010 l’UNEP (United Nations Environment

Programme, Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente) ha diramato un comunicato

stampa19 in cui si sollecitano i governi a intraprendere opportune misure per il riciclaggio

dei metalli e delle cosiddette ‘terre rare’, molto impiegate nell’industria high-tech.

Da questo punto di vista anche l’energia nucleare, che molti presunti esperti celebrano

quale fonte infinita di energia, si trova ad arrancare. I dati della World Nuclear Association

(WNA) segnalano che la produzione di uranio si aggira sulle 55.000 tonnellate annue,

contro una domanda di 67.000, la cui differenza oggi viene coperta da sorgenti secondarie

come l'arricchimento di uranio impoverito, il riprocessamento del combustibile esaurito

(una tecnica molto pericolosa sul piano ambientale e militare, perché consente di separare

il plutonio e riciclarlo per scopi bellici) o il prelievo da armi dotate di testate nucleari: è

bene premettere che, anche se queste venissero smantellate completamente per uso

civile, questo apporto extra di uranio non durerebbe più di quattro anni. Per tali ragioni, il

contributo dalle miniere è imprescindibile. La WNA ha stabilito due range principali (definiti

‘commerciali’), a seconda che il prezzo per estrarre l’uranio superi gli $80/Kg o i $130/Kg:

della prima qualità ne sarebbero rimasti 2,5 milioni di tonnellate, della seconda 5,4 milioni

di tonnellate, che significherebbero rispettivamente 45 e 100 anni circa di autonomia,

considerando la produzione e i consumi attuali. Se, come propongono alcuni piani

energetici, il ricorso al nucleare raddoppiasse, le stime andrebbero dimezzate.

Osservando il grafico 2 (elaborazione EWG basati sui dati della AIEA, Agenzia

Internazionale per l’Energia Atomica) è facile constatare come il picco della produzione di

uranio sia stato già raggiunto negli anni Ottanta.

19www.unep.org/Documents.Multilingual/Default.asp?DocumentID=624&ArticleID=6564&l=en&t=long

20

Page 21: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Il prezzo commerciale dell’uranio ha registro inoltre fluttuazioni abbastanza anomale nel

corso degli ultimi anni, simili a quelle che hanno interessato il petrolio. Nel 2007, prima che

la crisi provocasse il crollo dei prezzi di molte materie prime, il diossido di uranio aveva

raggiunto la cifra record di $140 a libbra (circa $60 a Kg), per poi scendere fino ad

assestarsi sui $60 a libbra ($27 a Kg). Eppure, all’inizio del 2000, il prezzo era dieci volte

più basso, intorno ai $5-10 a libbra. Se davvero dovesse verificarsi il ‘rinascimento atomico

internazionale’ sostenuto da molte lobby energetiche – poco probabile per la verità, dopo

la catastrofe di Fukushima - è scontato che l’aumento della domanda provocherebbe un

rialzo dei prezzi verso la soglia di limite di $80 a kg.

In ogni caso c’è poco da recriminare, perché il nucleare come alternativa al petrolio è un

luogo comune non suffragato dai fatti: secondo il Word Oil and Gas Review 2010 dell’ENI

un paese come l’Italia, che non utilizza per nulla energia atomica, ha un consumo di

petrolio pro capite (9,40 barili annui) inferiore a quello di paesi nuclearizzati come la

Germania (10,84), il Giappone (12,47) e persino della tanto decantata Francia (10,96)20.

È molto importante non confondere il concetto di ‘picco’ con quello di ‘esaurimento’. Se in

passato si è riusciti a ovviare al calo della produzione di una materia prima, come

accaduto per il petrolio negli anni Ottanta, ciò è avvenuto o perché sono stati scoperti

nuovi giacimenti oppure – quel che avviene oggi nella maggior parte dei casi - perché i

20Ne consegue che i sostenitori del nucleare i quali, all’indomani dell’incidente della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, gridavano ‘meglio il nucleare’ (come scrisse Chicco Testa su Il Riformista) decantandolo come antagonista del petrolio erano ignoranti o in cattiva fede. E tra questi, oltre a Umberto Veronesi (massimo testimonial dell’atomo in Italia), comparivano alcuni accademici specializzati in fisica nucleare come Carlo Bernardini professore emerito di Fisica Università di Roma - Direttore di Sapere, Carlo Artioli ingegnere nucleare Enea e docente Master Nucleare Bologna, Sandro Paci Università di Pisa - docente di Impianti Nucleari, Davide Giusti ingegnere nucleare Enea - docente Master Nucleare Bologna, Domiziano Mostacci ingegnere nucleare - docente Università di Bologna, Giuseppe Gherardi - ingegnere nucleare Enea, tutti firmatari della lettera aperta al PD in favore del nucleare pubblicata nel maggio 2010 su Il Riformista e Il Corriere della Sera.

21

Grafico 2

Page 22: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

miglioramenti tecnologici hanno permesso o l’estrazione da minerali a minor

concentrazione di materia o la perforazione del terreno a profondità maggiori. Tuttavia, ciò

richiede un maggior investimento economico ed energetico, nonché un’attività più invasiva

nei confronti degli ecosistemi, con tutti i rischi connessi21. La Deepwater Horizon, la

piattaforma petrolifera della BP al largo del Golfo del Messico tragicamente nota per il più

grave disastro ambientale della storia americana, estraeva petrolio a una profondità di

1500 metri, e c’è chi malgrado tutto propone di realizzare pozzi off-shore per profondità

ancora maggiori.

Ma il rischio più grande non deriva forse da queste gravi delitti ecologici, che se non altro

ravvedono momentaneamente la coscienza di politici e cittadini, bensì dai tanti e quotidiani

crimini ambientali di minor portata spesso esaltati come miracoli del progresso scientifico.

Tra questi la tecnica della fratturazione idraulica o fracking – brevettata dalla Halliburton –

consistente nel pompaggio di enormi quantità di acqua e sostanze chimiche nelle

formazioni rocciose per aumentare l'estrazione e il tasso di recupero del petrolio e del gas

naturale contenuti nel giacimento, con grave contaminazione di suolo e falde22. Oppure

pensiamo all’estrazione di petrolio dagli scisti bituminosi, praticata in Canada e Venezuela:

per ogni barile di petrolio ricavato sono necessarie ben 2 tonnellate di sabbia, 7 barili

d’acqua e complessi procedimenti chimici per la raffinazione, tutte operazioni molto

onerose per l’ambiente, con il risultato finale che il ritorno dell’investimento energetico

(cioè il rapporto tra l’energia ricavata e quella consumata, convenzionalmente indicata con

l’acronimo EROEI) spesso è inferiore a 1, quando quello del petrolio estratto in modo

convenzionale è stato sempre almeno superiore a 10.

Il nucleare presenta problemi simili: il fisico olandese Jan Willem Storm van Leeuwen ha

dimostrato che, sfruttando minerali a minor concentrazione di uranio, diminuisce l’EROEI e

aumentano le emissioni di CO₂ per l’estrazione finché le emissioni per ricavare il

combustibile di una centrale atomica eguagliano o superano quelle delle centrali a

turbogas23.

21Bardi 2011, 9322Vietato in molte nazioni, il fracking è balzato agli onori della cronaca in Italia dopo un articolo entusiastico di Massimo Mucchetti apparso sul Corriere della Sera (Alcune domande su Eni e Mosca Perché si vuole raddoppiare le onerose importazioni quando c’è tanto gas più conveniente?, 3 dicembre 2010), dove veniva così presentato: “...In America inizia una rivoluzione tecnologica che rende abbondante il gas, e dunque riduce in prospettiva la centralità dei fornitori storici, Russia, Algeria e Libia. Nel 2005 si producono le prime quantità di shale gas, gas estratto da rocce scistose, tipiche del sottosuolo delle zone ex carbonifere, attraverso potenti getti d'acqua mista a solventi. In tre anni questo gas non convenzionale emancipa gli Usa dalle importazioni e fa crollare i prezzi sul mercato spot alla metà di quelli take or pay”.23Baracca e Ferrari Ruffini 2011, 186

22

Page 23: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Ma all’appello troviamo anche molte soluzioni spacciate per ambientaliste: l’ONU ha

dichiarato ‘crimine contro l’umanità’ le coltivazioni destinate alla produzione di

biocarburanti – altra soluzione propagandata come panacea - una rapina di suolo agricolo

che ottiene solo lo scopo di affamare i popoli, peggiorare la salute del pianeta e contribuire

poco o niente alla soluzione del deficit energetico.

Se il progressivo esaurimento delle materie inorganiche è preoccupante, quello delle

risorse biologiche lo è ancora di più. Secondo la FAO, nonostante lo sviluppo tecnologico

– o forse sarebbe meglio dire a causa di esso - il 60% degli ecosistemi mondiali sono

ormai degradati o vengono utilizzati secondo modalità non sostenibili, il 75% degli stock

ittici sono troppo sfruttati o impoveriti in modo eccessivo e dal 1990 si è assistito alla

perdita di circa il 75 % della diversità genetica delle colture agricole a livello mondiale. E il

Global Forest Resources Assessment 2010 ci informa che oramai solo il 31% della

superficie terrestre è ancora coperto da foreste.

Una visione post-marxista per l’economia, la società e l’ambiente

Integrando le considerazioni neomarxiste con le ricerche degli studiosi del picco delle

risorse, si scopre che le recenti crisi economiche mondiali sono legate non solo alla

sovrapproduzione e alla stagnazione della domanda, ma anche a uno sfruttamento troppo

intensivo delle risorse naturali. La rivoluzione tecnologica a partire dagli anni Settanta,

oltre ad aumentare la produttività e a promuovere una divisione internazionale del lavoro,

ha reso più efficiente l’utilizzo delle materie prime e, soprattutto, ha perfezionato le

tecniche di estrazione consentendo di attingere da nuove risorse; tuttavia ciò non è stato a

costo zero, dal momento che ha richiesto maggior dispendio energetico – provocando

quindi maggior inquinamento – e una costante opera vessatoria nei confronti

dell’ambiente. Pertanto bisogna chiedersi: la crisi che stiamo vivendo è solo una delle

tante, cicliche, che affliggono periodicamente il capitalismo, oppure è la crisi definitiva del

sistema dovuta in gran parte a considerazioni extra-economiche legate alla salute del

pianeta?

Solo le generazioni future potranno rispondere alla domanda, tuttavia molti indizi fanno

pensare che la seconda opzione sia quella più probabile. Vediamone alcuni, che vanno ad

aggiungersi a quelli esposti in precedenza:

23

Page 24: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

- ancora nel negli anni Settanta esistevano molte ‘terre vergini’ (per riprendere

un’espressione di Rosa Luxemburg) non intaccate dal capitalismo, sia sotto forma di

potenziali consumatori (i popoli dei paesi comunisti e di quelli in via di sviluppo) sia di terre

da perforare, coltivare o edificare. Oggi invece tutte le nazioni del pianeta partecipano più

o meno intensamente al processo di globalizzazione economica, e anche nei paesi più

poveri sono comparse élite borghesi che tentano di imitare gli stili di vita occidentale,

sogno irraggiungibile per il resto della popolazione; la Terra è stata scandagliata in ogni

parte alla ricerca di petrolio e materie prime e per sfruttare gli unici giacimenti di una certa

entità si rischiano gravi catastrofi ecologiche;

- la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è aumentata del 35% in soli due

secoli (di cui il 10% negli ultimi 15 anni), passando da 280 a 380 parti per milione (ppm), il

più alto livello non solo degli ultimi 950 mila anni ma probabilmente dal Miocene, cioè da

20 milioni di anni a questa parte. I climatologi dell’IPCC (Gruppo intergovernativo di esperti

sul cambiamento climatico, attivo in seno all’ONU) sono concordi nel sostenere che

oltrepassare la soglia dei 450 ppm porterebbe a conseguenze disastrose e probabilmente

irreversibili;

- la prepotente ascesa economica della Cina, che in pochi anni è diventata la seconda

potenza economica mondiale, ha destabilizzato non poco l’assetto geopolitico mondiale,

anche perché i cinesi hanno cominciato ad attuare una sorta di ‘colonialismo dal volto

umano’ nei confronti di molti paesi africani (Angola, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale,

Kenya, Libia, Mauritania, Niger, Nigeria e Sudan, dove la politica cinese è stata

corresponsabile della crisi del Darfur) basato sulla cooperazione economica - vendita di

armi compresa - in cambio dell’accesso alle materie prime. Ciò ovviamente ha provocato

un irrigidimento degli USA, i quali non tollerano la presenza di un altro attore globale di

pari portata e dopo gli interventi armati in Afghanistan, in Iraq e in Libia hanno rafforzato la

presenza dell’AFRICOM, il contingente militare statunitense in Africa. La dichiarazione del

presidente cinese Hu Jintao che il 7 dicembre 2011, davanti alla Commissione militare

centrale, ha esortato la Marina a “proseguire la propria modernizzazione” e a “essere

pronta alla guerra, per salvaguardare la sicurezza nazionale e la pace”24 si può

interpretare come una semplice minaccia diretta agli USA affinché rinuncino a operazioni

militari come l’aggressione all’Iran, ma non è comunque da sottovalutare25. Anche se

24http://www.asianews.it/notizie-it/Hu-Jintao-alla-Marina-militare:-Preparatevi-alla-guerra-23380.html25L’istituto di ricerca PNAC (Project for the New American Century), un think thank ideologicamente affine ai cosiddetti neoconservatori, gruppo politicamente dominante dell’amministrazione Bush (si pensi a Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz) aveva elaborato un documento intitolato Rebuilding America's Defences: Strategies, Forces And Resources for a New Century, dove si auspicava un aumento della spesa militare e il riposizionamento delle forze armate statunitensi dall’Europa al Pacifico in funzione anti-cinese.

24

Page 25: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

spesso le guerre e il keynesismo militare hanno contribuito alla soluzione di crisi

economiche, un conflitto USA-Cina con o senza possibili risvolti nucleari non sembra

affatto auspicabile;

- al di là dell’ottimismo ostentato dai capi di governo – come la crescita del 10% annua del

PIL promessa da Mario Monti partecipando alla trasmissione Otto e mezzo – i vertici

dell’economia mondiale sono sempre più scettici riguardo alle possibilità di ripresa. Il

World Economic Outlook 2011 del Fondo Monetario Internazionale delinea il rallentamento

a breve della crescita mondiale, prospettando per i paesi avanzati un tasso (definito

‘anemico’ dagli economisti del FMI) del 2% o meno e paventa ulteriori stagnazioni a causa

dell’aumento del prezzo del petrolio; la stessa preoccupazione si ritrova nel rapporto

Energy in 2050 di HSBC (banca inglese, seconda azienda mondiale in termini di asset).

Sulla base di tutto ciò, se ci troviamo veramente di fronte a una fase storica nuova che

chiede di essere affrontata con visioni politiche ed economiche diverse da quelle

tradizionali, quali devono essere i nuovi punti di riferimento? Prima di rispondere a questa

domanda, conviene demolire una volta per sempre alcune convinzioni tanto radicate

nell’opinione pubblica quanto pericolose e fallimentari.

25

Page 26: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

SECONDA PARTE

DISTRUGGERE GLI IDOLI PROGRESSISTI

“Tutti i miei mezzi sono sensati; le mie motivazioni e i miei obiettivi sono folli”(frase pronunciata dal Capitano Achab nel romanzo Moby Dick di Herman Melville)

Il filosofo inglese Francesco Bacone chiamava ‘idoli’ (idola) quei pregiudizi senza

combattere i quali è impossibile una reale conoscenza della natura.

In questa sede tenteremo di demolire tre importanti idoli ancora riveriti da molte persone di

fede progressista – crescita economica, sviluppo sostenibile e socialdemocrazia -

ricercando di dimostrare non solo la loro inadeguatezza per affrontare le sfide della realtà

attuale ma per evidenziare come, ben lungi dall’essere soluzioni, siano essi stessi una

causa rilevante dei problemi che affliggono la società contemporanea.

26

Page 27: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Crescita economica

La crescita dell’economia è sicuramente il dogma che ha contrassegnato non solo lo

sviluppo capitalistico in tutte le sue declinazioni – liberismo, keynesismo, socialdemocrazia

- ma tutta l’epoca successiva alla rivoluzione industriale, compreso il socialismo reale che

da questo punto di vista non aveva nulla da invidiare al capitalismo. Nel discorso alla

nazione del 17 novembre 1935, tessendo le lodi dello stakhanovismo, Stalin ritiene né più

né meno rispetto alla concezione capitalista che il benessere consista nella produttività e

nell’accaparramento di merci:

Si è già detto qui che il movimento stakhanovista, come espressione di norme tecniche nuove, più elevate, rappresenta un modello di quell'alta produttività dei lavoro che soltanto il socialismo può dare e che non può dare il capitalismo. È del tutto giusto. Perché il capitalismo sconfisse e sorpassò il feudalesimo? Perché creò norme più alte di produttività del lavoro, perché dette alla società la possibilità di ottenere prodotti in quantità incomparabilmente maggiore che non sotto il regime feudale. Perché rese la società più ricca. Perché può e deve il socialismo vincere e inevitabilmente vincerà il sistema economico capitalista? Perché può dare forme più alte di lavoro, una produttività del lavoro più elevata che non il sistema economico capitalista. Perché può dare alla società una quantità maggiore di prodotti e rendere la società più ricca di quanto essa non sia nel sistema economico capitalista.

Oggi siamo tutti concordi nel condannare la follia criminale di Stalin, eppure rimaniamo

imperturbabili ed anzi applaudiamo chi, in nome di altre ideologie, ripete deliri analoghi

ben spalleggiato dai media, i quali ricoprono un ruolo fondamentale nell’influenzare

strumentalmente l’opinione pubblica. Gli esempi sono innumerevoli e per brevità ci

limitiamo a presentarne alcuni tra i più bizzarri. Su una pagina del giornale on line

blitzquotidiano (www.blitzquotidiano.it) è possibile trovare questo titolo: “La Merkel

spaventa gli Usa e il mondo”26. Che cosa stava minacciando la cancelliera tedesca: forse

la militarizzazione dei confini? Il ripristino delle leggi razziali e dei campi di sterminio? La

guerra atomica? Molto peggio, come riportava il sottotitolo: “Niente stimoli alla crescita”.

Gli USA e il resto del mondo, molto apatici quando gli scienziati prevedono sconvolgimenti

ecologici planetari, sarebbero rimasti attoniti e sgomenti di fronte a questa decisione

'scioccante' della statista tedesca.

L’organo ufficiale degli industriali italiani, Il Sole 24 Ore, compete assolutamente alla pari.

Il 31 marzo 2010 le sue pagine ospitavano l’opinione illuminata di Giorgio Squinzi – attuale

presidente di Confindustria e Amministratore Unico di Mapei, all’epoca numero uno di

26www.blitzquotidiano.it/economia/wall-street-merkel-crescita-stimoli-inflazione-crisi-416546/

27

Page 28: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Federchimica – espressa in un summit sul Made in Italy: “L'Italia deve tornare

all'ossessione per la crescita” tipica degli anni Cinquanta e Sessanta. Testuali parole, ha

proprio usato il termine ‘ossessione’, che indica un atteggiamento compulsivo e irrazionale

al limite del patologico, da curare con assistenza psicologica. Eppure non solo nessuno

dei presenti si è sentito in dovere di chiamare d’urgenza la neurodeliri ma Il Sole 24 Ore

l’ha presentato come un fatto positivo e degno della massima approvazione. Anche i nuovi

quadri dell’associazione sembrano già ben instradati per rimpiazzare degnamente i

membri più anziani: “Senza crescita si muore” è stato infatti il lugubre ammonimento di

Federica Guidi, presidente dei Giovani imprenditori, contenuto nella sua relazione al

quarantesimo convegno dei giovani industriali

Confindustria ha spiegato a più riprese che la crescita non è ‘né di Destra né di Sinistra’, e

purtroppo sembra difficile darle torto. “La crescita e lo sviluppo sono l’unico modo per

risanare i conti pubblici e trovare la via della ripresa”, è un giudizio con cui sicuramente

concorderebbero gli industriali, peccato si debba al Segretario Confederale della CGIL,

Danilo Barbi27. Il maggior sindacato italiano ha addirittura dedicato uno sciopero generale,

indetto il 6 maggio 2011, sulla necessità di crescere. Inutile soffermarsi sull’importanza

attribuita dalla Sinistra liberal desiderosa di cavalcare il vento liberista - pardon, ‘riformista’

- ma anche nell’ultra-Sinistra la situazione non è particolarmente migliore.

Non si può certo sospettare il comunista Oliviero Diliberto di simpatie per la grande

industria o il liberismo, tuttavia deve condividerne alcuni principi fondamentali. Altrimenti

come spiegare la seguente dichiarazione, rilasciata nel 2005 in un’intervista al Corriere:

“Ai mercati vorrei dire che il paese con la crescita economica maggiore è la Cina

comunista”, come se questa fosse un esempio da seguire?

Per finire, persino alcuni intellettuali non mainstream che vogliono farsi portavoce dei

movimenti popolari sorti dopo l’acuirsi della crisi – spesso indicati con il nome di ‘Indignati’

- sostengono la stessa posizione ideologica. Ad esempio Loretta Napoleoni:

...il cambiamento di cui abbiamo bisogno non è la promessa di far quadrare il bilancio, né la riorganizzazione dei conti dello Stato attraverso lo spostamento di alcune voci da un titolo di spesa a un altro, neppure la riduzione di alcune di queste ultime. Ciò che i mercati domandano è la ripresa della crescita economica. E guarda caso e proprio ciò che invoca la popolazione europea28.

27www.cgil.it/tematiche/Documento.aspx?ARG=ECON&TAB=0&ID=16520 28Napoleoni 2011, 166

28

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Non si capisce allora l’accanimento degli Indignati contro con i vari Draghi, Trichet e Monti,

visto che questi non fanno altro che ripetere all’unisono la loro volontà di sostenere la

crescita.

Per finire in bellezza, è giusto lasciare l’ultima parola alla massima istituzione nazionale, il

presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e al suo stringente appello per “forzare la

crescita”29, quasi si potesse minacciarla e sottometterla ai nostri voleri.

La crudele dittatura del PIL

Ma che cosa si cela dietro l’espressione ‘crescita economica’? Di fatto si intende l’aumento

del Prodotto Interno Lordo (PIL), osannato come indicatore universale di benessere

economico. Il PIL solitamente viene definito come il valore complessivo di beni e servizi

prodotti all'interno di un paese in un anno, una definizione molto asettica e impropria

perché all’incremento del PIL contribuiscono fattori per nulla positivi. Lo ha spiegato molto

bene Robert Kennedy in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici:

Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle […]. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. […] Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.30

Per completezza di informazione, anche la criminalità partecipa in modo massiccio alla

crescita del PIL: secondo alcuni studiosi in Italia le mafie contribuiscono circa per il 7%.

Ma anche le catastrofi naturali danno un enorme apporto, fino al sospetto che in certi casi

29Napolitano: forzare la crescita, Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2011 30Discorso tenuto il 18 marzo 1968 presso l’università del Kansas

29

Page 30: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

vengano agevolate per consentire lucrose opere di ricostruzione31. L’imprenditore

Francesco De Vito Piscicelli, famoso per essere stato intercettato al telefono mentre rideva

di gusto pensando alle lucrose opportunità offerte dal terremoto che in quel momento

stava sconvolgendo L’Aquila, è stato additato come un mostro di cinismo invece di

presentarlo per quello che era realmente: un businessman che aveva interiorizzato in

modo fin troppo diligente l’ideologia economica dominante.

Con ben altre motivazioni, sindacati e partiti di Sinistra sostengono la necessità di

aumentare il PIL perché l’aumento di reddito consentirebbe di allargare la base imponibile

(con cui sovvenzionare i servizi al cittadino) ma soprattutto permetterebbe di fronteggiare

la disoccupazione, secondo il ragionamento: più produttività = più posti di lavoro. Tale

equazione – talvolta chiamata ‘effetto cascata’ - considerata una verità auto-dimostrata da

tutti, dai liberisti più sfrenati ai comunisti più irriducibili, poteva essere valido nella vecchia

società fordista, ma riproporla oggi significa affermare una colossale menzogna:

In un mondo nel quale il progresso tecnologico promette un incremento drammatico della produttività e della produzione aggregata, marginalizzando o eliminando dal mercato milioni di lavoratori, l'«effetto a cascata» sembra un'ingenuità, se non una vera stupidaggine. Continuare ad affidarsi a un obsoleto paradigma della teoria economica in un'era post-industriale e post-terziario rischia di essere disastroso per l'economia nel suo complesso e per la stessa civiltà del XXI secolo.Mentre l'idea dell'«effetto a cascata» della tecnologia ha dominato il pensiero dei grandi imprenditori e dei rappresentanti istituzionali per la maggior parte del secolo, è stata un'altra visione del ruolo della tecnologia a catturare l'immaginazione del pubblico. Se gli imprenditori hanno sempre considerato le tecnologie come un mezzo per generare incrementi nella produzione, maggiori profitti e più occupazione, il pubblico ha coltivato un'immagine diversa: quella che un giorno le tecnologie sostituiranno la manodopera e renderanno l'uomo libero in un mondo migliore. La fonte della loro ispirazione non sono stati gli scritti asciutti e tecnici degli economisti, ma la pletora dei romanzieri e degli scrittori di saggistica popolare che, con le loro vivide descrizioni di un futuro paradiso tecnologico, libero dal lavoro e dalla fatica, hanno agito come un magnete, guidando il pellegrinaggio di intere generazioni verso quello che si credeva fosse il nuovo paradiso terrestre.Ora, alla vigilia della rivoluzione delle alte tecnologie, queste due idee molto differenti del rapporto tra tecnologia e lavoro stanno entrando sempre più in conflitto. La domanda è se le tecnologie della Terza rivoluzione industriale esaudiranno il sogno degli economisti di produzione e profitti infiniti o quello della gente di un futuro migliore. La risposta a questa domanda dipende, in larga misura, da quale di queste due visioni del futuro dell'umanità avrà la capacità di radunare sotto di sé le forze, il talento e la passione delle prossime generazioni...Oggi molte persone trovano difficile comprendere come il computer e le altre tecnologie introdotte dalla rivoluzione informatica - che avevano sperato fossero in grado di liberarli - possano invece essersi trasformati in un mostro meccanico che

31Nel libro Shock Economy Naomi Klein teorizza che le aziende multinazionali e i loro sostenitori politici promuovano un vero e proprio ‘capitalismo dei disastri’.

30

Page 31: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

deprime i salari, distrugge l'occupazione e minaccia la stessa sopravvivenza di molti lavoratori. Ai lavoratori americani era stato fatto credere che, diventando sempre più produttivi, sarebbero riusciti a liberarsi dalla schiavitù del lavoro; ora, per la prima volta, si sta dicendo loro che spesso gli aumenti di produttività non provocano aumenti del tempo libero, ma code all'ufficio di collocamento32.

Solo per riportare alcuni dati concreti, nel febbraio-marzo 2010 la Commissione europea

ha calcolato per la UE un aumento del PIL pari allo 1% - superiore a quello stimato, lo

0,7% - mentre contemporaneamente l’Eurostat registrava una disoccupazione stabile

intorno al 10%. Nello stesso anno la Germania, locomotiva della crescita europea, a fine

giugno segnava un +3,7% rispetto all’anno precedente e contemporaneamente 134.800

lavoratori tedeschi del comparto industriale perdevano il posto33. Gli USA addirittura hanno

chiuso l’ultimo trimestre del 2009 con una crescita netta del 5,7%, ma il Dipartimento del

lavoro nel gennaio 2010 ha constato solo un lieve rallentamento del trend negativo, non

una ripresa dell’occupazione.

Ma l’Europa e gli USA rappresentano il ‘vecchio’ mondo incapace di affrontare le sfide

dell’economia attuale, per cui forse è più corretto concentrare l’attenzione sull’inarrestabile

ascesa dei paesi del cosiddetto BRIC, ossia Brasile, Russia, India e Cina. Ecco le

percentuali relative alla disoccupazione nel 200934, confrontate con la crescita economica

media annua del quinquennio 2004-2009:

NAZIONE CRESCITA DISOCCUPAZIONEBrasile 3,5% 8,3%Russia 3,9% 8,2%India 8,3% 4,4%Cina 11,4% 4,3%

Se Brasile e Russia destano preoccupazione, perché presentano dati sulla

disoccupazione non molto dissimili da quelli della zona Euro (9,4%) - che però, si badi

bene, è cresciuta solo dello 0,8% - i due giganti asiatici sembrano confermare gli assunti

tradizionali. In realtà, basta non fermarsi alla superficie per scoprire una verità

sconcertante: India e Cina possono vantare una disoccupazione relativamente bassa

perché, per molti aspetti, sono ancora paesi non completamente sviluppati. Di fatto,

malgrado la grande esplosione industriale, sono ancora nazioni prevalentemente agricole,

perché in Cina l’agricoltura occupa il 38% della popolazione, in India addirittura il 52%35.

Questi numeri indicano la persistenza di un’agricoltura tradizionale a bassa tecnologia 32Rifkin 1997, 8233Dati dell’istituto di ricerca economica ZEW di Mannheim34Fonte: The Economist 201135Dati CIA World Factbook relativi al 2009.

31

Page 32: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

richiedente un alto tasso di manodopera. In Brasile e in Russia, dove è già iniziata da

tempo la modernizzazione del settore, gli addetti all’agricoltura sono rispettivamente il 20%

e il 10%36. Una volta promossa una massiccia modernizzazione agricola, ampiamente

sostenuta da istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, anche Cina e India si

troveranno a fare i conti con lo stesso problema.

Queste considerazioni del resto non portano nulla di nuovo sotto il sole, perché è già da

tempo che si nutrono seri dubbi sulla correlazione benessere-PIL.

Nel 1996, l’ONU ha diffuso il Rapporto sullo Sviluppo Umano dell’UNDP (United Nations

Development Programs) il quale, contraddicendo l’opinione generale di politici, economisti

e media, sentenzia in modo inequivocabile, dati alla mano, che "Non c'è nessun legame

tra crescita economica e sviluppo umano": benché nel periodo 1970-85 il Prodotto

Nazionale Lordo37 sia aumentato del 40%, la povertà è cresciuta del 17% e in gran parte

dei casi – smentendo clamorosamente gli apologeti del neoliberismo – non solo la

disoccupazione non ha accennato a diminuire ma, quel che è peggio, “la crescita

economica e incontrollata sta comportando la devastazione delle foreste, l'inquinamento

dei fiumi, la distruzione delle biodiversità e l'esaurimento delle risorse naturali". Lo sviluppo

del capitalismo globalizzato viene bollato come "non sostenibile e non meritevole di

essere sostenuto” perché, oltre a non portare progressi nelle nazioni Sud del mondo, sta

pericolosamente impoverendo quelle del Nord.

Insomma, si direbbe proprio che Jean Baudrillard non esagerava affatto quando definiva il

PIL “il più straordinario bluff collettivo della società moderna”, “un’operazione di ‘magia

bianca’ che cela in realtà la magia nera di un soleggio collettivo”.

Crescita che impoverisce

Le grandi ondate migratorie dal Sud del mondo e dall’Europa orientale rappresentano uno

dei lati oscuri dello sviluppo e della globalizzazione. Genericamente le cause vengono

attribuite alla povertà e al sottosviluppo eppure, se si ragiona con i criteri tradizionali, i

conti non tornano. Come per la disoccupazione, la crescita economica dovrebbe se non

fermare almeno rallentare i trend migratori in uscita; invece in molti casi non accade nulla

36A titolo di paragone, nell’Unione Europea sono poco più del 5%. 37Il Prodotto Nazionale Lordo (PNL) è il valore dei beni e dei servizi finali realizzato in un anno dalle unità economiche (imprese,ecc.) di una nazione, che operano nel paese stesso e all’estero. Il PNL si differenzia dal PIL solo su un punto: si tratta di un aggregato nazionale e non interno.

32

Page 33: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

di ciò, anzi la situazione addirittura peggiora. Vediamo alcuni dati riguardanti i BRIC e altre

nazioni del Sud del mondo contrassegnate da forte crescita38:

NAZIONE CRESCITA PIL

(1999-09)

TASSO

EMIGRAZIONE

(2005-10)39

Brasile 3,5% 0,2%Russia 3,9% 1,5%India 8,3% -7,6%Cina 11,4% 16,1%

Nigeria 6,3% 16,0%Bangladesh 6,2% 5,1%

Vietnam 6,8% 27,1%

Se si eccettua l’India – che comunque è la seconda nazione al mondo per numero di

emigrati – negli altri paesi l’emigrazione è cresciuta e i processi di modernizzazione e

sviluppo sono una delle cause principali, come ha spiegato molto lucidamente Luciano

Gallino ribaltando numerosi luoghi comuni e svelando una realtà molto scomoda:

Intanto, nel mondo, le forze che spingono masse di disperati a emigrare continueranno a crescere a dismisura. A chi pensasse che i contadini non esistono più, bisogna ricordare che oltre metà della popolazione del mondo, 3,2 miliardi su un totale di 6,2 miliardi di individui, è tuttora classificata dall’ONU come popolazione rurale. La stragrande maggioranza di essa, oltre il 91 per cento, è concentrata nelle regioni meno sviluppate, comprendenti più dell’80 per cento della popolazione mondiale. Questa massa di contadini, che include i familiari, è esposta da tempo a massicci processi di espulsione dalla terra. È una delle facce invisibili – agli occhi dei paesi sviluppati – della globalizzazione.Le cause dell’espulsione dei contadini del mondo dalle loro terre sono principalmente tre. La più rilevante è la razionalizzazione dell’agricoltura, ossia il passaggio dalle colture tradizionali all’agri-industria. Nei paesi in via di sviluppo, sotto la spinta dei governi stessi – cui la sferza del Fondo Monetario Internazionale chiede di esportare i prodotti agricoli per pagare debiti loro concessi – e delle imprese transnazionali, i contadini vengono estromessi dai loro campi... I campi vengono accorpati in proprietà di migliaia di ettari, mentre gli aratri tirati dal bue sono sostituiti dai trattori, i semi tradizionali da sementi geneticamente modificate, le falci dalle mietitrebbia. Da un punto di vista strettamente economico, i risultati sono strepitosi: la produttività pro capite, su quegli stessi terreni, può aumentare da 500 a 1000 volte. Provocando, però, un lieve inconveniente. Se la produttività aumenta di 1000 volte, vuol dire che

38Sono state scelte nazioni dove le migrazioni fossero imputabili il meno possibile alla partecipazione a conflitti o a gravissime tensioni interne. Per tale ragione sono stati esclusi paesi che, in base alle teorie economiche ortodosse, dovrebbero trovarsi in situazioni idilliache, vista la crescita riscontrata nel decennio 1999-2009: si pensi all’Angola (+14,4%), alla Birmania (+11,1%), alla Sierra Leone (+9,4%), all’Afghanistan (+9,0%), al Ruanda (+7,7%) o al Sudan (+7,3%). Per quanto possa sembrare incredibile, alcune delle nazioni più sfortunate del pianeta sono ampiamente capaci di rispondere ‘sulla carta’ ai tanti chiacchierati BRIC; un’altra prova del carattere menzognero del PIL come indicatore di benessere. 39Fonte: Rapporto sullo Sviluppo Umano UNPD 2009

33

Page 34: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

per coltivare quella medesima superficie occorrono 1000 volte di lavoratori in meno. Un piccolo numero dei contadini così privati dei loro mezzi di sostentamento – forse 20, forse 50 su 1000 – potranno trovare occupazione come salariati delle imprese che hanno acquisito i campi. Gli altri debbono sbrogliarsela...Una seconda causa di espulsione dei contadini dalla terra sono i grandi progetti di sviluppo, finanziati per lo più dalla Banca Mondiale. Essi vedono in primo piano le dighe costruite sui maggiori fiumi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, nonché autostrade, oleodotti, canali di navigazione, aeroporti. Nel burocratese delle organizzazioni internazionali, le popolazioni allontanate dai loro villaggi al fine di realizzare tali mega-opere sono dette Project Affected People (PAP). Per la sola India, si stima che nel 1997 i PAP fossero oltre 21 milioni. Altri milioni di PAP si ritrovano in Brasile, in Turchia, In Cina, nella quale – per toccare un unico caso – i lavori per la diga delle Tre Gole sullo Yangtze, la più grande del mondo, alla fine priveranno della terra circa due milioni di contadini.40

In paesi come Nigeria e Sudan masse di contadini e pastori sono stati espropriati delle

loro terre con la forza, di solito senza il versamento di alcun indennizzo, allo scopo di

trivellare le loro terre per l’estrazione degli idrocarburi.

Viene spontaneo il parallelismo storico con il fenomeno della recinzione delle terre comuni

– in inglese enclosures – avvenuto in Gran Bretagna e poi nel resto d’Europa tra Seicento

e Settecento, una ‘rivoluzione agricola’ che spianò la strada a quella industriale e al

capitalismo, lucidamente descritta da Karl Polanyi ne La grande trasformazione. Anche in

quel caso, intere masse contadine furono espropriate e solo una parte riuscì a farsi

assumere come salariata, mentre la maggioranza dovette trasferirsi forzatamente nelle

città dove fu stipata in improvvisati quartieri dormitorio, ben presto regno di alcolismo,

prostituzione e criminalità. Questi eserciti di sbandati trovarono poi una parziale

collocazione nell’industria, la quale poté contare su di una manodopera vasta e in preda

alla miseria, quindi facilmente ricattabile: i romanzi di Charles Dickens e le cronache di

Friedrich Engels hanno fotografato efficacemente quel disastro sociale.

Con le dovute differenze, oggi viene applicato l’esperimento economico inglese su larga

scala e le persone coinvolte aumentano in modo esponenziale. Uno studio del 2008 del

World Resource Institute, pubblicato successivamente su Forbes, illustra come otto delle

dieci città più popolate al mondo si trovino nel Sud del mondo e le previsioni per il 2025,

basate sui trend attuali, sono inquietanti:

40Gallino 2007, 161-162

34

Page 35: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

CITTÀ NAZIONE

POPOLAZIONE

2008 (in milioni di

abitanti)

PREVISIONE 2025 (in milioni di

abitanti)

Mumbai India 18,2 26,4Delhi India 15,0 22,5

Dhaka Bangladesh 11,9 22,0Sao Paolo Brasile 18,3 21,4

Città del Messico Messico 19,2 21Calcutta India 14,7 20,6Shangai Cina 14,5 19,4Karachi Pakistan 11,6 19,1

Si pensi che molte di queste città fino agli Settanta non raggiungevano i 5 milioni di

abitanti. In Africa lo stesso fenomeno si ripropone in proporzioni ridotte, ma il dramma è

identico: Lagos e Il Cairo superano i dieci milioni di abitanti, mentre Algeri, Città del Capo,

Johannesburg, Kano, Khartoum, Kinshasa, Nairobi si attestano tra i 3 e i 6 milioni. Il 23

maggio 2007 si è raggiunto l’apice nella storia umana, con la popolazione urbana che per

la prima volta ha superato quella insediata nelle nelle campagne.

Queste enormi megalopoli, sovraffollate e congestionate, non riescono a ‘smaltire’

l’enorme esodo dalle campagne, ragion per cui l’emigrazione in Occidente diventa una

scelta quasi obbligata.

I ‘rifiuti umani’ oggi non sono migliaia come nella rivoluzione industriale, ma milioni e le

loro mete non sono più Londra, Manchester o Liverpool, ma tutte le nazioni del Nord del

mondo, mentre la società ‘per bene’ di entrambe le epoche si caratterizza per il disprezzo

verso gli emarginati, accusati di rozzezza, violenza e inettitudine. Dominati da

un’economia mondiale cinica e tecnocratica, non c’è quindi da stupirsi se un organismo al

di sopra di ogni sospetto come la Banca Mondiale avesse annunciato per la fine del 2009

altri 90 milioni di poveri41 e che lo stesso istituto avesse già segnalato nel 2008 – cioè a

crisi appena iniziata - l’esistenza di 1,4 miliardi di persone al mondo in condizione di

povertà estrema, ossia con un reddito inferiore a 1,25 dollari al giorno42.

In una situazione del genere, l’esplosione continua in Africa di conflitti per il controllo

strategico delle risorse e il persistere di traffici economici illeciti in combutta con le

multinazionali sono la regola, come ben sa qualsiasi cittadino informato del Nord del

mondo. C’è invece meno consapevolezza sul fatto che questo fosco quadro non dipende

dalla povertà endemica dovuta ad arretratezza culturale e tecnologica, come siamo soliti

41Banca Mondiale, entro il 2010 novanta milioni nuovi poveri, Il Sole 24 ore, 5 ottobre 2009. 42Banca Mondiale, comunicato stampa n°:2009/065/DEC

35

Page 36: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

pensare, bensì da quelle dinamiche da anni presentate come necessarie per lo sviluppo

africano:

In ultima analisi, a rendere così lucrativo lo sfruttamento illegale delle risorse è la forte richiesta delle merci e dei prodotti che se ne possono ricavare. L’enorme espansione del commercio globale e la crescita delle reti finanziarie hanno reso relativamente facile l’accesso ai mercati principali da parte dei gruppi armati, che non hanno avuto molta difficoltà a organizzare reti internazionali di contrabbando, grazie agli scarsi controlli, alle complicità esistenti fra trafficanti, all’imprenditoria e alla finanza mondiale, e grazie, infine, al lassismo dei controlli delle nazioni consumatrici43.

L’interiorizzazione dell’ideologia della crescita

Essendo sufficiente una piccola analisi critica per smontare le premesse dell’ideologia

della crescita, i suoi sostenitori devono comportarsi alla stregua di sacerdoti di una

religione, costruendo dogmi e verità rivelate ma soprattutto operando una vasta opera di

proselitismo, persuasione e se necessario di repressione delle ‘eresie’ all’ortodossia

dominante. Similmente alla Chiesa medievale, bisogna evitare ogni considerazione di

merito in favore di un astrattismo rassicurante e di argomentazioni pseudo-ragionevoli che

aprano una breccia nella coscienza delle persone per essere interiorizzate senza riserve.

C’è un documento di Confindustria, ingiustamente poco noto, redatto nel 2008 e intitolato

La crescita economica, vero bene comune (‘vero’ evidentemente in contrapposizione a

quelli ‘falsi’ della tutela del lavoro, del territorio, dell’ambiente, ecc.) che si propone come

una specie di vangelo della crescita e di cui vale la pena riportare alcuni stralci

dell’introduzione per il loro carattere ‘filosofico’ se non quasi ‘liturgico’:

La vera priorità che il Paese deve assumere è la crescita economica.Da troppo tempo l’Italia cresce poco. La crescita è insufficiente se guardiamo alle potenzialità e ai bisogni del Paese. E’ sensibilmente inferiore ai risultati delle altre nazioni industrializzate e alla media dell’Unione Europea. E’ molto lontana rispetto ai ritmi che in passato siamo stati capaci di conquistare.Bisogna saper dire la verità agli italiani, per quanto amara e spiacevole, anche durante la campagna elettorale. Non alimentare attese e false speranze che poi vengono deluse quando, giunti al Governo, si fa l’ovvia scoperta che la realtà è ben diversa dai sogni contenuti nelle promesse. La popolazione italiana è perfettamente in grado di capire, anche perché tocca tutti i giorni con mano i problemi e le difficoltà. E sa reagire in modo deciso e impegnarsi, come ha dimostrato tante volte nel passato anche recente.

43Renner 2002, citato in Carrisi 2009, 133

36

Page 37: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Oggi sappiamo che sono necessarie grandi scelte, anche impopolari, che non sono senza costo. Veniamo da troppi anni di non scelte. Ognuno deve essere pronto a fare la sua parte, nella consapevolezza che per un vero risanamento nessuno potrà pensare di scaricare gli oneri solo su altri soggetti.

Confindustria riconosce che c’è qualcosa di antidemocratico nella crescita44, ma come una

cattiva medicina deve essere assunta per il bene della popolazione. La prima ‘pillola’ da

mandar giù è il taglio della spesa pubblica:

Il Paese deve essere preparato ad affrontare con determinazione, senza subirle, le radicali, profonde e ancora largamente imprevedibili trasformazioni globali, sociali e ambientali che avverranno nei prossimi anni, di cui vediamo alcuni segni nei nuovi prezzi record delle materie prime. Ciò impone rapidi e drastici cambiamenti nelle politiche e nei comportamenti... La spesa pubblica corrente, tolti gli interessi, assorbe il 39,6% del PIL. Questo autentico Moloch, al quale sacrifichiamo possibilità di crescita e capacità di risanamento, va ridimensionato e riqualificato, per spostare risorse verso gli investimenti e accrescere la produttività dell’intero sistema.Dobbiamo ridurre l’enorme ammontare del debito pubblico che in Italia è il 105% del PIL, a fronte di un 60% nel resto dell’eurozona...Per affrontare davvero questi problemi è indispensabile ricominciare a crescere a ritmi almeno europei. Se dal 1992 in poi fossimo cresciuti agli stessi ritmi della media UE, oggi il nostro PIL sarebbe superiore di oltre 225 miliardi di euro. Il costo della non crescita è quindi impressionante. E’ il risultato delle tante non scelte o di scelte palesemente sbagliate, è il costo delle mancate riforme e dei tanti diritti di veto che consentono a piccole minoranze di imporsi sugli interessi generali.Il motore della crescita sono le imprese e i lavoratori che operano in mercati concorrenziali. Si deve creare un ambiente che assecondi la spinta al cambiamento, che permetta di cogliere appieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dall’apertura di nuovi mercati. Solo la più alta crescita consente di coniugare maggiore produttività e maggiore occupazione. E solo con una maggiore produttività è possibile aumentare la retribuzione reale dei lavoratori, nel settore privato come in quello pubblico.

Con la lusinga di maggiori retribuzioni, i lavoratori, alla maniera dei capponi di Renzo ne I

promessi sposi, dovrebbero competere crudelmente tra loro, rinunciando a diritti

fondamentali in cambio di qualche soldo in più, il loro obolo da immolare sull’altare della

crescita.

Per finire, un po’ di vecchia, sana saggezza neoliberista:44È curioso che, tra le 20 nazioni che hanno registrato la maggior crescita nel periodo 1999-2009, secondo il Democracy Index 2010 dell’Economist, solo sette (Sierra Leone, Buthan, Armenia, Cambogia, Mozambico e Uganda) non appartengono alla categoria ‘autoritari’ ma a quella ‘ibridi’. La prima ‘democrazia imperfetta’ – l’India – è solo ventiseiesima, mentre nessuna ‘democrazia completa’ appare tra i cinquanta paesi a maggior crescita.

37

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In questo documento Confindustria indica gli ambiti chiave dove intervenire e le azioni prioritarie da intraprendere con urgenza per imprimere un ritmo diverso allo sviluppo. Alcuni interventi possono essere attuati subito e senza costi. Altri richiedono un’azione duratura, costante e coerente nel tempo. Queste azioni non hanno colore politico, non sono né di Destra né di Sinistra, come senza colorazione politica è il traguardo della crescita. La crescita economica è il vero bene comune della nazione perché crea ricchezza nell’interesse e a beneficio di tutti.

Non si tratta quindi di una proposta tra tante, bensì di una Torah dell’economia da

accettare come verità rivelata: There is no alternative, come amava ripetere Maggie

Thatcher, presto imitata da vecchi nemici di Sinistra45.

Dopo la premessa di intenti molto astratta, La crescita vero bene comune entra nello

specifico dei provvedimenti, concentrandosi su di un tassello molto importante, quello

legato agli investimenti nelle infrastrutture:

Il gasdotto dalla Russia (TAG) può aumentare la propria capacità entro il 2011, quello dall’Algeria (Transmed) entro il 2012... Per avviare un riequilibrio del mix di fonti occorre completare la riconversione a carbone degli impianti di Tor Valdaliga Nord, Porto Tolle e Vado Ligure.Per il nucleare sono tre le azioni prioritarie: partecipazione dell’Italia all’attività di ricerca e sviluppo nei reattori di quarta generazione; partecipazione italiana alla realizzazione di centrali all’estero, in particolare vicino ai confini, attivando linee di interconnessione ad hoc; realizzare impianti nucleari di nuova generazione in Italia verificando anche la possibilità di una compartecipazione utenti-produttori industriali per la realizzazione.

Il completamento del mercato elettrico renderà più competitivo il settore con un forte processo di liberalizzazione... Infrastrutture Opere prioritarie: Torino-Lione e Corridoio 5 (alta velocità Milano-Brescia, Verona-Padova-Venezia-Trieste); Brennero; Terzo Valico di Genova; alta velocità Napoli-Bari; autostrada Salerno-Reggio Calabria; Statale jonica; Pedemontana; Brebemi; ferrovia Palermo-Messina-Catania;

Si tratta delle famose ‘grandi opere’, quelle che vengono definite ‘fondamentali’ a

prescindere, necessarie per la ‘modernizzazione’ – altra parola-totem - e per non

‘rimanere esclusi dall’Europa’. I movimenti dei cittadini e gli esperti ‘dissidenti’ che tentano

vanamente di discutere sull’utilità effettiva di tali infrastrutture dati alla mano stanno solo

perdendo il loro tempo: queste opere sono fini a se stesse, il loro scopo consiste

unicamente nel rimettere in moto l’economia. Anzi, nella logica del capitalismo dei disastri,

45Ad esempio l’idea per cui la “politica economica non è di Destra o di Sinistra, ma buona o cattiva” è dell’ex cancelliere tedesco socialdemocratico Schroeder.

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Page 39: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

se potessero disintegrarsi subito dopo la costruzione renderebbero un servigio ancora più

grande.

Bisogna riconoscere ad Emma Marceglia di aver spiegato a suo tempo a chiare lettere

quali sarebbero stati veri i meriti del programma nucleare franco-italiano siglato dal

governo Berlusconi, poi bocciato dal referendum del 2011:

Il nucleare rappresenta una grande opportunità perché potrebbe mettere in moto investimenti pari a 30 miliardi di euro. Se lavoreremo bene, circa il 70% di tali investimenti potrebbe riguardare l'indotto italiano46.

In sostanza, l’avventura atomica era completamente slegata da considerazioni

energetiche, doveva essere un espediente per risollevarsi dalla crisi e in questo senso

assomigliava a eventi come le olimpiadi invernali o i mondiali di calcio, ossia occasioni per

realizzare infrastrutture destinate rapidamente a trasformarsi in vere e proprie cattedrali

nel deserto, ma ottime per alzare il PIL, incrementare i fatturati delle imprese e migliorare

temporaneamente i livello occupazionali. Come commentava un importante sito Web

dedicato alla finanza:

Le imprese che potranno essere coinvolte arriveranno dai settori più disparati. A parte le opere civili e la tecnologia nucleare vera e propria, opere e forniture riguarderanno componenti meccanici, elettronici, elettrotecnici, apparati elettrici, sistemi informatici di gestione e controllo, e così via. Insomma la torta è interessante e a quanto sembra c’è spazio per tutti47.

E poco importa se la torta è avvelenata.

Crescita e politica energivora

Una politica improntata alla crescita infinita presuppone elevati consumi energetici, anche

perché i costi legati all’energia rafforzano l’entità numerica del PIL. Non è certo un caso

che la frase “il consumo energetico in futuro è destinato ad aumentare” sia diventata un

leit motiv ricorrente di politici di ogni colore, del mondo accademico, imprenditoriale,

sindacale e persino di alcune associazioni ambientaliste; del resto possono vantare

l’appoggio di autorictas – alcune delle quali per nulla disinteressate alla questione – pronte

a suffragare con delle cifre gli sproloqui futuristici. Quanto aumenteranno i consumi

46 http://www.informazione.it/a/77FDB5E1-41B9-45E7-806B-1CAD143AB895/NUCLEARE-MARCEGAGLIA-OPPORTUNITA-INVESTIMENTI-PER-30-MLD-EURO47http://www.affaritaliani.it/economia/ritorno_al_nucleare_progetto_enel.html

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Page 40: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

energetici da qui al 2030? Secondo alcune stime della IEA, del 66%; per il Congresso

mondiale dell’energia 2010, del 40%; per la Commissione Europea del 50%. I colossi

petroliferi Exxon-Mobil e BP propongono rispettivamente il 57% e il 39%. Finché ci si limita

a sparare cifre come fossero numeri del Lotto non sorgono problemi, il difficile è cercare di

giustificarli su base razionale.

Nel maggio 2005, la Direzione Generale Energia e Risorse Minerarie del ministero delle

attività produttive ha stilato un rapporto intitolato Scenario tendenziale dei consumi e del

fabbisogno al 2020, un’analisi servita da riferimento per la breve esperienza del secondo

governo Prodi e mantenuta inalterata con il ritorno al potere del Centro-Destra. In questo

documento, dall’analisi dei consumi energetici italiani del 2004, pari 195,5 Mtep (milioni di

tonnellate di petrolio equivalenti), si prevede il seguente trend:

2010: 212,0 Mtep (+8%)

2015: 226,5 Mtep (+15%)

2020: 243,6 Mtep (+24%)

Se ciò fosse vero, significherebbe che per il 2020 in Italia i consumi complessivi dell’Italia

sarebbero di circa 550 TWh maggiori degli attuali, che per intenderci equivalgono

pressappoco all’apporto energetico annuale di 45 reattori atomici di terza generazione; per

quanto riguarda l’elettricità, si ipotizza una produzione complessiva di 410 TWh, per far

fronte a un fabbisogno complessivo di 464 TWh (si passerebbe dagli attuali 5,6 MWh pro

capite a 7,7 MWh, l’odierno tasso di consumo francese sovradimensionato dal ricorso

massiccio al nucleare).

Trattandosi di una relazione tecnica e non di semplice propaganda politica i dati vanno in

qualche modo motivati. Ecco la premessa fondamentale servita da base per le previsioni

di consumo:

L’arco temporale dei dati storici, sia energetici che economici, preso in considerazione è usualmente quello che va dal 1980 al 2004, tranne nei casi, più avanti appositamente evidenziati, nei quali, sulla base di macrofenomeni di tipo economico, tecnologico o sociale, si è ritenuto più opportuno restringere il suddetto arco temporale facendolo partire dagli anni in cui i fenomeni in questione si andavano evidenziando, ai fini di una più corretta ed aggiornata previsione. Le macrovariabili economiche di riferimento prese in considerazione, ai fini del calcolo delle relative intensità energetiche, sono per i settori agricoltura, industria e terziario, il relativo valore aggiunto, per il residenziale i consumi delle famiglie, per i trasporti il Prodotto Interno Lordo (PIL) del Paese.Le intensità energetiche di settore così ottenute, per ogni fonte energetica, vengono

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Page 41: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

estrapolate tenendo conto delle specificità di ciascun settore (come più avanti specificato) fino agli anni 2020.Per ottenere le proiezioni dei dati energetici di consumo per settore e per fonte, vengono fatte delle elaborazioni ad hoc sulle variabili economiche: più precisamente i valori aggiunti di settore ed i consumi delle famiglie vengono estrapolati sulla base degli andamenti storici dal 1980 ad oggi, che evidenziano una crescita lineare (vedi Appendice). L’andamento assunto per i valori aggiunti di settore si riflette in una crescita media annua del PIL dell’1,65% dal 2005 al 2020; si è assunto che tale crescita avvenga con i seguenti criteri: 1,4% nel 2005, 1,5% nel 2006 e 2007 e crescente dall’1,6% al 2,0% nel periodo dal 2008 al 2020, con un tasso medio annuo, in questo periodo, dell’1,7%. E’ opportuno notare che tali valori di crescita economica sono alquanto prudenziali, anche, ad esempio, in confronto a quanto previsto dall’Unione Europea, che vuole per il nostro Paese una crescita economica del 2,4% tra il 2000 ed il 2010 e del 2,2% tra il 2010 ed il 2020.

In definitiva, le stime poggiano su di una presunta analisi storica e sul presupposto

ideologico di tassi di crescita previsti a tavolino, avulsi dalla realtà. Si ragiona come se il

periodo di espansione economica iniziato dalla fine degli anni Ottanta dovesse proseguire

ininterrottamente anche nel nuovo millennio, mentre la crisi economica del 2008 ha invece

cambiato profondamente le carte in tavola. Ecco una dimostrazione pratica:

DATO RILEVAZIONE IEA 2008 PREVISIONE 2008 DIFFERENZATotale energia primaria

fornita

176,03 Mtep 206,5 Mtep -30,47 Mtep

Importazione energia

elettrica

43 TWh 168 TWh -125 TWh

Consumi finale gas

naturale

482 TWh 539 TWh -57 TWh

Consumo finale petrolio 53,2 Mtep 72,2 Mtep -19 MtepConsumo finale

elettricità

309 TWh 325 TWh -16 TWh

Le previsioni a breve termine sono completamente fallite e visto l’acuirsi della crisi dopo il

2008 è altamente improbabile che si verifichino quelle di lungo periodo. Di fronte a certi

contraddizioni di termini, si è levata qualche timida reazione interrogativa anche tra i

media mainstream; ecco quanto scriveva Maurizio Ricci su Repubblica del 13 dicembre

2010:

South Stream (progetto di gasdotto che dovrebbe collegare UE e Russia evitando il transito in paesi extracomunitari, ndr), si sostiene, è una leva cruciale per allentare, grazie al metano che mette a disposizione, la nostra dipendenza energetica. Se si fanno i conti, però, il risultato è paradossale: nell'ansia di assicurarsi risorse affidabili, l'Italia rischia di nuotare, presto, in un mare di energia superflua. A meno di non

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Page 42: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

compiere, fin d'ora, quando gli investimenti vengono programmati, scelte delicate e difficili...La Terna, che gestisce la distribuzione dell'elettricità in Italia, stima che, al 2020, i consumi italiani oscilleranno fra i 370 e i 410 TWh. Molti giudicano queste previsioni ottimistiche. I parametri fondamentali per le proiezioni dei futuri consumi sono, infatti, il ritmo di sviluppo economico e i risparmi che può generare una maggiore efficienza nell'uso di energia. La Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, che giudica irrealistico, sulla base dell'esperienza storica, un ritmo di sviluppo annuo dell'economia italiana superiore all'1,5% l'anno, come stima la Terna, pensa che ai 400 TWh si arriverà, forse, solo nel 2030. L'Enea, che punta molto sull'efficienza, allontana questo traguardo al 2050.Supponiamo, per fare una media, che i 400 TWh di consumi vengano raggiunti dopo il 2030, quando il piano nucleare dovrebbe essere, in larga misura, già realizzato. Avremmo 300 TWh prodotti come oggi (ammesso che non ci sia anche un boom delle rinnovabili) e 100 con il nucleare [il giornalista ipotizzava uno scenario basato su ipotesi che prevedevano la costruzione di altre quattro centrali oltre a quelle già previste nell’accordo del 2009]. Tutto bene, apparentemente. Però, bisognerebbe spiegarlo a chi, in questo momento, sta investendo o pensa di investire in South Stream e nelle altre infrastrutture, progettate per portare più gas in Italia. E lo sta facendo in grande, moltiplicando gasdotti e rigassificatori. Se tutti i progetti in corso andassero in porto, l'Italia si troverebbe a disporre di una marea di metano

Come se non bastasse, già oggi circa 20 mila megawatt di potenza elettrica sono

completamente inutilizzati, pari al 34-35% della capacità installata, con impianti a gas

progettati per funzionare 5-6 mila ore l'anno che viaggiano sotto le 2.800 ore o meno.

In barba ai dati di fatto, le conclusioni dello Scenario tendenziale dei consumi cercano di

dare un alone di credibilità scientifica ai proclami dell’industria energetica:

Il sistema elettrico, per quanto in questi ultimissimi anni abbia superato la crisi di sotto capacità produttiva, continua a necessitare di nuove strutture ed infrastrutture. Nel giro di una decina di anni, infatti, il nuovo parco centrali che si va realizzando non sarà più sufficiente a provvedere in maniera sicura alla domanda di energia né tanto meno a sostenere i picchi di domanda, soprattutto estivi. La localizzazione delle nuove centrali poi, quasi tutte site al nord ed al sud d’Italia, pone un importante interrogativo sulla capacità dell’attuale rete di trasmissione a sostenere il previsto traffico: occorre provvedere per tempo per evitare di rendere inutile quanto ad oggi fatto.

Su una cosa siamo assolutamente d’accordo: è più che mai necessario ‘provvedere per

tempo’ prima che sia troppo tardi.

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Page 43: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Le sirene dell’ideologia della crescita: il consumismo

Abitualmente si ritiene il consumismo una patologia sociale simile alla bulimia, che affligge

persone incapaci di mantenere a freno la bramosia di possesso, un effetto collaterale del

mercato dovuto alla disponibilità sempre crescente di merci; oppure, alla maniera di

Greenspan con la crisi, la bramosia e la cupidigia sono ritenute connaturate alla natura

umana. Così facendo si minimizza il problema a un fatto di autocontrollo individuale o di

dannazione del genere umano, assolvendo tutte le storture intrinseche al sistema di

produzione e consumo.

In realtà il consumismo consiste in una vera e propria ideologia, in un sistema di controllo

sociale che persegue finalità politiche di controllo della popolazione:

Possiamo dire che il ‘consumismo’ è un tipo di assetto sociale che risulta dal riutilizzo di bisogni, desideri e aspirazioni dell’uomo prosaici, permanenti per così dire ‘neutrali rispetto al regime’, facendone la principale forza che alimenta e fa funzionare la società e coordina la riproduzione sistemica, l’integrazione sociale, la stratificazione sociale e la formazione degli individui, oltre a svolgere un ruolo di primo piano nei processi di autoidentificazione individuale e di gruppo e nella scelta e ricerca di modi per orientare la propria esistenza. Vi è ‘consumismo’ là dove il consumo assume quel ruolo cardine che nella società dei produttori era svolto dalla società del lavoro... A differenza del consumo, che è soprattutto caratteristica e attività di singoli esseri umani, il consumismo è un attributo della società48.

L’analisi storica non solo conferma queste intuizioni di Bauman ma spiega come il

fenomeno non fosse affatto inevitabile o connaturato all’avidità umana. Il consumismo è

stato pianificato a partire dagli anni Venti in USA, quando agli aumenti di produttività dovuti

all’innovazione tecnologica non faceva riscontro una dilatazione altrettanto sostanziale dei

consumi. All’epoca lo ‘stile di vita americano’ era molto diverso da quello che in tempi

recenti George Bush ha dichiarato ‘non negoziabile’: la cultura prevalente, dominata

dell’etica protestante del lavoro, aveva nel risparmio e nella parsimonia dei capisaldi

fondamentali e gran parte dei lavoratori una volta ricevuto un trattamento salariale

superiore molto spesso preferiva un maggior tempo libero a un ulteriore incremento del

reddito.

Tale sensibilità si scontrava con le esigenze espansionistiche – queste sì veramente

inevitabili – dell’economia capitalista. Nel 1925 la Commissione senatoriale per

l’educazione e il lavoro guidata da Robert Wagner tenne una serie di audizioni sui rischi di

stagnazione economica e a quel punto scattò la reazione allarmata del mondo

48Bauman 2010, 36-37.

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Page 44: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

imprenditoriale per operare una vera e propria rivoluzione antropologica, per creare quello

che Edward Cowdrick chiamò ‘il nuovo Vangelo economico del consumo’, che ebbe tra i

suoi primi adepti il consulente della General Motors Charles Kettering e l’economista

Hazel Kyrk. In breve tempo vennero individuate le strategie di marketing per operare la

conversione alla nuova religione dei consumi:

- sfruttare i mass media operando un bombardamento pubblicitario soprattutto sulle

giovani generazioni, in cui erano meno radicati i valori tradizionali;

- svilire l’autoproduzione di beni e, attraverso le dinamiche della moda, favorire la rapida

obsolescenza dei prodotti trasformando lo spreco in valore socialmente riconosciuto;

- incoraggiare la creazione di desideri nuovi e crescenti, illudendo le classi sociale medio-

basse sulla possibilità di imitare lo stile di vita di quelle più elevate;

- valorizzare il marchio come valore intrinseco a prescindere dal prodotto.

L’introduzione del credito al consumo che, capovolgendo la concezione tradizionale,

permette di soddisfare immediatamente un acquisto prima di aver contratto tutta la somma

di denaro necessaria, rappresentò l’asso nella manica per trasformare queste premesse

ideologiche in un vero e proprio sistema totalitario di controllo delle coscienze. Non si può

pensare altrimenti leggendo la conclusione del rapporto della Commissione presidenziale

sui recenti cambiamenti economici, voluta dal presidente Herbert Hoover,

Questa ricerca ha dimostrato, in maniera conclusiva, ciò che un tempo veniva considerato teoreticamente vero: i desideri sono insaziabili; ogni desiderio soddisfatto apre la strada a un nuovo desiderio. La conclusione è che, di fronte a noi, si aprono panorami economici sterminati, e che la soddisfazione di nuovi desideri creerà immediatamente desideri sempre nuovi da soddisfare... Attraverso la pubblicità e altre tecniche di promozione si è data una sensibile spinta alla produzione... Parrebbe che si possa procedere con un crescente attivismo... La nostra situazione è fortunata e il momento di inerzia notevole49.

Alla fine della seconda guerra mondiale, lo stesso paradigma è stato integrato anche in

Europa e Giappone per poi diffondersi al resto dell’umanità con il crollo del socialismo

reale e l’avvento della globalizzazione, non senza incontrare resistenze più o meno

marcate.

49Citato in Rifkin 1997, 54

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Page 45: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Quando la grande trasformazione investì l’Italia, Pier Paolo Pasolini prese una posizione

molto netta e anticonformista dichiarando che la società dei consumi dovesse essere

intesa come un nuovo fascismo, persino più potente e spietato di quello mussoliniano:

Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni.Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè, come dicevo, i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane50.

Oggi possiamo apprezzare appieno i danni apportati dal consumismo: impoverimento

culturale, distruzione dei legami sociali comunitari, indebolimento delle relazioni familiari,

perdita di identità dovuta alla necessità di tenere il passo della moda o al non sapersi

adeguare ai nuovi modelli dominanti, mercificazione di tutti gli aspetti della vita compresi

quelli legati alla sfera interiore, esaltazione del denaro come fine in sé stesso ed

elevazione a virtù dell’egocentrismo e dell’accumulazione personale. La conseguenza più

evidente di questo degrado sono gli isterismi di massa che spesso superano ogni

immaginazione, come la calca di ventottomila persone che nell’estate 2011 si è riunita fin

dalle prime ore dell’alba per prendere d’assalto un nuovo centro commerciale della catena

Trony a Roma o le tre persone morte nel 2004 a Riad in un megastore dell’Ikea nel

tentativo di assicurarsi uno dei cinquanta buoni sconto distribuiti alle casse.

In caso estremo si possono delineare scenari da guerra civile: i cosiddetti riot che hanno

sconvolto Londra nell’agosto 2011 possono essere l’anteprima di uno scenario ripetibile in

altre grandi metropoli occidentali, dove orde di ragazzi della working class e della classe

50Pasolini 2007, 22-23

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Page 46: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

media impoverita dalla crisi assalgono i centri commerciali per accaparrarsi i-phone e altri

prodotti alla moda non più alla portata dei loro portafogli, senza alcuna rivendicazione

politica ma mossi solo da rabbia e risentimento.

Proseguire o svoltare?

Una volta dimostrato che l’ideologia della crescita economica non solo non porta

benessere ma addirittura devasta il pianeta ed è fonte di povertà e degrado sociale, si può

decidere di cambiare radicalmente rotta e ricercare nuovi modelli economici, oppure

mantenere il modello e limitarsi a indici alternativi al PIL, come fanno ad esempio Joseph

Stiglitz, Amartya Sen o Jean-Paul Fitoussi. Questi economisti, per quanto sicuramente ben

intenzionati, sembrano non aver inteso la logica profonda del sistema, per il quale il PIL

che tanto si sforzano di criticare e di cui denunciano le incongruenze assurge a indicatore

assolutamente affidabile:

In quest’algebra mitica della contabilità vi può essere una verità profonda, la verità del sistema economico-politico della società della crescita. Ci pare un paradosso che il positivo e il negativo siano addizionati insieme alla rinfusa. Ma forse è semplicemente logico. Infatti la verità è che forse sono proprio i beni ‘negativi’, gli svantaggi compensati, i costi interni di funzionamento, i costi sociali dell’autoregolazione ‘disfunzionale’, o i settori secondari che della prodigalità inutile che giocano in questo insieme il ruolo dinamico di locomotiva economica... Occorre ammettere l’ipotesi che tutti questi svantaggi entrino da qualche parte come fattori positivi, come rilancio della produzione e del consumo51.

51Baudrillard 1976, 27

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Page 47: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Sviluppo sostenibile

‘Sviluppo sostenibile’ è un’espressione quanto mai di moda, un’etichetta che viene

appiccicata indifferentemente a soggetti molto diversi tra loro: a paladine della difesa del

territorio e delle pratiche agricole tradizionali, come Wangari Maathai o Vandana Shiva, a

economisti innovativi come Herman Daly, a movimenti ambientalisti ma anche a potenti

corporation del settore petrolifero, come vedremo. Persino Renato Brunetta e Franco

Frattini, non particolarmente noti per l’amore verso la natura, hanno collaborato alla

stesura del Manifesto per lo Sviluppo Sostenibile della FREE/Foundation for Research on

European Economy e di Amici della Terra; ma anche il Centro-Sinistra può vantare i suoi

assi. Le indagini della magistratura hanno scoperto che Luigi Lusi, il tesoriere della

Margherita balzato agli onori delle cronache per l’accusa di appropriazione indebita delle

casse del partito, effettuava versamenti sospetti a favore del Centro per il futuro

sostenibile, fondazione presieduta da Francesco Rutelli con lo scopo (dichiarato) di

promuovere lo sviluppo sostenibile.

Basterebbe ciò per svelare l’inconsistenza di tale concetto52 o nella migliore delle ipotesi

per confermare il detto popolare per cui “la strada che porta all’inferno è lastricato di buone

intenzioni”.

Le origini del concetto di sviluppo sostenibile risalgono al 1972, anno in cui venne redatto il

rapporto I limiti dello sviluppo, commissionato dal Club di Roma a un gruppo di scienziati

del MIT. Gli autori mettevano in guardia contro il pericolo dell’esaurimento delle risorse

naturali e auspicavano un’economia stazionaria che rinunciasse alle pretese di crescita

infinita; un appello che resterà però inascoltato, perché bisognerà aspettare vent’anni

prima che le problematiche ecologiche trovassero la meritata attenzione sul piano politico

con la Conferenza sul clima di Rio de Janeiro del 1992.

52Addirittura alcuni alfieri del neoliberismo si sono convertiti sulla via di Damasco dello sviluppo sostenibile. Il caso più squallido è probabilmente quello del giornalista del New York Times e premio Pulitzer Thomas Friedman, noto per il fideismo nel credo neoliberista che rasentava l’assurdo e per la cinica arroganza verso ogni limitazione delle prerogative sovrane del mercato, fossero di carattere sociale o ambientale. Oggi Friedman si è dato una colorata di verde ed è capace di dichiarazioni come questa: “I nostri genitori furono la Grande Generazione, costruirono per noi un mondo di libertà e abbondanza. Noi siamo stati la generazione delle cavallette, abbiamo mangiato tutto. I nostri figli dovranno essere la regeneration, creando un modello di crescita basato su valori sostenibili, sia per il mercato che per Madre Natura. Detto in due parole, quello che la libertà fu per i nostri genitori, la sostenibilità dovrà essere per noi e i nostri figli. Altrimenti non saremo liberi, anzi saremo ancora meno liberi di quanto non lo saremmo stati se i sovietici avessero vinto la guerra fredda. Le restrizioni che l' economia e la natura imporrebbero su di noi sarebbero severissime, a meno appunto di non trovare un modello di crescita sostenibile” (Paolo Valentino, Mercato e natura sostenibili, l’equazione di Friedman, Corriere della Sera, 15 luglio 2009). Curiosamente, l’enfasi sulla crescita è l’unica cosa che accomuna il vecchio e il nuovo Friedman.

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Page 48: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Cinque anni prima di tale avvenimento, la Commissione mondiale sull'ambiente aveva

provato ad affrontare la spinosa questione della conciliazione tra crescita e preservazione

della natura in un relazione intitolata Our common future (noto in Italia come Rapporto

Brundtland, dal nome della coordinatrice della commissione, la norvegese Gro Harlem

Brundtland) in cui per la prima volta venne presentata la teoria dello ‘sviluppo sostenibile’,

presentata come

forma di sviluppo che permette si soddisfare i bisogni attuali senza compromettere la capacità delle generazione future di soddisfare i loro.

Fin qui si tratta di un auspicio di alto valore morale assolutamente condivisibile. I problemi

sorgono quando le vecchie generazioni cominciano a fare supposizioni sui bisogni di

quelle future: quanto dovranno i posteri limitare le loro pretese rispetto ai progenitori baby

boomers? Al riguardo, il Rapporto Brundtland stringe l’occhio alla tecnologia come mezzo

di emancipazione dai limiti naturali:

Il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensì imposti dall'attuale stato della tecnologia e dell'organizzazione sociale alle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane. La tecnica e la organizzazione sociale possono però essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica.

Niente paura, insomma: ci sarà un nuovo boom economico, paragonabile a quello del

secondo dopoguerra (altrimenti che ‘era di crescita’ sarebbe?) quindi le future generazioni

possono tirare un sospiro di sollievo, insieme ovviamente al mondo imprenditoriale

terrorizzato all’idea di ridurre i suoi volumi di affari. Ci penserà la tecnologia a risolvere tutti

i problemi.

Anche il Nobel per l’economia Robert Solow ha espresso a più riprese idee in linea con il

Rapporto Bruntland – è significativo che abbia ottenuto il Nobel proprio nel 1987, l’anno di

pubblicazione del Rapporto – teorizzando che un livello di consumo sostenibile può essere

assicurato tutte le volte in cui la tecnologia garantisca un grado sufficiente di sostituibilità

tra risorsa naturale e capitale fisico. Nel saggio Intergenerational equity and exhaustible

resources ha portato alle estreme conseguenze il ragionamento affermando che

non c’è in linea di principio alcun problema; il mondo può in effetti andare avanti senza risorse naturali.

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Page 49: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Qualche burlone ha interpretato alla lettera l’economista statunitense, ipotizzando che in

futuro si potranno cucinare pizze sempre più grandi senza ricorrere alla farina, grazie a

forni sempre più sofisticati53.

L’OCSE, il club che comprende tutti i paesi più industrializzati a eccezione di Russia e

Cina, ha organizzato un forum nel 2008 a Parigi dove ha esposto la sua versione di

sviluppo sostenibile, basata sull’assunto per cui “la crescita economica da sola non basta

per risolvere i problemi mondiali”. Joaquin Arriola, dell’università di Bilbao, ha così

riassunto le proposte dell’OCSE in merito alla difesa dell’ambiente:

a) Dare la priorità alle tasse ecoambientali per ridurre le emissioni specifiche, invece di ricorrere alla spesa pubblica considerata “risorsa di ultima istanza”.b) Approfondire la strategia di far pagare l’inquinamento a chi lo produce.c) Ridurre l’aiuto allo sviluppo in attività che provocano direttamente il cambiamento climatico e favorire l’informazione sull’impatto climatico delle strategie di sviluppo nei paesi della periferia. d) Mantenere la cultura dell’automobile utilizzando gli agrocombustibili come fonte di energia e sviluppare tecnologie che limitino il ricorso all’uso dei cereali, semi oleosi e zucchero come materia prima degli agrocombustibili.e) Sviluppare l’energia nucleare e sotterrare i residui radioattivi a grande profondità nella terra.f) Fare ricerca su diversi fronti riguardo il cambiamento climatico, la biodiversità e l’inquinamento.g) Approfittare del ruolo delle città nella somministrazione delle infrastrutture necessarie per la gestione e il riciclaggio delle risorse, per generare nuove forme d’affari privati legati alla somministrazione di queste risorse54.

Se si eccettuano i punti sul nucleare e in parte quello sugli agrocombustibili, gli altri sono

comuni a tutti i progetti di sviluppo sostenibile, da quelli orientati al business a quelli

promossi da associazioni ambientaliste. Oltre al ruolo centrale affidato alla tecnologia,

l’idea fondamentale è che la base del risanamento ambientale passi attraverso la

quantificazione dei costi ecologici e ‘quote di inquinamento’ come quelle previste dal

protocollo di Kyoto (il cosiddetto sistema cap and trade); inquinare diventa quindi una sorta

di diritto, previo pagamento. Per il resto non una parola di critica sul sistema di produzione

e consumo mondiale, ragion per cui Serge Latouche è tra i molti a ritenere lo sviluppo

sostenibile una colossale presa in giro dell’umanità, un espediente per salvare l’ideologia

della crescita tinteggiandola un pochino di verde:

53Forse siamo troppo malevoli con Solow: mosso dalla necessità, l’ingegno umano può trovare soluzioni miracolose. Ad esempio nel 2007, quando in Messico il prezzo del mais schizzò alle stelle a causa del suo impiego come biocarburante, la popolazione più povera ricorse all’argilla per preparare la tradizionale tortilla. Chissà se un fatto del genere rientra nel modello di Solow. 54Arriola in Vasapollo 2008, 100

49

Page 50: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Il qualificativo ‘sostenibile’ si configura dunque come un chiaro tentativo di salvare il salvabile del paradigma dello sviluppo, ormai smarrito dopo i ripetuti fallimenti e sostituito dal paradigma della globalizzazione nell’ambito degli affari e delle istituzioni di Bretton Woods.55

Solo illazioni eco-disfattiste? Se lo sviluppo sostenibile non è soltanto uno slogan, allora i

buoni propositi devono sfociare in qualcosa di concreto, in un programma che numeri alla

mano chiarisca come si possa conciliare crescita economica e salvaguardia del pianeta e

delle generazioni future. Su quest’aspetto i sostenitori dello sviluppo sostenibile sono

molto carenti perché tale operazione è stata tentata seriamente in un solo caso e, come

vedremo, con esiti decisamente insoddisfacenti.

La IEA e lo Scenario 450

Le ultime conferenze mondiali sul clima che hanno aperto l’era post-Kyoto - Copenaghen

2009, Cancún 2010 e Durban 2011 - hanno impostato il dibattito sui cambiamenti climatici

accettando la tesi più volte ribadita dalla IPCC (Intergovernmental Panel on Climate

Change, la commissione climatica dell’ONU) secondo cui l’obiettivo fondamentale è

impedire che la temperatura media del pianeta oltrepassi i 2°C. A tal fine occorre che la

concentrazione di CO₂ nell’atmosfera non superi i 450 ppm (parti per milione), quindi le

nazioni del mondo godrebbero di un ‘bonus’ (oggi la concentrazione è intorno 380-390

ppm) per aumentare le emissioni, per poi ridurle gradualmente: in caso di infrazione di tale

limite, i climatologi hanno paventato il rischio di conseguenze irreversibili per il pianeta.

Seguendo le prescrizione dell’IPCC, la IEA si sforza da alcuni anni di elaborare un modello

energetico che coniughi lotta ai cambiamenti climatici e crescita economica, chiamato

Scenario 450, che viene allegato al World Energy Outlook (WEO) pubblicato annualmente

dall’agenzia. Nella versione divulgata nel 2011, lo Scenario 450 prevede un trend di

crescita dei consumi energetici dell’1,4% annuo fino al 2020, che dovrebbe ridursi allo

0,3% annuo tra il 2020 e il 2035; a pag. 212 del WEO 2011 appare questa tabella di

previsione dei consumi di energia primaria:

55Latouche 2008, 83

50

Page 51: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

FONTE CONSUMO (in MTEP) % SUL TOTALE2009 2020 2035 2009 2020 2035

Carbone 3294 3716 2316 27% 26% 16%Petrolio 3987 4182 3671 33% 29% 25%

Gas 2539 3030 3208 21% 22% 22%Nucleare 703 973 1664 6% 7% 11%

Idroelettrico 280 391 520 2% 3% 3%Biomasse e

rifiuti

1230

1554 2329 10% 11% 16%Altre rinnovabili

99 339 1161 1% 2% 2%TOTALE 12132 14185 14870 100% 100% 100%

Chi è un po’ pratico della materia resterà molto perplesso riguardo al dato 2009

sull’energia nucleare, perché 730 MTEP annui vorrebbero dire più di 8100 TWh di

produzione elettrica – l’atomo non si può impiegare per altri usi – mentre la stessa IEA in

altri dispacci ci informa che le centrali atomiche contribuiscono per circa 2700 TWh; come

spiegare la contraddizione? Di fatto la IEA ragionando in MTEP (ossia milioni di tonnellate

di petrolio equivalenti) adotta un criterio, abbastanza discutibile, per cui un kWh di energia

elettrica generata da un reattore nucleare evita il consumo di un’energia primaria

equivalente moltiplicata per tre (circa) di combustibili fossili. In pratica, quello che compare

nella tabella è il rendimento ideale del reattore, che in realtà non riesce a convertire più del

30-35% del calore prodotto dalla fissione in energia elettrica, limite insuperato anche per i

nuovi reattori di terza generazione56.

Ne consegue pertanto che, anche nella previsione ottimistica del 2035, il nucleare

contribuirebbe per meno del 4% ai consumi di energia primaria, quindi le fonti fossili

sarebbero ancora più del 63% del totale. Ma aumentare del 140% la produzione di energia

atomica richiederebbe la costruzione ex novo di più di 200 centrali e la sostituzione di circa

novanta unità di prima e seconda generazione che verso il 2015 arriveranno al termine del

ciclo operativo, con paesi come Germania, Svezia, Svizzera e Giappone che hanno

annunciato la graduale uscita dall’atomo dopo il grave incidente di Fukushima. Come se

non bastasse, se anche si concretizzassero gli sforzi titanici per sostenere un simile

programma di espansione, si andrebbe incontro a una beffa terribile, perché secondo la

guida Uranium from mine to mill compilata nel 2010 dalla WNA le riserve di uranio

‘commerciale’ (estraibile a un prezzo inferiore a $80/kg) permetterebbero non più di una

ventina d’anni di autonomia, dopodiché bisognerebbe incrociare le dita e sperare che

56Ringrazio pubblicamente il professor Ugo Bardi per avermi chiarito questo aspetto in uno scambio privato per email.

51

Page 52: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

l’industria del settore sia riuscita a mettere in commercio i fantomatici reattori auto-

fertilizzanti di IV generazione57.

Quello relativo al nucleare non è l’unico elemento controverso dello Scenario 450 ma solo

la punta di un iceberg. Ad esempio:

- 240 MTEP in più di energia idroelettrica corrispondono alla costruzione di una trentina di

maxi-dighe sul tipo di quella cinese delle Tre Gole sul fiume Yangzte, che ha costretto a

sfollare due milioni di persone e sommerso innumerevoli villaggi;

- viene definita ‘opzione chiave’ l’utilizzo delle centrali a carbone con sequestro di carbonio

(CSS), una tecnologia basata più sul desiderio di impiegare ancora il carbone che su

motivazioni ecologiche. Lo stoccaggio della CO₂ in depositi sotterranei è infatti

difficilmente fattibile e molto pericoloso;

- contrariamente ai dati esposti nella prima sezione, la IEA pospone il picco della

produzione del petrolio al 2020 e quello del gas naturale a data da destinarsi;

- la IEA punta pericolosamente sulle biomasse al fine di realizzare biocarburanti per

sopperire al picco del petrolio. Nel rapporto si precisa che, dei 2329 MTEP di energia da

biomassa, il 29% - ossia 675 MTEP – dovrebbe essere destinata alla produzione di

biocarburanti, ma già oggi che se ne consumano ‘solo’ una sessantina di MTEP58 esistono

gravi problemi di concorrenza con l’agricoltura destinata all’alimentazione umana;

- la IEA stima che la realizzazione complessiva del programma richiederebbe un

investimento di 36,5 trilioni di dollari tra il 2011 e il 2035, ossia 1,5 trilioni di dollari all’anno

– un ammontare che, per intenderci, equivarrebbe al 3,7% del PIL mondiale 2008, un

grande onere in tempi di crisi economica.

Tirando le somme, lo Scenario 450 oscilla tra previsioni fantascientifiche e scenari da film

dell’orrore. Ma riuscirebbe a venire incontro ai desideri espansionistici del business

imprenditoriale? Quanto sarebbe il tasso annuo di crescita del PIL con un aumento

energetico dell’1,4%? Non è facile dare una risposta precisa, tuttavia si possono ipotizzare

alcune stime59.

Tra il 2000 e il 2008, il PIL mondiale è aumentato del 3,2% annuo mentre il consumo

energetico del 2,7% annuo: se quest’ultimo venisse ridotto all’1,4% come previsto nello

57Tutti gli esperimenti di reattori autofertilizzanti tentati finora (Beloyarsk-3 in Russia, Monju in Giappone e Superphénix in Francia) sono miseramente falliti, a causa dell’elevata pericolosità nel trattamento del plutonio.58Stima del BP Energy Outlook 2030 59I dati successivi sono stati ricavati da IEA Statistics - CO₂ emissions from fuel combustion 2010

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Page 53: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Scenario 450, mantenendo anche per il 2011-2020 la medesima intensità energetica si

avrebbe una crescita dell’1,6% di per sé non particolarmente esaltante60. Tuttavia su

questo misero risultato grava come un macigno la necessità di contenere le emissioni di

CO₂, che per lo Scenario 450 dovrebbero attestarsi a 31,9 Gt (giga-tonnellate, miliardi di

tonnellate); cioè ‘solo’ 3,1 Gt più del 2009, mentre nel 2000-2008 l’aumento è stato di 8,4

Gt. L’efficienza tecnologica (il rapporto CO₂ /PIL) dovrebbe fare un balzo in avanti del 20%

in pochi anni, e ciò sembra difficilmente fattibile considerando la preponderanza ancora

assegnata alle fonti fossili.

Per questi livelli modesti di crescita, l’umanità dovrebbe spingersi fino ai limiti teorici di

inquinamento, nella speranza che le teorie dei climatologi reggano alla dimostrazione

pratica, e imbarcarsi in programmi energetici tanto ambiziosi quanto sconclusionati sul

piano politico e sociale. L’assurdità è tale che neppure la IEA sembra credere più di tanto

alle sue stesse proposte (pag. 239):

Ogni anno bisognerebbe costruire circa 27 GW di reattori nucleari, che necessitano un’accettazione diffusa di questa tecnologia. Altre tecnologie che sono state prese in esame, come le gradi dighe e i biocarburanti, incontrano resistenze da parte dell’opinione pubblica a causa delle potenziali conseguenze ambientali e delle problematiche legate alla sostenibilità... Dal momento che implementare lo Scenario 450 sarebbe già estremamente impegnativo, è assai difficile pensare di sviluppare la tecnologia ancora più rapidamente, modificando sia i comportamenti individuali che la pianificazione urbana.

Non è tutto verde ciò che luccica

Una delle peggiori distorsioni perpetrate dal sistema mediatico è stato quello di ridurre i

problemi ecologici a una questione di fonte energetica, a una lotta tra paladini del nucleare

o delle rinnovabili, ammorbando l’opinione pubblica con migliaia di dibattiti di dubbio valore

scientifico degenerati in chiacchiere da salotto se non peggio. E bisogna ammettere che i

partiti verdi e le associazioni ambientaliste non sono affatto esenti da colpe.

In realtà, la vera discriminante è tra ritenere il riscaldamento climatico l’unica incognita per

l’umanità e invece pensare che il pianeta stia affrontando una crisi ecologica-sociale molto

più complessa, di cui l’effetto serra è solo una delle componenti; tra pensare che la

soluzione consista solo nel dotarsi di tecnologie ‘pulite’ oppure capire che è arrivato il

momento di progettare e implementare nuovi paradigmi politici ed economici, quindi anche

60Confindustria definiva nel 2010 l’Italia ‘malata di poca crescita’ perché stentava ad arrivare al 2% (Bagnoli Roberto, L’Italia malata di poca crescita, Corriere della Sera 17 dicembre 2010)

53

Page 54: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

energetici. I sostenitori del nucleare, nel 99% dei casi, puntano sulla necessità di

mantenere l’attuale livello di consumi e quindi il business as usual, ma qualche guru

ambientalista non è da meno, con la differenza che si propone lo stesso scopo ricorrendo

alle rinnovabili. Consideriamo un esempio famoso.

Lester Brown, presidente dell’Earth Policy Institute, è ritenuto uno dei maggiori paladini

dell’ambientalismo; la prefazione all’edizione italiana del suo libro Piano B 3.0 è stata

curata da Beppe Grillo mentre quella di Piano B 4.0 da Loretta Napoleoni. In quest’ultima

Brown propone una vera e propria ‘economia di guerra’ (testuali parole) in modo da

passare dagli attuali 1600 GW di potenza generati dall’idroelettrico e dalle rinnovabili a

oltre 9000 GW nel 2020. Entrando nel dettaglio, prevede di aumentare la potenza

dell’idroelettrico di 405 GW, pari alla capacità di 21 dighe sullo Yangtze, e addirittura di

2800 GW l’eolico, l’equivalente circa di un milione di maxi pale eoliche. Obiettivi quindi non

meno ambiziosi – e quindi infattibili - di quelli dello Scenario 450.

Al pari di Greenpeace, Brown è favorevole alla costruzione di Desertec, un progetto

patrocinato dal Club di Roma e sviluppato dal consorzio DII GmbH/Desertec Industrial

Iniziative, che prevede di costruire centrali solari termodinamiche ed eoliche nei deserti

dell’Africa settentrionale, per un investimento pari a 400 miliardi di euro in dieci anni; è un

convinto sostenitore anche dei maxi impianti fotovoltaici da 800-100 mq, realizzati da

aziende come la Sunedison, che sottraggono terreni all’agricoltura creando disagi alle

popolazioni, per di più senza promuovere un’occupazione locale perché solitamente viene

impiegato esclusivamente personale interno all’impresa.

Con una visione simile, non sorprende che Brown manifesti alcuni stereotipi tipici degli

sviluppisti mainstream. Ecco ad esempio come liquida il problema dell’impatto ambientale

dei maxi parchi eolici:

Altri sono critici a causa dell’impatto sul paesaggio. Quando alcuni guardano una centrale eolica, percepiscono un degrado del panorama. Altri ci vedono una fonte di energia che salverà la civiltà. Sebbene vi siano problemi legato alla sindrome NIMBY (Non In My BackYard, “non nel mi giardino”), la risposta PIMBY (Put in My BackYard, “mettila nel mio giardino”) è sempre più diffusa... Ciò non sorprende, visto che i posti di lavoro che si creano, i diritti e i proventi dalle tasse provenienti dalle turbine eoliche sono i benvenuti nelle comunità locali61.

Oltre alla riproposizione dell’odiosa teoria della sindrome NIMBY – quella di cui vengono

accusati quotidianamente gli oppositori delle ‘grandi opere’ - rivediamo i soliti miti della

61Brown 2010, 167

54

Page 55: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

tecnologia salvatrice e il dogma della subordinazione dell’ambiente alle ragioni

economiche, edulcorati e inseriti in una cornice eco friendly.

Malgrado in Piano B 4.0 vengano proposte soluzioni anche per la lotta alla fame e alla

povertà, queste assumono quasi sempre un carattere tecnico-pratico, senza mettere in

discussione più di tanto i fondamenti del sistema politico ed economico, per cui non

sorprendono gli apprezzamenti ricevuti nelle alte sfere. Brown è stato definito dal

Washington Post “uno dei più influenti opinionisti del mondo”, ha partecipato al Congresso

mondiale dell’energia 2010 insieme ai colossi industriali del settore e tra i finanziatori suoi

e dell’Earth Policy Institute compaiono realtà non profit legate a doppio filo alle grandi

multinazionali, come le fondazioni Rockfeller e Turner. In Cina le opere di Brown non solo

non hanno subito censura – a differenza di quanto capitato ad altri ecologisti - ma Piano B

2.0 ha ricevuto un premio letterario nel 2005 e addirittura è stato citato dal premier Wen

Jiabao a più riprese in articoli giornalistici e interventi pubblici: un riconoscimento davvero

singolare per un ambientalista, essendo stato ottenuto dall’uomo politico che ha

consegnato alla Cina il triste primato di maggior emettitore al mondo di CO₂. In perfetta

sintonia con la mentalità dello sviluppo sostenibile, il governo cinese obietterebbe di aver

intrapreso un cammino ecologicamente virtuoso sconosciuto all’Occidente, avendo

investito dopo la crisi economica ben il 7,1% del PIL (circa 170 miliardi di dollari) nello

sviluppo delle energie rinnovabili, contro l’1,8% degli USA e lo 0,9%% dell’Europa62.

Contrariamente alle illusioni di molti commentatori63, l’obiettivo reale è di affiancarle alle

fonti tradizionali al fine di sostenere l’impetuosa crescita. Non si spiegherebbe altrimenti

perché si punti su infrastrutture faraoniche ad alto impatto ambientale, come il maxi-parco

eolico di Jiuquan, per cui è prevista una potenza di 10 GW (ossia quindici volte più elevata

di quella della più grande centrale eolica attualmente esistente) o i 13 GW di progetti di

centrali solari in stile Desertec stanziati nel 2009. E soprattutto non si spiegherebbe

perché i piani energetici cinesi continuino a sostenere il carbone come principale risorsa

strategica.

Il realismo richiede quindi di abbandonare le visioni manichee sulle rinnovabili, che

potevano essere vere 10-15 anni, quando le grandi corporation del settore energetico

erano interessate solamente a fonti fossili e nucleare (oltre alle grandi dighe) e quando le

teorie negazioniste sull’influenza umana nel riscaldamento globale del pianeta trovavano

ancora sufficiente credito:

62Cianciullo e Silvestrini 2010, 2163Il solito Thomas Friedman ha offerto una delle sue perle di saggezza sul New York Times del 27 settembre 2009 scrivendo che la ‘rossa Cina sta per diventare verde’.

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Page 56: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

È istruttivo osservare come i fautori a oltranza del presente ordine economico e sociale abbiano con realismo prontamente mutato condotta; inizialmente essi hanno negato l’esistenza di un qualsiasi indizio di interferenza nociva con l’ambiente. Costoro sostenevano che le crisi in ambito economico e sociale dovessero considerarsi fisiologiche e che i danni all’ambiente, alla salute, all’ecosistema fossero totalmente inesistenti, al più irrilevanti; oppure, se rilevati e quindi non contestabili, andassero ascritti a fattori estranei all’azione dell’uomo. Di fronte all’aggravarsi della crisi il piano è cambiato; si ammette la gravità della congiuntura e la si cavalca. Cioè si è elaborata una strategia per cui dopo aver provocato guasti si può lucrare ancora, travestendosi da addetti alle riparazioni64.

Oggi è molto più conveniente intraprendere vaste operazioni di marketing per la

promozione dello sviluppo sostenibile (Texaco, Suez o Dupont, ad esempio, tra le aziende

più distruttive nei confronti dell’ambiente, fanno parte del World Business Action For

Sustainable Development) e cercare di mettere le mani sulle fonti rinnovabili in modo da

utilizzarle all’interno dei consueti paradigmi di sviluppo: General Electric, Exxon Mobil,

Shell e persino Areva (la multinazionale francese del settore atomico), solo per fare alcuni

nomi, sono impegnate nell’eolico e nel solare. Come ha notato saggiamente Hervé Kempf,

queste aziende portano avanti progetti ‘verdi’ assolutamente minoritari rispetto a quelli

condotti sulle fonti energetiche tradizionali, a scopo pubblicitario e per darsi un’aurea di

credibilità di fronte all’opinione pubblica: “In quest’ottica, lo sviluppo delle energie

rinnovabili è soltanto un alibi ecologico per una politica immutata, un contrafforte per il

capitalismo che distrugge l’ambiente”65.

In Italia assistiamo addirittura al paradosso per cui diventano ‘sostenibili’ persino le fonti

fossili. Gian Battista Merlo, presidente di ExxonMobil Mediterranea, intervistato da a

Nuova Energia – Il periodico dello sviluppo sostenibile, dopo aver premesso che

Per il futuro ci aspettano due grandi prove. La prima consiste nel rispondere al crescente fabbisogno di energia che il mondo richiede per il suo sviluppo economico e sociale, soprattutto nei Paesi oggi meno avanzati; la seconda è quella di riuscire a farlo in modo sostenibile, salvaguardando l'ambiente

ha poi platealmente calato la maschera svelando che cosa intendono per ‘sostenibilità’ le

corporation:

64Cosenza 2010, 7765Kempf 2010, 87. A riprova della correttezza del giudizio di Kempf, società come Exxon Mobil e Shell svolgono una fortissima attività di lobby nel Congresso statunitense per bloccare le iniziative volte al taglio delle emissioni di gas serra.

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A meno di fluttuazioni marginali sulle singole componenti, tutte le previsioni concordano sul fatto che petrolio e gas resteranno ancora le maggiori fonti di energia per alcuni decenni a venire, coprendo circa il 60% della domanda. Le nostre stime prevedono un aumento al 2030 rispetto ad oggi di circa 76 milioni di barili/giorno di petrolio e gas, cioè circa 8 volte la produzione attuale dell'Arabia Saudita. Le ragioni per cui petrolio e gas rimarranno le fonti energetiche più diffuse sono sostanzialmente la loro economicità e la loro versatilità.In forte aumento soprattutto il gas, il cui mercato globale avrà una crescita media del 2,2% all’anno da qui al 2030, contro l'1,5 del petrolio. Certamente le centrali elettriche bruceranno più metano (circa il 40% della domanda di gas), il cui commercio crescerà notevolmente. L'evoluzione tecnologica renderà sempre più competitivo il gas naturale liquefatto (GNL) e assisteremo alla crescita del numero di terminali di ricezione, stoccaggio e rigassificazione, soprattutto in Europa e Nord America. La disponibilità di gas da fonti sicure e a costi competitivi avrà importanza strategica per lo sviluppo industriale e il benessere di un Paese e chi sarà più efficiente e rapido nell'adeguarsi al crescente mercato del GNL godrà di vantaggi competitivi66.

L’interesse per il GNL e i rigassificatori è sintomatico di come lo sviluppo ‘sostenibile’

finisca stranamente per coincidere con quello ‘realmente esistente’. I rigassificatori

appartengono alla stessa categoria di grandi opere di cui fanno parte TAV e MOSE, ossia

infrastrutture tenacemente sostenute da Destra e Sinistra nonostante le vibrate resistenze

della popolazione67. A differenza del nucleare68, l’atteggiamento verso i rigassificatori è

stato sicuramente molto più bipartisan. Da ministro dello sviluppo del secondo governo

Prodi, l’attuale segretario del PD Bersani aveva già sostenuto la necessità di costruire una

rete di rigassificatori, e i vertici nazionali di Centro-Destra e Centro-Sinistra si sono

mostrati compatti nel sostenere la costruzione di impianti come quello di Porte Empedocle,

malgrado le reazioni contrarie a livello locale: il giro di affari del resto va ben oltre l’aspetto

energetico. La CMC, la cooperativa ravennate vicina ai DS e poi al PD, si è aggiudicata il

mega-appalto per il raddoppio della strada statale 640 Agrigento-Caltanissetta, che ha

visto l’assegnazione dei numerosi subappalti alle ditte edili del luogo. Anche i partiti

sostenitori dei gruppi no-gas hanno spesso mostrato un atteggiamento non sempre

coerente: nel suo libro C’è un problema con l’Eni, l’ex giornalista di Liberazione Sabina

66Dario Cozzi, Merlo: Pronti a raccogliere le grandi sfide dello sviluppo sostenibile, a Nuova Energia – Il periodico dello sviluppo sostenibile, www.nuova-energia.com/index.php?option=com_content&task=view&id=61&Itemid=87. 67Oltre all’impatto ambientale dei rigassificatori, esistono forti rischi dovuti all’instabilità del GNL e alla sua notevole potenza esplosiva. 68In realtà anche dentro il Centro-Sinistra i simpatizzanti del nucleare erano numerosi e non si limitavano ai sostenitori dichiarati (come Umberto Veronesi, Chicco Testa, Franco De Benedetti, Pietro Ichino, Tiziano Treu e Margherita Hack, firmatari della lettera aperta in favore del nucleare apparsa su il Riformista dell’11 maggio 2010). Un cablogramma intercettato da WikiLeaks rivela che nel 2007 Pierluigi Bersani, allora ministro per lo sviluppo economico, firmò con il Segretario USA all’Energia Bodman, un accordo bilaterale di partnership sulla ricerca e lo sviluppo dell’energia nucleare; Bersani si impegnava anche a favorire la creazione un clima di consenso nel paese a favore dell’atomo.

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Morandi denuncia di aver ricevuto pressioni da Alfonso Gianni (allora dirigente di

Rifondazione Comunista e sottosegretario allo sviluppo economico) in seguito ad alcuni

articoli polemici apparsi sull’organo del Prc69.

Greenwashing e vera sostenibilità

Ma in definitiva che cosa significa ‘sostenibilità’? Non emettere gas serra? Non intossicare

aria, acqua e terra con sostanze artificiali? Oppure, come sostenne un direttore della

TESCO, “un nuovo modo per fare affari”? Più si abusa del termine più la confusione regna

sovrana.

I nuclearisti molto spesso etichettano come ‘sostenibile’ la loro energia perché la fissione

atomica non produce gas serra e le centrali liberano quindi nell’atmosfera solo vapore

acqueo70. Se detta in buona fede, si dimostra la più totale ignoranza del ciclo dell’energia

nucleare e sorprende che persone sempre pronte a denunciare i risvolti ecologicamente

negativi delle energie rinnovabili – ad esempio gli inquinanti processi di purificazione del

silicio per produzione di celle fotovoltaiche – siano totalmente ignari di quelli correlati alla

loro tecnologia preferita.

L’estrazione dell’uranio è un’attività ad alto consumo di energia e di acqua, che altera

pesantemente il territorio e mette a rischio la salute dei lavoratori a causa delle emissioni

di radon, gas nocivo per la salute umana. Il Niger è l’esempio lampante dei danni provocati

da tale attività: da anni martoriato da conflitti interni e guerre civili, lo stato centrafricano

presenta l’indice di sviluppo umano tra i più bassi del mondo, un tasso di denutrizione

elevatissimo, una mortalità infantile eccezionale (più di duecento bambini su 1000

muoiono tra gli uno e i quattro anni di età) e l’estrazione di uranio condotta per decenni dai

francesi di Areva sicuramente pesa in questa tragedia. Greenpeace, in collaborazione con

il laboratorio francese indipendente Criirad e la rete di ONG Rotab, ha condotto alcuni

studi dove si evidenzia come Areva abbia eseguito le operazioni in modo negligente,

rilasciando sostanze radioattive nell'aria, infiltrando le falde acquifere e contaminando il

terreno intorno alle città minerarie di Arlit e Akokan.71 In ogni caso, il solo fatto di aver

impiegato in 40 anni ben 270 miliardi litri di acqua (6,75 miliardi di litri all’anno) ha originato 69L’influenza dell’ENI sui vertici politici e sui media è vista con sospetto da molte fonti autorevoli. Nel novembre 2010, l’organizzazione WikiLeaks ha pubblicato alcuni cablogrammi inviati dall’ex ambasciatore statunitense in Italia Ronald Spogli, alcuni dei quali molti critici nei confronti della posizione dominante assunta dall’ENI all’interno del governo e sui media. 70A onor del vero rilasciano anche Trizio e Carbonio 14, sui quali pesano forti sospetti per la salute umana (Baracca e Ferrari Ruffino 2011, 257). 71Nel 2010 Areva ha ammesso le proprie responsabilità e si è impegnata a bonificare le zone colpite, dopo aver disatteso questo compito nel 2008.

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sicuramente conseguenze tragiche, in un paese occupato per due terzi dal deserto dove le

temperature sono tra le più alte registrate sul pianeta.

I problemi della fase finale del ciclo atomico non sono da meno: le scorie nucleari hanno

lunghissimi tempi di decadimento radioattivo (intorno ai migliaia di anni) e a oggi non

esiste un sito di stoccaggio definitivo, creando perciò un pesante fardello per l’ambiente e

le generazioni future. Non si può immaginare nulla di più lontano dallo sostenibilità.

Se la presunta sostenibilità del nucleare lasciava adito a pochi dubbi, molti resteranno

sorpresi dallo scoprire che tante soluzioni commerciali etichettate green in realtà sono

estremamente dannose per l’ambiente, come ha sperimentato di persona Gunther Pauli, il

pioniere della cosiddetta blue economy.

Pauli, ispirato dalle idee innovative di Lester Brown, negli anni Ottanta fondò la Ecover,

azienda specializzata in detergenti completamenti biodegradabili che sostituivano i

tensioattivi artificiali con altri ricavati dalla palma da olio. Quando l’innovazione cominciò a

imporsi sul mercato, Pauli scoprì con orrore che i suoi prodotti stavano contribuendo alla

deforestazione dell’Indonesia e all’estinzione dell’orangutan. Inconsapevolmente, la sua

impresa si era macchiata di greenwashig, termine che indica l'ingiustificata appropriazione

di virtù ambientaliste. Pauli capì che la biodegradabilità non implica di per sé la

sostenibilità, per la quale ideò invece una sua personale definizione: “fare di più con quello

che si ha”, rivedendo quindi il modello di business. Per questa ragione, ha condannato

come greenwashing l’utilizzo di colture dedicate alla realizzazione di biocarburanti e

plastiche biodegradabili, oppure l’impiego di materiali rari e costosi per moduli fotovoltaici

e torri eoliche.

Integrando la visione di Pauli con l’auspicio del Rapporto Brundtland, secondo cui occorre

trovare "equilibrio fra il soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la

possibilità delle future generazioni di sopperire alle proprie", si possono gettare le basi per

la ricerca della vera sostenibilità, di cui ci occuperemo nella quarta parte.

Uscire da qualunque crescita per salvare il pianeta.

Malgrado certe dichiarazioni ufficiali che trascendono la demenzialità, è davvero possibile

che chi occupa le alte sfere della politica e dell’economia mondiale sia talmente ottuso da

ignorare l’esistenza del problema ambientale? Il governo USA che, come garanzia dai

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rischi dell’effetto serra, suggeriva di “modificare la radiazione solare”72 credeva veramente

a ciò che stava proponendo? Sono talmente cieche e ignoranti le classi dirigenti mondiali?

Malgrado l’apparenza, diversi indizi lasciano intravedere una preoccupazione concreta.

Nel 2005 l’allora ministro del Tesoro britannico Gordon Brown chiese a Nicholas Stern,

economista della Banca Mondiale, di stilare un rapporto sugli effetti economici dei

cambiamenti climatici, che Stern ha poi utilizzato come base per il libro Un piano per

salvare il pianeta, presto diventato una Bibbia dello sviluppo sostenibile. Nel febbraio

2004, il settimanale britannico The Observer rivelò l’esistenza di un rapporto segreto del

Pentagono per il presidente Bush in cui i pericoli ambientali erano considerati “più

pericolosi di Al Qaeda” per la sicurezza nazionale americana. Infine non bisogna

dimenticare che l’ex vicepresidente USA e Nobel per la Pace Al Gore, balzato agli onori

della cronaca per la partecipazione al documentario ecologista Una scomoda verità

(vincitore di due premi Oscar) è stato per molti anni punto di riferimento di lobby e

potentati economici – l’Amministrazione Clinton, di cui Al Gore era vice, è stata

determinante per l’ascesa del neoliberismo – ed è difficile immaginare che ora siano del

tutto estranei alle sue battaglie ambientaliste. Allora come si spiega la pericolosa

svogliatezza che rischia di condannare in eterno il pianeta?

Il problema fondamentale è che la ristretta super-classe che governa il mondo trae il suo

privilegio dalle attività responsabili della devastazione ambientale. Interrompere il

meccanismo della crescita illimitata vorrebbe dire inceppare l’intero sistema economico e

sovvertire gran parte delle gerarchie esistenti. Ne consegue perciò che alle preoccupazioni

per la salute del pianeta siano anteposte quelle per la preservazione dell’ordine

dominante, per cui si ignora o si ridimensiona il problema – magari foraggiando qualche

scienziato ‘eretico’ capace di affermare che i cambiamenti climatici sono dovuti a strane

alterazioni dell’attività solare, e assicurandogli grande visibilità presso i media – oppure si

elabora una visione ambientalista molto miope etichettandola con la parola magica

‘sostenibile’, attuando al più qualche misura palliativa.

Non è un caso che il problema ecologico venga ridotto al riscaldamento climatico dovuto

all’emissione dei gas serra (l’approccio di Stern), l’unico aspetto dove la tecnologia può

dare un apporto concreto, estromettendo altri ugualmente importanti come la perdita di

biodiversità che invece richiederebbero la revisione radicale dello stile di vita occidentale e

delle metodologie di produzione, unica reale via di salvezza. Ma ciò, come sostengono

giustamente Hervé Kempf e Daniel Tanuro, può essere compatibile con l’esistenza del

72E’ quello che fece l’amministrazione Bush in un promemoria inviato all’IPCC.

60

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mercato ma non con il capitalismo, un sistema economico che non può ammettere uno

stato stazionario ma deve incessantemente espandersi. È per tale ragione che, qualsiasi

alternativa si voglia trovare allo logica della crescita infinita e delle sue versioni

politicamente corrette (come lo sviluppo sostenibile, l’economia dello stato stazionario o le

teorie della post-crescita) essa dovrà inevitabilmente emanciparsi dalle pratiche e dalla

cultura del capitalismo.

.

61

Page 62: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Una nostalgica utopia negativa: la socialdemocrazia

Molte persone, simpatizzanti di Sinistra ma non solo, rimpiangono apertamente il

capitalismo della ricostruzione post-bellica che spianò la strada al boom economico degli

anni Sessanta e parallelamente consentì l’ampliamento dei diritti sociali, civili ed

economici: un’epoca non solo di ridistribuzione della ricchezza e di mobilità sociale, ma

anche di sostanziale ottimismo verso il futuro e di grande passione politica, molto diversa

da quella attuale, apatica e dominata da insicurezza, clientelismo e dove il compito dello

Stato sembra unicamente quello di rastrellare denaro in nome del bene supremo della

bilancia dei pagamenti. Senza demonizzare alcunché, è giunto finalmente il momento di

abbandonare ogni mitizzazione: benché molte conquiste rimangano dei capisaldi

irrinunciabili, non si può prescindere da un’analisi critica di quegli anni per comprendere

alcuni importanti errori che hanno influenzato inevitabilmente le fasi storiche successive,

compresa quella attuale. Si potrebbe liquidare immediatamente l’argomento ribadendo

che, trattandosi di una delle tante forme di economia basata sulla crescita – anzi,

storicamente parlando forse della migliore economia di crescita possibile - la

socialdemocrazia73 di fatto non sia intrinsecamente sostenibile. Tuttavia, per non covare

rimpianti immotivati, è bene analizzare un po’ più a fondo quel periodo storico, scoprendo

aspetti troppo spesso trascurati che fanno riflettere su certi giudizi tradizionali.

L’insostenibile ricostruzione socialdemocratica

Malgrado gli stravolgimenti dell’era neoliberista, il benessere europeo è ancora

strettamente connesso alle politiche socialdemocratiche attuate nel secondo dopoguerra

dalle principali nazioni del continente. Con lievi sfumature da paese a paese, venne

adottato come paradigma per la ricostruzione dell’Europa sotto l’egemonia statunitense

una ricetta keynesiana basata su grandi investimenti pubblici a sostegno dei mercati

interni, accompagnata a un progressivo accordo con le forze sindacali per migliorare le

condizioni della classe lavoratrice, creando le premesse per un aumento dei consumi che

originasse una congiuntura economica favorevole. In un simile contesto di ricostruzione

seguire dottrine liberiste sarebbe stato del tutto insensato, anche perché la necessità di

contenere la minaccia ideologica comunista non ammetteva fallimenti di alcun genere:

73Per comodità in questo capitolo eviteremo le disquisizioni terminologiche usando i termini ‘socialdemocratico’ e ‘keynesiano’ sostanzialmente come sinonimi, indicando quelle politiche dove lo Stato sostiene l’attività economica allargando la fascia dei diritti sociali la distribuzione del reddito, allo scopo di sostenere la domanda aggregata e la crescita dei consumi.

62

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occorreva dimostrare che il capitalismo di stampo americano non era egoista ed elitario,

ma si faceva carico di migliorare il benessere di tutti gli strati sociali, similmente a quanto

accaduto negli USA negli anni Trenta con il New Deal roosveltiano74. Nel discorso

inaugurale del secondo mandato presidenziale Harry Truman fu assolutamente esplicito:

Per la prima volta nella storia, l’umanità ha le conoscenze e la capacità di alleviare le sofferenze di questi popoli. Gli Stati Uniti eccellono tra le nazioni nello sviluppo di tecniche scientifiche e industriali. Le risorse materiali che possiamo permetterci di utilizzare per l’assistenza di altri popoli sono limitate. Ma le nostre inquantificabili risorse di conoscenze tecniche sono in costante aumento e sono inesauribili.Io credo che dovremmo mettere a disposizione dei popoli che amano la pace i vantaggi del nostro bagaglio di conoscenze tecniche per aiutarli a realizzare le loro aspirazioni ad una vita migliore. E, in cooperazione con altre nazioni, dovremmo favorire gli investimenti di capitale in settori che necessitano di sviluppo. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo a produrre, attraverso i loro stessi sforzi, più cibo, più vestiti, più materiali per l’edilizia abitativa e più in energia meccanica per alleggerire i carichi.

Ecco quindi la straordinaria ‘generosità’ del piano Marshall - anche nei confronti degli ex

nemici Germania, Italia e Giappone – e il ricorso a strategie di pianificazione economica

che ancora negli anni Trenta sarebbero state bollate come ‘socialiste’ e che adesso invece

erano pensate allo scopo di rafforzare il capitalismo. In alcuni casi vennero addirittura

imitate misure precedentemente sperimentate in URSS, che già aveva condotto una

massiccia opera di modernizzazione prima dello scoppio della guerra.

Lo storico inglese Eric Hobsbawn ha definito il periodo 1950-65 ‘età dell’oro’ della crescita

economica, a suo giudizio dovuta soprattutto alla concertazione tra imprenditori e parti

sociali:

Questa politica si fondava anche su un tacito o esplicito accordo tra gli imprenditori e i sindacati per contenere le richieste dei lavoratori entri limiti che non intaccassero i profitti nel presente né le prospettive di alti profitti nel futuro, profitti tali da giustificare gli enormi investimenti senza cui la crescita spettacolare di produttività dell’Età dell’oro non sarebbe potuta avvenire... Questo patto sociale era accettabile per tutte le parti in causa. I datori di lavoro, che non si preoccupavano molto di pagare salari elevati in tempi di espansione e alti profitti, accolsero con favore la regolare prevedibilità di contrattazioni che facilitavano la programmazione. I lavoratori, a loro volta, ottenevano benefici aggiuntivi, nonché misure assistenziali sempre più estese e generose... Le economie dei paesi industriali capitalistici andavano a gonfie vele,

74Secondo molti storici, Luigi Einaudi nel dopoguerra fu emarginato da incarichi di governo non solo per la diffidenza della Sinistra ma su pressione dell’Amministrazione statunitense preoccupata dalle sue idee liberiste. L’elezione a presidente della Repubblica di fatto consistette in un prestigioso promoveatur ut admoveatur.

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se non altro perché per la prima volta (al di fuori del Nordamerica e, forse, dell’Australia) si formò un’economia di consumo di massa, grazie alle condizioni di pieno impiego e di costante crescita dei salari reali, garantiti da misure di sicurezza sociale che venivano finanziate con l’aumento delle entrate fiscali75.

In questo contesto si radicò la concezione dello stato sociale (welfare state) e ideali come

la previdenza sociale, l’istruzione pubblica e l’assistenza sanitaria gratuita diventeranno

dei cardini della società europea occidentale tenacemente difesi dalla popolazione, a

differenza di altri provvedimenti di questo periodo (come la nazionalizzazione dell’energia

e delle telecomunicazioni) fagocitati dall’ondata neoliberista degli anni Novanta. La

crescita economica inoltre sancì l’inizio della società dei consumi, dove beni in precedenza

appannaggio di ristrette élite (automobile, televisore, elettrodomestici, ecc.) divennero

accessibili alle masse, grazie al connubio tra maggior potere di acquisto e diritti sociali

garantiti dallo Stato. Persino un paese come l’Italia, uscito devastato dalla guerra, ottenne

risultati strepitosi: all’inizio degli anni Sessanta il reddito nazionale era raddoppiato

passando da diecimila a ventimila miliardi di lire; la quota dell’industria tra il 1952 e 1962

incrementò dal 27% al 44% del PIL, il cui tasso di crescita nei primi anni Sessanta si

attestò anche sopra il 6%, con una punta del 6,8% nel 196176; aziende come Ignis, Indesit,

Olivetti e FIAT si rivelarono tra le più fiorenti del Mercato comune europeo.

Questa ’età dell’oro’, basata su compromessi politici a largo raggio e su di una situazione

socio-economica molto particolare come quella del dopoguerra, non poteva però durare in

eterno:

Economicamente quell’equilibrio dipendeva da una coordinazione fra la crescita della produzione e i guadagni che tenevano stabili i profitti. Una flessione della crescita continua della produzione e/o una crescita sproporzionata nei salari avrebbero prodotto una destabilizzazione. Il sistema si reggeva su un equilibrio che era mancato vistosamente fra le due guerre, quello fra la crescita della produzione e il potere d’acquisto dei consumatori. I salari dovevano crescere abbastanza in fretta da mantenere sostenuto il ritmo delle vendite, ma non così in fretta da comprimere i profitti. Ma come controllare i salari in un’epoca di penuria di manodopera o, più in generale, come controllare i prezzi in un periodo di domanda eccezionalmente elevata? In altre parole come controllare l’inflazione o come riuscire almeno a contenerla? Infine l’Età dell’oro dipendeva dal dominio politico ed economico degli USA che agivano – talvolta senza volerlo – come stabilizzatori e garanti dell’economia mondiale.77

75Hobsbawn 2006, 331-332. Sempre allo scopo di soffocare il conflitto sociale, l’imprenditoria statunitense accettò di finanziare e riorganizzare corsi di riqualificazione per i primi gruppi di lavoratori estromessi dai processi di automazione. Così facendo però i sindacati rinunciavano a qualsiasi controllo sullo sviluppo tecnologico (Rifkin 1997, 149). 76Mammarella in Desideri e Themelly 1996, 1110.77Hobsbawn 2006, 334-335

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La crisi del sistema di convertibilità del dollaro in oro, iniziata negli anni Sessanta - quindi

ben prima dell’abolizione per opera di Nixon – l’indebolimento degli USA dovuto alla

guerra del Vietnam e l’esaurirsi delle migrazione interne, fonti di manodopera a basso

costo, portarono alla diminuzione della produttività con ricadute inevitabili su di un sistema

sociale che basava la propria prosperità sull’utopia della crescita continua.

Non si deve dimenticare che questa fase storica fu governata in Europa da partiti politici

del Centro o della Sinistra moderata, per cui si trattò di un ‘socialismo’ molto diluito e non

privo di contraddizioni. Il principio ispiratore era il motto di John Maynard Keynes secondo

cui “almeno per altri cent’anni, il brutto è bello e il bello è brutto, perché il brutto è utile,

mentre il bello non lo è…Il tempo della bellezza non è ancora venuto“. Come dire: il fine

giustifica i mezzi e forse per questa ragione i partiti socialdemocratici e i sindacati non si

opposero più di tanto agli interventi armati per reprimere l’indipendentismo delle colonie e

allo scoppio dei conflitti in Corea e Vietnam, quando non li hanno apertamente sostenuti.

La classe lavoratrice e le fasce sociali più deboli ottennero il riconoscimento di diritti

fondamentali, ma furono anche pervase dall’ideologia mercificatrice della nascente società

dei consumi che distrusse gran parte della cultura popolare e delle pratiche comunitarie,

un fenomeno accentuato dall’esodo sempre più esteso dalle campagne. Alla ricerca della

piena occupazione, l’attenzione venne concentrata sulla crescita e sull’abbondanza, senza

interrogarsi adeguatamente sugli scopi della produzione e sulle conseguenze dello

sviluppo sull’ambiente; e probabilmente nella storia non è esistito esempio più grande di

alienazione dei lavoratori degli operai della Tennessee Valley Authority – fiore all’occhiello

del New Deal rooseveltiano – che inconsapevolmente producevano energia elettrica per i

laboratori del centro di ricerche atomiche di Oak Ridge, il più importante di quelli legati al

progetto Manhattan (da lì uscì l’uranio usato per bombardare Hiroshima). È un dato di fatto

che le organizzazioni sindacali si sono rivelate più combattive in Italia e in Germania, cioè

dove aveva imperato il nazifascismo, che nella patria del New Deal dove si è affermata

l’AFL-CIO, sindacato moderato e smaccatamente filo-governativo.

Accanto a un’economia socialdemocratica cominciava a prendere piede una società

individualista e omologata che presto, come predisse Pasolini, avrebbe offerto il fianco a

una nuova reazione totalitaria mascherata di spensieratezza e libertinismo; contrariamente

alle aspettative, tra Stato e cittadino cominciò a crearsi una frattura sempre più netta:

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Paradossalmente anche lo stato sociale, fiore all’occhiello delle socialdemocrazie, ha lavorato in questa direzione, perché ha sostituito la comunità con le istituzioni. In effetti quando andiamo in ospedale, a scuola, al posto di polizia, non troviamo facce note al quartiere, ma degli estranei che sono lì per guadagnare uno stipendio. Va da sé che i soldi per pagarli li diamo noi tramite le tasse, ma il rapporto è troppo indiretto per suscitare in noi un senso di appartenenza. Così viviamo i servizi pubblici come dei corpi estranei gestiti dall’alto, che raramente apprezziamo78.

Non si deve dimenticare che uno dei primi statisti a implementare misure concrete di

assicurazione sociale è stato Otto von Bismarck, non certo sospettabile di simpatie

socialiste, seguito a ruota da altri politici di orientamento conservatore (anche William

Beveridge, autore del Report of the Inter-Departmental Committee on Social Insurance

and Allied Services servito da spunto per il governo laburista successivo a Churchill, era

un liberale). Oggi risulta abbastanza chiaro che fu il padronato a spingere per i versamenti

obbligatori dei propri operai, in modo da non doversi più accollare interamente il costo

della sicurezza sociale dei lavoratori; così facendo, lo Stato non solo poteva monitorare le

condizioni di salute della propria classe lavoratrice - e anche militare, con la coscrizione

obbligatoria - ma contrastava attivamente le associazioni spontanee di mutuo soccorso

finanziate dall’auto-tassazione, portatrici di un’idea di autogestione operaia potenzialmente

eversiva.

Il ‘progressismo di Stato’ è sempre stato molto ambiguo anche riguardo all’allargamento

della sfera dei diritti alle donne e alle minoranze, concessi soprattutto allo scopo di favorire

la loro integrazione nel mercato del consumo, lasciando intatta il più possibile la struttura

di potere preesistente e mantenendo quindi sotto forma diversa la discriminazione.

L’esclusione su base sessuale o razziale, spesso considerata un residuo della sottocultura

che permea le classi sociali più basse, in realtà ricalca le tendenze interne al potere

politico ed economico e finisce per rispecchiarsi sul resto della popolazione. Laddove le

categorie sociali discriminate sono riuscite a superare l’esclusione, ciò si deve allo sforzo

di organizzazioni popolari che l’hanno duramente combattuta e quasi mai alla redenzione

o all’ammissione di colpa da parte dello Stato.

Prendiamo ad esempio il caso italiano. A meta anni Sessanta, la Piaggio Vespa diventò un

prodotto di massa, molto consigliato anche per la mobilità femminile: rispetto alle moto

tradizionali, il piccolo serbatoio e la potenza ridotta consentivano a persone con una

struttura fisica più minuta, quindi anche alle donne, di poter usufruire di un ciclomotore; la

pubblicità presentava la Vespa come baluardo dell’emancipazione. Eppure nello stesso

78Gesualdi 2010, 106

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periodo, sul piano legislativo, la situazione era molto meno rosea: benché la Costituzione

repubblicana riconoscesse l’uguaglianza dei sessi, molti anni dopo la sua proclamazione

rimanevano in vigore leggi prettamente discriminatorie, come il matrimonio quale giusta

causa di licenziamento (abolita nel 1963), il perseguimento giudiziario del solo adulterio

femminile (cassata nel 1968) e altre ancora; il numero delle donne impegnate in politica

rimaneva scandalosamente basso. Lo stile di vita materiale delle giovani italiane era simile

a quello delle loro coetanee francesi, tedesche o inglesi, ma sul piano dei diritti avevano

ancora molto da invidiare, e solo l’attivismo femminista degli anni successivi è riuscito a

cambiare la situazione, spesso apertamente contrastato dal potere.

Il boom implode

Il ‘miracolo economico’ italiano, governato da una classe dirigente con forti interessi

clientelari, ha mostrato con maggiore chiarezza tutte le problematiche di uno sviluppo

repentino e incontrollato. Già nel 1968 lo storico Giuliano Procacci, nella sua Storia degli

italiani, condannava la speculazione edilizia e la motorizzazione di massa, gonfiata oltre le

possibilità economiche del paese a scapito del trasporto pubblico, che facevano da

corollario a un’amministrazione pubblica mastodontica quanto inefficiente, alla corruzione

generalizzata e a un sistema fiscale forte con i deboli ma incline a tollerare le grandi

evasioni.

Tuttavia, anche dove lo sviluppo era condotto in modo più efficiente, il ‘capitalismo

riformato’ recava con sé tutte le problematiche che sarebbero poi esplose

drammaticamente ai giorni nostri. In un’epoca in cui i le fonti energetiche fossili erano

abbondanti e la bramosia consumista imperava, si trascurò la finitezza della materie prime

e la natura venne trattata come discarica universale e pozzo senza fondo da cui attingere

a piacimento; neppure il capitalismo pre-bellico aveva mai mostrato particolari scrupoli nei

confronti dell’ambiente, ma ora i ritmi produttivi si erano decuplicati. Quando nel 1966

Albert Speer, architetto e ministro per gli armamenti del Reich hitleriano, venne rilasciato

dal carcere di Spandau, rimase assolutamente sconcertato dal mondo che si trovò di

fronte, come si evince da alcune interviste: “Quando mi hanno liberato, sono rimasto

stupefatto dal numero di auto in circolazione, da quell’incredibile sperpero di energia... il

mondo in cui vivete non ha il minimo futuro”79. Si trattava dell’opinione smaliziata di una

persona scevra da interessi economici e politici del momento, e forse per tale ragione fu

79Citato in Rouer e Gouyon 2009, 102

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avallata da ben pochi scienziati: tra questi il geofisico Marion King Hubbert, con la teoria

del ‘picco’ di produzione di una risorsa non rinnovabile, elaborata già nel 1956 e presa in

seria considerazione solo negli anni Settanta in seguito alla crisi del Kippur e alla serrata

dei paesi dell’OPEC. Il fabbisogno energetico indiscriminato fu la giustificazione principale

per la diffusione del nucleare civile, senza interrogarsi adeguatamente sui rischi associati

a questa tecnologia; anzi, in alcuni casi si verificarono connivenze delle associazioni dei

lavoratori, come in Francia. Dopo la creazione nel 1946 dei monopoli energetici nazionali

Electricité de France (EDF) e Gaz de France (GDF), per evitare conflitti sociali si stabilì

per decreto che l’1% del fatturato di tali imprese venisse destinato a un fondo sociale

gestito dai sindacati, dove la CGT, strettamente legata al Partito Comunista Francese, era

l’associazione maggiormente rappresentata80. In questo modo si evitò qualsiasi

discussione critica sullo sviluppo energetico all’interno dei movimenti dei lavoratori81.

La degenerazione produttivista portò alla svalutazione del lavoro umano in favore

dell’automazione, con scarsissimo riguardo per gli oneri sociali e ambientali che poteva

comportare:

L’ideale al quale aspirava l’Età dell’oro, benché fosse realizzato solo gradualmente, era una produzione o perfino un’erogazione di servizi senza la presenza umana: i robot automatizzati che assemblavano l’automobile, stanze silenziose piene di file di computer che controllavano la produzione di energia, treni senza conduttori. Gli esseri umani erano necessari per un’economia siffatta solo per un aspetto, come acquirenti di beni e servizi. Proprio in ciò consiste il problema centrale di questo tipo di economia. Nell’Età dell’oro esso sembrava ancora irreale e remoto, coma la futura morte dell’universo per entropia sulla quale gli scienziati vittoriani avevano ammonito la razza umana82.

Fino agli anni Sessanta il tasso di disoccupazione in Europa e Giappone non superò mai

l’1,5% per cui solo a partire dagli anni Settanta il dualismo uomo-macchina diventò una

tematica scottante; eppure, al pari della crisi energetica, non era affatto un’incognita

imprevedibile. Tuttavia, persino molte formazioni politiche marxiste ritenevano che

andasse favorito lo sviluppo tecnologico per arrivare alla contraddizione finale tra capitale

e lavoro, quella dove le forze produttive agiscono in modo quasi autonomo permettendo

l’emancipazione definitiva dei lavoratori umani dalla fatica. 80Baracca e Ferrari Ruffini 2011, 132-13381Il ritardo nello sviluppo delle energie rinnovabili è imputabile in gran parte agli idrocarburi a buon mercato e ai massicci stanziamenti nell’energia atomica: nel 2008 (dati IEA), il paese che utilizzava maggiormente il nucleare per la produzione elettrica, cioé la Francia, aveva meno dell’1% da solare ed eolico. Come testimonia l’ottimo libro L’autarchia verde di Marino Ruzzenenti, la scienza fascista aveva compiuto ricerche interessanti sulle energie rinnovabili e sulle materie prime di origine biologica, completamente abbandonate nel dopoguerra dai monopoli energetici statali ENEL ed ENI. 82Hobsbawn 2006, 314

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La meccanizzazione delle campagne ha rappresentato un’altra faccia del medesimo

problema: associata alla ‘rivoluzione verde’, basata sulla diffusione capillare della bio-

chimica a danno delle conoscenze tradizionali, sembrava possibile soggiogare la natura ai

ritmi della produzione industriale promettendo di mettere fine alla fame del mondo. In

Francia, tra il 1960 e il 1980 la produzione si è triplicata, ma la popolazione contadina si è

ridotta di un quarto83, e gli altri paesi europei hanno riscontrato dinamiche simili. Gli effetti

nocivi di pesticidi e concimi chimici sarebbero diventati evidenti solo anni dopo che la

‘rivoluzione’ era stata propagandata in tutto il mondo come panacea, mostrando il lato

oscuro di quella produttività smisurata.

Da tutte queste considerazione si deduce che la socialdemocrazia novecentesca non è un

modello sostenibile e che la globalizzazione e l’ondata neoliberista hanno funzionato da

catalizzatore di problematiche già preesistenti, con l’ulteriore danno di svilire le conquiste

della classe lavoratrice.

Miopia e superficialità

A cinquant’anni di distanza dai fatti è molto facile e forse ingeneroso rimproverare errori e

sottovalutazioni, se pensiamo che persino un’istituzione conservatrice come la Chiesa

cattolica si era fatta coinvolgere dalla bramosia sviluppista: nel 1967, Papa Paolo VI

scrisse l’enciclica Popularum Progressio, sostanzialmente una benedizione delle politiche

di crescita economica condita da alcune raccomandazioni paternalistiche84.

Bisogna premettere, a giustificazione dei fautori della socialdemocrazia, che il panorama

politico tra gli anni Cinquanta e Sessanta non presentava paradigmi molto diversi per

quanto riguarda lo sviluppo produttivo e la tematica ambientale. Il comunismo, la principale

alternativa al sistema capitalista, di fatto seguiva per altre vie lo stesso mito della crescita

illimitata, pur affidandosi a una gestione interamente statale dell’economia imperniata

sull’industria pesante e non sui beni di consumo; i livelli di spreco energetico e di

inquinamento non hanno mai avuto nulla da invidiare all’Occidente. Il pensiero

ambientalista ha cominciato ad assumere una dimensione politica solo a partire dagli anni

Settanta e i suoi precursori derivano soprattutto dalla tradizione anarchica e dal pensiero

83Latouche 2005, 5984In questa enciclica per la prima volta il capitalismo viene pienamente legittimato dalla Chiesa: “Ma se è vero che un certo «capitalismo» è stato la fonte di tante sofferenze, di tante ingiustizie e lotte fratricide, di cui perdurano gli effetti, errato sarebbe attribuire alla industrializzazione stessa quei mali che sono dovuti al nefasto sistema che l'accompagnava. Bisogna, al contrario, e per debito di giustizia, riconoscere l'apporto insostituibile dell'organizzazione del lavoro e del progresso industriale all'opera dello sviluppo”.

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freak e new age influenzato dalle culture orientali, mentre era quasi del tutto estraneo al

marxismo e al liberalismo.

L’errore di fondo compiuto dalla Sinistra è stato quello far coincidere il progresso sociale

quasi esclusivamente con il miglioramento della condizione lavorativa e di aver ragionato

su concetti come ‘povertà’ e ‘ricchezza’ in termini strettamente materialisti, sottovalutando

gli aspetti culturali e sociali, come i legami comunitari.

Certo, la maggior parte dell’umanità restava povera, ma nelle vecchie roccheforti industriali della classe operaia che significato potevano ancora avere le parole dell’Internazionale, che esortavano gli affamati a destarsi dal loro torpore, per operai che ora si aspettavano di possedere un’automobile e di trascorrere sulle spiagge della Spagna le ferie annuali pagate? Se fossero venuti tempi difficili, uno stato assistenziale sempre più esteso e generoso non avrebbe forse offerto loro la protezione, in misura mai immaginata prima contro i rischi della malattia, delle disgrazie e della vecchiaia, così temuta in passato dai poveri? Il loro reddito cresceva anno dopo anno, quasi automaticamente. Non sarebbe forse aumentato per sempre? La gamma di beni e servizi offerta dal sistema produttivo e disponibile per loro faceva rientrare nel consumo quotidiano ciò che in passato era un lusso. Anno dopo anno essa si ampliava. In termini materiali che cosa poteva volere di più il genere umano, se non estendere i benefici di cui godevano i popoli favoriti di alcuni paesi agli sfortunati abitanti di quelle parti del mondo – i quali, va detto, erano pur sempre la maggioranza dell’umanità – che non erano ancora entrati nel processo di ‘sviluppo’ e ‘modernizzazione’?85.

Oggi miopia e superficialità di questo ragionamento sono evidenti. L’incredibile benessere

materiale dell’Occidente è sempre stato figlio dello sfruttamento di altri paesi, attraverso

forme di colonialismo dirette o indirette, ma per l’operaio degli anni Cinquanta-Sessanta

non era così ovvio. Inoltre, l’idea che la torta potesse ampliarsi a dismisura senza effetti

collaterali era ampiamente radicata nella classe dirigenti; ecco cosa scriveva nel 1957

Anthony Crosland, deputato laburista e importante teorico del socialismo, nel libro The

future of socialism:

Ci si può aspettare senz’altro che l’automazione risolva ogni altro problema di scarsa produzione. Guardando al futuro, il nostro presente tasso di crescita ci porterà in cinquant’anni a una produzione nazionale triplicata86.

Questa fiducia acritica nella tecnologia, degna del peggior Positivismo, era il filo

conduttore che accomunava la Sinistra moderata e quella più estremista, come se la crisi

degli anni Venti e le due guerre mondiali non avessero insegnato nulla. Solo una

85Hobsbawn 2006, 314-31586Riportato in Hobsbawn 2006, 315

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sparutissima minoranza avrebbe seguito Pasolini barattando “una lucciola per la

Montedison”.

Il grande intellettuale friulano aveva compreso come la visione ‘sviluppista’, unita al

meccanismo della delega allo Stato e alla mercificazione anche degli aspetti più intimi

dell’esistenza umana, avrebbe portato a una mutazione antropologica radicale della

popolazione – che lui vedeva già all’opera negli anni Sessanta – in direzione molto diversa

da quella auspicata dai progressisti. Imitando gli stili di vita borghesi, era inevitabile

assorbirne anche la mentalità. Marcuse parlò di “uomo a una sola dimensione”,

completamente annebbiato dal consumismo al punto da non comprendere la repressione

del potere, dove la libertà si riduce alla possibilità di scegliere tra prodotti differenti.

Pensare che il capitalismo fosse ‘cambiato’ o ‘riformato’, come credevano i socialisti alla

Crosland87, è stata un gravissimo abbaglio: il capitalismo non era affatto mutato, ma i

lungimiranti governanti occidentali del dopoguerra avevano capito, per usare le parole di

Hobsbawn, che era necessario salvare l’impresa innanzitutto da se stessa prima che dalle

rivendicazioni della classe lavoratrice o dal comunismo, e per il suo bene bisognava

somministrarle qualche boccone amaro. Non appena lo sviluppo tecnologico e le

condizioni politiche glielo hanno permesso, cioè a partire dagli anni Settanta, le imprese si

sono emancipate dal lavoro locale e gli stati capitalisti hanno gradualmente riproposto -

spalleggiate da nuovi sacerdoti dell’economia, su tutti Milton Friedman e la dinastia dei

Chicago Boys – le stesse ricette, in versione aggiornata, responsabili della Grande

depressione e della crisi del 29. Secondo Bauman è stato il passaggio da un capitalismo

produttivo e localizzato (il cosiddetto fordismo) a uno consumista e basato sulla libera

circolazione globale, a segnare in modo irreversibile il destino delle classe lavoratrice: fino

a quando la fabbrica era radicata sul territorio, anche l’azienda aveva interesse a

sostenere un minimo di misure di welfare, dove lo Stato si facesse carico almeno degli

oneri sanitari di quella che sarebbe stata la manodopera dell’impresa per molti anni a

venire; quando il capitale ha potuto ricercare in tutto il mondo le condizioni più vantaggiose

sul piano del mercato del lavoro, aprendo e dismettendo attività produttive in tempi record,

ha perso ogni interesse al riguardo, declassando lo Stato sociale a un inutile fardello e i

lavoratori a poco più di una inevitabile seccatura. I nuovi padroni del vapore, gli arroganti

manager di cui oggi Sergio Marchionne è probabilmente l’esempio più lampante, non sono

da considerarsi la causa bensì la conseguenza coerente di un processo storico iniziato

molto tempo fa e che aveva trovato il sostegno di Sinistra e sindacati.

87“Il capitalismo si è riformato in misura tale da diventare irriconoscibile”

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Quando ne ha avuto la possibilità, il capitalismo ha gettato la maschera dimostrando che

la socialdemocrazia era una solo una fase di transizione e un modello non sostenibile è

stato rimpiazzato con uno altrettanto insostenibile ma molto più iniquo.

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TERZA PARTE

DISFARE LA SINISTRA PER RIFARE LA POLITICA

“Che cos’è la Sinistra?” è la classica domanda delle cento pistole. La versione italiana di

Wikipedia se la cava con una risposta lapidaria ed essenziale:

Con il termine Sinistra, utilizzato nel campo della politica, si indica la componente del Parlamento che siede alla sinistra del Presidente dell'assemblea e, in generale, l'insieme delle posizioni politiche qualificate come più egualitariste della Destra

Nell’epoca attuale in cui le differenze tra i due schieramenti sono ridotte al minimo, si tratta

senza dubbio di una definizione ineccepibile.

Storicamente, a partire dalla posizione che occupava nell’assemblea degli Stati Generali

del 1789, il termine ‘Sinistra’ è servito a indicare quei gruppi politici sostenitori di una

trasformazione sociale in favore dei ceti popolari e quindi di una società più egualitaria, in

contrasto con la ‘Destra’ interessata alla conservazione dello status quo e al

mantenimento della disuguaglianza. Presentata in questo modo, si direbbe quasi di aver

identificato i ‘buoni’ e i ‘cattivi’ della politica, cosa purtroppo ben lontana dal vero.

Alla Sinistra, nelle sue varie declinazioni, sono ascrivibili alcuni dei peggiori eventi della

storia umana, si pensi al comunismo sovietico - degenerazione autoritaria della rivoluzione

che avrebbe dovuto emancipare se non l’umanità almeno il popolo russo – e l’escalation

nucleare militare, iniziata dal democratico Franklin Delano Roosevelt e proseguita con il

suo vice Truman; più in generale ogni forma di ‘Sinistra’, in tutte le sue sfumature, ha i suoi

scheletri nell’armadio e soprattutto la sua collezione di fallimenti.

La variante estrema della Sinistra, il comunismo sovietico, che fino agli anni Settanta era

riuscito a competere con il capitalismo americano almeno sul piano della corsa agli

armamenti e dell’industrializzazione pesante, negli anni Ottanta entrò in una fase di

stagnazione economica da cui è stato incapace di riprendersi. La rigidità della

nomenclatura, oberata da potentissime corporazioni burocratiche e militari, ha bloccato le

svolte riformiste di Mikhail Gorbaciov e impedito la ristrutturazione su base informatica

dell’apparato industriale, finché tutto il sistema sovietico è drammaticamente imploso su

se stesso grazie anche agli sforzi orchestrati dall’Occidente. Come ha ben detto Antony

Giddens, “quello che sembrava un implacabile sistema di potere, il totalitarismo

comunista, svanì quasi come non fosse mai esistito”.

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Le varianti più moderate della Sinistra, resistite a una fine così drammatica, troppe volte

hanno fatto il gioco della Destra: la svolta neoliberista non sarebbe stata possibile senza

l’apporto fondamentale del liberal Bill Clinton, che ha completato l’opera dei predecessori

repubblicani Reagan e Bush; e in Europa tutte le forze di orientamento socialisteggiante –

laburisti inglesi, socialisti francesi, SPD tedesca e in Italia i partiti susseguitesi allo

scioglimento del PCI - crollata l’URSS e tramontati i modelli keynesiani, si sono lasciati

irretire da Frances Fukuyama e dall’idea della ‘fine della storia’, della vittoria definitiva

della democrazia liberale nella forma della globalizzazione neoliberista. Dichiarando quindi

conclusa la loro funzione storica di forze egualitarie e ridistributrici, questi partiti nel

migliore dei casi hanno cercato vanamente di implementare una globalizzazione ‘dal volto

umano’ che preservasse qualcosa del vecchio welfare state dalla furia devastatrice del

mercato; altre volte, per usare la parole di Zygmunt Bauman, si sono posti l’obiettivo di

“fare in modo più completo il lavoro che la ‘Destra’ reputa necessario ma non riesce a fare”

spesso con il consenso di sindacati ammaestrati e ubbidienti. In Gran Bretagna il New

Labour di Tony Blair ha realizzato gran parte del programma thatcheriano ancora

incompiuto e in Italia sono stati governi di Centro-Sinistra a introdurre la precarizzazione

del lavoro (con il Pacchetto Treu, varato dal governo Dini e confermato da quello Prodi I),

a privatizzare Telecom ed Eni, a riformare in senso privatistico la Banca d’Italia e a

disporre la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. È stato un governo di Centro-Sinistra

- sostenuto per di più da una formazione politica dichiaratamente comunista - il primo nella

storia repubblicana ad aggredire uno stato sovrano non solo senza alcun mandato

dell’ONU ma addirittura senza voto parlamentare o del consiglio dei ministri, dimostrando il

più totale disprezzo per la Costituzione e il diritto internazionale. Il caso italiano è

esemplare del disfacimento della Sinistra perché ha visto la nascita del Partito

Democratico (ultima metamorfosi del Partito Comunista Italiano, poi diventato Partito

Democratico della Sinistra e infine Democratici di Sinistra) una formazione politica

‘leggera’ che persino nel nome ha rinunciato a qualsiasi aggancio ideale con la tradizione

socialista. Ha ben spiegato Marco Revelli:

La fusione fredda è fallita. È un partito che si è costruito su retoriche mediatiche e ha cancellato tutte le culture politiche da cui nasceva perché le riteneva un ostacolo all'assemblaggio finale. Gli resta una struttura economica - le cooperative - e tante amministrazioni locali.88

88Il Manifesto del 24 dicembre 2009

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Non sorprende quindi che l’astro nascente del PD, il sempiterno ‘giovane’ e

orgogliosamente ‘rottamatore’ sindaco di Firenze Matteo Renzi, debba la propria notorietà

a slogan di cui l’unico politicamente significativo è probabilmente “sto dalla parte di

Marchionne senza se e senza ma” (per poi scaricarlo in tempo di primarie non appena

sono risultate evidenti le menzogne della FIAT sul cosiddetto piano industriale Fabbrica

Italia).

La ‘nuova Sinistra’ europea (o ‘Terza via’, come la chiamava Blair) ha sdoganato non solo

il credo economico della Destra, ma ha anche legittimato la guerra come mezzo per le

controversi internazionali, appoggiando in modo acritico gli interventi armati in Serbia,

Afghanistan e Libia, con i laburisti inglesi che addirittura hanno sostenuto a spada tratta

l’imperialismo dichiarato dell’amministrazione Bush collaborando all’invasione dell’Iraq89.

E per finire questo quadro sconfortante non si può certamente omettere la Repubblica

popolare cinese. Il Partito Comunista Cinese, a differenza di quello sovietico, si è

dimostrato molto più pragmatico: ha collaborato con il ‘nemico capitalista’, accettando ad

esempio la presenza di multinazionali che sfruttassero la manodopera locale a basso

costo, ma ha evitato accuratamente di farsi integrare nei sistemi finanziari occidentali,

rimanendo sostanzialmente immune all’influenza nefasta di Banca Mondiale, Fondo

Monetario, WTO e agenzie di rating. La Cina ha sfidato l’Occidente sul suo stesso terreno

e sotto la rigida supervisione statale ha perseguito una politica spregiudicata di sviluppo,

fatta di dumping commerciale, sottovalutazione della moneta nonché di una buona dose di

spionaggio industriale e di raffinate forme di neocolonialismo, realizzando una crescita

economica record che nel periodo 2004-2009 ha raggiunto livelli dell’11% all’anno. Oggi la

Cina è la nazione maggior consumatrice di materie prime fondamentali come rame,

piombo, zinco, stagno, nichel, alluminio, gomma, lana, cotone e carbone (ancora dietro

agli Usa per consumo di petrolio); la Cina è la maggior produttrice di energia; la più grande

azienda non bancaria è cinese, la Petro China (nel 2009 ha ottenuto una capitalizzazione

di mercato di 353,2 miliardi di dollari, rispetto ai 324,7 di Exxon Mobil e ai 270,6 di

Microsoft), ma anche le due maggiori banche del mondo sono cinesi, la Industrial and

Commercial Bank of China e la China Construction Bank, la prima delle quali è riuscita a

capitalizzare un po’ meno del doppio di Bank of America-Merryl Linch. La Cina è anche il

89Il Centro-Sinistra italiano ha fatto anche di peggio, cavalcando la demagogia e il populismo della Destra attraverso ‘sindaci sceriffi’ sostenitori delle ronde e implacabili nemici dei veri nemici della società, ossia lavavetri, writer e rom. “Chi lavora con me sa che sono abbastanza tosto, molto di più di quanto dicono.. Non ho mai avuto timore di esprimere idee controcorrente... E non ho timore di decidere. Altrimenti non avremmo chiuso 29 capi rom spostando quindicimila persone”: non è una frase di Borghezio, Calderoli o di un sindaco-Rambo leghista, bensì del democratico e ‘filo-africano’ Walter Veltroni (Corriere delle Sera del 29 agosto 2007)

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paese record per emissioni di gas serra ed esecuzioni capitali e le disuguaglianze

crescono sempre di più: il coefficiente di Gini90 della Cina ‘comunista’ è oramai simile a

quello degli USA (41,5 contro 45,091) e dove nello stabilimento Foxconn di Shenzen, la più

grande fabbrica produttrice di componenti elettrici ed elettronici, il suicidio è assurto a

forma di protesta operaia: tutto ciò rappresenta il lato oscuro della crescita dirompente. Se

Pechino testimonia il trionfo del capitalismo di Stato forse, con buona pace dei suoi più

convinti ammiratori sinistroidi occidentali – ad esempio Oliviero Diliberto – non andrebbe

additata come modello di socialismo.

Alla luce di tutto ciò, forse la risposta migliore alla domanda “che cosa la Sinistra?”

sarebbe parafrasare quanto disse Gandhi sulla società occidentale, ossia “una buona

idea”.

Solitamente la sconfitta storica della Sinistra viene spiegata in due modi contrastanti: i

‘realisti’ (ossia le forze di Centro-Sinistra) presentano il fallimento epocale del socialismo

reale e del modello socialdemocratico post-bellico come prove della superiorità del

liberalismo e della democrazia di mercato, di cui bisognerebbe accettare i principi senza

però rinnegare del tutto lo spirito solidaristico delle origini; il modello ideale è la

concertazione tra rappresentanti degli industriali e sindacati alla ricerca di compromessi

che possano soddisfare padroni e lavoratori (anche se quasi sempre al ribasso per questi

ultimi). Dal lato opposto, i partiti neocomunisti gridano al tradimento degli ideali originari

del socialismo e denunciano il carattere ideologico di misure anti-sociali – privatizzazioni,

flessibilità del lavoro, ecc. – presentate come naturali e inevitabili. Per molti versi hanno

ragione e torto entrambi.

Che il socialismo reale e la socialdemocrazia keynesiana-fordista siano falliti o abbiano

mostrato ampiamente i loro limiti è lampante, molto meno che la conseguenza di ciò

consista nell’ineluttabile accettazione del paradigma neoliberista, palesemente in crisi a

partire dal 2008. La Sinistra ‘radicale’, dal canto suo, più che nostalgica del comunismo

sembra appiattita sulla difesa del welfare state socialdemocratico – il ‘modello sociale

europeo’ - in una battaglia spesso sacrosanta ma priva di slancio e prospettiva.

Anche per Sinistra radicale sembra condivisibile il giudizio di Revelli:

90Il coefficiente di Gini è una misura della diseguaglianza di una distribuzione, spesso usato come indice di concentrazione per misurare la disuguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscano esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 100 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo.91Dati reperiti dal CIA World Factbook relativi al 2007

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Povera di idee, povera di uomini, povera di strategia. Povera, soprattutto, di radicamento sociale. Di rapporto con un proprio “corpo” sociale (ed elettorale). Ceto politico presentatosi di fronte agli elettori una sola richiesta: “salvateci”. Fateci sopravvivere.92

Vale la pena di soffermarsi sul sostanziale fallimento dell’incontro avvenuto tra il 2000 e il

2006 tra Rifondazione Comunista e movimento no global, quando alla guida del partito

c’era Fausto Bertinotti. Quell’esperienza, unica nel suo genere in Europa – dove la

diffidenza reciproca tra movimenti e Sinistra partitica è sempre stata elevata - si basava

sul presupposto che la base comune fosse semplicemente il rifiuto della guerra e del

neoliberismo; tuttavia, mentre i no global vi arrivavano in genere da una visione

assolutamente post-fordista delle società, Rifondazione era ancora saldamente ancorata

al vecchio modello produttivo. I no global venivano spesso accusati di non interessarsi a

sufficienza al tema dell’occupazione, quando invece lo facevano da una prospettiva

diversa, volta a denunciare le logiche produttive e non tanto a esprimersi sotto forma di

rivendicazione sindacale. Si sentiva inoltre nell’aria il desiderio di egemonizzare i

movimenti i quali, nella loro estrema dinamicità, faticavano a comprendere le rigide

strutture di un partito e finirono per sentirsi più che altro un bacino elettorale da cui

attingere voti sventolando qualche slogan e concordando la candidatura di qualche

esponente93.

Inoltre in quel periodo Rifondazione mantenne un atteggiamento ‘pragmatico’ per cui

venne strumentalizzata e si lasciò strumentalizzare: il rapporto ambiguo con il Centro-

Sinistra a livello nazionale e locale è stato sicuramente l’elemento più evidente, ma non

certo l’unico, e forse neppure il più pregiudizievole. Bertinotti, ad esempio, con la stessa

disinvoltura partecipava al World Social Forum di Porto Alegre, incontrava il

Subcomandante Marcos – leggenda vuole che si sia fatto autografare una copia

dell’album dei Clash Sandinista – ma presenziava stabilmente anche a Porta a Porta di

Bruno Vespa dove, secondo i dati del Magazine del Corriere della Sera, tra il 1999 e il

2004 fu recordman di ospitate, battendo persino Berlusconi (74 contro 69). Il segretario di

Rifondazione, avvezzo alla frequentazione di salotti radical-chic, sperava di allargare la

base elettorale del partito grazie all’inattesa visibilità televisiva, ma così facendo è venuto

incontro ai piani di Vespa, il quale desiderava avvantaggiare Berlusconi e i suoi alleati

offrendo tanto spazio alla forza politica più critica per gli equilibri del Centro-Sinistra.

92Revelli 2010, 14293Ovviamente anche i movimenti altermondisti, se sono evaporati nel giro di pochi anni malgrado l’avverarsi di gran parte delle loro fosche previsioni, hanno la loro parte di responsabilità.

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Insomma, che vestisse l’abito dell’idealismo o del machiavellismo, anche la Sinistra

radicale è andato incontro a un colossale disastro.

Gli errori storici della Sinistra

Sulla base di quanto esposto nelle sezioni precedenti, è facile accorgersi che il più grave

errore storico della Sinistra è stato commesso durante il boom economico degli anni

Sessanta, quando si è fatto coincidere il progresso sociale con la crescita economica,

senza riflettere sulle conseguenze ambientali, senza interrogarsi criticamente sullo

sviluppo tecnologico e soprattutto senza domandarsi quali ripercussioni avrebbe avuto sul

tessuto sociale l’adesione acritica alla società dei consumi, considerata invece un indubbio

fattore di progresso. Pier Paolo Pasolini, un comunista ‘eretico’, venne deriso

sostanzialmente da tutto il panorama politico e culturale proprio per avere espresso dubbi

sulla trasformazione sociale post-bellica indicata con il termine generico di ‘sviluppo’:

Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi, sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste due parole sono «sviluppo» e «progresso». Sono due sinonimi? O, se non sono due sinonimi, indicano due momenti diversi di uno stesso fenomeno? Oppure indicano due fenomeni diversi che però si integrano necessariamente fra di loro? Oppure, ancora, indicano due fenomeni solo parzialmente analoghi e sincronici? Infine; indicano due fenomeni «opposti» fra di loro, che solo apparentemente coincidono e si integrano?... Vediamo: la parola «sviluppo» ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di «destra». Chi vuole infatti lo «sviluppo»? Cioè, chi lo vuole non in astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? È evidente: a volere lo «sviluppo» in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo «sviluppo», in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui. La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo «sviluppo» (questo «sviluppo»). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di «poveri», di «lavoratori», di «risparmiatori», di «soldati», di «credenti». La «massa» è dunque per lo «sviluppo»: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita. Chi vuole, invece, il «progresso»? Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare, appunto, attraverso il «progresso»: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è dunque sfruttato. Quando dico «lo vuole» lo dico in senso autentico e totale (ci può essere anche qualche «produttore» che vuole, oltre tutto, e magari sinceramente, il progresso: ma il suo caso non fa testo). Il «progresso» è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo «sviluppo» è un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa

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dissociazione che richiede una «sincronia» tra «sviluppo» e «progresso», visto che non è concepibile (a quanto pare) un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo. [...] Dunque: la Destra vuole lo «sviluppo» (per la semplice ragione che lo fa); la Sinistra vuole il «progresso». Ma nel caso che la Sinistra vinca la lotta per il potere, ecco che anch’essa vuole - per poter realmente progredire socialmente e politicamente - lo «sviluppo». Uno «sviluppo», però, la cui figura si è ormai formata e fissata nel contesto dell’industrializzazione borghese. Tuttavia qui in Italia, il caso è storicamente diverso. Non è stata vinta nessuna rivoluzione. Qui la Sinistra che vuole il «progresso», nel caso che accetti lo «sviluppo», deve accettare proprio questo «sviluppo»: lo sviluppo dell’espansione economica e tecnologica borghese. È questa una contraddizione? È una scelta che pone un caso di coscienza? Probabilmente sì. Ma si tratta come minimo di un problema da porsi chiaramente: cioè senza confondere mai, neanche per un solo istante, l’idea di «progresso» con la realtà di questo «sviluppo».

Quarant’anni dopo poco è cambiato e anche la Sinistra ‘radicale’ non sembra

particolarmente interessata a questo tema: nel documento programmatico del primo

congresso della Federazione della Sinistra, ad esempio, non appare un minimo accenno

alla critica del consumo94.

Non solo la Sinistra ha accettato l’equazione progresso = sviluppo ma ha fatto anche di

peggio, integrando nella logica economica capitalistico-borghese le associazioni dei

lavoratori e le forme societarie alternative alle dinamiche di mercato. Non ci riferiamo solo

alla sempre maggiore accondiscendenza delle forze sindacali nei confronti del padronato,

sublimata nel 1993 con il cosiddetto ‘patto della concertazione’, ma anche alla

degenerazione di fenomeni come la cooperazione. Anziché preservare la diversità del

movimento cooperativo, il PCI e le sue successive emanazioni si sono sforzate in tutti i

modi di far concorrere le cooperative ‘rosse’ con l’azienda privata e la ricerca del business

non poteva che snaturare completamente gli ideali originari95.

Si potrebbe liquidare il discorso pensando semplicemente ai centri commerciali Ipercoop,

che hanno invaso oramai tutte le città italiane spodestando spesso i colossi privati del

94Compare solo una vaga preoccupazione di carattere ambientale: “Il nuovo modello di produzione e consumo deve basarsi sul principio di limite in una società sostenibile e sull’idea che le risorse naturali costituiscono un bene comune, non merci sottoposte all’appropriazione privata finalizzata al profitto”. Nessun riferimento alla nocività sociale del consumismo, quindi. 95La Lega delle cooperative italiana (Lega Coop) nella sua Carta dei valori ha definito quattro principi fondamentali:

- tra componenti privati e componenti pubblici non può esserci separazione: l’attività strettamente imprenditoriale e l’impegno sociale sono inscindibili;

- la cooperativa è un soggetto economico che, nel rispetto dell’economia di mercato, opera per l’abolizione di rendita e di privilegio;

- la qualità delle iniziative e il loro significato sociale deve essere riconosciuta e valutata in una dimensione operativa;

- la funzione della cooperazione va valorizzata attraverso un uso più intenso della rappresentanza.

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settore, ma un caso ancora più emblematico è quello della Cooperativa Muratori

Cementisti (CMC) di Ravenna: una vera e propria multinazionale cooperativa dell’edilizia,

che a livello politico si è segnalata soprattutto per la vicinanza a esponenti di primo piano

dei DS-PD, come Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani (di cui, alla luce di questo fatto,

forse si capiscono meglio alcune prese di posizione sulle ‘grandi opere’).

Tra i primi 100 contractor al mondo del settore - come sottolinea con orgoglio il sito Web

dell’azienda - CMC in Italia è impegnata in iniziative ‘di significato sociale’ come la TAV,

l’ampliamento della base militare di Vicenza e il ponte sullo stretto di Messina, ma non

lesina di colare cemento in giro per il mondo: in Angola, in Mozambico, a Taiwan, nelle

Filippine e persino in Sudan, dove ha realizzato un albergo di lusso tra le critiche di chi

l’accusava, così facendo, di rafforzare la leadership del capo del governo Al-Beshir,

accusato di genocidio dal Tribunale penale internazionale96.

Dopo i successi nel settore produttivo, le cooperative hanno allargato gli orizzonti al

mondo delle banche e della finanza, obiettivo poco compatibile con il legame a una forza

politica ‘diversa’ a forte radicamento popolare com’era pur con tutti i suoi difetti il vecchio

PCI, che quindi andava radicalmente trasformato. L’intercettazione telefonica del 18 luglio

2005 dove l’allora segretario dei DS Piero Fassino chiede al Presidente di Unipol Giovanni

Consorte “Allora? Abbiamo una banca?” (in riferimento alle oscure manovre per

impadronirsi della Banca Nazionale del Lavoro, finite sotto investigazione giudiziaria) forse

non bisogna interpretarla come una ‘devianza’, bensì come la logica conseguenza di una

precisa evoluzione politica iniziata molti anni prima; non a caso vede coinvolto un dirigente

come Fassino che - pubblicamente e non nel retroscena oscuro di qualche intercettazione

- non ha mai fatto mistero di ritenere più valido e attuale il corrotto Bettino Craxi rispetto

all’integerrimo Enrico Berlinguer. Una scelta di campo profondamente sensata, se lo

scopo della ‘Sinistra riformista’ deve essere quello di intrallazzare con i poteri economici.

Dell’intervista concessa da Berlinguer a Repubblica del 28 luglio 1981 è passata alla storia

la parte dove il leader comunista manifesta la propria preoccupazione sulla ‘questione

morale’ e sull’occupazione massiccia di vasti settori dello Stato per opera dei partiti; meno

nota invece è la riflessione sui mutamenti in atto nella società capitalistica:

Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza.

96Il 13 ottobre 2012 il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci (esponente del PD) si è improvvisato addetto stampa della cooperativa invitando i cittadini a disertare una manifestazione indetta da alcune associazioni contro le attività della CMC, rallegrandosi successivamente per il suo 'fallimento' in termini di partecipazione (da segnalare che anche i partiti della Sinistra radicale e l'IDV hanno disertato la manifestazione).

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Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione... La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Con buona pace di Fassino e Veltroni e della loro sfegatata ammirazione per Bettino

Craxi, queste parole suonano estremamente profetiche. Berlinguer sembrava aver capito

che non sussistevano più le condizioni per un rinnovamento sociale in accordo con il

capitale e che le nuove forme assunte dal capitalismo (come l’edonismo consumista),

invasive della vita umana, avrebbero intaccato l’anima del cittadino - droga, rifiuto del

lavoro, sfiducia, noia, disperazione - prima ancora di comprometterne la condizione socio-

economica. La colpa di Berlinguer non è stata certo di non aver condiviso la

degenerazione craxiana, bensì di non aver saputo istruire una classe dirigente dotata del

suo stesso metodo di analisi e che condividesse le medesime preoccupazioni: purtroppo il

leader comunista ha favorito l’ascesa di personaggi machiavellici come Massimo D’Alema,

turbati da inquietudini e ansie molto diverse dalle sue, che hanno segnato in modo

indelebile il percorso della Sinistra italiana allontanandola dalle sue radici popolari e

vanificando anni di dure battaglie.

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Il marxismo, croce e delizia97

Per la Sinistra non aver compreso la grande trasformazione che si profilava sul finire degli

anni Settanta, ossia il passaggio dalla società fordista basata sulla produzione a quella

post-fordista e globalizzata incentrata sull’accesso al consumo, equivale a un peccato

mortale. In particolare si è sottovalutato il nuovo ruolo assegnato allo Stato, che di fatto

impedivano la riprosizione delle classiche politiche socialdemocratiche:

Per oltre un secolo il segno distintivo della Sinistra è stato la convinzione che sia sacrosanto dovere della comunità di prendersi cura di tutti i suoi membri e assisterli collettivamente contro le forze potenti cui non possono opporsi da soli. Le speranze socialdemocratiche di assolvere a questo compito sono state generalmente riposte nel moderno Stato-nazione sovrano, sufficientemente potente e ambizioso da limitare i danni perpetuati dal libero gioco dei mercati, costringendo gli interessi economici a rispettare la volontà della nazione e i principi etici della comunità nazionale. Ma gli Stati-nazione non sono più potenti come erano o speravano di diventare in passato. Gli stati politici che un tempo rivendicano la piena sovranità militare, economica e culturale sul loro territorio e relativa popolazione, non hanno più la sovranità su questi aspetti della vita comune. La conditio sine qua non di un efficace controllo politico sulle forze economiche è che le istituzioni politiche ed economiche operino allo stesso livello: e oggi non è più così. I poteri veri, quelli che decidono la gamma di opzioni e opportunità di vita della maggior parte dei nostri contemporanei, sono evaporati dallo Stato-nazione per dissolversi nello spazio globale, dove fluttuano liberi da controllo politico: la politica è rimasta locale, e perciò non più in grado di raggiungerli e tanto meno di imporre loro vincoli98.

Come reazione, invece di difendere il ruolo dello Stato e di sostenere i settori sociali più

colpiti dalla globalizzazione, si è aderito al modello della governance descritto nella prima

sezione, tanto caro ai poteri forti nazionali e internazionali e caldamente sostenuto da

esponenti di spicco della Nuova Sinistra come Jacques Delors o Romano Prodi all’interno

delle istituzioni europee.

Incapace di cogliere i cambiamenti in atto, la Sinistra tutta ha anche dimostrato scarsa

comprensione delle innovazioni tecnologiche e del ruolo dei media di massa, in particolare

97Dal momento che il prossimo paragrafo è molto critico nei confronti del marxismo, è bene sottolineare che si ritengono tuttora valide molte delle intuizioni di Marx, ad esempio la teoria dell'alienazione o della falsa coscienza. Bisogna semplicemente evitare oggi ciò di cui Marx metteva in guardia nel 1852 ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: “La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventie proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia”.98Bauman e Rovinosa-Madrazo 2011, 53

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la televisione, che sono stati colonizzati dalle tendenze culturali legate al mondo

imprenditoriale, producendo un vero e proprio lavaggio del cervello delle classi lavoratrici e

svilendone ogni fermento antagonista.

Ma come giustificare questa indolenza proprio da parte dello schieramento politico che

poteva vantare il sostegno di gran parte del mondo intellettuale? Forse nel momento

critico, a inizio anni Settanta agli albori della globalizzazione, l’adesione troppo spesso

acritica al pensiero marxista ha favorito la staticità intellettuale, condizionando tutta

l’azione politica (e che come corollario finale ha visto il rifiuto totale e immotivato del

pensiero marxista per strizzare l'occhio al neoliberismo). Il marxismo, inteso come esegesi

del pensiero di Karl Marx, ha prodotto troppo spesso una casta di ‘sacerdoti rossi’

immedesimatisi nell’avanguardia del proletariato preconizzata da Lenin, sempre pronta a

contestare ogni trasgressione dell’ortodossia favorendo quindi il bieco conformismo. Elio

Vittorini, nel famoso carteggio con Togliatti in cui lamentò l’atteggiamento oppressivo della

nomenklatura del PCI nei confronti della rivista Politecnico da lui diretta, centrò

perfettamente il problema:

Domandiamoci piuttosto quali vizi o difetti del nostro atteggiamento verso la cultura possano contribuire a rendere così secco come oggi, per esempio, è in America il rapporto della nostra politica con la cultura. Essi ci vengono forse dal fatto che l'alimento spirituale di cui il marxismo è ricco attira nella sua orbita, a nutrirsene, a viverci sopra di rendita, troppi piccoli intellettuali che, incapaci di vita propria, ne diventano i ringhiosi cani di custodia, e l'usano come una specie di codice della politica e della cultura, pronti a pretendere, da ogni altro che più o meno vi si avvicini, una squallida adesione conformista, priva di problematicità, come è la loro.

Solo pochi pensatori brillanti etichettabili come marxisti hanno prodotto riflessioni originali,

spesso distaccandosi da molti assunti del marxismo classico - ad esempio Antonio

Gramsci, Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e Jean Paul Sartre; molti

sono stati ampiamente sopravvalutati, come Toni Negri, che se n’è uscito con

ragionamenti ‘rivoluzionari’ assolutamente compatibili con l’attuale sistema politico-

economico mondiale99. Ecco quindi la necessità di uscire dal fideismo affrontando ogni

tematica razionalmente e senza pregiudizi.

Marx ha brillantemente analizzato il capitalismo ottocentesco, definendone i principali

meccanismi di funzionamento e riuscendo così a prevedere alcune delle crisi cicliche che

99In particolare ha sviluppato una forte critica nei confronti dello Stato-Nazione che, anziché sfociare in una valorizzazione della comunità locale come nell’anarchismo classico, di fatto legittima i presupposti ideologici della globalizzazione.

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attanagliano questa forma di sistema economico. Parallelamente a ciò, ha elaborato una

riflessione politica sulla lotta al capitalismo, abbozzando possibili scenari di superamento

della proprietà privata, della divisione capitale-lavoro e dello Stato come organizzazione

sociale; il tutto nell’ottica filosofica della visione materialistico-dialettica della storia. Come

hanno acutamente osservato Marino Badiale e Massimo Bontempelli in Marx e la

decrescita, questi tre aspetti – analisi del funzionamento dell’economia capitalista, teoria

della rivoluzione comunista e materialismo storico – sono indipendenti tra loro e

l’eventuale validità di uno non avvalla automaticamente gli altri. L’avverarsi delle ‘profezie

economiche’ di Marx, in particolare la grande crisi del 1929, ha spinto molti seguaci del

socialismo a ritenere che ciò legittimasse tutto l’impianto politico-filosofico, contro

l’evidenza dei fatti.

Per capire il successo ottenuto da Marx nell’influenzare il pensiero socialista e la Sinistra

bisogna inserire il filosofo tedesco nel contesto storico della sua epoca, contrassegnata

dal predominio culturale positivista. Benché stigmatizzasse come ‘utopistiche’ tutte le

concezioni socialiste diverse dalla sua, anche altri pensatori ‘rivali’ – ad esempio Owen,

Proudhon, Kropotkin – erano fermamente convinti che il metodo delle scienze naturali

potesse essere applicato alla società umana per desumerne le leggi che la governano,

con la differenza che non avevano la presunzione di poterle scoprire personalmente. Marx

invece offriva ben più di un’ideologia politica, ossia un complesso e coerente sistema

filosofico dove la teoria della rivoluzione comunista era l’apice di una costruzione molto più

articolata. Marx infatti proponeva100:

- una precisa scansione temporale della fase rivoluzionaria: una volta raggiunto il massimo

sviluppo delle forze produttive sotto il capitalismo, il soggetto rivoluzionario – il proletariato

– prenderà il potere e il controllo dello Stato, attuando la dittatura del proletariato, ossia

una fase di transizione dove il potere politico è detenuto dai lavoratori attraverso il partito

unico (quello comunista) che procederà alla definitiva abolizione della proprietà privata

realizzando una società senza classi e senza Stato, il comunismo;

- una descrizione del sistema di dominazione capitalista, dove l’asservimento del

proletariato avviene attraverso il controllo dei mezzi di produzione, l’estorsione del

100E’ opportuno ricordare che la tradizione marxista successiva si è impegnata attivamente per presentare la costruzione filosofica di Marx (ed Engels) più coerente di quanto non l’avesse elaborata il filosofo di Treviri: in realtà Marx ha sviluppate varie teorie in momenti diversi della sua vita e ha spesso cambiato idea. E riguardo alla genialità, non si dimentichi che Marx, uomo di grandissima erudizione, conosceva molto bene le teorie degli odiati ‘utopisti’ e se necessario non si faceva scrupolo di recuperarle e applicarle ai propri scopi (la teoria del plusvalore, ad esempio, si trova già in Proudhon).

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plusvalore, la creazione di un ‘esercito di riserva’ di disoccupati che tiene basso il costo del

lavoro;

- un’analisi del processo di sviluppo del capitalismo, inevitabilmente legato a crisi cicliche

di sovraproduzione;

- una teoria sulla vita sociale, per cui i modi di produzione (la struttura) determinano le

istituzioni, la cultura e i rapporti sociali e politici (la sovrastruttura) che quindi non sono

altro che costruzioni ideologiche;

- un metodo di analisi storica basato sul materialismo storico-dialettico, versione in chiave

materialista della dialettica storica hegeliana. Aleksandr Malinovskij ha così sintetizzato

questo principio:

La storia mostra che ogni sistema di idee - sia esso religioso, filosofico, giuridico o politico - per quanto fosse rivoluzionario al momento in cui nacque ed intraprese la sua lotta per la supremazia, prima o poi diventa un impedimento e un ostacolo allo sviluppo ulteriore, diventa cioè una forza socialmente reazionaria.

Secondo il metodo dialettico, la borghesia, il soggetto rivoluzionario del Risorgimento che

ha spodestato la nobiltà dal potere, con l’industrializzazione ha creato anche la sua

negazione cioé il soggetto destinato inevitabilmente a succederle, il proletariato.

Alla base del successo di Marx ci sono quindi le pretese di scientificità e ‘realismo’: se lo

scopo finale era il medesimo degli anarchici, ossia la soppressione dello Stato, il marxismo

prevedeva un itinerario fatto di tappe intermedie – creazione di un partito, conquista dello

Stato - apparentemente più concrete e plausibili del semplice passaggio dall’oggi al

domani all’auto-gestione degli anarchici; questi ultimi del resto, animati da una sincera

vocazione anti-autoritaria, puntavano molto sullo spontaneismo e non volevano tracciare

un corso preciso degli eventi, possibile solo attuando un dirigismo centralista.

Già da questa prima analisi è possibile constatare alcune criticità fondamentali insite nel

pensiero marxista:

- separa i mezzi dai fini: per arrivare al comunismo bisogna prima consentire il massimo

sviluppo del sistema nemico - il capitalismo - per poi fargli seguire una rivoluzione il cui

scopo è l’instaurarsi di una dittatura che dovrebbe spianare la strada alla liberazione del

genere umano, un percorso decisamente contraddittorio;

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- riduce la società umana al materialismo: arte, cultura, religione, filosofia, ecc. sono solo

sovrastruttura (“fantasmagorie delle mente”, secondo Marx ed Engels) che non possono

influenzare la struttura economica ma solo esserne influenzate;

- in linea con la visione positivista, è intriso di un forte progressismo e industrialismo: lo

sviluppo tecnologico, dal momento che creerà le condizioni per il successo del

proletariato, è visto come positivo e tende a diventare un fine in se stesso;

- malgrado gli intenti egualitari, si presenta come fortemente verticista ed esclusivo: anche

se il concetto di avanguardia del partito sarà elaborato solo successivamente da Lenin, si

può già desumere in Marx ed Engels. La complessa elaborazione filosofica si presta

facilmente all’instaurarsi di ristrette élite intellettuali e inoltre viene scelto in maniera

aprioristica il soggetto rivoluzionario, il proletariato operaio delle nazioni più sviluppate,

escludendo altri apporti.

Il secondo punto è particolarmente importante per la nostra analisi: ridurre l’umanità ai

rapporto economici – così come Machiavelli tendeva a ridurla alla volontà di potenza e

Freud agli impulsi della sfera sessuale – svalutando tutto il resto come ‘sovrastruttura’,

significa semplificare arbitrariamente un fenomeno quanto mai complesso e variegato qual

è il genere umano. Concentrare l’attenzione sull’uomo solo per quanto riguarda le

esigenze biologiche di sopravvivenza, negando o sottovalutando tutto quegli aspetti capaci

di produrre felicità – realizzazione personale, senso di comunità, empatia con le persone e

l’ambiente – è stato l’errore fondamentale del socialismo reale, ben compendiato nella

celebre frase che Emma Goldman rivolse ai bolscevichi: “Se non posso ballare, allora non

è la mia rivoluzione”. La Sinistra occidentale, fosse o no dichiaratamente marxista, si è

imbattuta nel medesimo errore:

Quasi tutte le critiche dei ‘caratteri borghesi’ della società moderna, della sua tecnica, della sua individualità, sono esse stesse impregnate proprio di ciò che vanno criticando. Enfatizzando l’economia, l’interesse di classe, il ‘substrato materiale’ della società, tali critiche sono portatrici proprio di quel ‘carattere borghese’ che pretendono di criticare. E sono pericolosamente inadempienti verso il loro impegno a trascendere le condizioni economiche della società capitalistica e a recuperare quel livello etico del discorso e quegli ideali che il capitalismo ha brutalmente depredato. Nel linguaggio di molti pensatori radicali, ‘società razionale’ spesso significa poco più che società razionalizzata e ‘libertà’ spesso significa poco più che efficace coordinamento dell’umanità nel perseguimento di fini economici. Economicizzando la totalità della vita, il capitalismo ha economicizzato la ‘questione sociale’, le strutture

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della libertà e anche il progetto rivoluzionario. Il contesto comunitario del soggetto di questo progetto è quasi completamente scomparso101.

Criticare la validità del materialismo storico-dialettico è molto più semplice. Oggi è facile,

dopo il crollo definitivo del comunismo sovietico, constatare che la dialettica storica non ha

seguito fino alla fine le linee d’azione previste da Marx, un giudizio su cui sicuramente

concorderanno tristemente anche i più fanatici sostenitori del marxismo (tranne forse i più

accaniti filo-cinesi). Il vero problema è che le profezie di Marx, fin dal principio, si sono

avverate molto raramente.

Le principali rivoluzioni comuniste nel mondo, in particolare in Russia e in Cina,

contrariamente alle aspettative di Marx hanno visto per protagoniste nazioni

prevalentemente agricole dal basso sviluppo industriale, a prescindere dall’apporto del

proletariato operaio in queste rivolte. Nelle nazioni più industrializzate, pur travolte dalla

grande crisi sistemica del 1929 – il ‘giorno del giudizio’ in base alle profezie marxiane - la

possibilità di una rivoluzione non si è mai prospettata se non sotto forma di ‘rivoluzione

conservatrice’ nazional-socialista in Germania e Italia. Dopo la seconda guerra mondiale il

massiccio sviluppo delle forze produttive in Occidente, che avrebbe dovuto essere alla

base dell’emancipazione del proletariato, ha di fatto rafforzato le prerogative dello Stato

borghese e favorito la creazione di potenti oligopoli transnazionali, le corporation

multinazionali. E i partiti comunisti occidentali hanno sempre ottenuti consensi minimi, ad

eccezione di quello italiano che infatti presentava un carattere riformista molto poco

rivoluzionario.

Se Bakunin avesse potuto assistere a tutti questi eventi, avrebbe sicuramente rivendicato

con orgoglio di aver lamentato fin dall’inizio una delle debolezze fondamentali della teoria

marxiana, ossia il ridimensionamento dello Stato a semplice sovrastruttura: in effetti tutte

le volte che il capitalismo si è trovato in situazioni di crisi o di impasse che ne potessero

pregiudicare la sua esistenza – fermenti politici tra fine Ottocento e inizio Novecento, crac

del 29, ricostruzione post-bellica, crisi attuale – è intervenuto lo Stato a salvarlo, usando

ora il bastone della repressione ora la carota della redistribuzione e dell’assistenzialismo

(anche ai meno bisognosi, come testimoniano le recenti regalie al sistema bancario).

Davvero troppo per un’istituzione che sarebbe semplicemente ‘burattinata’ dai rapporti di

produzione capitalista102.

101Boochkin 2010, 338102Nel libro La grande trasformazione Karl Polanyi distingue tra ‘mercato autoregolato’ (che si può indicare genericamente come ‘capitalismo’) e il laisser-faire, ossia il liberismo nelle sue forme estreme. Secondo

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Se Marx è ampiamente giustificabile per non aver previsto il futuro – nessuno in fondo ha il

dono della preveggenza – forse lo è meno per le deduzioni fatte sul passato, la base del

principio storico-dialettico sui cui poggiava il futuro successo del proletariato, che il filosofo

tedesco indicava nella precedente vittoria della borghesia sulla nobiltà. È incredibile come

Marx e tutta la generazione successiva dei marxisti non si siano accorti del paragone

assolutamente improprio tra borghesia e proletariato:

Infatti, nel modo di produzione feudale la classe sfruttata, nel senso marxiano, non è rappresentata dalla borghesia, ma, ovviamente, dai contadini. La borghesia nel feudalesimo è una classe in qualche modo “interstiziale”, che non partecipa, cioè, alla produzione del plusprodotto, ma organizza i processi del suo scambio, lucrando su di essi. E’ proprio per questo suo carattere in qualche modo “esterno” al modo di produzione feudale che essa riesce a creare, negli interstizi della società feudale, i primi nuclei del nuovo modo di produzione, che rappresentano la base oggettiva di un ruolo sociale, una rete di relazioni, una coscienza di sé, alternative al feudalesimo. Lo sviluppo di tutti questi elementi darà alla classe borghese la capacità di abbattere la società feudale103.

In realtà i politici comunisti non erano tutti dogmaticamente stupidi: Lenin, Stalin, Mao e i

dirigenti sovietici e cinesi si erano si erano perfettamente resi conto delle anomalie della

dialettica marxiana. Solo che, invece di operare una riflessione critica, decisero di far

avverare a tavolino le profezie di Marx operando un’industrializzazione forzata e in questo

senso dimostrarono un’intelligenza dogmatica.

Il tentativo di recuperare in pochi decenni il gap tecnologico con l’Occidente, frutto invece

di più di un secolo di progressi graduali, è stato l’elemento che, insieme al militarismo, ha

reso irreversibile la degenerazione autoritaria del socialismo reale. Progetti ambiziosi di

modernizzazione sulla pelle della gente attraverso politiche come il comunismo di guerra,

lo stacanovismo, l’economia staliniana o il ‘grande balzo in avanti’ potevano realizzarsi

soltanto esercitando un controllo draconiano sulla società; i dirigenti comunisti

teorizzarono addirittura la possibilità di una mutazione antropologica, la creazione

dell’uomo nuovo sovietico, inquadrando rigidamente la popolazione e sottoponendo i

bambini fin dall’infanzia alla dottrina pedagogica di Anton Semenovyč Makarenko,

finalizzata espressamente a forgiare un individuo comunista e lavoratore privo di

personalità propria. Per quanto potesse apparire bizzarro se non proprio disumano, la

Polanyi, per ovviare ciclicamente alle degenerazioni provocate dal laisser-faire, lo Stato di volta in volta può intervenire sotto varie forme, democratiche o autoritarie (New Deal o nazi-fascismo) allo scopo di introdurre delle limitazioni allo scopo di preservare il ‘mercato autoregolato’ (e quindi il capitalismo). 103Badiale e Bontempelli 2010

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dialettica storica in fondo non indicava il superamento di ogni consuetudine e tradizione

culturale?

Ben lungi dall’emancipare la classe lavoratrice, lo ‘sviluppo delle forze produttive’ ha

assunto la forma di un cieco scientismo responsabile di consistenti danni ecologici e di

pericolosi sviluppi tecnici. Juri Gagarin, lo Sputnik e la centrale nucleare di Obninsk (la

prima al mondo a generare elettricità per una rete di trasmissione) hanno come contraltare

i milioni di morti delle carestie provocate dalla collettivizzazione forzata, crimini ambientali

come la scomparsa del lago Aral e l’incidente di Chernobyl, con le masse lavoratrici che

hanno solo cambiato il colore delle catene finendo vittime di un’alienazione persino

superiore a quella provocata dal capitalismo.

Oltre la lotta di classe verso nuove prospettive

Anche il concetto marxista di ‘lotta di classe’, pur partendo da constatazioni reali, ha finito

per trasformarsi in pesante fardello ideologico. Il primo socialista a mettere in seria

discussione il valore della ‘classe’ nel capitalismo moderno è stato probabilmente André

Gorz.

Gorz si accorse che il lavoratore del capitalismo ‘giovanile’ ottocentesco o ancora

dell’epoca fordista poteva sentirsi parte di una ‘classe’ perché il lavoro segnava (in termini

di tempo dedicato) in modo preponderante la sua vita, in quanto normalmente si svolgeva

per tutta l’esistenza fino alla pensione la medesima professione, spesso per lo stesso

datore di lavoro; era quindi più facile creare empatia con i colleghi e da lì organizzarsi

anche a livello sindacale.

L’innovazione tecnologica e la divisione internazionale del lavoro hanno completamente

mutato questo scenario, innanzitutto riducendo drasticamente l’entità numerica della forza

lavoro: la ‘classe operaia’, soggetto rivoluzionario per eccellenza, secondo il Censimento

del 1961 in Italia rappresentava il 40,6% degli occupati, mentre nel Rapporto ISTAT 2011

si attesta al 28,4%, con gran parte dei contratti di tipo precario. Altri paesi industrializzati

presentano dati analoghi: negli anni Cinquanta gli addetti all’industria statunitensi erano il

30%104 della forza lavoro, a metà dei Novanta – cioè ben prima della crisi, in piena fase

espansionistica - si erano ridotti a meno del 17%105. Al di là dei semplici numeri, in seguito

alla ristrutturazione del lavoro dovuta all’automazione esiste un’importante differenza

104Secondo il CIA World Fractbook nel paradiso della manifattura, ovvero la Cina, nel 2008 gli addetti all’industria erano il 27,8% della forza lavoro, un dato quindi simile a quello statunitense degli anni Sessanta. 105Rifkin 1997, 30

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‘qualitativa’ tra la fabbrica fordista e quella attuale: si è passati da un ambiente di lavoro

‘affollato’, ossia quello della vecchia ‘linea’ di montaggio, a un nuovo modello in cui gli

operai agiscono a distanza in diversi segmenti produttivi, dove quindi comunicazione e

socializzazione sono molto più ridotte106. Per finire, l’adozione massiccia dell’approccio

toyotista o just in time, decentralizzando la produzione in una moltitudine di ditte

appaltatrici spesso poste in aree geografiche molto lontane tra loro, ha ulteriormente

frammentato i lavoratori diminuendo la loro forza sindacale.

A fronte di un sistema produttivo che produce tre volte di più con meno forza lavoro, le

nuove tecnologie informatiche hanno rimpiazzato gli operai con un ristretto numero di

‘lavoratori della conoscenza’, senza assolutamente poter assorbire il disavanzo

occupazionale107: in una società della crescita, ciò significa disoccupazione e

precarizzazione del lavoro. Anche se può dispiacere la Sinistra e mettere in dubbio

radicate certezze, ci troviamo di fronte un quadro sociale del tutto inedito:

Il lavoro non è più il principale il cemento sociale, né il principale fattore di socializzazione, né l’occupazione principale di ciascuno, né la principale fonte di ricchezza e benessere, né il senso e il centro della vita108.

Ne consegue che oggi il contrasto con la società capitalistica avviene su nuovi fronti:

Il punto importante è che ormai tanto la critica della razionalità capitalistica quanto la sensibilità socialista dei salariati nei settori produttivi più evoluti non risultano dalla vita di lavoro e dalla coscienza di classe, ma piuttosto dalla scoperta, fatta in veste di cittadini, genitori, consumatori, abitanti di un quartiere o di una città, che lo sviluppo capitalistico li espropria dal loro ambiente di vita, sia sociale che naturale. Non è nella competenza professionale né nell’identificazione con il lavoro che scaturiscono le motivazioni per resistere contro questa spoliazione, ma nella vita e nell’esperienza extra-professionale.

Il disagio verso il capitalismo assume un carattere interclassista che si riscontra ad

esempio nella lotta contro l’invadenza del mercato e la mercificazione consumista di ogni

aspetto della vita umana, nell’impegno contro le discriminazioni, nella rivendicazione del

diritto a un alimentazione sana e adeguata, nella preservazione del territorio dalla

106 Revelli 2010, 253. L’automazione ha anche permesso di sostituire alcune figure simbolo dell’autoritarismo aziendale (come i cronometristi) con delle macchine, smussando così gli attriti con i vertici. 107Gorz annovera anche i cosiddetti ‘servizi alla persona’, che condanna in quanto ‘sudafricanizzazione’ della società dove la massa degli esclusi dall’occupazione viene proposta come servitù di una ristretta cerchia di privilegiati. Anche i cosiddetti ‘lavori socialmente utili’ spesso non sono altro che goffi tentativi di tamponare l’emorragia occupazionale attraverso la sovvenzione di attività improduttive. 108Gorz 1992, 37

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devastazione delle ‘grandi opere’, nella difesa della propria tradizione culturale contro

l’omologazione mass-mediatica.

...Il conflitto principale non oppone più capitale e lavoro, ma i grandi apparati scientifici, tecnici, burocratici (che in ricordo di Max Weber e di Lewis Mumford ho chiamato la mega-macchina burocratica-industriale) alle popolazioni in conflitto con la tecnicizzazione dell’ambiente, la professionalizzazione e l’industrializzazione delle decisioni e degli atti della vita quotidiana, gli esperti patentati che vi tolgono la possibilità di determinare da soli i vostri bisogni, desideri, o il modo di gestire la salute e, più in generale, la vostra vita109.

Il cittadino contemporaneo è costantemente bersagliato dalla critica spietata del potere

politico ed economico, continuamente indotto a vergognarsi per la sua incapacità di

‘mordernizzarsi’, di ‘stare al passo con i tempi’, di ‘fare sacrifici’, di ‘essere competitivo e

produttivo’, di ‘fare le scelte giuste’, di ‘essere fannullone’ ed ‘egoista’. Giaculatorie di

questo tipo vengono ripetute in modo ossessivo ogniqualvolta la cittadinanza si azzarda

minimamente a difendere le protezioni sociali, il lavoro, il territorio, la proprietà pubblica e

tutte le volte in cui vengono anteposti i propri affetti alla carriera professionale (studiare o

lavorare all’estero per i giovani è oramai un imperativo categorico). Soprattutto il ‘popolo

bue’ non può e non deve impicciarsi di questioni politiche, economiche o energetiche

perché quando consultato direttamente – referendum 2006 sulla riforma costituzionale,

referendum 2011 su privatizzazione dell’acqua e nucleare – ha la brutta tendenza a fare le

scelte 'sbagliate'. In fondo non c’è da stupirsi: se il totalitarismo sovietico ammetteva un

solo pensiero e un solo partito politico, la mega-macchina110attuale può tollerare

l’esistenza di varie formazioni politiche (possibilmente solo due e quasi identiche tra loro)

ma il grado di pluralismo concesso è più o meno lo stesso che vigeva nel vecchio PCUS,

nel senso che l’orientamento neoliberale sopportare tutte le opinioni ma ammettendone

solo una corretta e indubitabile.

Prima di Gorz un altro pensatore, Ivan Illich - se possibile ancora più eccentrico e fuori

dagli schemi – aveva biasimato come i ‘rivoluzionari’ concentrassero la loro attenzione sul

109Ibidem, 94110D’ora in avanti utilizzeremo questo termine nella sua accezione sociologica: “Mega-macchine sociali: cosí sono state definite le grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o servo-unità. Mega-macchine potenti ed efficienti di tal genere esistono da migliaia di anni. Le piramidi dell’antico Egitto sono state costruite da una di esse capace di far lavorare unitariamente, appunto come parti di una macchina, decine di migliaia di uomini per generazioni di seguito. Era una mega-macchina l’apparato amministrativo-militare dell’impero romano. Formidabili mega-macchine sono state, nel Novecento, l’esercito tedesco e la burocrazia politico-economica dell’Urss” (Gallino 2010, 5).

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sistema politico invece che sulla mega-macchina e sulle ripercussioni sociali che essa

genera scatenando tutti i suoi strumenti di dominio (per usare un gergo filosofico, si

concentravano solo sugli epifenomeni e non sul fenomeno vero e proprio):

Attualmente i criteri istituzionali dell'azione umana sono l'opposto dei nostri, compresi quelli vigenti nelle società marxiste, dove la classe operaia si crede al potere. Il pianificatore socialista rivaleggia col cantore della libera impresa, per dimostrare che i suoi principi assicurano a una società il massimo di produttività. La politica economica socialista si definisce molto spesso per l'ansia di accrescere la produttività industriale di ogni paese socialista. Il monopolio dell'interpretazione industriale del marxismo funge da barriera e mezzo di ricatto contro ogni forma di marxismo giudicata eterodossa perché industrialmente poco efficiente... L'interpretazione esclusivamente industriale del socialismo fa sì che comunisti e capitalisti parlino lo stesso linguaggio, misurino in maniera analoga il grado di sviluppo raggiunto da una società. Una società nella quale la maggioranza dipenda, quanto ai beni e servizi che riceve, dalle qualità d'immaginazione, d'amore e di abilità di ciascuno, appartiene alla categoria cosiddetta sottosviluppata; viceversa, una società in cui la vita quotidiana consiste in nient'altro che una serie di ordinazioni dal catalogo del grande magazzino universale, è ritenuta avanzata. E il rivoluzionario non è più che un allenatore sportivo: campione del terzo mondo o portavoce di minoranze sottoconsumatrici, argina la frustrazione delle masse alle quali rivela il loro ritardo; canalizza la violenza popolare e la trasforma in energia di rincorsa.Ciascun aspetto della società industriale è una componente di un sistema globale che implica l'escalation della produzione e l'aumento della domanda indispensabile per giustificare il costo sociale complessivo. Ecco perché, concentrando la critica sociale sulla cattiva gestione, la corruzione, l'insufficienza della ricerca o il ritardo tecnologico, non si fa che distrarre l'attenzione della gente dal solo problema che conti: la struttura inerente allo strumento preso come mezzo e che determina una crescente carenza generale. Un altro errore consiste nel credere che la frustrazione attuale sia dovuta principalmente alla proprietà privata dei mezzi di produzione e che l'appropriazione pubblica di questi mezzi attraverso un organismo centrale di pianificazione proteggerebbe gli interessi della maggioranza e porterebbe a un'equa ripartizione dell'abbondanza. La struttura anti-umana e manipolatrice dello strumento non sarà trasformata dal rimedio proposto... Fino a quando condividerà l'illusione che sia possibile aumentare la velocità di locomozione di chiunque, la società continuerà a criticare il proprio sistema politico anziché immaginare un sistema di circolazione moderno, più efficiente di tutti quelli che si basano su veicoli rapidi. La soluzione, tuttavia, è a portata di mano: non risiede in un certo modo di appropriazione dello strumento, ma nella scoperta del carattere di certi strumenti, e cioè che nessuno potrà mai possederli. Il concetto di appropriazione non vale per gli strumenti incontrollabili. Il problema urgente è invece di determinare quali strumenti possono essere controllati nell'interesse generale, e di comprendere che uno strumento non controllabile rappresenta una minaccia insostenibile. Quanto al sapere come organizzare la partecipazione individuale a un esercizio del controllo che risponda all'interesse generale, è un fatto secondario.Certi strumenti sono sempre distruttivi, qualunque sia la mano che li governa: la mafia, i capitalisti, una ditta multinazionale, lo Stato o anche un collettivo di lavoratori. Così è, per esempio, per le reti autostradali a corsie multiple, per i sistemi di comunicazione a grandi distanze che utilizzano una larga gamma di frequenza, e così anche per le miniere a cielo aperto o per la scuola. Lo strumento distruttivo

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accresce l'uniformazione, la dipendenza, lo sfruttamento e l'impotenza; toglie al povero la sua parte di convivialità per rendere i ricchi ancora più ciechi alla perdita della loro111.

Queste riflessioni permettono di superare l’impasse della Sinistra gettando solide basi per

un nuovo terreno di confronto.

Le cinque caratteristiche di un radicale

Prima di entrare nel merito vero e proprio dei cambiamenti sociali da apportare e di

proporre una strategia di lotta, è bene chiudere questo capitolo chiarendo quale può

essere l’atteggiamento politico di una persona che, ‘disfatta la Sinistra’, cerchi di

approdare a categorie culturali nuove. Al riguardo può essere interessante riproporre

quelle che a giudizio di Dwight Macdonald – intellettuale statunitense di metà Novecento

critico del marxismo - dovevano essere le ‘cinque caratteristiche di un radicale’,

intendendo come ‘radicale’ una persona che ha rifiutato le categorie marxiane di dialettica

storica, lotta di classe, opposizione struttura/sovrastruttura e che ritiene necessario un

controllo sociale sulla tecnologia. Macdonald le elaborò in un lungo articolo intitolato La

radice è l’uomo, pubblicato sulla rivista Politics112:

- negativismo: rifiuto della sottomissione allo Stato e alla burocrazia, anche a costo di non-

agire piuttosto di intraprendere un’azione sbagliata;

- irrealismo: durante la prima e la seconda guerra mondiale, molti intellettuali di

orientamento pacifista (come John Dewey) si schierarono a favore dell’intervento bellico in

quanto unica possibilità ‘realistica’. Per Macdonald invece non bisogna separare i mezzi

dai fini e occorre combattere un sistema non appoggiando le sue azioni ma operando una

scelta antitetica;

111Illich 2005, 47-49. È interessante notare che prima ancora di Gorz e Illich cominciava a insinuarsi qualche piccolo dubbio. Ad esempio ecco cosa scriveva nel 1952 G.B.H. Cole in Storia economica del mondo moderno: “I paesi nei quali la produzione di massa ha progredito di più sostengono di essere delle democrazie, le quali dedicano molti sforzi ad educare i loro cittadini sulla necessità di partecipare attivamente alla vita della collettività. Resta da vedere, tuttavia, se la loro partecipazione alla vita democratica del proprio paese è compatibile con condizioni di lavoro che non danno all’individuo alcuna occasione di impegnarsi in uno sforzo creativo, se non in senso puramente quantitativo e in vista di guadagno di denaro” (pag. 156-157). Si tenga conto che Cole, docente di Oxforfd, non era affatto uno studioso eterodosso come testimonia il periodo di presidenza alla Fabian Society, organizzazione politica moderatamente socialista tra le fondatrici del partito laburista inglese. 112L’articolo è disponibile integralmente in Arendt, Caffi, Goodman e Macdonald 2012

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- moderazione: non nel senso di moderatismo politico, centrismo o ‘riformismo’, bensì

come rifiuto della hybris, della pretesa marxiana di ridurre tutta l’esistenza umana in

termini scientificamente conoscibili;

- piccolezza: Macdonald denuncia il feticismo delle masse tipico della Sinistra, obiettando

che in un’epoca dove le masse – presunte rivoluzionarie – compiono azioni quanto mai

convenienti al sistema, l’azione individuale (ad esempio attraverso l’obiezione di

coscienza) o di piccoli gruppi coerenti con i propri ideali può avere una forza maggiore di

quella di partiti centralizzati e burocratizzati alla maniera dello Stato;

- egoismo: lo sviluppo scientifico e gli apparati burocratici a partire dalla fine dell’Ottocento

hanno ridotto l’individuo a un semplice ingranaggio di una macchina mastodontica, una

condizione non migliorata dai partiti della Sinistra rivoluzionaria che, in nome di una

beatitudine futura, hanno costretto i propri militanti alla rinuncia del proprio interesse in

nome di quello superiore del partito o della classe. È invece necessario ristabilire il primato

dell’individuo e rivendicare il pieno diritto delle sue emozioni, della sua immaginazione, dei

suoi sentimenti morali.

Partendo da questi presupposti, Macdonald immaginava un’azione politica guidata da

piccoli gruppi di individui che condividessero questo programma minimo:

- pacifismo come condicio sine qua non;

- rifiuto della coercizione individuale da parte di Stato o partiti, opponendosi attraverso gli

strumenti di volta in volta più idonei (discussione, sabotaggio, messa in ridicolo, evasione,

resistenza passiva) secondo lo stile di lotta di organizzazioni radicali come gli IWW

(Industrial Workers of the World, noti anche come wobblies, movimento operaio con

strategie di azione anarco-sindacaliste)

- presa di distanza dalle ideologie politiche che, come il marxismo, chiedono sacrifici

immediati promettendo un roseo avvenire;

- concezione del socialismo come questione etica e non pragmatica, importante per

l’individuo a prescindere dal numero di simpatizzanti;

- comportarsi coerentemente con i propri ideali, quindi in modo eventualmente irrealistico;

- pensare in termini di esseri umani e non di classe, ammettendo che inizialmente le

proprie idee saranno condivise solo da un numero di persone limitato e forse eccentrico

(per restare nell’attualità si pensi ai francesi Casseurs de pub, tra i primi sostenitori

assoluti delle idee della decrescita). È anzi molto probabile che i soggetti rivoluzionari

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Page 95: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

classici, come i lavoratori, siano inclini alla sociolatria - la preoccupazione profonda per il

buon funzionamento della macchina industriale dalla quale si crede di poter ottenere

standard più alti di vita – e che almeno all’inizio potrebbero rivelarsi ostili113.

I principi di Macdonald, teorizzati immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, si

rivelano quanto mai attuali e serviranno come faro nella sezione finale del libro per

riflettere sulle strategie di azione politica.

113Un esempio è la triste vicenda seguita alla chiusura dell’ILVA di Taranto, disposta dalla magistratura per motivi ambientali e sanitari nell’estate 2012, quando gran parte degli operai dello stabilimento ha rivendicato la riapertura degli impianti al motto “meglio morire di tumore che di fame” spalleggiata dai sindacati confederali e dai proprietari dell'impresa.

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Page 96: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

QUARTA PARTE

USCIRE DAL GIGANTISMO PER UNA SOCIETÀ EQUA E SOSTENIBILE

“Una nuova forma di produzione non può convivere con le vecchie forme di consumo, non più di quanto possa adattarsi alle vecchie forme di organizzazione politica”

(Pëtr Kropotkin)

Le riflessioni esposte nel capitolo precedente sono centrali per le pagine che seguiranno.

La Sinistra ha sempre imperniato l’analisi politica sui conflitto capitale-lavoro mentre il

nostro approccio basato su Gorz e Illich – e ispirato al Lewis Mumford - riconosce invece

nelle storture economiche una parte del problema, che invece viene identificato in tutta la

mega-macchina industriale-capitalistica-finanziaria e negli effetti che produce sulla

popolazione e sul pianeta, dei quali la subordinazione del lavoro al capitale è solo una

delle manifestazioni114.

Serge Latouche ha scritto un libro specificatamente dedicato all’argomento, intitolato per

l’appunto La Megamacchina. Secondo l’analisi dell’economista francese, i problemi

principali da affrontare sono i seguenti115:

- L’emancipazione e lo scatenamento della tecnica e dell’economia: lo sviluppo

tecnologico proverbialmente ‘non si può fermare’, diventa un fine a se stesso a

prescindere dalle esigenze reali e i suoi effetti positivi o negativi (ad esempio la nube

radioattiva di Chernobyl) non conoscono frontiere. Le tecnologie hanno consentito anche

l’annullamento delle distanze, la creazione di quello che Marshall McLuhan chiamava

‘villaggio globale’, che comporta la scomparsa dello spazio politico e una regressione nel

privato che può sfociare in violente rivendicazioni identitarie (lo sviluppo delle reti di

comunicazione globale è stato accompagnato dal parallelo riemergere dei nazionalismi in

Europa e del fondamentalismo religioso in Asia e Africa). Anche l’economia si è

transnazionalizzata di pari passo con lo sviluppo delle reti di comunicazione, sottraendosi

al controllo degli Stati-Nazione e invadendo ogni aspetto della vita umana mercificandola;

114Anche Gallino è ricorso al concetto della mega-macchina per descrivere la società attuale, che chiama ‘finanz-capitalismo’: “Il finanzcapitalismo è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. L’estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona” (Gallino 2011, 5).115Latouche 2008, 30-43

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Page 97: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

- La macchinizzazione del sociale: il cittadino si trasforma in utente della mega-macchina,

che ne plagia desideri e aspirazioni. La perdita di identità e la transnazionalizzazione dei

processi economici e politici inficiano i legami sociali, mentre l’efficienza diventa l’unico

valore di riferimento a cui piegare ogni aspetto dell’esistenza umana;

- Il vicolo cieco: tale efficienza è autoreferenziale e punta all’accumulazione illimitata del

capitale e alla crescita infinita, concetti che contrastano con il carattere limitato della Terra

e delle sue risorse;

- L’ingiustizia: violando ogni basilare legge della fisica, non solo la promessa di prosperità

e uguaglianza per tutti della mega-macchina diventa una clamorosa menzogna, ma

addirittura si incrementano infelicità e disuguaglianze, creando una società sempre più

polarizzata. In Italia, che pure è una delle nazioni occidentali dove il problema è meno

evidente, il 10% delle persone più ricche possiede il 40% della ricchezza del paese mentre

il 10% più povero solo lo 0,3%116;

- L’uniformazione: la mega-macchina ammette solo lo stile di vita occidentale e aborre il

multiculturalismo. Anche gli apologeti del neoliberismo, come Frances Fukuyama,

ammettono questa circostanza presentandola però come un fatto positivo: “La tecnologia

rende possibile un’illimitata accumulazione di ricchezza e quindi la soddisfazione di una

serie di desideri sempre più vasta. Questo processo assicura una crescente

omogeneizzazione di tutte le società umane indipendentemente dalle loro origini storiche e

dalle loro eredità culturali. Tutti i paesi in cui è in atto un processo di modernizzazione

sono destinati ad assomigliarsi sempre di più: essi dovranno urbanizzarsi, sostituire le

forme tradizionali di organizzazione sociale come la tribù, la setta e la famiglia con altre

forme economicamente razionali basate sulla funzionalità e l’efficienza, e infine dovranno

provvedere all’istruzione dei loro cittadini”117;

- Lo sradicamento: le nazioni nate nell’era della globalizzazione, laddove lo stile di vita

occidentale fatica a imporsi - come nell’Europa orientale - non traggono legittimità da una

società civile o su di un moderno concetto di cittadinanza, bensì da un sentimento neo-

tribale che pretende di ergersi a ‘popolo’ e ‘Stato’;

- La spoliazione produttiva: il lavoratore tende a diventare un ingranaggio della

megamacchina, in forme più raffinate ma non meno alienanti e soggioganti di quelle

proposte dai modelli fordisti-tayloristi. I servizi telematici come la posta elettronica, ad

esempio, vengono spesso sfruttati per allargare a 24 ore su 24 la reperibilità del lavoratore

superando i limiti fisici dell’azienda e gli orari di lavoro canonici;

116Triani 2010, 36117Fukuyama 1996, 13

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Page 98: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

- L’assenza del desiderio di cittadinanza: il cittadino contemporaneo, dopo una dura

giornata di lavoro, si trova spesso di fronte a problematiche di carattere familiare o

burocratico-amministrativo, che lo spingono a ricercare rifugio nell’entertainment anziché a

interessarsi alla comunità e a impegnarsi politicamente, e così facendo tende a

demandare importanti decisioni politiche agli esperti.

Per riassumere, siamo giunti alla conclusione che il superamento reale del capitalismo e

dei suoi disastri è possibile solo destrutturando il gigantismo della mega-macchina sui cui

si regge, rallentandone il ritmo esasperato di evoluzione e riportandola a un livello

accettabile per le esigenze umane e ambientali, ricostruendo il tessuto sociale e

immaginando nuove forme di convivenza tra uomo e natura. Si può pertanto partire da

alcune premesse fondamentali, per poi svilupparle ulteriormente:

- ridurre il peso delle attività umane a una dimensione compatibile con l’ambiente;

- sviluppare concezioni scientifiche ed economiche slegate dalle tecnocrazia;

- combattere le tendenze globalizzatrici concentrando l’attenzione sulla sfera locale, quella

dove la società civile può intervenire con maggior risultato;

- permettere al cittadino di riappropriarsi della propria autonomia;

- introdurre un controllo sociale sulla tecnologia, in modo che persegua dei fini realmente

utili per la collettività e la preservazione dell’ambiente, non per il capitale;

- riappropriarsi della cultura per ricostruire un sentimento democratico di cittadinanza,

dove il rifiuto delle tirannie globalizzate e la riaffermazione del Sé trovino fondamento

sull’aspirazione all’uguaglianza e alla lotta alla discriminazione, e non su di una cieca

rivendicazione identitaria;

- ricostruire il tessuto sociale, pretendere una ridistribuzione sostenibile della ricchezza e

combattere i modelli culturali imposti dalla società della crescita.

Da queste considerazioni prendono lo spunto alcune idee imprescindibili.

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Page 99: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Decrescita

‘Decrescita’ è una parola tabù, una vera e propria bestemmia nel mondo economicista in

cui viviamo118. Non è un’ideologia bensì uno slogan che indica una pluralità di soluzioni,

alcune delle quali sostengono un radicale rifiuto della tecnologia e il ritorno al primitivismo

oppure assumono la forma di culti neopagani matriarcali; in questa sede faremo

riferimento a una concezione che potremmo definire ‘decrescita scientifica’ basata sul

superamento – e non la negazione – della modernità e dello sviluppo.

Alcune movimenti politici marginali, legati all’anarchismo e al socialismo utopistico,

avevano già contestato l’ideologia della crescita economica indiscriminata a partire dalla

fine dell’Ottocento, e nel corso del Novecento il delirio produttivista e tecnologico della

società occidentale era stato oggetto di critica da parte di alcuni pensatori radicali - Pier

Paolo Pasolini, Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse. Tuttavia, si è dovuto

aspettare fino agli anni Settanta perché qualcuno si interessasse in modo scientifico e

sistematico all’argomento della crescita economica e della sua compatibilità con la

biosfera. Nel 1971 l’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen fondò la

bioeconomia, una disciplina che studia l’economia in rapporto alle leggi della fisica, con

particolare riferimento al secondo principio della termodinamica. Questo postulato

determina che, alla fine di ogni processo, la qualità dell'energia è sempre peggiore rispetto

all'inizio e quindi qualsiasi processo economico che produce merci e materiali diminuisce

la disponibilità di energia nel futuro e di conseguenza la possibilità di produrre altre merci e

beni materiali: da tale constatazione Georgescu-Roegen prese le mosse per delineare

118Questa parola crea una frattura talmente radicale con le tradizioni economiche consolidate da indurre a un rifiuto psicologico anche persone che portano avanti concezioni compatibili con la decrescita, come Piero Bevilacqua o Guido Viale, che preferiscono parlare più vagamente di ‘sostenibilità’. C’è poi chi non ha capito proprio niente del concetto, come Paolo Ferrero, che in un’intervista ha affermato: "Considero le proposte che provengono dal movimento per la decrescita in larga parte condivisibili; ritengo sbagliato l’obiettivo della decrescita. Il nostro obiettivo non è la decrescita, anche perché altrimenti quest’anno in Italia saremmo andati abbastanza avanti con il socialismo avendo perso il 5% del PIL, ma la modifica del meccanismo di accumulazione. Noi vogliamo “de-mercificare”, non “de-crescere”, non vogliamo mettere la retromarcia e andare indietro, ma svoltare". A parte il fatto di non aver mai spiegato in che cosa consista tale ‘demercificazione’, Ferrero commette il tipico errore di confondere la decrescita, ossia la riduzione volontaria del consumo, con la recessione, che è invece una scelta imposta dalla necessità; la stessa differenza che passa tra una dieta dimagrante e l’inedia. Comunque il fraintendimento di Ferrero è nulla rispetto alle invettive di Giampaolo Fabris, che nel libro La società post-crescita parla della decrescita come di una visione “all’insegna del fermate il mondo voglio scendere”, “prospettiva utopica e conservatrice”, una romanticheria intrisa di “inattuale economicismo”, un “fondamentalismo accecato dell’utopia” in cui le varie correnti sono ossessionate da “l’abbattimento dell’odiato capitalismo”, capaci solo di ipotizzare “uno scenario claustrale, un po’ ‘polpottista’”, “nuovi Savonarola” il cui comune denominatore è “la vocazione masochistica all’ascetismo”, “il massimalismo scostante, talebano che mette in discussione ogni ambito della vita quotidiana per riportarlo a una sorta di stato di natura, di cultura preindustriale additata a modello di buon vivere”, “l’ostracismo nei confronti delle imprese multinazionali ma, più in generale, delle imprese tout court” e il “rigore di stampo superegoico” (i virgolettati sono tutti affettuosi apprezzamenti pazientemente copiati dal libro).

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Page 100: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

una economia della de-crescita, basata cioè sulla riduzione dei consumi e quindi sul

risparmio delle materie prime e dell’energia e sul rispetto dei ciclo biologici.

Successivamente Ivan Illich e la scuola francese del post-sviluppo, in particolare

intellettuali come Cornelius Castoriadis e Jacques Ellul, hanno elaborato ulteriormente tale

concezione ma è stato soprattutto Serge Latouche a divulgarla sotto forma di impegno

civile e progetto politico al fine di ricostruire una società su basi nuove, rigenerandola

anche sul piano sociale. Per Latouche

La parola d’ordine della decrescita ha soprattutto lo scopo di sottolineare con la forza l’obiettivo della crescita illimitata, obiettivo il cui motore è essenzialmente la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale, con conseguenze disastrose per l’ambiente e dunque per l’umanità. Non soltanto la società è ridotta a mero strumento e mezzo della meccanica produttiva, ma l’uomo stesso tende a diventare lo scarto di un sistema che punta a renderlo inutile e a farne a meno.119

Posta in questi termini la decrescita non comporta una rinuncia, bensì una liberazione

della ‘droga della crescita’, la capacità di stare meglio sprecando meno risorse:

Riducendo volontariamente la produzione di alcuni tipi di merci perché non hanno un’utilità effettiva, o perché causano danni ambientali irreparabili, o perché possono essere sostituite da prodotti analoghi che diminuiscono il consumo di risorse naturali e/o l’impatto ambientale e/o la quantità degli scarti da smaltire, non si peggiora la qualità della vita, non si fanno rinunce o sacrifici. Si fanno miglioramenti che non si potrebbero ottenere senza una diminuzione del PIL.120

È bene distinguere la decrescita non solo dallo sviluppo sostenibile ma anche dalla teoria

dell’economia stazionaria, propugnata dall’ex funzionario della Banca Mondiale Hermann

Daly121. Infatti nelle decrescita è presente una critica radicale dello sviluppo, che prescinde

dagli effetti meramente ecologici, come ha indicato Gorz:

119Latouche 2009, 17120Pallante 2009b, 8121 L’idea di un’economia stazionaria comincia ad affacciarsi anche tra alcuni economisti ortodossi un po’ più illuminati. Ecco quanto scriveva l’ex ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa nel 2009 sulle pagine del Corriere: “La crescita ante-2007 era insostenibile sotto il profilo economico-finanziario... Si può allora chiedere: perché mai «crescita»? Non sarebbe meglio la cosiddetta «crescita zero», proposta decenni fa dal Club di Roma? La risposta è no, perché non sarebbe sostenibile socialmente; non basterebbe a migliorare la condizione dell’oltre metà del genere umano priva di scarpe ai piedi, di acqua potabile, di cure mediche adeguate, per non dire del miliardo a rischio di morte per fame. No, quindi, alla crescita zero per il mondo intero; ma sì (o quasi) per il mondo ricco, che scarpe ne ha in abbondanza, lascia aperto il rubinetto dell’acqua, getta molte delle medicine ottenute gratis e da solo produce gran parte del degrado ambientale. In breve: crescita mondiale moderata, concentrata nei Paesi emergenti” (Tommaso Padoa Schioppa, Utopie dannose e utopie utili, Corriere della Sera, 19 agosto 2009)

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La soddisfazione integrale di tutti i bisogni in cambio di una prestazione lavorativa ridotta non dipende dallo sviluppo insufficiente delle forze o dei mezzi di produzione, ma, al contrario, dal loro sovrasviluppo. Il sistema non ha potuto e crescere e riprodursi che accelerando la distruzione allo stesso tempo che la produzione delle merci; organizzando nuove rarità mano a mano che cresceva la massa delle ricchezze; svalutandole quando queste rischiavano di diventare accessibili a tutti; e perpetuando così la povertà allo stesso tempo che i privilegi, la frustrazione allo stesso tempo che l’opulenza122.

Per implementare la decrescita, Latouche teorizza un circolo virtuoso basato sulle ‘8 erre’:

rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare,

riciclare. Esaminiamole una per una.

- Rivalutare: si tratta dell’aspetto fondamentale per una rivoluzione culturale che spiani la

strada alla decrescita. I valori dominanti oggigiorno sono quelli veicolati dall’ideologia

neoliberista, quindi individualismo, competizione, ricerca del profitto a tutti i costi,

conformismo e rifiuto della diversità. Una società della decrescita deve promuovere

altruismo, solidarietà, armonia con la natura, rispetto dell’Altro e un’etica e una giustizia

svincolate dalla logica del profitto e dell’accaparramento. Deve inoltre saper rivalutare una

concezione del ‘saper fare’ troppo spesso sminuita dalla società dei consumi, interessata

a plasmare a sua immagine e somiglianza un individuo sempre più inetto e dipendente dal

mercato.

- Riconcettualizzare: l’etnocentrismo occidentale ha forgiato la sua visione di concetti quali

‘povertà’, ‘sviluppo’ e ‘libertà’ imponendoli al mondo intero. In particolare, ha bollato tutte

le pratiche di sussistenza come ‘arretrate’, sostituendole con pratiche ‘sviluppiste’ che,

soprattutto nel Terzo Mondo, hanno creato disastri e miseria di proporzioni inimmaginabili,

per cui si impone la ridefinizione di tutto il nostro immaginario collettivo:

Oltre a distruggere l’integrità della comunità umana, il capitalismo ha anche corrotto il concetto classico di ‘vivere bene’, alimentando un terrore irrazionale per la scarsità materiale. Stabilendo criteri quantitativi per definire una ‘buona vita’, ha dissolto le implicazioni etiche del ‘limite’. Da questa lacuna è sorta una problematica specificatamente tecnica, dei nostri tempi: equiparando il ‘vivere bene’ con il ‘vivere opulentemente, il capitalismo ha reso difficilissimo dimostrare che la libertà è più strettamente connessa con l’autonomia personale che con l’opulenza, più con la padronanza della propria vita che con il possesso delle cose, più con la sicurezza emozionale che da viene da una corroborante vita comunitaria che con la sicurezza materiale che deriva dal mito della natura dominata da una tecnologia onnipotente123.

122Gorz 2009, 95123Boochkin 2010, 402

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Bisognerebbe inoltre ribaltare l’assunto di Fukuyama sulla ‘fine della storia’ e interrogarsi

sui limiti del liberalismo e sulla vera essenza della democrazia.

- Ristrutturare: l’uscita dal capitalismo prevede una riconversione del precedente apparato

produttivo, per creare tecnologie funzionali a una società basata sul nuovo paradigma. Sul

piano ecologico, invece di pensare a innovazioni spesso costruite con materie prime rare e

attraverso processi di produzione molto inquinanti124, è preferibile riutilizzare il materiale

esistente secondo nuove logiche, limitando altresì i flussi di materia.

- Ridistribuire: le disuguaglianze, non solo tra il Nord e il Sud del mondo ma anche

all’interno delle singole nazioni, sono una delle cause principali del fallimento della

globalizzazione neoliberista, anche per quanto riguarda il saccheggio di materie prime e la

pirateria ambientale. Bisogna chiudere con queste pratiche e offrire caso per caso

opportuni risarcimenti e riparazioni.

- Rilocalizzare: la delocalizzazione delle attività produttive è fonte di grande disagio

ecologico e sociale, innescando dinamiche che accentuano la degenerazione ambientale

e la distruzione delle economie locali nel Sud e nel Nord del mondo, causando ondate

migratorie sempre più crescenti. Anche la politica deve riprendere una dimensione locale

in modo che i cittadini non si sentano più vittime di forze oscure e inaccessibili ma

possano influenzare attivamente i processi decisionali, fino a ricreare condizioni ispirate il

più possibile alla democrazia diretta.

- Ridurre: la nostra società assomiglia sempre di più alla Leonia descritta da Calvino ne Le

città invisibili, la metropoli dove ogni giorno i cittadini si risvegliano circondati da prodotti

nuovi di zecca, perché quelli utilizzati il giorno prima sono stati rigorosamente e

immancabilmente cestinati, finendo per creare montagne di spazzatura sempre più alte e

imponenti intorno alla città. Apprezzare la durata delle cose, evitando di farsi fuorviare

dall’ansia delle novità a ogni costo è un fattore imprescindibile nella lotta allo spreco e a tal

fine occorre promuovere quello che Gorz chiamava ‘principio dell’autolimitazione’, per cui

l’individuo limitando il proprio lavoro circoscrive i propri bisogni in favore dell’autonomia di

vita e quindi di una maggiore libertà;

- Riutilizzare/riciclare: la legge universale dell’entropia coinvolge tutto il creato, dalla più

piccola delle particelle fino all’espansione delle galassie e l’umanità non può sottrarsi a

questa dura realtà. Il riutilizzo delle componenti, pur abbassando il PIL, può rappresentare

una miniera preziosa per prolungare la durata di merci e beni, permettendo allo stesso

tempo di risparmiare energia.

124È il caso ad esempio delle celle fotovoltaiche a telluro di cadmio: benché presentino un rendimento energetico superiori a quelle tradizionali, sono costruite con materiali molto più rari del silicio.

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Sulla base delle ‘8 erre’, Latouche ha stilato un programma politico della decrescita in

nove punti, invitando le forze politiche a condividerli e attuarli:

1. Recuperare un’impronta ecologica uguale o inferiore a un pianeta: il Living Planet

Report del WWF da alcuni anni documenta che, grazie alle ideologie della crescita

economica, il prelievo delle risorse supera la capacità di rigenerazione del pianeta; si tratta

di uno sviluppo non sostenibile che ovviamente va immediatamente bloccato prima che il

mancato smaltimento assuma proporzioni drammatiche.

2. Integrazione dei costi di trasporto: la delocalizzazione delle attività produttive oggi è

favorita dai prezzi contenuti dei trasporti, in quanto non sono tassati nel modo opportuno i

danni provocati da tale attività. Se ciò avvenisse gli imprenditori sarebbero seriamente

incentivata a rilocalizzare le attività.

3. Rilocalizzare le attività: le delocalizzazioni comportano non solo un danno ambientale,

ma costi sociali elevatissimi per i paesi coinvolti che non possono essere ridotti a banali

esternalità economiche. In una delle pagine introduttive del libro Giù le mani! di Michael

Moore, sotto la scritta “Che cos’è il terrorismo?” appaiono due foto: la prima è quella di un

palazzo governativo di Oklahoma City, sventrato dall’attentato dinamitardo del 1995; la

seconda è quella di un altro edificio in rovina, anch’esso apparentemente vittima di

bombardamento: in realtà è raffigurata la fabbrica della General Motors di Flint (stato del

Michigan) come appariva nel 1996, dopo che i vertici dell’azienda l’avevano smantellata

per trasferire la produzione in Messico. Un’associazione di idee semplicemente geniale.125

4. Restaurare l’agricoltura contadina: principio valido sia nel Nord che nel Sud del mondo.

Deindustrializzare l’agricoltura e riportarla a una dimensione locale, naturale e tradizionale

significa anche ridurre il degrado sociale e ambientale provocato dallo spopolamento delle

campagne. Per fare ciò occorre abbandonare il mito della produttività, quello che negli

anni Sessanta ha dato origine alla ‘rivoluzione verde’ e che ora mai palesa tutti i suoi limiti,

e passare dalla logica della priorità all’esportazione a quella della sussistenza e della

sovranità alimentare.

5. Trasformare gli aumenti della produttività in riduzione del tempo di lavoro e in creazione

di posti di lavoro: si tratta di una concezione radicale nello spirito dei movimento dei

lavoratori delle origini, ma che i sindacati e la Sinistra attuale hanno sostanzialmente

abbandonato in nome della ‘politica dei redditi’ e dei ‘premi di produttività’, entrambe

125Si pensi anche alla chiusura dello stabilimento FIAT di Termini Imerese, in una regione come la Sicilia dove la scarsa iniziativa privata rischia seriamente di rafforzare logiche clientelari e criminalità organizzata.

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misure consone alla crescita economica. Emancipare il più possibile l’uomo dalla schiavitù

del lavoro salariato è invece non solo un insostituibile fattore di progresso, ma anche

l’unica possibilità per una convivenza pacifica tra forza lavoro e sviluppo tecnologico.

Latouche stima che, nel corso di due secoli, la produttività in Francia sia aumentata 30

volte, ma la durata del lavoro sia calata solo della metà, con una crescita dell’occupazione

di solo 1,75 volte.

6. Stimolare la “produzione di beni relazionali”: lo Stato può farlo cercando di rendere la

conoscenza un bene collettivo e non una fonte di esclusione. La popolazione invece può

creare nuove reti comunitarie per l’assistenza o lo svago, nello spirito di un nuovo

mutualismo.

7. Ridurre lo spreco di energia: prima di pensare a produrre energia ‘ecologica’, sarebbe

bene risparmiare almeno una parte di quella consumata attualmente. Al momento sono

già disponibili tecnologie che permettono, a parità di produzione, di ridurre di quattro volte

il consumo di energia; associazioni come il Rocky Mountain Institut lavorano da alcuni anni

su questi progetti e hanno elaborato soluzioni pratiche applicabili da subito.

8. Penalizzare fortemente le spese pubblicitarie: la pubblicità è parte integrante

dell’ideologia capitalista, perché incita all’acquisto in modo compulsivo e irrazionale e

attraverso la moda provoca la rapida obsolescenza delle cose. Chi ne sottovaluta la

portata dovrebbe chiedersi perché, ad esempio, solo negli USA nel 2007 sono stati

investiti 148,99 miliardi dollari in inserzioni pubblicitarie126. Già oggi è vietato reclamizzare

alcuni prodotti (sigarette, superalcolici) e non è consentita la trasmissione di alcune

tipologie di programmi, come quelli pornografici, in determinate fasce orarie; in futuro si

potrebbe proibire la trasmissione di pubblicità durante i programmi destinati ai bambini,

che sono ovviamente le vittime più facilmente manipolabili e limitare l’invadenza dei

materiali di propaganda commerciale in ogni spazio fisico urbano. Un ruolo importante può

ricoprirlo l’istruzione scolastica rivelando la natura dei meccanismi di propaganda e

consenso.

9. Decretare una moratoria sull’innovazione tecnico-scientifica: è senza dubbio uno dei

punti più controversi e discussi, da cui si sono dissociati persino molti simpatizzanti del

movimento per la decrescita. Secondo Latouche bisognerebbe esercitare un’importante

opera di indirizzo dello sviluppo tecnologico, in modo da adeguarlo alle reali necessità

umane e ambientali. Si può portare come prova il fatto che, in una nazione come la

126Dati del TNS Media Intelligence reports U.S. Advertising 2007

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Francia che ha puntato in modo massiccio sull’energia nucleare, le rinnovabili occupino

uno spazio infimo nel panorama energetico

La teoria della decrescita è assolutamente rivoluzionaria perché nega alla radice i

fondamenti del capitalismo - cioè ricerca del profitto e crescita economica - molto più di

quanto non facciano altre ideologie radicali convinte di doverlo sfidare sul piano della

produttività, come faceva il socialismo reale. Presenta inoltre il vantaggio di non richiedere

necessariamente la ‘conquista del potere’ essendo applicabile già da subito come filosofia

di vita quotidiana combattendo in modo pacifico ma fermo l’establishment politico ed

economico.

Agroecologia

Oggi i fallimenti della cosiddetta ‘rivoluzione verde’, cominciata a metà degli anni

Cinquanta e basata sulla diffusione su scala mondiale della chimica industriale e della

meccanizzazione in campo agricolo, sono ampiamente risaputi: dopo l’impennata

produttiva iniziale, a farla da padrone sono stati avvelenamento delle falde,

standardizzazione e perdita di biodiversità, impoverimento dei terreni e spopolamento di

massa delle campagne127. L’agricoltura è responsabile del 18% delle emissioni di gas

serra, di cui il 45% provocate dai concimi azotati, la cui decomposizione libera protossido

di azoto (N₂O)128.

Altrettanto conosciuto è il problema della fame nel mondo che, secondo il rapporto FAO

2009, riguarda più di un miliardo di persone. Molti però non si immagineranno

minimamente che nel 2008, anno in cui è impennato il prezzo di molti generi alimentari

anche a seguito di speculazioni finanziarie, la produzione mondiale di cereali aveva

raggiunto il valore record di 2.232 milioni di tonnellate, un dato che dovrebbe significare la

disponibilità di un chilo al giorno per ogni essere umano129. Questa situazione assurda

chiarisce come il problema della crisi alimentare dipenda principalmente da situazioni

politiche e solo secondariamente dalla scarsità produttiva. Per sintetizzare, tra le cause

principali della denutrizione si annoverano:

127Per approfondimenti del problema si rimanda alla lettura di opere come Il libro nero dell'agricoltura, di Davide Ciccarese128Gouer e Gouyon 2009, 294129Colombo e Onorati 2009, 40

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- il ricorso massiccio, nei paesi del Sud del mondo, alla monocoltura per prodotti da

esportazione a scapito dell’agricoltura di sussistenza. La monocoltura, privilegiata

soprattutto per ripianare il debito estero, è più soggetta all’attacco di parassiti e malattie,

quindi comporta molti rischi;

- l’aumento dei prezzi agricoli, spesso ottenuto artificiosamente distruggendo riserve

alimentari nel Nord del mondo. La FAO ha calcolato che tra il 2005 e il 2008 il prezzo del

mais è cresciuto del 131% e quello del frumento del 177%, stimando inoltre che l’aumento

dell’1% del costo di un alimento comporta tra i poveri una riduzione dell’assunzione

calorica dello 0,5%130;

- la standardizzazione delle colture operata dall’agronomia occidentale, che riduce la

diversità biologica aumentando i rischi di carestia. Se nel recente passato l’umanità ha

consumato in modo costante più di 3000 generi di piante, oggi 8 coltivazioni producono il

75% degli alimenti mondiali131.

- la debolezza dei mercati del Sud del mondo, generata non soltanto dall’apertura

indiscriminata al commercio internazionale, ma anche da politiche di cooperazione

internazionale insensate. Infatti molte ONG, in base allo stereotipo della scarsità di cibo,

donano grandi quantità di prodotti alimentari che finiscono in concorrenza con quelli locali,

danneggiando ulteriormente i produttori;

- le guerre e le azioni terroristiche, che impediscono il normale svolgimento dell’attività

agricola;

- la diffusione indiscriminata di colture per l’alimentazione animale e la produzione di

biocarburanti;

- lo spreco di cibo, che raggiunge proporzioni inimmaginabili. Tristram Stuart ha calcolato

che, solo con il cibo sprecato in un anno negli USA e in Gran Bretagna da famiglie,

ristorazione e vendita al dettaglio, si potrebbe sfamare a un livello minimale oltre un

miliardo di persone, evitando l’emissione di più di ottanta milioni di tonnellate di gas serra.

Se allo spreco aggiungiamo anche l’eccessivo consumo – secondo la FAO il numero di

obesi nel mondo è all’incirca uguale a quello dei denutriti, intorno al miliardo di persone -

.le risorse sperperate sono inquantificabili;

La precarietà e l’instabilità del settore agro-alimentare derivano in gran parte dal fatto che,

nel sistema attuale di produzione e consumo, il ruolo dell’agricoltore è assolutamente

passivo, in balia degli agenti internazionali. L’Africa rappresenta solo la punta dell’iceberg:

130Ibidem, 41131Shiva 2009, 195

106

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L'Africa è il continente più ricco di risorse del pianeta ed è sottopopolato. Ha una popolazione pari a quella dell'Europa ed è tre volte più grande. È anche tre volte più grande della Cina e ha un terzo della sua popolazione. Ciò nonostante, è il continente dove maggiormente infierisce la povertà. «Certamente - sostiene Pierre Rabhi - ciò dipende dal fatto che da molti secoli le sue ricchezze sono sottoposte a saccheggio. Ma non solo. La miseria endemica che imperversa nel mio continente natale, come del resto nella maggioranza delle regioni definite sottosviluppate, deriva in gran parte dall'imposizione a popolazioni che non hanno chiesto nulla a nessuno, di modi di produzione che non sono adatti né ai loro territori, né al loro saper fare, né alle loro forme di organizzazione sociale. La nuova distribuzione modernista, introdotta dalla colonizzazione e perseguita dalla politica del libero scambio, può essere illustrata nella maniera seguente. Quelle popolazioni rappresentano un potenziale produttivo, per cui le si connette al sistema mercantile facendole coltivare prodotti esportabili secondo il procedimento abituale dell'agroindustria: si forniscono loro le sementi e gli input con le modalità d'impiego; dopo la raccolta, il contadino porta le sue balle di cotone alla cooperativa, che le spedisce in Olanda o altrove per commercializzarle; alla fine della catena il piccolo produttore riceve la sua parte del prezzo di vendita diminuito del costo delle forniture. Non controllando né il primo, né il secondo, egli non può allora che constatare la sua dipendenza dall'economia mondiale e dalle sue fluttuazioni: costo dei concimi indicizzato sul dollaro (ci vogliono tre tonnellate di petrolio per produrre una tonnellata di concime), prezzi delle merci sottomessi alla speculazione, diktat del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale... Siccome nel frattempo la coltivazione dei prodotti alimentari è stata sradicata per fare spazio monoculture (cotone, caffé, arachidi...), finalizzate esclusivamente all'esportazione, il contadino africano si ritrova nell'impossibilità di uscire dal sistema»132.

Movimenti contadini del Sud e del Nord del mondo, come quelli riuniti nel network Via

Campesina, hanno invece proposto un approccio diverso, che riscopre in chiave moderna

la tradizione; si possono così sintetizzare le proposte principali:

- decretare il primato della sovranità alimentare su qualsiasi altra considerazione, per cui il

fine dell’agricoltura è innanzitutto soddisfare il fabbisogno di ogni comunità locale. Tale

principio è divenuto legge in Equador, Bolivia, Nepal, Mali, Nicaragua e Venezuela, paesi

che non a caso hanno sofferto nel recente passato i drammatici effetti delle monocolture

da esportazione;

- restituire autonomia alla comunità contadina, rifiutando il ricorso invasivo a biotecnologie

e meccanizzazione in favore del riciclo dei nutrienti e dell’ottimizzazione dell’uso delle

risorse locali. È il presupposto dell’agricoltura biologica che, per funzionare efficacemente,

necessita di una produzione diversificata abbandonando la logica della monocoltura;

132Pallante 2009a, 53-54

107

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- abolizione del principio di proprietà intellettuale sugli organismi viventi, quasi sempre atto

di biopirateria operato dalle multinazionali nei confronti del Sud del mondo;

- accorciamento della filiera produttiva;

- promozione di riforme agrarie che, colpendo la grande proprietà fondiaria, agevolino la

formazione di comunità autonome di piccoli contadini;

- subordinazione di tutte le produzioni agricole a scopo non alimentare alle esigenze

nutrizionali della popolazione umana.

Il secondo punto, che può apparire arcaico e antimoderno, è fondamentale perché

ribadisce la centralità dell’autonomia locale contadina. Abbiamo già constatato nella

seconda parte gli effetti deleteri dell’agricoltura industriale sulle società del Sud del mondo

in termini occupazionali, ma altrettanto importante è la perdita di indipendenza. Il ritorno

alla trazione animale, ad esempio, può anche fungere da fonte di concime e biogas,

mentre l’agricoltura sviluppista si traduce in dipendenza da combustibili e ricambi per i

macchinari, che va ad aggiungersi a quella dai prodotti biochimici.

In quest’ottica si può focalizzare meglio l’avversione degli ambientalisti per i prodotti OGM.

Ammesso che non comportino alcun pericolo per la sicurezze alimentare e che

permettano realmente di abbandonare l’uso di pesticidi – cosa che molti studi indipendenti

contestano133 - adottare sementi transgeniche significa praticare una rigida

standardizzazione delle colture, costringere il contadino ad acquistare semi sterili e quindi

non manipolabili, rendendolo dipendente dai capricci delle multinazionali e allargando la

filiera. Negare ciò affermando che il costo per le sementi sarebbe inferiore a quello per i

pesticidi (dando per scontato che l’agrobusiness non sarebbe mai tanto cinico da

aumentare i prezzi, una volta vincolati i contadini) dimostra la miopia di ragionare solo in

termini pecuniari e una visione del contadino come operaio della terra privo di

intraprendenza e iniziativa. Impedire all’agricoltore di manipolare i semi equivale infatti a

mortificare la sua professione.

Monsanto e le altre corporation del settore promettono che gli OGM metteranno fine alla

fame nel mondo, riciclando così i vecchi slogan della rivoluzione verde, ma si è appena

evidenziato come il problema della denutrizione non sia legato alla scarsa produttività.

Inoltre lo studio del 2007 Organicagriculture and the global food supply: renewable

133Ad esempio, nel rapporto 2008 di Friends of the Earth Internationali i dati testimoniano che le colture transgeniche comportano un aumento consistente nel ricorso a glifosato e pesticidi. In ogni caso, gli studi che presentano risultati positivi sembrano scordarsi che, nel lungo periodo, i parassiti avranno inevitabilmente la meglio in quanto variabili geneticamente, per cui la natura selezionerà specie resistenti; si ripeterà sostanzialmente lo stesso processo provocato dall’uso massiccio di antibiotici.

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agriculture and food systems, redatto da un gruppo di studio dell’università del Michigan

coordinato da Catherine Badgley, ha quantificato che un’agricoltura biologica, se adottata

nelle modalità opportune, sarebbe in grado di produrre tra le 2.640 e le 4.380 calorie per

persona al giorno, un dato abbondantemente al di sopra del fabbisogno umano.

A livello accademico, si comincia a parlare da tempo di agroecologia, intendendola

appunto come un approccio che non si limita ad analizzare l’aspetto produttivo ma tutta la

dimensione ecologica, tecnica, socioeconomica e culturale dell’agroecosistema, al fine di

preservare la biodiversità, il riciclo dei nutrienti, l’ottimizzazione dell’uso delle risorse locali,

l’autosufficienza economica delle azienda agricole.

La diffusione dell’agroecologia avrebbe ricadute talmente importanti sul piano sociale e

ambientale che la sua estensione su scala planetaria deve rappresentare un obiettivo

politico imprescindibile.

Scienza, tecnologia ed economia: nuovi paradigmi

Per millenni l’umanità è vissuta seguendo i cicli naturali sfruttando quasi esclusivamente

energie rinnovabili per il proprio sostentamento. Le rivoluzione industriali, ricorrendo ai

combustibili fossili come il carbone e ai processi di sintesi chimica, hanno apparentemente

permesso l’emancipazione dai ritmi della natura assoggettando la produttività alla volontà

umana, sia in campo agricolo che in quello industriale, con la sola discriminante

dell’efficienza tecnologica. Per favorire ciò, si è sviluppata una costante settorializzazione

del pensiero scientifico in branche specializzate che sicuramente ha permesso di

espandere la conoscenza sui fenomeni naturali, perdendo però di vista il mondo fisico

come insieme vivente e trasformando gradualmente la scienza, nel nascente mondo

capitalista, in un un’ancella dell’economia industriale e della politica:

La ragione, la scienza e la tecnica, queste tre grandi vie (o ‘strumenti’, per usare il linguaggio del moderno strumentalismo) per la conquista della libertà umana che solo una generazione fa sembravano tanto certe, non godono più di un così alto status. Fin dalla metà del ventesimo secolo, si è vista la ragione diventare razionalismo, una fredda logica per la manipolazione sofisticata degli esseri umani e della natura; la scienza diventare scientismo, un’ideologia che vede il mondo come un corpo eticamente neutrale, essenzialmente meccanico, che deve essere manipolato; la tecnica diventare tecnologia moderna, un armamentario di potentissimi strumenti per affermare l’autorità di un élite tecnoburocratica. Questi ‘mezzi’ per salvare la libertà dalle grinfie di un modo clericale e mistificato hanno rivelato un lato oscuro che ora minaccia di ostacolare la libertà, se non addirittura di

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annullare proprio quelle aspettative di società libera e di libera mente umana che ragione, scienza e tecnica avevano fatto nascere134.

Le conseguenze sono state pesantissime per l’umanità. Contagiata dall’ideologia del

profitto a breve termine, la scienza ha trascurato ogni principio di precauzione nel tentativo

di assoggettare la natura ai ritmi industriali, trascurando o addirittura negando gli effetti

collaterali delle tecnologie. Slegata da ogni considerazione etica, la tecnologia si è

asservita al potere militare producendo ordigni sempre più devastanti, fino ad arrivare alla

concreta possibilità di distruzione del pianeta attraverso la proliferazione nucleare. La

storia dell’energia atomica è emblematica delle degenerazioni che si sono verificate: i

reattori nucleari, in origine, servivano unicamente a produrre plutonio per scopi bellici; solo

successivamente si pensò che l’enorme quantità di calore prodotta dai reattori potesse

essere recuperata almeno parzialmente in una centrale termoelettrica, una logica

decisamente fredda e cinica avulsa da qualsiasi ambizione di progresso umano. Del resto,

alcuni scienziati di primo ordine come John von Neumann ed Edward Teller hanno

sostenuto con forza l’escalation nucleare se non proprio caldeggiato una guerra atomica, e

non a caso sono serviti da ispirazione a Stanley Kubrick per il personaggio del Dottor

Stranamore, vivida incarnazione cinematografica dello stereotipo dello ‘scienziato pazzo’

ben lontano dalle rappresentazioni ideali illuministe e positiviste. Ma è ancora più triste

pensare che gli scrupoli di coscienza non siano bastati neppure a persone di alto profilo

morale, come Albert Einstein o Andrei Sacharov, dall’astenersi dai progetti atomici militari.

Illich e Marcuse hanno sostenuto che lo sviluppo tecnologico ipertrofico tende a ridurre

drasticamente il grado di autonomia umano demandando sempre di più agli esperti; per

tale ragione, Illich propone di riportare la tecnologia a un livello ‘conviviale’, dove sia la

macchina a lavorare per l’uomo e non l’uomo per la macchina. Questo approccio sembra

indirizzare nella direzione giusta, ma resta ancora abbastanza incompleto perché non

affronta pienamente le ragioni della degenerazione della conoscenza, pur abbozzandone

alcune. Vandana Shiva nel libro Monoculture della mente ha denunciato alcune

caratteristiche negative del sapere attuale, che si possono così riassumere:

- E’ profondamente imbevuto di economicismo e pertanto è insensibile ai bisogni umani, al

punto che il 90% di questo sapere potrebbe andare distrutto, visto che addirittura minaccia

134Boochkin 1988, 414

110

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la vita umana (come insegnano gli incidenti di Bhopal, Chernobyl, Sandoz); la sua fine

migliorerebbe le possibilità di benessere umano;

- Le implicazioni politiche del sapere dominante non garantiscono né l’eguaglianza né la

giustizia. Esso rompe la coesione delle comunità locali e divide le società tra quelle che

hanno accesso al sapere - e quindi al potere - e quelle che non ce l'hanno;

- Essendo frammentato e destinato a rapida obsolescenza, il sapere perde ogni

dimensione di saggezza;

- E’ un sapere intrinsecamente colonizzante e mistificatorio che nasconde la

colonizzazione sotto la mistificazione;

- Rifugge dalla concretezza, svalutando i saperi concreti e locali;

- Impedisce la partecipazione a una pluralità di soggetti;

- Trascura moltissimi percorsi per conoscere la natura e l’universo: è una “monocoltura

della mente", appunto.

Partendo da questi errori, la Shiva è tra coloro che propongono un paradigma scientifico

basato su di una visione olistica – il cardine del pensiero ecologico - incentrato sulla

complessità e sull’interrelazione tra i fenomeni anziché su di una visione riduzionista. La

natura non viene più considerata semplicemente come erogatrice di materie prime, ma

come parte integrante di un ciclo della vita da cui dipende anche l’esistenza umana. La

versione più estrema di questa nuova concezione è probabilmente la teoria di Gaia di

James Lovelock, in base alla quale la Terra – chiamata Gaia – è un organismo vivente

unitario capace anche di difendersi dalle aggressioni che le vengono portate; in generale

si tratta di un approccio rintracciabile nelle culture africane, asiatiche e sudamericane,

dove sono radicate tradizioni indigene ispirate all’animismo che tendono a integrare uomo

e natura, rispetto alla separazione abbastanza netta che contraddistingue la cultura

giudaico-cristiana135 e l’Islam. È certo che, se la scienza occidentale si fosse ispirata alla

concezione olistica, l’industrializzazione non si sarebbe spinta in uno sviluppo aggressivo

incurante delle conseguenze a lungo termine.

Il pensiero della Shiva però non si limita a un approccio interdisciplinare tra le diverse

branche della scienza, ma sottolinea l’importanza di integrare anche e soprattutto le 135Basti leggere questo passo dell’enciclica Popularum Progressio: “«Riempite la terra e assoggettatela» (Genesi 1,28): la Bibbia, fin dalla prima pagina, ci insegna che la creazione intera è per l'uomo, cui è demandato il compito d'applicare il suo sforzo intelligente nel metterla in valore e, col suo lavoro, portarla a compimento, per così dire, sottomettendola al suo servizio. Se la terra è fatta per fornire a ciascuno i mezzi della sua sussistenza e gli strumenti del suo progresso, ogni uomo ha dunque il diritto di trovarvi ciò che gli è necessario. Il recente concilio l'ha ricordato: «Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, dimodoché i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch'è inseparabile dalla carità»”.

111

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conseguenze sulla società umana, altrimenti la tecnologia rischia di creare sempre più

esclusione, come in effetti è avvenuto con lo sviluppo frenetico di tecniche di produzione

labor saving allo scopo di tagliare la manodopera, oppure disinteressandosi degli effetti dei

modelli produttivi sulla struttura sociale. Ad esempio, molti scienziati ‘progressisti’136, pur

ammettendo le storture dell’agrobusiness, perorano la causa delle sementi OGM come

soluzione per la denutrizione, senza pensare alle conseguenze del radicamento della

monocultura nelle società del Sud del mondo.

Il fisico Fritjof Capra propone di spingere la visione olistica (non lineare) fino alle

conseguenze più rivoluzionarie:

La nuova visione scientifica della vita, fondata sui concetti della dinamica non lineare, rappresenta un vero e proprio spartiacque concettuale. Per la prima volta, abbiamo ora a disposizione un linguaggio che ci mette in grado di descrivere e analizzare i sistemi complessi... Nella mia estensione dell’approccio sistemico al dominio sociale è esplicitamente incluso anche il mondo materiale. Ciò suonerà strano, dato che solitamente chi si dedica allo studio della società non è interessato al mondo della materia. Per il modo in cui sono state organizzate le nostre discipline accademiche, le scienze naturali si occupano delle strutture materiali, mentre le scienze sociali studiano le strutture sociali (intese essenzialmente come regole di comportamento). In futuro però, una divisione così marcata non sarà più possibile, proprio perché la sfida principale del nuovo secolo – per gli scienziati della società, per quelli della natura e per chiunque altro – sarà quella di costruire delle comunità che siano ecologicamente sostenibili, progettate in modo tale che le loro tecnologie e le loro istituzioni sociali (le loro strutture materiali e sociali) non vengano a minare quella capacità di sostenere la vita che è una proprietà intrinseca del mondo naturale.I principi che staranno alla base della progettazione delle nostre future istituzioni sociali dovranno essere in armonia con quei principi organizzativi che la natura stessa ha sviluppato al fine di sostenere la rete della vita. Per raggiungere questo fine, non potremo fare a meno di un orizzonte concettuale unificato che ci consenta la comprensione sia delle strutture materiali, sia di quelle sociali137.

La concezione di Capra è particolarmente incisiva nei confronti dell’economia. Inizialmente

una parvenu dell’Accademia – ancora a inizio Ottocento nella prestigiosa università di

Oxford venne osteggiata per molti anni la creazione di una cattedra di economia politica -

questa disciplina è in assoluto quella che più è rimasta isolata dalle scienze naturali e

sociali138 eppure ha finito per diventare dominante imponendo i suoi modelli astratti e 136 Penso ad esempio a Dario Bressanini, collaboratore de Il Fatto Quotidiano. 137Capra 2002, 22-23138 I suoi adepti in genere sono molto suscettibili alle critiche che vengono da ambienti scientifici di settori esterni. Il 21 ottobre 2011 l’astrofisico Francesco Sylos Labini scrisse un post sul suo blog nel sito Web de Il Fatto Quotidiano permettendosi di mettere in dubbio i meriti di alcuni Nobel per l’economia – principalmente appartenenti alla scuola dei Chicago boys di Milton Friedman, come Robert Lucas – che non solo non avevano previsto la crisi ma avevano sostenuto a spada tratta le misure che l’hanno fatto deflagrare. Il giorno dopo, sullo stesso sito Web, Andrea Moro, professore associato della Vanderbilt University e membro

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senza alcun riferimento concreto con la realtà. L’apoteosi di questa assurdità è stata

raggiunta sicuramente da Milton Friedman e dal suo celebre aforisma per cui ‘l’azienda è

responsabile solo nei confronti degli azionisti’, come se si trattasse di un’entità

dell’iperuranio platonico indifferente a quanto succede nel mondo reale; e non a caso nel

mondo descritto nei manuali l’economia può crescere all’infinito, le materie prime sono

illimitate, non esistono ‘esternalità negative’ come l’inquinamento e gli esseri umani,

quando non sono ridotti a mere pedine del mercato, assumono caratterizzazioni

psicologiche grottesche.

Tralasciando le concezioni basate sulla ‘responsabilità sociale dell’impresa’ (di fatto

operazioni di marketing basate su di una filantropia per nulla disinteressata), è meglio

concentrare l’attenzione sui modelli economici imperniati sulla concezione olistica e

l’imitazione degli ecosistemi. Un esempio è l’approccio chiamato ora design sistemico,

eco-design o economia della biomimesi: il modello economico è strutturato in modo che il

flusso (throughput) di materia scorra da un sistema ad un altro in una metabolizzazione

continua, dove gli scarti di un’attività diventano materia prima per un’altra secondo un

effetto cascata; in questo modo si diminuisce l’impronta ecologica aumentando il flusso

economico e quindi anche le possibilità occupazionali. Le singole parti del sistema si

intrecciano formando una rete virtuosa di relazioni tra i flussi di materia, energia e

informazione (l’agroecologia descritta nel precedente paragrafo è un esempio di design

sistemico).

Gunter Pauli ha chiamato questo orientamento blue economy (o green economy 2.0), per

differenziarlo sia dall’economia tradizionale - (in) red economy – sia dalla economia che

integra le energie rinnovabili nei soliti modelli di business (green economy). Invece di

immaginare tecnologie fantascientifiche, Pauli incoraggia ad apprezzare l’efficienza degli

ecosistemi:

Mentre l’uomo è sempre alla ricerca di fonti energetiche per applicazioni commerciali e domestiche, gli ecosistemi non devono mai essere collegati alla rete elettrica. Nessun membro dell’ecosistema necessita di combustibili fossili o di una connessione alla rete per produrre, né i rifiuti rappresentano un prodotto nei sistemi naturali. Tutto rimane nel flusso dei nutrienti. In natura, i rifiuti prodotti dagli uni sono

del collettivo di economisti Noisefromamerika, reagì in modo molto stizzito alle critiche di Labini, concludendo arrogantemente: “Pensando un criterio certamente consono alla “scuola di Chicago”, il salario è una misura del contributo di un lavoratore al prodotto di un paese. Lo è di più in condizioni di concorrenza nel mercato del lavoro, di meno in condizioni monopolistiche, ma almeno serve a dare un ordine di grandezza. Accettando questo criterio, per misurare il contributo degli economisti al benessere globale basta sommare tutti i loro salari. Ad essere fortunati, arriveremo sì e no a una frazione di millesimo del Pil globale. Ecco, questo è il nostro contributo al miglioramento della condizione umana. Giusto un pelino più grande di quello degli astrofisici”.

113

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sempre un nutriente, un materiale o una fonte di energia per gli altri. Perciò, la soluzione non solo alle sfide dell’inquinamento ma alle sfide economiche cui dobbiamo far fronte risiede nell’applicazione di modelli osservabili in un sistema naturale... Emulando il modo in cui gli ecosistemi trasformano ogni cosa, anziché sostituire un elemento o un ingrediente tossico con uno meno inquinante, si utilizzeranno processi verdi e sostenibili a tutti gli effetti, offrendo posti di lavoro e surclassando le industrie che producono rifiuti. Ciò significa che il prodotto che ne deriva, che di si tratti di un colore naturale, di un materiale edile o di una superficie idrorepellente, è possibile non solo ottenerlo rispettando la sua interazione con l’ambiente, bensì garantendo successo economico e aggiudicandosi una considerevole quota di mercato139.

Per fare ciò è necessaria un’apertura mentale che consenta di sopperire agli errori del

passato:

Sempre più spesso l’industria trova sostituti naturali a prodotti efficaci ma tossici, però poi impiega metodi tradizionali di produzione, contribuendo così all’aumento della nostra impronta di carbonio. Quando l’industria trova soluzioni nella sfera biologica, torna poi alla manipolazione genetica e alla clonazione per garantirsi risultati controllabili. Per modificare lo standard di mercato non sarà sufficiente sostituire una molecola con un’altra, bisognerà ispirarsi ai processi naturali per dirigere i sistemi verso la sostenibilità. Una blue economy offre un modello che si attiene alla fisica e alla natura nella selezione dei materiali e nei processi. Così avvia una cascata generativa e rigenerativa di innovazioni realizzabili, creando prodotti sostenibili140.

I risultati ottenibili sono sbalorditivi:

Ci sono vaccini che non necessitano di alcuna refrigerazione, strumenti per regolare il ritmo cardiaco che non hanno bisogno di chirurgia, tecnologie del vortice che disincrostano le tubature dell’acqua senza sostanze chimiche, alghe che sconfiggono i batteri rendendoli ‘sordi’, seta tagliente come la lama di un rasoio e la lista sarebbe ancora molto lunga...L’opportunità di sostituire qualcosa con niente, di sostituire un materiale o un procedimento non rinnovabile o tossico con un altro che dipende solamente dalla fisica e dai processi naturali è particolarmente affascinante. La capacità di ridurre il rischio generando maggiore liquidità rende i prodotti e i servizi competitivi, promuovendo così una nuova ondata di imprenditorialità. In questo modo si creeranno milioni di posti di lavoro sostenibili, fondamentalmente passando dai vecchi modelli e metodi produttivi ormai superati a innovazioni e processi basati sulla comprensione scientifica di soluzione già collaudate che incoraggiano la prossima generazione ad abbracciare l’innovazione141.

139Pauli 2010, 53140Ibidem,115141Ibidem, 119

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Nel libro Blue Economy, Pauli presenta cento innovazioni basate sul nuovo approccio,

molte delle quali ideate in paesi del Sud del mondo dove si fa di necessità virtù.

Per implementare questo modello economico, bisogna ovviamente pensare a una

pianificazione di nuovo tipo dove la politica individui come realizzare flussi di materia

efficienti. Per farlo occorre superare i modelli classici basati sulla linearità, ma non solo:

I modelli economici lineari prevedono l’assegnazione di un valore di mercato a ogni cosa, il calcolo del costo di ogni input, la distribuzione dei costi indiretti su ogni output e la conversione dei centri di costo in centri di profitto fatti per competere per le risorse interne mediante l’esternalizzazione. Ne deriva un calcolo basato sulla logica del consolidamento che prevede in sostanza la somma di tutto e l’eliminazione dei doppi conti. Questo non svela le sinergie esistenti tra le diverse divisioni di una stessa società, né identifica i beni comuni considerati gratuiti (e pertanto privi di valore).Inoltre, non mette un prezzo sulle esternalità imposte alla società – che si trova fuori dal core business – e non scopre le opportunità andate perse che esulano dall’attività principale delle aziende, semplicemente perché non vengono nemmeno prese in considerazione. Di solito non facciamo altro che imporre costi alle generazioni future, che non sono né consapevoli né tantomeno informate del fatto che stiamo sfruttando la Terra oltre il limite che andrebbe rispettato per poter ancora rimediare facilmente alle nostre colpe: lasciamo a loro i problemi da risolvere e, così, il cambiamento climatico può continuare senza che si capisca davvero quanto è urgente porvi rimedio142.

Difficile capire fin dove Pauli, nella sua genialità, sia consapevole di proporre un modello

di economia mercato che supera però il capitalismo e i dogmi del profitto e della crescita

illimitata.

Risparmio e conversione di modello energetico

Applicando la visione olistica, il sistema energetico va ripensato non solo in merito alle

problematiche ambientali ma anche alle ripercussioni sociali che può originare, visto che,

metaforicamente parlando, l’energia e le sue infrastrutture costituiscono il sangue e le

ossa della mega-macchina capitalista. La struttura centralizzata basata sulle grandi

centrali è tra i principali responsabili del dominio politico-economico attuale, in quanto

relega il cittadino a semplice utente-consumatore privilegiando l’espertocrazia, le grandi

corporation e il centralismo dei processi decisionali; la sua inefficienza favorisce i consumi

eccessivi e lo spreco, sposandosi con la logica della crescita e non certo con le evidenze

della scienza. Non bisogna cadere nell’errore di ritenere questo modello la conseguenza

142Ibidem, 269

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naturale dello sviluppo tecnologico dagli albori della rivoluzione industriale: l’effetto

fotovoltaico, ad esempio, era stato scoperto dal fisico francese Edmond Becquerel già nel

1839 e tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX molti ingegneri anche in Asia e

in Africa avevano realizzato prototipi dei moderni collettori solari, ma le fonti fossili e la loro

concentrazione in stock – impossibile con le rinnovabili – permetteva agli investitori di

impadronirsi dei giacimenti e di creare situazioni di monopolio, quindi sono state favorite in

tutti i modi, così come successivamente è successo con il nucleare143.

Per combattere questa visione anche in questo caso è necessario adottare un approccio

sistemico che non si limiti a una discussione sul tipo di energia da impiegare:

La soluzione al caso climatico non è il cambiamento delle fonti energetiche, dal combustibile fossile al nucleare, ai biocombustibili e alle grandi centrali idroelettriche. La soluzione è il cambiamento del modello: - da una visione riduttiva a una visione del mondo olistica basata sulle interconnessioni;- dal modello industriale automatizzato a un modello ecologico;- dalla definizione dell’essere umano in termini di consumo a una definizione che ci riconosca come protettori delle risorse limitate della terra e creatori della sua ricchezza insieme alla natura.144

Il terzo punto è quello da cui partire, perché l’elevato fabbisogno energetico – a

prescindere dalla fonte utilizzata – legittima l’esistenza della mega-macchina e dei suoi

seguaci strutturando gerarchicamente la sfera sociale. Nel saggio Energia ed equità, Illich

illustra efficacemente la questione:

Una politica di bassi consumi di energia permette un'ampia scelta di stili di vita e di culture. Se invece una società opta per un elevato consumo di energia, le sue relazioni sociali non potranno che essere determinate dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano etichettate, capitaliste o socialiste...Mentre si è cominciato ad accettare, come condizione per sopravvivere fisicamente, qualche limitazione ecologica al consumo energetico massimo pro capite, non si arriva ancora a vedere nell'impiego del minimo possibile di potenza il fondamento di una varietà di ordinamenti sociali che sarebbero tutti moderni quanto desiderabili. E tuttavia solo stabilendo un tetto all'uso di energia si possono ottenere rapporti sociali che siano contraddistinti da alti livelli di equità L'unica scelta attualmente trascurata è la sola che sia alla portata di ogni nazione. E’ pure la sola strategia che permetta di usare una procedura politica per porre limiti al potere anche del più motorizzato dei burocrati. La democrazia partecipativa postula una tecnologia a basso livello energetico; e solo la democrazia partecipativa crea le condizioni per una tecnologia razionale.

143Tanuro 2010, passim144Shiva 2009, 71-72

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Ciò che in genere si perde di vista è che l'equità e l'energia possono crescere parallelamente solo sino a un certo punto. Al di sotto di una certa soglia di watt pro capite, i motori forniscono condizioni migliori per il progresso sociale. Al di sopra di quella soglia, l'energia cresce a spese dell'equità. Ogni sovrappiù di energia significa allora un restringimento del controllo sull'energia stessa.La diffusa convinzione che un'energia pulita e abbonante sarebbe la panacea di tutti i mali sociali è dovuta a un inganno politico, secondo cui l'equità e il consumo d'energia possono stare in correlazione all'infinito, almeno in certe condizioni politiche ideali. Vittime di questa illusione, tendiamo a ignorare qualunque limite sociale della crescita del consumo energetico. Ma se hanno ragione gli ecologi ad affermare che la potenza non metabolica è inquinante, è di fatto altrettanto inevitabile che, al di là d'una certa soglia, la potenza meccanica produca guasti. La soglia oltre la quale comincia la disgregazione sociale indotta da alti quanta di energia non coincide con quella dove la trasformazione dell'energia comincia a produrre distruzione fisica; espressa in cavalli-vapore, è sicuramente più bassa.. E’questo il fatto che va riconosciuto in via teorica perché si possa affrontare sul piano politico il problema del wattaggio pro capite che la società deve porre come limite ai propri membri.

A prescindere dell’ideologia, si tratta anche di una soluzione di buon senso, perché gran

parte del consumo è spreco e, per citare Maurizio Pallante, qualunque sia il liquido che si

versa in un secchio è meglio prima tappare gli eventuali buchi. Del resto persino ambienti

non sospettabili di simpatie ambientaliste o decresciste concordano sulle potenzialità

dell’efficienza energetica. Il Rapporto sull'efficienza energetica redatto nel 2007 da ENEA

e CESI RICERCA e poi ripreso dalla Commissione Energia di Confindustria, sostiene la

necessità di un “piano straordinario di efficienza energetica”, che secondo le stime

sarebbe in grado in 10 anni di creare 1,6 milioni di occupati in più, permettendo un

aumento della produzione industriale di 238 miliardi, il taglio di 207 milioni di tonnellate di

CO₂ e 14 miliardi di risparmio in bolletta145. Secondo la task force di Confindustria, questi

sarebbero i campi principali su cui intervenire:

- illuminazione

- trasporti

- motori elettrici

- riqualificazione energetica degli edifici

- cogenerazione piccola e grande

- elettrodomestici di classe A e oltre

145Ovviamente Confindustria non punta alla decrescita: lo scopo è di reinvestire il risparmio energetico in nuova attività produttiva. Questa situazione per cui si ricerca l’efficienza allo scopo di aumentare la crescita produttiva, consumando quindi più risorse, è noto come ‘paradosso di Jevons’.

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- caldaie a condensazione

- pompe di calore

- gruppi di continuità avanzati nelle utenze elettriche industriali e terziarie.

Il rapporto si conclude stimando i possibili risparmi per settore ottenibili al 2016:

Settore GWh/annuiResidenziale 56.380

Terziario 24.700Industria 21.537Trasporti 23.360

Totale 126.327

Rispetto alla produzione elettrica del 2008 – prima cioè che la crisi riducesse

sensibilmente i consumi – si tratterebbe di un risparmio energetico del 40% ‘gratis’, senza

cioé aver ancora operato una riconversione degli stili di vita ispirati al consumo, pertanto i

margini di miglioramento sono amplissimi.

Un progetto basato sulla drastica riduzione dell’impatto energetico a parità di benessere è

quello della cosiddetta Società a 2000 Watt. Nel 1998 alcuni ricercatori del Politecnico di

Zurigo, ragionando su di un modello energetico sostenibile su scala planetaria, scoprirono

che la media del consumo di energia a livello mondiale corrisponde a 2000 Watt di

potenza continua, cioè quella di un cittadino europeo degli anni Sessanta, che oggi invece

ne utilizza 5000-6000, mentre altri popoli devono accontentarsi di molto meno: 1500 i

cinesi, 1000 gli indiani, circa 500 gli africani.

Gli ingegneri svizzeri accettarono la sfida: realizzare un modello energetico che

consentisse il medesimo benessere ma disponendo di soli 2000 Watt di potenza,

cercando di contenere a 500 quelli ottenuti con combustibili fossili, più o meno l’apporto

energetico di un litro di benzina. In questo modo si riuscirebbe a contenere le emissioni a

una tonnellata pro capite, un obiettivo in linea con quello proposto al G8 di L’Aquila 2009,

dove ci si è impegnati a ridurre dell’80-95% i gas serra prodotti dai paesi più sviluppati.

Ovviamente tutto ciò è impossibile senza lavorare sull’efficienza energetica.

Grazie alla collaborazione dell’istituzioni politiche della regione di Basilea, in breve tempo

sono stati calcolati i principali dispendi energetici e ipotizzate soluzioni:

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Attività

Potenza

impiegata (Watt) Proposta SoluzioneRiscaldamento 1500 450 Utilizzo sistemi riscaldamento

passiviBeni di consumo e

alimenti

1140 500 Riduzione sprechi e riciclo materiale

Costruzione

infrastrutture

900 340 Razionalizzazione delle opere

Trasporto 850 320 Potenziamento trasporto pubblico,

riduzione viaggi aerei

Un aspetto importante riguarda la cosiddetta energia grigia, cioè il dispendio energetico

per assicurare un servizio o per produrre, trasportare fino al luogo di utilizzo e infine

smaltire un prodotto o un materiale: le economie di scala, le delocalizzazioni e

l’importazione di materie prime e alimenti a basso costo favoriscono il dispendio

energetico e quindi l’inquinamento, mentre la filiera corta, oltre a garantire un maggior

controllo sul prodotto, permette di contenere emissioni e consumi.

Ne consegue che un progetto come quello della Società a 2000 Watt presenta elementi

assolutamente rivoluzionari, ossia l’obiettivo di uno stato produttivo stazionario e la

riscoperta della dimensione locale, in netto contrasto con le filosofie che hanno ispirato il

boom economico del secondo dopoguerra e la svolta neoliberale di fine anni Ottanta.

Una volta ridotti i consumi è possibile interrogarsi sulle fonti da adottare e sul modello in

cui integrarle.

I combustibili fossili, l’energia idroelettrica e nucleare si basano su di un modello

fortemente accentrato, dove il cittadino-utente dipende in modo indissolubile dai detentori

dell’energia, con tutti i risvolti politici ed economici che ciò comporta:

La ragione di questo è lo stato fisico delle materie prime. Solo in pochi luoghi le risorse minerali e fossili si trovano in depositi accessibili nella crosta terrestre in concentrazioni sufficientemente elevate. Estrarle richiede un grande impegno di mezzi e di forze, e per trasportarle su lunghe distanze occorrono strutture di trasporto a lungo raggio e molta energia. Convertirle in elettricità, acciaio o benzina, rende necessarie grandi centrali, acciaierie e raffinerie e, infine, distribuirle esige reti di trasporto e sistemi di consegna146.

Le energie rinnovabili permettono di modificare radicalmente questo schema:

Esse si trovano in linea di massima in tutto il mondo, ma a una densità inferiore, nonché a periodicità incostante. Si procurano senza molto sforzo, e il loro trasporto si limita al circuito regionale. La conversione in elettricità, carburante e materiali

146Sachs e Morosini 2011, 143

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necessita certo capitale e tecnologie, ma vengono meno le grandi strutture di distribuzione grazie alla maggiore vicinanza tra produzione e consumo. Insomma, un’economia solare può far crescere le interdipendenze dell’economia regionale e rendere superflue quelle dell’economia globale.In questa prospettiva si sta delineando una possibile inversione di tendenza nello sviluppo industriale. Al posto dell’accentramento delle materie prime, nascono distretti decentrati, su piccola scala e distribuiti sul territorio, che producono energia, alimenti e materiali grezzi. Si forma una struttura economica in cui molti piccoli produttori forniscono energia in molti luoghi e non più pochi mega-produttori in uniche localizzazioni... Molto lascia credere che il passaggio a un’economia ecocompatibile comporti anche quello a un’economia ri-regionalizzata147.

E infatti qualcosa si sta muovendo: circa ottantamila tedeschi partecipano a cooperative

per la produzione di energia pulita, secondo uno studio di Deutsche Genossenschafts- und

Raiffeisenverband e.V. (DGRV), assieme a BSW-Solar, l’associazione tedesca del solare

e all’Agenzia per l’energia rinnovabile (Agentur für erneuerbare Energien – AEE); i

consumi elettrici domestici di questi cittadini sono totalmente coperti dall’energia pulita

prodotta dalle cooperative di cui sono soci. In Italia Retenergie, cooperativa ad azionariato

popolare, ha già realizzato oltre un centinaio di impianti basati su un mix di rinnovabili.

In uno schema decentrato diventa possibile per ogni produttore scambiare le eccedenze di

energia in una struttura reticolare. Jeremy Rifkin lo ha chiamato il ‘World Wide Web

dell’energia’, perché ricalcherebbe concettualmente quello applicato in Internet e proprio

come il Web garantirebbe nuovi margini di azione all’insegna di una nuova libertà e

dell’indipendenza. Una cornice di questo genere ricorda molto da vicino certi progetti

anarchici o del socialismo utopistico, che fino a poco tempo fa sembravano assurdi e

irrealizzabili. Secondo il Wuppertal Institut, il decentramento energetico non è solo

scientificamente più efficiente ma è anche veicolo di promozione sociale:

Poiché un sistema decentrato produce l’elettricità per lo più in zone vicine al consumatore, può essere adattato alle condizioni economiche della natura locale. La produzione elettrica diventa così un’attività economica regionale: i consumatori si trasformano sempre di più in produttori di energia. Si instaura un sistema che porta frutti anche a livello sociale: piccole centrali elettriche, materie prime locali, reti di fornitura regionali richiedono la partecipazione della cittadinanza, rafforzano le competenze del luogo e, comunque, sono sistemi più democratici delle strutture centralizzate. Creano più posti di lavoro, poiché devono essere costruiti numerosi nuovi impianti, che poi hanno bisogno di manutenzione; consentono una pianificazione orientata alle necessità immediate e brevi periodi di lavorazione, infondendo nelle persone coinvolte una maggiore consapevolezza del loro valore per la società. I costi diretti per un grande impianto da 50 o 200 Megawatt nell’ambito di

147Ibidem, 143-144

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una rete di fornitura centralizzata sono ancora inferiori a quelli per molto piccoli impianti. In compenso gli impianti decentrati sono più vantaggiosi per la macroeconomia... Le materie prime fossili di solito hanno bisogno di lunghe filiere di rifornimento, che a loro volta creano lunghe catene di valore aggiunto. La maggior parte dei posti di lavoro e i maggiori profitti non riguardano i consumatori. Questa logica può essere ribaltata con un cambio di materie prime di base. Il fotovoltaico, l’eolico, le piccole centrali elettriche e le biomasse seguono filiere di produzione più brevi; ciò non vale solo per le materie prime, ma spesso anche per le tecnologie di conversione a esse connesse.148

In Germania, ad esempio, l’industria delle rinnovabili occupa oltre 235.000 persone, con il

solo fotovoltaico che offre lavoro a più persone del comparto nucleare, mentre l’eolico può

vantare oltre 85.000 lavoratori, il doppio rispetto a quelli delle miniere di carbone

tedesche149. Il ricorso a un sistema decentrato basato su piccoli impianti è importante

perché, contrariamente ai luoghi comuni, tutte le infrastrutture energetiche comportano

impatto ambientale, anche quelle cosiddette ‘verdi’: vaste aree coperte da celle

fotovoltaiche o specchi riflettenti danneggerebbero l’attività di fotosintesi, così come la

sottrazione di una quota rilevante di energia eolica potrebbe incidere negativamente

sull’ecosistema150.

A livello internazionale, sono sorti alcuni enti per la promozione dell’energia

decentralizzata, che fanno riferimento alla WADE (World Alliance for Decentralized

Energy), a cui collaborano anche alcune corporation impegnate nel business energetico

tradizionale (ad esempio Siemens e Chevron). In alcune nazioni dell’Europa

settentrionale, come Olanda e Finladia, le fonti decentralizzate di energia raggiungono il

35% della capacità complessiva, in Danimarca addirittura superano il 50%151;

complessivamente però nel mondo la percentuale è ancora bassa, intorno al 10%. Una

nota sul sito Web della WADE sintetizza quali siano i problemi per la diffusione di nuovi

paradigmi:

Molti dei maggiori ostacoli che deve affrontare chi desidera investire nell’energia decentrata sono di carattere normativo o politico, piuttosto che tecnico. In altre parole, la tecnologia e le conoscenze ingegneristiche non sono i fattori che limitano un’implementazione più rapida dell’energia decentrata. Le principali barriere sono politiche di pianificazione sorpassate o obsolete152

148Sachs e Santarius 2005, 181-182149Dati riportati in Greenpeace energy revolution 2008150Chiesa, Cosenza e Sartorio 2010, 64151Dati del World survey of decentralized energy 2005152www.localpower.org/pol_general.html

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Il decentramento permetterebbe anche di affrontare al meglio i consumi energetici: piccole

reti locali potrebbero funzionare in corrente continua (DC) a 12 V anziché in corrente

alternata (AC) e siccome le energie rinnovabili producono corrente continua - la stessa

consumata dalla maggioranza delle apparecchiature domestiche - si potrebbe evitare la

dispersione derivante dalla trasformazione di corrente, che garantirebbe secondo Gunther

Pauli un risparmio di elettricità del 50%.

Herman Scheer, sociologo tedesco più volte membro del Bundestag, ha dedicato gran

parte del suo impegno politico in favore della diffusione sostenibile delle energie rinnovabili

e nel libro Imperativo energetico ha delineato alcune delle problematiche più rilevanti per

la riconversione del sistema. Sheer mette in guardia contro una ‘tecnologia senza

sociologia’, come il tentativo del business di integrare le rinnovabili nel quadro tradizionale,

cercando di favorire progetti mastodontici e di dubbia fattibilità come le centrali a carbone

con sequestro del carbonio, Desertec, i maxi-parchi eolici off-shore e le super-grid per il

trasporto di energia153. Sostenitore di un approccio ‘dal basso’, Sheer condanna i tentativi

di pianificazione tecnocratica preferendo lo sviluppo di tanti progetti indipendenti basati su

piccole imprese energetiche locali, senza nutrire alcuna fiducia negli accordi internazionali

sul clima, sui dispositivi di vendita delle emissioni e sulle cosiddette politiche del ‘mix

energetico’, che a suo giudizio non servono per promuovere le fonti rinnovabili bensì per

tutelare quelle convenzionali. L’ENEL, ad esempio, non si fa problemi ad ammetterlo

pubblicamente:

Il boom nella produzione di energia rinnovabile, arrivata ormai a coprire oltre un quarto del fabbisogno nazionale di elettricità, unito a consumi ormai da anni stabili o in calo, rende sempre più marginale la necessità di produrre energia dalle centrali tradizionali, costringendole a lavorare a scartamento ridotto, con pesanti ripercussioni sulla loro redditività. A lanciare quello che per i grandi produttori di energia è un allarme rosso è il presidente dell'Enel Paolo Andrea Colombo. "Lo sviluppo delle rinnovabili, unito alla stagnazione della domanda, sta rendendo difficile la copertura dei costi di produzione degli impianti convenzionali, mettendone a rischio la possibilità di rimanere in esercizio", ha lamentato oggi Colombo...Il problema, agli occhi dell'Enel, è che quel mondo prevedeva una serie di impianti costati fior di investimenti ma che per essere redditizi hanno bisogno di produrre a ritmi ormai ampiamente superflui. In termini numerici a dare un'indicazione del fenomeno è l'ex consigliere di amministrazione di Enel G. B. Zorzoli, oggi presidente

153Molte di queste soluzioni sono invece sostenute a spada tratta da gruppi ambientalisti come Greenpeace. È curioso che, nell’introduzione all’edizione italiana di Imperativo energetico, il presidente del Kyoto Club Gianni Silvestrini contesti l’opinione di Sheer: definendo “indispensabile” il contributo di centrali solari nel deserto e parchi eolici off-shore.

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della sezione italiana dell'International Solar Energy Society, in un'intervista al sito Qualenergia 3. "Questi (impianti, ndr) per ripagarsi dovrebbero funzionare circa 4-5mila ore l'anno, invece ne stanno funzionando, quando va bene, 3mila. Il ridotto uso dei cicli combinati si traduce anche in miliardi di metri cubi di gas in meno, con un innegabile vantaggio in termini ambientali e di bilancia dei pagamenti, ma con un danno economico per chi vende gas".Un'evoluzione che Enel conta di rallentare (è stata anche oggetto di un duro scontro nei mesi scorsi con Terna) andando innanzitutto a rivedere il conto energia che nelle sue diverse versioni ha sino ad oggi fatto da volano a questa rivoluzione. Per questo Colombo ha invocato una "razionalizzazione degli incentivi" che consenta una maggiore efficienza, che "eviti gli sprechi inutili e garantisca lo sviluppo selettivo dei progetti". "Tenuto conto dell'emergenza finanziaria - ha detto intervenendo alla Terza Conferenza del diritto dell'energia del Gse - è ragionevole attendersi un'adeguata ridefinizione dei meccanismi incentivanti"154.

Queste resistenze politico-economiche si integrano con il giudizio espresso da Vandana

Shiva, secondo cui tutte le principali proposte dell’Occidente riguardo la questione

climatica mirano a salvaguardare la globalizzazione e il modello accentrato di produzione:

Siamo tutti d’accordo sul fatto che per prevenire un catastrofico cambiamento climatico dobbiamo contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2°C. Ma la maggior parte delle ‘soluzioni’ per ridurre le emissioni mantengono e addirittura incrementano gli schemi di produzione e di consumo ad alto impiego di energia. Esiste una profonda distanza tra l’obiettivo di ridurre almeno dell’80 o 90% le emissioni di CO₂ e i programmi proposti per attuarlo. Il problema del cambiamento climatico è ovviamente collegato alla questione energetica ma riguarda anche l’economia, come i beni sono fabbricati e distribuiti, il modo in cui le nostre case sono progettate e costruite, come è prodotto ciò che mangiamo e ciò che indossiamo. Tuttavia, nei dibattiti e nei negoziati sul cambiamento climatico, la globalizzazione e l’industrializzazione non vengono mai considerate.155

L’interesse per i cambiamenti climatici è quindi legato solo ai rischi di mutamento sociale

che potrebbero originare. Adesso si capisce perché molti governi e la grande impresa

vedono con favore i biocarburanti e l’energia nucleare, oppure la termovalorizzazione dei

rifiuti, le biomasse e al più l’energia eolica: perché consentono di riproporre il paradigma

centro-periferia, costituito dalla grande centrale e dalla dipendenza passiva da essa. Il

nucleare si presta in modo straordinario agli scopi dei sostenitori della crescita economica,

perché richiede investimenti elevati e si sposa bene con comportamenti orientati al

consumo, in quanto la reazione atomica non si può controllare e tutta l’energia prodotta va

utilizzata subito altrimenti viene dispersa. 154Gualerzi Valerio, Boom rinnovabili, l'Enel avverte "A rischio impianti convenzionali", Repubblica 30/03/2012. Non è un caso che il Governo Monti si sia impegnato attivamente nel bloccare gli incentivi alle rinnovabili155 Shiva 2009, 69

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Paesi emergenti come Brasile, India e Cina si candidano per ospitare le colture destinate

alla produzione mondiale di biocarburanti, con il rischio concreto di distruggere le ultime

foreste vergini e di sovraccaricare le riserve idriche a discapito della produzione per uso

alimentare. Le grandi multinazionali del settore, come la Petronas, anziché cercare di

coltivare piante come la jatropha in climi semi-aridi - a cui potrebbero adattarsi svolgendo

anche un’importante opera contro la desertificazione - preferiscono sfruttare i terreni più

fertili per aumentare la resa, sradicando in gran parte le economie contadine, con

conseguente aumento del prezzo dei cereali e dei prodotti essenziali per l’alimentazione

umana, nonché il forte rischio di provocare carestie su vasta scala; tutto al solo scopo di

mantenere le popolazioni in uno stato di dipendenza simile a quello dei combustibili fossili.

Mentre nucleare e biocombustibili animano i dibattiti, quasi sconosciuta al pubblico è la

creazione di energia tramite cogenerazione, termine con cui si indica la produzione e il

consumo contemporaneo di diverse forme di energia secondaria (energia elettrica e/o

meccanica ed energia termica) partendo da un'unica fonte, fossile o rinnovabile, attuata in

un sistema integrato. Un esempio è dato dall’automobile, dove la potenza prelevata

dall'albero motore è usata sia per la trazione sia per la produzione di elettricità, il calore

sottratto ai cilindri viene utilizzato per il riscaldamento dell'abitacolo e la pressione dei gas

di scarico per attivare l’eventuale turbina di sovralimentazione. Lo sfruttamento di calore e

pressione non comporta un aumento dei consumi, poiché sono scarti del processo di

conversione da energia chimica a meccanica attuato dal motore. Uno dei primi esempi di

cogeneratore su piccola scala è stato il TOTEM, realizzato nel 1973 dall'ing. Palazzetti del

Centro Ricerche FIAT, ma la casa torinese ha completamente abbandonato tale

progetto156che in tempi recenti è stato riproposto invece da Wolkswagen, Toyota e Honda.

Un microcogeneratore per uso domestico consiste in un motore di derivazione

automobilistica, opportunamente depotenziato (15-20 kW), a cui sono collegati un

generatore elettrico e uno scambiatore di calore, allo scopo di utilizzare la dispersione

termica del propulsore per il riscaldamento e l’acqua calda; la resa di questi sistemi è tale

per cui il taglio di emissione di CO₂ rispetto agli impianti separati può raggiungere il 40%.

La microcogenerazione, integrata con le energie rinnovabili, si adatta alla perfezione in

uno schema energetico reticolare dove si scambiano le eccedenze, e rappresenta un

esempio importante di riconversione ecologica di un settore – l’industria automobilistica –

non solo dannoso sul piano ambientale, ma oramai in stagnazione da diversi anni.

156 Palazzetti in diverse interviste ha sostenuto che l’abbandono del TOTEM fu legato non solo al fatto che mal si addiceva alle politiche produttive centralizzate dell’ENEL, ma anche al coinvolgimento della FIAT nei programmi nucleari italiani.

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In definitiva, risparmio energetico e microgenerazione di energia nella visione

decentralizzata possono rendere effettiva l’idea di Illich di una società conviviale a basso

consumo energetico, dove la tecnologia viene riportata a misura d’uomo e rilocalizzata sul

territorio, restituendo all’individuo e alle comunità gran parte dell’autonomia e del potere

decisionali perduti.

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Quattro idee sparse per la società sostenibile

Una società basata sulla decrescita, sull’agroecologia, sulla visione sistemica della

scienza e sulla decentralizzazione energetica implica una rivoluzione che inevitabilmente

deve ridefinire i rapporti politici, economici e sociali tradizionali. In questo capitolo verranno

presentate quattro idee innovative, in modo volutamente ‘sparso’ e non sistematico, che

possono servire da importante spunto per ulteriori riflessioni.

Democrazia deliberativa

Massimo Fini, giornalista da sempre anticonformista e controcorrente, ha le idee ben

precise sulla democrazia e non ha paura di esporle. Leggiamo dal suo libro Sudditi:

Democrazia significa, etimologicamente, «governo del popolo». Scordiamoci che il popolo abbia mai governato alcunché, almeno da quando esiste la democrazia liberale. Se c’è qualcosa che fa sorgere nell’anima di un liberale un puro sentimento di orrore è il governo del popolo. Quindi non è tanto paradossale scoprire che se il popolo ha governato qualcosa è stato in epoche preindustriali, preliberali, predemocratiche... E’ quindi all’interno del regime rappresentativo che va posta l’inquietante domanda: qual è l’elemento cardine della democrazia? Sarà, forse, il consenso? Niente affatto. Il consenso può esistere anche nelle dittature, come insegnano il nazismo e fascismo, spesso anzi è assai più ampio di quello che i governatori possono ottenere in un regime democratico. Sarà allora il fatto che in democrazia il consenso è spontaneo e nelle dittature coatto? Anche questo è dubbio. Nazismo e fascismo ebbero per un certo periodo un consenso sicuramente spontaneo e volontario. Caduta l’egemonia dell’antifascismo militante, che aveva velato pudicamente per alcuni decenni la vergognosa verità, oggi non c’è libro di storia che non parli degli «anni del consenso» al regime mussoliniano. Sono quindi le elezioni? Ma anche in Unione Sovietica, persino in Bulgaria, com’è noto, si tenevano elezioni. E’ il pluripartitismo? Max Weber nota – e siamo già negli anni Venti del Novecento – che «l’esistenza dei partiti non è contemplata, da nessuna Costituzione» democratica e liberale. Non possono quindi essere i partiti l’elemento caratterizzante della democrazia liberale che esisteva anche prima della loro istituzionalizzazione. Sarà, come alcuni dicono, «il potere della legge»? Ma il potere della legge esiste anche negli Stati autoritari, anzi più uno Stato è autoritario più questo potere è forte e invalicabili...

Noam Chomsky è più lapidario ma non meno duro:

La democrazia ha bisogno della dissoluzione del potere privato. Finché esiste il potere privato nel sistema economico è una barzelletta parlare di democrazia. Non si può nemmeno parlare di democrazia, se non c'è un controllo democratico dell'industria, del commercio, delle banche, di tutto.

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È molto probabile che Il cittadino comune si riconosca nei pensieri di questi due grandi

intellettuali. La sfiducia verso i partiti e il crescente astensionismo, fenomeni sempre più

diffusi in tutto l’Occidente, si devono al disagio per l’esclusione dai processi decisionali,

alla sensazione di essere vittime di un potere che, indipendentemente dalle formazioni al

governo, sembra interessato solo a problematiche della casta politica e di una ristretta

cerchia di privilegiati; aleggia la sensazione di sentirsi spremuti dalle tasse, solo per

contribuire a finanziare dinamiche politiche estranee a qualsiasi controllo sociale, quelle

volute dal ‘pensiero unico’ post-ideologico. È possibile ovviare a questo male della

democrazia attuale? O bisogna limitarsi a sfogare il proprio desiderio di espressione con

trovate demagogiche come il televoto o i sondaggi?

Una base di partenza per rispondere alla domanda è la constatazione che la moderna

democrazia rappresentativa liberale nasce dall’ibridazione di due teorie politiche

dell’Illuminismo, lo stato liberale di Montesquieu e lo stato democratico di Rousseau.

Montesquieu, sul modello dello Stato inglese, teorizzava una monarchia costituzionale

dove i tre poteri fondamentali - legislativo, esecutivo e giudiziario - fossero affidati a tre

istituzioni differenti e immaginava un parlamento eletto a suffragio ristretto, dove il diritto di

voto era esercitato solo dalle persone che garantivano un certo livello di contribuzione al

fisco: pertanto, immaginava una sorta di oligarchia allargata alla piccola borghesia e ai

grandi detentori del capitale, dove questi ultimi avevano ovviamente più mezzi per farsi

eleggere. Il sistema pluricamerale è una testimonianza del tentativo di mantenere il

privilegio sociale, perché in origine uno dei due organi – chiamato camera alta, camera dei

lord o Senato a seconda della tradizione culturale – era nominato direttamente dal sovrano

(come nello Statuto Albertino) oppure eletto da cittadini con un livello di contribuzione

superiore a quello sufficiente per esprimere il voto nella camera più bassa.

Jean Jacques Rousseau, cittadino svizzero, era invece un convinto repubblicano e

riteneva la rappresentatività elettorale un metodo moderno per riproporre disparità di tipo

feudale. Ispirandosi all’antica Atene e alle assemblee di villaggio contadine di epoca

feudale, propugnava che ciascuna comunità fosse amministrata come una democrazia

diretta, dove ogni cittadino contasse un voto ed esercitasse direttamente la funzione

legislativa senza alcun corpo intermedio. Inutile aggiungere che, tra i due modelli, è stato

quello di Montesquieu a imporsi, mentre l’idea di Rousseau è stata fatta propria e rivisitata

da movimenti utopistici come l’anarchismo; non è un caso che nella Dichiarazione dei

diritti dell'uomo e del cittadino, nella Dichiarazione d’indipendenza americana e nella

Costituzione degli Stati Uniti non compaia in nessun caso la parola ‘democrazia’.

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Nel corso dell’Ottocento e del Novecento, negli Stati liberali le classi sociali inferiori sono

riuscite progressivamente ad allargare la base elettorale, fino al riconoscimento del

principio del suffragio universale e di qualche strumento di democrazia diretta come il

referendum. Ne consegue che l’attuale ‘democrazia liberale’, in realtà andrebbe

ribattezzata ‘liberalismo democratizzato’, perché nel compromesso democrazia/liberalismo

è stato sicuramente quest’ultimo a prevalere, ed è inevitabile che periodicamente

riemergano le ‘tare’ originare del liberalismo classico: elitarismo, difesa del privilegio

sociale, decisionismo, predominio delle lobby e del grande capitale sulla volontà popolare.

Pur riconoscendo l’impossibilità - e la non convenienza – di rinunciare del tutto alla

rappresentatività elettorale, è possibile ribaltare il rapporto tre le due forme di teoria

politica a vantaggio questa volta della democrazia?

Una risposta concreta a questa esigenza è la democrazia deliberativa, teoria originaria

non di un nazione democratica liberale come USA, Gran Bretagna o Francia, ma del

Brasile, una terra che ha conosciuto crudeli dittature fasciste ma dove si sono radicate,

soprattutto a livello locale, concezioni politiche ispirate a forme non eterodosse di

socialismo, alla teologia della liberazione e a pratiche comunitarie della cultura indios.

L’applicazione concreta del principio si deve al Partito dei Lavoratori (PT – Partido dos

Trabalhadores), formazione di Sinistra sorta nel 1985 dopo la caduta della giunta militare,

e la piccola e povera municipalità di Porto Alegre ne è l’emblema.

Democrazia deliberativa significa che le consultazioni dei cittadini, a differenza di quanto

avviene nel liberalismo, hanno carattere vincolante a cui le forze politiche regolarmente

elette devono attenervisi. A Porto Alegre si è deciso che il controllo sulle priorità di spesa

del bilancio debba essere vagliato direttamente dal popolo, introducendo la pratica del

bilancio partecipativo, che si espleta nel corso dell’anno in diverse fasi:

Il periodo tra marzo e giugno segna la prima tappa del processo. In marzo in tutta la città ha luogo una serie di riunioni preparatorie, in cui i membri dell’amministrazione municipale illustrano i risultati ottenuti l’anno precedente e presentano i piani dell’amministrazione per l’anno successivo. Tra la metà di aprile e la seconda metà di maggio, nel cosiddetto ‘turno unico’, i cittadini di Porto Alegre si riuniscono in sedici assemblee territoriali – cui dal 1994 se ne sono aggiunte altre sei tematiche – allo scopo di votare la propria lista di priorità per l’anno. Le assemblee tematiche dedicate a problemi di carattere generale, come l’assistenza sanitaria, i provvedimenti a favore dei giovani, eccetera, hanno luogo direttamente in seno al Consiglio municipale, a simboleggiare l’apertura delle istituzioni rappresentative alla città nel suo complesso... A conclusione della prima fase del processo ha luogo la solenne riunione del Consiglio municipale, in cui le priorità votate dalle varie assemblee vengono trasmesse alle amministratori locali. Spetta a questi ultimi, coadiuvati da una staff tecnico, di studiare attentamente la realizzabilità delle

128

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proposte – questo nei mesi di luglio e agosto. Da settembre in poi li fiancheggia in questa attività il Consiglio di bilancio (COP), di elezione popolare, formato da quarantotto delegati votanti direttamente dalle assemblee del ‘turno unico’. Infine a novembre e dicembre, la giunta e il Consiglio comunale della città di Porto Alegre approva il bilancio.157

In quindici anni la poverissima Porto Alegre ha subito trasformazioni profonde: il 99% della

popolazione ha accesso all’acqua potabile, la rete fognaria è passata dal 46% all’86%

della copertura del territorio e gli studenti che hanno intrapreso studi universitari si sono

più che raddoppiati.

Pur non essendo la panacea di tutti i mali, la democrazia deliberativa ha allargato la base

della partecipazione politica, concentrando l’attenzione su tematiche in precedenza

marginali e dimostrandosi un antidoto efficace a clientelismo e corruzione, anche perché

l’amministrazione comunale è costretta a rendere conto pubblicamente delle proprie scelte

e a giustificarle. Ribaltando lo schema dall’alto verso il basso tipico delle deliberazioni

classiche - non solo nei regimi dittatoriali, ma anche in quelli socialdemocratici o

liberaldemocratici - si pone un grosso ostacolo alla costruzione, ad esempio, di

infrastrutture a elevato impatto ambientale invise alla popolazione, mentre istanze come la

raccolta differenziata dei rifiuti o la riconversione energetica avrebbero molta più

probabilità di essere accolte.

Per funzionare al meglio, la democrazia deliberativa richiederebbe il ridimensionamento

dei centri abitati e una riforma federalista molto diversa da quella attuata in Italia dal

Centro-Sinistra o da quella sognata dalla Lega, dove il municipio - l’ultima ramo della

catena amministrativa - diventi l’istituzione centrale e non la regione o macro-regione

com’è nelle intenzioni attuali. Il suo carattere ‘esotico’ potrebbe farla apparire poco

consona per l’Europa e l’Occidente in genere, abituato a ‘esportare’ la democrazia anziché

a imparare nuove forme di gestione politica, tuttavia è una soluzione che va esplorata

prima che la decadenza del liberalismo, aggravata dalla crisi economica e dall’avanzata

dell’estrema Destra, possa sfociare nell’autoritarismo più o meno esplicito insito in tutti

progetti di riforma istituzionale basati sul presidenzialismo o volti a rafforzare le prerogative

dell’esecutivo.

157Ginsborg 2004, 142-143

129

Page 130: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Reddito di cittadinanza

La dura sentenza di Milton Friedman per cui “Non esiste qualcosa come un pasto gratis”, è

sempre stata additata dai sostenitori del neoliberismo come prova delle necessità di

monetizzare e mercificare ogni aspetto della vita umana, compresi (soprattutto) quelli

legati alle esigenze primarie: da qui la condanna di ogni forma di welfare e assistenza

ottenuta al di fuori delle condizioni mercato, ribaltamento perfetto del principio socialista

secondo cui bisogna liberare l’uomo dalla schiavitù del bisogno. Ma come assicurare

realmente tale emancipazione? La risposta più netta e scandalosa a questo interrogativo

consiste nel capovolgere diametralmente la concezione di Friedman, assicurando non solo

un pasto gratis, ma addirittura un reddito di sussistenza a ogni cittadino,

indipendentemente da qualsiasi prestazione lavorativa e dalle condizioni economiche,

dovuto all’individuo per il solo fatto di esistere.

L’idea del reddito ‘universale’, ‘di cittadinanza’ o ‘di esistenza’ (in inglese basic income) è

talmente radicale e innovativa che persino molti esponenti dell’estrema Sinistra la

ritengono totalmente assurda e inconcepibile, tanto si allontana dalla classica equazione

reddito = lavoro. Storicamente è stata sostenuta dalla costituzione giacobina del 1793

(elaborata dal Comitato di salute pubblica guidato da Robespierre, ma mai entrata in

vigore), dal rivoluzionario americano Thomas Paine e ha ricevuto una formalizzazione dal

filosofo statunitense John Rawls nella sua opera Una teoria della giustizia (1971).

Attualmente l’associazione internazionale Basic Income Network - che ha una

ramificazione anche italiana - svolge una battaglia culturale per il riconoscimento di questo

diritto, insieme a molti movimenti politici progressisti.

Una delle motivazioni più importanti per l’istituzione del reddito di cittadinanza riguarda le

trasformazioni tecnologiche dovute all’automazione e all’informatizzazione dei processi di

produzione e gestione, che hanno ridotto drasticamente il numero delle mansioni svolte in

precedenza da esseri umani, riaccendendo ansie, per così dire, neo-luddiste. Il libro di

Rifkin La fine del lavoro descrive sul piano storico l’emergere di questo fenomeno:

Quando la prima ondata di automazione colpì il settore industriale, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, i leader sindacali, gli attivisti dei diritti civili e molti sociologi furono rapidi nel suonare l'allarme. Le loro preoccupazioni, comunque, non erano molto condivise dagli uomini d'impresa dell'epoca, che continuavano a credere che l'aumento della produttività generato dalle nuove tecnologie di automazione avrebbe stimolato la crescita economica e favorito l'occupazione e la crescita del potere d'acquisto. Oggi, al contrario, un numero ridotto ma crescente di manager inizia a preoccuparsi di dove ci porterà la rivoluzione tecnologica. Percy Barnevik è il

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Page 131: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

chief executive officer della Asea Brown Boveri, un colosso svizzero-svedese da 40.000 miliardi che produce generatori elettrici e sistemi di trasporto, oltre che una delle maggiori società di engineering del mondo. Come altre imprese globali, ABB ha recentemente re-engineerizzato le proprie attività, tagliando 50.000 posti di lavoro, pur riuscendo ad aumentare il fatturato del 60% nello stesso periodo di tempo. Barnevik si domanda: «Dove andrà a finire tutta questa gente?» Secondo le sue previsioni, la quota di forza lavoro impegnata nell'industria in Europa è destinata a diminuire dall'attuale 35 al 25% entro i prossimi dieci anni, con un'ulteriore discesa al 15% nei vent'anni seguenti. Barnevik è profondamente pessimista sul futuro dell'Europa: «Se qualcuno mi dice: "Aspetta due o tre anni e vedrai esplodere la domanda di lavoro", gli domando: "Dimmi dove? Quali lavori? In quali città? In quali aziende?" Se mi metto a tirare le somme, scopro che esiste il rischio che l'attuale 10% di disoccupati e sottoccupati diventi il 20 o 25%».158

Poiché le tecnologie del post-fordismo presentano un carattere labor saving ed è

impensabile che ripropongano l’utopia della piena occupazione del fordismo, Rifkin

propone che lo Stato si faccia carico di attribuire un salario per quelle mansioni a cui

normalmente non viene riconosciuto lo status di impieghi retribuiti, come le attività di

volontariato; di fatto, siccome tutte le persone quotidianamente compiono lavori ‘non

retribuiti’ (assistere i familiari, mantenere la propria abitazione, promuovere relazioni

sociali attraverso la partecipazione ad associazioni, ecc.), da qui a pensare che un reddito

garantito sia un diritto universale il passo è breve.

Il fenomeno della precarizzazione del lavoro ha accentuato l’interesse per le teorie del

reddito universale, dal momento che lo Stato è costretto, suo malgrado, a intervenire

economicamente sotto forma di sussidi di disoccupazione e incentivi alle aziende per la

creazione di posti di lavoro, solitamente con risultati effimeri e poco efficaci: nelle pagine

precedenti, trattando della crescita si è accennato alle ‘grandi opere’, un business

miliardario per le imprese che serve anche da patetico artificio per aumentare

temporaneamente l’occupazione, con il risultato di realizzare infrastrutture inutili – l’Italia

pullula di ‘cattedrali nel deserto’ - o addirittura dannose per l’ambiente senza risolvere i

problemi sociali.

Le politiche neoliberiste, avverse alla concezione classica del sussidio di disoccupazione,

hanno teorizzato il workfare, un concetto risalente all’Amministrazione Nixon e ripreso anni

dopo da quella Clinton. L’idea consiste nell’eliminare i contributi assistenziali per la

creazione di impieghi riservati alle famiglie la cui sussistenza si basava proprio su tali

contributi. Per quanto apparentemente ragionevole, all’atto pratico il workfare fa sembrare

la ‘schiavitù salariale’ di marxiana memoria una prospettiva gradevole e seducente:

158Rifkin 1997, 36

131

Page 132: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Chi non lavora, dopo un certo periodo, viene castigato, privato di assistenza sociale. Il programma è concepito per i disoccupati, considerati tutti come responsabili del loro stato... Il workfare penalizza i più poveri, aggiungendo alla loro miseria una disprezzo assoluto, la dimostrazione del ‘grado zero’ dei loro diritti, la privazione di ogni accesso al rispetto: senza il minimo scrupolo, esso riesce a estorcere loro ciò che è ancora possibile prendere: la loro fatica pressoché gratuita. Una permissività ufficiale vicina all’imposizione della schiavitù, che fa pensare a quelli che sono stati, fino a poco tempo fa, i metodi sovietici.159

Se il neoliberismo ha avuto gioco facile nel giustificare la fine del ‘posto fisso’ come

ricaduta dell’innovazione tecnica, allora deve essere possibile anche apprezzare i vantaggi

di tali tecnologiche in modo che tutta la popolazione possa goderne. Se la tecnica

permette di emanciparci dal lavoro – mentre oggi consente di affrancare il capitale dai

lavoratori – bisogna allora costruire una società dove vengano valorizzati quegli aspetti

della vita umana che troppo spesso la necessità di lavorare aveva tenuto repressi:

...Bisogna riprendere la rivendicazione di un reddito di sussistenza. Il suo fine non è perpetuare la società del denaro e della merce, né perpetuare il modello di consumo dominante nei cosiddetti paesi sviluppati. Il suo fine, al contrario, è sottrarre i disoccupati e i precari all’obbligo di vendersi: “liberare l’attività dalla dittatura dell’impiego”... Come dice un testo di un’associazione di disoccupati tra le più influenti in Francia, il reddito di sussistenza deve “darci i mezzi per dispiegare attività infinitamente più gratificanti di quelle alle quali ci si vuole costringere”, ricchezze intrinseche che nessuna impresa può fabbricare, che nessun salario può acquistare delle quali nessuna moneta può misurare il valore.160

Ricercare un’ipotetica ‘precarietà dal volto umano’, come fanno le forze politiche di Centro-

Sinistra e i sindacati confederali, è l’esatto contrario di ciò. Con la sicurezza del reddito

garantito le persone sarebbero più inclini ad assumere rischi per valorizzare i propri talenti

culturali, artistici o sportivi; e se, come sostiene qualche oppositore, “con un reddito base

la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro” – una delle tante

perle di saggezza dispensate dal ministro del lavoro del governo Monti, Elsa Fornero -

almeno non sarebbero ossessionate da ansie e paure che potrebbero indurli a

commettere crimini, a dedicarsi a occupazione inutili e magari lesive per la società e

l’ambiente, a rischiare la vita arruolandosi nell’esercito o, nella migliore delle ipotesi, a

sprofondare nelle depressione, nella droga e nell’alcolismo. È molto facile constatare se

159Forrester 2003, 66-67160Gorz 2009, 139

132

Page 133: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

per lo Stato sarebbe più dispendioso accollarsi l’onere dei danni provocati da questi

fenomeni o tollerare la predilezione per la pasta al pomodoro.

Un’unica indennità universale rimpiazzerebbe quelle che lo Stato eroga dietro verifica dei

requisiti e consentirebbe perciò il risparmio su tutte le autorità di controllo. Potrebbe anche

risolvere l’annosa questioni delle pensioni, che in quest’ottica potrebbero trasformarsi in

una retribuzione supplementare da aggiungere al reddito di cittadinanza in base alla

contribuzione versata, in modo che l’uscita dal lavoro diventi un fatto soggettivo e non più

condizionato da direttive esterne come quelle sull’età minima. Si tratterebbe di un vero

‘patto generazionale’ equo e solidale, molto diverso da quelli attualmente proposti, dove le

generazioni più anziane vengono accusate di privilegio al solo scopo di lenire gli effetti

della flessibilità elargendo qualche obolo ai giovani precari.

Indirettamente, il reddito di cittadinanza rafforzerebbe il diritto del lavoro in modo più

efficace di molti provvedimenti legislativi espliciti perché le imprese, non potendo più fare

leva sullo spettro dell’indigenza da disoccupazione, dovrebbero finalmente offrire

condizioni soddisfacenti; il fenomeno dei working poor161, sempre più diffuso nel mondo

occidentale, sarebbe estirpato alla radice. Anche l’autorità della criminalità organizzata

verrebbe seriamente incrinata, perché le fonti della sua manovalanza potrebbero

finalmente affrancarsi dalla dipendenza del racket: Roberto Saviano in Gomorra ha

descritto come la Camorra eroghi regolarmente alla famiglie del clan (anche in caso di

arresto dell’affiliato) la ‘mesata’, versione criminosa del reddito di cittadinanza, al fine di

ingraziarsi e assicurarsi la fedeltà della popolazione. Ciò ha portato a situazioni

drammatiche come quelle del parco Verde di Napoli, dove più volte la popolazione

disperata è intervenuta in difesa dello spaccio di droga contro gli interventi delle forze di

polizia, rivendicando il crimine come un diritto per non morire di fame: se la sussistenza gli

fosse garantita dallo Stato, c’è da pensare che queste persone abbandonerebbero il

traffico di stupefacenti e sarebbero sicuramente più utili per la società.

Ovviamente è necessario prevedere opportune politiche contro la delocalizzazione, per

non offrire un’altra giustificazione al ricatto della fuga verso mercati del lavoro più

competitivi, così come non bisogna prestare il fianco favorendo l’eliminazione di conquiste

imprescindibili del welfare state, come aveva ipotizzato Milton Friedman in una sua ipotesi

neoliberale di reddito di cittadinanza.

L’allerta è massima perché, con l’aggravarsi della crisi, molti politici hanno parlato di

reddito di cittadinanza in termini del tutto distorti, cioè come forma di integrazione al

161Con questa espressione si indicano quelle fasce di popolazione che, pur occupate, si trovano al di sotto della soglia di povertà.

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Page 134: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

reddito per quei soggetti disoccupati che non usufruiscono di ammortizzatori sociali oppure

si trovano in condizioni di povertà, nel quadro quindi della cosiddetta flexsecurity.

In questa sede premeva evidenziare le radicali potenzialità di progresso sociale che

contraddistinguono il reddito di cittadinanza: per una descrizione dettagliata dei capisaldi

filosofici, politici ed economici e delle modalità per attuarlo, rimandiamo alla lettura di

Reddito per tutti: un’utopia concreta per l’era globale (AAVV, Manifestolibri 2009), curato

da Basic Income Italia. Il problema fondamentale, ovvio cavallo di battaglia dei contestatori

del reddito di cittadinanza, è il denaro da cui attingere per l’erogazione: al riguardo, una

proposta interessante del Wuppertal Institute è di spostare la tassazione dal lavoro alle

risorse, destinando parte degli introiti di questa ‘fiscalità ecologica’ per servizi sociali come

il reddito di cittadinanza162.

Open source: l’economia della condivisione

Nell’immaginario collettivo, l’invenzione e la diffusione dell’informatica si devono ad

agenzie di ricerca pubbliche e a mega-corporation private, che avrebbero propagato a

livello di massa una tecnologia originariamente per pochi iniziati, un po’ come successo

per l’automobile o la televisione. Questo quadro è molto fuorviante perché, se esaminiamo

retrospettivamente la storia dell’informatica, ci accorgiamo che la grande industria molto

spesso ha commesso errori di valutazione enormi, riuscendo ad ovviare soltanto in

extremis a previsioni e strategie completamente sbagliate. Come testimonianza riportiamo

queste due famose ‘profezie’ di mercato:

"Penso che ci sia posto, sul mercato mondiale, per circa 5 computers". (Thomas J. Watson, Amministratore Delegato IBM, 1948).

"Che bisogno ha una persona di tenersi un computer in casa?". (Kenneth Olsen , fondatore della Digital Equipment, alla convention della World Future Society, 1977)

Bill Gates, osannato dai media di tutto il mondo quale precursore della tecnologia, capace

di anticipare i cambiamenti epocali della società - insomma, una specie di genio - fino al

1994 non intuì minimamente le potenzialità di Internet, che solo sul finire del 1995 divenne

ufficialmente una priorità della Microsoft. Come in tante altre occasioni, lo salvò la forza

del denaro: in ritardo per lo sviluppo di un browser originale, acquisì i diritti sul software

162Sachs e Morosini 2011, 245-246

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Spyglass, rinominandolo in fretta e furia Internet Explorer. L’ansia del ritardo fu tale da non

accorgersi che un’altra azienda aveva sviluppato un programma con il medesimo nome,

un fatto che è costato guai giudiziari a Gates e qualche milione di dollari di risarcimento.

La leggenda di Internet come progetto del Pentagono per assicurare il collegamento tra le

base militari in caso di guerra atomica è anch’essa abbastanza spuria. È vero che il

gruppo di ricerca era sovvenzionato dalla DARPA (Defense Advanced Research Projects

Agency), un’agenzia governativa, ma la priorità principale fu individuata nella condivisione

di informazioni e potenza di calcolo, in modo che più utenti da zone diverse potessero

usufruire delle risorse offerte dai pochi supercomputer presenti nelle maggiori università e

nei principali centri di ricerca: da qui nacque l’idea delle reti di computer. Quando diverse

reti locali hanno deciso di interagire tra di loro tramite un protocollo comune (quello http),

allora è nata Internet, che quindi nasce come aggregazione spontanea e non come

processo guidato dall’alto.

A Tim Berners-Lee, ricercatore del CERN di Ginevra, si deve l’invenzione della pagine

Web, create allo scopo di gestire con più efficienza e comodità le informazioni condivise di

quanto non avvenisse con l’email e lo scambio di file. L’abbinamento Web-Internet è stato

il connubio vincente per la diffusione capillare della Rete, anche tra persone totalmente a

digiuno di informatica e Berners-Lee ha volontariamente rinunciato a rivendicare brevetti

sulla sua invenzione - che con ogni probabilità lo avrebbero reso multimiliardario – per

non ostacolare la realizzazione del World Wide Web.

Il termine hacker in origine indicava persone come Berners-Lee e i visionari progettisti di

Internet, appassionati aperti alla condivisione e alla ricerca comune per lo sviluppo

dell’informatica come fine in sé stesso. Una volta che il settore è stato occupato in modo

massiccio dal grande capitale, che ha imposto la propria visione del lavoro e degli affari –

proprietà intellettuale, licenze d’uso, segreto industriale, ecc. – non a caso hacker ha finito

per contraddistinguere i criminali informatici, perdendo la sua valenza originaria. Del resto,

agli occhi delle corporation, sviluppare software senza autorizzazione anche senza scopo

di lucro è un vero e proprio crimine. Bill Gates è diventato una delle persone più ricche del

pianeta in gran parte perché, tradendo la sua originaria vocazione hacker, ha incominciato

ad applicare le logiche del business tradizionale all’informatica. E Steve Jobs e la sua

Apple, troppo spesso incensati come visione opposta di business, in realtà non sono stati

da meno163.

163Nel libro Contro Steve Jobs di il ricercatore e blogger bielorusso Evgeny Morozov ha fortemente demitizzato la figura del fondatore di Apple, segnalando i possibili risvolti negativi di alcune sue invenzioni e dimostrando come il suo successo sia legato più a oculate strategia di marketing che a innovatrici filosofie tecnologiche (e, aggiungeremmo, grazie a un sapiente sfruttamento della manodopera orientale).

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Page 136: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Steven Levy, nell’introduzione al libro Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica,

sostiene che i principi generali dell’etica hacker siano:

- socializzazione

- apertura

- decentralizzazione

- avvicinare le persone ai computer

- migliorare il mondo

Questi capisaldi sono stati fatti propri dal movimento per il software libero, il quale ha agito

anche sul piano legale ideando licenze come GNU-GPL che, permettendo il libero

accesso ai codici sorgente dei software (pratica da cui deriva il termine open source,

‘sorgente aperta’), consente alla comunità di sviluppatori di perfezionare costantemente i

programmi; un ruolo di primo piano in questo senso è stato ricoperto da Richard Stallman,

un ex ricercatore del MIT di Boston, che ha fondato nel 1985 la Free Software Foundation,

allo scopo di tutelare e promuovere il software libero. I frutti concreti di questo impegno

oggi sono prodotti diffusi ed efficienti come i sistemi operativi della linea Linux (nato da

un’idea dell’hacker finlandese Linus Torwalds), il browser Firefox, la suite da ufficio Open

Office, il programma di riproduzione audio/video VLC, che si sono dimostrati in grado di

competere senza problemi contro la concorrenza del grande business.

Il rapporto costo-benefici dei sistemi open source non-proprietari è ancora enormemente

sottovalutato: si stima che, se tutta la pubblica amministrazione italiana si convertisse

all’uso di software liberi, il risparmio sulle licenze d’uso sarebbe nell’ordine dei 2 miliardi di

euro.164 Aziende informatiche come la Asus hanno sviluppato una serie di notebook –

quindi veri e proprio computer portatili, da non confondere con i netbook, a funzionalità

limitata – equipaggiata con una sistemi operativi Linux, riuscendo a ridurre i prezzi di quasi

due terzi.

Mano a mano che l’informatica assumeva un ruolo rilevante all’interno della società e,

soprattutto, Internet esaltava la condivisione dell’informazione, lo spirito dell’etica hacker

ha cominciato a farsi strada anche al di là del mondo digitale, cercando di ridefinire alcune

pratiche consolidate ritenute ostacolo alla diffusione della cultura, in particolare quella del

diritto di copyright:

164Dato estratto dalla contro-finanziaria 2010 di Sbilanciamoci!

136

Page 137: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

In un quarto di secolo sono cambiate parecchie cose: è chiaro che ci siamo abituati alla privatizzazione di quella conoscenza e creatività che in realtà appartiene a tutti noi... Alcuni di questi argomenti sono radicati nei principi basilari del diritto d’autore stesso. La cosa evidente è che si tratta di un diritto di possesso. Di per sé non vi è nulla di male nel diritto alla proprietà, a condizione che sia integrato e limitato nell’ambito degli interessi di natura sociale, socio-economica, macro-economica, ecologica e culturale. Tali interessi devono lasciare sulle relazioni fra individui, rispetto a un bene o un valore, un’impronta forte almeno quanto quella del guadagno personale. Da un punto di vista culturale ci si può chiedere se sia giusto e necessario proteggere le creazioni degli artisti con la proprietà individuale. Per definizione nasce così un diritto d’uso esclusivo e monopolistico dell’opera e, di conseguenza, viene privatizzata una parte essenziale della nostra comunicazione, fatto che va a scapito della democrazia. È esagerato definire il diritto d’autore una forma di censura? In linea di massima, no. Innanzitutto bisogna tener presente che ogni opera artistica attinge in modo considerevole da quanto altri hanno realizzato in un passato più o meno recente. Si può attingere da un pubblico dominio quasi infinito ed è dunque strano concedere a volte per una sola aggiunta (sebbene degna di sconfinata ammirazione) un titolo di proprietà sull’intera l’opera. Il diritto che ne scaturisce ha conseguenze profonde: nessuno, infatti, ad eccezione del proprietario, è autorizzato a utilizzare o modificare come meglio crede l’opera in questione. Ciò significa che una parte tutt’altro che insignificante del materiale con cui noi, in quanto individui, possiamo comunicare rimane chiusa sotto chiave. In genere trarre ispirazione da un’opera esistente non è un problema; le difficoltà sorgono quando un elemento della nuova opera, anche se minimo, ricorda o potrebbe ricordare quella precedente.165

Concezioni come questa hanno portato alla nascita del copyleft e dei creative commons,

licenze dove viene consentita la copia dell’opera a patto di citarne la fonte.

Anche i famigerati software per il file-sharing, come E-Mule e Bit-Torrent, condannati dalle

multinazionali dell’informatica come pericolosi strumenti di pirateria digitale, in realtà si

limitano a sviluppare concretamente una cultura non capitalista dove viene valorizzata la

condivisione di un bene e non il suo possesso egoistico. La Legge 128 del 21 maggio

2004, meglio nota come Legge Urbani dal nome del ministro proponente - che punisce chi

inserisce nella Rete un file protetto da diritto d’autore, chi lo scarica e chi segnala la sua

presenza – scritta sotto dettatura della lobby dell’editoria e delle major discografiche e

cinematografiche, è una chiara dimostrazione della paura che queste pratiche non profit

possano alla lunga soppiantare quelle commerciali166.

Il limite degli hacker è stato forse quello di non comprendere appieno la portata che i loro

ideali possono assumere al di là dell’informatica, un nesso non sfuggito a Gorz:

165Smiers e Van Schijndel 2009,14-15166Da notare che questo provvedimento legislativo ha passato l’esame del Parlamento con i voti favorevoli di tutto il Centro-Destra - di cui all’epoca faceva parte anche l’UDC di Pier Ferdinando Casini, oltre a Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega Nord - ma con la significativa astensione dei DS e della Margherita, mentre hanno votato contro la Sinistra radicale e Italia dei valori.

137

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L’economia delle conoscenza ha dunque vocazione a essere un’economia della messa in comune e della gratuità, vale a dire il contrario di un’economia... Questo protocomunismo ha le sue figure emblematiche nell’informatica. Questa differisce dalla scienza per una specificità: essa è allo stesso tempo conoscenza, tecnica di produzione di conoscenza e mezzo di fabbricazione, di regolazione, di invenzione, di coordinazione. Nell’informatica è soppressa la divisione sociale tra quelli che producono e quelli che concepiscono i mezzi per produrre. I produttori non sono più dominati dal capitale attraverso i mezzi di lavoro... L’hacker è la figura emblematica di questa appropriazione/soppressione del lavoro. Con lui, le forze produttive umane, divenute soggetto, si ribellano alla loro cooptazione da parte del capitale, rivolgono le risorse dell’informatica contro di esso... Con lui appaiono nuove forme di comunicazione e di regolazione; un’ammirevole etica anarco-comunista, l’etica hacker, allo stesso tempo arte di vivere, pratica di altri rapporti individuali e sociali, ricerca di strade per uscire dal capitalismo e per liberare infine dalla sua presa i nostri modi di pensare, di sentire, di desiderare.167

Se anche gli altri lavoratori riuscissero a diventare hacker del loro campo, rivolgendo

contro il capitale i suoi stessi mezzi, allora l’uscita dal capitalismo sarebbe finalmente

compiuta.

Welfare comunitario

Proposte come decrescita, riduzione dell’orario di lavoro e reddito di cittadinanza possono

scontrarsi con un obiezione molto forte di stampo socialdemocratico: siccome queste

misure riducono considerevolmente il lavoro e il PIL, diminuiscono anche gli introiti fiscali

di cui lo Stato ha bisogno per mantenere servizi essenziali di welfare state come la sanità

e l’istruzione pubblica.

Francesco Gesualdi, allievo di Don Milani e coordinatore del Centro Nuovo Modello di

Sviluppo, ha ipotizzato una nuova concezione di assistenza, che chiameremo qui welfare

comunitario, che cerca di rispondere a queste osservazioni. I punti essenziali sono i

seguenti:

- istruire gli individui, sin dall’età scolare, a un minimo di educazione alla salute in modo da

saper risolvere autonomamente le situazioni meno gravi, che non richiederebbero

l’intervento di personale medico e che ciò nonostante oggi oberano l’attività del servizio

sanitario;

167Gorz 2009, 15-17

138

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- sviluppare rapporti comunitari, a livello di condominio, caseggiato e quartiere, per servizi

come la cura degli anziani o dei bambini che non richiedano assistenza specialistica;

- lavoro gratuito dei cittadini per sostituire o affiancare il concetto tradizionale di

tassazione. Il cittadino sosterrebbe economicamente il welfare non più con una

contribuzione in denaro, ma prestando lavoro a titolo gratuito in strutture statali: pubblica

amministrazione, sanità, polizia, ecc. Verrebbero istituzionalizzate pratiche come il servizio

civile obbligatorio, non solo come copertura di posti di lavoro ma anche per creare un

senso di solidarietà collettiva;

- parziale ripublicizzazione delle attività produttive necessarie per il funzionamento del

welfare e degli apparti dello Stato, allo scopo di renderlo indipendente dal mercato. Ad

esempio, le spese del servizio sanitario nazionale, per il 70% circa, sono destinate

all’acquisto di farmaci, cosa che non accadrebbe se esistessero laboratori e centri di

ricerca statali da cui attingere.

Il welfare comunitario non è solo una misura strumentale per applicarne altre, ma serve

come stimolo per costruire una società basata più sui beni relazionali e meno sul denaro e

il profitto:

In concreto ogni adulto potrebbe mettere a disposizione della comunità qualche giorno al mese, in cambio la comunità garantisce a ogni persona, dalla culla alla tomba, il diritto ad accedere gratis a tutti servizi pubblici.168

In una società dove il tempo da dedicare al lavoro è minore, l’assistenza alla propria

comunità diventa un dovere e agendo dall’interno il cittadino potrebbe anche comprendere

meglio quelle realtà istituzionali oggi frequentemente oggetto di critiche aprioristiche, come

la sanità e la pubblica amministrazione. Un cittadino informato che vivesse anche solo

temporaneamente in quelle istituzioni, rendendosi conto dei problemi che le attanagliano,

potrebbe anche proporre adeguate soluzioni in sede politica, mentre oggi categorie come

medici, insegnanti e forze dell’ordine si lamentano vanamente sia della cecità dei

legislatori sia della scarsa comprensione da parte dell’opinione pubblica.

L’idea di Gesualdi va perfezionata e approfondita, anche alla luce di alcune esperienze già

attive in Scandinavia e in paesi del Sud del mondo: si noti come ricalchi da vicino

l’economia della condivisione degli hacker, trasposta in campi totalmente diversi

dall’informatica. Ha il merito importantissimo di preservare la concezione dello Stato

168Gesualdi 2009, 50

139

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sociale ridandogli nuova linfa e vigore, anche rispetto a certe visioni un po’ romantiche di

fautori della decrescita che ne vorrebbero la soppressione per sostituirlo totalmente con

l’assistenza familiare e comunitaria.

140

Page 141: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

QUINTA PARTE

CAMBIARE LA SOCIETÀ: TRA IL DIRE E IL FARE...

“Un grammo di pratica è in genere più importante di una tonnellata di teoria”(Ernst Friedrich Schumacher)

Avere delle buone idee è facile, altra storia è metterle in pratica anche quando

apparentemente si gode di vasto consenso. I movimenti no global o altermondisti,

sviluppatisi sull’onda delle contestazioni contro summit del WTO tenutosi nel 1999 a

Seattle, hanno vissuto importanti momenti di gloria per poi sprofondare sostanzialmente

nell’anonimato. Il grande movimento contro la guerra che, dopo le pesanti contestazioni

successive all’intervento USA in Iraq, il New York Times definì addirittura ‘seconda

potenza mondiale’, ha dato scarsissimi segni di vita durante recente invasione della Libia e

c’è chi lo ha definito con scherno un esempio di ‘opposizione ideale a Sua Maestà’.

È difficile spiegare le ragioni di un successo così effimero: forse l’aver tradito lo slogan

‘pensare globalmente, agire localmente’ cercando di sfidare gli avversari sul loro stesso

terreno mondiale proponendo ‘un’altra globalizzazione’, forse l’eccessivo peso degli

occidentali su di un movimento dichiaratamente a favore del Sud del mondo, forse - è

l’idea di Latouche - l’aver riproposto in chiave ‘alternativa’ la mitologia logora del progresso

e dello sviluppo cavalcata dal neoliberismo. Come se non bastasse, la speranza di molti

militanti che le proposte altermondiste fossero cooptate dai partiti politici della Sinistra è

maturata in qualche candidatura elettorale di esponenti dei movimenti e nulla più.

Come va allora affrontato il progetto di una società sostenibile? Quali linee di azione

seguire? In una proposta di società basata sulla decrescita e sul decentramento politico,

economico ed energetico quale deve essere il ruolo dello Stato-Nazione? E, soprattutto,

quali soggetti dovrebbero sostenere tale cambiamenti? E in che modo e sotto quali forme?

141

Page 142: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Crisi della democrazia: partire da se stessi per riscoprire la comunità

Mentre scrivo, la fiducia verso i partiti politici è ai minimi storici e secondo gli istituti

demoscopici è molto probabile attendersi alle prossime elezioni un tasso di astensionismo

prossimo al 50%, come per altro sta già avvenendo in diversi paesi europei (al secondo

turno delle elezioni legislative francesi 2012 si è toccata la punta negativa del 56,29%). Il

politologo britannico Colin Crouch ha coniato il termine ‘postdemocrazia’, con cui indica un

sistema politico formalmente regolato da norme democratiche ma la cui applicazione è

progressivamente svuotata dalla prassi, dove il potere reale viene consegnato a ristrette

oligarchie prive di qualsiasi controllo sociale.

È incredibile come l’attuale situazione del vecchio continente somigli a quella già vissuta

da altri popoli in precedenti momenti storici. Ad esempio, l’economista cileno Manfred

Max-Neef sintetizzava così la crisi democratica sudamericana successiva alla seconda

guerra mondiale:

In America Latina, alle condizioni che hanno portato all’indipendenza e alla creazione di stati nazionali hanno fatto seguito processi di sviluppo promossi e controllati da oligarchie nazionali. Sul piano politico questi nuovi stati si presentavano come democrazie liberali, mentre su quello economico miravano a uno sviluppo capitalistico e all’integrazione in mercati esteri. Queste democrazie hanno escluso le masse popolari dalla vita politica, privandole di canali di partecipazione sociale e di accesso al potere politico169.

Oggi ci troviamo esattamente nella stessa identica situazione. La ricetta di Max-Neef per

superare l’oligarchia evitando la reazione populista consiste nell’affidare un ruolo da

protagonista alle micro-organizzazioni economiche locali, senza bypassare

necessariamente l’intervento statale ma evitando ogni forma di cooptazione da parte della

politica tradizionale: lo ‘sviluppo locale’ da lui proposto deve avere per base l’aspirazione

all’autonomia e all’autosufficienza delle singole comunità anche attraverso il

decentramento decisionale, in modo pragmatico e rifuggendo sia l’ideologismo delle

grandi organizzazioni politiche sia le ristrette pratiche della democrazia rappresentativa

liberale.

L’ economista inglese Raj Patel, fiero oppositore di Banca Mondiale e WTO e aperto

sostenitori di molti movimenti sociali del Nord e del Sud del mondo, definisce addirittura le

169Max-Neef, Elizalde, Hopenhayn 2011, 28-29

142

Page 143: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

elezioni il “sintomo più infettivo” della democrazia170 propendo invece per l’azione diretta

“che violi la proprietà privata in nome della giustizia globale” 171:

Ogni filosofia del cambiamento sociale ha una sua visione dell’ostilità. La filosofia di Gandhi non era, come alcuni l’hanno ricostruita, un grande padiglione di preghiere e incenso. Pur essendo non violenta prevedeva l’opposizione e il conflitto... La trasformazione dei dissidenti in criminali non avviene per magia: succede perché l’odierna società di mercato è fondata su di un’ideologia che non tollera chi mette in discussione il fragile consenso sul ruolo dei mercati172.

Il quadro conflittuale descritto da Patel non è affatto inedito per l’Occidente. Proviamo a

ripartire dalla sconfitta storica della Sinistra, che nella seconda sezione abbiamo delineato

come l’incapacità di riconoscere la grande trasformazione degli anni Settanta con la crisi

progressiva del welfare state e dello Stato-nazione. Eppure il ventennio 1960-80 è stato un

grande periodo di lotta, al punto che importanti istituzioni dell’establishment come la

Trilaterale parlarono di ‘crisi di governabilità’ a causa dell’emergere di un forte

antagonismo sociale:

Negli Stati Uniti la crisi aveva assunto sin dall’estate del 1964 forme quasi insurrezionali: moti del proletariato nero si propagavano da est a ovest, con saccheggi e incendi di interi quartieri delle grandi città – a Detroit la sollevazione era durata una settimana – e si erano prolungatati fino agli anni ’70 con le azioni di insubordinazione di massa e di sabotaggio nelle grandi fabbriche e nelle università. Con uno scarto di alcuni anni, il ‘dissenso’ aveva raggiunto, nel 1967, le università e i licei della Germania occidentale, poi si era esteso nei centri industriali del resto d’Europa e prolungato fino alla metà degli ani ’70 (in Italia fino al 1980) con azioni operaie che differivano fondamentalmente dagli scioperi abituali: rifiuto dei tempi di lavoro imposti; rifiuto di obbedire ai ‘capetti’; autoriduzione dei ritmi; occupazioni prolungate con sequestro dei padroni o dei dirigenti; rifiuto di delegare ai rappresentanti legali del personale il potere di negoziare; rifiuto di transigere sulle rivendicazioni sorte dalla base; rifiuto del lavoro, semplicemente...I movimenti sociali degli anni 1967-1974 si collocavano deliberatamente al di fuori del terreno definito dalle istituzioni della società-Stato. Invece di rivendicare, cercavano di cambiare essi stessi ‘la vita’, ciò che la condizionava e ciò di cui era fatta. Di cambiarla sottraendola alla logica della produttività, ma anche a quella del lavoro astratto, della standardizzazione, del consumo di massa, della normalità, della quantificazione, della sincronizzazione. Di cambiarla affermando la specificità di bisogni e desideri senza soddisfazione monetaria possibile173.

170Patel 2010, 187171 Ibidem, 182172Ibidem, 181173Gorz 1998, 17-18

143

Page 144: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Ispirandosi a questi movimenti che sembrano perduti in tempo lontani e irripetibili, come si

può pensare di ‘cambiare la vita’ oggi contro la dittatura economica? È possibile una tale

‘rivoluzione’?

Normalmente, sotto l’influenza del marxismo, intendiamo il termine ‘rivoluzione’ quasi

esclusivamente nel senso di insurrezione armata contro l’autorità statale, sul tipo della

Rivoluzione francese o di quella russa: nelle condizioni attuali, tutto ciò viene percepito

come un’utopia lontana e impossibile anche perché nel mondo transnazionalizzato è

difficile localizzare i veri centri del potere, la Bastiglia o il Palazzo d’inverno del terzo

millennio. Può essere utile invece esaminare come il concetto di ‘rivoluzione’ venga

declinato nella tradizione anarchica:

Cosa sarà allora la rivoluzione?... La maniera migliore di rendersene conto è smettere di pensare alla rivoluzione come a una cosa - ‘la rivoluzione’, il grande cataclisma, il punto di rottura – e chiedersi invece: “Che cos’è un’azione rivoluzionaria?”. Ecco la nostra risposta: un’azione rivoluzionaria è qualsiasi azione collettiva che affronti e respinga una qualche forma di dominio e di potere, e che nel frattempo, alla luce di questo processo, ricostituisca nuove relazioni sociali, anche all’interno della comunità. L’azione rivoluzionaria non si propone necessariamente di rovesciare i governi. Ad esempio, sarebbe un atto di per sé rivoluzionario il tentativo di creare delle comunità autonome nei confronti del potere (con le parole di Castoriadis, comunità che si autocostituiscono, decidendo collettivamente le proprie regole e i propri principi operativi e riesaminandoli costantemente)174.

Basandoci su questa definizione, il primo passo per una svolta significativa può consistere

nell’impegno individuale – l’egoismo di Macdonald - una ‘riconversione di se stessi’ più o

meno energica, basata sull’adozione di misure ispirate al risparmio energetico, al software

open source, all’applicazione degli stili di vita della decrescita o anche solo al cosiddetto

‘consumo critico’. Per interpretazioni più radicali si pensi al romanziere Simone Perotti, che

ha intrapreso il percorso del downshifting, ossia la volontaria e consapevole autoriduzione

del salario e delle ore di lavoro, descrivendola nei libri Adesso Basta e Avanti tutta. Lo

‘scollocamento’, ossia la scelta della semplicità volontaria per ritrovare la libertà personale

emancipandosi dalla dittatura frenetica dei cicli di produzione e consumo e dalla schiavitù

dell’occupazione, rappresenta forse l’affronto peggiore per il sistema economico

dominante, che può tollerare oppositori ma non boicottatori o obiettori – non è un caso che

la burocrazia statale spesso intervenga per limitare gli ambiti di autonomia e

autoproduzione accampando motivazioni di sicurezza, sanitarie o di tutela del lavoro.

174Graeber 2006, 47

144

Page 145: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

La somma dei singoli impegni personali diventa consapevolezza politica vera e propria nel

momento in cui le sensibilità e le preoccupazioni di più persone si traducono in un atto di

coscienza della comunità contro il potere dominante. In questa categoria rientrano

sicuramente le azioni a difesa del territorio contro lo sfruttamento economico, inizialmente

prerogativa delle popolazioni del Sud del mondo che si opponevano alla devastazione

ambientale e sociale dovuta alla modernizzazione, ma che oggi sono sempre più diffuse

anche in Occidente, come dimostra chiaramente il caso italiano. Nel 1962 la popolazione

di Gagliano Castelferrato (Enna) accoglieva come un eroe nazionale il presidente dell’ENI

Enrico Mattei, che prometteva di portare sviluppo e prosperità in Sicilia: cinquant’anni

dopo comitati cittadini agrigentini - memori dei disastri perpetrati dal colosso di Stato

nell’isola - lottano senza sosta per impedire l’apertura di un rigassificatore a Porto

Empedocle, malgrado la sua costruzione sia condivisa da Destra e Sinistra. Le

contestazioni contro TAV, MOSE, ponte sullo Stretto, ampliamento della base Dal Molin di

Vicenza, termovalorizzatori, discariche e centrali elettriche sono opera di cittadini non più

disposti a immolare il loro territorio – e la loro salute - per realizzare vuoti templi della

scienza e della tecnica, solo per le manie di grandezza (e ricchezza) di qualche

imprenditore o politico, senza rassegnarsi alla prospettiva di scontri con le forze di polizia

come testimoniano le cronache della Val di Susa. E non si possono più liquidare tali

opposizioni come manifestazione di sindrome NIMBY e attribuirle quindi all’egoismo,

perché le contestazioni cominciano a riguardare anche realtà come i centri commerciali,

normalmente considerate fonti di benessere che non producono gli stessi disagi delle

discariche o delle infrastrutture industriali.

La potenzialità di questi movimenti è enorme, anche se di solito la loro ‘coscienza

rivoluzionaria’ è molto bassa, nel senso che raramente si rendono conto di essere portatori

di valori che possono realmente destrutturare il sistema della mega-macchina: ne è riprova

io fatto che quasi mai questi movimenti creano coordinamenti comuni. Eppure sono la

rappresentazione più efficace della tattica lillipuziana di imbrigliare il ‘gigante’ affaristico-

politico’ e forse proprio per questa ragione sono oggetto di scherno e riprovazione da parte

dei politici - questi movimenti spesso riescono anche a condizionare le sezioni locali dei

partiti mettendoli in contrasto con le segreterie regionali e nazionali - nonché di infiltrazioni

da parte delle forze di polizia.

A un secondo livello troviamo l’associazionismo impegnato in svariate opere di

promozione sociale (in campo assistenziale, ambientale, economico) che spesso

supplisce in modo determinante alle carenze dell’intervento statale. Molte iniziative

145

Page 146: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

permettono di ricostruire un clima di cittadinanza e comunità che spezzi la cappa

dell’individualismo egoista del consumismo capitalista, attraverso la diffusione di pratiche

come i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS), i bilanci di giustizia, il consumo equo e solidale.

Secondo Marco Gesualdi, per quanto pieno vitalità e carico di proposte innovative, anche

il mondo dell’associazionismo rischia di incidere molto poco politicamente a causa della

sua divisione e della sua scarsa coscienza di essere portatore di ideali politici alternativi:

In Italia esiste un panorama di associazioni e movimenti sociali estremamente ricco che non però non riesce ad esprimere tutto il suo potenziale perché è troppo disgregato e ripiegato su stesso. All’interno di questo variegato mondo ognuno insegue il proprio progetto: commercio equo, diritto all’acqua, slow food, finanza etica, diritti degli immigrati. Progetti belli, importanti, ma pur sempre orticelli... Chi fa commercio equo non sente di avere molto da spartire con chi si occupa di ripubblicizzare l’acqua, chi si occupa di pace non si sente di avere molto da condividere con chi si occupa di sobrietà anche se le guerre si scatenano sempre di più per il controllo delle risorse.... Persa la capacità di fare movimento ci stiamo trasformando in gruppi professionalmente impeccabili, politicamente insignificanti. Moscerini, che a seconda dei calcoli di convenienza del potere, possono finire schiacciati al suo tacco o risucchiati nel suo grande ventre175.

Crouch sembra condividere il medesimo timore: una società dove sono fiorenti i gruppi di

pressione e lobby più o meno consolidate è indice di un forte liberalismo, ma non di una

altrettanto robusta democrazia176. Invece, se l’associazionismo evita pericolose deviazioni

verso quel tipo di umanitarismo apolitico caro alla Destra, la sussidiarietà – ossia il

principio per cui le istituzioni, nazionali o sovranazionali, debbano tendere a creare le

condizioni che permettono alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente

senza sostituirsi ad essi nello svolgimento delle loro attività - può diventare un elemento

importante di democratizzazione se inserito in una cornice non di privatizzazione del

settore pubblico ma di aspirazione neo-mutualista:

Il nome “terzo settore” è ormai pura copertura ideologica della lobby di un sistema di “imprese” che hanno i suoi attori principali nella Lega delle cooperative e nella Compagnia delle Opere. Il diritto sociale in questi casi si deforma in capacità di accesso del “cliente” al mercato sociale. Nei vuoti crescenti lasciati dal “mercato sociale” prende spazio l’assistenza selettiva, l’attività oblativa, l’intervento caritatevole del “capitalismo compassionevole”... Solo se costruisco ho diritto ad avere un sostegno a costruire, solo un operare sociale che realizza una valenza pubblica può richiamarsi al principio di sussidiarietà. Se si vuole affermare questa forma di socialità antistatalista occorre opporsi in modo netto all’uso strumentale,

175Gesualdi 2009, 70-71176Crouch 2003, 22

146

Page 147: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

improprio e abusivo del concetto di sussidiarietà come copertura di operazioni di esternalizzazione dall’alto di funzioni pubbliche, di appalti, sovente opachi, di sfere di intervento pubblico al cosiddetto privato-sociale. Non è un caso se accade che le iniziative di cittadinanza attiva solidale oggi si richiamino sovente all’esperienza storica del mutualismo. Il mutualismo riprende alcuni principi di fondo di grande attualità: il valore dell’autogestione, la capacità positiva di realizzare in basso e non solo rivendicare verso l’alto, il legame tra problemi degli ambiti di vita e l’esperienza di lavoro, infine l’affermazione del principio di solidarietà che si distingue sia dalle pratiche di oblazione dall’alto sia dalla pur lodevole virtù personale dell’altruismo.Non c’è conflittualità tra diritti sociali e mutualismo. L’apporto del mutuo soccorso nella fase aurorale dell’affermazione di diritti sociali è indubbio. All’intero della cerchia dell’associazione il vincolo di reciprocità statutariamente affermato faceva sì che il singolo lavoratore di fronte alle sventure della vita per la prima volta cessasse di cadere nella condizione del bisognoso che implora benevolenza verso l’alto, diventando invece un soggetto portatore del diritto al sostegno solidale dell’associazione. Forme di nuovo mutualismo non possono quindi essere viste come interventi di supplenza di diritti negati dalla crisi e dal restringimento del welfare ma come azione diretta positiva volta a rendere esigibili diritti elusi, a promuovere nuovi diritti e, soprattutto, tesa ad affermare un rapporto radicalmente mutato tra pubblica amministrazione e società che veda emergere il protagonismo dei soggetti, il loro potere di partecipazione solidale alle scelte e alle decisioni che riguardano le loro esistenze. La società contemporanea spezza legami sociali e costruisce di fatto e ideologicamente le derive individualistiche. Vengono oscurate e impedite le insopprimibili esigenze umane di sociabilità177.

Nel prossimo paragrafo esamineremo dimostrazioni concrete di questi auspici.

Pensiero e azione diretta: per un partito-movimento di base

I laboratori politici culturali alternativi, per quanto cerchino di sopperire alla mancanza di

visione d’insieme, sono ancora marginali. Troppo frequentemente si ripetono le vecchie

tendenze disgregatrici che hanno già visto protagonista la Sinistra, come successo

all’iniziativa Uniti e diversi, composta da alcune associazioni (tra cui Alternativa di Giulietto

Chiesa, Il Movimento della decrescita felice di Maurizio Pallante e Movimento Zero di

Massimo Fini) unite dal collante del rifiuto della logica della crescita infinita: la partnership

è durata meno di un anno per la differenza di vedute sulle strategie da seguire.

Esiste poi un problema ancora più grave, ossia la necessità di segnare profondamente la

società senza limitarsi a fenomeno d’élite della classe media in grado di organizzare

utilmente il suo tempo libero e di sfruttare in modo proficuo il Web178.

177 Pino Ferraris, Per un nuovo mutualismo: praticare l'obiettivo, www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Per-un-nuovo-mutualismo-praticare-l-obiettivo-12493 178Grazie a Internet si avvicinano alla discussione politica persone che, probabilmente, non se la sentirebbero di partecipare fisicamente in partiti e associazioni, quindi si può rendere concreto l’ideale democratico per cui ogni singola persona conta un voto, evitando l’insorgere di ristrette oligarchie. È altrettanto vero però che così si crea un fenomeno elitario, formato da ‘cittadini informati’ piccoli e medi borghesi che, per privilegio

147

Page 148: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

È triste riconoscere che i membri dell’establishment politico-economico, quando accusano

i loro contestatori di essere gruppi auto-organizzati sul Web composti per lo più da

borghesi, colpiscono abbastanza nel segno. Pur rifiutando il concetto tradizionale di lotta di

classe è innegabile che non ci si può limitare all’intellettualismo, alla scrittura di qualche

buon libro, all’aggiornamento di qualche valido sito Web o a qualche sparuta iniziativa

pubblica. Per incidere realmente bisogna offrire alla cittadinanza esempi concreti e

continuativi di impegno politico, sociale e civile. Può sembrare un’impresa titanica, in realtà

basta prendere spunto da alcuni precedenti storici e riadattarli alla realtà contemporanea,

che hanno valore esemplare perché i soggetti coinvolti all’epoca sopperivano con la

partecipazione attiva alle scarse risorse economiche. Vediamone alcuni particolarmente

celebri:

- nel 1870 a Tredegar, nel Galles del Sud, viene fondata la Tredegar Medical Society,

un’istituzione sanitaria finanziata dai lavoratori che si proponeva di assistere tutta la

popolazione locale, compresi coloro che non contribuivano economicamente. Il deputato

laburista Aneurin Bevan, proveniente dal collegio elettorale di Tredegar, utilizzerà poi

questa esperienza come modello per il servizio militare nazionale britannico (NHS)179;

- nel 1947 Don Zeno Saltini fonda Nomadelfia, definita come "una proposta" alternativa

agli standard delle società occidentali, dove viene adottato uno stile di vita simile

all'esperienza dei kibbutz o dei falansteri, dove non esiste proprietà privata, lavoro

retribuito ed è stata fondata una scuola gestita direttamente dalla comunità;

- nel 1954, dopo essere stato trasferito nel minuscolo paesino di Barbiana a causa di

screzi con la Curia di Firenze, Don Lorenzo Milani fonda una scuola ispirata a metodi

didattici innovativi che diventa ben presto un collettivo di contestazione del sistema

educativo italiano;

- alla fine degli anni Sessanta, negli USA il Partito delle Pantere Nere organizza un

programma di prime colazioni gratuite nei quartieri disagiati abitati in maggioranza da

persone di colore, con successo maggiore delle iniziative istituzionali180;

sociale, hanno la possibilità di trascorrere molto tempo al computer e sono dotati di strumenti informatici abbastanza efficienti e di connessioni sufficientemente rapide per non trasformare in un incubo la pratica della discussione in Rete. 179Tredegar rappresentava uno dei tanti esempi di Friendly Societies diffuse nel Regno Unito dalla seconda metà dell’Ottocento, gruppi locali di lavoratori in cerca di un sostegno comunitario per fronteggiare problemi di vita quotidiana come alloggio e salute, per garantire assicurazioni e prestiti, indennità per i lavoratori e per formare cooperative di consumo. Erano fenomeni ben noti a Lord Beveridge, il fondatore del welfare state britannico. 180Patel in Holtz-Gimenez 2011, 173

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Page 149: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

- nel Cile di Pinochet, laboratorio delle teorie neoliberiste di Friedman e dei Chicago boys,

si formano le organizaciones econòmicas populares, che assicurano mense per i poveri,

laboratori artigiani, cooperative di consumo e coltivazioni comuni181;

- nel 1976 in Bangladesh Muhammad Yunus fonda la Grameen Bank, allo scopo di

sostenere le famiglie duramente colpite dalla carestia del 1974. È la prima banca dei

poveri, che concede microprestiti alle popolazioni povere locali senza richiedere garanzie

collaterali e garantendo così il loro accesso al credito. Il ‘microcredito’, come viene

chiamata l’iniziativa, riscuote talmente successo contribuendo al miglioramento sociale

che alla banca e al suo fondatore verrà assegnato il premio Nobel per l’economia 2006182.

- nel 1977 un gruppo di donne keniote guidate da Waangari Maathai fonda il Green Belt

Movement, una rete comunitaria con lo scopo di piantare alberi per bloccare la

deforestazione e risanare l’ambiente; in una ventina di anni il movimento riuscirà a

reimpiantare più di una venti milioni di alberi e si segnalerà per la dura opposizione al

governo autoritario di Daniel Arap Moi;

- il 1 gennaio 1994 in Messico, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazional (EZLN),

formato prevalentemente da indigeni di etnia Maya, occupa alcuni municipi della regione

meridionale del Chiapas, in reazione all’entrata in vigore del NAFTA (North American Free

Trade Agreement), instaurando un governo autogestito basato sulla democrazia diretta e

partecipativa;

- In Argentina, paese che negli anni Settanta e Ottanta è stato fiore all’occhiello del Fondo

Monetario Internazionale, lo scoppio della grande crisi è avvenuto con ben 7 anni di

anticipo, nel dicembre 2001. I lavoratori delle fabbriche, per reagire alla chiusura degli

stabilimenti, li hanno occupati con il proposito di autogestirli ottenendo dal governo il

riconoscimento dell’operazione:

Il processo di recupero per le cooperative autogestite del primo modello segue tre fasi. La prima è quella del controllo dei mezzi di produzione per rimettere in marcia l'attività: si deve entrare in fabbrica e prenderne possesso evitando di essere denunciati e poi estromessi per violazione dei diritto di proprietà. La seconda è quella di sussistenza: si produce solo su richiesta concreta, ciò consente di ottenere i primi fondi e immagazzinare prodotti finiti. In questa fase i lavoratori realizzano la loro attività «a rischio» per poi distribuire utili che coprono appena i loro bisogni elementari. La terza fase è quella della sostenibilità. La cooperativa comincia a vendere i suoi prodotti sul mercato con maggiori margini di profitto, investe in

181Ginsborg 2004, 186182Dalla Grameen Bank sono derivate diverse altri iniziative, tra le quali la più interessante è Grameen Shakti, organizzazioni non profit sorta nel 1996 che ricorre al microcredito allo scopo di portare l’energia elettrica nei villaggi rurali attraverso la diffusione dei panelli fotovoltaici, istruendo principalmente le donne nella loro manutenzione. A oggi sono stati installati circa 550.000 sistemi solari domestici in 40.000 villaggi.

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Page 150: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

equipaggiamenti, espande la produzione. In una certa misura le fabbriche si trovano a coprire la domanda di una fetta di mercato che avevano lasciato insoddisfatta 183.

Questo genere di iniziative, chiamate ‘recupero delle fabbriche’, è stata una delle ragioni

principali dell’abbassamento della povertà tra il 2004 e il 2007 dal 45,6% al 26% e si è

diffusa con successo anche in Uruguay e Bolivia. Tali autogestioni nella maggioranza dei

casi hanno portato a una struttura decisionale orizzontale, eliminando le gerarchie e

uniformando i salari e le neocooperative molto spesso si sono associate in reti

commerciali e hanno realizzato sinergie con le comunità locali.

Le iniziative appena presentate sono passate alla storia e offrono spunti importanti di

riflessione. La riappropriazione del territorio, troppo spesso sentita come una problematica

di polizia causata da immigrazione e criminalità, può concepirsi come implementazione di

nuovi modelli di organizzazione economica al fine di combattere disoccupazione e

degrado: la creazione di cooperative di manutentori, di servizi alla persona e per il riciclo

dei rifiuti può essere una soluzione importante, perché si creerebbe un clima di mutua

assistenza all’interno delle comunità. Si potrebbero proporre progetti per il risparmio

energetico e la riconversione degli impianti tradizionali alle energie rinnovabili e alle

cogenerazione, sempre impiegando cooperative gestite da manodopera proveniente dai

quartieri più dismessi, magari sviluppando progetti in collaborazione con gli istituti

professionali e i centri di formazione, generalmente frequentati dagli strati più poveri della

popolazione e dagli immigrati. Pur vivendo in affitto o in un alloggio popolare, contribuire

all’ammodernamento e al restauro delle proprie abitazioni e delle infrastrutture del proprio

quartiere creerebbe un vero e proprio clima di comunità e attaccamento nei confronti di

una realtà che oggi viene spesso odiata in quanto simbolo di esclusione sociale, e per

questo oggetto di vandalismo e rabbiosa devastazione.

Un altro aspetto importante riguarda il riciclo dell’hardware informatico, di cui il mercato

rende sempre più rapida l’obsolescenza, al fine di compensare il digital divide tra le classi

meno abbienti e cercando di creare un accesso gratuito e universale a Internet. La

necessità di una controinformazione dal basso, fatta da chi veramente vive i problemi

dell’esclusione e del degrado, può portare alla ricostituzione di realtà digitali antagoniste

come lo sono state ECN-Isole nella Rete (un network che univa centri sociali, attivismo

politico e realtà hacker) o Tactical Media Crew, un progetto basato sull’idea di realizzare

183Tognonato Claudio, Un fabbrica diversa per l’America latina, Il Manifesto, 7 gennaio 2007

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un giornalismo alternativo sui temi bistrattati dai grandi media. Il fenomeno delle telestreet

degli anni Ottanta, emittenti televisive che trasmettevano un debole segnale via etere

rivolgendosi a poche centinaia di telespettatori di un territorio ristretto o sfruttando coni

d’ombra di altre stazioni televisive, oggi può conoscere una seconda giovinezza sotto

forma di Web-Tv. Alcuni programmatori hanno ideato software come il SOMA, basato su

piattaforma Linux, per la gestione da remoto del palinsesto televisivo, permettendo di

pianificare ed automatizzare tutto il palinsesto riducendo drasticamente i tempi di gestione

della messa in onda. Se pensiamo all’impatto delle radio libere negli anni Settanta, queste

nuove forme di comunicazione possono raccogliere un’audience molto più vasta e

diversificata, analogamente a quanto avviene negli Stati Uniti e nei paesi del Nord Europa

con le Tv comunitarie ad accesso pubblico (Open Channels), emittenti televisive non profit

con finalità sociali e culturali.

Organizzare forme di aggregazione e socialità, al di fuori dei circuiti commerciali

dominanti, sarà una priorità non inferiore alla riorganizzazione del lavoro, perché il futuro

della società dipende da come vengono plasmate le nuove generazioni: centri sociali

autogestiti possono fare moltissimo, organizzando attività culturali di rottura, incentivando

l’autoproduzione e promuovendo il dibattito politico.

Invece di limitarsi alla rivendicazione su diritti e su contratti, il lavoratore deve esprimersi

sulla organizzazione aziendale del lavoro: il destino occupazionale spesso è legato a

doppio filo a sprechi energetici, inefficienza produttiva o miopia nelle scelte economico-

aziendali, quindi è del tutto naturale far sentire la propria voce su tutti questi aspetti 184. Le

attività produttive in fase di dismissione devono diventare un nuovo terreno di lotta, senza

limitarsi a trattare con la proprietà per evitare la chiusura, ma sostenendo i lavoratori nel

proporre un piano di riconversione industriale gestito direttamente da loro, nonché

analizzando le inefficienze dell’azienda dovute a deficit infrastrutturali o a pessimi modelli

di management. Lavoratori coscienti delle inadeguatezze dell’impresa e capaci di proporre

alternative gestionali e produttive possono proporsi a pieno diritto per rilevare l’attività,

smettendo di essere semplici oggetto delle trattative tra sindacati e vertici aziendali.

Per diffondere il nuovo pensiero andranno organizzati convegni, iniziative su Internet ma

anche proposte editoriali divulgative a basso costo, che raggiungano fasce della

popolazione che resterebbero altrimenti estranee: non è immaginabile che, di punto in

bianco, persone di modesta preparazione culturale e poche inclini alla riflessione

intellettuale si cimentino nella lettura di opere troppo complesse. Un esempio da

184Basti pensare alla fabbrica di alluminio dell’Alcoa a Portosverme (Sardegna), la cui dismissione è avvenuta prevalentemente per gli eccessivi consumi energetici.

151

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ripercorrere potrebbe essere quella della collana dei Libri di base, proposta da Tullio De

Mauro all’interno del PCI alla fine degli anni Settanta. L’obiettivo era di

mettere insieme cultura scientifica e cultura umanistica, e anche medica, economica, statistica, coinvolgendo persone esterne, molto lontane, come Sabino Cassese Giorgio Ruffolo, Luigi Spaventa... Bisognava costringere gli autori a scrivere non più di 100 cartelle. Un quarto del libro doveva essere destinato alle illustrazioni, ai grafici, ai disegni. Il testo doveva essere rigidamente ancorato al massimo di leggibilità, rispettando quelle tecniche che in inglese si chiamano plain language e oggi preferiamo chiamare ‘scrittura controllata’. La frasi non dovevano oltrepassare le 25 parole e le parole dovevano aderire a quel vocabolario di base, che intanto stavo cercando di costruire, un vocabolario di circa 6-7000 parole di uso più frequente e più familiari. E le parole che eventualmente non fossero contenute nel vocabolario andavano spiegate nel contesto con le illustrazioni.185

Oggi Altreconomia e Terredimezzo propongono libretti tascabili dal costo inferiore ai 5

euro e mai superiori al centinaio di pagine, dedicati a temi dell’economia, dell’ambiente e

dell’informazione, scritti con un linguaggio semplice pensato per studenti delle scuole

superiori.

Educatori e insegnanti potrebbero proporre una pedagogia ispirata ai valori progressisti,

alla maniera di Gianni Rodari, in modo che fin dall’infanzia l’individuo apprenda

l’importanza della solidarietà, della conoscenza, del rispetto dell’ambiente e della lotta allo

spreco, prima che venga fagocitato dalla furia edonistica del consumismo e della

pubblicità.

Internet rimarrà il principale veicolo di informazione e diffusione, ma oltre al Web 2.0

andranno prese in considerazione tutte le forme che consentano di trasformare il computer

in una Web-TV, ricorrendo anche a tecnologie streaming audio-video, sempre allo scopo

di proporre forme di comunicazione che, essendo più simili a quelle del medium di massa,

siano fruibili da un pubblico non solo di élite. Non si può rimanere confinati in discussione

da salotti radical-chic o da caffé intellettuali brulicanti di studenti universitari improvvisatisi

rivoluzionari, altrimenti sarebbe meglio lasciar perdere tutto fin dal principio.

Tirando le somme, i nuovi soggetti politici – è meglio utilizzare il plurale – dovrebbero

rappresentare un ibrido tra un partito politico fortemente de-gerarchizzato e

l’associazionismo di base. Qualcuno potrebbe trovare delle analogie con la vecchia

struttura del PCI e delle sue realtà-satellite come CGIL, ARCI, Lega delle cooperative,

Editori Riuniti e altre ancora; in effetti quella che viene spesso chiamata ‘egemonia

185De Mauro 2010, 141-142

152

Page 153: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

culturale della Sinistra’ forse si doveva più a questi soggetti subalterni che al partito in se

stesso, che da quando si è progressivamente ‘emancipato’ da essi (fatta eccezione per la

mercificazione della cooperazione) si è rivelato sempre di più un guscio vuoto e

autoreferenziale. In mancanza di una struttura forte sul piano burocratico ed economico

qual era il PCI - che per altro non sarebbe auspicabile, viste le degenerazione a cui si è

prestato - il nuovo modello dovrebbe assumere un assetto federativo dando dei punti di

riferimento per i militanti ma limitando il più possibile le gerarchie. I militanti per un’incisiva

azione politica dovrebbero:

- prima di tutto studiare, informarsi e analizzare la situazione politico-economica locale,

nazionale e mondiale;

- impegnarsi nella difesa attiva del territorio e del lavoro, proponendo alternative concrete

ai piani di sviluppo e modernizzazione del potere ufficiale: contro-manovre economiche,

contro-piani urbanistici e ambientali, contro-piani industriali. Il caso più emblematico in

Italia è quello dell’associazione Sbilanciamoci!, che ogni anno addirittura redige una

contro-manovra finanziaria alternativa a quella del governo;

- mettere in pratica azioni dirette come quelle appena descritte;

- presentare delle liste civiche nelle elezioni politiche locali, ed eventualmente in quelle

nazionali, riflettendo sull’opportunità di formare delle correnti di opinione all’interno di

determinati partiti, sindacati e organizzazioni di categoria.

Ovviamente per avere successo tale programma, per quanto pienamente compatibile con

la prassi della democrazia liberale e il rispetto della legalità, richiede un consistente ricorso

a forme di disobbedienza civile. L’opzione preferenziale è ricercare la collaborazione delle

autorità, in caso contrario bisogna ricorrere a tutte quelle forme di violazione della legalità

compatibili con la democrazia, come boicottaggi, picchettaggi e occupazioni, oppure

bisogna intraprendere ugualmente attività a sfondo economico e sociale anche senza le

autorizzazioni preventive, radicandole fino a costringere l’istituzione a riconoscerne

l’esistenza e a legittimarle186. Nulla di nuovo sotto al sole, per altro: nella storia, il

passaggio dall’aristocrazia al liberalismo e il successivo allargamento dei diritti democratici

non è avvenuto solo tenendo dibattiti e aderendo diligentemente alle legislazioni in vigore,

ma attraverso battaglie anche molto dure.

186 Prendendo spunto dall’esperienza del movimento no global, sarà bene dotarsi di un valido pool di avvocati militanti allo scopo di intraprendere le misure legali necessarie.

153

Page 154: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

La disobbedienza civile ha un suo valore a prescindere ma oggi, dove i partiti politici

assomigliano sempre di più a oligarchie chiuse e le persone subiscono sulla loro pelle

decisioni presi da organismi extra-nazionali (UE, BCE, FMI, Banca Mondiale, ecc.) al di

fuori di qualsiasi giurisdizione democratica, è forse l’unico modo per salvare la società

dall’autoritarismo. In Italia abbiamo il vantaggio non indifferente di poter contare

sull’appoggio di quella che dovrebbe essere la legge fondamentale dello Stato, ossia la

Costituzione repubblicana. Nata dalle battaglie della Resistenza anti-fascista, essa

rappresenta la sintesi culturale del pensiero del cattolicesimo democratico, del socialismo

e dell’azionismo e oggi il suo messaggio suona quasi come eversivo, in quanto fortemente

anti-liberista e basato sulla subordinazione della libera impresa e della proprietà privata a

fini sociali187; per questo è ritenuta oggi tanto obsoleta dai poteri forti che controllano il

paese.

Ecco alcuni degli articoli più significativi, che costituiscono le basi per un programma

politico che esige di essere realizzato anche in supplenza dello Stato188 e che ci parlano di

una nazione che non ha nulla a che vedere con l’Italia attuale:

Art. 1 L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 4 La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo

187Ne consegue che Beppe Grillo prende delle grandissime cantonate quando sul suo blog se ne esce con affermazioni come: “Questa Costituzione garantisce i partiti ed esclude i cittadini”, “i partiti hanno scritto la Costituzione come un abito su misura” e che quindi “va cambiata al più presto”, solo per le limitazioni alle iniziative referendarie e alle leggi di iniziativa popolare. 188Si noti che la Costituzione distingue il concetto di ‘repubblica’, che include tutto il corpo sociale, da quello di ‘Stato’ che comprende solo le istituzioni.

154

Page 155: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Art. 5La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.

Art. 8Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.

Art. 9La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Art. 11 L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Art. 32. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Art. 33.L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.

Art. 34.La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Art. 35. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori.

Art. 36.Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Art. 37.La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.

155

Page 156: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

Art. 38.Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale.I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.L'assistenza privata è libera.

Art. 41.L'iniziativa economica privata è libera.Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali189.

Art. 42.La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.

Art. 44.Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane.

Art. 45. La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata.La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.

189È noto che il mondo imprenditoriale e la Destra (era un cavallo di battaglia di Tremonti) vorrebbero cancellare questo articolo trasformandolo in una formulazione del tipo: “tutto ciò che non è espressamente vietato è lecito”. Ciò avviene perché, se l’art.41 fosse realmente applicato, non sarebbero possibili le delocalizzazioni produttive e i ricatti aziendali in stile Marchionne. Le critiche intorno a questo dettato costituzionale sono state fatte proprie dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in una lettera aperta pubblicata sulla rivista on line Reset (www.reset.it/focus/127/284 ).

156

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La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato.

Art. 46. Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.

Art. 47.La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito.Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

Art. 53. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

Non è fuori luogo ricordare che, su proposta di Giuseppe Dossetti, l’Assemblea

Costituente aveva introdotto esplicitamente il ‘diritto di resistenza’ – che si ritrova in altre

carte costituzionali – sotto questa forma: “La resistenza, individuale e collettiva agli atti dei

pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente

Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino”; tale comma è stato poi ritirato per

l’opposizione di democristiani, liberali e repubblicani, anche se rendeva al meglio lo spirito

che anima la Costituzione.

Imparando dal passato, non va ripetuto l’errore di una parte del movimento no global,

costituito soprattutto dalle maggiori ONG, che ha avuto la colpa di sostenere discussioni

infinite con i fautori della globalizzazione, ricorrendo ad argomentazioni di tipo soprattutto

etico-morale, nel vano tentativo di persuadere gente convinta di avere la verità in tasca.

Le istituzioni confondo spesso il ‘dialogo’ con la ‘spiegazione’. Dal momento che non possono concepire di essere in errore o in torto, daranno per scontato che se siete in disaccordo con le loro posizioni è questione di malafede o di difetto nella comunicazione: il problema è solo che non si sono spiegati con sufficiente chiarezza190.

Morale della favola: agli occhi del pubblico i no global hanno finito per apparire come dei

tediosi grilli parlanti, mentre le loro controparti istituzionali facevano la figura dei tolleranti

democratici liberali, che accettavano il confronto di idee ben diversamente dai manifestanti

190George 2005, 181-182

157

Page 158: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

fanatici. Al riguardo, vengono in mente le ore e ore passate prima del G8 di Genova 2001

a intavolare discussioni con il ministro degli esteri Renato Ruggiero, persona sicuramente

molto più rispettabile dei suoi colleghi di governo (dal quale infatti sarà poi costretto a

dimettersi), senza però ottenere nulla se non di accreditare il governo Berlusconi come

aperto al dialogo e alla pluralità di opinioni. Nonostante ciò, molte ONG premono per

ottenere una funzione consultiva nelle istituzioni economiche internazionali191. Siccome gli

avversari ricorreranno al solito metodo di presentare i propri interlocutori come ‘anime

belle’, ‘sognatori’ – al momento opportuno però capaci di trasformarsi in pericolosi

‘terroristi’ - o altre amenità, la dialettica deve puntare a smontare le loro argomentazioni in

modo preciso e documentato, ribaltando le accuse di ingenuità e sottolineando la follia di

politiche pensate senza alcun rispetto dell’abc delle scienze naturali, senza paura di

denunciare tutte le contraddizioni della società della crescita basata sull’abbaglio della

ricchezza materiale e sulla leva della speculazione finanziaria.

Pur trattandosi di una realtà reticolare composta da una pluralità di soggetti, sarebbe

importante trovare una denominazione comune per richiamare nel pubblico l’adesione a

valori condivisi, come avviene con i movimenti definiti ‘Indignati’ o che utilizzano la parola

‘Occupy’ in riferimento all’iniziativa Occupy Wall Street. Come ha ben spiegato Paul

Hawken, le organizzazioni e le associazioni che rivendicano sostenibilità ecologica e

giustizia sociale sono la più potente forza rivoluzionaria del tempo ma la gente fatica ad

accorgersene soprattutto perché manca un nome – un brand, per usare un termine del

marketing – con cui definire globalmente il loro ambito di azione.

Un atteggiamento pragmatico: superare gradualmente lo Stato in favore dei beni comuni

Prima di vaneggiare a proposito di massimi sistemi sul ruolo e la valenza dello Stato,

riprendendo dibattiti Otto-Noventeschi, è bene chiarire un punto importante: è rimasto

molto poco tempo per evitare che la crisi economica, sociale e ambientale si aggravi a

livelli insostenibili. Parliamo di un orizzonte temporale di non più di dieci-quindici anni,

quindi non resta alternativa che assumere un atteggiamento pragmatico senza scadere

nell’idealismo eccessivo192. Tuttavia, non si può eludere il problema sul futuro delle

istituzioni politiche e sulla loro validità.

191 Nel Rapporto Lugano si vede con favore questa forma di collaborazione, perché “ha una capacità provata di rendere le ONG molto più ‘costruttive’ e ‘responsabili’, vale a dire meno radicali, polemiche e indisciplinate”. 192Non c’è nessun contrasto con l’irrealismo di Macdonald, perché non si tratta di accettare qualcosa di antitetico ai propri ideali allo scopo di trarne del profitto, ma di riconoscere la modalità migliore per metterli in pratica.

158

Page 159: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

All’interno dei movimenti per la decrescita, c’è chi ritiene che a un arretramento del

mercato debba seguire parallelamente anche quella dello Stato (ad esempio Maurizio

Pallante e il Movimento per la Decrescita felice) e chi sostiene invece che lo Stato debba

coordinare questa transizione (come il gruppo di Alternativa). Sono entrambe posizioni

rispettabili che poggiano su valide argomentazioni.

Storicamente, il welfare state è stato possibile grazie all’economia della crescita e alla

sostituzione di vincoli sociali comunitari con pratiche istituzionalizzate statali; una

contrazione dell’economia ridurrebbe anche le entrate dello Stato e quindi la sua capacità

di azione. A differenza delle amministrazioni locali, lo Stato centrale non solo è meno

influenzabile dall’opinione pubblica ma deve rispondere direttamente a istituzioni

sovranazionali e alleanze internazionali che ostacolano misure radicali come quelle

necessarie per le politiche decresciste. È anche difficile immaginare una classe politica

nazionale – la famigerata ‘casta’, per intenderci – che già fatica a ridurre i propri

scandalosi privilegi, decidere di ridurre al minimo anche le proprie prerogative politiche a

favore del localismo e dell’azione diretta dei cittadini.

Parimenti, in che modo si potrebbe attuare un programma politico come quello descritto da

Latouche senza occupare posizioni di governo? Ad esempio, come ridurre l’orario di

lavoro, istituire un reddito minimo di cittadinanza o penalizzare la pubblicità? In generale, è

possibile immaginare che la rete delle comunità locali riesca ad attuare autonomamente la

decrescita e il decentramento sottraendo il potere allo Stato centrale e rendendo vano il

suo operato? Sembra come minimo una prospettiva molto utopica, anche se non

impossibile.

Ma cosa accadrebbe se per qualche ragione lo Stato cessasse improvvisamente di

funzionare? Con tutti i suoi difetti, il welfare state assicura quasi gratuitamente a migliaia di

persone protezione dalla miseria, assistenza sanitaria e istruzione. Un welfare comunitario

può sicuramente offrire da subito dei servizi migliori, ma certe prestazioni – ad esempio

previdenza e cure sanitarie ad alto livello tecnologico – al momento non sono alla sua

portata e molto probabilmente non lo saranno mai. E in una nazione come l’Italia,

l’assenza dello Stato in molte aree del paese spalancherebbe le porte a forme di dominio

ben più crudeli, come le organizzazioni mafiose.

Anche gli anarchici più incalliti devono riconoscere che l’ulteriore indebolimento dello

Stato-Nazione, se non addirittura la sua sparizione, rappresenterebbe la manna dal cielo

per la finanza mondiale e le imprese transnazionali che da decenni lottano contro le sue

prerogative e consentirebbe alle tirannie private la colonizzazione immediata di ogni

159

Page 160: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

spazio pubblico che lo Stato, volente o nolente, ancora protegge dalla mercificazione. Solo

dei ‘rivoluzionari’ benestanti imbevuti di ideologismo possono assumere atteggiamenti

improntati al ‘tanto peggio, tanto meglio’, come fa Toni Negri193 e brindare allo sfacelo dello

Stato-Nazione.

Per comprenderci, può essere utile immaginare lo Stato come un’enorme diga logora,

obsoleta, piena di falle anche perché gestita da un personale che invece di curarne la

manutenzione opera sabotaggi sistematici allo scopo di farla definitivamente crollare: se

ciò accadesse, non ci sarebbe più alcun argine al dilagare dello tsunami tecnocratico-

finanziario. In questa situazione, per chi vive al riparo della diga non sembra sensato

contribuire alla sua distruzione per poi gioirne mentre si viene inghiottiti dalle acque. È

molto meglio cercare di tamponare le falle, aspettare che le acque si calmino e nel

frattempo elaborare strategia alternative.

Ne consegue che gli interventi per tappare le falle non sono pensati allo scopo di

preservare lo Stato-diga, bensì chi vive al di là da esso – cioè noi stessi. È l’opinione che

ha espresso anche una delle massime personalità dell’anarchismo contemporaneo, il

linguista statunitense Noam Chomsky:

L’ideale anarchico, qualunque sia la sua forma, ha sempre aspirato, per definizione, verso uno smantellamento del potere statale. Io condivido questo ideale. Eppure, esso entra spesso in conflitto diretto con i miei obiettivi immediati, che sono di difendere, ossia rinforzare certi aspetti dell’autorità dello Stato. Oggi, nel quadro della nostra società, credo che la strategia degli anarchici sinceri debba essere di difendere certe istituzioni dello Stato contro gli assalti che subiscono, pur sforzandosi di costringerle ad aprirsi a una partecipazione popolare più ampia ed effettiva. Questa pratica non è minata dall’interno da una contraddizione evidente tra strategia e ideale; essa procede naturalmente da una gerarchizzazione pratica degli ideali e da una valutazione, del tutto pratica, dei mezzi di azione.

Gli italiani che il 12-13 giugno 2011 hanno votato contro la privatizzazione dell’acqua e

l’energia nucleare hanno leggermente smorzato l’intensità dello tsunami non certo per fare

un piacere ai padroni della diga, che non hanno sicuramente apprezzato l’esito

referendario, ma per se stessi, il proprio territorio e le generazione future.

193Non troppo paradossalmente, le teorie di Negri hanno ricevuto l’approvazione di personalità del tutto estranee all’estrema Sinistra. Frances Fukuyama, profeta del neoliberismo, ha dedicato una lunga e benevola recensione a Impero, mentre Francesco Cossiga ha dichiarato: “Hanno scritto che è la teoria degli antiglobal, ma non è vero. Intanto Negri riconosce alla globalizzazione dei meriti, soprattutto quello di aver portato al superamento degli Stati nazionali. E poi, a differenza degli antiglobal, Negri non crede che gli Stati Uniti siano il centro dell'impero, e nel suo testo non c´è traccia di pauperismo”.

160

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Gradualmente andrà superato il vecchio statalismo socialdemocratico con il concetto di

‘bene comune’ sostenuto dai nuovi movimenti sociali:

La sensibilità ecologica e sociale della popolazione ha portato a rivalutare l’idea della gestione pubblica di quei beni e servizi comuni necessari ad una vita dignitosa di ciascuno individuo e delle comunità locali. Ma, attenzione. I movimenti referendari non sembrano avere alcuna nostalgia per carrozzoni clientelari tipo ex municipalizzate. Al contrario si fanno interpreti di una crescente sensibilità civica, di una grande voglia di prendersi cura direttamente di ciò che appartiene ai cittadini semplicemente come abitanti di questa Terra: beni naturali come l’acqua, l’aria, i boschi e i parchi, il paesaggio e beni che ci ha lasciato in eredità chi è vissuto prima di noi: i beni storici e culturali, le infrastrutture, i servizi alle persone. Si chiama ‘pubblico partecipato’ e si riferisce a processi decisionali, gestionali e di controllo attraverso cui tutti i cittadini vengono messi nelle condizioni di partecipare alle decisioni. Oltre e meglio la delega agli apparati tecnico-burocratici, spesso mal indirizzati dalle rappresentanze politiche. Nuove esperienze stanno sorgendo dal basso.194.

Come ha ben spiegato il prof. Ugo Mattei (docente di diritto civile all’università di Torino), i

beni comuni rappresentano il manifestarsi di una concezione radicata nella società pre-

moderna, prima che lo Stato-nazione riuscisse a imporre violentemente la propria

egemonia attraverso fenomeni come quello dell’enclosures di cui si è accennato nella

seconda sezione. Prima dell’accentramento dei poteri nelle mani dello Stato centrale,

processo iniziato a partire dal XV secolo, le comunità erano un soggetto di diritto

riconosciuto al pari dello Stato e del privato: le pratiche come i commons o ‘usi civici’ (uso

comune di terre, boschi e fonti d’acqua, le cosiddette ‘forme di consumo relazionale’)

erano la norma in una società basata sulla sussistenza dove l’esistenza del singolo

individuo era basata sul suo ruolo di cooperazione sociale. Oggi di fronte al dramma

ecologico provocato dalla monetarizzazione di ogni singolo aspetto della Natura (chiara

degenerazione del pensiero individualistico liberale) e all’emergere di soggetti

transnazionali – le corporation - svincolate da qualsiasi autorità dello Stato e anzi capaci di

influenzarne pesantemente la condotta politica, le pratiche neo-comunitarie stanno

conoscendo una seconda giovinezza. Ciò si accompagna inevitabilmente a una

ridefinizione del concetto stesso di ‘politica’ e delle forme in cui viene praticata:

Il movimento per i beni comuni non può che essere un movimento per un’autentica declinazione dell’idea stessa di cittadinanza, fatta di partecipazione attiva e non di

194Paolo Cacciari, “La rivoluzione politica dei beni comuni” a Napoli, Carta 27 luglio 2011

161

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mera scelta passiva fra i partiti politici offerti sul mercato della politica, alle scadenze elettorali, nel puro interesse dell’offerta stessa195.

Ciò corrisponde allo spirito dell’azione diretta proposto in questa sede, che mira a

superare tanto la gestione autoritaria-centralizzata statale quanto la privatizzazione in

favore di un impegno diretto della cittadinanza. Lo storico austriaco e militante di ATTAC

Christian Felber nel libro L’economia del bene comune ha avuto il grande merito di

tradurre ideali nobili ma apparentemente utopici (strutture orizzontali, democrazia

partecipativa, ecc.) in una proposta concreta. Felber ha teorizzato una divisione dei poteri

ulteriore a quella liberale – in contrasto con tutte le proposte di riforma costituzionale ‘neo-

assolutiste’ ispirate al presidenzialismo e al rafforzamento del ruolo dell’esecutivo – dove

alla tradizionale democrazia rappresentativa si aggiungono la democrazia diretta

(referendum propositivi e abrogativi, iniziative di legge popolare con carattere vincolante) e

la democrazia partecipativa (bilancio partecipativo, communalia democratiche196) e dove il

potere costituente (cioè la sovranità, che in democrazia dovrebbe appartenere al popolo)

viene diviso dal potere costituito (parlamento e governo). Secondo lo studioso austriaco lo

strumento principe in mano alla popolazione per influenzare attivamente i meccanismi

legislativi sarebbe la convenzione, ossia un’assemblea eletta dal popolo al fine di

riscrivere le regole costituzionali. Felber sembra dare per scontato che questo tipo di

procedure andrebbe concordato con il potere, ma si può anche immaginare una situazione

in cui vasti settori del mondo sindacale, dell’associazionismo politicamente impegnato e

dei movimenti sociali decidano di attuarle in piena autonomia riappropriandosi in qualche

modo dello strumento del voto: malgrado il carattere non ufficiale delle consultazioni, in

caso di una vasta adesione sarebbe difficile per la politica eludere le nuove istanze e

quindi sarebbe necessario almeno un parziale riconoscimento.

In ogni caso, qualunque ipotesi di costruire una società basata sulla destrutturazione della

mega-macchina non può prescindere da una logica di frammentazione e delocalizzazione

del potere, evitando qualsiasi tentazione di soluzione ‘forte’ basata sulla leadership

centralista se non addirittura sull’autoritarismo. Purtroppo lo sconforto per l’immobilismo

politico ha portato anche molti intellettuali di grandissimo spessore a covare idee del

genere; ecco quanto ha dichiarato in un’intervista Latouche:

195Mattei 2011, 81-82196Le communalia democratiche sono una nuova forma di azienda pubblica, dove nel consiglio di amministrazione siedono rappresentanti di amministrazione pubblica, lavoratori e utenti. Un esempio già esistente è la società energetica californiana SMUD.

162

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Prima immaginavo un'organizzazione piramidale con alla base piccole democrazie locali e delegati al livello superiore.. Oggi penso che la democrazia sia un'utopia che ha senso come direzione. Ma la cosa importante è che il potere, quale che sia, porti avanti una politica che corrisponde al bene comune, alla volontà popolare, anche se si tratta di una dittatura o di un dispotismo illuminato197.

Se già è difficile concepire una democrazia liberale e rappresentativa davvero interessata

al bene comune, sicuramente non esiste dispotismo ‘illuminato’ – quello settecentesco di

fatto cercò di sfruttare alcune idee illuministe allo scopo di rafforzare il ruolo del sovrano e

dello Stato centrale contro l’ingerenza di nobiltà e Chiesa – che possa esserlo. Oggi le due

nazioni più nocive per il riscaldamento globale del pianeta sono gli USA, ossia quella

probabilmente più liberale al mondo – non la più democratica – e la Cina, retta da una

ferrea dittatura, ma entrambe hanno collaborato fraternamente perché le conferenze

internazionali sul clima non giungessero a nulla di concreto, ed entrambe sono nazioni

accomunate da un potere centrale forte e restio alle influenze della popolazione.

Decisioni imprescindibili

La vittoria clamorosa e inaspettata dei referendum del giugno 2011, sostenuti per lo più da

comitati civici senza il sostegno dei grandi partiti, ha riaperto il dibattito sull’opportunità di

realizzare liste civiche nazionali capaci di portare avanti un programma basato sulle

tematiche ignorate dalla casta politica ma condivise da più della metà del popolo italiano.

Qualcuno ha ricordato come in Sudamerica, in Venezuela, Bolivia, Equador, i movimenti

sociali siano riusciti a portare al governo entità politiche invise ai poteri forti internazionali e

al grande capitale, prendendo subito provvedimenti che ne hanno inasprito l’antipatia ma

senza subire contraccolpi politici-limitari, evitando così il destinato capitato nel 1973 al Cile

di Allende.

Pur essendoci validi motivi di speranza, bisogna anche essere consapevoli dei limiti. Un

conto è proporre la candidatura di una lista indipendente che ottenga i voti necessari

all’ingresso in Parlamento – come capiterà probabilmente al Movimento 5Stelle di Grillo –

un altro è ottenere un consenso tale da arrivare al governo della nazione, ossia la

maggioranza assoluta dei consensi; il programma radicale e innovativo precluderebbe

qualsiasi tipo di alleanza politica e l’esperienza della Sinistra dimostra fuori da ogni dubbio

197 http://www.lettera43.it/economia/macro/italia-serve-la-bancarotta_4367557970.htm

163

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che è deleterio sostenere politiche di ‘desistenza’ o peggio ancora di collaborazione con il

ceto politico attuale. In ogni caso esistono problematiche non eludibili che possono essere

affrontate esclusivamente dal governo e dal parlamento nazionale, sui quali bisognerà

esercitare ogni sorta di influenza possibile. Le più urgenti al momento sono quattro:

- debito pubblico: gran parte del cosiddetto ‘debito sovrano’ è stato contratto con banche e

loro diramazioni (come i cosiddetti ‘investitori istituzionali’) che sono ricorse a strumenti

finanziari truffaldini quali i derivati. Chi ha fatto di tutto per provocare la crisi non può

beneficiare dei suoi effetti, per tale ragione è necessario al più presto un audit del debito

pubblico al fine di comprendere quali quote sono legittime e quali no;

- permanenza nell’Euro e rapporti con l'Unione Europea: la valuta europea, così come è

concepita, rappresenta una camicia di forza che sta strangolando le società dei paesi

PIIGS, una situazione ulteriormente aggravata dalla ratifica del Fiscal Compact e dal

Meccanismo Europeo di Stabilità (MES);

- riforma del sistema bancario: va assolutamente posto un limite allo strapotere bancario. I

provvedimenti variano dai più blandi, come la separazione fra banche commerciali e

banche di investimento, l’aumento della riserva frazionaria, il divieto di operare nei paradisi

fiscali, a quelli più radicali come la riforma della banca centrale e la nazionalizzazione del

sistema bancario (come accaduto in Islanda) e la revisione completa del sistema di

signoraggio;

- presenza dell’Italia nella NATO e nelle missioni militari all’estero: il recente conflitto in

Libia è il segnale che la potenza militare dell’Alleanza Atlantica sarà dispiegata nei futuri

focolai di crisi, come Iran e Siria. L’Italia, coerentemente al dettato costituzionale che rifiuta

la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali, non può

assolutamente partecipare a iniziative belliche che rischiano di innescare conflitti di portata

ancora più vasta e devastante.

Sono tematiche talmente impegnative che può sembrare impossibile intervenire dal basso,

ma non bisogna disperare. Ricordiamoci che, costretto dalla pressione popolare, nel 1993

il parlamento più inquisito della storia repubblicana abolì l’immunità di deputati e senatori

nei confronti dell’azione penale, ossia il privilegio più apprezzato dalla casta politica.

Esistono quindi ampi margini di azione che vanno assolutamente sfruttati.

164

Page 165: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

La doppiezza della Nuova Destra e il caso ungherese

L’opinione prevalente sull’avanzata neo-fascista e xenofoba in Europa è che si tratti della

reazione allo sradicamento culturale, politico ed economico provocato dalla

globalizzazione, un tentativo di ergere i valori ‘solidi’ del nazionalismo e dell’integralismo

religioso a barricata contro la ‘liquefazione’ della società; una sorta di movimento no global

di estrema Destra quindi, che rivendica la prevalenza del locale sul globale e la riscoperta

della specificità etnica e culturale in opposizione al neoliberismo imperante. Un quadro

non irragionevole ma è forte il sospetto che, dietro la cortina di fumo ideologica, il grande

capitale globale abbia spesso tratto vantaggio da queste visioni reazionarie, specialmente

se molte rivendicazioni etnico-indipendentiste hanno portato alla dissoluzione di Stati

grandi e potenti, come è successo per la Jugoslavia e l’ex-URSS, lasciando spazio a tante

piccole nazioni deboli e più facilmente manipolabili da parte delle corporation nonché delle

mafie internazionali.

Bauman considera i due fenomeni – globalizzazione economica e reazione neofascista –

affatto antitetici e per certi versi complementari, perché alcuni degli obiettivi degli

estremisti di Destra permettono di distrarre l’opinione pubblica dai fini delle politiche

globalizzatrici; ad esempio l’accanimento contro l’immigrazione:

Si noti che gli immigrati si adattano allo scopo assai meglio di qualsiasi altra categoria di cattivi, veri o presunti... Quando tutti i posti di lavoro sono precari e considerati non più sicuri, la vista degli immigrati è come il sale sulle piaghe... Per chi li odia e li attacca, gli immigrati incarnano – in modo visibile, tangibile, nel corpo – il presentimento inespresso, ma penoso e doloroso, della loro stessa smaltibilità. Si sarebbe tentanti di dire che, se non ci fossero immigrati che bussano alle porte, bisognerebbe inventarli... perché offrono ai governo un ‘altro deviante’, un bersaglio quanto mai gradito per le ‘tematiche scelte con cura su cui impostare le campagne’. I governi, spogliati di gran parte delle loro capacità e prerogative sovrane dalle forze della globalizzazione che non sono in grado di contrastare – e meno ancora di controllare – non possono far altro che ‘scegliere con cura’ i bersagli che sono (presumibilmente) in grado di sopraffare e contro cui possono sparare le loro salve retoriche, e gonfiare i muscoli sotto gli occhi dei loro sudditi riconoscenti.198

Il caso italiano della Lega Nord è probabilmente l’esempio più lampante di questa

gigantesca pantomima. Da sempre dichiaratamente razzista e xenofoba, la Lega ha

sostenuto a spada tratta provvedimenti lesivi della dignità e dei diritti umani dei migranti,

198 Bauman 2008, 72

165

Page 166: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

come la famigerata legge Bossi-Fini e i respingimenti dei barconi in mare aperto, ha fatto

della ‘battaglia per la sicurezza’ il suo cavallo di battaglia, ma ha appoggiato tutti

provvedimenti del secondo e del terzo governo Berlusconi a tutela della casta di ‘Roma

ladrona’, nonché dell’incolumità giudiziaria di quello che Bossi, tra il 1994 e il 1999,

chiamava affettuosamente “il mafioso di Arcore” che “con le televisioni fa il lavaggio del

cervello alla gente”. In molti casi – si veda il DDL Alfano sulle intercettazioni, poi ritirato – il

sostegno ha riguardato quelle proposte che limitano considerevolmente le forze inquirenti

nella repressione dei crimini di strada, tanto vituperati dai leghisti.

Ma ogni limite di decenza si è superato con il noto caso delle mensa scolastica di Adro

(piccolo comune del bresciano), dove nell’aprile del 2010 il sindaco leghista, sostenuto da

molti genitori di alunni ‘autoctoni’, ha interdetto la fruizione di pasti regolari ai bambini in

ritardo con i pagamenti, quasi tutti provenienti da famiglie extracomunitarie. Quando un

imprenditore locale, disgustato per il cinismo dei suoi concittadini, si è offerto di pagare di

tasca propria i debiti contratti da queste famiglie, nuovamente i genitori ‘legalisti’ sono

insorti spalleggiati dal sindaco: secondo loro, l’intervento del benefattore è stato sbagliato

perché ‘ha premiato i furbi’, come hanno prontamente fatto notare in manifestazioni dove

venivano esibiti cartelli con slogan del tipo ‘mangiapane a tradimento’.

Questo stesso partito politico che, nei confronti di persone pericolosamente in bilico sulla

soglia di povertà, si mostrava irremovibile e gridava allo scandalo per qualche centinaio di

euro, sei mesi prima aveva approvato in Parlamento il cosiddetto ‘scudo fiscale’ ideato dal

ministro dell’economia Tremonti, un provvedimento che autorizzava il rientro di capitali

dall’estero sottratti al fisco con la garanzia dell’anonimato, pagando una misera multa

corrispondente al 5% delle somme evase ed eludendo l’IVA. I ‘furbi’ che negli anni hanno

sottratto al fisco milioni di euro hanno potuto riportarli tranquillamente in Italia e reinvestirli

con la sicurezza che la magistratura non sarebbe mai venuta a conoscenza di questo

condono, un vero e proprio riciclaggio di Stato di cui, a giudizio di molti magistrati come

l’ex procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato, ha beneficiato soprattutto la

borghesia mafiosa.

Del resto molti anni prima, quando la Lega era ancora un movimento politico giovane e di

piccole dimensioni, altri ‘furbi’ di lungo corso ne avevano già intravisto le potenzialità. Nel

1994, chiamato a testimoniare nel corso del processo Enimont, Umberto Bossi ha dovuto

ammettere di aver ricevuto un finanziamento illecito dal manager di Montedison Carlo

Sama, ragione per cui nel 1998 la Cassazione ha condannato a 8 mesi il leader della Lega

Nord e ad altri 8 il segretario amministrativo del partito Alessandro Patelli. I recenti intrighi

166

Page 167: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

riguardanti il tesoriere Belsito e il cosiddetto ‘cerchio magico’ formato dalle personalità

vicine alla famiglia Bossi sono il coronamento di un processo iniziato molto tempo prima,

negli anni della Lega ‘dura e pura’ ancora illibata dall'abbraccio mortale del berlusconismo.

Fuori da casa nostra, il caso più clamoroso è sicuramente quello ungherese, dove alle

elezioni del 2010 il partito FIDESZ di Viktor Orbán ha ottenuto una schiacciante

maggioranza, che gli ha permesso di stravolgere in senso reazionario e clericale la

Costituzione magiara, di indebolire la corte costituzionale e mettere sotto controllo i media;

in politica estera, si è segnalato per aver varato una legge che estende la cittadinanza

anche ai magiari che vivono al di fuori dell’Ungheria, preambolo alla ben più ambiziosa

richiesta di revocare il Trattato di Trianon e le cessioni territoriali successive alla sconfitta

nella prima guerra mondiale.

Orbàn e il suo governo hanno attirato l’interesse di molte persone estranee al neofascismo

per aver cercato di riportare la Banca centrale ungherese sotto il controllo dello Stato e per

le durissime prese di posizione contro le politiche della UE; c’è chi vede in Orban una

specie di ‘resistenza’ – virgolette quanto mai d’obbligo – e di riscatto della sovranità

nazionale contro le ingerenze dei poteri transnazionali. La realtà invece è che Orbàn è

una manna dal cielo per l’establishment europeo e mondiale, che potrà così accomunare

ogni forma di contestazione ai deliri di questo nuovo Horthy e legittimarsi come unica

alternativa al dilagare dell’estrema destra xenofoba e al ‘populismo’.

Insomma, sia che vesta i panni dello spauracchio sia del collaboratore più o meno

involontario del regime economico dominante, per il fascismo si può ancora applicare

l’idea di Karl Polanyi per cui esso rappresenti una possibilità politica sempre presente, una

mossa – più che un movimento – che i poteri forti decidono di giocare quando mostrare il

loro vero volto è troppo impresentabile e impopolare. E che sicuramente non può portare a

nulla di positivo.

Superare la modernità per aprire una nuova era

Zygmunt Bauman ha coniato la definizione ‘modernità liquida’ per descrivere l’avvento

dell’epoca neoliberista/post-fordista, basata sulla soppressione degli orizzonti temporali

presente-passato in favore di un eterno presente dove alcuni capisaldi della modernità –

sviluppo tecnologico, crescita economica, individualismo – vengono sostenuti fino alle

estreme conseguenze, anche a costo di distruggere i legami sociali e di compromettere

167

Page 168: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

definitivamente la salute del pianeta. La modernità liquida è ovviamente la figlia degenere

dell’Illuminismo e delle sue aspirazioni emancipatrici, democratiche ed egualitarie

La pars costruens di questo libro si basa su concezioni che, in gran parte, riscoprono in

chiave moderna molti elementi della premodernità: mutualismo comunitario, democrazia

diretta, uso delle risorse rinnovabili, visione olistica... ma non si tratta di una regressione al

passato – sostenuta semmai dalle tendenze pseudo-decresciste di Destra - quanto di un

ritorno al futuro dove la tecnologia e la scienza della mega-machina capitalista vengono

passate al setaccio per selezionare quanto può tornare utile a una società sostenibile sul

piano ecologico e sociale; lo stesso viene fatto con la conoscenza tradizionale, che viene

riscoperta e opportunamente selezionata. Tutto ciò non deve essere interpretato come

una contraddizione bensì come un’importante conquista intellettuale. Influenzata dal

marxismo e dalla sua matrice hegeliana, la Sinistra ha sempre aderito a una visione

dialettica e storicistica, per cui il progresso consisterebbe nello scorrere della storia, quindi

la modernità si tradurrebbe in una fase di superamento e confutazione del premoderno. Il

Novecento ha dimostrato come questo atteggiamento degeneri inesorabilmente nella

fiducia cieca nello sviluppo tecnologico, nel disprezzo per i limiti naturali nonché

nell’alienazione e nella disgregazione sociale. Non è un caso che le grandi dittature del XX

secolo abbiano cercato legittimazione nelle filosofie storicistiche, allo scopo di tagliare i

ponti con il passato e reprimere alla radice il dissenso: se il regime rappresentava una

fase storica necessaria, allora per definizione era inconcepibile e irrazionale qualsiasi

opposizione.

Oggi invece la necessità di reinterpretare in chiave moderna alcune conoscenze del

passato, prendendo coscienza dei nostri limiti e abbandonando la visione sviluppista, ci

spinge a interpretare l’epoca attuale in termini di postmodernità:

La postmodernità è l’epoca segnata dalla trasformazione del capitalismo da una logica della produzione a una logica del consumo, dal passaggio da un’industria delle macchine a un’industria dell’informazione, dalla fine della lotta di classe universale alla rivendicazione dei diritti delle minoranze locali. Il pensiero postmoderno non ha dunque più la fiducia illuministica e positivistica per la scienza, come costruzione razionale e progressiva di conoscenze oggettive. La crescita della conoscenza non è considerata continua, ma discontinua; è caratterizzata da eterogeneità dei linguaggi e da pluralità delle concezioni. Il pensiero postmoderno non crede più nella costruzione di un pensiero universale che può essere espresso in un linguaggio universale, come ritenevano i grandi esponenti del pensiero moderno. Inoltre si mette in evidenza come nello sviluppo della scienza entrino in gioco aspetti irrazionali e fideistici, influenze sociali, politiche ed economiche... L’abbandono di concezioni totalizzanti del sapere favorisce l’accettazione della pluralità delle visioni del mondo che non si presentano come saperi compatti e omogenei, ma come prospettive

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Page 169: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

parziali e frammentate su aspetti specifici della realtà. La cultura e la scienza non sono quindi processi di accumulo di conoscenze e trasmissione di queste conoscenze da una generazione all’altra, ma sono prospettive o narrazioni espresse in un linguaggio condiviso tra chi parla e chi ascolta. Le narrazioni si diffondono a condizione che esista questo patto all’interno della comunità relativa199.

L’abbandono dell’universalismo, baluardo della cultura occidentale in tutte le sue

accezioni, permette di abbracciare quello che il filosofo indo-catalano Raimon Panikkar ha

chiamato pluriversalismo, ossia la ricerca di un’aspirazione comune nella diversità, quella

di salvaguardare il pianeta e il genere umano, un fine a cui ogni cultura nel rispetto della

sue tradizioni dovrà necessariamente tendere. Si possono inoltre superare etnocentrismo

e dogmatismo, peccati mortali della Sinistra europea, che ha interpretato la vocazione

internazionalista più che altro come una missione civilizzatrice nei confronti dei popoli non

occidentali, operando un evidente colonialismo culturale.

Non si tratta di speculazioni meramente filosofiche, perché uscire dalla modernità e dallo

sviluppo comporta ricadute pratiche molto importanti che sarebbe pericoloso trascurare.

Ad esempio, molti ritengono che una società della decrescita sarebbe di per sé più giusta

perché prevede una inevitabile ridistribuzione (una delle ‘erre’ di Latouche), diminuendo la

polarizzazione ricco-povero: un ragionamento corretto, ma che non mette al riparo da

ingiustizia e sopruso. La disparità tra l’ultimo dei contadini cinquecenteschi e Carlo V era

sicuramente molto minore di quella oggi esistente tra il più povero del mondo e Bill Gates,

ma è difficile sostenere che la società feudale, per quanto sostenibile sul piano ecologico,

fosse un modello di giustizia. La modernità ha fallito soprattutto perché, in tutte le sue

forme politico-economiche, ha pensato di poter manipolare la natura a proprio piacimento

inseguendo chimere come quella della crescita infinita, mostrando un’arroganza

prometeica che oggi rischia seriamente di distruggere il pianeta. Ma si è espressa anche

sotto forma di idee di libertà e uguaglianza, in parte precedenti allo sviluppo capitalista

(solo in ambito europeo, si possono rintracciare nell’antica Grecia, nell’Umanesimo e nel

Rinascimento, nella Riforma protestante e nei movimenti ereticali, ad esempio) che

sarebbe sbagliato condannare come cause dei mali attuali.

La riscoperta del premoderno è fondamentale non solo perché ci permette di ritrovare le

basi per un’economia sostenibile e rispettosa dell’ambiente, ma anche di ricostruire una

coesione sociale che la modernità, in particolare attraverso il mito della produttività e il

consumismo, ha cercato in tutti i modi di spezzare. Ma non si deve scordare che la

199Meccacci 1999, 54-55

169

Page 170: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

premodernità è stata anche un epoca di istituzione del privilegio, intolleranza e

sottomissione della donna, fenomeni che almeno una parte del pensiero moderno ha

condannato e combattuto. Tra i legami collettivi premoderni rientrano anche manifestazioni

sinistre come il clientelismo - il fenomeno delle mafie deriva storicamente dalla

degenerazione di pratiche comunitarie - per cui bisogna fare una cernita accurata tra

presente e passato: se vanno necessariamente recuperati certi aspetti della società

patriarcale non si può pensare di rispolverare il patriarcato tout court. La semplice uscita

dalla modernità significherebbe una nuova Restaurazione, dove nuovi poteri assoluti e

paternalisti si ergerebbero a garanti dell’ordine sociale a tutela di un’umanità incapace di

governarsi autonomamente. In fondo persino l’ordinamento politico attuale, al culmine

della modernità, sta restaurando alcune pratiche politiche reazionarie, come il familismo

politico ed economico e la scarsa mobilità sociale, con la tecnocrazia che si propone come

nuova forma di auctoritas ineccepibile. A buon diritto l’economista di Harward Umair

Haque parla del presente come di ‘era neofeudale’.

La modernità ha agito molto male però ha permesso di mettere in discussione le strutture

del potere aristocratico, delle oligarchie come la nobiltà e la Chiesa, per restituire dignità

all’individuo. Libertà, uguaglianza e fraternità - concentrandosi in particolare su

quest’ultima, un valore premoderno colpevolmente trascurato – è quindi un programma

politico ancora valido, sostanzialmente tradito dalla modernità e che occorre realizzare in

nuove forme, benché sia figlio di un movimento come l’Illuminismo che ha ispirato anche

alcuni dei più grandi errori della storia umana. Si badi bene che dall’Illuminismo sono

discese anche correnti ‘eretiche’ – come l’opera di Rousseau, l’anarchismo e il socialismo

utopistico – fin dalle origini molto critiche nei confronti dei miti della modernità di cui oggi

constatiamo la disfatta.

Se l’uomo moderno era un po’ un bambino, presuntuoso e incontentabile, oggi nella

postmodernità può finalmente diventare adulto, riconoscere i propri sbagli e operare un

serio esame di coscienza, riportando alla memoria consigli e ammonimenti di coloro che

aveva disprezzato e deriso.

Per tutte queste ragioni, quando alcune fautori della decrescita si dichiarano

orgogliosamente reazionari – intendendolo nel senso nobile del termine, di volontà di non

abbandonare la tradizione per la novità fine a se stessa - non si può fare a meno di

provare un certo imbarazzo, che certamente non deriva dalla fede in vecchi sistemi

filosofici o politici. Infatti concetti come il pluriversalismo sono concepibili solo adottando

un atteggiamento di relativismo culturale incompatibile con il pensiero reazionario, si pensi

170

Page 171: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

ad esempio alla dura condanna della Chiesa cattolica ribadita ancora ufficialmente ai

giorni nostri da Giovanni Paolo II (enciclica In veritatis splendor, 1993) e Benedetto XVI

(enciclica Spe salvi, 2007); oppure si pensi alla Destra populista europea,

orgogliosamente ancorata alla tradizione – interpretata per la verità in modo abbastanza

distorto - e nemica giurata di ideali moderni come laicità, tolleranza e libertà di

espressione.

Per i popoli occidentali quindi non è necessario abbandonare l’ideale del progresso, bensì

di prospettarlo nella versione radicalmente diversa proposta da Latouche:

Noi occidentali non dobbiamo vergognarci di condividere il sogno progressista occidentale. Tuttavia, una volta presa coscienza dei danni provocati dallo sviluppo, si tratta di aspirare a una migliore qualità della vita e non a una crescita illimitata del PIL. Noi vediamo il progresso nella bellezza delle città e dei paesaggi, nella purezza delle falde freatiche che ci danno l’acqua potabile, nella trasparenza dei fiumi, nella pulizia dell’aria che respiriamo, nel sapore dei cibi che mangiamo. C’è ancora molto da inventare per rendere più efficace la lotta contro l’invasione del rumore, per aumentare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvagge, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell’umanità. Per non parlare di tutto quello che c’è da fare sul terreno della democrazia. La realizzazione di questo programma partecipa pienamente dell’ideologia del progresso e presuppone il ricorso a tecniche sofisticate, alcune delle quali devono ancora essere inventate200.

200Latouche 2005, 83

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Page 172: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

IN CONCLUSIONE: INTRAPRENDERE LA SVOLTA RADICALE, OSSIA COLTIVARE

LA RAGIONEVOLEZZA SOGGIOGANDO IL RAZIONALISMO ECONOMICO

“Non è per nulla superstizioso, anzi è realistico cercare quel che non si può né prevedere né predire, esser pronti ad accogliere, aspettarsi dei ‘miracoli’ in campo politico” (Hannah Arendt)

Marx ed Engels terminavano il Manifesto del partito comunista spronando i proletari alla

lotta, tanto da perdere avevano solo le loro catene. Il consumatore occidentale al contrario

potrebbe pensare di avere molto da perdere da una politica basata sulla decrescita e la

limitazione dei consumi materiali.

In realtà ogni timore cesserebbe se ci accorgessimo che di fatto la decrescita è già

iniziata, solo che a guidarla non sono le idee di Latouche, Pallante o degli eco-anarchici,

bensì quelle del Fondo Monetario Internazionale, delle corporation e delle oligarchie

finanziarie. Queste entità non sono interessate alla redistribuzione della ricchezza e

all’uguaglianza, bensì a mantenere il più possibile inalterato l’ordine mondiale esistente,

tutelando in particolare la classe dei super-ricchi che costituisce circa l’1% della

popolazione planetaria. A tal fine non si può preservare il benessere di tutti, qualcuno si

deve di volta in volta sacrificare man mano che la ‘torta’ si fa più piccola, tagliando quindi

sempre di più la base della piramide sociale mondiale, con il vertice che vede con

sgomento il terreno farsi sempre più vicino reagendo in modo sempre più crudele e

spietato. È una visione completamente disperata, nel senso letterale del termine di

mancanza totale di speranze, dove la super-classe tira a campare ai danni del resto

dell’umanità senza alcuna prospettiva ideale; crederanno forse che il denaro garantisca

l’immunità da qualsiasi disastro, così come nel film 2012 le persone più ricche della Terra

si salvano dall’Apocalisse acquistando i costosissimi biglietti per accedere alle

fantascientifiche arche. Non poteva esserci miglior raffigurazione caricaturale dell’avidità e

dell’idolatria tecnologica che pervadono la super-classe.

Solo deliri complottisti-catastrofisti? Riflettiamo senza pregiudiziali sulla storia mondiale

degli ultimi quarant’anni. Oggi le nazioni PIIGS subiscono sulla loro pelle i ‘piani di

aggiustamento di strutturale’ che i paesi del Sud del mondo hanno già sperimentato alla

fine degli anni Settanta, condannandoli alla miseria. Il dramma del debito pubblico e il

dibattito sulla sua legittimità, che fino a dieci anni fa vedeva protagonisti soprattutto nazioni

172

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africane, oggi coinvolge i paesi mediterranei dell’Europa, in un futuro non troppo lontano

trascinerà con sé anche il resto del continente compresa l’orgogliosa Germania. E la

cronaca ci parla sempre più frequentemente di imprenditori e operai che si tolgono la vita

in conseguenza alla crisi, così come Vandana Shiva e altri testimoni ci hanno narrato i

suicidi dei contadini indiani.

In questa selezione economico-darwiniana, i ‘giovani’ paesi BRIC hanno sconfitto la

‘vecchia’ Europa nella sfida della crescita e quindi la super-classe di queste nazioni potrà

godersi l’effimero brivido dello stile di vita occidentale, prima del brusco risveglio dovuto

all’esaurimento delle risorse.

Rispetto all’Asia emergente, l’Africa esce come grande sconfitta e come tale dovrà pagare

un prezzo salatissimo. Molti paesi occidentali, insieme alla Cina, all’Arabia Saudita e alla

Sudcorea, al tradizionale saccheggio di materie prime hanno aggiunto anche

l’accaparramento di terreni agricoli (il cosiddetto fenomeno del land grabbing), a

proporzioni ormai tali da far sembrare presto una bazzecola il colonialismo ottocentesco.

Ha destato scandalo la dichiarazione di Lumumba Stanislaus Diaping, un delegato

sudanese alla Conferenza sul clima 2009 di Copenaghen, riguardo l’accordo finale

raggiunto: "È una soluzione basata sugli stessi valori che, secondo la nostra opinione,

hanno portato sei milioni di persone in Europa nelle camere a gas"201. In realtà mai

paragone fu più appropriato, perché le attuali strategie politiche mondiali sembrano

ispirate a una concezione inedita del Lebensraum, lo ‘spazio vitale’ hitleriano, dove la

brama espansionistica dei mercati si sostituisce alle ambizioni di gloria del Führer, dove la

crescita smisurata soprattutto dei due attori dominanti, vale a dire USA e Cina, diventa

ristrettezza mortale per una fetta sempre maggiore dell’umanità.

Forse un giorno, così come i gerarchi nazisti hanno dovuto rispondere della Shoah, un

futuro tribunale internazionale potrebbe perseguirci per aver favorito ‘involontariamente’ i

massacri attuali e la distruzione del pianeta: e noi consumatori occidentali, al pari

dell’impiegato di Auschwitz sulla via del patibolo, ci chiederemo sgomenti la ragione di

tanto accanimento nei nostri confronti. Anche solo la remota possibilità di questa

eventualità angosciosa dovrebbe convincerci a reagire.

Del resto abbiamo in comune con l’apatica popolazione della Germania nazista molto di

più di quanto non vorremmo ammettere: certo, ci vantiamo di celebrare il giorno della

Memoria, ma abbiamo oramai accettato con indifferenza, se non con favore, l’esistenza di

lager per gli immigrati e di campi di lavoro dove, nell’estremo oriente, bambini producono

201Adn Kronos, 16 dicembre, ore 16:58

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merci per lo più inutili che consumiamo beandoci della loro economicità, come se non

conoscessimo le ragioni di tale risparmio. Ne consegue che basterebbero piccoli

accorgimenti per desensibilizzare ancora un pochino l’opinione pubblica. Più che un

fascismo ecologico, eventualmente adatto per il Sud del mondo, il rischio più grande è la

formazione un’espertocrazia di guru a cui la popolazione impaurita affidi in modo acritico la

salvezza del pianeta nel timore della catastrofe, un fatto che segnerebbe la fine completa

della politica. Mario Monti e Lucas Papademos rischiano di essere pericolosi antesignani

di figure ancora più sinistre e forse una volta tanto ha visto giusto Giulio Tremonti parlando

di “nazismo bianco”, a giudicare dai toni di alcuni intellettuali. Ecco ad esempio che cosa è

stato capace di scrivere Piero Ottone sul Corriere202, riferendosi al segretario della FIOM

Maurizio Landini:

Lui non accetta il mondo come è: un mondo dominato dalle leggi economiche della domanda e dell'offerta, e manipolato come sempre da personaggi poco raccomandabili: ieri i padroni delle ferriere, oggi i banchieri (con qualche Marchionne sparso qua e là). Gli altri sindacalisti lo accettano, il mondo com' è. E cercano di strappare nel suo ambito il massimo di benefici, per se stessi e per i loro seguaci. Landini è diverso. Anche se non lo dice esplicitamente, in realtà respinge il mondo esistente: vuole imporre un mondo diverso. Lui non parte dunque dalla globalizzazione, con tutte le conseguenze che sono all' origine della crisi attuale. Lui parte della Costituzione, che gli sta bene. La nostra Costituzione proclama che l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Quello è il punto di partenza: di globalizzazione, di concorrenza del Terzo Mondo, di America e Cina si parlerà dopo, in linea subordinata. Landini appartiene alla schiera di coloro che non accettano il mondo come è, ma vogliono cambiarlo: i rivoluzionari, insomma. Al centro del suo universo, quello in cui crede, campeggia il lavoratore, col pieno diritto, sacro e inviolabile, a un posto equamente retribuito, a una paga che gli consenta di mantenere se stesso e la sua famiglia, a una pensione quando non dovrà più lavorare. Questi sono i dati di partenza, i dati imprescindibili. La conseguenza è chiara (anche se un Landini non sente alcun bisogno di enunciarla in tutte lettere). Se il mondo in cui viviamo consente l'adempimento dei diritti di chi lavora, bene. Se non lo consente, dobbiamo cambiare il mondo in cui viviamo... A me sembra che l'impostazione sindacale di Landini, che parte dai princìpi (repubblica imperniata sul lavoro, diritto di ogni cittadino al lavoro) piuttosto che dalle leggi naturali (domanda, offerta, libero scambio) appartenga alla cultura di sinistra di quegli anni ormai lontani: che sia una scheggia di quel sindacalismo che prevaleva nell'Italia del dopoguerra, figlio dell'estremismo di sinistra

Il classismo spudorato di Ottone travalica ampiamente la tradizionale sfiducia del pensiero

liberale nei confronti dell’egualitarismo per sfociare nel più bieco darwinismo sociale,

condannando ampie fasce di popolazione in nome di presunte ‘leggi naturali’

202 Il freno della FIOM, 22 marzo 2012

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dell’economia. E guarda caso erano proprio i nazisti – quelli ‘neri’ d’annata – a difendere lo

sterminio dei popoli ‘inferiori’ in nome di leggi naturali e di un ordine mondiale immutabile,

che travalicavano qualsiasi diritto creato dall’uomo.

Non servono ragionamenti particolarmente complessi per capire la situazione assurda che

stiamo vivendo. Non siamo giunti al disastro climatico ma ci accorgiamo che le stagioni

non sono più quelle di una volta, basta qualche temporale per trasformare la Liguria nel

Bangladesh, uno strano ometto perennemente con il maglione minaccia i suoi lavoratori di

rinunciare a tutti i diritti o rimanere disoccupati – una specie di Mr. Burns dell’automobile

considerato da Destra e Sinistra un genio delle relazioni aziendali – un ministro si

commuove in pubblico per la durezza dei suoi stessi provvedimenti e per finire un

professore della Bocconi, eletto da nessuno se non dalle ristrette élite della Trilaterale e

della Goldman Sachs, disquisisce di equità e sacrifici tartassando i redditi medio-bassi e

promettendo ritmi di crescita cinesi; il tutto legittimato da un presidente della repubblica

assurto al ruolo di monarca. In questo quadro, se apparteniamo al 99% della popolazione

già sacrificato o potenzialmente sacrificabile, che cosa ci spinge a non reagire a questa

follia disumana? La dedizione a un lavoro sempre meno garantito che rischiamo di

perdere da un momento all’altro? L’affetto verso una famiglia che rischia di assistere, se

non addirittura di essere protagonista, a eventi tra i più tragici della storia umana?

L’attaccamento allo stile di vita occidentale ci impedisce non solo di intravedere la

catastrofe ma anche le possibilità che si celano dietro il ridimensionamento di questa

mega-macchina infernale: una società meno frenetica dove il lavoro è distribuito, o

addirittura una società del non-lavoro, il vecchio sogno del comunismo, attuabile

ridefinendo l’utilizzo delle tecnologie labor saving; un ambiente più sano dove siano meno

frequenti malattie degenerative come i tumori; un mondo dove la guerra diventi veramente

un tabù. E se anche la catastrofe ecologica fosse oramai inevitabile e si potesse solo

contenerne gli effetti, un conto sarebbe vivere in un mondo contrassegnato da legami di

solidarietà e mutuo appoggio, ben altro sarebbe sopravvivere in un pianeta ridotto alla

sceneggiatura di film come Mad Max.

Tutte le preoccupazioni sull’invadenza delle lobby nei processi politici, sullo strapotere

economico delle corporation e del sistema bancario internazionale, con la relativa sfiducia

in ogni possibilità di cambiamento, si scontrano con un dato di fatto inoppugnabile: la

super-classe rappresenta qualche infima percentuale della popolazione umana che per

qualche strana ragione riesce a convincerci che il loro privilegio è condizione necessaria

del nostro benessere. Se noi ossia il 99%, come ricordano insistentemente i proclami di

175

Page 176: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Occupy Wall Street, riusciamo a levare il ‘velo di Maya’ – lo schermo che secondo

Schopenhauer ci fa apparire distorta la realtà – allora per loro è finita, non c’è

assolutamente partita e non potranno giustificare la loro prepotenza e il loro privilegio in

nessuna maniera. Ma per squarciare il velo dobbiamo imparare a non confondere le cause

con le conseguenze, a non personificare il male nel tale politico, nel tal imprenditore o in

quel partito o in quella azienda; dobbiamo pensare che il nostro vissuto locale si trova

all’interno di un contesto globale dove operano leggi economiche arbitrarie e del tutto

innaturali – con buona pace di Ottone – che in luoghi diversi si manifestano in modo

differente. Dobbiamo ‘staccare la spina’ del bombardamento mediatico e ragionare su

quello che è meglio per noi, destrutturare la retorica dei sacrifici chiedendoci quali siano le

nostre reali esigenze rispetto a ciò che ci viene imposto. E, con un processo inverso,

dobbiamo interrogarci su quanto il nostro tenore di vita materiale si debba alla miseria di

altri popoli e alla distruzione della natura.

Ma per arrivare a un tale livello di consapevolezza dobbiamo abbandonare l’egoismo, la

vera virtù capitalista, e riscoprire l’empatia verso i nostri simili e il nostro pianeta, senza

limitarsi a sterili proteste sulla sicurezza, sulla difesa del posto fisso, sul prezzo del

carburante o dei generi alimentari e di prima necessità. Va bene ‘lavorare il proprio

orticello’, ma senza paraocchi e ponendosi interrogativi importanti. Perché tante persone

emigrano dai loro continenti? Perché la gente protesta? Cosa ho in comune io con loro e

come reagirei se mi trovassi nella loro stessa identica situazione? Se non facciamo questo

sforzo empatico continueremo a essere sopraffatti dalla menzogna.

Non si tratta di assumere atteggiamenti particolarmente filantropici. Le correnti di pensiero

dominanti sono riuscite a veicolare l’idea che l’egoismo è connaturato all’uomo e

rappresenta il lato più vero della sua anima, ma questo quadro rispecchia solo chi vede

nel profitto il fine sociale più elevato, quindi per auto-assolversi pretende che il resto del

genere umano aderisca alla propria visione distorta del mondo e dei rapporti

interpersonali, teorizzando la figura dell’homo oeconomicus, del tutto amorale e teso alla

massimizzazione del proprio utile. Invece l’evidenza dimostra senz’ombra di smentita la

veridicità dell’idea aristotelica secondo cui l’uomo è innanzitutto un animale sociale.

Si pensi ad alcuni fenomeni violenti che definiscono se stessi attraverso la rabbiosa

opposizione nei confronti dell’Altro – estrema Destra nazionalistica, integralismo religioso,

ultras sportivi, gang di microcriminali. Schiere di sociologi hanno dimostrato come questi

gruppi, in contrasto al rifiuto violento della realtà esterna, al loro interno presentino forti

legami solidali e di mutua assistenza e accettazione (si pensi al cosiddetto ‘cameratismo’

176

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dell’estrema Destra). In pratica, attraverso ideali distorti basati sull’antagonismo e

l’esclusione, si cerca di ricostruire un clima comunitario e non è un caso che molto spesso

tali gruppi raccolgano tra le loro fila chi è stato emarginato dai processi economici globali

(è il caso del nazionalismo e del fondamentalismo religioso) oppure dalla scuola, dal

mondo del lavoro e da altre dinamiche sociali. Detta in termini più poetici, è proprio vero

che l’odio è l’altra faccia dell’amore e la differenza tra l’estrema Destra e i gruppi

progressisti forse consiste nel fatto che, posti di fronte ai medesimi problemi, i primi si

limitano a contestare senza riconoscere responsabilità proprie e della società in cui

vivono; non ragionano assolutamente in modo 'sistemico'.

Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il freddo cinismo della super-classe, la cui

massima espressione sono i famigerati CEO, mercenari del mercato mondiale che

perfettamente a loro agio si trasferiscono da nazione a nazione, da azienda ad azienda,

senza creare inutili legami, massimizzando il proprio utile attraverso l’efficienza finanziaria

dell’impresa, capaci di concepire esseri umani e ambiente naturale solo come pedine da

sfruttare.

Se bene o male tutti condividiamo, magari in modo confuso, un anelito di libertà, più

difficile è diventato rivendicare il diritto alla nostra autonomia. Se da una parte dobbiamo

umilmente riconoscere la nostra ignoranza e rigettare spiegazioni semplicistiche per

esaminare la complessità della realtà globale, dall’altra possiamo e dobbiamo reclamare

orgogliosamente il diritto a gestire la nostra vita rifiutando l’invadenza degli esperti e la loro

pretesa paternalista di sapere cosa sia meglio per noi, che casualmente coincide sempre

con ciò che è meglio per loro. E qui, probabilmente, si presenta il compito più improbo.

Nel periodo degli ‘anni di piombo’, molte persone di Sinistra definivano i brigatisti

‘compagni che sbagliano’. Oggi persone di tutti gli orientamenti parlano di ‘politici che

sbagliano’, ‘economisti che sbagliano’, ‘imprenditori che sbagliano’... tutto ciò è frutto di un

colossale abbaglio. Siamo convinti che sbaglino perché crediamo che loro operino nel

nostro interesse. Un ex dirigente di Goldman Sachs che, una volta nominato capo di

governo di una nazione europea in difficoltà, intraprende politiche fortemente recessive

allo scopo di favorire la svendita di beni pubblici a potentati privati stranieri non sta

sbagliando proprio nulla. L’Amministratore Delegato di FIAT che puntando all’acquisizione

del pacchetto azionario di Chrysler decide di chiudere impianti produttivi in Italia sta solo

facendo il suo lavoro e Marchionne ha perfettamente ragione quando lo fa notare con i

suoi modi burberi e sbrigativi. La presidente di Confindustria che si lamenta della severità

della sentenza Thyssen Krupp si sta solo comportando in modo coerente al suo mandato.

177

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Tutti questi soggetti agiscono in modo assolutamente irragionevole ma del tutto razionale,

in ossequio alla razionalità economica e alla difesa del loro interesse. Quando Susan

George ha scritto Il rapporto Lugano, la novità principale non risiedeva tanto nei contenuti

dell’opera – abbastanza noti a chi seguisse le tematiche del movimento altermondista –

ma nell’aver assunto il punto di vista della super-classe in modo assolutamente realistico.

Gli estensori del Rapporto non sono ‘cattivi’, hanno scrupoli morali ma si rendono conto

che non sono compatibili con la razionalità del sistema, la quale impone scelte gravi ma

necessarie, quindi inevitabilmente ‘giuste’. ‘Quelli che sbagliano’ sono invece tutti coloro

convinti in buona fede che la razionalità economica coincida con l’interesse generale. Ogni

tanto capita che il potere getti la maschera e ammetta candidamente i propri scopi.

Il 27 marzo 2012, appena atterrato a Seul per degli incontri internazionali, il sempre

misurato premier Monti si è lasciato andare a uno sfogo rivelatore: “Se il Paese non si

sente pronto per un buon lavoro, non chiederò certo di continuare”. Questa dichiarazione

ricorda molto quella poesia satirica di Bertold Brecht sul regime della DDR, il quale

ammoniva che “il popolo non ha più la fiducia del governo”. Si è passati da un presidente

del consiglio populista, Silvio Berlusconi, che ambiva ad apparire la perfetta incarnazione

stereotipata dell’italiano medio, a uno che ci tiene a prendere le maggiori distanze possibili

dal suo stesso popolo, come del resto confermava nel prosieguo dell’intervista:

Nei miei incontri con i rappresentanti di India, Canada, Singapore, Turchia rivelo apprensione e incertezza su cosa potrebbe accedere dopo il 2013. Mi dicono: siamo pronti a investire nei vostri titoli, ma cosa succederà dopo le elezioni? Tornerà la politica tradizionale? Io li rassicuro, dico ciò che sta accadendo sta insegnando anche ai partiti che i cittadini italiani sanno essere responsabili e accettare senza eccessive reazioni sacrifici pesanti203.

Più che a un estratto del Corriere della Sera, sembra di trovarsi di fronte al verbale di una

seduta segreta dei Rettiliani, il popolo alieno che secondo il bizzarro opinionista David Icke

è giunto sulla Terra assumendo fattezze umane per dominare i terrestri. Cosa si può dire

altrimenti di una dichiarazione dove si afferma a chiare lettere che lo scopo del governo è

mutare antropologicamente gli Italiani in modo che non disturbino il manovratore anche se

questi impone sacrifici pesanti in favore di entità straniere?

Per tutte queste ragioni bisogna far proprio l’appello di Patel al conflitto e rigettare gli

appelli alla pace sociale – cioè alla passività - ispirati da strani concetti di ‘unità’ e

203Alberto Gentili, Monti avverte: «Se il Paese non è pronto il governo non tirerà a campare», Corriere della Sera, 27 marzo 2012

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‘responsabilità’, quelli per cui si è distinto il presidente Napolitano, e insorgere per

modificare lo status quo. Certo fa paura pensare che le istituzioni politiche ed economiche,

contrariamente a quello che ci è stato insegnato fin da bambini, possano assumere

comportamenti auto-referenziali ed estranei al bene comune della società: la rivolta verso

un’autorità ingiusta, che tradisce gli scopi per cui è stata ufficialmente creata, non scioglie

il vincolo con il cittadino permettendo quel ‘diritto alla ribellione’ previsto da molte

costituzioni nazionali? E a quel punto diventano leciti atteggiamenti anti-sociali come

l’evasione fiscale e il rifiuto di sottostare alla Legge? E in quali casi e fin dove si può

tollerare il ricorso alla violenza politica? Chi boicotterà la legge e lo Stato in modo sincero

e chi si accoderà soltanto per tornaconto personale? A queste preoccupazioni, del tutto

legittime, si può solo rispondere che l’idea di libertà personale si fonda sull’assunto per cui

ognuno è in grado di distinguere il Bene dal Male assumendosi la responsabilità delle

proprie azioni, diversamente dall’irresponsabilità di chi ci governa decidendo delle sorti di

milioni di persone se non proprio dell’intero pianeta.

Per concludere, vorrei ricordare la scena centrale del film Matrix, quando Morpheus offre a

Neo la scelta tra la pillola blu – che gli farà scordare l’incontro con i ribelli e lo lascerà

vivere per sempre nell’universo virtuale generato dalla matrice – e la pillola rossa, che lo

risveglierà nel mondo reale: dopo una certa titubanza, Neo inghiotte coraggiosamente la

pillola rossa. Messi di fronte alla stessa scelta, noi la pillola rossa dovremmo invece

mandarla giù senza troppa esitazione, per il semplice motivo che non esiste alcuna pillola

blu che ci lascerà ipnotizzati in un mondo virtuale al riparo da sofferenza e dolore,

nonostante lo straordinario potere manipolatorio dell’industria dell’entertainment; e poi al

nostro ‘risveglio’, diversamente da Neo, non ci troveremo attaccati da macchine

fantascientifiche. Potrebbe capitare quanto accade a un personaggio di Novalis quando

decise di alzare il velo della dea di Sais, e cosa vide? Egli vide, miracolo dei miracoli, se

stesso.

179

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SOMMARIO

Introduzione.....................................................................................................................4

PRIMA PARTE. SOLO UN BLUFF FINANZIARIO? LA LUNGA ORIGINE DELLA

GRANDE CRISI............................................................................................................... 9

Uno squarcio nel velo......................................................................................................16

La crisi di un pianeta svuotato.........................................................................................17

Una visione post-marxista per l’economia, la società e l’ambiente..................................23

SECONDA PARTE. DISTRUGGERE GLI IDOLI PROGRESSISTI................................26

Crescita economica.......................................................................................................27

La crudele dittatura del PIL .............................................................................................29

Crescita che impoverisce.................................................................................................32

L’interiorizzazione dell’ideologia della crescita.................................................................36

Crescita e politica energivora...........................................................................................39

Le sirene dell’ideologia della crescita: il consumismo......................................................43

Proseguire o svoltare?......................................................................................................46

Sviluppo sostenibile.......................................................................................................47

La IEA e lo Scenario 450..................................................................................................50

Non è tutto verde ciò che luccica......................................................................................53

Greenwashing e vera sostenibilità....................................................................................58

Uscire da qualunque crescita per salvare il pianeta.........................................................59

Una nostalgica utopia negativa: la socialdemocrazia................................................62

L’insostenibile ricostruzione socialdemocratica................................................................62

Il boom implode................................................................................................................67

Miopia e superficialità.......................................................................................................69

TERZA PARTE. DISFARE LA SINISTRA PER RIFARE LA POLITICA

…......................................................................................................................................73

Gli errori storici della Sinistra............................................................................................78

Il marxismo, croce e delizia..............................................................................................82

Oltre la lotta di classe verso nuove prospettive................................................................89

Le cinque caratteristiche di un radicale............................................................................93

QUARTA PARTE. USCIRE DAL GIGANTISMO PER UNA SOCIETÀ EQUA E

SOSTENIBILE.................................................................................................................96

Decrescita.......................................................................................................................99

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Page 181: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

Agroecologia....................................................................................... ........................105

Scienza, tecnologia ed economia...............................................................................109

Risparmio e conversione di modello energetico......................................................115

Quattro idee sparse per la società sostenibile.........................................................126

Democrazia deliberativa................................................................................................126

Reddito di cittadinanza..................................................................................................130

Open source: l’economia della condivisione.................................................................134

Welfare comunitario......................................................................................................138

QUINTA PARTE. CAMBIARE LA SOCIETÀ: TRA IL DIRE E IL FARE....................141

Crisi della democrazia: partire da se stessi per riscoprire la comunità..........................142

Pensiero e azione diretta: per un partito-movimento di base.......................................147

Un atteggiamento pragmatico: superare gradualmente lo Stato in favore dei beni

comuni...........................................................................................................................158

Decisioni imprescindibili.................................................................................................163

La doppiezza della Nuova Destra e il caso ungherese..................................................165

Superare la modernità per aprire una nuova era...........................................................167

IN CONCLUSIONE: INTRAPRENDERE LA SVOLTA RADICALE, OSSIA COLTIVARE

LA RAGIONEVOLEZZA SOGGIOGANDO IL RAZIONALISMO ECONOMICO..........172

Bibliografia...................................................................................................................182

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Page 182: Svolta radicale. Alla ricerca di una via di uscita

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Igor Giussani (Milano, 1978) si è laureato in Lettere presso l’Università del Piemonte

Orientale e insegna Italiano e Storia nella scuola media secondaria di secondo

grado. Ha lavorato come traduttore free lance per Liberazione e ha partecipato alla

traduzione del Libro Meglio carcerati che carcerieri: i refuseniks israeliani raccontano

la loro storia (a cura di Peretz Kidron) edito da Manifestolibri. E' interessato ai temi

della società contemporanea e dal 2012 è iscritto al laboratorio politico Alternativa e

collabora con Decrescita Felice Social Network.

[email protected]

igorgiussani.blogspot.it

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