Sviluppi storici nelle terre del basso Lazio

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ALESSANDRO DE BONIS CHIARA CASALE CASSANDRA RITA RUSSO Sviluppi storici nelle terre del basso Lazio Dalla preistoria all’avvento dei Longobardi Amministrazione Provinciale di Latina Comune di Monte San Biagio Collana “Memorie del territorio”

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A L E S S A N D R O D E B O N I SC H IA R A C A S A L E

C A S S A N D R A R I TA RU S S O

L’articolato sistema territoriale pertinente i luoghi compresi nel Lazio sud-occidentale - e in minore risonanza sui territori a nord-Ovest della Campania - rappresenta un insieme di dati occupazionali distribuiti in di� erenti fasi preistoriche e protostoriche. Questo lavoro si pre� gge come scopo, il reperimento di tutte le informazioni scienti� che atte a rendere un quadro delineato e chiaro sulle vari fasi occupazionali pertinenti queste terre ricche di testimonianze visive.Partendo dai resti sul territorio pertinenti il periodo preistorico e romano, si è proceduto alla ricostruzione delle tappe fondamentali di occupazione del basso Lazio arrivando � no all’avvento delle conquiste longobarde, focalizzando maggiormente l’attenzione sui luoghi sotto la rete del Sistema Bibliotecario sud-Pontino, senza tralasciare - ove utile - panoramiche territoriali più ampie necessarie ad inquadrare perfettamente le dinamiche storiche e occupazionali di questi luoghi a� acciati sul Mar Tirreno.

9 788899 460228

ISBN 978-88-99460-22-8

Sviluppi storici nelle terre del basso Lazio

Dalla preistoria all’avvento dei Longobardi

Amministrazione Provinciale di Latina

Comune di Monte San Biagio Collana “Memorie del territorio”

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Sviluppi storici nelle terre del basso Lazio

Dalla preistoria all’avvento dei Longobardi

A L E S S A N D R O D E B O N I SC H IA R A C A S A L E

C A S S A N D R A R I TA RU S S O

Amministrazione Provinciale di Latina

Comune di Monte San Biagio Collana “Memorie del territorio”

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IndicePresentazione 5

Premessa 7

1. Popolazioni pre-romane: fonti, testimonianze e miti 9

1.1. Testimonianze preistoriche in grotta e sepolture eneolitiche in grotticella 9

1.2. Aurunci e Ausoni 15

1.3. Volsci 18

1.4. Osci 23

1.5. Sanniti 27

1.6. Ernici 35

1.7. La questione della tacita Amyclae 40

2. I Romani 44

2.1. L’espansionismo di Roma prima dell’Impero e l’età imperiale 44

2.1.1. L’espansionismo di Roma prima dell’Impero 44

2.1.2. L’età imperiale 58

2.2. Centri e territori amministrati da Roma nell’area sud-pontina 66

2.2.1. La viabilità 66

2.2.2. Il suolo nell’antichità: uso e caratteristiche produttive 73

2.2.3. I territori del sud-Pontino nell’età repubblicana 77

2.2.4. I territori del sud-Pontino nell’età imperiale 92

2.3 Minturnae: un esempio di continuità 102

2.4. Ventotene: : un’isola d’esilio sin dall’antichità romana 112

3. L’età tardoantica e la fine dell’Impero 114

3.1. La fine dell’Impero di Roma e il periodo Paleocristiano 114

3.1.1. La caduta dell’Impero Romano d’Occidente 114

3.1.2. Il Cristianesimo 115

3.1.2.1 L’arte paleocristiana 117

3.1.3. Il periodo tardo-antico e testimonianze paleocristiane nel territorio sud pontino 118

3.2. Le invasioni barbariche e i Longobardi 122

3.2.1. I popoli barbarici in Italia 122

3.2.2. I Longobardi 123

3.2.2.1. Cultura e arte longobarda 124

3.2.2.2. La scultura 127

Bibliografia 128

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Presentazione

Il Sistema Bibliotecario Sud Pontino ha sempre avuto a cuore la storia locale, basti pen-sare ai diversi volumi pubblicati nella collana “memorie del territorio”.All’interno di questo percorso la biblioteca di Monte San Biagio ha curato un’iniziativa con un obiettivo molto specifico: promuovere un progetto caratterizzato da criteri di continuità e sistematicità, finalizzato alla riscoperta e allo studio della storia locale nelle scuole del territorio.L’esecuzione del progetto è stata affidata ai tre autori del presente volume che, con un attento lavoro di ricerca, hanno realizzato un elaborato sulla storia (eventi, personaggi e testimonianze archeologiche) del territorio sotteso dalle biblioteche del sistema Sud Pontino, da Monte San Biagio a Castelforte, da Campodimele al mare, nel periodo che va dalle origini fino all’alto medio evo.Il lavoro è stato realizzato con risorse finanziarie proprie del sistema Sud Pontino.Successivamente, grazie anche al contributo economico della Regione Lazio, il corposo elaborato iniziale è stato condensato in un testo, di circa 40 pagine, pensato in una edi-zione adatta alle scuole primaria e secondaria di I grado.Così, con il contributo degli insegnati dell’Istituto comprensivo Giovanni XXIII, è nato il libro:Lineamenti di storia locale - Volume I -Dall’era preistorica alla diffusione della cultura longobarda.Il volume, presentato nella primavera del 2018, a seguito di un capillare lavoro di promo-zione e diffusione nelle scuole del Sud Pontino, è attualmente utilizzato da oltre 20 classi, per circa 500 studenti, con gli autori che intervengono con lezioni di approfondimento in classe, e con visite guidate sul territorio.Confortati dagli esiti fin qui raggiunti abbiamo pensato che occorreva assolutamente procedere alla pubblicazione del testo integrale della ricerca.Anche in questo caso è nostro intendimento, attraverso il Sistema Bibliotecario Sud Pon-tino, proporre il testo alle scuole del comprensorio, questa volta le secondarie di II grado, affinché possano valutare se, e in che misura, questo lavoro possa risultare come uno strumento in più, utile allo studio della storia e del territorio.Un grande e sentito ringraziamento va agli autori, perché grazie a loro possiamo risco-prire la storia e le bellezze invidiabili del nostro territorio.

Il Sindaco Federico Carnevale

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Premessa

L’ articolato sistema territoriale pertinente i luoghi compresi nel Lazio sud-occidentale e in minore risonanza sui territori a nord-Ovest della Campania, rappresenta un insieme di dati occupazionali distribuiti in differenti fasi preistoriche e protostoriche. Questo lavoro si prefigge come scopo principale, il reperimento di tutte le informazioni scienti-fiche atte a rendere un quadro delineato e chiaro sulle vari fasi storiche principali perti-nente tale occupazione, seguendo uno schema generale esemplificato nell’indice preli-minare, soggetto a variazione in corso d’opera.La prima parte del lavoro sarà incentrata su un’analisi delle testimonianze di popolamen-to partendo dal periodo Preistorico, in modo da mostrare, già in una fase così arcaica, una concreta vitalità del territorio, fino ad analizzare, soprattutto partendo dalle fonti storiche e dalle poche testimonianze archeologiche concrete, le popolazioni preromane presenti in questi luoghi, caratterizzanti la cultura del basso Lazio circoscritto, nel nostro caso, ai soli luoghi sotto il controllo del Sistema Bibliotecario sud-Pontino.Dopo aver tratteggiato i principali lineamenti dei gruppi etnici predominanti, sostituitisi di fase in fase nel comprensorio, si passerà ad affrontare il problema dell’occupazione greca, con particolare riferimento alle vicende della tacita Amyclae, da localizzare nei pressi del lago di Fondi. Questa città ha molto condizionato la storia locale sotto diver-si aspetti, principalmente per le varie leggende relative alla dispersione delle sue genti nell’intero comprensorio tra Monte San Biagio e Itri, fino a fondersi con le genti prero-mane locali.Seguirà un’analisi sull’occupazione romana, trattata secondo un quadro generale ma puntuale, cercando di suddividere la fase Romana Repubblicana da quella Imperiale. Ovviamente, pertinenti questi ultimi due periodi, sono le maggiori testimonianze do-cumentarie e archeologiche sul nostro territorio e, proprio perché questo lavoro non vuole essere un censimento di beni ma un quadro organico della storia locale, tutti i dati saranno trattati al fine di raggiungere tale obiettivo. Un’attenzione particolare sarà riservata all’analisi dell’Appia e della via Flacca, i due principali assi viari, economici e culturali, dell’antichità.A chiudere il lavoro sarà la trattazione della fase Tardoantica, imperniata di fatto sull’oc-cupazione longobarda dei nostri territori e sulla trattazione dei recenti dati documentari rinvenuti dalle attuali ricerche sul territorio.

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1Popolazioni pre-romane: fonti,

testimonianze e miti

1.1. Testimonianze preistoriche in grotta e sepolture eneolitiche in grotticella

(Alessandro De Bonis)

I primi documenti scritti della storia italiana iniziano a comparire dall’età del ferro, come testimonianza di un discorso evolutivo degli avvenimenti dell’umanità. Questa fase detta preistoria o protostoria, indica quella porzione di storia della nostra penisola che parten-do dal Paleolitico giunge fino all’età del ferro.Come registrato in vaste parti dell’Europa occidentale e settentrionale, dall’età neolitica, anche in alcune parti d’Italia, si diffonde il fenomeno detto del megalitismo che, in alcuni territori, perdurerà sino ad oltre l’età del bronzo, come nel caso dell’architettura me-galitica del Lazio meridionale. Le costruzioni caratteristiche erano i dolmen, i menhir e i cromlech. In Sardegna oltre ai circoli funerari, ai dolmen e ai menhir sono presenti le cosiddet-te domus de janas, strutture funerarie scavate nella roccia (in numero superiore a 2400) databili al periodo in cui nell’isola si sviluppò la Cultura di San Ciriaco (Neolitico recente 3400-3200 a.c.) che con la Cultura di Ozieri (Neolitico finale 3200-2800 a.c.) si diffusero in tutta la Sardegna, ad eccezione della Gallura dove si prediligeva l’uso di seppellire i defunti nei circoli megalitici. Nel Lazio meridionale l’architettura megalitica riguarda un sistema di costruzioni pro-tostoriche realizzate a secco, come terrazzamenti e realizzazioni difensive (regione del Latium adiectum dei romani o territorio del Lazio aggiunto a quello preesistente), gene-ralmente realizzate con enormi blocchi di roccia calcarea locale. In epoca storica queste strutture, vista la loro imponenza, furono attribuite ai mitici  ciclopi1 e furono perciò dette “ciclopiche”, ma il nome più corretto resta quello di “megalitiche” come derivante dal greco “grandi pietre”. La loro costruzione viene generalmente ricondotta ad una im-precisata fase della cultura laziale o all’età arcaica, anche se resta ormai confermata la loro

1 Ricordo resta essenzialmente legato alle vicende di Ulisse che sbarcato sulle coste siciliane si imbatte in Polifemo, ciclope carnivoro citato da vari autori antichi: Omero, Teocrito, Euripide, Ovidio, Virgilio, descritto come gigante da un solo occhio, figlio di Poseidone e Toosa (ninfa del mare). I giganti sono ricordati anche come abitanti della costa tra Gaeta e Formia, con penetrazioni fino alle vicine montagne di Itri, si tratta in questo caso dei leggendari Lestrigoni che attaccarono ancora una volta la flotta di Ulisse, ricordati nelle fonti classiche da Plinio il Vecchio nel I sec. che scriveva: “Formia, prima detta, un tempo, Hormiae, fu antica sede dei Lestrigoni”. Si ricorda in questa circostanza l’allestimento del celebre ninfeo di Tiberio a Sperlonga che narra, con le opere al suo interno, alcune di queste vicende descritte nell’Odissea. Il collegamento tra questi giganti e le aree comprese nelle terre a sud del Lazio, si deve per la presenza delle varie strutture megalitiche presenti in questi luoghi.

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non appartenenza alla cultura preistorica ma protostorica2.Le terre del Lazio meridionale e del nord della Campania, costituiscono il cuore pulsante di una ricca civiltà preistorica che mostra le prime tracce già a partire dal periodo Pa-leolitico, con particolare riferimento alla facies del Musteriniano, coincidente maggior-mente con il Paleolitico Medio, datato intorno ai 35.000 anni fa. Si tratta nella maggior parte dei casi di reperti archeologici che rientrano nell’ambito della facies documentata nel Lazio meridionale costiero3, detta “Pontiniana”4, che si differenzia per l’uso, come materia prima, di piccoli ciottoli silicei.La prima frequentazione umana del territorio costiero pertinente l’area in esame sono attestate all’“Aurignaziano”, dalla stazione preistorica di località Chiancarelle a Fondi, nei pressi dell’omonimo lago5, con tracce minori pertinenti il Paleolitico e il Neolitico6. Di fase successiva, legata alla cultura Calcolitica, è la sepoltura a grotticella di Monte San Biagio affine alla cultura di Gaudo7, a cui si affiancano rinvenimenti dell’età del bronzo Antico, pur se sporadici, localizzati nelle sponde attorno al lago di Fondi8. Più consistenti restano i rinvenimenti relativi al Bronzo Medio, caratterizzati dalla presenza di vari siti costieri, come sulla spiaggia “delle Bambole”9, sulle coste di Sperlonga e di Sant’Agosti-no10, per chiudere nel territorio di Gaeta dove, nella Spiaggia dell’Arenauta11, sono stati rinvenuti anche materiali dell’età del ferro. I materiali trovano confronto con quelli provenienti dalle varie grotte documentate (del Fossellone e Guattari vicino al Circeo, di Sezze, di Tiberio a Sperlonga, di Collepardo e di Pastena) e consistono in oggetti di uso quotidiano: raschiatoi, punte di freccia, lame, schegge, nuclei di selce semilavorati e percussori utilizzati per la lavorazione. Spesso questi reperti si individuano in strati con tracce di forte combustione, in cui si rinven-gono vari frammenti di ossa bruciate di animali, soprattutto di cervo italico e di cavallo, dando conferma sulla frequentazione di queste aree da parte dell’uomo di Neanderthal.

2 A titolo esplicativo si ricorda lo scavo di Norma sulle mura megalitiche condotto da Luigi Pigorini che ha potuto dimo-strare la presenza di diverse opere poligonali, databili a fasi differenti della storia laziale, spesso attribuibili a popolazioni pre-romane quali: Volsci, Ernici, Aurunci, Osci. La ricerca archeologica successiva ha ritenuto che l’opera poligonale possa risalire alla fine del VII secolo a.C. nelle testimonianze più antiche, mentre molte altre costruzioni di questo tipo possono essere datate dalla fine dell’VI secolo a.C. fino a tutto il periodo repubblicano, testimoniando la sovrapposizione di etnie differenti sugli stessi luoghi già fortificati. Molti piccoli paesi o cittadine, quali Fondi, Minturno, Sessa, Spigno Saturnia, Ausonia, Castelforte, Pastena, Campo di Mele, ecc. rendono la piena testimonianza di aree di altura abitate da civiltà preromane e poi passate sotto l’orbita del controllo di Roma. Per riferimenti ALESSANDRI 2007, pp. 2-240. 3 ALESSANDRI 2006, pp. 637-645. 4 ZEI 1982, p. 5 e ss. 5 ZEI 1983, pp. 136-7; SELVAGGI 2002, pp. 8-18.6 BIETTI et al. 1998, pp. 389-96. 7 GUIDI – PASCUCCI 1987-88, pp. 345-350. 8 BARARDELLI – PASCUCCI 1996, pp. 3 e sgg. 9 Si tratta di un deposito antropico ricco di frammenti di ceramica d’impasto, tra cui due ciotole carenate ed un ansa/presa con margini rilevati e apici revoluti, che consentono di datare il sito al Bronzo Medio 2/3. Si veda MORANDINI 1999, pp. 25-27.10 È una concentrazione di materiali in un’area particolarmente ristretta a pochi metri dalla grotta di Sant’Agostino. I fram-menti ceramici sono stati datati al Bronzo Medio iniziale. Accanto a questi materiali ne sono stati rinvenuti altri ad impasto, dalla forma troncoconica, con tracce di bruciature alle estremitàsi veda MORANDINI 1999, pp. 42-47.11 La grotta in questione è posta a 150 m dalla battigia, alta 15 m e profonda ca. 25 m, con parte terminale più stretta. Si tratta in questa circostanza di un deposito antropizzato di ceneri e terreno scuro contenente resti di carboni, resti faunistici e di materiali ceramici. Il materiale è di impasto non tornito, con datazione proposta alla prima età del ferro. La frequentazione saltuaria della grotta ha fatto pensare ad un rifugio per gruppi transumanti dediti all’allevamento e alla pastorizia. Si veda GUIDI 1991, pp. 5-32.

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La civiltà EneoliticaAd essere indicata con il termine di eneolitico è l’età del rame, ricordata anche come cal-colitica o cuprolitica, ovvero quella fase preistorica ritenuta un momento di passaggio tra l’età della pietra levigata12 e la nuova fase metallurgica legata alla lavorazione del bronzo (età del bronzo). In quest’epoca i metalli come oro, argento e rame sono utilizzati nel quadro di un arti-gianato secondario, mentre la parte essenziale degli strumenti rimane ancora di pietra o di osso, ricavati con l’arte della  scheggiatura. La letteratura scientifica europea spesso preferisce la definizione “età del rame” al termine “calcolitico” che rimane invece abitual-mente impiegano nel Vicino Oriente, dove si registra il suo avvio, soprattutto nelle aree del Caucaso e nei territori indiani, a partire dalla fine del V millennio a.C.

L’utilizzo del rame, a differenza di quello del bronzo e del ferro, sembra essere coesistito per un lungo periodo con quello della pietra lavorata, senza apportare grandi sconvolgi-menti socio-economici nelle civiltà che lo conoscevano. I ritrovamenti archeologici at-testano inoltre che l’utilizzo del rame riguarda culture contemporanee e vicine ad altre che lo ignoravano e ad altre ancora che già possedevano il bronzo. La scarsa incidenza dell’utilizzo di questo metallo sulle culture preistoriche si deve probabilmente spiegare con le difficoltà e gli scarsi benefici di questa nuova tecnica. Il rame si può raccogliere infatti allo stato naturale (rame nativo) in modeste quantità e il minerale deve essere martellato prima di essere fuso a circa 1000°, dunque facendo registrare un processo par-ticolarmente lungo e complesso per la sua estrazione. La produzione resta di fatto casua-le e riguarda principalmente pezzi di modeste dimensioni a differenza delle produzioni litiche che tendono a raffinarsi per migliorare la loro efficacia, con lame particolarmente taglienti e molto ben levigate. Dalla metà del  III millennio a.C., nelle zone più occidentali dell’Europa, inizia la dif-fusione di oggetti di rame che potrebbero essere stati importati dalle regioni dell’Egeo, grazie ad una via commerciale aperta sul Danubio. La più importante produzione metal-lica del passato, registrata sulla costa atlantica, era quella dell’oro, anche se la vera età dei metalli iniziò solo con l’utilizzo del bronzo.Durante la fase Calcolitica si raggiungono alcuni progressi che segneranno in modo ca-ratteristico gli sviluppi della società: l’espansione della tecnica litica del “ritocco a pres-sione”, che permetteva il distacco di piccole schegge di materiale e la successiva levigatu-ra; l’incremento delle pratiche agricole grazie anche all’introduzione dell’aratro, il cui uso è attestato anche in ambito rituale, a ulteriore riprova della fondamentale importanza di questo strumento nella vita produttiva; l’emergere di differenze sociali e di ruoli di

12 Testimonianze di strumenti litici pertinenti il Paleolitico sono state rinvenute nell’area di San Felice Circeo, che ha resti-tuito anche impianti di mura megalitiche di straordinaria bellezza. Resti litici (raschiatoi, punte di freccia, lame e percussori) sono stati rinvenuti anche nelle aree alte di Terracina, nei costoni del promontorio di Monte San Biagio e nelle fasce costiere e montuose comprese tra la costa di Fondi e di Sperlonga, fino all’entroterra frusinate passando per le valli dell’Amaseno e dell’U-fente, attraversando piccoli centri come le zone a confine tra Campo di Mele e Itri, in quest’ultimo caso soprattutto nell’area di Valle Oliva, o nei piccoli borghi di Pastena e di Collepardo, lasciando immaginare una ricca frequentazione di questi territori già in una fase preistorica così arcaica. Importanti giacimenti relativi alla frequentazione da parte dell’uomo di Neanderthal sono stati documentati soprattutto nelle grotte di Fossellone e Guattari al Circeo, di Vittorio Vecchi a Sezze, Collepardo, Paste-na e Sperlonga, oltre agli importantissimi rinvenimenti fatti nel comune di Ceprano che ha restituito la calotta cranica dell’uo-mo di Argil, il reperto fossile più antico d’Italia e tra i più antichi d’Europa, oltre 800 mila anni che rende un quadro organico sulla preistoria del basso Lazio a partire da un milione di anni fa. Tutte le aree di frequentazione preistorica mostrano evidenti fasi di occupazione anche nell’età del bronzo, facendo documentare una sostanziale organizzazione delle comunità stanziate nelle diverse aree considerate. Per confronti bibliografici si veda BIDDITTU et al. (–BRUNI–CARANCINI – CERQUA – RIVA) 2006, pp. 114-140, pp. 273-282; ID. 2007, pp. 683-693; ROSINI 2007, pp. 695-703; ANASTASIA 2007, pp. 877-881.

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potere e controllo, indiziati dai dati provenienti dai contesti funerari e dall’iconografia figurativa dei reperti studiati. Alcuni elementi ceramici diventano caratteristici di questa fase fino alla diffusione in tutto il territorio italiano: il bicchiere campaniforme, presente in molte regioni del Me-diterraneo occidentale e d’Europa, la costruzione di megaliti, in particolare sulla costa atlantica europea (Carnac  in  Bretagna,  Stonehenge  in  Inghilterra), le statue stele e le stele antropomorfe nella regione mediterranea e alpina, oltre alle incisioni rupestri e alla diffusione di vasi con decorazioni a puntini impressi e/o linee incise. Tra i più recenti ritrovamenti va annoverato il corpo mummificato di un uomo preisto-rico, noto come la mummia del Similaun e successivamente soprannominato Ötzi, dal nome del luogo del ritrovamento, il ghiacciaio del Similaun, nelle Alpi Venoste al confine tra l’Alto Adige e la valle di Ötz in Austria. Tra gli oggetti rinvenuti nel 1991 assieme al corpo, datato al 3.330 a.C., c’era anche un’ascia di rame, ad indicare che la lavorazione del metallo in questa parte dell’Europa era già presente almeno 5.300 anni fa, cioè 500 anni prima di quanto precedentemente ritenuto13. Nella fase Eneolitica si registra una grande vitalità soprattutto tra le zone a sud di Roma e le terre a nord della Campania, con particolare riguardo alle terre costiere comprese tra i promontori di San Felice Circeo e l’area di Paestum, dove già le società paleolitiche erano state particolarmente attive14. Nella fase Calcolitica i territori a sud del Tevere furono interessati dalla diffusione della cultura di Gaudo che manifesta l’evoluzione - in senso gerarchico - della società contadina sotto gli stimoli del commercio e dei contatti con l’est balcanico o egeo. Il fenomeno di Gaudo ha centro nella Campania lucana, nel terri-torio beneventano, con attestazioni eneolitiche in diverse aree, sia con il rinvenimento di materiali sporadici sia con il ritrovamento di veri e propri contesti archeologici abitativi. Per quanto concerne gli ambienti eneolitici ascrivibili alla cultura di Gaudo, essi sono attestati dal ritrovamento casuale di alcune tombe “a grotticella” a Colle Sannita, in lo-calità Toppo S. Filippo. Mancano, purtroppo, contesti indagati estensivamente in grado di chiarire le modalità di occupazione del territorio beneventano durante questa fase anche perché, nell’Eneolitico, l’area irpina e il nord della Campania gravitano piuttosto nella cultura della regione laziale denominata Rinaldone, affine a quella del Gaudo15. Le tracce di abitati noti nella Campania interna, con i loro materiali domestici, indicano che le due culture, del Gaudo e del Rinaldone, sono solo elementi di una società più vasta che tra il IV e il III millennio a.C. investe l’intera Italia peninsulare. Si tratta di una società composita e dinamica, in essa si muovono mercanti tirrenici di ossidiana, che scoprono il giacimento di Palmarola e toccano la Sardegna, contadini armati in grado di sfruttare in modo sempre migliore le terre marginali dell’Appennino e, infine, vasai e trafficanti che convertono l’Italia adriatica ad uno stile ceramico sobrio e inornato, di apparenti somiglianze padane. Per la sua posizione la Campania e l’area sud-laziale sono al centro di tale mondo eneoli-tico, rappresentandone uno dei crocevia fondamentali. Nel nuovo stile di vita assumono grande importanza la filatura e la tessitura della lana, un rinnovato interesse per la caccia

13 BRILLANTE – DE MARINIS 1998, pp. 3-75. 14 GUIDI – PASCUCCI 1987-88, pp. 345-50. Per approfondimenti si veda GUIDI 1991-92, pp. 427-437. 15 CARBONI 2006, pp. 175-191.

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e, naturalmente, l’estrazione e la lavorazione del metallo. In questi contesti di abitato pochi sono gli elementi comuni alle facies funerarie di Ri-naldone e del Gaudo, con tipologie vascolari influenzate da vari aspetti culturali diffusi nell’area medio-adriatica. Tale molteplicità di influssi si riscontra in particolare nel vil-laggio di Le Cerquete-Fianello di Maccarese, in cui sembrano essere rappresentate en-trambe le culture16. In particolare alcuni elementi vascolari, come una tazza biansata pro-veniente da Maccarese, mostra la netta fusione di due aspetti culturali: la forma richiama la produzione di Gaudo, mentre la decorazione plastica, costituita da due ampie bozze cave sulla vasca, è stata documentata sia in alcune produzioni marchigiane di Conelle17, sia su alcuni vasi a fiasco della necropoli di Rinaldone. Bisogna specificare che vasi di uso domestico nelle necropoli di Gaudo comparivano solo nel vestibolo della tomba, mentre in quella di Rinaldone solo raramente fanno parte del corredo funerario, con recipienti che trovano strette affinità con la cosiddetta fase dei Sassi Neri18.In questa fase sono state documentate anche asce a martello del tipo “ferro da stiro” rea-lizzate con rocce vulcaniche19. Ancora nel Lazio centrale sono presenti abitati riferibili a un momento cronologico più recente rispetto a quelli documentati anche nella periferia di Roma nell’insediamento di Torrino – Mezzo Cammino fase 1-2. Si tratta di insedia-menti costituiti da basi di capanne realizzate in forma circolare o oblunga, coperte con legna e stoppie, che hanno restituito pochi reperti rinaldoniani, vari elementi di tipo campaniforme e una notevole quantità di materiali riferibili alla facies di Ortucchio20. Sono vari i centri che mostrano le tracce di questa presenza, soprattutto in contesti fune-rari con tipiche tombe a grotticella, quali i centri di Torre Crognola, Fontanile di Reim, Monte San Biagio.Dai dati raccolti, si assiste di fatto ad una sovrapposizione di facies funerarie di Gaudo e di Rinaldone nell’area compresa tra le valli del Sacco fino ad Anagni e nella valle del Tevere, con documentazione più vicina alle tradizioni di Gaudo nelle terre più a sud (fase più antica databile al 3500-2900 a.C.), almeno fino a quando la fase Rinaldone e di Ortucchio prenderanno il sopravvento sulla più antica fino a soppiantarla totalmente, pur mostrando uno stretto contatto di scambi tra le aree tirreniche e quelle adriatiche a cui, a partire dal 2950 a.C., si affiancherà la civiltà eneolitica della cultura di Laterza in Puglia che, come la maggior parte delle culture dell’età tardo-preistorica, è riconoscibile essenzialmente per la forma e la decorazione delle ceramiche rinvenute nei diversi siti archeologici21. Similmente alle altre culture italiane neolitiche e calcolitiche, la popolazione viveva principalmente di agricoltura e di allevamento, come testimoniano i resti scheletrici di animali domestici (ovini, caprini, bovini, suini) e di piante addomesticate, oltre alla pre-senza di strumenti (macine) che permettevano la produzione di materie prime. La pasto-rizia era importante soprattutto in alcune regioni, così come nelle aree marittime la sco-

16 CARBONI 2002, pp. 235-301. 17 CAZZELLA – MOSCOLONI 1999, p. 3 e sgg. 18 Da ultimo CARBONI 2002, pp. 279-283. 19 MANFREDINI 2002, p. 204. 20 ANZIDEI – CARBONI 1995, pp. 55-325. 21 È stata definita nel 1966 da Francesco Biancofiore a seguito delle ricerche nella necropoli omonima situata a nord-ovest di Taranto, nel sud della Puglia. Si veda BIANCOFIORE 1967, pp. 195-300; BIANCOFIORE 1971, pp. 193-309; CIPOLLONI SAMPO et al. 1998, pp. 9-112.

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perta di ami in osso utilizzate per praticare la pesca che tuttavia restava forse un’attività più marginale rispetto all’agricoltura. Era praticata anche la tessitura, come documentato dal rinvenimento di fusaiole e pesi da telaio, anche se testimoniato solamente da pochi frammenti di tessuti.

L’influenza della cultura di Laterza nelle aree più lontane dal suo territorio originario è attestata dalle influenze sulla decorazione e la forma delle ceramiche. Nella necropoli di Selvicciola, sito del nord del Lazio attribuito alla cultura del Rinaldone, dove è stato scoperto un boccale di tipo Laterza. Decorazioni del tipo Laterza sono presenti anche nelle ceramiche di altre località dell’Italia centrale, ad esempio a Maddalena di  Muc-cia nelle Marche. A Osteria del Curato, vicino a Roma, è stata scoperta una tomba con-tenente ceramiche realizzate in tre stili diversi, corrispondenti alle culture del Gaudo, di Rinaldone e di Laterza.Nell’Agro romano  la cultura di Laterza venne sostituita dalla  cultura di Ortuc-chio (quest’ultima sviluppatasi tra il 2670 e 2550 a.C. con influenze della cultura del vaso campaniforme) mentre in altre zone perdurò. A Pantano Borghese, presso Roma, è stato scoperto un sito assegnato ad uno stadio avanzato della cultura Laterza, contemporaneo di altri siti limitrofi appartenenti invece alla cultura di Ortucchio. Secondo gli studiosi si tratterebbe di una enclave culturale sopravvissuta. Per quanto concerne la metallurgia, anche tenendo conto di eventuali casi di riciclaggio o di degrado naturale nel corso del tempo, gli oggetti metallici associati alla cultura di Laterza sono molto rari. Tra questi sono documentati alcuni pugnali in rame. Nella grotta di Cappuccini nella zona di Lec-ce, oltre ad un pugnale, è stata rinvenuta una capocchia di spillo a forma di disco.

Strumenti litici e di metallo usati per la caccia

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1.2. Aurunci e Ausoni (Alessandro De Bonis – Chiara Casale)

Con la denominazione “Aurunci” i romani22 indicavano l’ultima propaggine ausona che, nel IV secolo a.C., risiedeva tra Lazio e Campania, più precisamente tra le paludi del basso corso del fiume Liri, le aree montane di Roccamonfina, il promontorio di Gaeta e il fiume Volturno. Per i Greci invece, gli “Ausoni” erano gli Italici non ellenici, con riferi-mento allo stesso gruppo etnico23. L’organizzazione politica degli Aurunci doveva basarsi su un gruppo di cinque città, la cosiddetta pentapoli aurunca: Ausona- Aurunca (attuale Ausonia), Vescia- Sessa, Minturnae, Sinuessa e Veseris24. Non si conosce molto della storia di questi insediamenti, della loro fondazione e della loro organizzazione sociale. Le scarse testimonianze hanno fatto considerare la possibi-lità che gli Aurunci non vivessero in vere e proprie città, ma in villaggi estesi con luoghi di vedetta. L’ipotesi sembrerebbe avvalorata dai dati archeologici che lungo il Gariglia-no, e nelle aree contigue, non sembrano aver restituito nuclei insediamentali di grandi dimensioni prima della colonizzazione romana. I pochi stanziamenti pre-romani finora individuati vanno ricondotti a due categorie principali: piccoli nuclei abitativi (fattorie o villaggi) e centri fortificati posti su modeste alture. Si tratta di un modello insediativo che ricorre tra le genti italiche in un’epoca che precede lo sviluppo dei villaggi sotto l’in-fluenza di società più sofisticate e meglio urbanizzate.Non è chiaro se con le denominazioni “Aurunci” e “Ausoni” gli antichi si riferissero ad una stessa popolazione, oppure se esse vadano ricondotte a genti dalla comune stirpe abitanti il medesimo territorio in periodi diversi. Se consideriamo la seconda ipotesi come quella più plausibile, il Lepore25 attribuisce il probabile cambiamento del nome “Ausoni” in “Aurunci” ai Volsci che, alla fine del VI secolo a.C., si insediarono nel terri-

22 Liv., IX, 25: “Partiti da Sora, i consoli trasferirono la guerra nelle campagne e nelle città degli Ausoni. L’arrivo dei Sanniti in concomitanza con la battaglia di Lautule aveva infatti favorito un’insurrezione generale, e in molte zone della Campania erano stati organizzati complotti contro Roma, tanto che neppure Capua restò esente da sospetti (anzi, l’inchiesta arrivò addi-rittura fino a Roma e ad alcuni dei cittadini più in vista). Per altro i Romani giunsero ad avere il controllo del popolo degli Au-soni a séguito di un tradimento, come già successo a Sora. Dodici nobili giovani provenienti dalle città di Ausona, Minturno e Vescia, dopo aver deciso di consegnare le proprie città in mano ai Romani, si presentarono ai consoli e li informarono che i loro concittadini speravano già da tempo nell’arrivo dei Sanniti e, non appena erano venuti a conoscenza dell’esito della battaglia di Lautule, considerando ormai sconfitti i Romani, avevano offerto un supporto ai Sanniti inviando uomini e armi. E adesso che i Sanniti erano stati sbaragliati e messi in fuga, si mantenevano in un rapporto di pace ambigua, e non chiudevano le porte in faccia ai Romani solo per evitare lo scoppio di un conflitto; se però l’esercito romano si fosse avvicinato, erano più che decisi a chiuderle. In una simile incertezza, sarebbe stato facile averne la meglio cogliendoli di sorpresa. Seguendo i loro suggerimenti, i Romani avvicinarono l’accampamento, e nel contempo inviarono nei dintorni delle tre città uomini armati, con l’ordine di rimanere nascosti nei pressi delle mura, e altri in abiti civili, con le spade nascoste sotto la veste e col cómpito di entrare in città all’alba attraverso le porte aperte. Furono questi ultimi che iniziarono a eliminare le sentinelle e contemporaneamente a dare il segnale ai compagni armati, perché uscissero in fretta dai loro nascondigli. Così vennero occupate le porte e nello stesso istante anche le tre città furono catturate, con il medesimo espediente. Ma poiché l’assalto non avvenne alla presenza dei capi, non vi fu freno al massacro, e gli Ausoni vennero decimati per un’accusa di tradimento poco affidabile, come se si fosse trattato di una guerra all’ultimo sangue”23 Ausoni era un nome applicato dagli scrittori greci per descrivere le diverse popolazioni italiche che abitavano le regioni centrali e del sud Italia, coincidenti generalmente con quelle che Tito Livio chiamava Aurunci.24 La presenza aurunca nei territori compresi tra il Parco dei Monti Ausoni e Aurunci è certificata da pochi elementi docu-mentari legati soprattutto alle fonti antiche e talvolta alla presenza di imponenti strutture preromane, costituite principalmente da grandi impianti di mura megalitiche che vanno generalmente a chiudere importanti impianti di vedetta e controllo sul ter-ritorio, i cui impianti resteranno poi caratteristici nelle sovrapposizioni successive. Si tratta dunque generalmente di impianti fortificati in luoghi rialzati, come l’antico insediamento di Fondi sul Monte Pianara con imponenti mura di delimitazione, del tutto simili a quelle documentate a Norma (antica Norba). Le tracce degli Aurunci/Ausoni restano spesso coperte dalla imme-diata sovrapposizione volsca che spesso subentrando ai primi gruppi etnici, acquisiscono di fatto anche i loro possedimenti e impianti territoriali. 25 LEPORE 1989, pp.72- 73

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torio compreso tra le popolazioni latine e gli Ausoni-Aurunci, aggiungendo al termine Ausoni il tipico suffisso “ci”, trasformando il nome in Ausonici. A causa, poi, del feno-meno linguistico del rotacismo, si passò da Ausonici ad Auronici e quindi ad Aurunci26. Tra gli autori antichi era molto forte l’idea che l’Ausonia potesse corrispondere a qualcosa di più dell’area occupata in epoca storica dagli Aurunci. I Greci chiamano infatti l’Italia Ausonìa, per cui gli Ausones erano coloro che abitavano questa terra e Ausonio era il mare che la circondava. Già Ecateo di Mileto indicava Nola come una polis Ausona, Pindaro ricordava un mare Ausone o un promontorio Ausone in rapporto con Locri, mentre Strabone con questo nome fa riferimento al mare di Sicilia. Per le fonti antiche dunque non era inconsueto pensare all’Ausonia come all’Italia in generale o al meridione dell’Italia in senso più ristretto. Meno ovvia, invece, risulta l’idea che gli Ausoni potessero coincidere etnicamente con gli Aurunci. Virgilio, nell’Eneide (VII, 725-729), distingue tra Ausoni e Aurunci attribuendo a questi ultimi, combattenti di Turno tra le schiere ausone, parte delle caratteristiche che erano degli Ausoni, e riferendosi con quest’ultima denominazione a tutti gli Italici ostili ai Troiani. Livio (IX, 25) ricorda le città di Cales, Ausona, Minturnae e Vescia ancora come insediamenti degli Ausoni riallacciandosi, probabilmente, alla tradizione greca. Di origine indoeuropea, gli Ausoni esistevano già intorno al 1600 a.C., cioè all’inizio del Bronzo medio. L’Ausonia era il loro territorio e si estendeva dal basso Lazio fino alla Calabria, abitavano le terre della Campania fino al fiume Sele; gli Enotri vivevano nel territorio a sud e gli Japigi nell’attuale Puglia. Fra queste genti, quelle degli Ausoni e degli Enotri rappresentano, secondo le fonti, le più antiche popolazioni italiche dominanti che avevano nell’VIII secolo a.C. ormai raggiunto già una loro stabilità territoriale.La leggenda degli Ausoni si localizza, dunque, nel territorio compreso tra il Lazio e la Campania, proprio in quella regione che nel VI secolo a.C. ospitò gli Aurunci, con ri-chiami alla Calabria e all’arcipelago eoliano, dove fu fondata la città di Lipari. Secondo Diodoro il capostipite degli Ausoni fu Ausone, figlio di Odisseo (Ulisse), nato da Circe o Calipso, padre di Liparo e re di Sorrento. La popolazione, in tal modo, veniva ad occupare un territorio estremamente vasto – dalla Campania fino allo stretto di Messina e alla Puglia – in un arco cronologico molto ampio che va dal XVI secolo a.C. fino agli inizi della colonizzazione greca d’Occidente. Gli Ausoni apparterrebbero, quindi, al più antico livello di popolazione della penisola italiana e proprio la loro antica attestazione contribuì a ricoprire le loro origini e la loro storia di un alone leggendario che portò forse ad estendere oltre misura l’area di perti-nenza degli Ausoni addirittura a tutta l’Italia meridionale. In realtà, il territorio occupato dagli Ausoni doveva essere ben più limitato e l’erronea credenza degli antichi della gran-de espansione ausona costituirebbe un mito derivato dal contatto che i Micenei ebbero con le popolazioni locali dell’Italia meridionale. Infatti, genti di una stessa stirpe, ma organizzate in gruppi diversi e simili per lingua e cultura, come gli stessi Ausoni, gli Enotri, i Latini, potevano sembrare agli occhi di persone venute da lontano un’unica popolazione omogenea; non solo, la lunga persistenza sul territorio avrebbe portato gli

26 LEPORE 1989, p.73. Per rotacismo la “s” sorda intervocalica si trasforma in sonora fino a diventare “r”. Per sincope della “i” si passa da Auronici ad Auronci; la “o” diventa “u” davanti “a” nasale e gutturale, quindi Auronci si trasforma in Aurunci.

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antichi alla convinzione dell’autoctonia di tali gruppi etnici27.Alla fine dell’età del bronzo, in Campania si sovrapposero agli Ausoni gli Opici: Strabone (V, 4, 3) riporta l’opinione di Antioco secondo il quale la pianura campana era abitata da-gli Opici ai quali si dava anche il nome di Ausoni, mentre Polibio ed Aristotele (Politica, VII, 1329 b.) negano l’identità dei due popoli distinguendo quindi le stirpi che occupa-vano il territorio attorno al Crater, l’attuale golfo di Napoli. Il Lepore sostenne che in Campania lo strato ausonio costituì un “velo” tra il sostra-to mediterraneo locale e la presenza sabellica degli Osci già stabilmente residenti nella pianura costiera al momento della fondazione di Cuma, quando gli Ausoni si chiuse-ro tra il basso Lazio e la Campania settentrionale28. A ciò si aggiunge la convinzione di Karl Julius Beloch dell’appartenenza degli Aurunci alla stirpe osca, poiché un’iscri-zione ritrovata a Formia attesta due nomi (Statius e Paccius) tipici della lingua osca29. Dato che la conquista sannitica non raggiunse il territorio posto al di là del fiume Volturno, l’autore esclude l’oscizzazione degli Aurunci i quali, quindi, devono necessa-riamente aver parlato la lingua osca già a partire da un periodo precedente. Per concludere e riassumere questo excursus sulle vicende mitologiche degli Ausoni-Au-runci e sul concetto estensivo di Ausonia, è bene ricordare le notizie riportate in uno scolio a Licofrone (ad Lykophr. 702), in cui l’autore afferma che gli Ausoni sono chiamati propriamente i soli Aurunci che abitano presso il mare tra Campani e Volsci, mentre im-propriamente vengono detti Ausoni anche tutti gli Italici e ancora più impropriamente i popoli influenzati dalla cultura greca. Il nome degli Ausoni, come già citato, deriverebbe da Ausone figlio di Odisseo e Circe, mentre secondo altri ancora da un altro Ausone. Le ipotesi conclusive e inoltre non devono ignorare che per i Greci gli Ausones occupavano, con consistenza politica rilevante, un’area ben più estesa rispetto alla fascia Liri-Volturno abitata dagli Aurunci di Minturnae o Cales e che questi Ausones, che davano il nome al Mar Tirreno, erano i principali interlocutori politici dei Greci interessati al Lazio meri-dionale e alla Campania settentrionale.

27 LEPORE 1989, p. 68; SCIARRETTA 2010, pp. 92-112.28 LEPORE 1989, p.8329 BELOCH 1989, pp. 12-13.

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1.3. Volsci(Cassandra Rita Russo)

Il territorio dell’Italia meridionale in cui vivevano gli Ausoni successivamente fu in par-te occupato dai Volsci, popolazione di stirpe osco-umbra30 che viveva di pastorizia e agricoltura, ma che la tradizione raffigura come “barbari e selvaggi” discendenti dei Le-strigoni31 o come “pirati” provenienti dal mare essendo particolarmente noti per la loro abilità nel navigare32. A partire dal VII-VI secolo a.C. ebbe inizio la discesa di questa popolazione dall’area cen-tro-appenninica33 che portò ad un suo progressivo insediamento tra la valle del Liri e la valle del Sacco. Intorno al V secolo a.C. discesero poi nella pianura pontina invadendo la zona costiera del Lazio meridionale. Giunsero presso Terracina che chiamarono Anxur34 e da qui a Fondi e Formia causando così la restrizione dei Latini nel Latium Vetus35 e la perdita da parte di Roma della posizione predominante conquistata con i Tarquinii36. Di-vennero città volsche molti centri latini come Frosinone, Sora, Cassino, Atina, Isola del Liri e Fregelle nel versante interno e Velletri, Pomezia, Satrico, Anzio e Priverno nel versante esterno. Lo stanziamento nella parte montana e nella parte costiera portò alla suddivisione della popolazione in due grandi rami, quello dei Volsci Ecetrani (dalla città di Ecetra) e quello dei Volsci Anziati (dalla città di Anzio). Essi non si unirono mai in uno stato ma preferirono allearsi in leghe di città libere e autonome, accumunate da aspetti religiosi, linguistici, politici e militari37. Anche lo stesso nome “VOLSCI”38, con il quale vengono designati, ha un’etimologia non riconducibile alla loro lingua, bensì a quella degli Etruschi avendo la stessa radice di toponimi come Vul-ci e Vol-terra. La ricostruzione del fenomeno di migrazione di questo popolo e di come siano riusciti a conquistare una posizione predominante nell’agro pontino39 resta di difficile comprensio-ne, la cui causa principale rimane la discordanza delle fonti annalistiche e la mancanza di consistenti testimonianze materiali. Le fonti più antiche li attestano già nel VII secolo con l’occupazione di Velletri al tempo di Anco Marzio, poi fanno riferimento alla conquista di

30 I Volsci insieme agli Osci, Umbri, Sanniti, Marrucini, Peligni Sabini, Marsi, Equi, Ernici, Piceni e Vestini facevano parte della popolazione osco-umbra, di origine indoeuropea insidiatasi in Italia nella seconda metà del II millennio a.C., intorno al XII secolo. I vari gruppi erano accumunati dall’utilizzo di una lingua affine, la lingua osco-umbra che al suo interno prevedeva alcune varianti locali. La lingua parlata dai Volsci, il volsco, rientrava nel gruppo più prossimo al dialetto umbro, piuttosto che a quello osco. 31 Si veda il paragrafo 1 del Primo Capitolo.32 Dion. Hal., VII 37, 3.33 La loro regione d’origine viene identificata con il territorio del Fucino, in Abruzzo, abitato in antichità dai Marsi e dagli Equi.34 DE BONIS A. – DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 19. Oltre ad alcuni tratti in opera poligonale, verosimilmente di fase Volsca, altri apparati fortificati appartengono già alla fase Romana, costruiti dopo aver riconquistato la città nel 406 a.C. e in occasione della fondazione di una “colonia marittima” nel 329 a.C. 35 Il Latium vetus o antiquum in antichità era il territorio compreso tra il fiume Tevere e il monte Circeo, mentre nella parte interna della penisola giungeva sino al Sannio. Insieme al Latium adiectum o novum, corrispondente alla successiva area di espansione coloniale latina, formava il Latium, la regione storico-geografica corrispondente all’attuale Lazio meridionale.36 BIANCHINI 1969, p.24.37 PAPI 2013, pp. 33.38 DEVOTO 1931: Vols-che appare in Vols-inii ampliato con il suffisso etnico –ci; PAPI 2013, pp.17. 39 Lo spostamento della popolazione era dovuto forse alla ricerca di territori e di un clima più adatti nei mesi invernali alla pastorizia e all’agricoltura poiché, come detto, prima di essere un popolo guerriero erano fondamentalmente un popolo di pastori ed agricoltori.

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Suessa Pomezia sotto Tarquinio Prisco ed infine vengono messi in relazione con Tarquinio il Superbo, il quale viene menzionato da Livio (I, 53) come il primo re romano che muove guerra contro i Volsci. La loro sicura presenza nel territorio del Lazio meridionale sembra attestata a partire dalla fine del VI secolo a.C. in quanto gli storiografi sono concordi su fatti e avvenimenti riferi-bili a tale periodo. Da questo secolo in poi la popolazione volsca risulta impegnata in una serie di guerre contro i Romani per un periodo di tempo di circa 160 anni. Prima dei San-niti infatti i Volsci e le loro città rappresentavano un impedimento per l’espansione romana verso sud e una minaccia per i loro rapporti commerciali e marittimi40. La vittoria romana ottenuta contro i Latini nei primi anni del V secolo a.C. presso il Lago Regillo portò alla stipula nel 493 del Foedus Cassianum41 tra Romani e Latini ai quali presto si aggiunsero gli Ernici. Oltre a sancire i rapporti di pace e alleanza tra le popolazioni, il patto era stato reso necessario per la comune volontà di resistere alle popolazioni montanare dei Volsci ed Equi che ormai avevano il controllo del territorio compreso tra Lazio e Campania. Le fasi più incisive del conflitto furono la sconfitta subita da Volsci ed Equi nel 431 a.C. sull’Algi-do, il monte che dominava il passaggio dalla valle del Sacco alla pianura pontina e nel 389 a.C. a Mecio, presso Lanuvio42, con i Romani guidati da Furio Camillo43. Agli inizi del IV secolo a.C. i Romani furono impegnati su un altro versante contro i Galli che ebbero la meglio presso il fiume Allia. L’improvvisa ritirata degli invasori44 consentì l’immediata ri-presa romana che concentrò le sue armate nuovamente a sud contro i Volsci, i quali questa volta furono appoggiati anche da Ernici e Latini. Seppur questi popoli erano ancora alleati di Roma45, decisero di contrastarla per tentare di fermare la crescita minacciosa della sua predominanza nell’area e così si arrivò alla Guerra Latina combattuta tra 341 e il 336 che portò alla disfatta delle popolazioni alleatesi e allo scioglimento della Lega Latina. Avendo ormai sotto controllo il territorio circostante volsco e latino, i Romani poterono dare avvio al progetto espansionistico del loro Impero. L’ampliamento richiese l’orga-nizzazione dell’area e delle città conquistate, così molte furono inserite nelle tribù, altre furono immesse nel sistema ma con una riduzione dell’autonomia sancita dall’essere cit-tadini senza diritto di voto (cives sine suffragio), con l’obbligo militare e l’obbligo di pa-gamento del tributo. Questo trattamento fu applicato a nuclei lontani da Roma e a molte comunità volsche che non erano state distrutte, come Fondi, Formia, Priverno, Velletri, Satrico e Arpino46, mentre Anzio e Terracina divennero colonie marittime. Tito Livio descrive i Volsci come “gente più feroce nel ribellarsi che fare guerra”47; questa

40 PAPI 2013. Le città di Anzio, Satrico e Velletri bloccavano l’accesso nell’area pontina, Artena, Lariana e Bellaria domina-vano la via Latina e le città di Anzio e Terracina, dotate di migliori navi, divennero presto più esperti dei Romani nell’arte della navigazione.41 Trattato di alleanza stipulato nel 493 a.C. tra Romani e Latini in seguito alla vittoria dei primi sui secondi della battaglia di lago Regillo del 496 a.C. Il trattato prende il nome dal console Spurio Cassio che firmò l’accordo. 42 PAPI 2013, pp. 26.43 Marco Furio Camillo era un politico e militare romano eletto per sei volte tribuno militare con potestà consolare, dit-tatore, trionfatore. La sua fama è nota soprattutto per essere stato il protagonista della conquista romana della città di Veio, partecipò anche alla ripresa di Roma dopo il sacco gallico.44 Secondo Polibio i Galli si ritirarono perché minacciati nelle loro terre dai Veneti; altra ipotesi è che ai Galli fu pagato un riscatto e questi soddisfatti si siano poi ritirati nei loro territori. Si veda GABBA 2006, pp.56.45 L’alleanza stipulata con il Foedua Cassianum fu rinnovata nel 358 a.C.46 GABBA 2006, pp. 63.47 Liv., VII 27,7: Ferocior ad rebellandum quam bellandum gens.

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loro attitudine si riscontra in modo eclatante alla fine del IV secolo a.C. quando la città di Priverno, guidata dal fondano Vitruvio Vacco,48 cerca di sottrarsi per l’ultima volta al dominio romano. Nonostante il coraggioso tentativo, i Romani ebbero nuovamente la meglio e nel 329 per punire la città la rasero al suolo49 e fondarono poi un nuovo sito nella località di Mezzagosto. Le guerre romano-volsche, oltre ad una serie di dati storio-grafici, sono caratterizzate da eventi e fatti che per la mancanza di corrispondenze sono considerate, entrate a far parte della tradizione culturale locale. Questo è il caso della storia della regina guerriera privernate Camilla, figlia del re dei Volsci Metabo50 e dalla vicenda di Coriolano51, patrizio romano cacciato in esilio per aver attentato alla libertà della plebe e rifugiatosi presso i Volsci. L’affermarsi dell’autorità romana nel territorio pontino52 con l’assorbimento e la fondazione di nuove colonie e città fu la causa della progressiva scomparsa della cultura volsca i cui centri ancora non sono stati portati alla luce. Questi sorgevano su alture ed erano realizzati prevalentemente in legno, il che da un lato li rendeva facilmente devastabili, dall’altro facilmente ricostruibili53. Le poche tracce lasciate da questi centri si riducono ad alcuni resti del sistema difensivo costitui-to da possenti mura in opera poligonale54; più consistenti sono invece le testimonianze materiali provenienti da contesti funerari55 tra le quali oggetti in metallo e in ceramica56.

48 Liv., VIII 19: “In quello stesso anno (329 a.C.) cominciò la guerra contro Priverno: suoi alleati erano i Fundani ed anche il capo ne era un Fundano, Vitruvio Vacco, uomo di una certa fama non solo tra i suoi, ma anche a Roma, dove aveva una casa sul Palatino. Mosse ad incontrarlo mentre compiva vasta opera di saccheggio nei territori di Sezze, di Norba e di Cora, il console L. Papirio Crasso che vinse in battaglia definitiva e senza difficoltà l’esercito di Vacco, che riguadagnò con una marcia confusa Priverno. Qui si hanno due versioni dei fatti che seguirono: secondo l’una la città fu presa d’assalto e Vitruvio cadde vivo in mano dei Romani; secondo l’altra i Privernati stessi, prima dell’attacco definitivo, facendosi precedere dai portatori del caduceo vennero ad arrendersi al console e consegnarono Vitruvio. Il senato, richiesto di una sua decisione a proposito di Vitruvio e dei Privernati, ordinò al console Plauzio (collega di Papirio) di abbattere le mura della città e di lasciare in luogo un forte presidio”. 49 La città fu completamente distrutta e questo portò alla scomparsa dell’insediamento volsco, del quale non si sono travati neanche resti di mura difensive. Alcuni studiosi ritengono è da localizzare presso i colli di San Giovanni e Valle Fredda, altri presso Monte Seiano, altri ancora al di sotto della cittadella medievale, l’unico elemento certo è che dovevano aver scelto un luogo sopraelevato. Il forte sentimento per il lontano passato volsco viene tuttora rappresentato dalla tradizione storica e dallo stemma della città che reca scritto “Privernum Metropolis Volscorum”.50 Livio e Virgilio narrano di Metabo, re della volsca Privernum, che cacciato dalla città mette in salvo la figlioletta legandola ad una lancia e gettandola al di là del fiume Amaseno, dopo averla avvolta in una corteccia di sughero. La fanciulla cresce nei boschi e diventa un’abile cacciatrice. Tornata a capo del suo popolo lo guiderà contro i Troiani di Enea, al fianco di Turno ma morirà in battaglia. Camilla è considerata un grande esempio di coraggio e nobiltà e il suo forte legame con Priverno serve a legittimare la memoria storica e la fierezza di appartenenza della città con il suo passato volsco.51 La vicenda tramandata da Livio, Dionigi e Plutarco ha come protagonista Gneo Marcio Coriolano, un generale romano che dopo essersi distinto nella guerra contro i Latini invece di andare incontro ad una splendida carriera, viene esulato per aver attentato alla libertà della plebe poichè essendo egli un patrizio non voleva loro riconoscere null’altro oltre i tribuni. Si rifugiò presso i Volsci di Antium e li convinse a ribellarsi a Roma con uno stratagemma proprio durante la festa che celebrava la vittoria romana sulla popolazione volsca. Giunto alle porte della città fu distolto nell’intento dalla moglie Volumnia e dalla madre Veturia che gli chiese se doveva abbracciarlo come figlio o come nemico. Ritiratosi alcuni ritengono che visse fino alla morte tra i Volsci, altri che fosse stato da loro ucciso perché ritenuto un traditore. Poiché il nome del personaggio non appare nei Fasti la sua vicenda viene considerata “leggenda”.52 BIANCHINI 1969, p. 46. Le vicende e la sorte dei Volsci della valle Liri-Sacco sono collegate alle lotte combattute fra Romani e Sanniti.53 PAPI 2013, p. 29.54 L’ opera poligonale è una tecnica muraria realizzata con blocchi di pietra grandi e irregolari sovrapposti e posizionati di taglio senza l’uso di malta. Venne utilizzata in epoca preromana per la realizzazione di fortificazioni e si pensava attribuibile a giganti o ciclopi (si veda sopra nota 1, p. 2). Resti di opera poligonale sono stati rinvenuti a Cori, Roccasecca dei Volsci, Arpino, Castro dei Volsci, Circeo, Ferentino, Segni, Norma, Sezze. 55 Si fa riferimentoai corredi funerari provenienti dalle necropoli di Cassino, Atina, Isola del Liri, Frosinone, Satrico e Vel-letri.56 Il materiale in metallo è prevalentemente costituito da oggetti di piccole dimensioni come fibule a foglia traforata, a san-guisuga e a drago con apofisi a disco, tripodi a fascia, bracciali in bronzo a capi dentellati; quello ceramico da olle di impasto tornito, scodelle monoansate e biansate con fondo piatto e anforette del tipo di Alfedena. Si veda CIFFARELLI-GATTI 2006.

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Gli scavi archeologici e le scoperte nei siti di Satrico e Velletri sono stati importanti per una maggiore conoscenza della lingua e della religione dei Volsci che si insediarono nell’area del Lazio meridionale. Da una tomba del sepolcreto sud-occidentale del sito di Satrico proviene un’ascia miniaturistica in piombo57 che reca incisa un’iscrizione di dieci lettere in lingua osco-umbra. L’oggetto attesta la possibilità che i Volsci fossero già in possesso di una loro scrittura nazionale elaborata nelle precedenti sedi appenniniche58 e che, a contatto con la cultura latina, sia stata successivamente sostituita nel corso del IV secolo a.C. dall’alfabeto latino, come attesta la Tabula Veliterna59 (datata 338 circa a.C.) proveniente dal sito di un tempio volsco di Velletri. Sempre dai due centri citati derivano le poche testimonianze rinvenute riguardo il culto e la religione dei Volsci: il tempio dedicato alla Mater Matuta (dea delle partorienti) di Satrico e il Tempio volsco di Velletri dove fu rinvenuta l’iscrizione dedicata alla dea Declona. Si ricava da ciò il grande rispetto che i Volsci avevano per Madre Natura e gli elementi naturali ai quali si aggiunse l’assimilazione di alcune divinità venerate dai Latini60. Da quanto descritto, la presenza dei Volsci nel Lazio meridionale è sicuramente attestabile tra il VI ed il IV secolo a.C. La popolazione dovette profondamente integrarsi con quella locale se la maggior parte dei centri dell’area pontina e della Valle del Liri conservano nel loro patrimonio stori-co-culturale un loro forte riferimento, sia esso una vicenda storica, una leggenda o un toponimo, come il caso di Roccasecca dei Volsci61 o Castro dei Volsci62. Dovette avere un ruolo fondamentale anche nell’espansionismo romano poiché i vari conflitti bellici spinsero l’antica popolazione del Lazio centrale a migliorare la sua organizzazione mili-tare che successivamente la portò ad avere la meglio sui Sanniti e ad avere il predominio su tutta la penisola italica. Purtroppo poche sono le testimonianze riportate alla luce che ai Volsci possono essere attribuite con certezza cosicché restano ancora molti inter-rogativi su questo misterioso popolo. L’unico sito che potrebbe in futuro chiarire molti interrogativi è Satricum63, più volte citato, scoperto nel 1896, ma che dal 1985 è oggetto

57 L’accetta faceva parte di un corredo funerario databile al V secolo a.C. e appartenente probabilmente ad un bambino.58 COLONNA in AA.VV. 1990, p. 120.59 Rinvenuta nel 1784 la lamina di bronzo reca un testo giuridico-amministrativo, facente riferimento ad un bosco sacro della dea Declona ed alle norme che ne regolavano i modi di inviolabilità (dal sito del Museo Archeologico di Napoli).60 PAPI 2013, p. 28. Sangus/Sancus, ricordato da Livio nell’occupazione romana di Privernum nel 329 a.C., quando furono distrutte le mura della città; dio della semina, venerato a Velletri e a Priverno; Concluna, venerata a Velletri, dea o ninfa delle sorgenti; Giove-Anxur, venerato a Terracina; Feronia, dea della fecondità venerata a Terracina; Fortuna, divinità latina, ma ve-nerata anche dai Volsci; Deluentinus, venerata a Casinum,preposta a sciogliere le questioni complicate; Lua, dea dell’espiazione, venerata ad Anzio; KARENA, dea dalle stesse attribuzioni di Diana; Karios, ricordata in un’ iscrizione a Castrocielo, Frosinone; Circe, che la tradizione antica fissò nell’omonimo promontorio del Lazio; Mefite, dea purificatrice; Hercules, famoso per la sua forza, che alcune volte è annoverato fra gli dei, altre fra gli eroi; Marica, ninfa venerata alla foce del Garigliano; Mamerte, nome osco del dio della guerra, corrispondente al Marte dei Latini.61 Comune italiano della provincia di Latina. Dapprima Roccasecca, fu poi denominata “dei Volsci” con regio decreto il 3 ottobre 1972 a causa di un’omonimia (PAPI 2013). Il riferimento all’antico popolo italico è dovuto alla presenza di resti di mura in opera poligonale in località Vallinolo a loro attribuiti e alla vicinanza con la città di Priverno e alla leggenda della regina volsca Camilla. 62 Comune italiano della provincia di Frosinone. Il toponimo è composto da Castro che deriva dal termine latino castrum, luogo fortificato, e Volsci, in riferimento alla popolazione che si ritiene abbia fondato qui l’antico centro di Castriminium. Ai Volsci è attribuita la realizzazione dell’ampia cinta muraria realizzata in opera poligonale.63 Il sito archeologico di Borgo Le Ferriere (Latina) corrisponde all’antica città di fondazione volsca più volte citata nei testi nella guerra contro i Romani. La struttura più importante riportata alla luce nella parte centrale dell’Acropoli, probabilmente fulcro della vita religiosa, politica e amministrativa, è un tempio dedicato a Mater Matuta dea del mattino, del sorgere del sole, della vita che comincia quindi dea delle nascite e l’iscrizione su di una piccola accetta fondamentale per lo studio della lingua e alfabeto dei Volsci prima dell’influenza latina (si veda sopra).

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di scavi che stanno tentando di ricostruire le fasi della città preromana databile tra il V e IV secolo a.C.

Cartina storica con antica divisione del Lazio

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1.4. Osci (Cassandra Rita Russo)

Gli Osci o Oschi erano l’antica popolazione di origine indoeuropea stanziata nella Cam-pania pre-romana, il cui nucleo centrale corrispondeva pressappoco all’entroterra del Golfo di Napoli64. Secondo il Devoto, che riprese Tucidide, giunsero non dopo l’XI se-colo a.C. ed erano confinanti con il popolo degli Ausoni nella zona del Garigliano65. Si insediarono nella loro terra, detta Opicia (terra di lavoro) dai Greci, nei primi secoli del I millennio, sovrapponendosi probabilmente ad una preesistente popolazione. Si trova-rono quindi circondati da una serie di comunità con una tradizione linguistica indoeu-ropea tra cui quella dei Siculi, degli Enotri, degli Ausoni e dei Latini66. Spesso la loro denominazione viene associata per similitudine con quella di Opici, altre volte Osci e Opici vengono considerati come due popoli distinti. La questione filologica sull’assimilazione o distinzione tra i due è da sempre oggetto di studi e varie sono le ipotesi succedutesi nel tempo, questo anche a causa della tradizione storiografica non sempre coincidente. Tra le varie ipotesi una attribuisce la denominazione “Opici” (come Opicia) ai Greci i quali la utilizzavano per indicare proprio la popolazione osca67, un’altra ritiene che gli Opici fossero gli antichi abitanti della Campania e che il termine Osci (attraverso la tra-sformazione Obsci-Opsci) sia andato poi ad indicare la loro fusione con i Sanniti, un’al-tra ancora mette in relazione gli Opici con gli Ausoni68 e non con gli Osci69. È probabile che gli Opici fossero la popolazione proto latina stanziata nell’area in cui sopraggiunse-ro gli Osci quando vi migrarono. Possiamo affermare che quest’ultimi erano una delle popolazioni attestate e residenti nell’Italia meridionale nel VIII secolo a.C. (prima dei Sanniti), quando entrarono in contatto con i Greci. Nel suo studio sulla popolazione osca in Campania, Sosio Capasso afferma che varie sono state le ipotesi portate avanti sull’identificazione di tale popolazione ma le più re-centi scoperte archeologiche, nel territorio che si estende dal Volturno a Napoli, testi-moniano la sua presenza quando già ha subito l’influenza greca, etrusca e sannita. Inol-tre, come per i Volsci, non molto si sa degli Osci a causa del successivo inglobamento nell’area di espansione romana. Ciò rende veramente difficile risalire e approfondire la

64 CAPASSO 1997, p. 28. Il territorio doveva avere una superficie di forma pressappoco quadrangolare, che agli angoli aveva le città di Sessa Aurunca, Capua, Cuma e Napoli. Per uno studio approfondito sulle vie di comunicazione si veda E. Di Grazia, Le vie osche nell’agro aversano in Paesi ed uomini del tempo. Collana di studi diretta da Sosio Capasso, Aversa 1970.65 CAPASSO 1997, pp. 13 sgg. Gli Ausoni occupavano anche l’intero Lazio meridionale al di là del quale già nel X secolo erano i Latini.66 Capasso utilizza la metafora della mano aperta ponendo proprio la Campania e gli Opici al dito medio di questa mano ideale.67 “Per la spiegazione del termine Opici il Devoto cita le due forme usate dagli storici greci: Opik-es ed Opikoi, delle quali la prima è la più antica e la sua etimologia non ci è nota. Ma il termine latino Osci non corrisponderebbe a quello greco Opikoi”(CAPASSO, p. 13).68 Come decritto nel capitolo sugli Ausoni, Strabone ed Antioco ritenevano che si trattasse dello stesso popolo mentre Polibio ed Aristotele negavano la correlazione e li ritenevano due popoli distinti, stanziate in diverse aree territoriali. Il Beloch invece identifica gli Opsci con gli Aurunci e li considera come gli antichissimi abitanti della Campania.69 “Virgilio chiama Osci i più antichi (pretirreni) abitanti di Capua; Osci secondo Strabone sono gli abitanti di Ercolano e Pompei prima che Tirreni e Sanniti vi dominassero”. Per i romani invece gli Osci erano tutti coloro che parlavano la lingua osca.

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conoscenza dei primitivi insediamenti osci70. Era probabilmente una popolazione dedita all’agricoltura, all’allevamento e alla pesca, che viveva in capanne semi interrate ed era organizzata in villaggi con famiglie patriar-cali. Ogni famiglia viveva in autonomia e negli incontri i capifamiglia erano posti tutti sullo stesso livello non essendoci un capo71.L’unica figura attestata in tempi successivi nelle comunità osche è quella del meddix72, una sorta di giudice, di magistrato in quanto aveva potere nelle questioni giudiziarie (la funzione militare era presente ma meno accentuata rispetto al preator romano). Dai rinvenimenti, appartenenti prevalentemente a contesti funerari, apprendiamo che erano soliti inumare i loro morti in tombe a cassa di lastroni di tufo o di tegole. La ce-ramica che costituiva il corredo funebre del defunto era molto grezza e semplice. Per quanto riguarda la religione doveva legarsi, come altre popolazioni della stessa stirpe, al culto di Mater Matuta (dea protettrice delle nascite) e gli elementi naturali73. La loro organizzazione sociale ed economica, la loro arte e cultura dovettero poi evolversi a contatto con la popolazione greca ed etrusca che contribuirono così allo “sviluppo” dell’area74. Quando infatti i Greci giunsero sulla costa per fondare Cuma, gli Osci risultavano già insedia-ti sull’acropoli75. Molte città campane fanno ri-salire la loro fondazione alla popolazione osca come le famose Pompei ed Ercolano intorno al VI secolo a.C. Nel V secolo furono sottomessi ai Sanniti e dopo le sconfitte subite da quest’ultimi contro i Romani nelle guerre sannitiche, furono inglo-bati nell’area di espansione dei futuri domina-tori della penisola.La lingua parlata era l’osco, appartenente al ceppo osco-umbro76. Moltissime sono state

70 CAPASSO 1997, p. 25.71 Su queste considerazioni S. Capasso si rifà a precedenti studi di Don Gaetano Capasso.72 Presso i Sanniti è attestata la figura del meddix tuticus capo del Touto, lo Stato sannita. La carica veniva eletta annualmente ed aveva potere in ambito amministrativo, militare e religioso. Accanto a questa vi erano i meddices minori che erano a capo di pagi o che svolgevano funzioni minori.73 Tra le divinità osche Herentas corrispondente di Venere, Giove Flagius nella triade con Daniusa e Vesuna, Mamerte il Marte latino, Fisu e Cerere (da CAPASSO 1997, pp. 29-30). 74 CAPASSO 1997 p. 12.75 DEVOTO 1951: “ L’estensioni delle federazioni osche può essere misurata solo con dati indiretti, come le monete, la distri-buzione delle colonie romane, l’atteggiamento delle singole città verso i Romani. La federazione di Capua doveva comprendere così le città di Capua, Atella, Calatia, Velecha, Volturno, Literno, Cuma e Pozzuoli strappate ai Greci, Casilino, Acerra, Suessu-la,e, al di là del Volturno, gli agri Falerno e Stellate. In tutto, secondo i calcoli del Beloch, 1150 kmq. Le altre due federazioni si trovano ad oriente di quella di Capua. Nola e Abella fra il Monte Taburno e il Vesuvio. Nocera, a mezzogiorno della precedente, comprendeva Pompei, Stabia, Sorrento ed Ercolano. La colonia greca di Napoli era circondata strettamente da città e da terri-torio oschi e, nonostante avesse ospitato i fuggiaschi di Cuma, entrò in rapporti strettissimi con l’elemento osco”.76 Il ceppo linguistico “osco-umbro” fa parte delle lingue indoeuropee parlate anticamente nell’Italia centro-meridionale e comprende oltre a queste due lingue anche dialetti minori come volsco, vestino, marruccino, pelino.

Mater Matuta

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le iscrizioni rinvenute in questa lingua77 in Italia meridionale, circa 200 tra cui alcune datate molto tardi, al I secolo d.C.78. Successivamente i Romani riuscirono ad imporre l’uso ufficiale del latino causando così la decadenza della lingua osca. La “diffusione lin-guistica”79 a cui comunque fu soggetta, si estese oltre i confini territoriali entro i quali solitamente la popolazione viene iscritta poiché fu adottata dai Sanniti e dalle genti loro affini, dal Molise al Golfo di Napoli, dalla Maiella al Golfo di Taranto, sino alla Lucania, al Bruzio e anche a Messina80. Ciò attesta come, a discapito della popolazione stessa e di altre lingue simili, l’osco si sia fortemente radicato in altre culture e abbia avuto fortuna anche in tempi molto tardi. Tra le iscrizioni più importanti in lingua osca ricordiamo il Cippus Abellanus81, la Ta-bulae Bantinae82, la Tavola di Agnone83 le Fabulae Atellanae (componimenti teatrali di sapore farsesco che divennero un genere comico della letteratura latina84), chiamate così da Romani, da loro conosciute dopo le guerre sannitiche e recitate sino ai tempi di Au-gusto. La denominazione dei componimenti deriva dalla città osca di Atella distrutta e purtroppo non ancora riportata alla luce.Atella era posta a cavallo fra Aversa e Afragola, dove oggi ci sono ancora resti della via Atellana. Livio pone la sua fondazione tra VI e V secolo a.C., in concomitanza con l’in-vasione etrusca della Campania, anche se sicuramente il sito doveva essere già occupato da un insediamento osco. La città acquistò importanza in seguito alla colonizzazione greca quando divenne un crocevia di scambi commerciali. La sua storia durante le guer-re sannitiche e puniche risulta essere profondamente legata a quella della città di Capua85 essendone alleata.Anche Capua, come attestano le fonti (Strabone), è una città di fondazione etrusca. Si-curamente anche in questo caso gli Etruschi dovettero insediarsi su di un nucleo osco, portando la fondazione delle città almeno al VII-VI secolo a.C.. Gli Etruschi fondarono o rifondarono nel territorio campano degli Osci ben dodici città e fecero di Capua la capitale della lega che venne a formarsi. L’area fu oggetto di mire espansionistiche da parte dei Sanniti nel corso del IV secolo a.C. poiché i Campani erano intervenuti contro di loro in difesa dei Sidicini. Capua chiese aiuto a Roma che era inizialmente restia ad

77 Tre sono gli alfabeti con i quali è scritta la lingua osca: quello nazionale, derivato dall’etrusco-campano, ma notevolmente modificato, quello latino e quello greco. Si veda CAPASSO 1997, p. 35.78 A Pompei fino all’età della repubblica veniva parlata la lingua osca della quale si conservano delle iscrizioni su facciate di case ed edifici.79 “Il problema per tale lingua è stato per lungo volgere di tempo quanto mai arduo per gli studiosi, in quanto essi si chiede-vano se l’osco era stato introdotto in Campania e Lucania solamente nel V secolo, a seguito della conquista sannita, o era stato da epoche immemorabili la parlata autoctona di queste regioni. Rinvenimenti epigrafici piuttosto recenti e soprattutto una mo-neta preziosissima conservata al British Museum costituiscono rara testimonianza del passaggio di un popolo antichissimo” 80 CAPASSO 1997, p. 33.81 Il cippo datato al II secolo a.C. e conservato presso Nola, reca iscritto un trattato tra le città di Abella e Nola per l’utilizzo comune del santuario dedicato ad Ercole.82 La Tabula, conservata presso il Museo Archeologico di Napoli e riportata alla luce in due momenti, un frammento nel 1790 ed un secondo nel 1967, è una lastra in bronzo incisa su entrambe le facciate recante la legge municipale della città di Ban-tia. Gli studi effettuati hanno constatato che il testo in osco trascritto in latino, sia stato apposto su una precedente iscrizione in latino e adattato. La presenza di un foro sul secondo frammento lascia supporre che fosse affissa su di un muro. 83 La Tavola di Agnone, conservata al British Museum di Londra, è una tavoletta di bronzo munita di maniglia ed incisa su entrambe le facciate. L’iscrizione fa riferimento ad un recinto sacro del bosco di Agnone dedicato alla dea Cerere, ai rituali che si svolgevano all’interno, al santuario e alle altre divinità in esso venerate.84 CAPASSO 1997, p. 52.85 Molti sono gli studi portati avanti che attestano la correlazione tra il nome di Capua e quello di Campania, sottolineando così l’importanza della città nel territorio. Per una sintetica trattazione si veda CAPASSO 1997, pp 15-17.

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intervenire86. Decise poi di dichiarare guerra ai Sanniti dando avvio alla prima guerra del conflitto romano-sannita.Dopo una prima sconfitta subita nel 343, nel 338 la città campana decide di allearsi a Roma. Entrò a far parte del suo territorio come civitas sine suffragio, priva del diritto di voto ma con la possibilità di mantenere le proprie tradizioni87. Durante la seconda guerra punica Capua, con Atella ed altre città campane, si schierò dalla parte dei cartaginesi divenendo un avamposto per Annibale ed il suo esercito. La vittoria romana e la fuga di Annibale nel 211 a.C. sancirono l’egemonia romana in Cam-pania e dal quel momento il territorio fu strettamente collegato alle vicende che caratte-rizzarono la storia di Roma.

86 Un precedente trattato del 354 a.C. sanciva il confine di espansione tra Romani e Sanniti nel fiume Liri.87 Per i successivi avvenimenti del conflitto romano-sannita si veda capitolo 1.5 Sanniti.

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1.5. Sanniti(Chiara Casale)

L’ origine dei SannitiSull’origine del nome dei Sanniti (e dei Sabini) si è soffermata l’attenzione degli studiosi moderni. Come spesso accade, le opinioni sono discordanti e legate alla possibilità o meno di presupporre un’origine genetica comune dei due etnici. Chiara appare la con-nessione tra la denominazione osca e quella latina (si veda sopra), e altrettanto evidente appare la derivazione di tutte queste forme da una comune radice *sabh-, alla quale si collega l’etnico Sabelli, affermatosi nelle fonti romane in un’accezione che sembra inclu-dere Sanniti e Sabini.88 In realtà, sulla base dei dati linguistici, si evince che le popolazioni che oggi nominiamo, grazie alla tradizione greca e latina, Sanniti e Sabini, in termini di auto identificazione e auto denominazione etnica, utilizzavano il medesimo nome. La distinzione tra i due popoli riflette solamente la diversità di ambito cronologico e geo-grafico in cui è venuto maturando il loro rapporto con il mondo greco e latino, ma non avvertita in alcun modo da quelle stesse popolazioni.89

Per quanto riguarda l’origine dei Sanniti si è sviluppato tutto un complesso di tradizioni di matrice greca, romana e italica teso a spiegare proprio la genesi dell’intero popolo e delle singole località del Sannio. Secondo la tradizione più accreditata i Sanniti sarebbero stati originari della Sabina e la loro migrazione si sarebbe realizzata nelle forme rituali del ver sacrum90 ( primavera sacra). A dare testimonianza di questo avvenimento è Stra-bone che riporta in maniera dettagliata l’avvenimento.91 Della tradizione del ver sacrum rimane eco anche in ambiente erudito e antiquario ro-mano, in particolare in un passo di Festo (p. 436 L): la versione tramandata dall’autore romano conferma l’origine sabina dei Sanniti ma si configura come una variante della precedente. Secondo Festo infatti i migranti sarebbero stati guidati non da un toro ma da un dux, Cominius Castronius, presso il collis Samnius, località dalla quale il popolo avrebbe tratto il proprio nome. Al di la delle interpretazioni rituali che viene fatta, è pro-babile che le tradizioni relative al ver sacrum dei Sabini/Sanniti tramandino soprattutto il ricordo di effettivi movimenti di popolazione, alla cui origine potrebbero esserci fattori legati ad una debolezza del sistema sociale locale (carestie), ma anche di forza ( l’ecces-

88 Per approfondimenti si veda E. Dench, From Barbarians to New Men, Oxford 1995.89 TAGLIAMONTE 1996, p. 12 e sgg.90 Il ver sacrum consiste nella dedica fatta ad una divinità, solitamente Marte/ Ares, di tutti gli esseri viventi nati o nascenti in un determinato anno. I giovani, giunti a maturità, erano costretti, in sostituzione del più antico uso del sacrificio umano, ad abbandonare la comunità di appartenenza e a dirigersi alla ricerca di nuove sedi sotto l’insegna totemica di un animale sacro, al cui nome si ricollegava spesso quello del gruppo emigrato o il nome della nuova comunità costituitasi. In qualche caso a guidare la migrazione non è un animale sacro ma un dux, un condottiero. 91 Strab., V, 4,12: “ Riguardo ai Sanniti circola anche una tradizione secondo la quale i Sabini, impegnati da molto tempo in una guerra contro gli Umbri, fecero voto di consacrare agli dei tutto ciò che sarebbe nato in quell’anno. Conseguita la vittoria, parte ne immolarono, parte consacrarono; ma scoppiata una carestia qualcuno disse che bisognava consacrare anche i figli. Così fecero e consacrarono ad Ares i figli nati durante l’anno e, divenuti questi adulti, li inviarono a fondare una colonia; fece da guida un toro. Poiché il toro si fermò a dormire nel paese degli Opici, li scacciarono e si stabilirono sul posto e sacrificarono il toro, secondo le indicazioni degli indovini, ad Ares, cho lo aveva doto come guida. Probabilmente per questo ricevettero il nome di Sabelli, diminutivo di quello dei loro padri”

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siva popolosità, la vittoria in guerra), tutti elementi tali da renderli in qualche modo assimilabili a fatti di colonizzazione.Dalla lettura del già citato passo di Strabone (V, 4,12), emerge anche un’altra versione sull’origine dei Sanniti, che li lega ai Lucani o addirittura agli Spartani.92 La teoria di una convivenza tra Sanniti, Lucani e Spartani trova riscontro anche in un passo di Giustino (20, I) dipendente da una fonte di IV sec. a.C., probabilmente Timeo o Teopompo di Chio. 93 In effetti il tema dell’origine spartana dei Sanniti è parte integrante di un filone della tradizione antica tendente a collegare Taranto alle popolazioni centro meridionali dell’Italia, attraverso il richiamo proprio al modello spartano, in un contesto cronologico legato al pieno IV sec. a.C. Sul piano ideologico, la politica di apertura tarantina verso il mondo italico si traduce in un insieme di tradizioni volte a evidenziare i legami tra la pòlis e gli Italici: esse non passano solo attraverso l’affermazione di un’origine spartana, ma anche attraverso un’in-terpretazione laconica dei loro usi e istituzioni, l’esaltazione del loro stile di vita. Le leg-gende legate alla presenza spartana nel Sannio e sull’esistenza di una comunità locale che traeva la sua denominazione da uno dei più importanti e antichi distretti di Sparta, cioè Pitanati/ Pitani, trovano riscontro nella documentazione numismatica. Sono state rinve-nute infatti oboli d’argento a leggenda greca PERIPOLWN PITANATAN interconnesse iconograficamente ( Ercole che strozza il leone Nemeo) a tipi tarantini.94 L’etnico Pitanati loro attribuito rivela verosimilmente la volontà di sottolineare i presunti legami dei San-niti con Sparta e, conseguentemente, con Taranto.

Il territorio e le comunitàIl popolo sannita propriamente detto era formato dall’unione di quattro comunità: i Pen-tri, i Carracini, i Caudini e gli Irpini. In seguito, forse con la nascita della Lega Sannitica come organismo di coordinamento militare già dal V sec. a.C., altre comunità stanzianti nell’Italia centrale si unirono ad esse, e tra queste i Frentani.La comunità che costituiva il cuore del popolo sannita era quella dei Pentri95, che popo-lavano il centro del Sannio nel territorio compreso tra la catena montuosa delle Mainar-de a nord e il massiccio del Matese e le sue propaggini a sud. La stessa radice del nome racchiude l’idea di “gente delle alture”:  il termine è chiaramente legato all’eponimo pen, originariamente osco, ma che si ritrova in tutto il gruppo italico (sabino-sabellico-san-nita e poi piceno e lucano) e nel celtico, divenendo quindi un calco semantico indoeu-ropeo. Nel vocabolario indoeuropeo indica sempre la sommità e il luogo più alto. In tal senso indica la vetta e la sommità del Matese, l’antico Tifernus. I Pentri costituivano la

92 Strab., V, 4,12: “ Il nome Sanniti, per i Greci Sauniti, ha un’ altra origine. Alcuni autori dicono che si unirono ad essi alcuni oloni della Lucania; ciò spiegherebbe il loro filoellenismo e il fatto che alcuni si chiamano anche Pitanati. Ma pare che questa storia sia invenzione dei Tarantini che volevano lusingare e insieme rendersi amici questi vicini assai potenti che allora erano in grado di mette in campo ottantamila fanti e ottantamila cavallieri….”93 Gius. 20, I: il passo si riferisce ad eventi bellici e militari determinati dall’intervento di Dionisio I di Siracusa in Italia e pare presupporre una nozione di origine greco- laconica dei Sanniti e degli altri popoli dell’Italia centromeridionale, inclusi dall’autore in un non casuale accostamento con Taranto, in un elenco di città e genti della penisola che preserverebbero vestigia Graeci moris. 94 TAGLIAMONTE 1996, p. 28. L’emissione di questi oboli di peso campano, destinati ad un uso lacale, e databili agli ultimi decenni del IV sec. a.C., probabilmente si riferisce all’esistenza di contingenti mercenari di origine sannitica, ingaggiati e sti-pendiati da Taranto.95 DEVOTO 1951, p. 235 e sgg.

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spina dorsale dell’intera nazione sannita tant’è che, nell’ultimo periodo delle guerre con-tro Roma, ressero quasi da soli l’urto degli eserciti consolare che si infrangevano contro le difese occidentali del Sannio. I Carricini96 erano la comunità situata più a nord, stanziata nei territori meridionali dei monti della Maiella ai confini con i Pentri e i Marrucini. Il nome sembra derivare da una radice linguistica indoeuropea che stava ad indicare un territorio roccioso e bo-scoso. Nelle fonti si trovano anche le denominazioni di Caraceni, Carecini  e altre, che tuttavia derivano probabilmente da corruzioni del nome originario. Il popolo carricino si divideva in due gruppi: i Carricini supernates, che occupavano la parte settentrionale della loro regione ed avevano come centro principale la città di Juvanum (i cui resti sono visibili nel territorio tra i comuni di Torricella Peligna e Montenerodomo) e i Carricini infernates, nella parte meridionale, il cui centro principale era Cluviae (le cui rovine sono state identificate con quelle rinvenute a Piano Laroma, frazione del comune di Casoli).I Caudini97 erano i più occidentali e quindi i più esposti all’influsso degli usi e tradizio-ni della civiltà greca stanziatasi nelle terre della Campania. Essi vivevano nel territorio compreso tra le montagne che delimitano la Pianura Campana, il Monte Taburno e i Monti Trebulani, nella valle del fiume Isclero e lungo il tratto centrale del Volturno, ba-gnato dal Sabato e dal Calore, suoi affluenti.Gli Irpini98 abitavano la parte meridionale del Sannio, nel territorio delimitato dalle vallate dell’Ofanto, del Calore e del Sabbati. Erano stanziati lungo la catena dei monti Picentini, in un’area coincidente approssimativamente con l’odierna Irpinia; all’estremo nordoccidentale del loro territorio sorgeva Maleventum, città di fondazione osca (l’odier-na Benevento). Come i Caudini, anch’essi furono fortemente influenzati dalla tradizione della vicina civiltà della Magna Grecia. Gli Irpini erano chiamati uomini- lupo ed il loro nome deriva proprio da hirpus che in osco significa appunto “lupo”, legato al loro anima-le totemico e alla tradizione del ver sacrum. I Frentani99 abitavano le terre di pianura che dalle falde appenniniche del Sannio arri-vavano fino al mar Adriatico, tra i territori dei Marrucini a nord ad i Dauni a sud: erano questi i territori più orientali posti sotto il controllo sannita e si estendevano per una fascia di circa 20 chilometri dalla costa verso l’interno. La maggior parte dei Frenta-ni era per lo più dedita alla pastorizia e all’agricoltura ed erano in prevalenza stanziati verso l’entroterra. L’etnonimo “Frentani” non è di origine osco-umbra, ed è quindi stato assunto sul posto dal popolo al momento dell’insediamento, se endoetnonimo, o utiliz-zato per riferirsi a esso conservando un termine più antico, se esoetnonimo. “Frentani”, da *Frentrani, deriva da Frentrum, il nome locale della loro capitale.  Inoltre, Frentum è il nome antico del fiume Fortore, che in seguito segnò i confini meridionali della regione.La storia dei Sanniti 100

Solo a partire dal 354 a.C., grazie alle testimonianze letterarie, in particolare Tito Livio,

96 DEVOTO 1951; per approfondimenti si veda A.La Regina, Cluviae e il territorio Carecino, in Rendiconti della Classe di scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia Nazionale dei Lincei, vol. XXII (1967), pp. 87-99.97 DEVOTO 1951, p. p 158 e sgg.98 DEVOTO 1951, p.136 e sgg.99 DEVOTO 1951, p.208 e sgg.100 Per approfondimenti si veda: GERACI- MARCONE 2011, GABBA et al. 1999, TAGLIAMONTE 1996.

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è possibile seguire con una certa continuità le vicende storiche dei Sanniti fino al dram-matico epilogo rappresentato dagli eventi successivi alla sconfitta di Porta Collina nell’82 a.C. quando si perdono le tracce di questa popolazione. Il resoconto della loro storia tra la metà del IV e il primo decennio del III sec. a.C. coinci-de con quello delle tre guerre combattute, secondo la tradizione, contro Roma (le guerre sannitiche). Tutto ciò che di questi eventi conosciamo ci è noto dal racconto di fonte annalistica romana conservato in Tito Livio (Ad urbe condita, libri VII- X) e in Diodoro Siculo (libri XIX- XXI). Quello che ci è tramandato è, quindi, la versione del vincitore, la versione romana dei fatti, mentre non abbiamo nulla per quello che riguarda una versio-ne propriamente sannitica. Non si può non evidenziare, soprattutto nelle pagine di Livio, la tendenza ad enfatizzare oltre misura i successi dei romani e, viceversa, di minimizzare od addirittura omettere quelli che vedono come protagonisti i Sanniti. In realtà, anche se non lontanissime, le vicende delle guerre sannitiche si collocano in un periodo cronolo-gico di poco anteriore alla storiografia di tradizione romana, e lo stesso Livio sottolinea come non vi sia nessuna fonte contemporanea agli eventi bellici sulla quale ci si possa fondare. La ricostruzione che gli storici antichi propongono è fatta di tutta una serie di elementi dovuti al carattere e alla stratificazione della tradizione stessa. I Sanniti fanno il loro ingresso nella storia nel 354 a.C., in occasione del trattato di alle-anza stipulato con i Romani, attraverso il quale i Sanniti stessi divennero amici et socii di questi ultimi. Le ragioni di tale accordo vanno ricercate nella necessità di definire i limiti delle rispettive zone di influenza e di espansione territoriale nel momento in cui queste venivano a contatto. Nel 343 a.C. i Sanniti assalirono i Sidicini che, allarmati dall’azione sannita, chiesero aiuto ai Campani. Questi ultimi a loro volta assediati dai Sanniti, si rivolsero e chiesero prote-zione ai Romani che, in maniera diplomatica, chiesero ai Sanniti stessi di recedere dai loro attacchi contro i Campani, per assicurarsi il controllo su Capua. L’appello romano rimase inascoltato e ciò determinò lo scoppio della cosiddetta prima guerra sannitica (343- 341 a. C.). le vicende belliche che seguirono ci sono tramandate in maniera poco chiara e confusa: si può solo dire che si svolsero nella pianura campana e nei territori limitrofi della fascia occidentale del Sannio e che si conclusero con il controllo dell’intera area sidicina da parte dei Sanniti e con la rinuncia alle loro mire espansionistiche sulla vicina città di Capua. Ter-minate le ostilità, inoltre, si ebbe il rinnovamento del trattato tra Sanniti e Romani stipulato dieci anni prima e la possibilità per Roma di celebrare a Roma un grandioso trionfo.Durante la guerra latina (340- 338 a.C.) i Sanniti, in virtù del rinnovo del trattato di al-leanza con Roma, ottennero il permesso di riprendere le ostilità con i Sidicini e furono di fatto al fianco dei Romani, combattendo uniti contro la coalizione latino- campana. Gli anni successivi a questi eventi videro Roma impegnata a consolidare e a rafforzare le proprie posizioni nel Lazio meridionale e nella Campania settentrionale e, allo stesso tempo, a erigere gradualmente una vera e propria barriera di contenimento dei Sanniti da ovest a sud. In questa prospettiva si legano lo scioglimento della Lega Latina e la concessione della civitas sine suffragio ai Campani e alle comunità volsche più meridio-nali. Negli stessi anni si ha la notizia di attacchi portati avanti dai Sanniti nei confronti dei Lucani, attacchi che avrebbero condotto questi ultimi a chiedere aiuto e a stringere trattati di alleanza con i Romani nel 330 e nel 328 a.C. Fu in questo clima di crescente tensione che maturarono i presupposti per lo scoppio della cosiddetta seconda guerra

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sannitica ( 326-304 a.C.). Il conflitto venne di fatto determinato dai Romani con la fon-dazione della colonia di Fregellae (328 a.C.) al di là del corso del fiume Liri, nella zona di egemonia sannitica. Dopo le vittorie del 322 a.C. sui Sanniti e sugli Apuli, le legioni romane guidate dai consoli T. Veturio Calvino e Sp. Postumio Albino, furono circondate e costrette ad un’umiliante resa nella gola tra Santa Maria a Vico e Arpaia, le Furculea caudinae (Liv. IX. 11-14). Principale artefice della vittoria sannitica fu il caudino Gaius Pontius, imperator Samnitium. Le condizioni di pace dettate dai Sanniti prevedevano la ritirata dei Romani dai territori sannitici e l’abbandono delle colonie latine fondate ai confini del Sannio. Per un quinquennio la guerra venne sospesa con l’affermazione del predominio sannitico sulle regioni. La seconda fase del conflitto però riprese nel 316 a.C., con uno scenario notevolmente più ampio, allargato a tutto il Sannio e alla Puglia. Nel corso del conflitto varie altre popolazioni scesero in campo al fianco dei Sanniti: Nolani, Aurunci, Campani, Etruschi, Ernici (per ricordarne alcuni). Quest’ampia alle-anza ebbe una schiacciante vittoria nel 315 a.C. presso il passo di Lautulae sugli eserciti romani guidati dal dittatore Quinto Fabio Massimo Rulliano e Quinto Aulo Cerretano. Le fonti a riguardo tramandano un esito altresì incerto e poco chiaro. Secondo alcuni studiosi Lautulae va identificata con una località costiera poco a levante di Terracina, e cioè col cosiddetto Canneto di Campagna. Sgorgano qui quattro sorgenti (donde il nome Lautulae che significa appunto “luogo con fontane”) e qui presso, per chi veniva dalla Campania prima della “correzione” litoranea traianea, era il punto più agevole di salita a “Piazza Palatina” e a Monte S. Angelo dove la strada discendeva poi a Terracina alta. L’i-dentificazione è obiettata da Giovanni Colasanti, il quale, sulla base di un approfondito esame dei passi di Livio, colloca Lautulae tra Fondi e Vallecorsa, in un passo tra i monti a nord di Fondi, e precisamente al “Passo delle Querce” presso la località detta Acquaviva, tra il monte Nibbio e il monte Calvo; il passo è anche in comunicazione con la valle del Sacco (l’antico Trerus), per la quale i Romani erano soliti comunicare con la Campania prima della costruzione della Via Appia ( 314-312 a. C.). In realtà, grazie al rinvenimento di cartografie antiche, allo studio del passo di Livio (Liv. IX, 25)101 e alla notizia riportata da Giuseppe del Re nel suo “Descrizione topografica fisica, economica politica de reali domini al di qua del faro nel regno delle due Sicilie” del 1830, con riferimento a Lautulae definito come “sito di transito tra Portella e Terracina”, verosimilmente si può ipotizzare l’identificazione di Lautulae nella zona nei pressi della Torre di Portella nel territorio di Monte San Biagio. 102

101 Liv., IX, 25 “I consoli, partiti da Sora, portarono la guerra nel territorio e nelle città degli Ausoni. Infatti con l’arrivo dei Sanniti quando si era combattuto presso Lautulae, tutto si era messo in moto, ed in giro ovunque in Campania ci furono cospirazioni, né Capua stessa fu esente da sospetto; che anche a Roma si arrivò perfino ad un inizio di inchieste. La gente degli altri Ausoni venne in potere (dei Romani) per il tradimento delle loro stesse città, come nell’episodio di Sora. Ausona, Mintur-nae e Vescia erano le città dalle quali i giovani più importanti, in numero di dodici, congiurati a tradire le loro città, vennero dai consoli. Spiegano che i loro concittadini già da prima desiderando la venuta dei Sanniti, come seppero che c’era stata bat-taglia a Lautulae, ritennero i Romani vinti, e aiutarono con soldati ed armi i Sanniti; spiegavano che messi invece i Sanniti in fuga, conducevano una pace incerta, non chiudendo le porte ai Romani, per non farsi dichiarare guerra, sicuri di chiuderle se l’esercito si fosse avvicinato; in questa incertezza degli animi potevano essere vinti mentre non erano accorti. Su loro proposta, l’accampamento fu spostato più vicino, e nello stesso tempo intorno alle tre città furono mandati soldati: una parte armati che nascosti minacciassero i luoghi vicini alle mura, una parte vestiti con toga con i gladi coperti dalle vesti che entrassero in città la mattina all’apertura delle porte. Questi allo stesso tempo iniziarono a trucidare i custodi, e allo stesso tempo fu dato un se-gnale agli armati perché accorressero dai nascondigli. Così le porte furono occupate e le tre città, nella stessa ora e con lo stesso stratagemma furono catturate; ma poiché l’attacco fu portato in assenza dei condottieri, non ci fu nessuna misura nelle stragi e la gente degli Ausoni fu distrutta, per un crimine di defezione a malapena certo, come se avesse combattuto strenuamente in guerra”.102 DE BONIS A. – DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 23 e sgg.

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Secondo Livio, i Romani, ripresisi e incoraggiati da Fabio Massimo, vinsero poco tempo dopo la battaglia a Lautulae appiccando il fuoco a parte del proprio accampamento per motivarsi a non perdere; i rinforzi giunti da Roma guidati da Gaio Fabio contribuirono al colpo di grazia sull’esercito sannita. A questo secondo scontro non crede parte della tradizione moderna, che giudica la vittoria di Fabio Rulliano “inventata di sana pianta, come mostra il silenzio eloquente delle fonti migliori”. Un’altra spiegazione è che gli antichi storici abbiano minimizzato l’accaduto per non aggiungere un’altra sconfitta a quella già subita alle forche Caudine: la gens Fabia, a cui il dittatore apparteneva, era tra l’altro una delle più importanti, ricche e rispettate a Roma. Le operazioni militari si conclusero, infine, nel 305 a.C. con la conquista di Bovianum, centro principale dei Pentri, e la cattura del comandante sannita Statius. Il trattato di pace che seguì comportò per i Sanniti il rinnovo delle antiche alleanze e la perdita di tutte le posizioni fino ad allora conquistate nella valle del Liri, e in via definitiva, la possibilità di un’espansione verso la Campania. Stando alle fonti, però, la tregua pattuita tra Roma e Sanniti non durò molto, e già nel 299 a.C., mentre Roma era impegnata a fronteggiare le incursioni dei Galli Senoni, si registrò l’episodio che rappresentò il casus belli per lo scoppio della cosiddetta terza guerra sannitica (298- 290 a.C.). Proprio in quell’anno, infatti, i Sanniti assalirono i vicini Lucani che, allarmati, si posero sotto la protezione di Roma, stipulando e rinnovando un trattato di alleanza.103 Il conflitto, che vide affianco dei Sanniti un’ampia coalizione di popolazioni italiche, si estese dalla Puglia alla Toscana e nel 295 a.C. gli alleati riuscirono a sconfiggere per breve tempo le truppe romane a Camerino. Successivamente, però, a Sentino vennero sconfitti, anche per il tradimento di alcuni abitanti della città di Chiusi che svelarono i piani della coalizione sannita. La coalizione antiromana si infranse e i Ramni procedettero, nel 290 a.C., alla sottomissioni dei singoli popoli ribelli. I Sanniti furono costretti a rinnovare per la quarta volta il trat-tato di pace con Roma, con ingenti perdite territoriali. L’alleanza con Roma non impedì ai Sanniti di riprendere le ostilità contro di essa e, dalle notizie frammentarie che disponiamo per il periodo, sembra di poter dire che segni di ripresa del conflitto si ebbero già a partire dal 284 a.C. con un protrarsi delle ostilità fino al 272 a.C. Il momento cruciale dello scontro si ebbe con l’arrivo di Pirro, re dell’Epiro, in Italia, intervenuto in aiuto dei Tarantini, nel 280 a.C.: anche i Sanniti si schierarono al fianco del re epirota contro Roma. Lo stesso Livio ricorda Caudini ed Irpini tra le schiere degli alleati antiromani. Dopo la vittoria romana di Malventum del 275 a.C., e la successiva partenza di Pirro dall’Italia, i Sanniti e le altre popolazioni della stirpe italica furono esposte alla dura repressione dei Romani: i provvedimenti punitivi avevano come unico scopo la completa disarticolazione e destrutturazione del mondo sannitico. Obiettivo dichiarato della politica romana era quello dell’isolamento e dell’accerchiamento delle tribù più ostili del Sannio interno e, con la deduzione della colonia di Aesernia nel 263 a.C., Roma si assicurò poi il controllo del confine con i Pentri.

103 I primi avvii della guerra sono documentati dall’epigrafe dell’Elogio funebre di Scipione Barbato ( CIL I2 6; 7) “Cornelius Lucius Scipio Barbatus Gnaivod Patre prognatus fortis vir sapiensque quoius forma virtutei parisuma fuit consol censor aidilis quei fuit apud vos Taurasia Cisauna Samnio cepit subigit omne Loucanam opsidesque abdoucit. “Lucio Cornelio Scipione Bar-bato, generato dal padre Gneo, uomo forte e sapiente, il cui aspetto fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi. Prese Taurasia, Cisauna e Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne portò via ostaggi”.

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Nei decenni successivi i Sanniti sembrano costretti a una pax necessaria con Roma, du-rata circa un cinquantennio. Ma nel 218 a.C. con lo scoppio della seconda guerra punica, il mondo italico fu nuovamente attraversato da inquietudini e tensioni che di li a poco avrebbe portato molti socii a defezionare dall’alleanza con Roma. Durante i primi anni del conflitto, i Sanniti si mantennero fedeli a Roma e subirono devastazioni e saccheggi da parte dell’esercito cartaginese, ma si resero anche protagonisti di episodi di gran va-lore, come nel 217 a.C. quando l’esercito sannita guidato da Numerius Decitius salvò i Romani presso Gereonium da sicura disfatta. La situazione mutò dopo la rovinosa disfat-ta di Canne del 216 a.C., quando la fedeltà degli alleati iniziò a vacillare, come riportato da Livio ( 22. 61. 10). Molte delle popolazioni italiche passarono dalla parte di Annibale e, probabilmente tra i Sanniti, i soli Pentri, i Carricini e parte della comunità caudina rimasero fedeli a Roma. A conclusione del conflitto, nel 201 a.C., i provvedimenti presi dai Romani vincitori non pregiudicarono lo status di autonomia locale di quella parte dei Sanniti rimasti al fianco di Roma. A differenza degli avvenimenti del IV e del III sec. a.C., le frammentarie notizie che le fonti letterarie tramandano sulla storia dei Sanniti nel corso del II sec. a.C. lasciano molti punti interrogativi sullo sviluppo storico del popolo. Molte notizie si riferisco a movi-menti migratori ascrivibili a fattori di carattere politico, socio- economico e culturale, che portarono a forti cambiamenti all’interno del sostrato italico. Questi cambiamenti e queste trasformazioni delle strutture sociali ed economiche italiche accentuarono nel II sec. a.C. determinando un ulteriore accrescimento della situazione di disagio e di tensio-ne sociale. la riforma graccana cercò in qualche modo di fronteggiare alcuni aspetti della crisi arginando i diffusi fenomeni di abuso nell’occupazione dell’ager publicus Romano da parte dei privati. Essa interessò direttamente il Sannio come operazioni di delimita-zione e divisione dei terreni effettuate in esecuzione della lex Sempronia nel 130 a.C. e nel 129 a.C. Le operazioni lasciavano esclusi i socii dalle operazioni di distribuzione delle terre in quanto privi della cittadinanza romana e ciò contribuì ad accentuare e ad alimen-tare la tensione antiromana. È in questo clima che si fece strada tra i ceti elevati dei socii italici l’idea che l’unico mezzo per stabilire un più paritetico rapporto con i Romani fosse l’ottenimento della cittadinanza. In tale contesto maturarono gli avvenimenti che di li a poco avrebbero portato allo scoppio della guerra sociale ( bellum sociale), episodio che rappresenta l’ultima pagina della storia dei Sanniti. Il bellum sociale fu promosso dai membri dell’aristocrazie italiche al fine di conseguire con la forza quella parità politica e giuridica con la classe dirigente romana. L’episodio che segnò l’inizio del conflitto si ebbe sul finire del 91 a.C., e fu costituito dai sangui-nosi avvenimenti che portarono, ad Asculum, all’uccisione di un magistrato e di molti cittadini romani. Nel corso del conflitto i Sanniti ebbero, ancora una volta, un ruolo di primo piano, con l’intero territorio del Sannio coinvolto nelle alterne e sanguinose vicende militari. Nell’89 a.C. si registro il cambiamento della capitale degli insorti da Corfinium a Bovianum e poi, dopo la caduta di quest’ultima, ad Aesernia. Il conflitto era ormai al termine e con una serie di provvedimenti legislativi104, nell’87 a.C. Roma accolse le richieste degli Italici, svuotando progressivamente di significato il conflitto, e anche i Sanniti ricevettero la cittadinanza di pieno diritto.

104 Lex Iulia del 90 a.C., Lex Calpurnia del 90- 89 a.C., Lex Plautia Papiria dell’89 a.C.

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Deposte le armi, i Sanniti le ripresero pochi anni più tardi, quando furono coinvolti nella guerra scoppiata al ritorno di Silla dall’Oriente nell’83 a.C., schierandosi al fianco dei mariani. Le truppe furono sconfitte nell’82 a.C. dapprima presso Sacriportus ( pres-so Preneste), poi nella decisiva battaglia di Porta Collina. I Sanniti furono sottoposti alla durissima repressione sillana in seguito alla vittoria: massacri, proscrizioni ed ef-feratezze di ogni genere si abbatterono su di loro più che su qualsiasi altra componente della fazione filo mariana105. Da allora la storia dei Sanniti confluì in quella di Roma e si identificò con essa.

105 Strab., V, 4,11; La tradizione riporta la frase detta da Silla, secondo la quale “ mai uno solo dei Romani avrebbe potuto vivere in pace, finché i Sanniti avessero formato una comunità a se”.

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1.6. Ernici( Chiara Casale)

Penetrati almeno dall’inizio dell’età del ferro nell’alta valle del Sacco, a ridosso del ter-ritorio di Palestrina, gli Ernici sono il più antico dei popoli di stirpe italica insediatasi in una parte non marginale del Lazio, tra i Monti Ernici e i Monti Lepini, praticamente lungo tutto il bacino del fiume Sacco. Essi confinavano da est a nord-est con i Marsi che occupavano il bacino del Fucino e l’alta valle del Liri, a nord con gli Equi che occu-pavano il bacino dell’Aniene, ad ovest con i Prenestini ed i Latini e che, intorno al VII sec. a.C. la parte destra del corso del Sacco fu occupata, non si sa come, dai Volsci che, in alcune occasioni hanno esteso la loro occupazione perfino alle città di Ferentino e Frosinone. Le valli del Sacco e del Liri erano e sono la via più comoda per collegare il centro al sud dell’Italia ed è possibile unire il versante adriatico al Tirreno, attraverso la valle del Liri e i numerosi valichi dalla valle del Sacco alla Pianura Pontina106. Questa posizione geografica, insieme all’abbondanza di pascoli e di acqua, alla ricchezza dei boschi, alla fertilità del suolo e alla disponibilità delle materie prime necessarie suffi-cienti all’economia antica, consentirono agli abitanti un alto grado di benessere, oltre alla costruzione delle città fortificate che, dai contrafforti degli Ernici, stanno a guardia della valle e controllavano i traffici.Secondo un’antica leggenda gli Ernici discendono dal dio Saturno che, cacciato dall’O-limpo, giunse in Italia e si fermò nel Lazio (la parola Lazio infatti significa “ampio”, “lar-go”, ma anche “rifugio”). Egli fu accolto benevolmente dal Re Giano e Saturno, ricono-scente, gli diede il potere di imparare dal passato (l’esperienza) e di conoscere il futuro (la predizione). Saturno insegnò ai popoli del Lazio l’arte dell’agricoltura, l’uso del fuoco, la lavorazione dei metalli, ma soprattutto insegnò loro a costruire città cinte da mura megalitiche. Sempre secondo la leggenda, le città Erniche costruite dal Dio errante furo-no cinque e tutte cominciano con la lettera “A”: Anagni, Alatri, Aquino, Atina e Arpino. Ad Arpino, narra ancora la leggenda, il Dio Saturno fu sepolto. Gli abitanti delle cinque città, a loro volta, ne fondarono altre come Felcia (Fiuggi), Guarcino, Veroli, Ferentino, Fumone, Piglio, Bauco (l’odierna Boville), Trevi, ecc.Sull’origine storica di questa popolazione rimane il mistero più fitto e, già in età antica, molti erano gli autori che li collegavano sia ai Sabini che ai Marsi. La prima versione tramandataci da Servio107 e dovuta probabilmente a Varrone che va valutata però con cautela, in considerazione della nota tendenza di questo autore ad accentuare il ruolo dei Sabini nella più antica storia d’Italia108. Il collegamento con i Marsi, che si può far risalire a Verrio Flacco, si deve sia a Festo109 sia allo scoliasta Veronese, il quale ricorda anche come ad Anagni si sarebbero stanziati Marsorum coloni, collegando la parentela tra il nome della città con quello della dea na-

106 Strab., V, 3,4.107 Ad. Verg. Aen. VII, 684: Sabinorum lingua saxa hernae vocantur.108 GATTI 1993, p. 61.109 Fest., p. 89 L.: “Hernici dicti a saxiis quae herna dicunt”.

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zionale dei Marsi, Angizia110.In realtà le due versioni sono solo apparentemente incompatibili, poiché ambedue ricon-ducono ad un’origine sabellica di questa popolazione, imparentata quindi con gli altri gruppi italici del ceppo osco-umbro, ai quali era probabilmente comune il termine her-na111. Da ricordare ancora una terza tradizione, anche se isolata, tramandata da Macro-bio112, secondo la quale gli Ernici deriverebbero dai Pelasgi, tradizione che, anche se inse-rita nella nota tendenza della storiografia antica ad individuare un’origine greca e perciò nobilitante per le popolazioni indigene, avrebbe un suo fondamento reale nella effettiva presenza Etrusca nella zona, presenza che le testimonianze archeologiche testimoniano. Infatti si può dire che i reperti archeologici della zona ci testimoniano una frequenza umana ininterrotta che va dal paleolitico superiore ai nostri giorni, che li accomunano tecniche alle culture appenniniche e villanoviane e rapporti col mondo miceneo, greco, etrusco ed, infine romano. Fra le poche notizie che gli antichi ci tramandarono attorno al popolo ernico vi è quella dataci da Ovidio secondo la quale presso di loro il mese di marzo sarebbe stato il sesto, quindi per gli Ernici l’anno cominciava nel mese di ottobre, come per gli Spartani e per i Fenici. Tale affermazione avvalora la tesi dei sostenitori dell’origine semitica di molti po-poli italiani, fra cui quello ernico appunto. Per quanto riguarda la città di Anagni, sempre Ovidio spiega che Ananés in greco significa Re, pertanto Anagni doveva essere, con ogni probabilità, l’insediamento più importante degli Ernici113. L’antichità dello stanziamento ernico nel Lazio spiega i rapporti assai precoci con Roma culminanti nell’ingresso, pur se temporaneo, nella lega latina all’epoca di Tarquinio il Superbo o nel 486 a.C. All’epoca della monarchia, gli Ernici si allearono con i Romani e i Tuscolani, nella guerra combattuta da Roma contro Veio, al tempo del re Tullio Osti-lio nel 672 a.C. Festo, secondo notizie dateci da Varrone114, racconta che il colle Oppio e il colle Cispio furono chiamati così perché durante una battaglia per difendere Roma dai ribelli Albani, il colle Oppio fu difeso dal condottiero omonimo che capeggiava i Tusco-lani e il colle Cispio fu difeso dal condottiero Levio Cispio che capeggiava gli Anagnini. Questa notizia non è riportata da altri storici, ma, anche qualora non fosse vera, serve a dimostrarci che nella tradizione forti erano i rapporti di amicizia tra Ernici e Romani.Ritroviamo notizie più attendibili nei racconti di Dionisio di Alicarnasso115 che ci parla degli Ernici ai tempi di Tarquinio il Superbo (530 a.C.). Tarquinio il Superbo, diventato re, per estendere la potenza di Roma nel Lazio strinse alleanza con 47 città, sedici delle quali erano erniche. Per tenere unita questa alleanza, istituì delle feste religiose chiamate: “ferie latine” che si tenevano ogni anno sul monte Albano nel tempio di Giove Laziale (monte Cave)116. Il patto di alleanza con Tarquinio il Superbo117 aveva una sua logica:

110 Scolii Veronesi all’Eneide, VII, 684: Marsi lingua sua saxa hernas vocant. A tale proposito va ricordato che i linguisti hanno da tempo considerato l’eventualità che alla radice del toponimo Anagnia si possa riconoscere il nome di una divinità presente, in forma diversa, anche nella lingua peligna. Si veda GATTI 1993, COLONNA in AA.VV. 1990, p. 519.111 Per approfondimento su questo tema si veda GATTI 1993, p. 62 nota 4 e riferimento bibliografico.112 Macrob. Satur. V, 18,13- 21, che si basa sull’usanza dei guerrieri ernici, ricordata da Virgilio, che sarebbe comune agli Etoli, di portare un solo calzare al piede sinistro in battaglia.113 Igin. ap. Macrob. Satur. V, 18,13114 Varr. De Ling. Lat., VII, 28.115 Dion. Hal.,  VIII, 64.116 Liv., XXV, 12.1-2.117 Liv., I, 53. 8.

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gli Ernici si trovavano assediati dai bellicosi Equi e dai Volsci in espansione da un lato, mentre i Romano-Etruschi avevano bisogno di itinerari sicuri per raggiungere le loro sedi in Campania e di alleati per fronteggiare il comune pericolo, rappresentato appunto dai Volsci e dagli Equi. Per questo motivo i termini della triplice alleanza tra Romani, Latini ed Ernici, erano molto favorevoli. Prevedevano, infatti, amici e nemici comuni, partecipazione alle guerre, la divisione del bottino in parti uguali e, soprattutto, il diritto di connubio. Si può azzardare che in questo frangente le città erniche si siano fortificate costruendo le loro mura ciclopiche; non avrebbe senso posticipare la loro costruzione a periodi successivi, quando Roma aveva assunto una posizione egemone, aspirando - di fatto - alla conquista di tutta l’Italia. Quando Tarquinio il Superbo nel 508 a.C., dopo 22 anni di regno, fu cacciato da Roma e fu accolto dal re degli etruschi Porsenna, chiese aiuto agli Ernici perché lo riportassero sul trono, ma nello stesso frangente anche i Romani chiesero alla popolazione ernica di mantenere fede all’alleanza e intervenire a loro fianco. Gli Ernici, però, decisero di aiu-tare il re spodestato, ma furono fermati dal dittatore Aulo Postumio e successivamente, nell’anno 496 a.C., o secondo Varrone nel 499 a.C., furono battuti presso il lago Regillo da Ottavio Manilio e da Sesto Tarquinio. Dopo questa sconfitta gli Ernici si allearono con i Volsci per combattere nuovamente contro Roma. Nel 487 a.C. il territorio romano venne più volte invaso e devastato dagli Ernici: il senato di Roma inviò ambasciatori in nome dell’antica alleanza che essi avevano con Tarquinio il Superbo, per chiedere spiegazioni su quanto era accaduto e, di tutta risposta, gli Ernici dissero che l’alleanza era per loro venuta meno, in quanto finita a seguito della morte del re Tarquinio. Tale risposta suonò come una dichiarazione di guerra per la repubblica romana che inviò contro di loro un esercito comandato dal console Gaio Aquilio Tusco che riportò la vittoria. L’anno successivo, nel 486 a. C., fu inviato contro gli Ernici il con-sole Spurio Cassio Vicellino che li sconfisse, ne saccheggiò il territorio, li costrinse ad arrendersi e a firmare un’alleanza a uguali condizioni. Di questo trattato ci informano, ma in modo diverso, due storici: Dionisio e Tito Livio. Dionisio sostiene che gli Ernici non persero le loro terre, mentre Tito Livio scrive come il popolo ernico fu privato dei due terzi del loro territorio. 118

I romani da quel momento ebbero nel loro esercito ausiliari Ernici e Latini, in cambio aiutarono gli Ernici stessi a scacciare dalla città di Ferentino la minaccia degli Equi e dei Volsci che intimidirono la popolazione ad allontanarsi da tutta la valle del Sacco. All’arrivo dei Galli - però - gli Ernici e i Latini non inviarono più soldati all’esercito ro-mano, cercando di chiudere l’alleanza che li univa. I Romani richiesero ancora una volta spiegazione per questo rifiuto e non avendo ricevuto alcuna risposta, nell’anno 362 a.C. inviarono contro gli Ernici l’esercito guidato dal console L. Genucio ma furono sconfitti. Subito dopo la messa in fuga, il senato romano elesse come dittatore e comandante delle truppe Appio Claudio che, dopo una sanguinosa battaglia, riuscì finalmente a sbaragliare l’alleanza ernico-latina. L’anno seguente la guerra fu portata avanti dai consoli C. Licinio, C. Sulpicio Petico che sconfissero di nuovo gli Ernici e conquistarono Ferentino. Succes-sivamente il territorio ernico venne nuovamente attaccato dai consoli romani M. Fabio e M. Ambasto con lo scopo di sottometterli definitivamente, spedendo poi, nell’anno 358

118 Liv., VII, 6.

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a.C., il console C. Plauzio Proculo che li vinse di nuovo e li costrinse a firmare l’antica alleanza, pur conservando la loro indipendenza. Nell’anno 338 a.C. troviamo gli Ernici alleati con i Romani nella guerra che questi combatterono contro i Latini e nell’occupazione di Preneste, la loro capitale.119 Quan-do, però, i Romani, dopo aver sconfitto i Galli, nell’anno 333 a. C., dichiararono guerra ai Sanniti, gli Ernici inviarono dei soldati in aiuto di questi ultimi, perché temevano che Roma li sottomettesse completamente come aveva fatto prima con i Latini, suoi antichi alleati. Solo dopo la battaglia i Romani si accorsero che tra i prigionieri vi erano molti anagnini e dopo averli uccisi, chiesero ai magistrati di Anagni se questi prigionieri erano corsi volontariamente in aiuto dei Sanniti o se erano stati mandati dalle autorità della città. Gli Ernici, allora, si riunirono con i loro rappresentanti nel Circo Marittimo per decidere se dichiarare o no guerra ai Romani: le rappresentanze delle città di Ferentino, Alatri e Veroli non furono d’accordo, mentre quella di Anagni e tutti gli altri confederati furono favorevoli. Il disaccordo fra le città della confedera-zione indebolì le loro forze nella guerra contro i Romani guidati dai consoli Quinto Marcio Tremulo e Cornelio Arvino. In un primo momento gli Ernici riuscirono ad occupare gli sbocchi e i punti strategici impedendo ai due consoli di scambiarsi mes-saggi. I Romani, intimoriti, arruolarono molti giovani esperti di armi, formando due forti eserciti pronti ad attaccare se ce ne fosse stato bisogno; ma, ancor prima, il con-sole Marcio Tremulo assalì gli Anagnini e li sconfisse. Il senato romano dopo questa vicenda decretò che le tre città Erniche (Ferentino, Alatri e Veroli), che non avevano combattuto contro Roma, avrebbero mantenuto le proprie leggi e i propri magistrati, conservando l’alleanza, mentre Anagni e le altre città che avevano dichiarato guerra a Roma furono considerate municipi Romani “sine suffragio”120 cioè, gli venne privato il diritto di scegliere i magistrati per amministrare la cosa pubblica, di tenere assemblee oltre i confini del loro territorio e, inoltre, venne vietato ai cittadini il matrimonio ed ogni relazione politica con gli abitanti delle altre città. Anagni, però, fu rispettata come città sacra degli Ernici in quanto le fu lasciata libertà di scelta nelle cose religiose. Nel composito quadro delle popolazioni italiche del Lazio, gli Ernici, insieme agli Equi, ai Sabini, ai Volsci e agli Aurunci, sono generalmente considerati parte di un ampio gruppo stanza tosi su un preesistente sostrato, presumibilmente di lingua latina, oppure derivan-ti comunque da una profonda mistione con l’elemento italico: la povertà delle fonti epi-grafiche relativa a questi gruppi impedisce però di delineare le singole fisionomie lingui-stiche, facendo ipotizzare una semplice attribuzione generica al gruppo osco-umbro121. La diversità della popolazione ernica rispetto ai Latini sembra suggerita anche dalle sue vicende storiche, che evidenziano una posizione autonoma conservata costantemente sia verso la Lega Latina, sia verso Roma, nei confronti della quale, come abbiamo visto, mantenne sempre un atteggiamento per lo più ostile.La confederazione ernica aveva sede probabilmente proprio ad Anagni, centro politico e religioso del nomen Hernicus. Le fonti alludono anche al luogo ove la confederazione

119 Dion. Hal., IV, 49,1; cfr. anche Fest. 476, 11-14, Varro, De Ling. Lat V, 50. La moderna critica storica tende a ridimensio-nare questi legami, forse introdotti artificialmente nell’annalistica per legittimare la supremazia romana nell’ambito della lega. 120 Per approfondimento si veda GATTI 1993, p. 62 nota 11.121 COLONNA in AA.VV. 1990, pp. 411-412.

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avrebbe tenuto le proprie riunioni, indicato come il circus quem maritimun vocant122. Molti i tentativi di identificare questa località che, sulla base del suo appellativo, è stata sempre ricercata in prossimità di laghi o stagni. Una recente ipotesi collega invece l’ag-gettivo ad un possibile santuario di Mares, paredro della dea Marica, dio cavallo cui si potrebbe attribuire la protezione di un circo. Il parallelismo tra la dea Marica e Diana permetterebbe inoltre di raccordare la posizione del circus con il santuario stesso della dea ricordato dalle fonti, posto presso il Compitum Anagninum123. Questo santuario si inserisce nel nutrito numero di templi e aree sacre ricordate dalle fonti e dalle iscrizioni come esistenti nella città di Anagni e la cui esistenza è suggerita da diversi ritrovamenti archeologici in area urbana e suburbana, relativi al periodo repubblicano e imperiale124. Il peso religioso e la sacralità della città dovevano essere radicato e universalmente ri-conosciuto, tanto che anche i Romani rispettavano i sacra e le cariche religiose locali quando, come detto precedentemente, intervennero nei confronti di Anagni in seguito alla rivolta del 306 a.C.125.

122 Dion. Hal., V, 62, 2; Liv. IX, 42, 11.123 COLONNA 1990, pp. 241-247.124 GATTI 1993: Le iscrizioni ricordano numerosi collegi sacerdotali, quali i Salii, gli Augures, gli Augustales e Pontifices (CIL X, 15, 17-18, 22-26, 29). 125 Liv., XXVI, 23, 5; XXVII, 14, 3; XXX, 2, 11; XLIII, 13, 3; XLV, 16, 5.

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1.7. La questione della tacita Amyclae(Alessandro De Bonis – Cassandra Rita Russo)

I Greci nell’Italia meridionaleNella penisola italiana, abitata nel I millennio da varie e differenti popolazioni, giunsero anche i Greci126, che vi migrarono intorno alla seconda metà VIII sec. a.C. con l’intento di fondare nuovi insediamenti. Varie sono state ritenute le cause di questo fenomeno: un aumento demografico incontrollabile e insostenibile in madrepatria, la necessità di nuo-ve basi per l’espansione dei loro commerci nel Mediterraneo, la ricerca di materie prime presenti nell’area o, ancora, la minaccia di popoli invasori nelle loro regioni.Quale sia stata la motivazione, la colonizzazione, che si fece più intensiva tra il VII e il VI secolo a.C., vide tra le popolazioni più “attive” i Calcidesi, gli Achei del Peloponneso, i Locresi, gli Ioni di Colofone e gli Spartani127. Questi gruppi si insediarono nell’Italia meridionale nominata Megàle Hellas128 (Magna Grecia) e nella Sicilia Orientale impor-tando il loro modello di polis (città-stato) ed un ricco bagaglio di conoscenze culturali. Dall’analisi delle fonti e dalle testimonianze rinvenute in loco, la più antica colonia sulla penisola risulta essere Metaponto (773 a.C.) seguita da Pithecusa (770 a.C.) e Kyme (757 a.C.), mentre in Sicilia era Naxos (734 a.C.). Molti di questi insediamenti, divenuti centri attivi e fiorenti, a loro volta fondarono delle sub colonie129 contribuendo a diffondere nella parte meridionale della penisola la cultura greca130. La città più attiva in questo senso fu Siracusa, in particolare sotto il controllo del tiran-nide Dionisio il Grande, che fondò colonie non solo in Italia, ma anche lungo le coste dell’Albania e della Dalmazia131. Gli Ateniesi, assenti durante questa prima fase, giunge-ranno nell’area nel V secolo a.C. ed avranno un importante ruolo nella “rifondazione” di alcuni centri distrutti come Thurii (antica Sibari) e Neapolis (antica Parthenope).Il processo di migrazione messo in atto dalla popolazione greca era meticoloso e ben or-ganizzato: dopo aver raccolto informazioni sul territorio da colonizzare e aver consultato l’oracolo, la città madrepatria (metropolis) inviava i coloni guidati da un ecista (oikistes) con i mezzi e le maestranze necessari per la nuova fondazione denominata apoikia (casa fuori). I nuovi insediamenti risultavano quindi non dei domini o degli avamposti di-pendenti dalla madrepatria, ma dei centri dove i coloni potessero cominciare una nuova vita, in modo totalmente autonomo. Nella maggior parte dei casi però continuavano ad

126 L’area corrisponderebbe alle attuali regioni della Campania, Calabria, Puglia e Basilicata.127 Ai Calcidesi si deve per esempio la fondazione di Pithecusa (Ischia), Kyme (Cuma), Zancle (Messina) e Rhegion (Reggio); agli Achei Sybaris (Sibari), Kroton (Crotone), Metapontum (Metaponto); ai Locresi Lokroi Epizefiri (Locri Epizefiri), Medma (Rosarno); agli Ioni Siris (Siri), Elea (Ascea); ai Greci di stirpe dorica Syracuse (Siracusa) e Megara Hyblaea (Megara Iblea), agli Spartani Taras (Taranto).128 Il termine è attestato con sicurezza a partire dal II secolo a.C. (in Polibio) anche se probabilmente doveva essere già in uso nei secoli precedenti. Esso fa riferimento all’Italia meridionale anche se veniva già in antichità e viene ancor oggi spesso utilizzato erroneamente per indicare un’area più vasta comprendente la Sicilia.129 Tra le sub-colonie si annoverano Poseidonia (Paestum), Metauros (Gioia Tauro), Hipponion (Vibo Valentia), Parthenope (Napoli), Terina (Lamezia Terme), Heraclea (Policoro).130 Fu introdotta anche la moneta che andò a sostituire la precedente forma di scambio del baratto. 131 Sono fondazioni siracusane Lissos (Alessio) in Albania, Issa (Lissa), Pharos (Civitavecchia di Lesina), Dimos (Lesina), Korkyra Melaina (Curzola) in Dalmazia, Andria (Andria) e Ankon (Ancona) in Italia.

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avere contatti, prevalentemente di tipo commerciale, con la madrepatria.Gli Italioti (così venivano chiamati in Grecia i loro concittadini migrati nella nostra pe-nisola) dovettero entrare anche in contatto con le popolazioni che già erano stanziate in quei territori e nelle regioni circostanti o che vi si insediarono nel corso dei secoli, come gli Ausoni, i Volsci, gli Osci, i Sanniti, i Lucani, i Bruzi e i Messapi.A partire dalla fine del IV, sino al I secolo a.C., anche la Magna Grecia entrò nell’area espansionistica romana. In particolare dopo gli eventi della seconda guerra punica e le sconfitte subite, l’Italia settentrionale cominciò progressivamente ad essere inglobata e sottomessa al nascente Impero Romano. La storiografia oltre ad averci lasciato una serie di notizie di carattere storico che insieme ai dati materiali hanno permesso la ricostruzione delle fasi e dei caratteri della coloniz-zazione greca, ci ha tramandato anche una serie di leggende sulla fondazione di alcuni centri, storie che sono state assimilate dalle popolazioni locali e trasmesse di generazione in generazione sino ai nostri tempi, come nel caso della città di Amyclae.

AmyclaeSecondo le fonti, l’antica città di Amyclae sarebbe stata una colonia greca, fondata dai La-coni (Spartani), sotto la guida dei Dioscuri e di Glauco, figlio del re di Creta Minosse: le fu dato un nome che ricordava molto quello di Amicla, figlio del fondatore di Spar-ta, Lacedemone. I Laconi si fusero poi con la popolazione indigena degli Ausoni e il loro re Camerte, giovane e biondo figlio del rutulo Volcente, avrebbe combattuto con-tro Enea come alleato di Turno, venendo ucciso proprio dal capo troiano132.Le numerose fonti permettono di attestare la presenza di questa città nell’area compresa tra Terracina – Fondi – Sperlonga, anche i numerosi studiosi che si sono occupati di questa vicenda, confermano l’ubicazione dell’antico insediamento in quest’arco costie-ro, soffermandosi in particolare sulla zona dei laghi della Piana di Fondi, senza avere di fatto reali testimonianze archeologiche a riguardo. Viene sostanzialmente richiamata una forte tradizione locale che ne collegava i resti alle cosiddette “Vasche di Amyclae”, in corrispondenza di ruderi d’età tardoantica, un tempo visibili nell’area boschiva vicino il lago di Fondi, in località detta “la Selva”. Quando i dati archeologici sono poco concreti, pian piano il territorio di localizzazione effettivo di un centro viene sempre più ampliato, tanto da indurre alcuni studiosi a rite-nere che l’Amyclae antica fosse sprofondata in uno dei laghi o che addirittura sarebbe da ricercare nel golfo di Gaeta133.Analizzando nel dettaglio le fonti storiche disponibili, peraltro tutte di prima età impe-riale, si riesce però ad avere un maggior dettaglio nella localizzazione del centro. Pli-nio il Vecchio134, descrivendo le coste sud-laziali e nord-campane, elenca in successione, partendo da Terracina, «il luogo ove Amyclae, poi il sito di Speluncae, il lago di Fondi, il porto di Gaeta, l’oppido di Formia». In un altro passo lo stesso autore, lamentandosi per la decadenza del vino Cecubo, caratteristico del territorio attorno a Fondi, lega la

132 Virg., Eneide, X. 133 MARZANO 2009, 15-21.134 Plin. N.H. III, 59.

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coltivazione del vitigno al golfo detto Amyclano135. Anche in Marziale136 e in Silio Italico137 si evince una stretta connessione tra il Cecubo, Fundi e Amyclae, così come nel noto rac-conto di Tacito138, che ricorda la caduta di un grande masso nella grotta di Tiberio nella sua villa di Sperlonga, quando l’imperatore fu portato in salvo dal prefetto del pretorio Seiano.Anche se la città è più volte menzionata in merito alla sua localizzazione, le informa-zioni storiche riferite alla sua origine e storia restano avvolte in un alone di mistero leggendario, legata addirittura alla fondazione operata per mano di due divinità: Castore e Polluce. Da Virgilio nell’Eneide è ricordato il re Camerte, figlio di Volcente, grande personaggio che operò la fusione con gli Ausoni; anche Solino fa riferimento all’origine greca dell’abitato139. Le leggende sulla fondazione della città si intrecciano con quelle della sua fine, restando come fonte più importante Servio che, sempre nel suo commento dell’Eneide la defini-sce, come già lo stesso Virgilio, “tacita Amyclae”, in quanto i suoi abitanti sarebbero stati seguaci della setta pitagorica che osservava quinquennali silenzi rituali e vietava l’ucci-sione di uomini e di animali. Così, quando la città sarebbe stata invasa dai serpenti usciti dalle vicine paludi fondane, gli Amyclani avrebbero taciuto non reagendo, venendo per tale ragione sterminati dagli animali. Un’altra tradizione attribuisce la fine di Amyclae al vigente divieto di dare l’allarme per l’arrivo dei nemici, dopo che ne erano stati dati molti ripetutamente falsi. Un giorno essendo giunti davvero i nemici e non essendosene data alcuna notizia, la città sarebbe stata presa e distrutta. Non molto dissimile dalla prima versione resta il racconto di Varrone140, che ricorda la città greca distrutta dall’invasione di serpenti e per tale ragione abbandonata. Cita la città come abbandonata anche Servio141 nel suo commento a Virgilio, offrendo anche un’indi-cazione cronologica, attribuendo a Lucillo, nativo di Sessa Aurunca, che visse nel II sec. a.C. tra Roma e Campania, l’informazione sulla già inesistenza della città a quell’epoca. Più verosimilmente la distruzione della mitica città sarebbe da imputare a genti di stirpe osca che avrebbe successivamente dato vita alla vicina città di Fondi; si ritiene che una parte dei superstiti si fosse rifugiata ai piedi dell’attuale Monte Arcano, presso la sorgente di Villa San Vito in Monte San Biagio, dove avrebbe fondato il villaggio di “Villa”142.Una svolta sulla localizzazione dell’antico centro sembra essere arrivata nel 2005, quan-do durante le indagini condotte dall’Università di Bologna e dalla Seconda Università di Napoli, la coppia di archeologi Quilici e Quilici Gigli, annuncia il riconoscimento dell’antica Amyclae sulle pendici del monte Pianara, cima che controlla attualmente tutta la piana fondana, ma che in passato si ergeva su un ampio golfo, detto “seno Amyclano”, colmatosi nel tempo di detriti portati dai fiumi che scendono dagli Ausoni143. Il sito è stato identificato con un’imponente città arcaica estesa su 33 ettari, le cui fortificazioni

135 Plin. N.H. XIV, 61. 136 Mart. XIII, 115, 1. 137 Sil. VIII, 526, 8. 138 Tac. Ann. IV, 59. 139 Sol. II, 32, 15. 140 Varr. Fr., 55. 141 Serv. Aen., 10, 54. 142 RUSSO 2004, 2 e sgg.; DE BONIS A. – DE BONIS B. - CATENA 2013, pp. 161-64. 143 QUILICI – QUILICI GIGLI 2006.

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erano costituite da un muro di ca. 3 km: poderose mura costituite da grossi massi in ope-ra poligonale montati a secco144, richiamanti l’organizzazione delle fortificazioni su alture naturalmente difese, diffuse in età preromana in tutto il Lazio meridionale145.L’insediamento individuato risulta caratterizzato da un abitato ben strutturato, all’avan-guardia per potenza di fortificazioni e accorgimenti tattici per la difesa delle principali porte d’accesso, oltre ad una disposizione urbanistica molto ben pianificata, tra le più antiche delle città preromane note, con terrazzamenti e assi viari disposti su fasce paral-lele146. Le aree abitative si disponevano sui versanti sud e ovest, come documentato dai molti resti di tegole e di mura in graticci lignei e argilla poggiati su basamenti di pietre. Anche i rinvenimenti ceramici confermerebbero la datazione dell’antica città d’altura tra il VI e il IV sec. a.C., fase in cui questo insediamento doveva controllare tutto il percorso costiero147. Secondo gli archeologi che effettuarono la ricognizione, l’abbandono della città sarebbe dipeso da uno spontaneo spopolamento dall’abitato alto verso le aree pia-neggianti sottostanti, più comode e funzionali, su cui s’impose poi l’attuale Fondi. L’ab-bandono fu forse incentivato da un grave evento sismico, le cui antiche tracce risultano ben visibili sulle mura arcaiche148.Di certo fin quando non saranno svolte indagini archeologiche mirate tale localizza-zione, pur se supportata da differenti fattori, anche cronologici, resta di fatto solo una suggestiva ipotesi di conferma sull’esistenza di una delle città più antiche documentate sulle coste del basso Lazio, ricca e potente già in età preromana.

144 QUILICI – QUILICI GIGLI 2006. 145 CRISTOFANI 1992. 146 MARZANO 2009, 15-21. 147 QUILICI – QUILICI GIGLI 2006. 148 DI FAZIO 2006; QUILICI – QUILICI GIGLI 2006.

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2I Romani

2.1. L’espansionismo di Roma prima dell’Impero e l’età imperiale

2.1.1. L’espansionismo di Roma prima dell’Impero (Chiara Casale)Con l’età repubblicana si intende quel periodo della storia di Roma che si fa partire con-venzionalmente intorno al 509 a.C., anno della cacciata dell’ultimo re etrusco Tarquinio il Superbo, fino al 27 a.C., anno dell’attribuzione del titolo di Augustus a Gaio Giulio Cesare Ottaviano e inizio dell’età imperiale.

La caduta della monarchia e l’egemonia di Roma sul LazioAlla caduta della monarchia etrusca Roma, secondo la tradizione letteraria, controllava nell’antico Lazio un territorio che si estendeva dal Tevere alla regione Pontina, a seguito delle conquiste e dell’accorta politica matrimoniale condotta dai re etruschi (Tarquinio il Superbo, per esempio, aveva dato in sposa la figlia ad un notabile della città latina di Tusculum, Ottavo Mamilio). Il dato è confermato da un importantissimo documento, il I trattato romano-cartaginese conservatoci da Polibio.149 Secondo lo storico questo pri-mo trattato di alleanza tra Romani e Cartaginesi sarebbe datato al primo anno della Repubblica, nel momento in cui al potere dei re era succeduto quello dei consoli; nella tradizione romana questo evento si colloca nel 509 a.C. Il trattato romano-cartaginese, dunque, riflettendo la situazione politica che si era formata negli ultimi anni della mo-narchia etrusca, fa sapere che Roma aveva sostanzialmente il controllo di tutta quella regione che era nota con il nome di Latium vetus.Pochi anni dopo, l’egemonia di Roma sul Lazio rischiò seriamente di crollare: buona par-te delle città latine approfittarono infatti delle difficoltà interne dell’Urbe per svincolarsi dalla sua egemonia. Le città latine si strinsero in una lega i cui membri condividevano alcuni diritti, forse ricordo dell’originaria unità etnica del popolo latino, precedente alla creazione delle diverse città-stato: lo ius connubii, il diritto di contrarre matrimoni legit-

149 Polib., Hist., III, 22: “A queste condizioni ci sia amicizia tra i Romani e gli alleati dei Romani e i Cartaginesi e gli alleati dei Cartaginesi: né i Romani né gli alleati dei Romani navighino al di là del promontorio Bello, a meno che non vi siano costretti da una tempesta o da nemici; qualora uno vi sia trasportato a forza, non gli sia permesso comprare né prendere nulla, tranne quanto gli occorre per riparare l’imbarcazione o per compiere sacrifici, e si allontani entro cinque giorni. A quelli che giungono per commercio non sia possibile portare a termine alcuna transazione, se non in presenza di un araldo o di un cancelliere. Quanto sia venduto alla presenza di costoro, se venduto in Libia o in Sardegna, sia dovuto al venditore sotto la garanzia dello stato. Qualora un romano giunga in Sicilia, nella parte controllata dai Cartaginesi, siano uguali tutti i diritti dei Romani. I Cartaginesi non commettano torti ai danni degli abitanti di Ardea, Anzio, Laurento, Circei, Terracina, né di alcun altro dei Latini, quanti sono soggetti; nel caso di quelli non soggetti, si tengano lontani dalle loro città: ciò che prendano, restituiscano ai Romani intatto. Non costruiscano fortezze nel Lazio. Qualora penetrino da nemici nella regione, non passino la notte nella regione”.

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timi con cittadini di altre comunità latine, lo ius commercii, il diritto di siglare contratti aventi valore legale fra cittadini appartenenti a comunità diverse (di particolare impor-tanza, dal momento che consentiva ad un membro della lega di possedere terre entro i confini di una città diversa dalla propria) e infine lo ius migrationis, grazie al quale un latino poteva assumere i pieni diritti civici in una comunità diversa da quella in cui era nato semplicemente prendendovi residenza150. La Lega Latina diede buona prova sul campo di battaglia sconfiggendo nella battaglia di Aricia Porsenna. Quest’ultimo già da qualche tempo tentava di inserirsi nel vuoto di potere lasciato dai Tarquini e di acquisire il controllo del Lazio: sono noti infatti anche i suoi tentativi di conquistare Roma, falliti secondo la tradizione romana. Qualche anno dopo la vittoria di Aricia, la Lega tentò di affermarsi definitivamente attaccando la stessa Roma: secondo la tradizione letteraria la guerra sarebbe stata suscitata dal già ricordato Ottavo Mamilio di Tusculum, con l’inten-to di ricollocare sul trono di Roma il proprio suocero, Tarquinio il Superbo151. Dionigi di Alicarnasso ricorda il passo nel quale l’assemblea della Lega Latina, non senza un acceso dibattito, decise di dichiarare guerra a Roma, ricordando anche le città che strinsero solennemente alleanza152. Nella battaglia combattuta nel 497 o 496 a.C. presso il Lago Regillo, questa coalizione venne battuta dai Romani. Tra gli esiti dello scontro si ebbe la definitiva uscita di scena di Tarquinio, che finì i suoi giorni a Cuma, ma soprat-tutto la conclusione di un trattato che avrebbe regolato i rapporti tra Roma e i Latini per i successivi 150 anni. Il trattato, siglato nel 493 a.C. da parte del console di quell’anno Spurio Cassio e noto come trattato Cassiano (foedus Cassianum), prevedeva un accordo tra Roma e la Lega Latina: le due parti si impegnavano non solo a mantenere tra di loro la pace e a comporre amichevolmente eventuali dispute commerciali, ma anche a prestarsi aiuto nel caso una delle due parti fosse stata attaccata; in più l’eventuale bottino delle campagne di guerra comuni sarebbe stato equamente suddiviso. Inoltre i nuovi alleati si riconoscevano reci-procamente i diritti del ius connubii, ius commercii e ius migrationis 153.Tra gli strumenti più efficaci, grazie ai quali Roma riuscì a consolidare le proprie vittorie militari e a distribuire equamente i frutti della conquista, è da ricordare la fondazione di colonie sul territorio strappato ai nemici. I cittadini dei nuovi centri provenivano sia da Roma, sia dalle altre comunità latine; spesso vi venivano inglobati anche gli abitanti originari della località colonizzata che non erano caduti in guerra o non erano stati scac-ciati dalle loro sedi.Nel 486 a.C. Roma completò il suo sistema di alleanze stringendo un accordo con gli Ernici, una popolazione che abitava la valle del fiume Sacco, a sud-est di Roma, in un

150 GABBA et alii 1999, pp. 40 s.151 Dion. Hal., V, 50, 1.152 Dion. Hal., V, 61, 1-3 “Riunitasi a Ferentino un’assemblea generale, coloro che esortavano a fare ricorso alle armi, e in particolare Tarquinio e suo genero Mamilio, insieme coi capi della città di Aricia, accusarono con violenza coloro che cerca-vano di opporsi alla guerra. Trascinati dai discorsi di costoro, tutti i delegati della nazione latina decisero di intraprendere la guerra contro i Romani; e perché nessuna città tradisse la causa comune o interrompesse le ostilità senza il consenso di tutti, pronunciarono giuramenti reciproci e decretarono che coloro che non avessero osservato gli accordi sarebbero stati esclusi dai trattati di alleanza, maledetti e considerati nemici di tutti. I delegati che sottoscrissero i patti e pronunciarono i giuramenti provenivano da queste città: Ardea, Aricia, Boville, Bubento, Cora, Carvento, Circea, Corioli, Corbio, Cabo, Fortinea, Gabii, Laurento, Lanuvio, Lavinio, Labici, Nomento, Norba, Preneste, Pedo, Quercetola, Satrico, Scazia, Sezia, Tivoli, Tusculo, To-lerio, Tellene e Velletri; da tutte queste città bisognava scegliere gli uomini idonei alla spedizione, nella quantità che sarebbe parsa opportuna ai comandanti, Ottavo Mamilio e Sesto Tarquinio: essi, infatti erano stati scelti generali con pieni poteri”.153 Dion. Hal., VI, 95, 1-2.

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territorio posto tra i due popoli ostili degli Equi e dei Volsci e che dunque aveva un par-ticolare valore strategico. I termini dell’alleanza con gli Ernici sarebbero stati i medesimi del trattato Cassiano.L’alleanza stretta da Roma con la Lega Latina e gli Ernici si rivelò particolarmente pre-ziosa per fronteggiare la minaccia proveniente da tre popolazioni che dagli Appennini premevano verso la piana costiera del Lazio: i Sabini, oltre ai già ricordati Equi e Volsci. Le fonti riportano per il V sec. a.C. una serie interminabile di conflitti tra Roma e queste popolazioni montane (in particolare gli Equi e i Volsci). Spesso l’esito fu favorevole a Roma e ai suoi alleati, ma mai si giunse ad una svolta definitiva. È lecito pensare che, piuttosto che di vere e proprie campagne di guerra su vasta scala, si sia trattato di razzie che videro impegnati da una parte e dall’altra pochi armati154.Se, per bloccare l’avanzata delle popolazioni appenniniche, Roma poté contare sul deci-sivo aiuto di Latini ed Ernici, essa si trovò a fronteggiare da sola la potente città etrusca di Veio, situata a circa 15 km a nord e sua rivale nel controllo delle vie di comunicazione lungo il basso corso del Tevere e delle saline che si trovavano alla foce del fiume155.Il contrasto tra Roma e Veio attraversò tutto il V sec. a.C., per concludersi solo all’ini-zio del secolo seguente, e sfociò in particolare in tre guerre. Nella prima (483-474 a.C.) i Veienti riuscirono a occupare un avamposto sulla riva sinistra del Tevere: Fidene. Il tentativo di reazione di Roma finì con una tragedia: un esercito di circa 300 soldati, com-posto esclusivamente dai membri della gens Fabia e dai loro clienti, venne annientato sul fiume Cremera. A seguito della vittoria, Veio si vide riconoscere il possesso su Fidene.Nella II guerra veiente (437-426 a.C.) i Romani riuscirono a vendicare la sconfitta: il romano Aulo Cornelio Cosso uccise in duello quello che le fonti chiamano il tiranno di Veio, Lars Tolumnio; Fidene venne conquistata e infine distrutta dai Romani.Nella III guerra veiente (405-396 a.C.) il teatro delle operazioni si spostò lungo le mura della stessa Veio, che poteva godere di un’invidiabile posizione difensiva, dal momento che sorgeva su una collina. L’assedio di Veio durò ben dieci anni. Alla fine la città venne presa e distrutta: Veio scontò il particolarismo delle città etrusche, che non le prestarono alcun soccorso o addirittura, come Cere, si schierarono dalla parte di Roma. Gli unici aiuti vennero dalle città falische di Capena e Falerii, che erano abitate da una popolazione affine etnicamente ai Latini, ma che da tempo era nell’orbita culturale e politica degli Etruschi, per la sua posizione geografica sulla sponda destra del Tevere. L’ascesa di Roma fu solo momentaneamente interrotta dalla conquista gallica della città nel 390 a.C. Il loro primo obiettivo fu la città etrusca di Chiusi; da qui essi si diresse-ro su Roma. L’esercito romano frettolosamente arruolato per affrontarli, più che essere sconfitto, si dissolse letteralmente al primo contatto avvenuto sull’Allia. Rimasta priva di difese, la città venne saccheggiata. Successivamente, però, i Galli si ritirarono, o perché fu pagato un riscatto, o perché minacciati nei loro territori dai Veneti156. La rapidità con cui Roma si riprese dal sacco gallico fu senza pari e, anzi, l’evento animò una nuova spinta espansionistica della città a partire proprio dal 390 a.C. Pochi anni dopo il sacco gallico si iniziò probabilmente la costruzione delle cosiddette

154 Liv., III, 22, 2-4.155 GABBA et al. 1999, pp. 55 sgg.156 Polib., II, 18, 3.

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mura serviane (così chiamate perché attribuite dalla tradizione a Servio Tullio), sfrut-tando il tufo delle cave di Grotta Oscura, nei pressi di Veio. Sul fronte estero, anche gli Equi vennero annientati, mentre più lunga e difficile fu la lotta contro i Volsci, che tro-varono appoggio nei vecchi alleati di Roma, gli Ernici e alcune città latine, forse stanchi di un’alleanza in cui Roma stessa giocava ormai un ruolo egemone. Nel 381 a.C. la città latina di Tusculum, dopo essere stata battuta, venne annessa al territorio romano, senza che la sua identità venisse cancellata: la città divenne il primo esempio di municipium, termine col quale si designano le comunità incorporate nello stato romano che tuttavia conservarono la loro indipendenza interna157. Il processo di conquista del Lazio si com-pletò nei decenni seguenti: nel 358 a.C. i Volsci furono costretti a cedere la piana Pontina e gli Ernici parte dei loro possedimenti nella valle del fiume Sacco: in entrambi i territori vennero insediati cittadini romani. Nel 354 a.C. cessò anche la resistenza delle due più potenti città latine, Tibur e Praeneste. Negli stessi anni anche gli Etruschi di Tarquinia e Cere, che dopo la caduta di Veio si sentivano direttamente minacciati, furono costretti a siglare una lunga tregua, insieme con il centro falisco di Falerii.

Le Guerre Sannitiche La posizione di potere raggiunta da Roma nel Lazio meridionale trova espressione nel tratta-to che venne concluso con i Sanniti nel 354 a.C., con il quale il confine tra le zone di egemonia delle due potenze veniva probabilmente fissato al fiume Liri. La tensione tra le due popola-zioni sfociò nel 343 a.C. in un guerra aperta che si protrasse per decenni, con tre battaglie che contrapposero Roma al popolo sannita, fino alla definitiva vittoria dei romani158.

La guerra contro Taranto e la figura di PirroPochi anni dopo la vittoria sui Sanniti, Roma dovette per la prima volta misurarsi con una potenza straniera, quella della monarchia dell’Epiro retta allora dal re Pirro, le cui intenzioni erano legate alla volontà di stabilire un suo dominio sulle città della Magna Grecia e ricreare un nuovo potente regno ellenistico in Occidente159. Dal canto loro, i Romani avevano avviato un’ambiziosa politica di penetrazione nell’Italia Meridionale, accrescendo i contatti culturali. Inoltre Roma aveva dei punti di forza nelle alleanze sti-pulate con importanti centri greci come Napoli e Crotone, oltre che nelle guarnigioni installate a Turii, Locri e Reggio. Forti erano le premesse per un conflitto che non tardò ad arrivare. Il pretesto si presentò quando nel 282 a.C. dieci navi romane penetrarono nel golfo di Taranto, nonostante un precedente trattato tra le due città che impediva ai Romani simili sconfinamenti. Di fronte alla provocazione e alla minaccia rappresentata dalla occupazione romana di Turii, a Taranto prevalse la fazione democratica, ostile a Roma: i Tarantini attaccarono le navi romane, affondandone alcune, poi marciarono su Turii, cacciando la guarnigione romana e gli aristocratici che la sostenevano. Le richieste di soddisfazione da parte di Roma vennero ignorate e la guerra divenne inevitabile. Taranto chiese aiuto a Pirro che sbarcò in Italia nel 280 a.C., con un esercito numerosissi-mo e con i suoi famosi elefanti. Per affrontare questo temibile schieramento, Roma si vide

157 GABBA et al. 1999, p. 57.158 Per approfondimenti si veda cap. 1.5. I Sanniti, pp. 29 e sgg.159 GABBA et al. 1999, pp. 78 e sgg.

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costretta ad arruolare per la prima volta i capite censi, i nullatenenti fino ad allora esentati dal servizio militare. Nonostante la superiorità numerica, i Romani subirono una sangui-nosa sconfitta ad Eraclea, in Lucania. Dal punto di vista politico, dopo Eraclea molte città della Magna Grecia e di popoli italici centromeridionali si schierarono dalla parte di Pirro, fornendogli grossi aiuti economici e militari. Pirro, tuttavia, non riuscì a sfruttare l’occa-sione e tentò di raggiungere un accordo con Roma. Qui l’azione politica di Appio Claudio Cieco spinse energicamente verso la rottura delle trattative e la ripresa delle ostilità. La battaglia decisiva si svolse per due giorni interi presso Ausculum (Ascoli Satriano, Foggia) nella primavera del 279 a.C. La battaglia venne decisa, ancora una volta, dall’intervento di Pirro e dei suoi elefanti. Nello stesso anno giunse un’ambasceria da Siracusa proponendo al re dell’Epiro la guida della guerra contro la presenza cartaginese in Sicilia. Decise quindi di recarsi in Sicilia con parte del suo esercito, lasciando peraltro una forte guarnigione a Taranto. La posizione del re Pirro era tuttavia assai precaria, dal momento che nello stesso 279 a.C. Roma e Cartagine avevano stretto un’alleanza difensiva che prevedeva la mutua collaborazione militare contro il comune nemico160. In un primo momento l’avanzata del re epirota in Sicilia fu inarrestabile e trionfale, tanto da esse-re acclamato come un liberatore. Ma i Cartaginesi resistettero fino a quando Pirro fu costretto a tornare nella penisola per por-tare aiuti agli alleati Sanniti, Bruzi e Lucani sempre più incalzati dalle offensive romane. Nel 275 a.C. l’esercito romano guidato dal console M. Curio Dentato travolse la falan-ge epirota a Maleventum. In conseguenza di questa vittoria qualche anno più tardi Mal-ventum venne ribattezzata col nome cele-brativo di Beneventum e vi venne insediata una colonia latina. Pirro lasciò una guarnigione a Taranto, ma decise comunque di far ritorno in Epiro con la maggior parte del suo esercito. Nel 272 a.C. la città apula, infine, si arrese insieme al presidio epirota. La vittoria romana venne completata negli anni immediatamente se-guenti con operazioni nel Salento e intorno a Reggio: Taranto e tutte le altre colonie gre-che dell’Italia meridionale furono costrette ad entrare nell’alleanza con Roma161.

160 Polib., III, 25, 1-5.161 GABBA et al. 1999, pp. 77- 81.

Ritratto di Pirro

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Le Guerre PunicheDopo la vittoria su Pirro, Roma controllava ormai tutta l’Italia peninsulare, a nord dal fiume Arno fino a Rimini, a sud fino allo stretto di Messina. Proprio nell’area dello Stret-to, punto fondamentale d’importanza economica e strategica, gli interessi di Roma en-trarono per la prima volta in contrasto con quelli di Cartagine, con la quale fino a quel momento era sempre stata legata da buoni rapporti, rinnovati con il trattato del 279 a.C.Lo scontro precipitò a causa dei Mamertini, mercenari di origine italica che si erano impadroniti con la forza di Messina. Questo comportamento provocò la reazione dei Siracusani, guidati dal generale Ierone, che inflisse ai Mamertini una severa sconfitta e avanzò verso Messina. I Mamertini accolsero dunque l’offerta di aiuto di una flotta cartaginese che ovviamente vedeva con preoccupazione la possibilità che i Siracusani si impadronissero della zona dello Stretto: Ierone fu costretto a far ritorno a Siracusa. I mercenari si stancarono presto della tutela cartaginese e decisero di fare appello a Roma, dove iniziò un serrato dibattito a favore o contro l’intervento a Messina. Se molte ragioni consigliavano di mantenere la pace, d’altra parte far cadere nel vuoto l’appello dei Mamertini significava lasciare ai Cartaginesi il controllo della zona strategica dello Stretto. Secondo il racconto di Polibio162 proprio questa motivazione avrebbe indotto l’assemblea popolare a votare l’invio di un esercito in soccorso dei mercenari.

La I Guerra Punica (264-241 a.C.)I primi anni di guerra furono decisivi: i Romani riuscirono a respingere da Messina Car-taginesi e Siracusani, che avevano deciso di allearsi. Nel 263 a.C. il re Ierone comprese che l’alleanza con Cartagine era pericolosa per Siracusa e decise quindi di concludere una pace e di schierarsi dalla parte di Roma. Il leale sostegno di Ierone si rivelò indispen-sabile per superare le difficoltà di rifornimento degli eserciti romani. A Roma, inoltre, si decise per la prima volta la creazione di una grande flotta che nel 260 a.C., guidata dal console Caio Duilio, ottenne una clamorosa vittoria sulla flotta cartaginese nelle acque di capo Myles (Milazzo) 163.Dopo la vittoria navale di Milazzo, a Roma si pensò di poter assestare un colpo mortale a Cartagine attaccandola direttamente nei suoi possedimenti africani: l’invasione (256-255 a.C.), iniziata sotto i migliori auspici, si concluse in un fallimento: l’esercito romano, al comando di M. Attilio Regolo, fu duramente battuto dai Cartaginesi, comandati dal generale spartano Xantippo. Solo dopo qualche anno Roma fu in grado di costruire una nuova flotta, inviata al co-mando del console Caio Lutazio Catulo. La flotta che i Cartaginesi avevano frettolosa-mente equipaggiato fu sconfitta alle isole Egadi nel 241 a.C. A Cartagine si comprese che non vi era più alcuna possibilità di resistere e si domandò la pace: le clausole preve-devano tra l’altro lo sgombero dell’intera Sicilia e delle isole che si trovavano tra l’isola e l’Africa (le Lipari e le Egadi) e il pagamento di un indennizzo di guerra164.Subito dopo scoppiò a Cartagine una violenta rivolta di mercenari e i Romani decisero di prestare aiuto agli antichi nemici, approfittando dell’occasione per impedire il ritorno in

162 Polib., III, 26, 1-5; SCARDIGLI 1991, 55-76.163 Il trionfo di Duilio venne celebrato con l’erezione nel Foro di una colonna rostrata, adornata cioè con gli speroni (rostra) e con le ancore delle navi cartaginesi che erano state catturate a Milazzo.164 Polib., I, 62, 7 – 63, 3.

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Sardegna e in Corsica delle stesse forze cartaginesi. Le tre grandi isole (Sicilia, Sardegna e Corsica) costituirono le prime provinciae romane, cioè territori extra italici conquistati e sottoposti al governo di un magistrato di Roma.

La II Guerra Punica (218-202 a.C.)La sconfitta del 241 a.C. e l’umiliazione subita quando Roma si era impadronita della Sardegna, avevano creato a Cartagine un forte sentimento di rivincita contro l’Urbe, che animava soprattutto la famiglia dei Barca: Amilcare, il generale che nella fase finale della I guerra punica aveva duramente impegnato i Romani e soprattutto suo figlio Annibale. Dopo la perdita della Sicilia e della Sardegna, Cartagine aveva ricostruito basi per una ri-scossa in Spagna, dove la sua influenza politica era limitata agli insediamenti fenici della costa sud-orientale, tra i quali è da ricordare Gades, l’odierna Cadice. L’espansione carta-ginese e quella contrapposta dei Romani resero necessaria la stipulazione di un trattato fra le due potenze: il cosiddetto trattato dell’Ebro, un fiume della Spagna settentrionale, del 226-225 a.C. che stabiliva come i Cartaginesi non potessero fare guerra nei territori al di là dello stesso fiume165.Succeduto al cognato Asdrubale al comando delle forze cartaginesi in Spagna nel 221 a.C., Annibale iniziò ad elaborare un piano di guerra contro Roma. Il comandante carta-ginese sfruttò sagacemente il problema costituito da Sagunto: ponendo l’assedio alla città nel 219 a.C., costrinse in effetti i Romani a dichiarare guerra in un momento in cui si trovavano impreparati. Dopo la conquista di Segunto, Annibale con un ingente esercito, marciò verso l’Italia: attraversata la Spagna e superati i Pirenei, oltrepassò il Rodano e nel settembre del 218 a.C. superò le Alpi. Dopo aver vinto i romani presso i fiumi Ticino e Trebbia, egli si spinse verso sud ottenendo un’importante vittoria nei pressi del lago Trasimeno sulle truppe del console Caio Flaminio (217 a.C.). A Roma si fece strada l’idea che fosse impossibile sconfiggere Annibale in campo aperto, secondo quanto sosteneva in particolare l’ex-console Quinto Fabio Massimo, che ven-ne immediatamente nominato dittatore. Secondo la strategia di Fabio Massimo era ne-cessario evitare le battaglie campali e limitarsi a controllare le mosse di Annibale e ad impedire che da Cartagine o dalla Spagna gli giungessero degli aiuti. Scaduti i sei mesi della dittatura di Fabio Massimo, a Roma si decise di passare nuovamente all’offensiva, sperando di poter schiacciare Annibale con la semplice superiorità numerica: ma nel 216 a.C., il condottiero cartaginese, riuscì a distruggere gli eserciti congiunti dei consoli Marco Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo nella piana di Canne nel 216 a.C. 166.La guerra pareva ormai perduta per Roma. Numerose comunità dell’Italia meridionale, tra le quali Capua, insieme alle popolazioni dei Sanniti, dei Lucani e dei Bruzi, si ribel-larono. Nel 212 a.C. anche Taranto si schierò dalla parte dei Cartaginesi, ma un piccolo presidio romano continuò ad occupare la cittadella e a sorvegliare il porto, impedendo ad Annibale di ottenere rinforzi. Tuttavia Roma riuscì a resistere grazie alla fedeltà delle colonie latine e di molti socii dell’Italia centrale. In questo modo nel 211 a.C. i Romani riuscirono a recuperare Capua. Le speranze di un successo finale per Annibale si affievolirono quando fallì la spedizione

165 GABBA et al. 1999, pp. 91 e sgg.166 Cit. p.92.

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di soccorso guidata da suo fratello Asdrubale: giunto sul fiume Metauro, nelle Marche, il corpo di spedizione fu affrontato e distrutto dagli eserciti riuniti dei due consoli; anche Asdrubale cadde in battaglia (207 a.C.). Nel frattempo i Romani erano riusciti ad affer-marsi negli altri teatri di guerra che furono interessati dal conflitto: la Sicilia, la Mace-donia e soprattutto la Spagna, dove si distinse il figlio omonimo di quel Publio Cornelio Scipione che era stato battuto da Annibale nel 218 a.C. Il giovane Scipione portò nel 204 a.C. la guerra in Africa, quando ancora Annibale si trovava nei pressi di Crotone. Di importanza fondamentale si rivelò l’alleanza con Massinissa, capotribù numida in rivolta contro Cartagine. Nel 203 a.C. Scipione e Massinissa ottennero un’importante vittoria nella battaglia dei Campi Magni. Annibale, che era stato richiamato in patria, sbarcò in Africa con il suo esercito di veterani. La battaglia che pose fine al conflitto si svolse nel 202 a.C. nei pressi della città di Zama: la cavalleria numida di Massinissa diede questa volta la vittoria ai Romani. Le trattative di pace, che si conclusero solo nell’anno seguente, comportarono clausole durissime per Cartagine.

La III Guerra Punica (149-146 a.C.)Circa cinquant’anni dopo la fine della seconda, Roma scatenò la terza guerra contro la potenza cartaginese. Nel 151 a.C. il tributo che Cartagine era stata costretta a paga-re cessò, e tre anni più tardi il popolo decise di eleggere console in via straordinaria Scipione l’Emiliano, che era sostenitore della soluzione finale contro gli eterni nemici. Una nuova ideologia di arricchimento, che iniziava a farsi strada tra la classe dirigente e la classe dei ricchi mercanti, fece da supporto ai progetti militaristici di Scipione Emiliano e degli altri leaders dell’aristocrazia romana. Il dibattito in senato fu molto acceso: da una parte vi era la fazione di coloro che volevano la guerra ad ogni costo; dall’altra parte stavano, invece, i senatori come Scipione Nasica che sostenevano l’idea del metus hostilis, la teoria secondo la quale uno stato doveva sempre avere un nemico di cui aver paura167.Il partito dell’imperialismo estremo ebbe la meglio ma la guerra non venne dichiara-ta subito: i Romani, infatti, attesero un pretesto plausibile e ragionevole168. Vennero iniziate anche delle trattative di pace attraverso cui Roma voleva guadagnare tempo per ingannare il nemico. Man mano i Cartaginesi si affidarono alla fides dei Romani, inviando 300 ostaggi e consegnando le armi. Alla fine, però, Roma volle anche che tutti gli abitanti abbandonassero la città. Davanti a questo insostenibile ricatto, Cartagine dichiarò guerra: si riarmò in fretta, arruolando anche gli schiavi, e sostenne un assedio per tre anni. Infine, nel 146 a.C., dopo furiosi combattimenti, la città cadde. I Cartagi-nesi che non erano morti in battaglia vennero fatti schiavi e la città divenne territorio pubblico romano.

Le Guerre MacedoniNel corso del III e del II secolo a.C. Roma fu impegnata in un lungo conflitto con la Macedonia per il dominio del settore orientale del Mediterraneo. Da tempo Roma aveva esteso le proprie ambizioni verso l’Oriente: nel 273 a.C. aveva firmato un trattato

167 GABBA et al. 1999, p. 111.168 Polib., 36.2.

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con l’Egitto e nel 244 a.C. aveva fondato una colonia latina a Brindisi. Dall’altra parte del Mediterraneo la regina Teuta aveva esteso il suo dominio dall’Illiria all’Epiro. L’in-tervento dei Romani fu immediato: con una rapida campagna di guerre tra il 229-228 a.C. Teuta fu sconfitta e costretta a pagare un forte tributo. L’altro principe illirico, De-metrio di Faro, divenne un re cliente di Roma. Un decennio più tardi l’Urbe dichiarò nuovamente guerra: Demetrio fu costretto a rifugiarsi presso la corte di Filippo II re di Macedonia. In quest’occasione la potenza romana strinse un trattato di alleanza con l’intera Grecia169.

La I Guerra Macedone (216-205 a.C.)L’intervento di Roma al di là dell’Adriatico aveva reso inevitabili i contatti con Filippo V. Quest’ultimo cominciò a spalleggiare Demetrio di Faro nel suo tentativo di riconquistare il regno di Illiria. Inoltre egli stipulò un trattato con Annibale, che si trovava in quegli anni in Italia, per stringere Roma in una duplice morsa. La guerra si concluse nel 205 a.C. con la pace di Fenice, senza vincitori né vinti, ma portando ad un capovolgimento di alleanze: Filippo lascerà l’onere maggiore delle operazioni belliche ai suoi alleati Greci; Roma lascerà i suoi vecchi alleati per allearsi con i Greci, organizzati nella Lega Etolica, che a sua volta stipulò un’alleanza separata anche con Filippo nel 206 a.C.

La II Guerra Macedone (200-197 a.C.)Dopo una serie di azioni belliche da parte di Filippo, il regno di Pergamo e la repub-blica di Rodi inviarono a Roma un’ambasceria per chiedere un intervento militare contro l’espansionismo macedone. Eccezionalmente il popolo romano votò contro il nuovo impegno militare. In una seconda votazione venne comunque convinto dai capi aristocratici ad appoggiare la nuova guerra nel 200 a.C. Due anni più tardi, uno dei massimi rappresentanti di questa politica, Tito Quinzio Flaminino, venne eletto console e riuscì ad ottenere l’alleanza di Atene, Sparta e di altre regioni della Grecia, spinte da un forte desiderio di liberazione dall’egemonia macedone. Nel 197 a.C. le legioni romane travolsero la falange macedone a Cinocefale, in Tessaglia. Lo scontro ebbe conseguenze importanti soprattutto dal punto di vista politico: tutte le città greche furono dichiarate libere, prigionieri e disertori dovevano essere riconsegnati a Roma e Filippo fu costretto a pagare una forte indennità. Flaminino rimase in Gre-cia e riorganizzò l’intera regione, per poi tornare nel 194 a.C. all’Urbe. Il ritiro dei Romani dalla Grecia venne visto come un segno di debolezza da An-tioco III, re di Siria, che ne approfittò per aumentare le sue conquiste in Asia e fino alla Tracia, iniziando un periodo di guerra fredda con Roma. Nelle sue conquiste si spinse sino all’Ellesponto e questo fece scattare la risposta romana. L’esercito sbarcò in Grecia e affrontò nel 191 a.C. Antioco e i suoi alleati Etoli. Successivamente, le truppe romane inseguirono i siriaci e li sconfissero nella battaglia di Magnesia nel 189 a.C., sotto il comando di Scipione Asiatico. L’egemonia di Roma si estese su buo-na parte dell’Asia, Antioco III dovette impegnarsi a non avere una flotta superiore a dieci navi e a pagare un tributo170.

169 GABBA et al. 1999, p. 98.170 GABBA et al. 1999, p. 99 e sgg.

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La III Guerra Macedone (171-168 a.C.)Nel 179 a.C. in Macedonia, Perseo, il figlio e successore di Filippo V, salì al trono e iniziò una politica di riscossa antiromana, appoggiato anche da alcuni stati Greci, compresa la Lega Etolica che era stata alleata di Roma, la quale non esitò a preparare l’intervento armato. Nel 168 a.C. a Pidna, in Macedonia, si fronteggiarono ancora la falange greca e le legioni romane comandate dal console Lucio Emilio Paolo. Perseo venne sconfitto e il regno di Macedonia finì per sempre, con la divisione del territorio in quattro distretti171.

I GracchiNello stesso periodo in cui Roma stava creando un impero di vasta portata, in politi-ca interna sempre più forte era lo scontro tra le diverse fazioni. Le più ricche famiglie plebee e le antiche gentes patrizie conquistarono le più alte magistrature e il controllo totale dell’accesso al senato. Divenne inevitabile lo scoppio di un duro conflitto tra l’a-ristocrazia più conservatrice, organizzata nella fazione degli optimates, e uomini politici con maggiore attenzione verso le fasce più basse della società, organizzati nella fazione dei populares: tra questi ultimi si schierarono i fratelli Tiberio Sempronio Gracco e Caio Sempronio Gracco. Tiberio Gracco venne eletto tribuno della plebe per l’anno 133 a.C. La situazione eco-nomico-politica era drammatica e propose subito di approvare una legge agraria per regolamentare il possesso e l’uso delle terre pubbliche. Il progetto spaccò i due principali gruppi politici dell’aristocrazia romana, in particolare quei ricchi che avevano abusato dell’ager publicus e vedevano minacciate le loro ricchezze. Per garantire il successo Tibe-rio decise di candidarsi alla rielezione a tribuno della plebe per l’anno successivo, mal-grado il divieto di ricoprire la stessa magistratura prima di un periodo minimo di dieci anni. Accusato di aspirare alla monarchia, Tiberio Gracco venne abbandonato dai suoi sostenitore, finché un gruppo di senatori guidati da Scipione Nasica lo uccise172.Nel 123 a.C. venne eletto al tribunato della plebe suo fratello, Gaio Gracco, che ampliò i progetti politici non limitandosi alla priorità della legge agraria. Per aumentare il consen-so tra la plebe urbana, fece passare una lex frumentaria che bloccava il prezzo del grano, e fece costruire dei magazzini appositi per conservarlo (Sempronia horrea). L’opposizione fu fortissima, e si accusò Gaio di sperperare i soldi dello Stato. L’anno successivo si fece rieleggere tribuno e varò la proposta di concedere il diritto di voto a tutti gli alleati italici, per aumentare la propria base elettorale e per evitare quel problema nascosto che sfociò poi, alcuni anni più tardi, nelle guerre sociali. A Roma, però, l’opposizione fu violenta: il suo stesso gruppo si sfaldò e scoppiarono le lotte. Infine Gaio venne attaccato dagli avversari armati e pose fine ai suoi giorni facendosi uccidere da uno schiavo173.Si andava  inoltre  sviluppando, all’interno della compagine sociale romana, un nuovo soggetto politico: l’ordine equestre. I cavalieri, infatti, si erano avvalsi delle nuove con-quiste in Oriente, che avevano ampliato l’orizzonte mercantile di Roma, per imporsi come ceto imprenditoriale e commerciale; inoltre, in molte delle nuove province, la ri-scossione degli appalti fu a favore degli equites, detti pubblicani, che con questa attività

171 GABBA et al. 1999, pp. 103-105.172 GABBA et al. 1999, pp.111-112.173 GABBA et al. 1999, pp. 113- 116.

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costruirono enormi fortune. Alla crescita economica dei cavalieri non corrispose però un adeguato ruolo politico e l’ordine equestre restò escluso dalle funzioni di governo dello stato, eccezion fatta per qualche isolato esponente che accedeva al senato come homo novus (non proveniente cioè da famiglie senatorie). La lotta più dura fu quella ini-ziata nella seconda metà del II secolo a.C., caratterizzata da fasi alterne, per accedere alla quaestio de pecuniis repetundis, commissione di controllo sull’operato dei governatori e amministratori delle province; se non potevano essere ceto di governo, gli equites preten-devano almeno una funzione di controllo su chi governava, a tutela dei propri crescenti interessi economici174.

La Guerra SocialeA questo periodo di crisi si aggiunse il malcontento degli Italici che sfociò nella richiesta, sempre più pressante, di accedere alla piena cittadinanza romana per godere finalmente di quei diritti che sentivano ormai propri, particolarmente in ragione del grave tributo di sangue che avevano pagato a Roma nel decenni precedenti. Nel 91 a.C. venne eletto al tribunato della plebe Marco Livio Druso che nell’ambito del suo vasto programma di riforme presentò anche una proposta di legge per il conferimento della piena cittadi-nanza ai socii. Il progetto tuttavia incontrò una ferma opposizione, in cui gli interessi dell’aristocrazia senatoria si saldarono con l’esclusivismo della plebe urbana di Roma, che non voleva spartire con nessuno i privilegi che le venivano dalla cittadinanza. Il Senato dunque dichiarò nulla tutta l’opera legislativa di Druso e il tribuno stesso venne ucciso. Gli uomini politici italici che avevano collaborato con Druso e lo avevano soste-nuto si convinsero che non era più possibile risolvere il problema attraverso vie pacifiche e che l’unico modo era quello di ricorrere alla forza.Il segnale dello scoppio della cosiddetta Guerra Sociale (che prese il nome dai socii, gli alleati italici che si ribellarono a Roma) venne da Asculum, nel Piceno, dove nell’inverno 91-90 a.C. il pretore e tutti i cittadini romani residenti nella città vennero massacrati. La rivolta si estese molto rapidamente alle popolazioni del versante medio-adriatico. Nella sezione più meridionale della catena appenninica aderirono alla rivolta i Sanniti e i Luca-ni. Non parteciparono alla ribellione invece gli abitanti della Gallia cisalpina, gli Etruschi e gli Umbri. Rimasero fedeli anche le città che godevano del diritto latino, e che dunque erano già privilegiate rispetto ai semplici alleati, come anche le poleis greche dell’Italia meridionale175. Gli insorti si erano dati nel frattempo istituzioni federali comuni: una capitale, Corfinium, nel territorio dei Peligni, che venne ribattezzata Italica e una mone-tazione propria, che fu veicolo propagandistico delle loro idee.Le operazioni militari non andarono bene per i Romani: addirittura il console al co-mando degli eserciti nel settore centro settentrionale fu sconfitto e ucciso dagli insorti, comandati dal marso Poppedio Silone. Questo e altri insuccessi convinsero Roma a fare ciò che fino a pochi mesi prima aveva ostinatamente rifiutato: dare al conflitto una so-luzione politica. Già nel 90 a.C. con la Lex Iulia de civitate176, proposta dal console Lucio Giulio Cesare, concesse la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli e alle comunità

174 GABBA et al. 1999, pp. 116-117.175 Vell., II, 15, 1-3.176 Appian., I, 212-213.

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che avessero deposto le armi entro un termine di tempo prestabilito. Nel successivo anno 89 a.C., la Lex Plautia Papiria (promossa dai tribuni della plebe Caio Papirio Carbone e Marco Plauzio Silvano) estese la cittadinanza a quanti degli Italici si fossero registrati presso il pretore di Roma entro sessanta giorni. Nel medesimo anno il nuovo console Cneo Pompeo Strabone (padre di Pompeo Magno) attribuì con la sua lex Pompeia il diritto latino alle comunità alleate a nord del Po. Le misure prese da Roma circoscrissero la rivolta, anche se la guerra si trascinò fino all’88 a.C. in particolare intorno ad Ascoli e nel Sannio.Gli effetti furono profondi: gli Italici erano stati sconfitti dal punto di vista militare, ma uscivano vincitori dal punto di vista politico. Per limitare la rivolta Roma era stata infatti costretta a concedere la cittadinanza romana in pratica a tutti agli alleati, fino al Po, an-che se il loro inserimento nelle strutture politiche dello stato fu lenta. Da quel momento iniziò un processo di integrazione che portò la nobiltà italica a entrare a far parte del Senato, mentre i cittadini delle comunità alleate a ricevere diritto di voto per l’elezione dei magistrati della Repubblica e ad avere la possibilità di militare fianco a fianco dei vecchi cives Romani nelle legioni177.

Mario, Silla e la I Guerra CivileNel frattempo, gravi problemi continuavano a caratterizzare la politica interna di Roma. Durante la prima guerra combattuta contro Mitridate VI, re del Ponto, scoppiò un vio-lento conflitto tra Caio Mario, rappresentante della fazione dei populares e Lucio Corne-lio Silla, il capo della fazione aristocratica degli optimates, per il comando delle forze di spedizione. Entrambi valenti militari, avevano già dato prova delle loro capacità belliche: Mario aveva infatti già ricoperto per cinque volte il consolato e si era distinto per le vit-torie contro i Teutoni nel 102 a.C. (ad Aquae Sextiae) e i Cimbri nel 101 a.C. (ai Campi Raudii), oltre che contro Giuturna, re di Nuumidia qualche anno prima (107 a.C.)178.

Aveva inoltre promosso una riforma che, favorendo gli arruolamenti volontari, anche tra i proletari, trasformava l’esercito in un corpo professionale, fedele più al generale che l’aveva reclutato che alla causa dello stato romano179.Silla, console nell’88 a.C., aveva avuto un ruolo fondamentale nella guerra sociale e pro-prio alla testa delle legioni - che aveva guidato nel corso di quel conflitto - marciò su Roma. La fuga di Caio Mario gli lasciò libero il campo: Silla fu rieletto console e partì per la guerra contro Mitridate che si protrasse dall’87 al 85 a.C. con la stipulazione della pace di Dardanos. Durante la sua assenza però, Caio Mario e Lucio Cornelio Cinna, rivestendo nuovamen-te il consolato, si rimpadronirono del potere, che mantennero fino alla morte, avvenuta nell’86 a.C. per Mario e nell’84 a.C. per Cinna. Quando Silla, nell’83 a.C., ritornò dall’Asia Minore, marciò di nuovo su Roma, stroncò la resistenza dei suoi avversari nella battaglia decisiva presso Porta Collina180 e instaurò un regime senza precedenti nella repubblica

177 GABBA et al. 1999, pp. 122 sgg.178 Sall., 86, 2-3.179 Fino al II sec. a.C. di regola servivano nelle legioni romani solamente coloro che erano in possesso di un certo censo, in particolare coloro che erano proprietari di un lotto di terreno che ne assicurasse una dignitosa sussistenza; i nullatenenti erano invece esentati dal servizio militare, se non casi di eccezionale emergenza.180 Liv., XI, 82.

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romana. Venne nominato, infatti, dittatore, e provvide all’eliminazione dei suoi nemici mediante proscrizioni. Le terre appartenenti agli oppositori politici furono confiscate e distribuite ai veterani delle sue legioni ed emanò poi numerose leggi (le leges Corneliae) che restituivano all’aristocrazia senatoria il pieno controllo della vita politica dello stato, limitando non poco le prerogative dell’ordine equestre, cui Mario aveva concesso alcuni privilegi. Silla si ritirò dalla politica nel 79 a.C., lasciando un pericoloso esempio alle generazioni immediatamente successive: quello di un potere che, pur nell’ambito di una struttura costituzionale repubblicana, aveva i caratteri autocratici della monarchia.

Cesare e il Primo TriunviratoNel 67 a.C. Pompeo Magno, uomo politico e generale che aveva combattuto i seguaci di Mario in Africa, in Sicilia e in Spagna, liberò il Mediterraneo dai pirati e fu incaricato di condurre una nuova guerra contro Mitridate. Nel frattempo il suo rivale, Caio Giulio Cesare, di antichissima gens patrizia, acquistò progressivamente una notevole influenza politica come capo della fazione dei populares e si alleò con il ricchissimo Marco Lici-nio Crasso. Pompeo, tornato vittorioso dall’Oriente, chiese al senato di ratificare le sue conquiste e distribuire le terre ai suoi veterani. Le sue richieste si scontrarono con una serie di veti da parte del senato. A questo punto lo stesso Cesare, insieme con Crasso e Pompeo Magno strinsero un’intesa, il cosiddetto primo Triumvirato, nel 60 a.C.181. Non si trattava di una vera e propria magistratura, ma di un patto privato tra i più potenti uomini politici del tempo, ciascuno dei quali legato a propri interessi da proteggere e promuovere182. L’accordo triumvirale consentì a Cesare di ottenere il consolato e a Pompeo di far ac-cettare le proprie richieste. Gli interessi dei cavalieri, sul cui appoggio Cesare contava, vennero soddisfatte, garantendo ai pubblicani condizioni vantaggiose negli appalti per la riscossione dei tributi nelle province orientali. Fu inoltre introdotta una legge agraria per consentire a Pompeo di ricompensare adeguatamente le sue truppe con donativi di terre. Il coronamento dei successi di Cesare fu il comando militare ottenuto in Gallia cisalpina, in Illiria e più tardi anche nei possedimenti romani nella Gallia d’oltralpe. Da qui, nel 58 a.C., mosse alla conquista di tutta la Gallia Transalpina, portandola a termine nel 51 a.C., dopo una serie di lunghe e faticose campagne.Nel  56  a.C.  i  triumviri rinnovarono la loro alleanza presso Lucca, e mentre a Cesare venne prorogato il comando della Gallia ancora per cinque anni, Pompeo e Crasso fu-rono eletti consoli per l’anno successivo (55 a.C.): al primo venne affidato il controllo di Spagna e Africa, mentre Crasso ricevette la Siria. La morte di quest’ultimo nel 53 a.C., pose Pompeo in aperto conflitto con Cesare. Mancando un governo efficiente, a Roma scoppiarono violenti tumulti: il senato persuase Pompeo a restare in Italia, affidando le sue province a legati e lo elesse unico console, sine collega, nel 52 a.C. decidendo di sostenerlo contro Cesare, a cui venne imposto di rinunciare al comando militare (per impedire la sua elezione a console).

181 Graves principum amicitiae, così definito da Orazio (Carmina, 2.1.3-4).182 Il grande oratore Marco Tullio Cicerone, di tendenze politiche conservatrici, si era accorto della sua pericolosità e lo avversò: il processo di “personalizzazione” della vita politica romana, che aveva avuto nelle figure di Mario e Silla i più illustri precedenti, stava per assumere così una strada senza ritorno, che avrebbe minato la natura stessa della repubblica. Si veda GABBA et al. 1999, pp. 138-141.

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Cesare rifiutò e, nel 49 a.C., dalla Gallia Cisalpina scese verso sud attraversando in armi il fiume Rubicone, confine del pomerium sillano. Iniziò così un periodo di guerra civile che si concluderà solo nel 31 a.C. Presa Roma, Cesare obbligò Pompeo e i membri più in vista dell’aristocrazia a ritirarsi in Grecia, dove si diede origine ad una sorta di governo legittimo in esilio; Pompeo fu ucciso in Egitto dopo un lungo inseguimento da parte dei cesariani. La guerra contro i suoi partigiani continuò finché questi non vennero sconfitti duramente nel-la battaglia di Tapso (46 a.C.) e definitivamente in quella di Munda (45 a.C.). Cesare iniziò ad accentrare progressivamente nella sua persona numerosi poteri e funzioni: la ripetuta assunzione della dittatura e del consolato, l’attribuzione di alcune prerogative dei tribuni della plebe e la praefectura morum, che sostituì la censura. Infine si proclamò dittatore a vita agli inizi del 44 a.C.: l’eccezionalità della sua posizione politica venne ribadita da forme di culto della personalità del tutto estranee alle consuetudini della repubblica romana.Il nuovo “leader” della politica romana aveva però sottovalutato il peso delle tradizioni repubblicane e si creò numerosi nemici nell’ambito dell’aristocrazia dell’Urbe. Il 15 marzo del 44 a.C. infine il dittatore venne assassinato a seguito di una congiura, proprio mentre stava ideando una spedizione militare in Oriente che avrebbe eguagliato il suo prestigio militare a quello di Alessandro Magno e avrebbe riscattato il fallimento di Crasso.

Ottaviano e la fine della repubblicaLa morte di Cesare aveva colto di sorpresa i seguaci del dittatore e questo, forse, spiega la necessità di un compromesso tra i gruppi politici, in un clima di forte tensione. La plebe urbana era ostile ai cesaricidi e filo cesariane erano anche le compagini militari presenti a Roma o nei territori delle province e delle colonie. Alla fine, i due principali responsabili della morte di Cesare, G. Cassio Longino e M. Giunio Bruto lasciarono l’Italia per assume-re comando nelle province orientali, dove avrebbero cercato di organizzare una resistenza armata contro i cesariani. Ma in Italia la fazione che parteggiava per il dittatore assassinato era anch’essa spaccata: la preminenza di Marco Antonio, in collisione con l’oligarchia sena-toria venne compromessa dall’arrivo dall’Epiro del giovane Ottaviano, pronipote di Cesare, che nel testamento il dittatore adottava e designava come suo successore.La situazione precipitò sul finire del 44 a.C., quando M. Antonio mosse verso la Cisalpi-na per scacciare Decimo Bruto. I due consoli del 43 a.C., G. Vibio Panza e A. Irzio, prese-ro a muovere con Ottaviano contro Antonio, che assediava a Modena Bruto, dichiarato hostis dal senato. La finale sconfitta di Antonio e la morte dei due consoli in battaglia, ebbe come primo esito l’elezione di Ottaviano a consul suffectus. Di li a poco Marco An-tonio unì le proprie forze a quelle di Marco Emilio Lepido e Ottaviano per formare il secondo triumvirato (triumviri rei publicae constituendae), che questa volta fu una vera e propria magistratura straordinaria dello stato e portò alla separazione del potere in vista della guerra contro i cesaricidi. Fra le prime scelte dei triumviri vi furono le proscrizioni e l’eliminazione degli opposito-ri, fra cui Cicerone. Nel 42 a.C. Ottaviano e Antonio sconfissero gli assassini di Cesare, Bruto e Cassio a Filippi, in Tracia. Successivamente i triumviri si divisero il controllo dei domini romani: Ottaviano ebbe l’Italia e l’Occidente, Antonio l’Oriente e Lepido l’A-frica. Ottaviano cercò l’aiuto di quest’ultimo nella guerra contro Sesto Pompeo (il figlio di Pompeo Magno). Agrippa, console nel 38 a.C., assunse il comando delle operazioni e Antonio fornì aiuti. Il triumvirato fu rinnovato per altri cinque anni e nel 36 a.C.,

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Agrippa prima a Milazzo e poi a Nauloco vinse in modo definitivo Sesto Pompeo. Nel frattempo Lepido cercò di impossessarsi della Sicilia, con il risultato di venire privato della sua provincia e del suo ruolo all’interno del triumvirato. Alla morte di Sesto Pompeo il possesso del Mediterraneo rimase una questione privata fra Ottaviano, che aveva nel frattempo rafforzato notevolmente la sua posizione in Occi-dente, e Antonio, ormai suo unico rivale. Quest’ultimo, infatti, rafforzato il suo dominio in Oriente, viveva ormai in Egitto alla corte della regina Cleopatra, mirando a trasfor-mare l’insieme dei domini romani in una monarchia, su modello dei regni ellenistici. Lo scontro finale si ebbe ad Actium, sulla costa adriatica della Grecia, nel settembre del 31 a.C.183. M. Vipsanio Agrippa uscì vincitore e l’anno seguente Ottaviano, conquistando l’Egitto, costrinse al suicidio M. Antonio e la regina Cleopatra184.

2.1.2. L’età imperiale (Russo Cassandra Rita)Con l’età imperiale si intende quel periodo della storia di Roma che si fa partire con-venzionalmente dal 27 a.C., anno dell’attribuzione del titolo di Augustus a Gaio Giulio Cesare Ottaviano, fino al 476 d.C., anno della caduta dell’impero romano d’Occidente

I secolo d.C. – La Dinastia Giulio ClaudiaLa vittoria di Ottaviano su Marco Antonio nel mare di Azio del 31 a.C. segna, non solo la fine della battaglia tra i due, ma anche il termine del lungo conflitto che, iniziato con l’uccisione dei Gracchi, era proseguito con la lotta prima tra Mario e Silla, poi tra Cesare e Pompeo. L’anno viene preso come un importante punto di riferimento per l’età impe-riale poiché Ottaviano, cambiato il suo nome in Augusto nel 27 a.C.185, divenne titolare di un imperium maius (senza limiti territoriali rispetto agli altri titolari dell’imperium), oltre alle cariche e titoli che già possedeva come la tribunicia potestas (intero potere dei tribuni), Pontifex maximus e tutti gli onori che spettavano ai consoli. Egli divenne di fatto il princeps di un regime monarchico186 e si fece promotore di una politica rispettosa della tradizione e delle virtù morali, moderata nei comportamenti per il raggiungimento di un’era di pace e prosperità. Portò avanti una vera e propria propaganda ideologica che riu-scì ad insediarsi e diffondersi nel territorio romano grazie soprattutto all’arte ufficiale. Egli infatti si vantava di aver trovato una città in mattoni e di aver lasciato una città in marmo.Anche dal punto di vista amministrativo egli cercò di rispettare la tradizione mantenen-do le province del populus187 affidate a proconsules, ma vi aggiunse le province del prin-ceps affidate a legati Augusti pro praetore di nomina imperiale. La nomina di imperium maius consentiva però ad Augusto di legittimare qualsiasi sua azione sulle province del

183 La battaglia venne descritta da Virgilio nell’Eneide. Nel libro VIII della sua opera Virgilio descrive lo scudo di Enea, sul quale immagina siano raffigurati, come in una sorta di profezia per immagini, i principali episodi futuri della storia di Roma. Fedele interprete della propaganda di Ottaviano, il poeta presenta la battaglia di Azio come un epocale scontro tra l’Italia e i suoi dèi. Verg., VIII, 675-723.184 GABBA et al. 1999, pp. 142-147.185 Il 27 d.C. è l’anno che segna il passaggio dall’età repubblicana all’età imperiale, si veda pag. 47.186 All’epoca dei contemporanei e secondo storici come Strabone, Augusto non doveva apparire tale ma come un princeps che andava a giustapporsi alla res publica il cui centro propulsivo era il populus. Un nuovo ordinamento dunque basato su di una duplice signoria. Si veda LO CASCIO 2006, pp.284 e sgg.187 Province affidate ad ex-consoli o ex-pretori tramite l’usanza tardo repubblicana del sorteggio.

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populus o di sovrintendere alla gestione dei beni imperiali188. Alla morte di Augusto nel 14 d. C. la dinastia giulio-claudia189 proseguì sino al 68 d.C. e vide succedersi al potere quattro imperatori: Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone.Diversamente da Augusto, il suo successore Tiberio (14 – 37 d.C.), fu meno incline ad assumersi gli obblighi e le responsabilità del principato tant’è che Tacito ricorda che solo dopo molte insistenze Tiberio accettò la carica. Legato probabilmente ancora alla vec-chia res publica si circondò di alcuni uomini fidati. Affidò al nipote Germanico un im-perium maius, in particolare il controllo e la sicurezza dei confini, affiancando a esso Pisone, un aristocratico romano. Visti i successi in battaglia Germanico divenne molto popolare tra la plebe e i soldati e questo lo portò ad essere mal visto tanto che nel 19 d.C. venne avvelenato. Alcuni ritennero che il fautore fu lo stesso Pisone, mentre altri Tiberio che temeva per la successione del figlio Druso minore. Per allontanare da sé ogni dubbio l’imperatore fece processare Pisone ma prima della sentenza quest’ultimo si uccise. Ebbe inizio un periodo di congiure che portò alla morte di Druso minore nel 23 d.C. e al ritiro di Tiberio nell’isola di Capri190. La gestione dell’impero fu lasciata ai prefetti del pretorio Seiano prima e Macrone poi. Prima della morte di Tiberio Roma attraversò una crisi economica che portò lo stesso imperatore a mettere a disposizione una rilevante somma di denaro per risollevare le sorti dell’impero. Succedette a Tiberio il figlio di Germanico - Caligola (37 – 41 d.C.) - il quale non era stato nominato direttamente suo successore ma erede privato. Caligola fu il più discusso imperatore della dinastia e descritto come un sovrano autoritario che voleva esercitare un potere illimitato; una persona depravata in quanto si tramanda intrattenesse rapporti incestuosi con le sue sorelle e folle per le sue strambe azioni, come l’aver eletto senatore il suo cavallo. Spese in breve tempo parte del denaro lasciatogli da Tiberio e si inimicò la plebe e i pretoriani, cosa che lo portò inevitabilmente alla morte per congiura nel 41 d.C. L’unico erede a questo punto rimase Claudio (41 – 54 d.C.), fratello di Germanico. Di temperamento più mite e riservato, egli fu più interessato allo studio che al potere e per questo si dimostrò un buon politico e amministratore. Riformò l’apparato burocratico, emanò editti, realizzò opere pubbliche e migliorò l’approvvigionamento idrico di Roma. Fu promotore dell’estensione della cittadinanza agli stranieri e agli ex-schiavi e conqui-stò la Britannia. Claudio si fece però molti nemici soprattutto tra i nobili, per questo fu ucciso come il suo predecessore. Nel 54 d. C. fu avvelenato dalla moglie Agrippina che voleva favorire la salita al trono del figlio di primo letto Nerone.Nerone (54 – 68 d.C.) aveva solo 16 anni quando divenne imperatore e per questo venne affiancato dalla madre e dal filosofo Seneca. Negli anni a seguire e soprattutto dopo l’incontro con Poppea cominciò ad essere più indipendente ed autoritario tant’è che fece giustiziare Agrippina, sua madre, e allontanò lo stesso Seneca che si ritirò a vita privata. Nerone però è ricordato soprattutto per l’episodio dell’incendio di Roma nel 64 d.C. del quale venne accusato di essere stato il mandante anche a causa dei gran-diosi lavori edili, tra cui la Domus Aurea, che portò avanti proprio nell’area devastata.

188 LO CASCIO 2006, p. 288.189 Dinastia che prende il nome dal primo imperatore Gaio Giulio Cesare Ottaviano appartenente alla gens Iulia e dal suo successore Tiberio Claudio Nerone appartenente alla gens Claudia.190 Già ai tempi di Augusto Tiberio era andato in volontario esilio a Rodi, sottolineando così questa tendenza caratteriale all’isolamento.

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Per allontanare da sé le accuse che gli venivano mosse, l’imperatore incolpò a sua volta i cristiani dando così inizio ad una serie di persecuzioni nei confronti di coloro che professavano questa religione. Il malcontento portò ad una ribellione da parte dell’esercito che nel 68 d.C. nominò come princeps Sulpicio Galba e dichiarò Nerone hostis publicus191. Prima di essere ucciso il vec-chio imperatore si suicidò, ponendo così fine alla dinastia giulio-claudia. Il 68 d.C. viene ricordato come l’anno dei quattro imperatori192, poiché dal 68 al 69 si successero al comando dell’impero Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano, generali eletti di volta in volta dai loro eserciti193.

I-II secolo d.C. – Dalla Dinastia Flavia agli AntoniniNel 69 d.C. con Vespasiano (69 – 79 d.C.) ebbe inizio la dinastia flavia che rimase al potere sino al 96 d.C. Il nuovo imperatore segnò la rottura con la tradizionale ascesa al trono sia perché non era stato designato come erede e sia perché non aveva legami parentali con le famiglie più ingenti di Roma: egli infatti proveniva da una modesta fami-glia dell’ordine equestre194. La politica di Vespasiano si basò sull’integrazione delle popo-lazioni e delle élites provinciali, sul consolidamento dei confini e sulla ripresa economica dell’impero. Sotto il suo regnò Roma visse un periodo di pace e per questo fu uno degli imperatori più amati. Gli succedettero i figli Tito e Domiziano che negli anni precedenti erano stati ricoperti di cariche ed associati al potere.Tito (79 – 81 d.C.) regnò per soli due anni e questo breve lasso di tempo fu caratterizzato da terribili eventi come l’eruzione del Vesuvio (79 d.C.), che distrusse le città di Pompei, Ercolano e Stabia, un incendio che divampò a Roma e che devastò il tempio di Giove Capitolino e infine una terribile pestilenza. Le uniche imprese che lo resero famoso furo-no l’ assedio della città di Gerusalemme al termine della prima guerra giudaica (ancora sotto il regno del padre) e l’inaugurazione del Colosseo, il grande anfiteatro iniziato da Vespasiano.Alla morte di Tito, divenne imperatore il fratello Domiziano (81 – 96 d.C.) che riprese e nello stesso tempo si oppose alla politica paterna. Infatti per quanto riguarda la politica estera Domiziano puntò al rafforzamento dei confini e guidò personalmente l’esercito in alcune battaglie, per quanto riguarda la politica interna si impose come sovrano assoluto, come “Signore e dio” dal potere illimitato. Con le sue leggi e le condanne a morte per co-loro che gli si opponevano, ben presto si inimicò il Senato e i cristiani che videro in lui un

191 Dopo la sua morte Nerone fu soggetto alla damnatio memoriae, alla distruzione di ogni sua immagine, iscrizione o dedica per cancellare la sua memoria e non tramandarla ai posteri.192 L’anno in questione fu ricco di avvenimenti e rivolgimenti politici in quanto sapendo di essere stato riconosciuto come imperatore dai pretoriani, dopo la morte di Nerone, Galba giunge a Roma nell’ottobre del 68 d.C. Le truppe della Germania però non lo riconobbero ed elessero imperatore Aulo Vitellio. Galba a questo punto, per legittimare la sua posizione, nominò come suo erede un giovane appartenente all’elites senatoria, L. Calpurnio Pisone Frugi Liciniano, riprendendo una delle usanze più importanti nella tradizione romana. I pretoriani non soddisfatti elessero al suo posto M. Salvio Otone. Galba e Pisone fu-rono poi eliminati, lasciando così Otone e Vitellio ad un inevitabile scontro per il potere che si avrà nella primavera del 69 d.C. a Bedriaco. Nello scontro prevalsero le truppe di Vitellio ed Otone si suicidò. Nello stesso tempo in Oriente stava emergendo un altro generale, T. Flavio Vespasiano che ben presto fu eletto imperatore e si scontrò con Vitellio sempre a Bedriaco. Vitellio fu ucciso e Vespasiano riconosciuto come imperatore dal senato giunse a Roma nel 70 d.C.193 Galba dalle legioni ispaniche, Otone dalla guardia pretoriana a Roma, Vitellio dalle legioni germaniche e Vespasiano dalle legioni orientali e danubiane.194 Lex de imperio Vespasiani.

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nuovo persecutore. Fu soggetto a varie congiure che riuscì a sventare. Alla fine però uno dei tentativi ebbe successo e l’imperatore venne ucciso. Il malcontento che si era creato intorno fece si che, come Nerone, fu soggetto alla damnatio memoriae. Con la morte di Domiziano e l’ascesa al trono del vecchio senatore Marco Cocceio Nerva ha fine la dinastia dei Flavi e ha inizio quella degli Antonini, che si protrarrà sino al 180 d.C. con un nuovo sistema di successione: non più tramite legami parentelari ma per “adozione”.Nerva (96 – 98 d.C.) regnò per un brevissimo lasso di tempo e viene ricordato soprat-tutto per alcune leggi che favorirono l’alleggerimento fiscale195. Nel 97 gli venne associato alla reggenza il figlio adottivo Traiano, senatore della Spagna e ben voluto dall’esercito che gli succedette un anno dopo. Traiano (98 – 117 d.C.) si dedicò all’espansione dei confini e intraprese un conflitto con Decebalo, re dei Daci, che riuscì a sconfiggere prima nel 101 e poi definitivamente nel 106 quando il sovrano nemico si uccise e la Dacia divenne provincia romana. Le vittorie furono molto importanti poiché il cospicuo bottino, costituito principalmente da oro e argento, portò alla risoluzione dei problemi finanziari e riuscì a risollevare le finanze dell’impero. Nel 114-115 Traiano intraprese anche la guerra contro i Parti che minacciavano continuamente di invadere l’Armenia, stato-cuscinetto fra loro e Roma196. L’imperatore ebbe la meglio conquistando prima l’Armenia stessa poi la Mesopotamia. Di ritorno a Roma, ormai malato, morì. Prima di farlo riuscì ad indicare il suo successo-re, il figlio adottivo Adriano. Traiano verrà ricordato come l’Optimus princeps, non solo per le sue vittoriose battaglie ma anche per le opere e azioni da lui compiute in ambito urbanistico e sociale.Adriano (117 - 138 d.C.) è passato alla storia come l’imperatore filosofo perché si fece crescere la barba come i filosofi greci contribuendo alla diffusione di questa moda nelle classi di ceto alto. Non si dedicò ad una politica espansionistica ma al rafforzamento dei confini attraverso imponenti opere di difesa, come il Vallo di Adriano in Britannia. Amava viaggiare ed era molto tollerante (fece leggi a favore delle province, della classe equestre, degli schiavi e dei cristiani). Fu molto attivo anche in campo edilizio contri-buendo alla realizzazione di opere non solo a Roma e in Italia, ma anche nelle province.

II secolo d.C. – Dinastia degli AntoniniDopo di lui salì al trono Antonino Pio (138 - 161 d.C.), detto così per la devozione mo-strata nei confronti del suo predecessore del quale riprese l’atteggiamento tollerante e la difesa dei confini. Al contrario di Adriano però non lasciò mai Roma, fu poco attivo in campo edilizio e mostrò rispetto per il senato restituendo loro alcune prerogative. Per la sua successione adottò Marco Aurelio e Lucio Vero.Marco Aurelio (161 – 180 d.C.) regnò sino al 169 d.C. con il fratello adottivo Lucio Vero che morì in battaglia durante il conflitto contro Quadi e Marcomanni. Il suo regno fu caratterizzato da una serie di battaglie su vari fronti e dalla diffusione di un’epidemia, la peste, che provocò molte vittime. Il calo demografico comportò una crisi produttiva e una conseguente impossibilità nel pagamento dei tributi. Il tutto contribuì a far sprofon-

195 LO CASCIO 2006, p 326.196 LO CASCIO 2006, p 331.

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dare Roma in una difficile situazione finanziaria, produttiva e amministrativa.A Marco Aurelio, morto nell’accampamento di Vindobona, l’odierna Vienna, gli succe-dette nel 180 d.C. l’unico figlio vivente, Commodo. Commodo (180 – 192 d.C.) risolse il problema delle battaglie e dei confini concluden-do la pace con i barbari. Fu sottoposto dopo la sua morte, avvenuta per congiura con il coinvolgimento della sua concubina Marcia, alla damnatio memoriae da parte del senato per la sua stravaganza nell’esibirsi nei giochi gladiatori e per il suo comportamento irre-sponsabile e inappropriato. La sua immagine fu riabilitata dal suo successore Pertinace che cercava in questo modo di legittimare la sua ascesa al trono.

III secolo d.C. – La Dinastia dei SeveriSettimio Severo (193 – 211 d.C.) riuscì ad avere la meglio nella guerra civile in seguito alla morte di Pertinace e per legittimare la sua posizione si auto adottò alla famiglia degli Antonini. Con lui ebbe inizio la dinastia Severiana che si protrarrà sino al 235 d.C.Si presentò come un vero e proprio dominus, l’unico che poteva gestire l’Impero, interve-nendo con un pesante controllo sulle proprietà, sull’economia e sulla produttività. Fece molte riforme a favore dell’esercito e intraprese battaglie contro i Parti per recuperare il controllo di parte della Mesopotamia mentre sugli altri fronti cercò di mantenere la difesa dei confini. Alla sua morte aveva designato come successori i suoi due figli ma il maggiore, Caracalla, fece uccidere poco dopo il fratello minore Geta.Caracalla (211 – 217 d.C.) restò al comando per soli sei anni ed in questo breve lasso di tempo tentò di organizzare una grande spedizione per il controllo della Partia. Fu ucciso su istigazione del prefetto del pretorio Macrino che diventò in seguito imperatore.Macrino (217 – 218 d.C.) non fu ben voluto né dal senato in quanto primo non senatore divenuto imperatore, né dall’esercito poiché non continuò la politica di favoreggiamento portata avanti dai suoi predecessori. Continuò il conflitto contro i Parti ma non avendo successo stipulò una pace che non era molto favorevole per i Romani. Il malcontento generale e un complotto organizzato dalle donne della famiglia di Caracalla portarono all’uccisione dell’imperatore e all’acclamazione di Eliogabalo (ritenuto figlio del prece-dente imperatore) con il titolo di imperatore e col nome di Marco Aurelio Antonino.Eliogabalo (218 – 222 d.C.) era però estraneo alla tradizione romana e molto più vicino a quella orientale e al culto emeseno197. Decise di rifiutare la propaganda mili-tare e di portare avanti un suo culto personale in cui il dio sole appunto era superiore addirittura allo stesso Giove e lui stesso si nominò sacerdote del tempio che fece eri-gere, denominato Elagabalium. A tutto ciò si aggiunse un comportamento considerato indecente per i Romani, per questo le donne della famiglia che avevano favorito la sua ascesa gli fecero adottare il nipote Severo Alessandro che, dopo la sua uccisione da parte delle truppe, gli succedette.Durante il suo regno Alessandro Severo (222 – 235 d.C.), molto influenzato dalla non-na Giulia Mesa e dalla madre Giulia Mamea, cercò di restaurare il potere del senato e di riformare il diritto dando grande importanza ai giuristi stessi. Dovette però affrontare prima l’invasione dei Persiani e poi dei Germani che provocarono un malcontento delle

197 Ad Emesa, città della Siria, era venerato il dio “solare” della montagna El-Gabal. La divinità fu importata nel pantheon romano ed associato prima a Sol Indigens e successivamente a Sol Invictus.

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truppe che lo assassinarono con la madre. A questo punto l’esercito nominò imperatore il soldato Massimino.Massimino (235 – 238 d.C.) regnò per tre anni e durante questo periodo ebbe successo sul fronte germanico e su quello danubiano. Non fu però ben visto dalla classe politica e dalle èlites poiché fu considerato colui che ruppe con la tradizione. Egli infatti fu il primo soldato ad essere eletto imperatore e il primo che durante il suo impero non si recò mai a Roma per presidiare e difendere i confini territoriali. Con lui ha inizio una vera e propria “anarchia militare” poiché per mezzo secolo saranno le truppe ad eleggere e nello stesso tempo deporre o uccidere imperatori ed usurpatori198. Così si succedettero Gordiano I (238 d.C.), Gordiano II (238 d.C.), Gordiano III (238 – 244 d.C.), Filippo l’Arabo (244 – 249 d.C.), Decio (249 – 251 d.C.), Treboniano Gallo (251 – 253 d.C.), Emiliano (253 d.C.), Valeriano I (253 – 260 d.C.), Gallieno (253-268 d.C.), Claudio II “Gotico” (268 – 270 d.C.), Aureliano (270 – 275 d.C.), Probo (276 – 282 d.C.), Caro (282 – 283 d.C.), i figli Numeriano ( 283 – 284 d.C.) e Carino (283 – 285 d.C.).Nel 284 d.C. Diocleziano, un soldato di umili origini, fu acclamato imperatore dopo aver eliminato Carino, colui che aveva ucciso Numeriano.

IV-V secolo d.C. – Dalla tetrarchia alla dissoluzione dell’imperoDiocleziano (284 – 305 d.C.) introdusse la tetrarchia, un sistema di governo particolare in cui più governanti, ben quattro (due Cesari e due Augusti) amministrarono l’area territoriale di competenza. Dapprima, infatti, elesse Augusto Massimiano (286 – 305 d.C.) e nel 293 i due Cesari Costanzo Cloro (293 – 305 d.C.) e Massimo Galerio (293 – 305 d.C.). Anche se Diocleziono continuava ad avere un’influenza maggiore, il decen-tramento del potere consentiva un consolidamento del potere stesso e maggiore efficacia delle disposizioni prese. Per rafforzare la loro legittimazione i due Augusti e i due Cesari richiamarono la tradizione religiosa romana, per esempio facendosi chiamare Giovio ed Erculio (associati a Giove ed Ercole)199o portando avanti una serie di editti (nel 303 e 304 d.C.) contro i Cristiani, seguiti poi da una nuova persecuzione200. Dal punto di vista mi-litare introdussero il comitatus, truppe al seguito degli imperatori e rafforzarono quelle poste a difesa dei confini. Questo intervento comportò inevitabilmente un aumento della spesa e la necessità di una nuova riforma fiscale e amministrativa. Nel 305 i due Augusti abdicarono; Costanzo Cloro e Massimo Galerio vennero nominati al loro posto e vennero eletti due nuovi Cesari: Massimino e Severo. Aspiravano però a tali cariche il figlio di Massimiano, Massenzio, e il figlio illegittimo di Costanzo, Costan-tino. Dopo varie lotte ed auto-elezioni, nel 308 d.C. si cercò di ristabilire la tetrarchia. Fu nominato Augusto, al posto di Severo, un amico di Galerio di nome Licinio e Cesari Massimino e Costantino. Anche questa volta non durò molto e la tetrarchia si sfaldò: nel 312 Costantino e Licinio si allearono e il primo mosse guerra contro Massenzio, che nel frattempo si era autoproclamato Augusto, e lo uccise nella famosa battaglia di Ponte Milvio divenendo così l’unico imperatore di Roma. L’anno successivo, sempre con Lici-nio, Costantino emanò l’Editto di Milano (dal nome della città in cui si incontrarono) in

198 LO CASCIO 2006, p 407.199 LO CASCIO 2006, p 421.200 LO CASCIO 2006, p 427.

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cui si riconosceva e si riaffermavano la tolleranza nei confronti di tutte le altre religioni, in particolare di quella cristiana. Lo stesso Costantino si convertì al cristianesimo e la religione cominciò ad acquisire sempre più importanza. Motivi di carattere religioso e politico portarono poi ad un inevitabile scontro tra i due Augusti e nel 324 d.C. Costan-tino ebbe la meglio su Licinio e riunì il regno, ricostruendo anche la città di Bisanzio per presentarla come la nuova Roma d’Oriente (denominata Costantinopoli). Alla morte di Costantino nel 337 d.C. ci furono nuovi disordini e congiure tra i suoi successori a cui si aggiunse poi nel 350 d.C. l’acclamazione del soldato Magnezio da par-te delle truppe. Nel 353 d.C., però, il figlio Costanzo II riuscì a riunire il regno. Questo imperatore (353 – 361 d.C.) fu uno dei pochi che nel IV secolo si recò a Roma e si fece ben volere dall’esercito, anche se più successo di lui ebbe Giuliano, nipote di Costantino sopravvissuto alla strage dopo la sua morte, che fu acclamato Augusto dalle sue truppe. Costanzo si rifiutò di riconoscerlo come tale ma prima di arrivare allo scontro morì, lasciando Giuliano come unico imperatore.Giuliano (361 – 363 d.C.) portò avanti una serie di riforme volte all’alleggerimento fi-scale e contro la corruzione burocratica. Dal punto di vista religioso cercò di imporre la religione pagana ma l’ampia diffusione del cristianesimo non gli permise di imporsi. Ebbe una serie di successi in battaglia contro i Persiani ma non riuscì ad ottenere quello definitivo poiché fu ucciso proprio in uno scontro che portò alla fine e all’ estinzione della dinastia costantiniana.La pace con la Persia fu firmata dal nuovo imperatore Gioviano (363 – 364 d.C.) che morì poco dopo. Gli succedette un ufficiale di nome Valentiniano che associò al potere il fratello minore Valente e il figlio Graziano (375 – 383 d.C.) ancora bambino.Valentiniano (364 – 375 d.C.) e Valente (364 – 378) seguirono la stessa linea (militare, fi-nanziaria e amministrativa) del loro predecessore eccetto che dal punto di vista religioso, essendo loro stessi cristiani. Portarono avanti in particolare una riforma monetaria se-condo un sistema molto complesso che provocò solo confusione e instabilità. Alla morte di Valentiniano fu eletto il figlio minore Valentiniano II (375 – 392 d.C.) e dopo la morte di Valente, in battaglia contro i Goti, Graziano nominò imperatore Teodosio (379 – 395 d.C.). Quest’ultimo viene ricordato in particolare per la strage di Tessalonica poiché, dopo aver compiuto questo gesto, dovette piegarsi e sottomettersi al vescovo Ambrogio per essere perdonato essendo egli stesso un cristiano. Ciò fu una chiara dimostrazione di come il potere religioso stava assumendo sempre più importanza e influenza a discapito di quello temporale. Alla sua morte Teodosio diede il controllo dell’Occidente al figlio Onorio e dell’Oriente all’altro figlio, Arcadio. La “duplicità” imperiale era iniziata già con Diocleziano e Massimiano ma con Onorio (393 – 423 d.C.) e Arcadio (395 – 408 d.C.) divenne sempre più evidente, tanto da provocare una vera e propria scissione dell’im-pero. Inizialmente essendo i due Augusti ancora bambini furono affiancati da Stilicone, parente di Teodosio, che cercò di portare avanti la politica del suo predecessore, in par-ticolar modo nel riconoscere la necessità di un esercito barbarizzato per non gravare sui contadini e sulla proprietà terriera. Vennero stipulati accordi con capi barbari e tra questi in particolare con Alarico, re dei Goti, che con il suo esercito fu protagonista del famoso “sacco di Roma” del 410 d.C. Ben presto Arcadio in Oriente si ribellò all’autorità di Stilicone, portando avanti una serie di conflitti all’interno dell’impero. Anche a Roma la situazione non gli fu favorevole poiché l’imperatore Onorio si era schierato con la

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fazione antigermanica. Dopo la morte di Stilicone nel 408 d.C. Onorio stesso dovette far fronte prima ad Alarico e poi al suo successore Ataulfo il quale sposò sua sorella Galla Placidia. Ataulfo fu vittima di una congiura ed il suo successore Vallia arrivò a trattare con l’imperatore e a “restituire” Galla Placidia, che sposò Flavio Costanzo. Dall’unione dei due nacque il successore di Onorio, Valentiniano III, che essendo ancora bambino lasciò la reggenza alla madre, affiancata da Ezio.In questi anni la minaccia delle popolazioni barbare si fece sempre più insistente e tra queste in particolare gli Unni di Attila che si rivolsero verso l’Occidente a partire dal 450 d.C. Questi però non riuscirono ad arrivare né a Ravenna né a Roma perché fermati da un’ambasciata alla quale aveva preso parte anche il papa Leone. Valentiniano III fu ucciso e dopo di lui si susseguirono una serie di usurpazioni, con-giure ed ulteriori saccheggi da parte dei barbari sino al 476 d.C., considerata questa la data in cui cessò di esistere l’Impero Romano d’Occidente, con la deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augustolo.

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2.2 Centri e territori amministrati da Roma nell’area sud pontina

2.2.1. La viabilità (Alessandro De Bonis)

La via Appia «O via Appia, consacrata da Cesare (Domiziano) venerato sotto l’effigie di Ercole, tu che superi in celebrità tutte le vie d’Italia…..» Così i poeti Stazio201 e Marziale202 definiscono e celebrano la più nobile delle strade ro-mane, strada di memorie per i sepolcri che ne scandiscono l’andamento e di riferimenti puntuali nelle epigrafi che ricordano i personaggi più celebri e più umili che l’hanno percorsa. L’Appia è via di comunicazione fra popoli diversi, sia italici sia mediterranei, esempio supremo di sviluppi tecnologici antichi e eccellente testimonianza dell’espansio-ne del potere centrale di Roma.La via Appia è dunque una strada romana che collegava, e collega ancora, Roma a Brun-disium, (Brindisi), il più importante porto per volgere verso la Grecia e verso le terre d’Oriente; la grandezza di questa via è confermata dal soprannome con il quale gli stessi Romani la ricordavano: regina viarum203. La strada fu costruita con perizia e precisione degna dei migliori  ingegne-ri  moderni204 tanto da essere percor-ribile con ogni tempo e mezzo grazie alla pavimentazione che la ricopriva. Mentre, infatti, sul semplice sterrato gli agenti atmosferici, primo fra tutti la pioggia, rendevano difficile il cam-mino dei mezzi di trasporto a ruote, la presenza delle grandi pietre levigate e perfettamente combacianti che costi-tuiscono il fondo della via permetteva la circolazione in qualunque condizio-ne meteorologica. La pavimentazione poggiava a sua volta su di uno strato di pietrisco che colmava una trincea artificiale che assicurava la tenuta del drenaggio e permetteva lo scolo delle acque. Si trattava di una tecnica nuova e rivoluzionaria e fu a partire da una tale innovazione che la Repubblica e l’Impero di Roma poterono costruire la vastissima rete stradale del mondo romano antico. L’Appia si presentava quasi sempre rettilinea, larga circa 4,1 metri (14 piedi romani), misu-

201 Stat., Silvae II, 2, 12. 202 Mart., IX, 101. 203 CASTAGNOLI-COLINI-MACCHIA, 1972, p. 30. 204 PISANI SARTORIO 2003, pp. 21-25.

Stratigrafia e tecniche costruttive dell’antica via Appia

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ra che permetteva la circolazione nei due sensi di marcia, affiancata sui lati da cre-pidines (marciapiedi) per il percorso pe-donale. Quest’arteria  divenne dunque la regina delle strade con la comparsa, sulla stessa, e per la prima volta, di pietre miliari che ne indicavano la distanza da Roma.La motivazione che diede il via alla co-struzione fu puramente strategica e tatti-ca: conclusa la guerra contro le città latine nel 348 a.C., sottomessi i Volsci, dedotta la colonia a Terracina (Anxur) nel 329 a.C. e vinti gli Aurunci, i Romani fondarono le colonie di Sessa Aurunca nel 312 a.C. e quelle di Minturnae e Sinuessa nel 296 a.C.; da qui la necessità di collegare questi punti in modo da poter muovere velocemente gli eserciti in caso di necessità, garantendo ai nuovi poli controllo e sicurezza205. In seguito, cessate le questioni belliche, divenne anche una grandissima arteria commer-

ciale206, in quanto erano attraversate le terre più fertili e produttive della peniso-la, oltre a permettere strette comunica-zioni con l’Oriente e la Grecia, favorendo gli scambi di materie prime via mare. Si ricordano, partendo dall’Appia, impor-tanti diramazioni: quella con direttrice Terracina – Formia, la via Flacca del 184 a.C.; quella da Sinuessa a Cuma, Pozzuo-li e Napoli, la Domiziana del 95 d.C.; la via Popilia del 132 a.C. da Capua a Reg-gio verso la Sicilia. Attraverso questa fitta rete di vie, a cui si affiancava anche il diverticolo interno della via Latina o Casilina più antica, tutto giungeva velo-

cemente a Roma e da li smistato, favorendo anche lo sviluppo commerciale via nave207. I lavori per la costruzione iniziarono nel 312 a.C. per volere del censore Appio Claudio Cieco (Appius Claudius Caecus, appartenente alla Gens Claudia), che fece ristrutturare ed ampliare una strada preesistente che collegava Roma alle colline di Albano. I lavori

205 PISANI SARTORIO 2003, pp. 19-20. 206 PISANI SARTORIO 2003, p. 20. 207 I commerci navali erano sia fluviali che marittimi. Importanti porti trovarono il loro sviluppo commerciale, come ac-cadde per Terracina, Formia, Gaeta, ma anche approdi naturali furono ampiamente potenziati a livello commerciale, caso emblematico per il lago di Fondi, dove era imbarcato il pregiato vino Cecubo. Tra i fiumi navigabili molti sono i canali del golfo detto amiclano ricordato dagli autori antichi (Sant’Anastasia, Canneto, Olevola, ecc.) che consentivano alle navi dal mare di penetrare nei laghi interni, anche se un ruolo privilegiato è spettato senza dubbio al Liri-Garigliano, che permetteva di collegare l’entroterra con la costa, riuscendo a garantire anche una copertura sui traffici tra via Latina e Appia.

Appia antica presso Roma

Torre dell’Epitaffio, confine con lo Stato Pontificio

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di costruzione si protrassero fino al 191 a.C., data in cui la via completò il suo percorso fino al porto di Brindisi.Il primo tratto da Roma a Capua – 132 miglia – fu dunque costruito nel corso della seconda guerra contro i Sanniti (326-304 a.C.), dopo la sconfitta dei Romani a Lautulae, presso la Portella di Monte San Biagio, nel 315 a.C. e la conseguente defezione di Capua: fu lo scontro per la definitiva conquista della Campania felix e della stessa Capua, la terza città per importanza e grandezza che sbarrava il passo verso il meridione. La strada fu dunque prima utilizzata per le importanti operazioni militari nella seconda e terza guerra contro i Sanniti e poi nella guerra contro Pirro, che aprì a Roma le porte per la conquista della Magna Grecia attraversando territori che non erano ancora annes-si a Roma, ma appartenevano a comunità alleate.Man mano che nuove terre furono assoggettate, anche la strada fu allungata, dapprima fino a Benevento (altre 33 miglia), colonia latina del 262 a.C., poi a Venosa, già colonia di Roma dal 291 a.C., fino a Taranto dopo la vittoria del 272 a.C. e, con la conquista del Salento pro-lungata fino a Brindisi nel 191 a.C., per un totale di 364 miglia, ovvero 538 km da Roma208.Il percorso originale dell’Appia Antica, partendo da Porta Capena, vicino alle Terme di Caracalla, collegava l’Urbe a  Capua  (Santa Maria Capua Vetere) passando per  Aricia (Ariccia), il Foro Appio, Anxur (Terracina) nei pressi del fiume Ufente, Monticelli di Fundi (Monte San Biagio), Fundi (Fondi), Itri, Formiae (Formia), Minturnae (Minturno) e Sinues-sa (Mondragone). Da Capua proseguiva poi per Vicus Novanensis (Santa Maria a Vico) e superando la Stretta di Arpaia raggiungeva, attraverso il ponte sul fiume Isclero, Cau-dium (Montesarchio) e di qui, costeggiando il monte Mauro, scendeva verso Apollosa ed il torrente Corvo su cui, a causa del corso tortuoso di questo, passava tre volte, utilizzando i ponti in opera pseudo isodoma di Tufara Valle, di Apollosa e Corvo. Questi furono di-strutti durante la seconda guerra mondiale ma ricostruiti insieme a quello sul fiume Isclero con la massima fedeltà: i primi due a tre arcate e l’ultimo a due. Con l’eccezione del ponte di Tufara Valle, tutti gli altri furono ricollocati nel luogo originario.L’Appia raggiungeva poi il mare a Tarentum (Taranto), passando per Venusia (Venosa) e Silvium (Gravina), svoltava poi a est verso Rudiae (Grottaglie) fino ad un’importante stazione presente nella città di Uria  (Oria) e da qui terminava a Brundisium  (Brindi-si) dopo aver toccato altri centri intermedi minori. La via Appia Traianea, ricostruita successivamente su vari tratti,  avrebbe invece collegato in maniera più lineare alcuni ter-ritori come: Terracina-Monte San Biagio, Benevento con Aecae (Troia), Canusium (Ca-nosa) e Barium (Bari), ottimizzando i tempi di percorrenza.La strada fu restaurata ed ampliata più volte durante il governo degli imperatori Augusto, Vespasiano,  Traiano,  Adriano e Caracalla. Dopo la  caduta dell’Impero romano d’Oc-cidente, l’Appia non venne più utilizzata per lungo tempo, fino a quando Papa Pio VI (XVIII secolo) ordinò il suo restauro e la riportò in attività, riconoscendo la sua enorme importanza anche dal punto di vista religioso. Dal porto di Brindisi salpò Federico II in direzione della Terra Santa e nel Medioevo l’Appia divenne con la via Traiana, la strada dei crociati in spedizione verso l’Oriente e l’andirivieni dei pellegrini che si spostavano

208 Nel 71 a.C., seimila schiavi si ribellarono sotto la guida del celebre Spartaco (Spartacus). Dopo la cattura e la morte dello schiavo, tutti i ribelli furono a loro volta catturati e crocifissi lungo la strada fino a Pompei, in segno di ammonimento e di potenza di Roma. Si veda PISANI SARTORIO 2003, pp. 25-33.

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verso Roma o verso Gerusalemme.Ampie porzioni del tracciato originario si sono preservate fino ad oggi, ed alcune sono ancora usate per il traffico automobilistico (per esempio vicino a Velletri o nel territorio tra Terracina – Fondi – Itri). Lungo la parte di strada più vicina a Roma si possono ammira-re numerose tombe e catacombe romane del-le prime comunità cristiane e, al contrario di molte popolazioni preromane che amavano costruire intere città dedicate ai loro morti, i Romani preferivano seppellire i loro cari lun-go la strada dei vivi, la via Appia, costellata di monumenti funerari (Cecilia Metella, Galba, Cicerone, Tulliola, ecc.)209. Durante il I sec. a.C., sul tratto urbano della via Appia antica si realizzano ville esclusive che divennero residenza dell’alta società ro-mana, celebrando e confermando la centrali-tà di questo asse viario e della sua ricchezza commerciale sviluppatasi nel tempo. Tra le città antiche più importanti attraversate dalla regina viarum, meritano citazione Anxur, Fundi, Formiae, Minturnae, tutte città in cui le testimonianze romane sono ampiamente visibile con resti dei più importanti monumen-ti dell’antichità classica.

La via Flacca«Et separatim Flaccus molem ad Neptunias aquas, ut iter populo esset, et viam per Formia-num montem (…) fecit»210

Le testimonianze relative alla via Flacca sono piuttosto scarse. La prima menzione della strada si ha con Livio che ricorda la costruzione di una diga aperta al pubblico in dire-zione delle Acque Nettunie voluta dal console Lucio Valerio Flacco e la presenza di una strada che ancora oggi attraversa il monte formiano. Le fonti antiche non sembrano più interessarsi all’argomento; bisogna attendere il 1700-1800 per averne altre citazioni, più o meno puntuali. Informazioni abbastanza dettagliate, utili per una ricostruzione del tracciato, sono fornite da S. Ferraro e X. Lafon negli anni sessanta e settanta del 1900.Tra gli storici moderni, il primo ad affrontare indirettamente questo argomento è stato F. M. Pratilli nel suo trattato del 1945 sulla via Appia211. Lo storico, oltre a citare gli aspetti storici, descrive le località attraversate dalla regina viarum e i suoi vari diverticoli. Nel tratto analizzato tra Terracina e Fondi, con la descrizione dei cambiamenti introdotti da Traiano, emerge il chiaro riferimento ad un differente tracciato: “nuova via di selci ancor

209 STACCIOLI, 1998, p. 7. 210 Liv., XXXIX, 44, 6. 211 PRATILLI 1745, pp. 5 e sgg.

Miglio LXXI di Monte San Biagio

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lastricata (molte della quali sparte per que’ luoghi ancora si veggono) nel senso di Amicle (….), inverso il promontorio di Gaeta”Erasmo Gesualdo, nel 1974212 scrive alcune osservazioni critiche sul lavoro del Pratilli, sot-tolineando molti abbagli riportati nel volume precedente e facendo riferimento alle molte vie lastricate della piana amiclana, come più tardi, negli anni trenta dell’800 fece anche il Sotis213. Riferimenti più puntuali alla via Flacca si individuano nella ricerca del Mons. Sal-vatore Ferraro che nel 1912 parla della via aperta dal Censore L. Valerio Flacco214 nell’Agro Formiano, permettendo anche una ricostruzione piuttosto attendibile dell’antico tracciato. Nel 1979 X. Lafon215 rende del percorso un’interpretazione più completa e accurata, pur proponendo una variante dell’asse che dal rettilineo di costa avrebbe dovuto virare verso la città di Fondi, ipotesi che però sembra non trovare alcuna conferma plausibile.Grazie allo studio di Lafon resta comunque possibile una precisa analisi di questo trac-ciato viario. La porzione meglio conservata resta quello tra Sperlonga e Gaeta, con la presenza di gallerie e muri di contenimento necessari a sostenere la strada per via dell’e-strema friabilità delle rocce locali. Il tracciato individuabile conserva le tipiche tecniche costruttive delle strade romane di mezza costa, con altitudine media di ca. 40 m, con un’oscillazione tra i 15 m documentati presso Sperlonga, ai 60 m registrati nell’area di Sant’Agostino. I muraglioni visibili lungo il tracciato sono di due tipologie: sostruzioni con grossi blocchi montati a secco e rinzeppi di pietre di medie e piccole dimensioni, classificabili con i muri quasi isodomi o quarta maniera poligonale del Lugli, tipici delle sostruzioni delle grandi vie consolari romane; lacerti murari contenitivi in opera quasi reticolata o reticolata romana216. La galleria, descritta già da Strabone, ma anche da Mons. Ferraro217, doveva essere di circa 20 m e larga 8, a cui si legano vari cunicoli per lo scolo delle acque. La larghezza attuale della strada risulta molto ridotta in vari spezzoni, ma nei tratti dove è più con-servata non è mai inferiore ai 4 m. Secondo Lafon, la larghezza della strada misurerebbe mediamente tra i 4,30 ai 4,20 m, con uniche eccezioni nel tunnel in cui scende a 3,80 m per l’adattamento alla cavità naturale e nella zona dello Scarpone, presso Sant’Agostino, dove raggiunge addirittura gli 8 m. Il rivestimento documentato sembra piuttosto semplice: pietre naturali con ancora evidenti varie tracce carraie, in base alle quali (solo 3 palmi - circa 1 m) i carri sono risultati essere più piccoli di quelli utilizzati per percorrere strade come l’Appia218, forse perché questi mezzi più piccoli era anche più maneggevole e riuscivano a supportare meglio il tipo di tracciato.

Una proposta di ricostruzione del tracciatoPer volere dell’importante personaggio politico Lucio Valerio Flacco si eseguirono dun-

212 GESUALDO 1794, pp. 3 e sgg.213 SOTIS 1838, p. 3 e sgg. 214 Lucio Valeri Flacco, patrizio e grande protettore di Catone, subentra al potere al posto del censore M. Cornelio Cetego, nel 196 a.C. fu uno dei principali artefici della ricostruzione del partito dei Fabii. Promosse una politica particolarmente con-servatrice e antiellenica; fu prima pretore nel 199 a.C. e poi console nel 195 a.C. al fianco di Catone. Nel 184 a.c. fu nominato principes senatus, trovando la morte probabilmente per peste nel 180 a.C. Si veda FRANCHINI 2006, pp. 7 e sgg.215 LAFON 1979, pp. 5 e sgg. 216 MARZANO 2009, pp. 59-61. 217 FERRARO 1912, pp. 4-12. 218 GESUALDO 1794, pp. 5-10; MARZANO 2009, p. 62.

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que i lavori per la realizzazione della nuova arteria viaria tra il 186 e il 184 a.C.219, nel territorio compreso tra Terracina e Formia. Questo percorso, in molti punti a picco sul mare, contribuì a far divenire i colli cecubi e formiani uno dei più ricercati centri di villeggiatura per i ricchi romani. La realizzazione di questo particolare e suggestivo asse stradale si manifesta come il riflesso del vasto controllo territoriale di Roma nella zona sud-laziale, tanto che nei secoli successivi lungo questa strada sorsero prestigiose ville, legate alle casate più note di Roma220, svolgendo non solo un compito di sfruttamento territoriale e di produzione delle materie prime, ma anche, e soprattutto, un compito di controllo territoriale.Le ipotesi di Gesualdo e di Ferraro sulle proposte del percorso del tracciato viario della Flacca sembrano trovare immediate corrispondente nelle testimonianze di Livio che, a sua volta, trova conferme sui resti trovati dell’antica via. Ferraro, al contrario del primo, nomina sempre la strada come via Valeria, rimproverando anche Gesualdo perché se-condo l’uso antico, la strada sarebbe stata chiamata con il nomen del censore e non con il cognomen221; di fatto, il lavoro di Ferraro si può considerare come uno dei più accurati e dettagliati studi per una corretta individuazione dell’asse di penetrazione costiero222. Dunque, le esigenze che portarono alla realizzazione della via Flacca furono di fatto due: - una legata a esigenze militari; - l’altra strettamente connessa alla esponenziale crescita economica dell’area attraversata, rimarcando di fatto il valore strategico di controllo su tutto questo settore costiero223.Per ciò che riguarda la valenza militare del tracciato, una conferma si ritrova anche in età moderna, in quanto sono edificate tra Sperlonga e Gaeta una serie di torri d’avvistamen-to e difesa del tratto litoraneo (torre Truglia, di Capovento, Cittarola, di Sant’Agostino, di Scissura, Viola, di Vedetta, di Mola e il Castello di Gaeta), riprendendo probabilmente l’uso di controllo che nell’antichità dovevano aver svolto le molte ville suburbane224, come quella di Tiberio a Sperlonga che presentava aree di vedetta225. Il ruolo principale svolto dalla via Flacca era di tipo commerciale, ovvero consentire alle molte materie prime prodotte nella fertile pianura fondana di giungere facilmente al porto di Terracina e di Gaeta, in modo da essere imbarcate alla volta di Roma226.

La via Latina o CasilinaIl nome della via è in stretta connessione con il territorio attraversato, ovvero quello della vecchia Lega Latina, sottomesso nel corso del IV secolo a.C. e chiamato dopo la conqui-

219 Alla prima datazione fa riferimento Gesualdo nel 1954, mentre alla seconda Ferraro nel 1912.220 MARZANO 2009, pp. 63-64. 221 FERRARO 1912, pp. 11 e sgg.222 Anche il segmento V della tavola peutingeriana aiuterebbe ad individuare il percorso del tracciato viario parallelo all’Appia. 223 LAFON 1979, pp. 8-18; LUGLI 1957, p. 159. 224 FASOLO 1958, pp. 7 e sgg. 225 Sui resti delle ville litoranee si veda MARZANO 2009, pp. 50-56. 226 DI FAZIO 2006, pp. 3 e sgg. Sono varie le testimonianze archeologiche che rendono conferma alle carattestiche produttive della piana di Monte San Biagio e di Fondi principalmente, il territorio costituito da una porzione di ager publicus, con i mol-tissimi resti di ville suburbane databili tra il II e il I sec. a.C. riferibili ad una vera e propria “esplosione edilizia” in tutta la zona costiera. Ad essere particolarmente commerciato, oltre al noto vino Cecubo e al nero Fundano, la cui produzione si sviluppa in modo esponenziale dalla fine del II sec. a.C., è anche una prestigiosa qualità di olio già prodotta e commerciata dall’inizio del II sec. a.C. Tracce di tale attività si hanno anche nei ritrovamenti di atelier di anfore localizzate sul litorale (tipo Dressel 1-4), in particolare nei siti di Canneto, Sant’Anastasia, nei pressi del lago di Fondi e nel territorio di Monte San Biagio. Si veda HESNARD - LEMOINE 1981; LAFON 1993; BROISE-LAFON 2001; QUILICI 2004.

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sta Latium Novum o adiectum (aggiunto).A differenza della maggior parte delle strade romane, questa via non porta il nome del costruttore, suggerendo così che si tratti di una delle strade più antiche; infatti tale per-corso, pur se tracciato definitivamente tra il IV e il III secolo a.C., veniva già utilizza-to in età preistorica e gli Etruschi  lo usarono per colonizzare la Campania  tra i seco-li VIII e VI a.C.

La strada, come la via Appia, iniziava a Roma presso Porta Capena, i due tracciati però si separavano molto presto tanto che nelle Mura Aureliane ebbero ognuna una propria usci-ta: una passava per la Porta Latina e l’altra per la Porta Appia (poi Porta San Sebastiano).Dopo essere salita per un po’ attraverso il Monte Tusculano, tra la città di Tusculum ed il Monte Albano, scendeva verso la piccola città di Algidum (oggi presso Cava dell’Aglio), nei pressi del passo dell’Algido, che fu importante nella prima storia militare di Roma. Questo tracciato deve aver preceduto la via Appia come itinerario verso la Campania, poiché la colonia latina di Cales è stata fondata nel 334 a.C. e doveva essere accessibile da Roma per mezzo di una strada facilmente percorribile, mentre la via Appia è stata realiz-zata solo ventidue anni più tardi; la via Latina, inoltre, segue una linea di comunicazione molto più naturale, senza le difficoltà ingegneristiche che dovette affrontare la via Appia. Nella parte iniziale ha senza dubbio preceduto la via Labicana, con la quale poi si con-giunge, anche se questa fu preferita in seguito. Dopo il loro ricongiungimento, la via La-tina continuava seguendo la valle del Trerus (Sacco), nello stesso percorso moderno della ferrovia che va a Napoli via Cassino, e rasentava in pianura le città collinari degli Ernici: da Anagnia, a Ferentinum, passando per Frusino (presso il fiume Cosa), Fabrateria, etc. A Fregellae la via scavalcava il fiume Liris, attraversava quindi Aquinum (presso la quale scorre il fiume Melpis) e Casinum (ultima città dell’antico Latium), città che si trovano in pianura. Quindi passava nel varco fra gli Appennini ed il gruppo vulcanico di Rocca-monfina, ma la strada originaria, invece di attraversarlo, girava bruscamente (all’altezza di San Pietro Infine) verso nord-est sopra le montagne verso Venafrum, mettendo così in comunicazione diretta l’interno del  Sannio  e, tramite altre strade adiacenti, Aeser-nia, Cubulteria, Alifae e Telesia.In seguito, tuttavia, ci fu con ogni probabilità la creazione di una variante, tra  Ru-frae (l’attuale Presenzano) e l’attuale San Pietro Infine, che abbreviava il percorso e che seguiva l’attuale percorso dell’autostrada e della ferrovia Napoli-Roma. I due tracciati si ricongiungevano vicino all’attuale stazione ferroviaria di Caianello e la strada portava a Teanum Sidicinum (Teano), Cales e a Casilinum, la moderna Capua, dove attraversava il Volturno e si immetteva nella via Appia. Dal punto terminale del percorso, Casilinum, nasce il nome medioevale della strada, la via Casilina.Resti considerevoli della strada esistono nelle vicinanze di Roma; per le prime 40 miglia, fino a Compitum Anagninum, non è seguita da alcuna strada moderna, mentre in se-guito il percorso è sostanzialmente lo stesso dell’autostrada. Alcune porzioni dell’antico tracciato sono ancora visibili nel parco degli acquedotti a Roma, all’altezza degli studi di Cinecittà e vicino all’Acquedotto Claudio.Altri considerevoli resti, conservati per circa 2.5 km, si hanno attorno al nucleo centrale di Ferentino, preservando ancora alcune porte spettacolari di accesso al centro, come quella di Sant’Agata, sotto cui passava in realtà un diverticolo della via Latina, che dipar-tendosi dal fondovalle percorreva tutta la città come principale asse est-ovest.

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Da Frosinone a Ceprano l’antica via non è più stata ricalcata, facendo individuare alcuni tronconi per circa 10 km, per poi attraversare il Liri mediante un ponte – non conservato - che permetteva di raggiungere Fregellae, colonia latina del 328 a.C., localizzata poco a sud di Ceprano, da dove la strada seguiva due varianti:- nel primo caso, il diverticolo più antico, collegava Ceprano a Roccasecca sul fiume Melfa mediante un rettilineo;- nel secondo caso, il diverticolo più recente, deviava a sud-est per poi risalire verso Roc-casecca, con andamento parallelo al fiume.Il secondo tracciato fu costruito nel 125 a.C., quando Roma, in seguito alla ribellione, distrusse la colonia di Fregellae e fondò Fabreteria Nova, localizzata più a sud del fiume Liri; il primo tracciato non fu comunque dismesso perché Roma fondò una nuova Fre-gellae presso Ceprano. Da Roccasecca la via raggiungeva con un rettifilo Aquino che conserva importanti resti dell’impianto romano antico, come la Porta Capuana o di San Lorenzo.Superato il paese la direttrice passava per le porte repubblicane ancora visibili e sotto un arco onorario del I secolo a.C. nei pressi della chiesa di Santa Maria di Aquino, dove sono visibili per 300 m i lastricati originari, prima in ripida discesa e risalita presso la zona dei Laghi. Alcuni miliari consentono di identificare il percorso dalla città di Aquino, passan-do per Roccamonfina, per giungere a Santa Maria Capua Vetere nella zona di Casilinum, importantissimo porto fluviale dell’antica Capua.

2.2.2. Il suolo nell’antichità: uso e caratteristiche produttive(Alessandro De Bonis)La bonifica della Piana di FondiIn antico, il terreno paludoso nella piana fondana risultava essere particolarmente fer-tile, tanto che i primi riferimenti alla sua produttività – e dunque adattabilità abitativa – risalgono alla presenza dell’Amyclae greca sul territorio. La zona era dun-que particolarmente ricca di acque dol-ci, con la presenza di moltissimi rivoli sempre pronti ad inondare tutti i ter-reni, per alcuni studiosi forse la vera causa dell’abbandono della città greca, trovando una similitudine tra i lunghi rivoli di acqua e i serpenti citati nell’in-vasione cittadina227.A far capire la grande distesa paludosa generata attorno al lago di Fondi è an-che l’andamento della via Appia che, da Terracina, tende a rientrare fortemente verso l’entroterra fino ad allontanarsi il

227 SILVESTRI 1993, pp. 109-153.

Piana di Fondi

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più possibile dalle sponde del lago228. Già nell’antichità, per fronteggiare il problema dell’impaludamento, furono realizzate dai Romani importanti opere di bonifica idraulica, individuate per la prima volta negli anni ’60 del novecento. Si tratta del posizionamento di una serie di anfore interrate disposte per filari che avevano lo scopo di impedire la risalita delle acque stagnanti, tecnica ben nota in altre aree lacustri della penisola. Sono almeno tre le zone in cui sono stati indi-viduati questi filari: il fosso di Sant’Anastasia, l’area pianeggiante nei pressi della Torre Portella presso Monte San Biagio e infine l’area di Canneto.Nel primo caso, lungo le sponde del fosso di Sant’Anastasia a sud-est di Terracina, sono state individuate distese di frammenti anforacei sparsi su una superficie di circa 10 et-tari229. A meno di 200 m di distanza dal fosso citato, nella zona Pantanello, fu aperto uno scavo nel 1958 in seguito al rinve-nimento di 50 anfore integre. L’indagi-ne venne allargata ad una superficie di 7000 mq, mettendo in luce, sotto un livello di una ottantina di centimetri, assetti di filari di anfora paralleli, dispo-ste orizzontalmente nel terreno. Furono scavati 100 filari lunghi 45 m; i primi otto erano vuoti, dal nono al ventiset-tesimo presentavano anfore disposte su triplice fila, dal ventottesimo in poi in duplice fila. Erano presenti degli inte-rassi all’incirca costanti: di 2,40 m per i filare dall’1 al 67, mentre di 2,10 m per i restanti.Solo per il tratto indagato furono utilizzate almeno 6500 anfore; mol-te schiacciate dai lavori agricoli, altre sembravano collocate già parzialmente frammentarie in situ230. Nella maggior parte dei casi si tratta di anfore del tipo Dressel 1, talvolta bollate (23 in totale), che indurrebbero una datazione circoscritta alla seconda metà del I sec. a.C. Tale datazione consente di collocare cronologicamente anche le varie strutture in reticolato romano rinvenute attorno all’area indagata. Resta dunque probabile che tale intervento idraulico potrebbe essere stato legato alla necessità di migliorare le condizioni del suolo, in modo da consentire la migliore produzione di un fondo agricolo suburbano, come il caso di quella rinvenuta esattamente vicino al fosso di Sant’Anastasia.Di certo un’opera così grande, tanto da coinvolgere quasi l’intera piana tra Terracina e Fondi, doveva essere legata anche ad una produttività agricola molto remunerativa, tale da giustificare il grande investimento di denaro e forza lavoro. Il legame principale

228 DI FAZIO 2006229 QUILIGI GIGLI 1987, pp. 152-166230 QUILICI GIGLI 1987, pp. 152-166

Anfora vinaria

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doveva essere certamente mirato alla produzione di vini locali (Cecubo e Fundano) par-ticolarmente pregiati nell’antichità romana, ma anche dell’olio extravergine di oliva.A tal proposito restano emblematici alcuni trattati di agronomi antichi, quali Catone (Cat. r.r. 43), Columella (Coll. II, 2, 9-11) e Palladino (Pall. VI, 3), che parlando di vigneti e oliveti, descrivono la necessità di bonificare il terreno e regimentare il corretto deflusso delle acque. I tre autori parlano dello scavo di canali – aperti e chiusi – profondi almeno 3 piedi, in alcuni casi parzialmente riempiti di sassi o fascine di legno per permettere il drenaggio, utili nei vari casi a convogliare le acque di risulta verso i canaloni più grandi.Per ciò che concerne l’area sottostante l’abitato di Monte San Biagio, la vasta distesa di anfore ha indotto a proporre la presenza di una fornace in cui erano prodotte queste anfore231.A differenza della zona Pantanello, la datazione resta in questo caso più difficile da de-finire per via della varietà della produzione riscontrata, con modelli di anfore del tipo greco-italiche, Dressel 1 e Dressel 2-4232, mantenendo dunque un arco temporale decisa-mente molto ampio.Anche in questo caso, la necessità sembra essere sostanzialmente legata al bisogno di bonificare i terreni per esigenze agricole e riferite agli impianti di vigneti. A esso si lega la recente scoperta di un enorme impianto di mura e sostruzioni, probabilmente pertinenti una vasta villa romana, individuata a poca distanza dalla sorgente di Torre Portella233, mettendo in evidenza simili apparati murati in opera quasi reticolata, databili a partire dal IV secolo a.C. in poi.Anche per l’area nella zona di Canneto è stata proposta la presenza di una fabbrica di an-fore234. Secondo quanto descritto dall’Archivio di Stato235 ripreso nell’articolo di Stefania Quilici Gigli, la prima scoperta risalirebbe addirittura al 1831. Le anfore furono rinvenute «escavando ….. un fosso …. Per condurre l’acqua della Mola al Mare …. Nella sponda vicino al letto del menzionato fosso se ne vedono altre ancora in linea sotterra».Nell’ultimo ventennio del 1800 anche T. Mommsen (CIL X 8050) ricorda il ritrovamento di 200 anfore, sottolineando la presenza di un vasto numero ancora sepolte. A tal pro-posito riferisce anche De La Blanchère nel 1984 che descrive come queste anfore fossero disposte nella sabbia e come “bâtiment existait tout auprès et aussi quelques sépoltures”.Alcune delle anfore prelevate sono conservate presso i magazzini della Soprintendenza di Roma, riconosciute dal Lugli come Dressel 1236 e anche in questo caso il vasto numero di reperti farebbe pensare ad un’opera di bonifica idraulica, come testimonia anche il riferimento delle stesse disposte in filari sotterrati.Resta dunque da notare la stretta relazione tra gli impianti di bonifica e soprattutto gli impianti dei vigneti, con particolare riguardo al prestigioso Caecubum coltivato in aree semipaludose o paludose, come ricordato da Plinio il Vecchio “in palustris populetis” (Plin. N.H. XIV, 61) o da Marziale “in media palude nata viret” (Mart. XIII, 115).La presenza di molti frammenti di anfore greco-italiche indica che la viticoltura

231 QUILICI GIGLI 1987, p. 161; M. DELLA CORTE 1991, pp. 348-349.232 HESNARD LEMOINE 1981, pp. 243-295. 233 DE BONIS A., DE BONIS B., CATENA 2013, pp. 153-155 e 175-177; QUILICI GIGLI 2012, pp. 187-189.234 LUGLI 1926, p. 4 e sgg.235 Archivio di Stato di Roma, Camerlengato, parte II, titolo IV, busta 213 fascicolo 1524: lettera del 15/V/1831; BullInst 1832, p. 6.236 LUGLI 1940, p. 6 e sgg.

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nella zona pantanosa nei pressi del lago di Fondi era già operativa e a buoni livelli di produzione prima della bonifica, generalmente datata dall’utilizzo di Dressel 1 e Dressel 2-4, decisamente più recenti rispetto alle prime tipologie citate. Di fatto questi impianti permisero, a partire dal I secolo a.C., di migliorare la produttività agricola della Piana di Fondi, già particolarmente intensiva dalla seconda metà della fase repubblicana.

Le produzioni del territorioNella zona tra Lazio e Campania, l’economia del mondo romano, nel IV secolo a.C., era legata prevalentemente all’agricoltura, con ruolo limitato dell’artigianato e commercio237, che invece trovano un loro maggiore sviluppo con la costruzione delle principali arterie viarie. Il grande sviluppo agrario di questa vasta zona produttiva tra mare e montagna, sembra conservare le sue caratteristiche almeno fino agli inizi del II secolo a.C., quando il territorio iniziò ad essere organizzato per migliorare la produttività in proporzione alla richiesta crescente del mercato.Le fonti parlano di un ager pubblicus nella piana tra Terracina e Fundi – e nel territorio che corre lungo la via Flacca – già nel IV secolo a.C., con una vera ‘esplosione edilizia’ tra il II e il I secolo a.C.238, con la costruzione di grandiose ville, in riferimento alla maggiore frequentazione di queste terre, dato dalla via Appia, via Flacca e parzialmente anche dalla via Latina.Nelle pubblicazioni dello scavo di “Villa Prato”, Broise e Lafon indicano l’olio come il primo dei prodotti di pregio della zona, con ulivi coltivati soprattutto sui costoni delle montagne a cui giunge la brezza marina239, con maggiore sviluppo della viticoltura a par-tire dalla fine del II sec. a.C., probabilmente in riferimento con i grandi lavori idraulici eseguiti. Lo studio della villa registra nettamente l’incremento della produzione vinicola, richiamando direttamente il ritrovamenti di atelier di anfore vinarie localizzati sul lito-rale sud-laziale240.Come già citato, autori classici come Plinio e Marziale parlano del Caecubum come di un vino dai colori ambrati, bianco liquoroso, di particolare pregio; le citazioni sul rosso Fundano, accostate al Setinus da Strabone (Strab. V, 3, 6) per via della provenienza geo-grafica, risultano invece meno eloquenti. Questo vino era certamente di qualità inferiore rispetto al primo241, anche se comunque apprezzato a Roma per l’ottima qualità prodotta nella zona considerata. In tutti i trattati si evince come soprattutto il Caecubum attecchis-se particolarmente in aree paludose e addirittura Plinio specifica i tipi di coltivazione, che erano in vineae e in arbusta, ovvero a coltura specializzata a ceppo o a sostegno morto (Plin., N.H. XIV, 67). Marziale, menzionando il Fundanum, associa la sua pro-duzione al nome del console Opimio (Mart. XIII, 113) che, secondo le analisi di alcune fonti classiche, sarebbe stato un produttore di vini di qualità, finalizzati ai banchetti delle famiglie patrizie242.

237 HARRIS 1990, pp. 494-618.238 QUILICI 2004, pp. 441-542.239 BROISE-LAFON 2001; LAFON 1997, pp. 29-35. 240 Si veda paragrafo precedente. HESNARD 1977, pp. 157-168 ; HESNARD-LEMOINE 1981, pp. 243-295. 241 TCHERNIA 1986.242 MARZANO 2009, p. 44.

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Nella parte meridionale della piana tra Monte San Biagio e Fondi, vi erano, invece, le grandi distese di arboricoltura diversificata, con grandi estensioni di frutteti vari e le col-tivazioni a campi verdi, con particolare riguardo per gli ortaggi, purtroppo parzialmente sconvolti dalle costruzioni moderne243. Sono state individuate anche vaste produzioni cerealicole244 e importanti aree riservate all’itticoltura tra Formia e Gaeta; le fonti citano, come nei Deipnosofisti di Ateneo, la presenza di un pregiatissimo sgombro nel golfo di Amyclae (Athen. III, 121a). Infine sono state riconosciute le tracce di allevamento e pa-storizia soprattutto nelle aree più montanare. Un ruolo significativo e di grande sviluppo economico, a partire almeno dalla metà del I secolo a.C., è legato al commercio, non solo via terra, ma soprattutto fluviale e mari-no, sfruttando i molti canali navigabili per facilitare lo smistamento delle merci, come riconosciuto per il lago di Fondi, per le aree costiere formiane, o per l’esportazione di prodotti dalle aree più interne del frusinate, terra dell’antica Fregellae, sfruttando il Liri-Garigliano245.

2.2.3. I territori del sud-Pontino nell’età repubblicana(Chiara Casale - Cassandra Rita Russo)

L’area sud pontina, rientrante nel territorio del Latium adiectum e occupata dalle popola-zioni degli Ausoni e dei Volsci dalla fine del VI secolo a.C., nel IV secolo a.C. fu soggetta all’influenza romana. Essa è costituita da siti (Terracina, Monte San Biagio, Fondi, Leno-la, Campodimele, Itri, Sperlonga, Gaeta, Formia, Minturno e Castelforte) la cui origine risulta essere molto più antica e legata ai diversi popoli dell’Italia arcaica.

243 LAFON 1979, pp. 339-421. 244 SPURR 1986; LO CASCIO 1999, pp. 217-245.245 SOTIS 1807, pp. 20-52.

Esempio di carico navale con anfore da commercio

Anfore Museo Minturno

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La fondazione e la nascita di queste città sono legate a leggende e ad eventi mitologici tramandati dalle fonti letterarie. La città di Terracina, secondo riferimenti mitologici, è stata associata al paese dei Lestri-goni (i giganti antropofagi che distrussero la flotta di Ulisse) o alla terra della maga Circe, mentre secondo Dionigi di Alicarnasso, sarebbe stata fondata da profughi della città di Sparta. La città, forse centro ausonio, passò sotto l’influenza etrusca a cui si deve il nome di Terracina (da Tarchna e Tarchuna, lo stesso nome dei Tarquini246). Dovette già nel VI secolo a.C. avere dei rapporti con Roma in quanto Polibio la cita nel trattato tra Roma e Cartagine. Alla fine di questo secolo venne conquistata dai Volsci che la chiamarono Anxur. Nel comune di Monte San Biagio, fatta accezione per l’insediamento Eneolitico sui co-stoni dell’attuale paese, il primo nucleo abitativo deve essere localizzato nella contrada di Villa San Vito, dove la leggenda vuole si siano rifugiati nel IV secolo a.C. i superstiti della distrutta città di Amyclae. Nei secoli successivi fu soggetto alle vicende della vicina Fondi, come i non lontani nuclei di Itri, Lenola e Campodimele. Itri, il cui nome deriva forse da iter (cammino) o dall’Idra di Lerna, attribuisce la sua fondazione sempre ai superstiti di Amyclae poiché la presenza del serpente sullo stemma cittadino è stato associato ai serpenti che la leggenda vuole abbiano cacciato gli Amyclani dalla loro città e li abbiano costretti a fuggire all’interno.La città di Lenola, invece, in origine era un insediamento di pastori chiamato nel corso del tempo Inola247 e poi Enola. Quando la città entrò nell’orbita romana fu sempre asso-ciata alle vicine Ibrinum248 che è stata riconosciuta nei resti del castrum Ambrifi che sorge sull’omonimo colle (oggi facente parte del comune di Lenola) e Apiola249, antica città latina che secondo Plinio e Livio nel VI secolo a.C. fu assediata, conquistata e distrutta da Tarquinio Prisco250 ed oggi individuata in Campodimele (resti dell’antica Apiola sono stati individuati a circa 6 chilometri dall’attuale centro storico).

246 MARZANO 2009, pp.85 e sgg.247 Da Ino, nome della mitologica eroina greca figlia di Cadmo.248 Da Isi (Iside o Isis) è la dea egiziana della maternità, della fecondità.249 Da Api. Alcuni si rifanno alla divinità egizia venerata sottoforma di toro, altri lo fanno derivare dagli operosi insetti e alla loro produzione in quanto evidentemente importante risorsa a quei tempi. Da qui deriverebbe la volontà di conservare il riferimento in Campus Mellis.250 LISETTI – CATENA 2008, pp. 43 e sgg.

Percorso dell’Appia di Appio Claudio Cieco e di Traiano

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Il litorale della città di Sperlonga fu abitato fin dai tempi più remoti e le grotte rivelano tracce di questo passato. Numerosi resti di frequentazione sono stati trovati nella cosid-detta grotta di Tiberio e risalenti al Paleolitico medio (90.000- 70.000 a.C.). La città inol-tre è permeata da un alone di leggenda che la lega alla figura di Ulisse e alla mitica città di Amyclae251. Nel corso del V sec. a.C. la zona di Sperlonga era posta sotto il controllo della popolazione degli Aurunci/Ausoni252, che occupavano il territorio che si estendeva dalla Pianura Pontina al Volturno, fino all’assoggettamento da parte dei Romani. A testi-monianza di tale processo, nelle campagne sussistono ancora oggi, come del resto nelle vicine località, tracce di muraglioni composti da grossi blocchi di pietra sovrapposti in forma grezza253.Il punto di riferimento di tutti questi piccoli insediamenti fu la più grande città di Fondi che vede invece la sua fondazione collegata alla figura mitologica di Ercole poiché, se-condo Varrone, fu il luogo in cui l’eroe uccise il gigante Caco. Il toponimo è di origine latina e probabilmente é legato al suo posizionamento nel fondo della valle tra i Monti Lepini e il mare254. In origine il centro ausono passò prima sotto l’influenza volsca e successivamente sotto quella romana, ottenendo nel IV secolo a.C. il titolo di civitas sine suffragio e nel 188 a.C. la civitas pleno jure.Per quanto riguarda l’origine e la fondazione della città di Formia, sembra che abbia fatto anticamente parte della confederazione aurunca. La località dove sorse la città offriva spiagge opportune per gli approdi: vi era il porticciolo (ora detto Caposele), un piccolo porto si trovava nella parte bassa formiana (la Mola) e un altro porto più lontano fu poi denominato Caieta. L’ampio e riparato golfo fu chiamato dalla città Sinus Formianus (Golfo di Formia)255. La posizione vantaggiosa spiega la fondazione di una nuova città che gli Aurunci/Ausoni crearono per favorire soprattutto il commercio lungo la costa e con gli insediamenti della parte interna. Lo stesso nome antico di Formia, Hormiai, indicava in lingua greca gli approdi.256 Non si può escludere la possibilità che la città ausona, sorgendo presso un antico villaggio di coloni greci chiamato Hormiae, ne avesse sottomesso o scacciato gli abitanti, mantenendo a lungo il nome antico che, in seguito, divenne Formiae. Formia si sarebbe trovata, durante la dominazione Etrusca del mar Tirreno, a metà stra-da tra un flusso etrusco a Nord, via terra nella direttrice di Anzio, e di un altro flusso a Sud, via mare. Il territorio compreso tra Anxur e Suessa fu largamente conquistato. Pro-babilmente gli Etruschi non fondarono nuove città nel Lazio Meridionale costiero, ma colonizzarono e riordinarono l’economia ed il territorio dei centri esistenti di origine au-runca/ausona. In realtà la città stessa di Formia, munitasi di megalitiche mura difensive non subì danni o cambiamenti significativi all’avanzata etrusca. Nulla poté però contro gli attacchi della popolazione dei Volsci. Essi si spinsero alla conquistare, tra il VII e il VI sec. a.C., dei territori del Lazio e dell’Agro Pontino. In realtà Formia, insieme a Fondi, dapprima riuscì a sfuggire alla conquista, ma successivamente elementi volsci riuscirono

251 SCALFATI 1997, pp.11 e se.; Cap. 1.7. La questione di Amyclae, pp. 41-45.252 Si veda cap. 1.2. Aurunci e Ausoni, pp. 10-13.253 GUGLIETTA 1983, p. 7254 MARZANO 2009, pp.24. 255 FRECENTESE- MIELE 1995, pp. 18 sgg.256 Strabone a tal proposito annota: “…si chiama così, Hormiai, perché si ha qui un buon ancoraggio”. E Festo scrive: Formiae vale Hormiae perché c’erano, qui presso, molte e sicure stazioni, donde partivano i naviganti.

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a infiltrarsi nelle due città aurunche/ausone, che finirono perciò con entrare nell’orbita politica dello stato, forse a patti e non con un vero e completo assoggettamento. Le origini di Gaeta hanno assunto nel corso del tempo sfumature misteriose che hanno attratto numerosi studiosi già nella stessa antichità. Ad esempio Diodoro Siculo fece pro-venire il nome di Gaeta da Aeeta, madre di Medea, e la nomina parlando della vicenda degli Argonauti257. Omero invece, diede a Gaeta il nome di Lamo, città dei Lastrigoni e ne cantò la bellezza e la sicurezza del porto nell’episodio di Odisseo che sostò nella rada258. Anche Silio Italico, come Omero, fece derivare il nome di Gaeta dai Lastrigoni259. Strabo-ne, invece, faceva risalire il nome della città dai Laconi, un popolo di naviganti che, per sfuggire ad una tempesta, trovarono rifugio nel suo porto concavo e le diedero il nome di Kaietas o Kaiettas, che in greco significa appunto cavità e che si trasformò in Cajeta e poi in Gaeta260. Virgilio, infine, fece discendere Gaeta da Cajeta, la nutrice di Enea morta proprio sulle sponde della costa261. Una nuova ipotesi sul nome di Gaeta è stata avanzata in relazione ad una derivazione dal fenicio del nome della città. Secondo la tradizione, infatti, il popolo dei Fenici aveva abitudine ad attribuire alle punte, ai promontori e alle sporgenze, nomi di rapaci e, proprio da uno di questi, aetòs o aietòs che in fenicio si-gnifica aquila, verrebbe il nome di Caieta. Se questa ipotesi fosse vera indicherebbe la presenza di questa popolazione lungo la costa tirrenica262. La presenza dell’uomo nel territorio gaetano è molto antica e risale all’età della pietra. Essa è testimoniata da alcuni ritrovamenti avvenuti all’interno della grotta delle Mar-motte, una piccola grotta cavernicola situata nei pressi della piana di Sant’Agostino, dove sono stati ritrovati alcuni reperti fossili, selci scheggiate e altri oggetti risalenti al periodo preistorico263.Le origini di Gaeta risalgono al 1300- 1200 a.C., periodo in cui il Lazio era popolato da varie popolazioni tra i quali quella dei Pelasgi, che secondo la tradizione fondarono tra il territorio di Fondi e Terracina la città di Amyclae264. Gaeta era collegata a Napoli attra-verso la cosiddetta via Greca, fatta costruire dai Cumani ed in parte ricalcata poi dalla successiva via Appia, che attraversava Minturno, Formia e tutto il territorio circostante. Intorno al 700- 600 a.C., Gaeta cadde sotto il dominio degli Ausoni/Aurunci ma non per questo la sua fama e la sua potenza diminuirono, anzi. I resti di tale dominazione sono ben rappresentati dalle mura e opere ciclopiche presenti sul territorio. Gli Ausoni/Aurunci si stabilirono in più punti del territorio (Bevano, Casalarga, Longato, Sant’A-gostino, Pontone), ma soprattutto nella piana d’Arzano dove alle falde del monte Conca stabilirono il loro punto d’incontro e dove, secondo le fonti, esistevano il tribunale e il luogo sacro265. Infine, la città di Castelforte deve il suo nome al Castrum Forte di epoca medievale il

257 “Quod denique ad Formias Italiae/ portus nomen Aeeta, qui nunc Cajeta”. Tallini 2006, p.9258 Hom. Od., X, 106-109, 116-124.259 “…quosque evertere silentia Amicle/Fundique, e regnata Lamo Cajeta/domusque antiphate compressa fremo.” Tallini 2009, p. 9.260 Strabone, Geografia, V, 3,6.261 Verg., Aen., VII, 1-5 “Tu quoque litoribus nostris, Aeneia nutrix, aeternam moriens famam, Caieta, dedisti; et nunc servat honos sedem tuus, ossaque nomen Hesperia in magna, si qua est ea gloria, signat”.262 TALLINI 2006, p. 10; V. PETRONI, Gaeta Romana: i contributi delle fonti epigrafiche.263 Per approfondimenti si veda L. Borghese, La trimillenaria storia di Gaeta, Casamari 1965.264 Per approfondimenti si veda cap. 1.7. La questione di Amyclae, pp. 41-45.265 TALLINI 2006, p. 11 nota 1.

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quale sorse, però, nei pressi dell’antica Vescia266, la famosa città di fondazione aurun-ca facente parte della Pentapoli Aurunca che fu distrutta dai Romani dopo la battaglia dell’Ausente del 340 a.C. Insieme ad Ausona e Minturnae si era opposta all’invasore ro-mano e successivamente fu accusata di parteggiare per i sanniti. I resti dell’insediamento sono stati individuati nei pressi del ponte Tirezio, in base ai riferimenti delle fonti gre-co-romane267, e dovevano essere ancora abbastanza visibili nel III secolo d.C. in quanto ne fa menzione Plotino durante il suo soggiorno presso la villa dell’amico Zeto e presso le famose Terme Vescinae268.Come visto, tutta l’area del sud pontino passò ben presto sotto il controllo di Roma che, già a partire dal IV sec. a.C., iniziò la sua attività di espansione e conquista verso tutta la zona centrale della penisola.Infatti, al termine dello scontro tra Roma e le comunità latine, il territorio pontino passa sotto il dominio romano e alle città di Fondi e Formia venne concessa nel 338 a.C. la civitas sine suffragio (la cittadinanza che non comporta il godimento dei diritti politici attivi e passivi) in quanto, come afferma Livio, pur non partecipando attivamente al fianco dei Romani, permisero alle loro truppe il passaggio nel territorio, attraversando l’Appia entrambe le città fortificate269. Alcuni studiosi avanzano l’ipotesi che possa essere una pu-nizione (perdita dello status di comunità autonoma) in quanto Fondi compare, secondo Livio, tra i socii della città di Priverno che nel 330 a.C. portò avanti una ribellione contro Roma. A capo delle truppe ribelli, poi sconfitte, c’era proprio un fondano di nome Vitru-vio Vacco che possedeva una dimora sul Palatino. Dalla narrazione storiografica si evin-cono comunque dati sulla struttura organizzativa e comunitaria della città: essa era infatti costituita da un senatus e un populus Fundanus, secondo il tipico sistema municipale.La volsca Anxur invece, dopo essere stata conquistata dai Romani, divenne colonia ma-rittima nel 329 a C. e venne dotata di nuove mura difensive che si distinguono dalle prime, realizzate in opera poligonale.Nella seconda metà del IV secolo a.C. l’area del Lazio meridionale fu ancora teatro di numerosi conflitti tra il popolo romano e quello sannita270, tanto che i centri abitati della zona rinnovarono nel 318 a.C. il trattato del foedus cassianum stipulato nel 493 a.C. In particolare si ricorda la famosa battaglia narrata da Tito Livio presso il passo di Lautulae (luogo con molte sorgenti) nel 315 a.C. Il sito è stato localizzato non lontano dalla città, nella località di Portella appartenente al comune di Monte San Biagio per la presenza di «folti boschi da un lato e le onde del mare dall’altro che rendevano il passo obbligatorio»271. In questo luogo si conservano delle porzioni di muro in opera reticolata inglobate in opere murarie e contrafforti di epoca medievale direttamente collegati alle vicine torri. Anche il sito in cui queste torri sono state erette fu importante in epoca romana poiché al di sotto del passaggio a volta a tutto sesto ribassata passava l’antica via Appia della quale è stata riportata alla luce una piccola porzione del lastricato.

266 Dal fungo vescia o da vesca, salice. Si veda MACCIO 1981, pp.3 e sgg.267 CASTRICHINO 1986, pp.17 e sgg. 268 La città dovette avere un’importante ruolo nell’area perché oltre alle terme, presero da lei il nome anche i Monti Vescini e l’Agro Vescino.269 LO CASCIO 2002, pp.1-2.270 Si veda cap. 1.5. I Sanniti, pp. 29-34; cap. 2.1.1 L’espansionismo di Roma prima dell’Impero, pp. 52-53.271 Liv., VII, 39: «Ad Lautulas, saltu angusto inter mare et montes».

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Fu proprio la realizzazione di questo asse viario che contribuì ad un generale sviluppo e valorizzazione dell’area dal punto di vista politico ed economico272.Il trattato romano-sannita del 354 a.C. portò alla separazione del Lazio meridionale dal-la Campania capuana: la linea di demarcazione passava per il Liri. I Romani si erano attestati sulle sponde occidentali del fiume controllando la fascia e la duna costiera. I Sanniti occuparono, invece, la sponda orientale. Il trattato sanciva la spartizione di fatto del territorio volsco. I Volsci stessi erano incapaci di arrestate la grave fase di declino politico-militare. Con la prima guerra sannitica, i Romani riuscirono ad assorbire progressivamente le cit-tà latine e quelle della fascia costiera di antica origine. Il nuovo gruppo dirigente romano esercitò un influsso particolare sulle classi benestanti e aristocratiche della Campania e della greca Napoli. Dopo le guerre sannitiche, Formiae ebbe modo di passare tra le città romane. Gli abi-tanti, che inizialmente dovettero avere rapporti con i Sanniti, per motivi commerciali, militari e politici prima dell’accrescersi della potenza romana, scelsero di schierarsi con i Romani che parvero loro come nuovi tutori delle costa laziale meridionale. L’apertura dell’Appia lungo la costa formiana fu probabilmente connessa al miglioramen-to del sistema di difesa e di collegamento militare, ma rispondeva certamente anche ad esigenze commerciali. Tra tutti Formiae si consolidò come centro di produzione e di smistamento via mare e via terra273. La fondazione della colonia di Minturnae, nel 296 a.C., seguì invece di qualche anno la distruzione da parte dei Romani degli Aurunci. Nel 314 a.C. infatti, a seguito di una rivolta capeggiata dalle tre città aurunche di Ausonia, Minturnae e Vescia Roma de-cise di intervenire e distruggere com-pletamente le Ausonum gens, ponen-do fine alla storia di quel popolo che ebbe una grande importanza in tutto il Lazio meridionale e nella Campania settentrionale a partire dal VI sec. a.C. La città di Minturnae, insieme con Ausona e Vescia, era una delle tre città principali del territorio degli Aurunci, racchiusa dalla catena dei monti Au-runci e del Massico. Posta sulla spon-da settentrionale dell’antico fiume Li-ris, ebbe fin dalle origini funzione di difesa e, trovandosi a breve distanza dal fiume, divenne anche il porto flu-viale della regione. Nella seconda metà del III secolo a.C. i territori sud pontini furono teatro

272 Veda cap. 2.2.1. Viabilità, pp. 73-77  ; cap. 2.2.2. Il suolo nell’antichità  : uso e caratteristiche produttive, pp. 84-85; DE BONIS A., DE BONIS B., CATENA 2013.273 FRECENTESE- MIELE 1995, p. 27.

Localizzazione della Mintunae romana rispetto al Garigliano

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di alcuni importanti avvenimenti del conflitto romano-punico che videro protagonista il condottiero cartagine-se Annibale. Quando Annibale, dopo aver distrutto e conquistato Capua intraprese con il suo esercito la marcia da sud verso Roma, i Romani avevano già capito quanto im-portante dal punto di vista strategico fosse il massiccio montuoso che, pro-tendendosi dall’Appennino, tagliava, con strapiombi, la riva tirrenica tra Gaeta e Sperlonga. Decisero così di utilizzare il piccolo promontorio, detto di Bazzano (oggi di Tiberio) per imperniare su di esso una linea difensiva costituita da un muro fortificato che, partendo da lì, ri-saliva verso le montagne di Itri e di Pico e poi, volgendo a nord, ne guadagnava la cresta con una linea continua che pare arrivas-se fin quasi alle porte di Roma. Del condottiero è ricordata la traversata nel territorio di Monte San Biagio, nella località di Lautulae presso Torre Portella e nella località di Lenola denominata per l’appunto “Valle di Annibale”: alcuni sostengono, infatti, che Annibale per salvarsi dalle insidie dei Romani, avesse qui usato come stratagemma l’incendio di fascine poste tra le corna di buoi274. Ai piedi del promontorio, l’ampia spelonca ospitava gli stanziamenti militari, mentre sul monte, oggi di San Magno, e sul promontorio, oggi di Torre Truglia, posti di vedetta di-fendevano l’accampamento e assicuravano rifornimenti. Cosi Annibale, che non poteva aggirare l’ostacolo per mare e che non aveva forze a sufficienza per assalirlo, decise di seguire una strada diversa275. Il problema della difesa marittima delle coste del Tirreno cominciò ad essere avvertito a Roma fin dalla metà del IV sec. a.C. e ne sono una prova le nuove fortificazioni di Ardea e del Porto di Pyrgi e la deduzione delle due colonie militari ad Anzio nel 338 a.C. e a Terracina nel 329 a.C. A questo si aggiunse la creazione di due magistrati della flotta, i duoviri navales, che avevano il compito di presiedere all’allesti-mento della prima vera flotta da guerra costruita a Roma276. Si può ritenere che anche il promontorio di Sperlonga ebbe ad ospitare, fin da quel tempo, data la sua posizione strategica, qualche insediamento minore romano. In questo quadro di opere, perlopiù militari, si colloca la successiva costruzione della Via Flacca che costituì la prosecuzione della più antica Via Severiana, da Anzio al Circeo277. Quando le guerre puniche ebbero fine con la definitiva sconfitta di Annibale e quando i ricchi romani cominciarono a soggiornare in ville sempre più belle e sontuose, anche la grotta e il porticciolo, posti sul

274 LISETTI – CATENA 2008, p. 25.275 GIANNELLI 1947.276 SCALFATI 1997, p.16 riferimento nota 8277 Si veda cap. 2.2.1. Viabilità, pp. 77-79.

L’impresa di Annibale (immagine storica)

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litorale di Sperlonga, vennero utilizzati per uso privato.Con la seconda guerra punica (218- 207 a.C.) Formiae subirà il passaggio di Annibale e delle sue truppe nell’anno 220 a.C. poiché si erano spostati lungo la costa a causa della pressione esercitata dall’esercito romano guidato da Q. Fabio Massimo. La fedeltà a Roma rimase inalterata come conferma l’esempio del 216 a.C. Due servi, l’uno di un cavaliere formiano, l’altro un cavaliere sidicino, catturati dai Romani, erano fuggiti dall’accam-pamento. I due, avendo conosciute le intenzioni dei Cartaginesi, decisero di ritornare dai loro padroni e di avvisarli dell’imboscata preparata da Annibale. Anche se ciò non servirà che a protrarre di poco la gravissima disfatta dei Romani a Canne278, l’episodio sottolinea la presenza di cavalieri formiani nell’esercito romano, come obbligo derivante dall’appartenenza ad una civitas sine suffragio. Alcune città e popolazioni passarono tra le fila dei Cartaginesi subito dopo la sconfitta dei Romani a Canne nel 216 a.C. Per la fedeltà mantenuta venne proposta alla città di Formiae, insieme a Fundi e Ar-pinum, la civitas optimo iure dal tribuno C. Valerio Tappo, ratificata nel 188 a.C., con l’iscrizione alla tribù Aemilia279.In questo periodo l’intervento, relativo alla costruzione di opere pubbliche, del censore Valerio Flacco e dei suoi successori coinvolge anche la zona di Terracina, Fondi, Formia. L’intera zona nel corso del II secolo a.C. fu soggetta ad un’intensa attività edilizia (fori, fogne, mura …) probabilmente collegata anche ad interessi patrimoniali che avevano qui alcuni membri dell’élite romana280 in particolare a Fondi, Terracina e Minturno. L’inte-resse era anche dovuto allo sviluppo che stava attraversando in questo periodo proprio la piana di Fondi che, come già detto, si stava specializzando nella coltivazione della vite e nella produzione di vino pregiato, facilmente esportabile via mare tramite i porti di Terracina, Formia e Minturno281.Viene realizzata una diga nella zona di Ter-racina (restaurata o completata nel 179 a.C.) ed una via per Formianum montem identificata per lo più con la via Flacca282. A Fondi fu eretto un tempio in onore di Giove283 (dove oggi si erge la chiesa dedi-cata a San Pietro Apostolo) e un acque-dotto mentre a Terracina ci fu il rifaci-mento di una serie di ambienti addossati alla roccia del monte Sant’Angelo tra cui il piccolo tempio, costruito secondo un sistema ad archi impostati su pilastri, dotato di camere a volta e ornato da af-freschi in stile pompeiano284.

278 FRECENTESE- MIELE 1995, p. 28279 FRECENTESE- MIELE 1995, p. 28 nota 134; LO CASCIO 2002, p.8.280 STORCHI MARINO 2002, pp.32-33.281 Si veda cap. 2.2.1. Viabilità, pp. 74-77.282 Si veda cap. 2.2.1. Viabilità, pp. 77-79.283 Liv., XLI, 26.284 LISETTI – CATENA 2008, p. 25.

Foto aerea del sito archeologico di Minturnae

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A Lenola sono stati rinvenuti molti resti di mura in opera reticolata, condutture di piom-bo (per la fornitura dell’acqua ai fabbricati), tombe a forma di sarcofago e qualche resto di urne cinerarie.In questa occasione le vecchie mura della colonia di Minturnae furono sostituite da una cinta in opera quadrata e, all’interno del nuovo circuito difensivo, venne tracciato il tes-suto viario ortogonale alla via Appia. Fu, inoltre, organizzato il foro repubblicano, deli-mitato da un triportico ad alae, con pilastri quadrangolari di tufo e decorazione fittile policroma; inoltre venne eretto il Capitolium, tempio a tre celle o ad alae probabilmente del tipo canonico tuscanico, testimone per tutti i secoli della Repubblica della religione ufficiale di Roma. Livio ci informa che nell’anno 207 a.C. un fulmine colpì il tempio di Giove e l’area sacra del bosco della Marica (Liv., XXVII, 37).Tra il II e il I secolo a.C. le guerre sociali e civili portano ad un generale senso di insi-curezza. Il periodo delle guerre intestine si ripercuote anche sulle città laziali. Formiae assistette alla fase più acuta delle guerre civili e gli eserciti dei contendenti, essendo l’Ap-pia via diretta con Roma, nata per esigenze militari, la percorsero in lungo e in largo. Gli scontri politici portarono all’assassinio di cittadini romani illustri e anche M. Tullio Cicerone trovò la morte nei pressi del Formianum per mano di sicari assoldati per una vendetta ordita nei suoi confronti. Dapprima fuggito da Tusculum, per vie secondarie, l’oratore romano si diresse nel territorio formiano per potersi imbarcare a Gaeta. Tra-sportato più volte in mare aperto, poiché i venti lo ritraevano indietro e poiché egli stes-so non sopportò l’agitazione della nave, fu preso dallo sconforto e ritornato alla villa, morì285. Cicerone infatti, appena vista Formia, ne diventò frequente ospite e non tardò ad avervi una villa286. All’oratore è stata anche attribuita un’imponente tomba che sorge lungo il percorso dell’attuale Appia287. Al tempo dello scontro tra Mario e Silla (88-78 a.C.), Minturnae si vide protagonista di eventi particolari legati alla vita dello stesso Gaio Mario. Caduta Roma nelle mani di Silla, i contumaci Mario e Sulpicio furono costretti a lasciare la città eterna per trovare

285 GUERRIERO 1976, p. 24. 286 L’attuale Villa Rubino è la residenza sotto la quale si stendono i resti che molti studiosi identificano con il celebre For-mianum, ossia la villa estiva di Cicerone. In questa villa l’oratore si ritirò durante il I° triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso essendo venuto meno il suo peso politico. Di questo suo soggiorno se ne ha notizia grazie all’intensa corrispondenza tra Ci-cerone e l’amico Tito Pomponio Attico. In questo luogo da lui prediletto, Cicerone continua i suoi studi e a seguire le vicende politiche di Roma. Seneca riprendendo gli scritti di Tito Livio racconta che in questo luogo l’arpinate fu raggiunto dai sicari di Antonio e ucciso il 7 dicembre del 43 a. C. Profonde modifiche hanno stravolto la struttura originaria, ma si può ancora vedere l’impianto organizzato da ambienti rettangolari a Nord e da un settore residenziale a Est, il tutto si sviluppa su tre terrazze degradanti verso il mare, e ancora si possono scorgere l’ampia peschiera, il porticciolo privato e il grande edifico con cortile centrale, caratteri peculiari delle nobili residenze d’otium del litorale campano-laziale. Il livello inferiore conserva una serie di ambienti tra i quali spiccano i cosiddetti ninfei maggiore e minore, riccamente decorati. Fu restaurata dai Borboni, poi dal principe di Caposele e la villa Rubino così carica di storia venne frequentata come albergo di lusso da colti personaggi che la resero famosa in tutta Europa. Un grande e pregiato patrimonio oggi chiuso al pubblico e in via di degrado che necessita di urgenti interventi di recupero. Si veda Salvatore Ciccone, Aggiornamenti sulla topografia del Formianum di Cicerone, in Atti del Formianum, vol. 1, pp. 43 e sgg.287 La cosiddetta tomba di M.Tullio Cicerone datato al I sec. a.C., costituita da zoccolo in opus quadratum massiccio e meta in opus incertum ,sorge lungo la via Appia, nei pressi della città di Formia. E’ caratterizzata da un grande basamento quadrato di circa 18m di lato in opera cementizia e probabilmente rivestito con blocchi di calcare locale. Al di sopra del basamento si eleva il tamburo tronco-conico alto circa 15m in opera incerta di grosse scaglie di pietra calcarea. L’interno del basamento è un vano a pianta circolare diviso in cinque nicchie e contiene la cella sepolcrale, al centro della quale si trova una colonna su cui scarica la volta e la parte superiore del monumento. L’accesso alla camera sepolcrale si trova sul versante occidentale, mentre quello al monumento vero e proprio si trova nella parte posteriore. Il tutto è circondato da un recinto. Si veda AURIGEMMA – DE SANTIS 1979, pp.64-66.

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salvezza altrove. I due erano però braccati dalle spie e dai sicari dello stesso Silla. Sulpicio fu ucciso da un suo servitore, convinto così di riuscire ad ottenere il perdono e la libertà da Silla. Il dittatore pensò bene, tuttavia, di punirlo facendolo gettare dalla rupe Tarpea con l’accusa di tradimento nei confronti del proprio padrone. Mario riuscì a scampare ed a raggiungere Ostia dove lo attendeva una nave che lo avrebbe condotto in Africa. Una tempesta lo costrinse al largo di Terracina ad abbandonare la nave e a nascondersi nell’entroterra dove trovò rifugio presso una capanna di un boscaiolo. Dopo breve tem-po fu scoperto, mentre si era rifugiato in una palude e venne condotto a Minturnae, dove avrebbe dovuto attendere la decisione del Senato, ospitato nella casa di una certa Fannia288. A seguito della decisione, secondo la quale Mario sarebbe dovuto morire, i minturnesi, mossi da compassione non ebbero il coraggio di compiere tale gesto. Solo un cimbro si fece avanti ma non riuscì a por-tare a termine il lavoro atterrito dalle parole pronunciate dal console. Infine, gli stessi abi-tanti di Minturnae aiutarono Mario a scappare verso l’Africa. Tra le fonti, non va sicuramente dimenticata la testimonianza di Plutarco nella sua Vita di Mario (Plut. Mar. 39,5), nella quale lo storiografo racconta la fuga del generale dai sicari di Silla e il suo rifugiarsi nei pressi delle paludi fangose in cui si espande il fiume Liri presso la foce, in prossimità del bosco sacro de-dicato alla dea Marica.Dal punto di vista dell’attività edilizia, si assi-stette al rifacimento di alcune mura cittadine. In età sillana a Fondi venne ricostruito il si-stema difensivo289 (in opera incerta e retico-lata con l’aggiunta di torri) e le quattro porte di accesso. Di queste l’unica ad essere rimasta visibile è “La Portella” che è formata da due sti-piti, strutturati con blocchi bugnati a forma di parallelepipedo, disposti orizzontalmente sen-za malta mentre i contrafforti, in opera incerta, presentano archetti e rientranze; rimane anco-ra ben riconoscibile l’impianto quadrangolare del castrum originario. Terracina è soggetta ad una vera e propria mo-numentale ricostruzione e in particolare è l’a-rea di Monte Sant’Angelo che viene dotata di mura con ben nove torri circolari a Nord, un campo militare che doveva proteggere il san-

288 Plut., Mar., 37-40289 La prima fase delle mura fondane risale all’800-700 .C. ed è caratterizzata da mura formate da blocchi enormi, sovrapposti senza malta e a scarpata mentre la seconda fase, anteriore al IV secolo .C., è caratterizzata dalla tecnica dell’opus poligonale.

La dea Marica (immagine storica)

“La Portella” presso Fondi

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tuario e un nuovo e più grande tempio mentre nell’area dell’acropoli fu realizzato, con la tecnica muraria dell’opus incertum, il teatro, messo in evidenza dai bombardamenti del 1943-44 insieme ad un portico posto sul retro.Il tempio, che viene ancora denominato di Giove Anxur e che si credeva destinato al culto di Giove fanciullo, è con più probabilità un santuario dedicato a Venere. L’ipotesi è stata accreditata dal rinvenimento nell’area di una serie di iscrizioni e statuette votive con riferimenti alla dea. Una sua grande statua doveva trovarsi su una piattaforma an-cora esistente posta sulla grande terrazza (dove si trovavano le strutture più antiche del tempio minore e dell’oracolo, quest’ultimo comunicante con una caverna utilizzata dai sacerdoti per i riti divinatori e probabilmente primo impianto dell’area) realizzata su grandi arcate a tutto sesto alte cinque metri. L’imponente edificio sacro, realizzato in ope-ra incerta, era a pianta rettangolare, impostato su un criptoportico con arcate slanciate a tutto sesto e dotato probabilmente di un colonnato di stile corinzio290. Si accedeva al tempio, composto da un pronao profondo quasi quanto la cella (quasi quadrata con sei semicolonne per lato291), attraverso una scalinata.Il teatro romano, che sorgeva al centro della città, è invece uno dei pochi esempi di questo genere riportati alla luce. Gli scavi hanno messo in evidenza l’ingresso posto ad est, la cavea292 e la scena oltre ad una serie di statue, raffiguranti personaggi locali, che dovevano ornarlo.

A pochi passi dal teatro, vi era un tempio, datato al I secolo a.C. e dedicato alla triade capitolina di Giove, Giunone e Minerva (Capitolium). Probabilmente esso doveva pre-sentare sulla fronte una decorazione caratterizzata da quattro colonne dorico-tuscaniche ed essere costituito da tre celle in reticolato di tufo e calcare scuro sotto le quali si con-servano gli ambienti nei quali venivano riposte le offerte votive293.A pochi chilometri dal santuario sul Monte Sant’Angelo vi è invece una grande piazza

290 DE BONIS A. - DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 21.291 MARZANO 2009, p. 87.292 È stato possibile definire l’esatto perimetro della cavea, sulla quale sono stati poi realizzati edifici di epoca medievale e moderna, grazie al fatto che questi si dispongono a semicerchio, secondo lo schema del teatro.293 DE BONIS A. - DE BONIS B. – CATENA 2013, p. 56. Del capitolium oggi si conserva il basamento, parte della scalinata di accesso, una colonna scanalata e molti resti delle pareti delle celle.

Il Tempio di Venere presso Terracina

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denominata “Palatina” che prende il nome dal palatium, villa romana che doveva sorgere nei pressi e luogo in cui, si dice, nacque l’imperato-re Galba nel 3 a.C.294. L’area è caratterizzata da uno spazio semicircolare addossato ad un’alta parete rocciosa e delimitato nella parte opposta da massicci blocchi squadrati di calcare. Sem-pre di età sillana è un edificio in opera incer-ta, probabilmente un tempo una villa romana, caratterizzato da cinque grandi arcate, oggi murate, sorrette da pilastri in facciata. L’angolo ad ovest conserva una finestra ad arco a tutto sesto ed è rinforzato da grossi blocchi rettango-lari. Nella zona denominata salita dell’Annun-ziata sono stati invece riconosciuti dei resti ap-partenenti all’antico foro della città che doveva avere sul lato est la Basilica295 accessibile da est mediante l’arco “Quadrifronte” e non molto distante un tempio, forse esastilo e dotato di nicchie nella parete interna296.Nel I secolo a.C., molti centri dell’area godettero della Lex Julia de Civitate Latinis dan-da del 90 a.C. che dava loro la cittadinanza e l’autonomia per non essere insorti contro Roma nel corso della guerra sociale e poi della successiva Lex Julia municipalis del 45 a.C., con la quale Cesare regolava l’amministrazione di Roma e dei municipi romani e latini. Tra essi si fa anche menzione al municipium fundanum: da questo momento re-stava subordinato al prefetto di Roma il quale vi inviava ogni anno un pretore. Questa figura aveva una funzione prettamente giurisdizionale297 e si affiancava alle tradizionali cariche di magistratura, incaricate di occuparsi dell’amministrazione locale e delle quali la principale era quella dell’ edile298. L’area urbana di Minturnae non subì, invece, rilevanti cambiamenti al tempo di Silla e poi di C. Giulio Cesare. Delicato probabilmente dovette essere il periodo immediata-mente successivo alla morte del dittatore: il coinvolgimento della città nel 44 a. C. nelle azioni militari del figlio di Pompeo Magno, Sesto Pompeo, può essere considerato un

294 Alcuni storiografi antichi come Varrone, parlano della presenza di questa villa nei pressi di una grande sorgente naturale. Nonostante molti tentativi di identificazione dell’esatto luogo di edificazione della villa romana, ancora oggi non si è in grado di individuare il punto con certezza. Alcuni storiografi propongono una identificazione con Piazza Palatina, altri nell’area di Torre Canneto, altri ancora a Monte San Biagio, nell’area della cascata di San Vito, detta “Paradiso” nell’antichità. Si veda DE BONIS A. - DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 21.295 I resti della Basilica non sono visibili poiché su di essi è stato realizzato il settecentesco Palazzo della Bonificazione. Grazie a dei disegni cinquecenteschi di Baldassarre Peruzzi possiamo affermare che all’epoca, l’antico edificio romano era di forma quadrangolare e circondato da un porticato. Si veda DE BONIS A. - DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 50.296 Del tempio restano i muri in opera reticolata della cella e una colonna scanalata in marmo. Si veda DE BONIS A. - DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 50.297 FORTE 1972, p.51.298 Gli edili, magistrati con potere esecutivo, potevano essere due o anche più e venivano eletti annualmente. Si occupavano della sorveglianza della vita cittadina (cura urbis: le strade, , i bagni pubblici, gli edifici; cura annonae: gestione dei mercati; cura ludorum: l’organizzazione dei giochi) e alla riscossione delle imposte.

Arco quadrifronte romano di Terracina

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fatto certo. Sappiano che furono inviati dei coloni sia al tempo di Cesare sia al tempo di Augusto. A tal proposito molte fonti, tra cui un passo tratto dal Corpus Agrimensorum Romanorum ( Lib. Col.) ricorda la colonia dedotta da Giulio Cesare299. Fonti storiche e resti archeologici concordano nell’attribuire ad Augusto, invece subito dopo la fine delle guerre civili, il rinnovato assetto urbanistico, decorativo e territoriale della città300. Nel 72 a.C. Gaeta (e il territorio ad essa circostante) fu saccheggiata dai pirati che in quei decenni depredavano l’intero Mar Mediterraneo. Tante erano le incursioni che l’intera penisola, Roma compresa, piombò in una violenta fase di carestia. Cinque anni più tardi Pompeo Magno ricevette l’incarico di allontanare la minaccia costante dei pirati e pro-prio a Gaeta venne combattuta un’importante battaglia301.La città successivamente divenne un rinomato luogo di villeggiatura.  Sin dall’ul-timo secolo della Repubblica, lungo la Via Flacca, sulle circostanti verdi colline e a ridosso delle splendide spiagge lungo tutta la costiera verso Sperlonga, sorsero grandiose ville con giardini e piscine, ninfei di cui restano ovunque imponenti testimonianze, in ricordo dell’impor-tanza dei personaggi che vi hanno di-morato. Una delle più importanti ville fu quella fatta costruire dal console Lucio Munazio Planco, fondatore tra l’altro delle città di Lione e Basilea e colui che fece restaurare il tempio di Saturno a Roma. Essa occupava tut-to lo spazio attorno all’attuale Chiesa della SS. Trinità e di essa sono ancora visibili un lungo criptoportico e cin-que cisterne per la raccolta dell’ac-qua302. Legato al nome del console è il maestoso mausoleo che sorge sulla sommità di Monte Orlando303.

299 Per le varie ipotesi si vd COARELLI 1989, pp. 55- 57.300 Cod. Pal. Val. Lat. 1564, vignetta riferibile ad Igino Gromatico che probabilmente scrisse alla metà del II sec. d.C. COA-RELLI 1989, pp. 53-54; MESOLELLA 2012.301 TALLINI 2006, p. 13 note 1-3.302 Per approfondimenti si veda E. Vaudo, I monumenti, in Il Parco Regionale Urbano di Monte Orlando Gaeta, Gaeta 2003, pp. 33 e sgg.303 La costruzione consiste in una specie di basso torrione cilindrico, in opera quadrata nella parte esterna e ospitante quattro celle internamente disposte a quadrifoglio, aperte su un corridoio anulare. Il paramento dei locali interni è in opus reticolatum, con tratti di cortina di mattoni. Il diametro del tamburo è di 29, 50 m (circa 100 piedi romani), il cilindro è fasciato da dodici file di blocchi, quattro di base, di cui tre bugnati, di spessore variabile fra i 60 e i 73 cm. Il fregio, con cui termina nella parte sommitale il rivestimento, è di ordine dorico, con metope decorate a rilievo aventi come tema armi, trofei, corone. Una cornice alta circa 40 cm termina in alto questo fregio. Sopra la cornice di svolge un parapetto di grossi blocchi alternati disposti a mo’ di merli con specchiature rientranti, in numero di ventisei. Dietro questo parapetto si sviluppa un camminamento di ronda arginato dal muro di contenimento del tumulo che si imposta sul sottostante corridoio anulare. Quest’ultimo, accessibile da una porta scorniciata, è largo circa 2 m coperto a volta con qua e là degli spiragli di luce. L’esplorazione ha rivelato la presenza di un grosso pilastro assiale, in grossi blocchi squadrati, desinato probabilmente a prolungarsi verso l’alto attraverso il tumulo, così da costituire una base per la possibile statua di coronamento. Il tamburo doveva poi concludersi con un tumulo terragno secondo la moda italica del tempo. Sopra la porta di ingresso del monumento si trova l’iscrizione dedicatoria inclusa in una cornice a listello liscio e ovoli. Il testo ricorda le principali cariche civili, militari e religiose ricoperte dal personaggio, le sue benemerenze e come fondatore di colonie. Secondo le informazioni date dall’iscrizione, l’erezione del monumento dev’essere posteriore al 22 a.C., anno in cui Planco ricoprì la censura. Si veda per approfondimento IACOPI 1960, pp. 7-41.

Il Mausoleo di Munanzio Planco presso Gaeta

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Un’altra importante villa fu quella di Lucio Sempronio Atratino, console e uomo di legge. Essa si trova sull’omonimo colle e si estendeva per molti ettari. Nei pressi della “vecchia” stazione ferroviaria è sito anche un maestoso fabbricato circolare (molto ro-vinato), il cosiddetto Mausoleo appartenente allo stesso Atratino. Non si sa se questo mausoleo fu costruito come monumento trionfale in onore del console o come suo monumento funebre. L’edificio sorgeva sulla parte sommitale di un’altura, oggi inse-rita nel centro urbano. Le camere si appoggiano a un nucleo centrale che si prolunga in un pilastro, destinato a sostenere un simbolo o l’immagine del defunto, che sor-monta di oltre tre metri l’estradosso delle coperture.  Il Mausoleo, ridotto oggi al solo scheletro, ha la circonferenza di 114 m. ed è alto 13.30 m., oltre al torrino che misura altri 4.80 m. All’interno, un ambulacro circolare in opera reticolata consente l’accesso a quattro celle disposte a croce, tre di esse, rispettivamente quelle rivolte a nord, est, sud, hanno pianta quadrilatera mentre la cella rivolta a ovest, che ospita la cisterna, ha pianta ellittica. Sfortunatamente il monumento nel XII secolo venne spogliato del suo rivestimento per la costruzione del campanile del Duomo dove, oltre a un fram-mento dell’iscrizione menzionante “Sempronio Atratino”, sono inglobati elementi del fregio. La scelta dei soggetti figurativi  come strumenti sacrificali e insegne sacerdotali (soprattutto il lituo, il bastone ricurvo), rimarca la personalità del titolare, console e membro del collegio degli Auguri, carica a cui doveva tenere molto considerato che, anche nelle monete in cui appare il suo nome, ricorre questo titolo.Va inoltre ricordata la presenza del console Publio Cornelio Scipione detto l’Africano (il vincitore di Annibale), il quale, come ci ricorda Cicerone nel libro II del “De Oratore”, usava nei periodi estivi recarsi a Gaeta e godere delle sue spiagge, di-lettandosi nelle ore di ozio a raccogliere conchiglie304. Oltre alla villa, Scipione si fece costruire anche la propria tomba e, come afferma Plutarco, essa molto probabilmente doveva essere costruita sulle rovine del sepolcro che lo stesso Enea fece costruire alla morte della sua nutrice Cajeta305.Quello che oggi è il territorio di Sper-longa era, al tempo di Cesare, parte in-distinta del territorio della vicina città di

304 Cic., De Oratore, II, 6-10:” Non audeo dicere de talibus viris, sed tamen ita solet narrare Scaevola, conchas eos et umbilicos ad Caietam et ad Laurentum legere consuesse et ad omnem animi remissionem ludumque descendere”.305 TALLINI 2006, p. 15. La nascita del  mausoleo è ancora avvolta nel mistero: secondo alcuni studiosi sarebbe la tomba di un patrizio romano dell’età di Adriano, secondo l’archeologo Amedeo Maiuri, invece, si tratta della  “vera tomba di Cicerone” (I sec. a. C.). Comunemente conosciuto dagli abitanti e identificato nei libri di storia come “Sepolcreto Marittimo”, il miste-rioso mausoleo fu eretto in una località campestre vicina al mare. Storicamente non si hanno notizie sulla sua costruzione ma si può stabilire per certo che il poderoso manufatto è stato adibito, fin dal Medioevo, a stalla e a magazzino, uso a cui è stato destinato, fino a pochi anni fa. In realtà il monumento, chiamato “Sepolcreto Marittimo” è databile intorno al I sec. d.C., ed è assimilabile a una delle molteplici tipologie che contraddistinguono i sepolcri romani tra l’inizio dell’età imperiale e il periodo Giulio-Claudio.

Resti Atratino Duomo

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Fondi. In questa riviera ebbe una villa maestosa un suo ricco cittadino, M. Aufidio Lur-cone, che l’aveva realizzata intorno ad una delle grotte più belle, decorandola con stucchi e altri preziosi ornamenti. La villa, inoltre, fu dotata di peschiere per l’allevamento di pesce, di cui il mare antistante era pieno. M. Aufidio Lurcone era il nonno materno di Livia, che diventerà imperatrice a diciannove anni quale moglie di Augusto. Lungo la Via Flacca sorgeva un’altra villa, denominata Villa Prato, dal nome della località. Costruita a partire dalla seconda metà del II sec. a.C., questa struttura presenta ancora ca-ratteristiche tipiche delle cosiddette ville catoniane, costruite su podio in opera poligonale, con la presenza di grandi cisterne e una netta separazione tra pars urbana e pars rustica. La villa si distingue per la grande larghezza del basamento, per la presenza di colonne in facciata e di luoghi di conforto, dediti all’otium e al convivio, del tipo del triclinum o cenatio o oecus. Il complesso si presentava come una vera e propria abitazione monumentale, ap-partenente a quell’epoca in cui le ville stesse erano elemento di ostentazione della ricchez-za, derivante dalla concezione ellenistica. La decorazione delle pareti era caratterizzata da stucchi e pitture appartenenti al Primo Stile e da mosaici. Il materiale ceramico colloca la costruzione tra il 150/110 a.C. e il 50/40 a.C.; la produzione olearia fu la prima attività della villa, seguita da attività di viticultura nelle sua fasi di abbandono306.Insieme a queste, degna di nota è la villa marittima nei pressi di Gianola, a Formia, attribuita a Mamurra, nativo della città, che fu praefectus fabrum durante le spedi-zioni militari in Britannia e Gallia, intraprese da Cesare, e che fu accusato di aver accumulato illecitamente e dilapidato grandi ricchezze durante queste campagne, tanto che Catullo scrisse un’invettiva contro di lui307. L’area archeologica, risalente al 50 a.C., oggi ha un’estensione di circa 292 ettari che sono stati sottoposti a opera di conservazione solo negli ultimi decenni. La villa di Mamurra si può inserire nel sistema di ville marittime della zona costiera laziale e campana e come tutte le altre era dotata di piscinae (peschiere).I ruderi della villa, dislocati su tre livelli degradanti fino al mare: vi erano un balneum, un castellum aquae in opus incertum, un triclinio invernale e dei portici; tutti gli ambien-ti erano decorati da mosaici e marmi pregiati. Per la presenza di resti di ipocausti e di tubi fittili per intercapedini riscaldate, il balneum è stato identificato in un calidarium, mentre il piccolo bacino vicino scavato nella roccia con un grande condotto voltato era probabilmente il frigidarium. Due grandi cisterne si trovavano al livello mediano, l’una è detta delle “36 colonne”, l’altra “maggiore”. La prima, con la volta sostenuta da trentadue pilastri quadrati, scavata nella roccia, alimentava il balneum dove si effettuava la talas-soterapia, oltre alle consuete funzioni termali. La cisterna maggiore, era collocata nella parte orientale della villa su un pianoro a 20 m sul livello del mare, ed aveva una capacità di ca. 900.000 litri. Le volte, oggi completamente crollate, erano sostenute da cinquanta-sei pilastri quadrati, di cui restano le basi e da due setti murari, con la presenza dei fori attraverso i quali affluiva l’acqua.Vi era anche un’ampia rampa voltata (la cd. Grotta della Janara) che presenta ancora

306 Per approfondimenti si veda BROISE - LAFON 2001.307 Catullo, Carmen 29. L’attribuzione, tutt’altro che certa, è stata riproposta in più occasioni, sulla base, però,della generica persistenza del toponimo “Mamurrano” nel territorio retrostante il promontorio, e del rinvenimento, nei dintorni, di una non troppo significativa epigrafe relativa a una Aufillia P(ubli) [f(ilia)] Mamurra (AE 1909, 63). Si veda CICCONE 1996, pp. 9-10; PESANDO- STEFANILE 2015, p. 307.

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resti della decorazione parietale e permette-va la diretta comunicazione con un quartiere residenziale308.Il complesso architettonico sulla sommità del promontorio terminava con un edificio a pian-ta ottagonale, il cosiddetto Tempio di Giano, conosciuto solo attraverso la descrizione otto-centesca dello studioso Pasquale Mattej. L’edi-ficio si trova a 37 metri sul livello del mare, in parte scavato nella roccia ed è il fulcro dell’in-tero impianto residenziale. Le pareti erano in opus signinum e rivestite di intonaco, con la volta sorretta da un pilastro centrale e deco-rata con un mosaico che rappresentava il cielo stellato. Inizialmente si è pensato che l’edificio avesse una destinazione idraulica e che fosse una cisterna circondata da otto corpi di forma trapezoidale e absidata, trasformato poi in età imperiale in camera funeraria. Oggi i re-centi studi permettono di identificarlo con un ambiente di rappresentanza309.

2.2.4. I territori del sud-Pontino nell’età imperiale(Chiara Casale - Alessandro De Bonis - Cassandra Rita Russo)Nella prima età imperiale, dopo la grande opera di propaganda culturale ed urbanistica di Augusto, anche nei centri limitrofi comincia a diffondersi l’usanza, da parte non solo degli imperatori ma anche delle famiglie più benestanti e influenti, di realizzare opere edi-lizie contribuendo così ad un generale sviluppo urbanistico e monumentale del territorio romano. In particolare nelle città di provincia vengono costruiti palazzi, basiliche, terme, acquedotti, anfiteatri e vengono portate avanti opere di rifacimento o ampliamento dei fori.Gran parte del territorio che va dal versante meridionale di Terracina sino a Formia en-trò a far parte del demanio di Roma, più specificatamente di proprietà imperiale poiché Livia Drusilla, moglie di Augusto, era originaria della città di Fundi310 e molti possedi-menti appartenevano alla sua famiglia. L’acquisizione avvenuta in età tiberiana durerà almeno sino all’età antonina come attestato da alcune epigrafi311. Livia, nata a Fondi, fu madre di Tiberio, anche lui probabilmente nato nella città materna, o che passò in essa buona parte della sua infanzia, utilizzando la grande villa sul mare appartenente al non-no. Lo storico Tacito racconta un aneddoto legato all’imperatore Tiberio, avvenuto pro-

308 Si veda N. Cassieri, Primi interventi di scavo archeologico e di conservazione nella villa romana di Gianola, in Formia-num,3, 1995, pp. 27-33.309 Per approfondimenti si veda LIBERACE 1984; PESANDO- STEFANILE 2015; HUMAR 2016, pp. 97-98.310 Come testimoniato dal passo dello storico romano Svetonio ed alcune epigrafi rinvenute nei resti dell’antica città. Si veda DE BONIS A. – DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 28.311 Si tratta di epigrafi rinvenute a Formia e che recano iscritti i nomi di liberti imperiali che si occupavano dell’organizzazio-ne di tali possedimenti. Si veda STORCHI MARINO 2002, p. 66.

Riproduzione della nobile Livia Drusilla

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prio nella villa di Sperlonga, intorno al 25 d.C.: una caduta di sassi ferì alcuni ministri e provocò grande paura tra i convitati che si dettero alla fuga, tranne Seiano che protesse lo stesso Tiberio con il suo corpo312. Anche Svetonio racconta l’accaduto313. Fino al 1954 la grotta, nonostante l’interramento, era ridotta a non più di un semplice rifugio di pescatori. Le prime indagini della Soprintendenza vennero effettuate nei pressi della nuova litoranea Terracina-Gaeta della via Flacca, in ricordo di quel percorso che il censore L. Valerio Flacco realizzò per formianum montem nel 184 a.C., poco dopo l’ere-zione di Formia e Fondi a municipi optimo iure nel 188 a.C.314.Gli scavi hanno portato alla luce le parti essenziali del complesso (che si sviluppava per un fronte marino di circa 300 m.) composto, oltre che dagli ambienti abitativi e di servi-zio, da impianti termali e riserve d’acqua, a cui si legava un attracco sul mare.

La grande grotta naturale, adattata con appositi interventi, accoglieva il triclinio im-periale con una piscina interna, collegata ad altre all’esterno, e adibite ad allevamenti ittici pregiati. L’interno della scenografica grotta, in cui l’imperatore amava passare molto tempo, era riccamente decorato con marmi pregiati, mosaici e arredato con monumen-tali gruppi scultorei. Le prime esplorazioni, infatti, diedero presto risultati notevoli: busti e arti di marmo appartenenti a sculture dalle forti caratteristiche barocche e dalla perfet-ta anatomia. Inoltre vennero ritrovati frammenti di iscrizioni in greco, nelle quali furono riconosciuti due dei nomi degli autori del famoso gruppo scultoreo del Lacoonte315.La villa era costituita da diversi edifici disposti su terrazze rivolte verso il mare. Le pri-me strutture sono relative ad una villa di epoca tardo-repubblicana, forse appartenuta

312 Tac., Ann., IV, 59.313 Svet., Vita Tiberii, cap.39.314 IACOPI 1963, pp. 5 e sgg. Per particolari sull’antico percorso viario si veda paragrafo relativo.315 IACOPI 1963, p. 6.

Ricostruzione del ninfeo nella “Grotta di Tiberio” a Sperlonga

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a Aufidio Lurco, nonno materno di Li-via. La villa vera e propria conserva una serie di ambienti intorno ad un cortile porticato, tra i quali sono compresi am-bienti di servizio, più volte ristrutturati, una fornace e un forno per la cottura del pane. Agli inizi del I secolo d.C. venne aggiunto un lungo portico a due navate e la grotta naturale che sorgeva presso la villa fu inquadrata all’ingresso da un prospetto architettonico trasformandola parzialmente con interventi in muratura (realizzazione di una grande peschiera con la cenatio centrale, a cui si legava una vasca circolare) e mediante l’utilizzo del ciclo scultoreo narrante le storie di Odisseo316. Una scultura con Ganimede rapito dall’aquila di Zeus era invece posta in alto sopra l’apertura della grotta317.Seppur di importanza rilevante, la villa di Tiberio non è l’unica nell’area: già con la realizzazione della via Appia tutto il territorio sud-pontino era stato valorizzato, ma in età imperiale ci fu un incremento del lavoro nelle campagne e delle attività agri-cole318, molto importanti per l’economia rurale ed attestate già a partire dalla fine del III – inizi II secolo a.C., che portarono ad un maggior benessere per la popolazione locale e all’aumento della costruzione di ville rustiche ed edifici pubblici riconducibili per la maggior parte tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., grazie alla realizzazione della muratura in opera reticolata.Le colonie nei primi secoli dell’impero furono amministrate secondo la Lex Iulia Augu-sta, emanata da Augusto nel 7 a.C., che prevedeva una nuova organizzazione del muni-cipium. In particolare i collegia fabrum, che racchiudevano il popolo in corporazioni di mestiere, furono molto numerosi: a capo di essi fu designato un praefectus fabrum, di cui abbiamo notizia anche a Formia. Inoltre numerose epigrafi attestano la presenza di augurales sedules, magistratura imperiale, composti da iscritti all’ordine equestre e rap-presentanti dell’aristocrazia più ricca, che provvedevano al culto imperiale319.Nel periodo della dominazione romana acquisirono maggiore rilevanza alcuni centri come Formiae. La città si era ampliata per l’impulso edilizio e culturale promosso grazie alle riforme amministrative, che permisero di porre mano ad una nuova configurazione dell’abitato cittadino e dei suoi servizi. Era governata dalla ricca classe imprenditoriale e aristocratica, il senato cittadino e le magistrature insigni nel periodo imperiale diedero lustro alla città, consentendo anche a Formia di svilupparsi secondo le direttive della politica di riforme amministrative e giudiziarie volute dall’impero. La città era dotata di strutture ludiche e ricreative, quali il teatro e l’anfiteatro. Del primo resti eminenti

316 HARALD 1999.317 SCALFATI 1997, p.21 e sgg.318 Si veda cap. 2.2.2. Il suolo nell’antichità: uso e caratteristiche produttive, pp. 85-86.319 FRECENTESE- MIELE 1995, p. 31 note 164 e 165.

Particolare delle piscine e cenatio della villa di Tiberio

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sono visibili nella parte occidentale della città, in prossimità del Castello, quasi a fianco a “Castellone”. L’anfiteatro, invece, è poco lontano dall’Appia, tra “Castellone” e la “Mola”, a lato della stazione ferroviaria ed è ancora completamente interrato. L’acropoli e l’abitato erano forniti di strutture templari dedicate ad un numero cospicuo di divinità320. Anche la componente portuale non fu da meno rispetto ad altri porti del Tirreno. Formiae non fu mai un centro turistico, o meglio non fu principalmente questo, ma fu una vera città residenziale e le stesse fonti ci testimoniano la presenza di ville appartenenti a personag-gi eminenti dell’aristocrazia romana.Sotto l’imperatore Adriano, Formia divenne colonia con il titolo di Colonia Aelia Hadria-na Augusta Formiae, con un’iscrizione che ricorda il munus che un ricco editor, cittadino formiano, aveva donato per celebrare l’edificazione del Capitolium per il culto della tria-de capitolina ( Giove, Minerva e Giunone). Si può pensare che i coloni non formassero un nuovo centro urbano, ma che abitassero un quartiere nuovo, preparato per essi alla periferia della città. L’amministrazione locale della colonia fu probabilmente separata, ma tenendo in comune con Formia quanto concerneva i bisogni essenziali: strade, acque e servizi urbani simili. Successivamente, dopo una prima fase di separazione, la nuova colonia si fuse al precedente assetto urbano formando nuovamente un tutt’uno321.Nella città di Terracina invece, protagonista di uno dei conflitti decisivi della guerra ci-vile nell’anno dei quattro imperatori322, è un magistrato locale Aulus Aemilius che andò a riedificare un nuovo foro su quello precedente, contribuendo alla costruzione, intorno a Piazza Palatina, di una serie di edifici a carattere civile e religioso. Egli portò avanti i lavori tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C. ed il suo nome ancora oggi si conserva sulle lastre della pavimentazione calcarea del foro. La piazza forense era sostenuta a sud da imponenti gallerie che si dispongono su quattro corridoi paralleli e che poggiandosi al dirupo naturale formavano una vera e propria terrazza artificiale. Era delimitata a nord dall’Appia antica di cui si conserva il basolato in pietra, l’antico marciapiede al di sotto del quale è presente una canalina calcarea per lo scolo delle acque e la sostruzione costi-tuita da un muraglione in opera poligonale bugnata. I resti del tempio romano facente parte del complesso non sono visibili poiché utilizzati come basamento per la successiva costruzione del Duomo di San Cesareo, che ricalca quasi fedelmente la pianta strutturale più antica. Anche se molto frammentari, si conservano alcuni resti degli edifici perti-nenti un’altra piazza realizzata sul finire del I secolo a.C. impropriamente denominata “Foro Severiano”323.Oltre a foro e tempio, a Terracina furono realizzate anche delle terme databili al I secolo d.C. e un ninfeo che, insieme ad altre strutture, è stato datato al II secolo d.C.324. Le ter-me erano costituite da un vano rettangolare con absidi nei lati brevi, un vano quadran-

320 Si è a conoscenza dei culti dedicati a Cerere, Nettuno, Minerva e Cibele. Per approfondimento di veda FRECENTESE- MIELE 1995 p. 32. 321 GUERRIERO1976, pp. 47-50.322 Nella fase finale della guerra civile dell’anno dei quattro imperatori, che vede lo scontro tra Vitellio e Vespasiano, il co-mandante del primo, di nome Claudio Giuliano, si unì ai disertori e occupò la città di Terracina, facilmente difendibile per le mura e la natura stessa del territorio. Vitellio inviò contro Giuliano delle truppe guidate dal fratello Lucio Vitellio che dopo aver assediato la città riuscì ad espugnarla e ad uccidere il disertore grazie al tradimento di uno schiavo che era riuscito a fuggire.323 I resti sono stati inglobati nelle abitazioni prospicienti Piazza Fontana Vecchia. Si veda DE BONIS A. - DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 74.324 Le testimonianze sono state rinvenute in Via Due Pini e nella zona occupata dall’edificio dell’Ufficio Turistico. DE BONIS A. - DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 118.

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golare nella parte esterna e circolare con una serie di nicchie nella parte interna probabilmente utilizzato per bagni di vapore, a cui era affiancata una piccola palestra. Il ninfeo invece era caratteriz-zato da due grandi nicchie che dovevano essere decorate con giochi d’acqua.In via Marconi si conservano resti del I-III secolo d.C. attribuiti ad altre terme dette “Terme Nettunie”, ma che dovevano più probabilmente far parte di una villa suburbana decorata da pitture lineari con un mosaico recante mostri marini325.Importanti lavori urbanistici volti alla miglioria del percorso stradale e ma-rittimo furono effettuati sul finire del I secolo – inizi del II secolo d.C. sotto l’imperatore Traiano: fu eseguito il ta-glio del Pisco Montano (per un’altezza di 128 piedi romani) per la rettifica del tracciato dell’antica Appia326, a cui seguì l’ampliamento del porto327.Sono datati al I secolo d.C. i resti di un mausoleo e di una domus romana lo-calizzati a Monte San Biagio, più preci-samente al km 110,500 e 110,800 della via Appia. Il mausoleo denominato “di Galba” è stato per lungo tempo attribu-ito all’imperatore, ma il rinvenimento di una fistula recante il nome di Sesto Giu-lio Frontino328 ha portato invece a ritenere che possa essere legato a questo nobile romano che, come attestano le fonti, doveva possedere una suntuosa dimora nelle vicinanze. La struttura, di forma quadrangolare con un perimetro di circa 32 m ed un’altezza di circa 10 m, è realizzata in blocchi monolitici, lavorati a bugnato solo sulla facciata d’ingresso posta a nord, e una copertura a cupola in coccio pesto la quale in origine doveva essere coperta dagli stessi blocchi. Secondo la tradizione locale, al suo interno vi è un passag-gio che conduce ad un altro mausoleo distante circa 500 m, di dimensioni più piccole, perché probabilmente destinato ad una figura femminile della famiglia del defunto, ma

325 Nelle mura conservate dall’esterno è visibile, attraverso un’apertura nel muro, un tratto dell’Appia traianea. DE BONIS A., DE BONIS B., CATENA 2013, p. 120. 326 DE BONIS A. - DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 22 e p. 96 : “ esso conserva i cartelli incisi con l’indicazione, in cifre romane, dell’altezza progressivamente raggiunta”.327 DE BONIS A. - DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 105 : “Dietro ai box e ai magazzini posti nei cortili dei moderni fab-bricati è visibile un lungo muraglione in opera mista che costituiva la parete di fondo dei magazzini posti sul molo rettilineo occidentale del porto romano”.  328 DE BONIS A. -DE BONIS B. -CATENA 2013, p. 156.

Resti di artiche strutture termali presso Terracina (immagine storica)

Mausoleo di Galba

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sempre con pianta quadrangolare, ormai privo della copertura. Questo secondo mauso-leo ha la particolarità di avere l’ingresso ad ovest con architrave modanata e la camera funeraria doveva essere ricoperta di pitture oggi non più visibili.Poco distanti, i resti di una domus che sono stati attribuiti al II secolo d.C. per la loro realizzazione in opera mista329. La pianta della struttura è rettangolare con orientamento nord-est/sud-ovest, forse appartenente al grande complesso di Sesto Giulio Frontino che non è stato ancora riportato alla luce. Inoltre, nella località del villaggio di Villa San Vito, ai piedi del Monte Arcano, doveva esserci un insediamento330 di epoca romano-imperiale caratterizzato da una serie di ville costruite accanto ad una sorgente sulla quale fu realizzata una cascata denominata “ca-scata paradiso”331, da sempre un’importante risorsa naturale per il territorio. In età imperiale, il maggiore sviluppo sul territorio romano periferico si registrò, però, nella città di Fondi, che andò ad evolversi in un grande centro politico e culturale. Que-sto impulso trova un forte riscontro anche nell’attività edilizia: all’età imperiale appar-tengono una serie di edifici, i cui resti spesso si trovano celati alcuni metri al di sotto del suolo stradale332, come nel caso di molti alzati murari, appartenenti a ville o edifici pubblici, realizzati in opera reticolata e che si ritrovano frammentati anche nella campa-gna circostante333.Tra le testimonianze epigrafiche ed archeologiche334 rinvenute da vari scavi effettuati nel tempo, sono degni di nota un architrave marmoreo costituito da sette blocchi per una lunghezza totale di oltre 10 metri che doveva essere posto a decoro di un edificio pubbli-co molto importante e di notevoli dimensioni, la statua del “vittimario”335, un’ara circola-re in calcare con una triplice raffigurazione di Ercole, un busto di Augusto, due epigrafi attestanti la presenza di un macellum (il mercato alimentare della città, purtroppo non attestato archeologicamente336) e una serie di iscrizioni rinvenute non solo a Fondi ma anche nei territori direttamente circostanti di carattere militare e sepolcrale337.Un edificio termale338 è stato rinvenuto fuori le mura (nei pressi di Porta Napoli): era orientato con la via Appia ed è stato soggetto a varie fasi costruttive339. La prima è atte-stata da due vani realizzati in opus reticulatum e testaceum adibiti a calidarium e tiepida-rium; la seconda vede il rialzo di entrambi i pavimenti e la riduzione di una vasca, men-

329 Altra struttura realizzata in opera mista e datata al II secolo d.C. si trova in località Vallimpisi lungo la via Appia. Di questa si conserva una parete di insula dove sono ancora visibili dei fori per l’impalcatura che potrebbe essere stata necessaria per la costruzione di un livello superiore. 330 Oggi i resti romani si trovano al di sotto di quelli di epoca medievale poiché in questo periodo l’area era un feudo appar-tenente al vescovato di Fondi con rispettiva residenza e Chiesa dedicata al Santo. Intorno al 1537 l’area insediativa fu distrutta da un incendio voluto dalla contessa Isabella Colonna per un contenzioso con il vescovo di allora Giacomo Pellegrino. 331 Così denominata per la ricca e folta vegetazione che caratterizzava lo scenario naturale.332 In via Mazzini si veda FORTE 1972, pp. 67-68, in via G. Mameli si veda FORTE 1972, pp. 85 e sgg.333 In contrada Callaneto si veda FORTE 1972, pp. 83 e 86.334 Torsi, statue, cornici, capitelli, teste, basi, sarcofagi, cippi miliari e funerari, urne cinerarie, colonne e rocchi, are, epigrafi…..335 La statua del “vittimario” è la raffigurazione di un servo addetto alle cerimonie di sacrifici e doveva far parte di un gruppo raffigurante proprio una scena di sacrificio con ara.336 STORCHI MARINO 2002, pp.53-55.337 Studi ipotizzano un collegamento tra le iscrizioni militari e il fenomeno dell’assegnazione dell’ager publicus di Augusto. Si veda STORCHI MARINO 2002, pp. 55-57. 338 Scoperte nel 1964 durante i lavori per la ricostruzione della chiesa di San Rocco distrutta dai bombardamenti della II guerra mondiale. L’incompletezza dell’opera non ha permesso di affermare con sicurezza se si tratti di terme pubbliche o di un ambiente privato appartenente ad una villa extraurbana.339 FORTE 1972, pp. 87-89.

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tre nella terza questa viene ricoperta da un mosaico con tessere bianche e nere, con alcuni vani ridefiniti. Resti in opera reticolata di un acquedotto, che doveva fornire l’acqua alla città, si dispongono lungo via Madonna degli Angeli340.Sono stati portati alla luce, nei primi anni 2000, i resti di un anfiteatro341, in parti-colare parte della ima cavea. L’esistenza dell’edificio per spettacoli, già avvalorata dalle fonti342, ha trovato oggi conferma. Questa struttura pubblica doveva avere delle dimensioni notevoli e localizzato in un luogo facilmente raggiungibile sia dal centro della città che dalla periferia. Al principato di Nerone invece è collegato un importante intervento naturale che coin-volse il territorio fondano e tutta l’area circostante: la realizzazione di un grande canale, denominato Fossa Neronis, che doveva collegare il porto di Ostia con il lago di Averno per creare una via alternativa al mare e che doveva essere abbastanza larga da permettere la navigazione di navi a cinque ordini di remi. La realizzazione del tratto nell’area sud pontina, che andava dal Lago Lungo di Sperlonga sino al canale di Canneto a Terracina, poteva essere volta anche alla bonifica della piana e alla regolamentazione dei bacini idraulici per il recupero dell’agricoltura nelle zone paludose, anche se in realtà la fossa neroniana non fu mai terminata e secondo alcuni studiosi contribuì proprio alla dimi-nuzione della produzione vinicola attestata nell’area343. Internamente, sulla strada che da Fondi portava a Itri, dovevano trovarsi altre residenze collocabili alla prima età imperia-le. I resti di una villa (con tracce ancora evidenti di alcune grandi cisterne per la raccolta dell’acqua) si trovano infatti proprio lungo il tratto originario ancora conservato della via Appia, sui quali è stato eretto in seguito il Fortino di Sant’Andrea. Nei pressi si trovano tracce probabilmente appartenenti ad un tempio, rinnovato anche dall’imperatore Ca-racalla, dedicato ad Apollo.A questo edificio cultuale e a quelli del periodo precedente, si aggiunge quello dedica-to alla dea Iside giovenca, posto sul terrazzamento sostenuto dalle mura megalitiche di Montevago. L’ipotesi si basa sull’iscrizione rinvenuta sul lungo muro in opera reticolata

340 Il Sotis aveva ipotizzato la presenza di un acquedotto che dalla contrada di Sant’Angelo in città arrivasse sino alla villa Demetriana, a San Magno. FORTE 1972, pp. 92 e sgg.341 PESIRI 1977.342 Ne sono testimonianza il riferimento ai munera gladiatori dati dagli edili Ulpio Natale e Runtio Gemello ed alla presenza nella città di un pantomimo di nome L. Aurelius Apolaustus Memphius. Si veda STORCHI MARINO 2002, p. 64. 343 STORCHI MARINO 2002, p. 67: “Quilici propone che l’opera di irrigimentazione delle acque sulla linea di costa di Fondi possa aver determinato un mutamento della quota di falda, con conseguente perdita del franco di produzione vinicola. Se-condo la sua ricostruzione, la fossa Neroniana potrebbe avere «seguito la linea di costa a partire dal Lago Lungo di Sperlonga, per gli stagni oggi prosciugati e scanditi da canali di Capratica, Tumoleti di Torre S. Anastasia (presso la Torre era un piccolo impianto portuale), Pantano di Mare e Femmina morta, Bisteti fino al canale di Canneto sul versante di Terracina»” e “Antea Caecubus erat generositas celeberrima in palustri bus populetis sinu Amyclano, quod iam intercidit incuria coloni locique angu-stia, magis tamen fossa Neronis quam a Baiano locu Ostiam usque navigabilem incohaverat” (Plin., N.H. 14,61).

Lago Lungo, resto dell’antica Fossa Neroniana

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lungo il tratto della via Appia in “contrada Gegni”344 e da numerosi reperti raffiguranti una giovenca, il simbolo della dea. Uno dei massimi promotori del culto della dea nella città doveva essere stato il cittadino Valerio Varroniano, che ha lasciato molte iscrizioni con il suo nome in cui affermava di essere “sacerdote del tempio”. La più importante tra queste è un cippo in cui la figura dell’animale sacro, coronato di fiori, reca inciso sotto le sue narici VARON345.

Anche la vicina Lenola, nel periodo che va dal I al III secolo d.C., dovette essere un luogo caratterizzato dalla presenza di ville localizzate nell’area soggetta ad edificazione già nei secoli precedenti, pur se le maggiore testimonianze antiche sembrano conservarsi prin-cipalmente nella zona dell’attuale Ambrifi.In età imperiale un’altra città conservò la sua importanza come luogo destinato ad ac-cogliere imponenti ville e residenze lungo la sua costa: Gaeta. Qui fu edificata la villa dell’imperatore Antonino Pio, posta sulla strada che dalla spianata di Montesecco porta-va alla città. La villa dell’imperatrice Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio e madre di Commodo, si trovava invece nei pressi dell’attuale piazza Conca e doveva essere dotata di splendidi giardini pensili, bagni, fontane e lussuosi palazzi346.A Gaeta durante l’età imperiale vennero realizzate importanti opere anche di carattere sacro e religioso. Fu riscontrata infatti la presenza e l’esistenza di tre templi dedicati ri-spettivamente a Serapide, Nettuno e Apollo. Il tempio di Serapide, divinità egizia, venne

344 Muro augusteo dell’80 – 50 a. C. 345 FORTE 1972, pp. 57-58.346 TALLINI 2006, p. 14 note 1-2.

Resti archeologici dell’antica Ambrifi

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fatto costruire per volere dell’imperatore Adriano sulla spiaggia di Serapo a cui da il nome. Il suo culto era messo in relazione con quello di Iside e al mondo dei morti. Nelle sue vicinanze l’imperatore Antonino Pio fece costruire il Serapeion, un cenobio di vita quasi monastica, nel quale venivano iniziati i giovani alle usanze e alle prescrizioni del culto. Esso si trovava presumibilmente nella zona dell’attuale cimitero347. Il tempio di Nettuno era collocato tra Montesecco e Calegna, in prossimità della villa di Lucio Sempronio Atratino; infine il tempio di Apollo era probabilmente posto allo sbocco del torrente Pontone. Oltre a questi culti, a Gaeta era praticato quello della dea Cibele. Ella verosimilmente era venerata nella zona compresa tra Conca e Pontone e fu proprio in prossimità dell’attuale strada che venne ritrovata una statua a lei dedicata. Inoltre, nel territorio del portus Caietae, furono rinvenute ben quattro iscrizioni inerenti in suo cul-to, dimostrando la grande devozione della città verso la dea348.All’età augustea si attribuiscono i rifacimenti a Minturno di diverse opere monumentali349, mentre nella vicina zona di Suio, appartenente al comune di Castelforte, sono presenti una serie di ruderi di epoca romana datati al primo secolo dell’età imperiale sempre grazie alla tecnica costruttiva dell’opera reticolata. Si tratta dei resti di un importantissimo complesso termale, le Acquae Vescinae di cui parlano ampiamente anche Lucano e Plinio, realizzato grazie la presenza di acque calde solfuree nella zona350. L’impianto termale dovette essere attivo per vari secoli, con sicurezza dal I secolo al III secolo d.C. come attesta un’epigrafe (voto ad una divinità fatta in onore degli imperatori da servi con specifici compiti di am-ministratori351) rinvenuta sul finire dell’800 e datata tra il 211 e il 212 d.C.352. Il centro della struttura era caratterizzato da un atrio con pavimento decorato a mosaico ed impluvio con una fontanina in alabastro. Alla destra dell’atrio vi erano due vasche e una piscina dalla forma irregolare. Dall’ambiente della prima vasca, attraverso una scalinata semicircolare, si accedeva al salone nel quale era la vasca di Nerone, mentre dalla seconda vasca si accedeva ad ambienti adibiti a calidarium, tepidarium e frigidarium. Alla sinistra dell’atrio vi erano aree destinate a bagni e cure speciali tra cui un calidarium con muri in opera reticolata. Le terme si trovavano alla sinistra di una strada lastricata con basoli di basalto oltre la quale era un altro edifi-cio adibito ad albergo353. Fu rinvenuta inoltre anche una statua di Esculapio, dio della medicina a sottolineare la funzione terapeutica dell’impianto sulfureo. La struttura dovette essere molto praticata da personaggi illustri nel III secolo d.C. come Fina, presunta moglie dell’imperatore Decio, e dal filosofo neoplatonico Plotino (204/205

347 ANDRISANI 1973. Si veda per approfondimenti TALLINI 2006, nota 8.348 La statua alta 1,71 m è conservata al museo Ny Carlsberg Glyptothek di Copenhagen. L’autore dell’opera è ignoto mentre la datazione dovrebbe aggirarsi intorno ai primi secoli d.C. TALLINI 2006, p. 17 note 9-11.349 Si veda capitolo seguente “Minturnae: un esempio di continuità”.350 DURATORRE 1980, pp.11 e sgg.351 CAIRELLA - SCATENA 1982, p 8.352 «Per la salvezza, la vittoria e il ritorno dei nostri signori augusti Antonino (Caracalla) e Geta, invittissimi, e di Giulia Dom-na, madre degli Augusti e degli accampamenti, al Genio delle Acquae Vescinae Antonio ed Eugenio, servi dispensatori». “L’epigrafe va datata con certezza tra il 14 febbraio 211 d.C. e il 26 febbraio 212 d.C. perché non ricorda più Settimio Severo, padre di Caracalla e Geta, morto il 14 febbraio 211 e parla ancora di Geta, il cui nome fu abraso, in seguito, per la damnatio memoriae dopo che fu ucciso dal fratello il 26 febbraio 212. In quell’anno i due fratelli combattevano ancora in Britannia, essendo suc-ceduti, al comando dell’esercito, al padre imperatore. Ciò spiega anche perché l’epigrafe inizi con la dizione «Per la salvezza, la vittoria e il ritorno»”. Si veda DURATORRE 1980, pp 11-12.353 La rcostruzione è tratta da DURATORRE 1980 p. 12.

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– 270 d.C.)354. Quest’ultimo, in particolare, vi si recò durante il soggiorno nella villa di Zeto, dove morì e fu sepolto nel 270 d.C. Porfirio dice che proprio qui il filosofo abbia deciso e chiesto all’imperatore Gal-lieno di ricostruire una città distrutta che avrebbe chiamato Platonopoli. È pro-babile che tale città fosse l’antica Vescia, localizzata da alcuni studiosi nei pressi della località, poiché i suoi resti dovevano essere ancora visibili nel III secolo d.C. e doveva esistere all’epoca un pagus (territorio rurale, al di fuori dei confini della città) Vescinus355.La villa di Zeto è un altro importante edificio romano tardo-imperiale356 che si trovava sulla strada che portava da Minturnae a Suio Terme nella località di Suio Forma357. Parte della struttura fu utilizzata come basamento per la realizzazione della chiesa di Santa Maria in Pensulis ed è caratterizzata da cinque corridoi paral-leli con volte a botte per la copertura, probabilmente ambienti della villa utilizzati per l’immagazzinamento.

354 Notizie note da Porfirio CASTRICHINO 1980, pp. 15-20.355 CASTRICHINO 1980, pp. 9-10.356 Nell’area sono stati riportati alla luce anche altri resti di costruzioni, grotte sotterranee, rocchi e basi di colonne, avanzi sepolcrali e sarcofagi in pietra. Si veda CASTRICHINO 1980, pp. 24 e sgg.357 CASTRICHINO 1986, p. 9. La proprietà si trovava esattamente ad sextum lapidem ante Minturnas (alla sesta pietra mi-liare davanti Minturnae), circa km 9, sulla strada a Minturnis ad acquas vescinas (da Minturnae alle acque Vescine).

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2.3. Minturnae: un esempio di continuità(Chiara Casale)

Da un punto di vista urbanistico la forma della primitiva città di Minturnae fu quella dell’impianto castrale a pianta quadrata, con assi ortogonali paralleli al decumano e al cardo massimo. Tra il III e il II sec. a.C. si assiste ad un ampliamento del tessuto urbano della originaria città verso ovest. Questo ampliamento portò, oltre alla realizzazione di nuove mura in opera quadrata di tufo358, che abbracciavano un’area ben più grande del primitivo castrum, alla realizzazione di quegli elementi strutturali propri e tipici della struttura urbana delle città romane. Venne costruito il “foro” repubblicano della città, con un tempio dedicato a Giove, circondato da una porticus duple, e il cosiddetto bidental. Va ricordato che Minturnae fu una colonia di diritto romano e che, come tale, non aveva bi-sogno di uno spazio politico propriamente detto, essendo la città un’emanazione di Roma. Per area forense quindi, si intende uno spazio pubblico a vocazione puramente commerciale. Un completo rinnovamen-to edilizio si ebbe durante i primi anni dell’età imperiale, grazie ai numerosi ri-facimenti promossi da Augusto. Venne-ro infatti restaurati la porticus duplex, il tempio tuscanico al quale fu affiancato un nuovo edificio cultuale, il cosiddetto Tempio A, due fontane monumentali a ridosso della porticus duplex, oltre alla costruzione del cosiddetto Tempio B e il Teatro. Inoltre fu concepito un nuovo Foro, a sud della via Appia, chiuso ad est da una grande “Basilica” e da un edificio absidato, probabilmente la “Curia”. Al II sec. d.C. vanno ascritti invece la realizza-zione del macellum e delle terme.

Il CastrumL’originario impianto dell’antica colonia di Minturnae era caratterizzato,come anticipato, dal castrum quadrangolare delimitato da mura in opera poligonale con imponenti torri angolari, suddiviso all’interno dagli assi ortogonali delle strade. Il decumanus maximus era costituito dall’antica via Appia che, entrando in città dal punto centrale del lato ovest della cinta difensiva, ne usciva sul lato est. Qui, probabilmente, un’ulteriore porta era posta a difesa e controllo del ponte sul Garigliano, un punto di passaggio obbligato per

358 Per molto tempo si pensò che al castrum corrispondesse il primitivo insediamento aurunco mentre l’ampliamento verso ovest veniva visto come il circuito murario della colonia del 296 a.C. In realtà il castrum non è altro che la colonia romana, mentre le mura in tufo sono scrivibili ad un ampliamento della stessa, databile sul finire del III sec a.C.

Articolazione della Minturnae romana

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gli scambi lungo la costa359. La cinta difensiva era costituita da una muratura in opera poligonale calcarea, dello spessore di circa 3m, munita di quattro torri angolari a pianta quadrata, delle quali sono state in parte messe in luce le tracce. Secondo Johnson le torri delimitavano un’area di 155x182 m. Un’altra ipotesi invece vede il castrum presentarsi come un quadrato di 155 m di lato per una superficie complessiva di circa 24 mq360. Come detto, il decumano era costituito dall’antico percorso della via Appia, mentre il cardo era costituito da un tracciato che, uscendo dal lato nord del castrum e scavalcando il terreno paludoso grazie alla presenza di un viadotto, si dirigeva verso la città di Arpinum, ripercorrendo l’antico tracciato che risaliva in Garigliano fino alla zona dove viene ipotizzato il sito originario della città aurunca di Vescia.

Il “Foro Repubblicano” (Tempio di Giove, bidental e porticus duplex) Il “foro” repubblicano venne costruito in seguito all’ampliamento dell’originario castrum verso ovest. Delle mura di ampliamento dell’originario castrum, oggi sono visibili pochi tratti, riferiti al settore settentrionale. I resti permettono di notare come esse non fos-sero parallele alla via Appia; inoltre poco sappiamo sulle possibile torri che sorgevano e difesa della città, ma è stata proposta la presenza di oltre cinque torri per il segmento settentrionale361. Dei tratti di mura a sud e ad est non si conserva nulla. Impossibile dire quante fossero le porte della città, ma verosimilmente ne esistevano almeno quattro, una per ogni lato delle mura. La via Appia entrava in città attraverso una porta che si apriva sul lato occidentale e chiamata Gemina, poiché prevista di una duplice apertura.La piazza forense occupava un’area trapezoidale aperta a sud sull’antica via Appia e cir-condata su tre lati da una porticus duplex. Rispetto a questa piazza il tempio di Giove risulta asimmetrico, ma comunque in posizione predominante362. Il tempio dedicato a Giove viene ricordato da Livio a seguito di un fulmine che lo colpì nel 207 e nel 191 a.C. Da Johnson venne identificato con un tratto di fondazione posto all’angolo sud-ovest della piazza trapezoidale e obliterato in parte dal braccio ovest del portico. In realtà l’i-dentificazione di questo tratto con le fondazioni del tempio di Giove è del tutto ipotetica. Evidentemente il fulmine del 191 a.C. offrì un pretesto per un’opera di monumentaliz-zazione di un’area già occupata nel periodo precedente. Il tempio tuscanico che Johnson chiama Capitolium363 altri non è che il tempio di Giove nella sua fase posteriore al secon-do fulmine menzionato dalle fonti364. La persistenza del culto dedicato al solo Giove po-trebbe in un certo senso spiegare alcune peculiarità della pianta stessa (la cui planimetria non è stata identificata con sicurezza) come, ad esempio, la posizione eccentrica rispetto

359 BELLINI 2007, p. 9.360 BELLINI 2007, p.10361 COARELLI 1989, p.50362 Si potrebbe spiegare questa particolare collocazione del tempio di Giove con la realizzazione di un altro edificio pubblico ad esso affiancato e poi sostituito dal successivo Tempio A di età augustea, ipotesi questa però non verificabile. Non va inoltre neanche escluso che lo spazio fu lasciato libero forse come zona di mercato. Forse la piazza di Minturno con il tempio di Giove e magari un altro edificio sacro rappresentò una risposta dei coloni romani al grande santuario portuale di Marica alla foce del Garigliano. Si veda COARELLI 1989, p. 40.363 Secondo l’autore l’edifico originario distrutto dai due fulmini venne sostituito da un nuovo tempio, spostato leggermente ad est, nel quale identificò il Capitolium della città364 COARELLI 1989, p. 51

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alla piazza e le dimensioni. Il tempio, infatti, poteva presentare sia un’unica cella, ai lati della quale potevano trovarsi due alae, oppure tre celle. Non è del tutto esclusa, però, l’attribuzione del tempio tuscanico alla Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva) che poteva testimoniare all’interno della colonia la religione ufficiale di Roma365. Il tem-pio tuscanico venne ulteriormente ricostruito intorno al 40 a.C. a seguito di un nuovo fulmine che provocò un gravissimo incendio che interessò tutta l’area centrale della città. Fasi di restauro si ebbero anche nel corso dell’età imperiale, sempre in seguito ad una distruzione che ci è nota solo dal rinvenimento del bidental vicino al fianco orientale dell’edificio di culto. Il bidental si presenta come uno dei monumenti più problematici dell’area del foro re-pubblicano. La funzione di questo pozzetto venne chiarita fin dall’inizio del suo sca-vo grazie al rinvenimento di un’iscrizione in calcare nella quale si leggeva “Fulgur”366. Questo monumento si trova tra il tempio tuscanico e il cosiddetto Tempio A, il cui po-dio taglia parte della modanatura di base a doppio toro della piccola struttura. La parte emergente sul terreno è costituita da una vera di pozzo (balaustra), alta circa 1,50 m, al di sotto della quale si apre il vero e proprio pozzo, in opera cementizia, di forma tron-coconica, profonda più di 2,50 m e poggiata su una sottofondazione sempre in opera cementizia. All’interno del pozzetto vennero rinvenuti un rocchio di colonna in tufo, probabilmente appartenente alla stoà, due capitelli sempre in tufo appartenenti al tempio tuscanico, l’iscrizione latina poc’anzi ricordata, frammenti di ossa animali, frammenti di decorazioni acroteriali e due monete, una pertinente all’età di Domiziano e l’altra all’età di Massimiano. Nella vera del pozzo vennero invece rinvenute due statuette di marmo incomplete e un frammento marmoreo di capitello. La struttura sembra rivelare come la parte inferiore sia stata appositamente realizzata per ospitare i due capitelli e il rocchio di colonna in tufo, dalla quale non sarebbero mai più stati rimossi. Al di sopra si trovava l’iscrizione che sigillava lo strato inferiore del deposito, mentre nella struttura del pozzo in opera cementizia vennero utilizzati frammenti di materiale architettonico riferibili ad edifici di età repubblicana colpiti dal fulmine: il tempio tuscanico e la porticus duplex. La presenza delle due monete rivelerebbe una funzione espiatoria del bidental, che con-tinuò anche in età tarda. Esso non sarebbe il posto colpito dal fulmine ma il luogo nel quale vennero deposti i materiali colpiti dal fulmine stesso. Per la datazione di questo monumento le ipotesi sono contrastanti. Johnson affermò che il bidental venne costruito in seguito ad un incendio che scoppio pochi anni prima la morte di Cesare. A favore di questa datazione l’archeologo cita l’uso dell’opera cementizia che non sarebbe stato generalizzato prima della fine del I sec. a.C. A confutare questa ipotesi due osservazioni: il fatto che l’opera cementizia si diffuse già a partire dal III sec. a.C. in Campania e pro-prio da questa regione introdotta a Minturno già a partire dal II sec. a.C., oltre al fatto che nessuna fonte del tempo ricorda una calamità così importante che colpì la città di Minturnae. Mingazzini fece notare come, probabilmente, i materiali e l’iscrizione rinve-nuti nel deposito potessero risalire addirittura al III sec. a.C. ma sarebbe altresì difficile spiegare la presenza di elementi architettonici appartenenti alla stoà costruita a seguito

365 BELLINI 2002, p. 74.366 COARELLI 1989, p. 52.

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del 191 a.C. Si deve perciò ipotizzare che più fulmini colpirono nello stesso momento, intorno al II sec. a.C., diversi edifici della colonia367. Per quanto riguarda la porticus duplex, essa si presenta come un portico a due navate che chiude su tre lati lo spazio trapezoidale del tempio dedicato a Giove. Fu costruita con molta probabilità tra il 190 e il 174 a.C. Il lato settentrionale misura circa 63 m, mentre le due ali laterali misurano circa 47 m. L’edificio, profondo circa 10 m, è diviso in due navate da una fila di colonne interne. Le fondazioni della porticus sono in tufo giallo e grigio, mente le stesse colonne interne sorgono su fondazioni individuali, costituite da tre filari di blocchi. Dai frammenti conservati, solo due rocchi di tufo nero, dei quali uno rinve-nuto nel bidental, oltre ad un piccolo frammento di capitello, consentono di ipotizzare che il colonnato nella sua prima fase fosse di ordine dorico. Tutta l’area del foro subì una grande ricostruzione a seguito di una calamità avvenuta intorno agli anni 40 del I sec. a.C. Il portico venne restaurato quasi immediatamente con materiali provenienti dalla stessa stoà e da altri edifici distrutti. In piena età augustea questo subì un parziale rima-neggiamento che modificò l’aspetto dell’edifico stesso; infatti, a sud, le due facciate cieche che si affacciavano direttamente sull’antica Via Appia vennero occupate da due ninfei, mentre a nord l’intera ala venne spostata di circa 5 m per lasciar posto agli ambienti di servizio del teatro368.

Il Tempio A Il tempio fu costruito ad est del tempio tuscanico su un doppio podio. Quello inferiore era foderato in superficie da blocchi di pietra calcarea, tra cui ventinove cippi che ricor-davano i collegi di magistrae e magistri d’età repubblicana. Il podio superiore, alto circa 2 m, lungo 17 m e largo 9 m, poggiava su cinque volte a botte, con cornice di base simile a quella del podio inferiore. I gradini di accesso al vestibolo sono stati individuati da Johnson sul lato meridionale del podio superiore. Inoltre, dallo stesso archeologo ameri-cano il tempio è stato identificato come un tetrastilo, datato all’età tiberiana, soprattutto per l’analisi dell’opera costruttiva, un’opus reticolatum mista a laterizi369. Il pavimento del vestibolo della cella sembra aver subito un rifacimento; infatti al primitivo pavimento in mosaico bianco e nero venne sostituito un pavimento in lastre di marmo. Il Tempio A risultava isolato dall’antica via Appia in quanto il podio inferiore non conserva tracce di gradinate d’accesso. Solo in un secondo momento fu creata una rampa di sei gradini lun-go il lato occidentale del tempio, nello spazio compreso tra il tempo e quello tuscanico. Questa gradinata sembra legarsi ad un probabile innalzamento del piano di calpestio del foro repubblicano. Oltre al frammento di iscrizione mutila recanti le lettere IAE AUG, furono rinvenuti alcuni frammenti della cornice superiore, del fregio dorico, tra i qua-li una metopa scolpita in cui è rappresentata una corazza. Inoltre venne rinvenuto un frammento di decorazione raffigurante il clipeus virtutis e la corona civica, appartenenti al frontone. Generalmente l’iscrizione già dal Johnson era stata integrata in [/Concor/iae] Aug(ustae), che però non spiegherebbe la presenza di decorazioni a carattere mili-

367 COARELLI 1989, p. 53.368 COARELLI 1989, p.51.369 In realtà va ricordato come la combinazione dell’opera reticolata con il laterizio è ampiamente testimoniata già a Pompei fin dall’età sillana in molti monumenti pubblici e privati. Si veda COARELLI 1989, p.61.

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tare. Questa può essere interpretata anche come Victoriae Augustae, il culto della quale risulta molto diffuso nel corso di tutta l’età imperiale. Il culto della stessa dea è attestato a Minturno dalla dedica di una statua da parte di un patrono della città intorno al II sec. d.C. (CIL X, 6006). Inoltre nei pressi dello stesso tempio fu ritrovata la statua di Augusto capite velato. Essa mostra l’imperatore seduto in trono avvolto da un mantello che copriva le gambe, saliva sulle spalle, copriva il capo e poi riscendeva a sinistra con un lembo sul petto. Poco sopra le orecchie sono visibili delle foglioline di quercia che testimoniano come la testa fosse coronata da una corona civica. Inoltre dei piccoli fori tutt’intorno il capo attestano la presenza di un applique metallica, forse la stessa corona. Sempre dallo stesso tempio proviene una statua femminile, anch’essa seduta e identificata generalmente con la Dea Roma o, meno verosimilmente, con Livia. La statua postuma dell’imperatore Augusto potrebbe confermare la destinazione del Tempio A come sede del culto imperiale e della Victoria Augusta, vista come il punto di partenza per la fortu-na della dinastia370.

I NinfeiIn età augustea in prossimità delle testate dei lati lunghi del triportico, furono costruiti due ninfei in opera cementizia e in opera reticolata, che si aprivano sull’antica via Appia. Il ninfeo orientale era originariamente costituito da una semplice nicchia rettangolare, rivestita di intonaco bianco e pavimentata con opus spicatum. Nel II sec. d.C. probabil-mente la fontana venne restaurata, assumendo la forma absidata e parzialmente coperta da una semicupola, con i muri interni rivestiti da lastre di marmo. Anche il pavimen-to venne restaurato con la sostituzione dell’opus spicatum con uno strato di cementizio idraulico. Il ninfeo occidentale presenta invece un pessimo stato di conservazione. Nella fase originaria esso si presentava identico al ninfeo orientale per quel che concerne la sua pianta. Con la successiva ristrutturazione, la superficie interna venne ridotta e fu creata una nicchia posteriore di forma rettangolare, affiancata da altre due nicchie di dimen-sioni minori. Anche qui il pavimento originario in opus spicatum venne sostituito da un cementizio idraulico.

Il Tempio B All’inizio del periodo augusteo, sul quadrante nord-orientale del castrum, sorse il Tem-pio B dedicato a Cesare divinizzato ex lege Rufrena371. L’edificio fu restaurato in età adrianea: si presentava come un tempio di tipo tuscanico, su alto podio, con scalinata frontale chiusa da due ante, che incorniciavano la cella. Sempre sotto Adriano, l’area sacra venne completata con la realizzazione di un ninfeo/fontana - posto a ovest del tempio - e con la realizzazione di un recinto porticato a due navate, con colonne in laterizio, delimitato sulla strada verso il foro repubblicano da un alto muro. In testa al braccio occidentale del portico fu inoltre edificato un piccolo ambiente, interpretato come un Caesareum372, destinato alla sede del collegio sacerdotale istituito

370 COARELLI 1989, pp. 61- 62.371 La lex Rufrena, forse sancita nel 42 a.C., sanciva l’avvenuta deificazione di cesare semplicemente l’ordine di erigere una statua al Divo Giulio in tutti i municipi d’Italia. 372 I caesarea erano templi urbani gravitanti all’interno dell’area forense, dedicati al culto dinastico dell’imperatore e della sua famiglia.

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per il culto del divo Cesare. Nello stesso periodo, sull’angolo sud-occidentale dell’area, in prossimità del tempio dedicato al dittatore, venne eretto un tempietto, convenzional-mente denominato Tempio H. A chi fosse dedicato ci è ignoto. Dall’area del tempio di Cesare vennero riportate alla luce un numero cospicuo di statue, delle quale circa una decina, ben conservate, sono esposte oggi nell’Antiquarium del complesso archeologico, ricavato negli ambulacri del Teatro della colonia373.

Il Teatro Nel complesso il teatro si sviluppa per circa 78 m di larghezza, mentre ne misura 50 m in profondità374. Il raggio massimo dal centro del semicerchio dell’orchestra è di circa 40 m. Le origini del teatro di Minturnae vanno ascritte probabilmente alla prima metà del I sec. a.C. Per il periodo più antico, pur mancando testimonianza strutturali, sono di grande interesse le fonti letterarie ed epigrafiche, una delle quali testimonia l’organizzazione di ludi scaenici nell’ultimo quarto della prima metà del I sec. a.C.375. La costruzione di un teatro già in età repubblicana è, d’altra parte, ben coerente con la prima trasformazione urbanistica della colonia, quando la città si estese al di fuori dell’originario castro con realizzazione della nuova cinta muraria. La fine del teatro di età repubblicana è forse da mettere in relazione ai numerosi incendi che devastarono Minturnae durante le guerre civili. Il teatro fu riedificato e reso monumentale da Augusto; di questo edificio rimangono cospicui reperti marmorei relativi alla decorazione architettonica e a quella scultorea376. Nelle forme in cui è giunto sino a noi, il teatro è quello del rinnovamento adrianeo377. L’e-dificio scenico obliterò parte della porticus del foro repubblicano e si collega alle domus del settore occidentale della città. La struttura adrianea inoltre si va a sovrapporre allo schema stradale regolare augusteo, annullando il cardo settentrionale. A questo rifaci-mento sono da attribuite le sostruzioni che sorreggono le gradinate della cavea e tutto l’edificio della scena, alta quanto la cavea, con pulpitum ligneo, proscenio mistilineo a nicchie rettangolari e absidate, la frons scaenae dove si aprivano la valva regia e le val-vae hospitales, abbellite da colonne e capitelli disposti su più ordini. La cavea in pietra è suddivisa in quattro settori, per una capienza di circa 4600 spettatori. Le gradinate più basse, dove erano posti i subsellia per gli spettatori di un certo rango sociale, erano separata dalla restante cavea da un parapetto (balteus) in lastre di marmo. Seguivano le gradinate, distribuite in due ordini (maeniana). Il primo ordine era distinto a sua volta in due gruppi di gradini: il gruppo più basso, la media cavea, costituito da quattordici file di posti e diviso in quattro sezioni cuneiformi servite da cinque scalette, e il secondo gruppo (summa cavea) di nove fine di posti diviso in otto cunei da nove scalette. L’or-chestra presenta sul perimetro esterno il canale di scolo e raccolta dell’acqua piovana, collegato alla rete fognaria. Ai lati del pulpitum erano presenti due basilicae per la sosta degli spettatori negli intervalli, mentre la latrina si apriva sull’aditus orientale. Ambienti di servizio per attori e per le attrezzature sono ricavati sul retro dell’edificio scenico,

373 COARELLI 1989, pp. 62- 63.374 Misure da esterno a esterno sulla linea del ciglio della fronte del proscenio (larghezza) e dal punto esterno di maggior convessità della cavea e l’esterno del muro del fronte scena (profondità).375 BELLINI 2005, p. 102.376 Per decorazione MESOLELLA 2012.377 BELLINI 2005, p.103.

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inglobando il lato di fondo del portico della piazza forense, che diventa così la porticus pone scaenam del teatro. Gli spettatori potevano accedere sia attraverso l’aditus, soprat-tutto per l’ima e media cavea, oppure attraverso scalinate esterne comprese nei fornici del portico semianulare per la summa cavea. Per il periodo seguente non sono testimoniate sostanziali trasformazioni architettoniche, mentre continua il rinnovo e l’ampliamento dell’apparato decorativo, soprattutto in età antonina e severiana. A quest’epoca risalgono le statue rinvenute nei pressi della scena del teatro, poste probabilmente nelle nicchie della frons scaenae, a scopo certamente propagandistico. Il teatro rimase in uso fino al V sec. d.C. come attesterebbe il rinvenimento in corrispondenza di uno dei fornici, di una tabula bronzea con dedica dei cittadini a Flavio Teodoro, patrono della città378.

Il Foro Imperiale ( “Basilica” e “Curia”) La zona antistante il portico del Foro Repubblicano, aperta a sud dell’Appia, venne pro-babilmente utilizzata come Foro in età imperale. La piazza era formata da un’ampia area lastricata, delimitata da canalette per la raccolta dell’acqua. La nuova piazza forense di età imperiale era chiusa ad est da una grande “Basilica” e da un edificio absidato, proba-bilmente la Curia.Situata lungo il lato est del Foro imperiale, riportata alla luce durante gli scavi di Jotham Johnson, la cosiddetta “Basilica” sorgeva su di un edificio preesistente, con atrio pavi-mentato a mosaico, datato al periodo tardo-repubblicano379. L’edificio occupava un’area di forma rettangolare che, con il lato lungo occidentale, si af-faccia sulla piazza pubblica. Sul fondo di uno dei due lati brevi, precisamente quello sud, sono stati rinvenuti dei resti di una struttura, probabilmente riconducibile al “tribunal” dell’edificio stesso.La pianta della “Basilica” di Minturnae, nonostante numerosi dati e ricostruzioni, però, non può essere definita con assoluta certezza. La “basilica” doveva presentarsi di forma “canonica”, caratterizzata quindi da una suddivisione interna in tre navate, di cui quella centrale più ampia e più alta, con quattro colonne sui lati brevi e dieci su quelli lun-ghi. Sul lato est, il tetto si innestava sul muro perimetrale mentre ad ovest sulle arcate, poggianti su pilastri a pianta rettangolare. Al centro invece si ergeva un vero e proprio lucernario con una copertura a doppio spiovente. I resti oggi visibili però differiscono con quest’ultima ipotesi ricostruttiva380. Alla “Basilica” si accedeva dalla piazza forense attraverso una crepidine formata probabilmente da due scalini e realizzata con blocchi squadrati di pietra calcarea di dimensioni differenti. La facciata doveva essere scandita da pilastri, mentre l’edificio era separato dalla prospiciente “Curia” da un muro in late-rizio, così come in laterizio doveva essere l’intera struttura. Possibile è ricostruire per l’edificio diverse fasi edilizie. La basilica dovette impiantarsi su un primitivo impianto di età repubblicana, probabilmente una domus. La realizzazione dell’edificio pubblico vero e proprio si ebbe nella fase di monumentalizzazione promossa da Augusto, protrattasi

378 BELLINI 2005, p. 104. 379 BIANCHINI 2011.380 Sui lati brevi si conservano tracce e frammenti di tre colonne; per quanto riguarda i lati lunghi, quello opposto all’area forense conserva resti e tracce di otto colonne mentre quello che da direttamente sul foro di età imperiale ne è completamente privo. Da queste conclusioni, insieme a studi e rilievi, è possibile sostenere che probabilmente non si trattava di una vera e propria basilica bensì di una piazza porticata. BIANCHINI 2011, p. 469.

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per alcuni decenni. Si può individuare una terza fase con pavimentazione in cementizio e con una cornice mosaicata, databile all’età adrianea. Per quanto riguarda la cosiddetta “Curia”, l’edificio si eleva nella grande piazza che si estende a sud del Foro Repubblicano, costeggiata a nord dal tratto della via Appia. La “Curia” presentava una pianta quadrangolare ampia circa 11,80 m e lunga circa 16,50 m. L’ambiente principale reca, sul lato orientale, una nicchia rettangolare ricavata lungo il perimetro absidato mentre ai lati della curva absidale si sviluppano due piccoli ambienti. Al centro di questa nicchia si trovava un basamento, probabilmente atto a sostenere una statua. Sull’antica via Appia l’edificio si presentava caratterizzato da una serie di nicchie destinate, anch’esse, a inquadrare statue su basamenti. L’edificio di età imperiale si im-piantava su una precedente struttura che, dallo studio del pavimento mosaicato, caratte-rizzato da un punteggiato di dadi su fondo nero a ridosso dell’ambiente absidato, si data agli ultimi anni del I sec. a.C. 381.

L’ AcquedottoL’acquedotto di Capo d’Acqua permetteva l’approvvigionamento idrico all’intera colonia. Esso toccava la cinta urbana nel punto in cui l’antica via Appia entrava in città attraverso la Porta Gemina e aveva inizio ai piedi della montagna di Spigno Saturnia, nella località Capo d’Acqua da cui prende il nome. L’acquedotto era costruito in opera cementizia con paramento esterno in opus reticola-tum di tufo e calcare. Esso si conserva per buona parte del suo percorso ancora oggi. Le arcate, man mano che ci si avvicina al clivio collinare, diventano via via sempre più basse, mentre alcune di esse si presentano molto larghe, probabilmente per permettere il pas-saggio di strade servivano da collegamento tra gli insediamenti rustici dislocati per tutta la piana del Garigliano. Nei punti in cui il livello del terreno si alzava, le arcate lasciavano il posto a fistulae plumbee che permettevano il passaggio sotterraneo dell’acqua382.

Il Macellum Il complesso edilizio del Macellum si sviluppava a sud dell’antica via Appia e rappre-sentava il mercato coperto della città di Minturnae. Esso può essere datato al II sec. d.C. La pianta era fortemente condizionata dal contesto urbanistico, con le tabernae che fungono da elementi di raccordo con gli impianti limitrofi. All’edificio si accedeva mediante un ingresso monumentale ad arcate che dava sull’Appia e che immetteva in un porticato su quattro lati parallelo ad essa. Esso non costituiva l’unico ingresso però: infatti ve ne era un primo verso il Foro Imperiale, un’altro sul lato opposto verso la zona abitativa e un terzo verso gli ambienti di servizio delle terme. La struttura del mercato gravitava intorno ad un atrio centrale colonnato a pianta quadrata (quadriportico), con18 colonne in marmo bianco alte 4 m, con capitelli di ordine corinzio-asiatico, sormontate da archi a tutto sesto, sul quale si aprivano vani destinati alla vendita dei prodotti alimentari, le vere e proprie tabernae. Queste strutture si sviluppavano anche in più piani, come dimostrato dalla presenza di scalinate. Sul lato di fondo del merca-to, diametralmente opposto all’ingresso monumentale, si apriva un piccolo ambiente

381 BELLINI 2011, fig. 16.382 COARELLI 1989, pp. 64- 66.

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absidato, interpretato come un piccolo sacellum che doveva ospitare il simulacro della divinità protettrice del mercato. I rilievi sull’area hanno, inoltre, portato all’impor-tante risultato per quanto riguarda l’individuazione, al centro del cortile porticato, dell’impronta circolare della tholos, dando quindi la certezza dell’interpretazione del complesso, fino ad allora individuato arbitrariamente come macellum. L’identificazio-ne certa come mercato ha consentito di ipotizzare per la struttura a pianta rettangola-re, posta tra il mercato ed il foro di età imperiale, la funzione di ponderarium, spazio funzionale all’attività del mercato stesso383.

Le Terme Il complesso termale è situato a sud della via Appia, orientato verso est; si sviluppa alle spalle del Macellum, dal quale vi si accede attraverso un passaggio secondario, ma si pensa che il suo ingresso principale si rivolgesse sul Foro Imperiale, ovvero verso est. La pianta presenta uno sviluppo eccentrico, rispetto al restante tessuto urbano. L’esame delle tecniche di costruzione lascia intravedere una successione di interventi di ristrutturazio-ne e di ampliamenti, che ha trovato la sua definitiva sistemazione in epoca adrianea, al di fuori degli schemi planimetrici classici. Ne restano gli ambienti del calidarium, del te-pidarium, con un sistema di suspensure per il riscaldamento a encausto, ben conservato, e gli ambienti del frigidarium. Sulle pareti sono ancora incastonati i tubuli, i tubi in ter-racotta, destinati a mantenere costante la temperatura interna, consentendo il passaggio dell’aria calda. Tracce di combustione consentono di localizzare i vani delle fornaci che, date le proporzioni del complesso, dovevano essere più di una e localizzate in prossimità delle vasche laterali del calidarium. Presente, inoltre, la natatio o piscina all’aperto, divisa in due settori, con pareti a gradinate e rivestimento in marmo locale, alimentata da un sistema idrico centrare. La natatio probabilmente era delimitata da una palestra porti-cata, almeno sui lati sud e ovest, visti gli incavi sui basamenti su cui venivano collocate le colonne del porticato. Gli ambienti principali erano probabilmente coperti con volte a botte o calotte semisferiche, secondo la tecnica consolidata per questo tipo di edifici. L’impianto termale è stato scavato e portato alla luce solo in parte e si suppone che si estenda oltre i confini demaniali, su fondi privati. L’impianto termale di Minturnae è inquadrato cronologicamente nel II sec d.C., durante l’impero di Adriano, epoca in cui la città dovette godere di una notevole agiatezza economica384. Nelle vicinanze del complesso termale sorgeva la cosiddetta “domus delle terme” 385, chia-mata così perché caratterizzata dalla presenza di terme private. L’edificio era costituito da vari ambienti, con un atrio circondato da colonne in laterizio. I pavimenti in opus sectile e mosaici sono inquadrabili nella fase del III sec. d.C.

I MagazziniNell’area prossima al castrum e prospiciente la sponda del fiume è stato recentemente scoperto e riportato alla luce, nonché restaurato, un esteso edificio con pilastri, molto probabilmente identificabile con un settore dei magazzini (horrea) della colonia, data-

383 BIANCHINI 2011, pp. 469- 472.384 BIANCHINI 2011, pp. 472- 474.385 BELLINI 2002, p.61.

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bili all’età imperiale, dove venivano temporaneamente depositate le derrate alimentari in attesa di essere poi commerciati nei mercati locali. Le strutture, poste a circa 4 m al di sotto dell’attuale piano di calpestio, consistono in massima parte in lunghi ambienti rettangolari scanditi da una serie di pilastri quadrati. Il pavimento dei singoli vani erano rivestiti da mattonato e al di sotto di questi era presente un sistema di drenaggio per le acque. I magazzini di età imperiale sorsero al di sopra di strutture preesistenti, databi-li all’età repubblicana, interpretate come botteghe per la produzione di anfore vinarie. Nella fase tardo antica il complesso venne abbandonato e al di sopra di esso si impiantò un’area funeraria386.

386 BELLINI 2007, p.25.

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2.4 Ventotene: un’isola d’esilio sin dall’antichità romana(Alessandro De Bonis)

Anche se le prime tracce umane sull’isola pontina risalgono al tardo Neolitico, quando Ventotene divenne un punto di passaggio e di sosta per le prime navi che solcavano il Tirreno, è solo in età imperiale che questo piccolo lembo di terrà esplose in tutta la sua bellezza.Nota ai greci come Pandataria o Pandaria, Ventotene iniziò la sua frequentazione abita-tiva quando l’imperatore Augusto decise di costruirvi, nel luogo dell’attuale Punta Eolo, una sontuosa villa per le vacanze che comprendeva anche un porto, ninfei, grandi giardi-ni, piscine termali, cisterne per l’acqua piovana, acquedotti e peschiere. Quella che sorse come una residenza per le vacanze imperiali, si trasformò ben presto in una prigione dorata, accogliendo in esilio donne sgradite, per alterne vicende, al potere imperiale.Secondo le fonti387 , la prima ad essere qui confinata dallo stesso Augusto fu la prediletta figlia Giulia388 , colpevole di non aver rispettato la legge sulla moralizzazione pubbli-ca. In seguito vi saranno esiliate altre celebri donne romane della gens giulio-claudia: Agrippina Maggiore, figlia della stessa Giulia, qui mandata da Tiberio; Claudia Livilla, sorella dell’imperatore Claudio e di Germanico, complice con Seiano – di cui era amante – dell’avvelenamento del secondo marito Druso minore figlio di Tiberio; Ottavia caccia-ta da Nerone e Flavia Domitilla, esiliata dallo zio Domiziano per la sua conversione al Cristianesimo, colei che diventerà poi Santa Domitilla. Tutte queste celebri donne sono state ritenute colpevoli di essersi ‘ribellate’ in qualche modo ai dettami imperiali, di aver trasgredito, avendo sulle loro spalle colpe vere o pre-sunte. Giulia era ad esempio una donna libera, emancipata, forse troppo per i costumi dell’epoca, questo infasti-diva e creava timori, tanto che la seconda moglie di suo padre, la potente Livia Drusilla, riuscì a convincere il consorte che era diventa-ta scomoda. Resta, quella di Giulia, una figura contro-versa e affascinante in ogni caso, a cui la gestione poli-tica della famiglia non ha giovato. E’ vissuta nel lusso anche nel suo primo esilio durato ben cinque lunghi anni, ma durante il secondo, a Reggio Calabria, morirà di

387 Cassio Dione, Storia romana, liv.6; Cassio Dione, LIV, 35.4; Tacito, Annali, I, 53; Svetonio, Augustus, 63-65 e 101; Giu-seppe Flavio, Antichità giudaiche, xvi.2.2.; Tacito, Annali, i.53; Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, VII, 149.388 SMITH 1849, p. 641; BRACCESI 2012, pp. 5 e sgg.; LANDESCHI 2012, pp. 6 e sgg.; TAVASSI LA GRECA 2008, pp. 5-240.

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stenti389 . Di fatti, come tutte le altre nobili donne romane, anch’ella fu usata come una pedina nello scacchiere della politica imperiale, cosa che non troppo le era gradita e che certo non aveva timore di esternare. Durante l’esilio di Flavia Domitilla, secondo le fonti, sull’isola si sviluppò anche un piccolo villaggio che ospitò una comunità cristiana, ma agli inizi del VII secolo d.C. il luogo era già definitivamente spopolato, per ripopolarsi solo successivamente.Ventotene, che risultava di fatti inospitale perché priva di acqua potabile, fu dunque reso un territorio dove poter vivere solo al tempo della Roma Imperiale con l’edificazione delle grandi cisterne e annessi acquedotti sotterranei utili alla raccolta dell’acqua, che servivano principalmente per alimentare la bellissima villa imperiale. Della struttura, di cui sono ancora visibili rilevanti resti archeologici in situ, colpisce la grandiosità dell’im-pianto, a cui si doveva accedere mediante una sontuosa scalinata che partiva dalla zona di approdo presso il porto romano, risalendo il costone tra giochi di acque e lussureg-gianti giardini fino ad arrivare alla sommità della terrazza panoramica. I rilevanti resti a ridosso del mare non fanno altro che confermare la grandiosità dell’im-pianto e l’importante ruolo che questa piccola isola dell’arcipelago pontino ha dovuto ricoprire nell’antichità imperiale romana, oltre che in una prima fase d’avvento e diffu-sione della cultura cristiana.Ciò che dell’isola rimane storicamente rilevante è il suo ruolo come luogo di confino, fat-tore sempre evidenziato anche nelle occupazioni successive, rimasto come punto fermo sino all’età moderna, quando importanti personalità politiche furono qui esiliate.

389 SMITH 1849, p. 641; BRACCESI 2012, pp. 5 e sgg.; LANDESCHI 2012, pp. 6 e sgg.; TAVASSI LA GRECA 2008, pp. 5-240.

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3L’età tardoantica e la fine dell’Impero

3.1 La fine dell’Impero di Roma e il periodo Paleocristiano

3.1.1 La caduta dell’Impero Romano d’Occidente (Chiara Casale)Sulle ragioni della decadenza dell’Impero romano non è possibile proporre un’unica mo-tivazione. Tra le tante cause complesse va evidenziata l’enorme estensione di un territorio le cui strutture, militari ed economiche, alla lunga non potevano sostenere e difendere.Allo stesso tempo le condizioni di vita all’interno dei confini dell’Impero romano erano incomparabilmente migliori di quelle esistenti al di fuori di esso e questo determinò una crescente pressione delle popolazioni esterne, soprattutto appartenenti a stirpi germani-che dell’Europa settentrionale e orientale. A complicare la situazione, nella seconda metà del IV sec. d.C., intervennero fattori “in-ternazionali”: in questa fase infatti, sotto la guida di alcuni abili comandanti militari, prese avvio l’avanzata degli Unni, cavalieri dell’Asia centrale, che nei loro spostamenti verso Occidente avevano tuttavia raccolto con sé individui di diversa origine etnica, ira-nica e soprattutto germanica. Alcuni gruppi di Germani, piuttosto che l’assimilazione agli Unni, preferirono rivolgersi all’Impero romano, così accadde per consistenti gruppi di Goti, che chiesero il permesso di stanziarsi pacificamente nella penisola balcanica. La delicata operazione di trasferimento, tuttavia, non andò a buon fine e si venne allo scontro che si combatté nel 378 d.C. ad Adrianopoli, in Tracia: fu una tragica disfatta per l’esercito romano. La maggior parte dei soldati romani era caduta e lo stesso im-peratore Valente era stato ucciso in battaglia. Il nuovo imperatore Teodosio riconobbe che una soluzione militare al contrasto con i Goti era impossibile e concluse nel 382 d.C. con loro un trattato, un foedus, in base al quale i Goti potevano stabilirsi nelle pro-vince balcaniche, conservando la propria autonomia e l’esenzione da qualsiasi tributo, ma promettendo in cambio di inviare truppe in aiuto all’esercito romano. Teodosio morì, lasciando al figlio maggiore Arcadio l’Oriente, al minore Onorio l’Occi-dente, sotto la tutela del generalissimo Stilicone, un valoroso militare di origine vandala. Arcadio e l’Oriente tuttavia si liberarono presto della presenza di Stilicone, che dovette concentrarsi sulla difesa delle province occidentali. La situazione si era fatta drammatica, soprattutto a causa dei Goti che, a dispetto del patto concluso qualche tempo prima con Teodosio, si erano rimessi in moto, cercando di stabilirsi in Italia. Lo stesso imperatore Onorio abbandonò l’esposta Milano per rifugiarsi a Ravenna che divenne la nuova capi-tale dell’Impero d’Occidente. Stilicone cercò un’intesa almeno con i Visigoti di Alarico,

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che continuavano a costituire la principale minaccia per l’Italia, ma negli ambienti della corte di Ravenna questa politica venne considerata un tradimento in favore dei barbari: lo stesso Onorio si schierò contro il suo tutore e lo fece mettere a morte nel 408 d.C. I Visigoti, guidati dal nuovo re Ataulfo, preferirono ritirarsi nella Gallia meridionale, dove fondarono un regno che aveva come capitale Tolosa. Onorio raggiunse un’intesa con il re visigoto, dandogli in sposa la sorella Gallia Placidia. Alla morte di Ataulfo Gallia Placidia, che aveva una personalità politica assai più forte, sposò il generale Flavio Costanzo: dal matrimonio nacque l’erede all’Impero, Valentinia-no III. Il nuovo imperatore assurse al trono di Ravenna nel 425 d.C., alla morte dello zio Onorio. Durante il regno di Valentiniano l’Impero d’Occidente perse anche le province africane, che finora erano rimaste relativamente indenni da invasioni e che erano fonda-mentali soprattutto dal punto di vista economico e dell’approvvigionamento granario di Roma e delle altre grandi città dell’Italia.Eliminato Valentiniano III da una congiura nel 455 d.C. alla testa dell’Impero romano d’Occidente si succedono una serie di deboli figure. Il vero potere era nelle mani dei generalissimi di origine germanica, tra i quali spicca Flavio Ricimero, uno suebovisi-goto che fu il vero padrone dell’Impero tra il 456 e il 472. Nel 474 d.C. il nuovo genera-lissimo Oreste proclamò imperatore il figlioletto Romolo, detto Augustulus (“il piccolo Augusto”). Nel 476 d.C. Oreste rifiutò di concedere terre ad un contingente germanico dell’esercito romano comandato da Odoacre, il quale eliminò Oreste e depose Romolo Augustolo. Tuttavia, invece di impadronirsi del titolo di generalissimo e nominare un nuovo imperatore fantoccio, come tutti si attendevano, Odoacre decise di rinviare le in-segne imperiali a Zenone, l’Augusto d’Oriente, dichiarandosi disposto a governare l’Italia a suo nome. Il 476 d.C. è considerato un anno chiave e, in particolare nella storiografia italiana, segna la cesura tra storia antica e medievale. Questo anno segna in effetti un forte stacco dal punto di vista politico, anche perché Odoacre si comportò poi in modo assolutamente indipendente da Costantinopoli, arrivando anche a proclamarsi rex Italiae.

3.1.2 Il Cristianesimo (Cassandra Rita Russo)Alla crisi politica, economica, urbana e sociale dell’Impero Romano, si associa anche una crisi a livello spirituale che lentamente favorì la diffusione del cristianesimo. I sentimenti e gli interessi della nuova società che viene formandosi non corrispondono più agli anti-chi valori della civiltà romana quali il culto della forza e del valore militare, la disciplina imposta da una famiglia patriarcale, la parsimonia suggerita da una economia povera, i riti religiosi elementari che miravano a propiziare la fertilità della terra, la salvaguardia della casa e la difesa dello stato. Con l’età imperiale l’uomo non è più attivamente coinvolto e partecipe alla politica cit-tadina e di conseguenza comincia a concentrarsi sui problemi personali e non su quelli sociali, a mettere in atto una ricerca di benessere e felicità personale rispetto a quella collettiva. È in questo clima in cui gli uomini si sentono persi e sono alla ricerca di una speranza che trova terreno favorevole la religione cristiana. Dopo la morte di Gesù, avvenuta sotto il regno di Tiberio, i suoi discepoli fondarono comunità prima in Palestina e poi nel resto dei paesi del Mediterraneo contribuendo alla

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diffusione della speranza di un nuovo mondo di pace e di giustizia, reso possibile proprio grazie a quest’uomo che aveva dichiarato di essere il Messia, il Salvatore di cui parlava la Bibbia. Oltre al messaggio di amore e povertà la nuova religione professava l’uguaglian-za di tutti gli uomini, principio che venne ben accolto tra i più poveri e gli emarginati, ma che fu scandaloso e minaccioso per coloro che invece appartenevano alle classi più elevate della società.Le comunità solidali e fraterne che vennero costituendosi, erano organizzate in assem-blee di credenti, Chiese (dal greco ekklesìa), guidate dai presbiteri (i più anziani, dal gre-co presbýteros) e poste sotto la sorveglianza degli episcopi (ispettori, dal greco epíscopos). A favorire la diffusione della nuova religione fu anche il rafforzamento dell’organizzazio-ne ecclesiastica e la primazia del vescovo e del seggio episcopale di Roma, riconosciuto come potentior principalitas.Nonostante i cristiani riconobbero l’autorità politica e civile romana, non accettarono di venerare l’imperatore come una divinità e continuarono ad affermare l’esistenza di un solo Dio. I Romani, che sino a quel momento erano stati tolleranti con le altre religioni, per questo motivo, per la morale cristiana professata e per la capillare diffusione del culto cominciarono a perseguirli. Le persecuzioni dei cristiani ci sono state tramandate come feroci e cruente (sotto Nero-ne, Domiziano, Marco Aurelio, Settimio Severo), ma in realtà a questi terribili periodi se ne alternarono altri in cui la religione fu tollerata e persino guardata con simpatia. Una nuova svolta si ebbe proprio con l’imperatore Commodo: gli anni del suo regno furono caratterizzati da un periodo pacifico in generale per l’impero e anche i Cristiani furono rispettati. Il Cristianesimo, anzi, conquistò sempre più nuovi adepti negli stessi ambienti della corte imperiale (la stessa concubina di Commodo era una philotheos, cioè vicina alla religione cristiana e fu lei ad abbracciare la causa di alcuni cristiani condanna-ti ai lavori forzati390). Fu alla metà del III sec. d.C. che il potere imperiale, con Decio, tornò a perseguitare i Cristiani e fu una perse-cuzione a carattere genera-le. L’imperatore impose a tutti i Cristiani dell’impero di sacrificare agli dèi paga-ni, nonché all’imperatore, e impose che ognuno acqui-stasse un documento che attestasse l’avvenuta pratica (libellum). Nella comunità cristiana molti furono co-loro che cedettero agli ob-blighi rinnegando il credo (i cosiddetti Lapsi, caduti).

390 GABBA et al. 1999, pp. 414 e sgg.

Monastero di San Magno

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L’emanazione di norme persecutorie contro i Cristiani fu rinnovata poco dopo da Vale-riano, colpendo la Chiesa in quanto istituzione e non più solo i Cristiani come individui singoli: si stabilì che le chiese dovessero essere chiuse, i cimiteri cristiani e gli edifici di culto confiscati e gli esponenti del clero giustiziati. La persecuzione non sortì gli effetti sperati e così Gallieno mutò radicalmente politica, inaugurando una nuova epoca di tolleranza che sarebbe durata fino alla persecuzione dioclezianea. In particolare Gallie-no revocò le norme anticristiane del padre, facendo un passo importantissimo verso la strada del successivo riconoscimento del cristianesimo come religio licita.Nel 303 e 304 d.C. vennero emanati alcuni editti contro i Cristiani e seguì una nuova persecuzione che durò fino al 313 d.C. Le misure adottate previdero la distruzione delle chiese, la consegna dei testi sacri, il divieto di riunione, nonché la limitazione di alcuni diritti civili; poi l’arresto del clero e, infine, l’obbligo per tutti di sacrificare agli dèi.Il primo imperatore che si mosse in favore dei Cristiani fu Costantino. Con l’editto del 311 d.C. il cristianesimo acquisiva lo stato di religione lecita e l’incontro di Milano tra l’Imperatore e Licinio fu seguito, nel 313 d.C., dalla proclamazione dell’uguaglianza di tutte le religioni. Si ebbe l’attribuzione alla Chiesa e al clero di una posizione privilegiata e la stessa organizzazione ecclesiastica fu utilizzata per facilitare il governo dell’impero. Al clero cristiano vennero riconosciuti alcuni privilegi quali l’esenzione fiscale e l’immu-nità dagli oneri che gravavano sui ceti dirigenti della città. Costantino però nello stesso tempo si inserì nell’organizzazione interna della chiesa e nelle sue dispute dottrinali: partecipò al primo Concilio ecumenico nel 325 d.C. (Conci-lio di Nicea), convocato per risolvere le controversie interne. Il concilio si chiuse con la condanna delle teorie ariane e la stipulazione del credo cristiano. Così facendo cominciò a porre le basi per la crescita della Chiesa da un punto di vista politico e sociale, non più quindi solo religioso.

3.1.2.1 L’arte paleocristianaLe testimonianze più rappresentative del periodo paleocristiano sono senz’altro le catacom-be, luoghi bassi e stretti scavati nel sottosuolo, caratterizzati da lunghi corridoi simili tra loro. Qui i cristiani, prima del riconoscimento ufficiale del loro culto, seppellivano i loro morti in aperture che si disponevano lungo le pareti dei corridoi denominate loculi e arcosoli. Le spoglie dei personaggi più influenti erano invece deposte in camere più o meno grandi, una sorta di cripte, all’interno di sarcofagi o vani rivestiti di lastre di pietra o di cotto. Questi cimiteri sotterranei erano però decorati da pitture sulle pareti, conservatesi pro-prio grazie all’oscurità delle gallerie. Le pitture ricoprono un arco di tempo di circa tre secoli, dal III al V secolo d.C., e ciò spiega l’evoluzione delle raffigurazioni: i soggetti ini-zialmente sono allegorici e simbolici spesso tratti dal mondo ellenistico romano; succes-sivamente cominciano a raffigurare personaggi biblici ed evangelici. Inizialmente quindi abbiamo immagini come la colomba che simboleggia lo Spirito Santo e la Pace, l’ancora con due pesci trasversali che simboleggiano i cristiani catturati dalla Fede, il pavone che simboleggia la rinascita spirituale, il pesce che simboleggia Cristo (il nome greco ichtys è acronimo di Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore), l’aquila che simboleggia Cristo Giudice, il buon pastore che simboleggia Cristo che accudisce i suoi fedeli, il serpente immagine del male, la storia di Giona equivalente della morte e resurrezione di Cristo, la vite e i

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grappoli d’uva che simboleggiano la passione di Cristo e l’Ultima Cena. Dopo il 313 d.C. viene utilizzata anche la tecnica del mosaico e cominciano ad essere introdotte le figure di Cristo e della Madonna. Lo stile delle decorazioni paleocristiane è sempre meno na-turalistico e sempre più simbolico, non si vuole trasmettere diletto nelle raffigurazioni ma valori legati alla religione cristiana. I sarcofagi pervenuti invece mostrano come la scultura sia ancora legata alla scultura pagana di quel periodo, probabilmente perché provenienti dalle stesse maestranze.Oltre alle catacombe, i Cristiani avevano anche dei luoghi in cui si riunivano per cele-brare il loro culto. Inizialmente questi luoghi erano le cosiddette domus ecclesiae, edifici privati adattati per l’occasione; in seguito all’Editto di Milano e al riconoscimento del Cristianesimo, vengono realizzati appositi edifici: le chiese. Questa tipologia di architet-tura discende dalla basilica romana che veniva utilizzata come luogo di riunione pubbli-ca e amministrativa. La basilica cristiana ha una pianta longitudinale, con navata centrale e due o quattro navate laterali separate da questa da colonne, con copertura in legno. L’ingresso si tro-va lungo uno dei lati brevi e su quello opposto vi è una cavità semicircolare (abside). L’abside e la navata centrale erano collegati da un arco detto trionfale al di sotto del quale vi è l’altare. Davanti la facciata era un quadriportico destinato ai catecumeni che non potevano accedere all’interno perché non battezzati. Il rituale del battesimo veniva svolto in un edificio apposito, il battistero, caratterizzato dalla pianta centrale (circola-re o poligonale) come il martyria, destinato alla sepoltura dei santi. Molti degli edifici eretti in epoca paleocristiana sono stati soggetti ad ampliamenti e rifacimenti nel corso del tempo e di conseguenza gli impianti originali risultano difficilmente individuabili.

3.1.3 Il periodo tardo-antico e testimonianze paleocristiane nel territoriosud pontino (Chiara Casale - Cassandra Rita Russo)Nel territorio del Lazio meridionale Terracina conserva tracce di testimonianze pale-ocristiane: la cosiddetta “Valle dei Santi”, vicina alla Chiesa di San Silviano – dal Santo vescovo della città nel 443 d.C. – fu il luogo di sepoltura dei primi cristiani e il Duomo di San Cesareo, diacono e martire nel III secolo d.C., fu realizzato prima del V secolo sulle strutture di un tempio romano facente parte del Foro Emiliano391.Anche l’area del territorio fondano fu occupato da comunità cristiane a partire dal IV secolo d.C. e probabilmente almeno fino al VI secolo d.C. Agli inizi del V secolo d.C. risale una testimonianza di Paolino di Nola attestante la presenza di una basilicula cristiana a Fondi, probabilmente già sede di diocesi dalla metà del IV secolo d.C. Paolino volle sostituire la piccola e povera costruzione con una più ampia e ricca e la dotò delle reliquie degli apostoli Andrea e Luca e di quelle dei martiri milanesi Ger-vasio, Protasio e Nazario, conservate in una piccola urna coperta da lastre di porfido e poste sotto l’altare. Egli descrive anche la decorazione a mosaico posta nel catino absidale con i tipici simboli dell’iconografia paleocristiana, al di sotto del quale era

391 La conversione del tempio romano al culto cristiano è anteriore al 592, come risulta da un passo di Papa Gregorio Magno. Si veda DE BONIS A. - DE BONIS B. - CATENA 2013, p. 108).

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l’epigrafe in versi che lo stesso aveva composto come commento alla decorazione392.Le fonti attestano che nella metà del III secolo d.C. l’Imperatore Decio ordinò una per-secuzione contro di essi. Il territorio fondano fu messo a ferro e fuoco e molti Cristiani furono uccisi, altri riuscirono a scappare e a rifugiarsi nei colli vicini. La tradizione vuole che un gruppo sia riuscito a rifugiarsi sul colle all’epoca roccioso e selvaggio di Lenola, all’interno di una caverna dove eresse una cappella con l’immagine della Madonna col Bambino. Nella contrada fondana di San Magno invece, nei pressi del sito in cui doveva esserci una piccola chiesetta, oggi il locale monastero, è stato localizzato il luogo del martirio dei Santi Magno e Piterno riferibile a questo periodo. Un primo elemento archeologico che ha permesso di avanzare l’ipotesi sul rifugio di cristiani nella zona fu il rinvenimento, in contrada Querce, di un sarcofago in marmo decorato sulla cassa con tre scene: ai lati la figura del Buon Pastore, al centro una figura di Orante maschile affiancato da due Apostoli o Santi. L’alzato è decorato con generiche scene pastorali che racchiudono un riquadro privo di epigrafe, solitamente destinato a contenere le generalità del defunto, le cui ossa erano conservate all’interno. Privo di corredo, il sarcofago è stato comunque datato grazie alla corrispondenza con altri sar-cofagi di epoca paleocristiana393. Nelle vicinanze è stata rinvenuta una moneta datata a questo periodo, raffigurante Massimino Daia, acclamato Augusto nel 310 e morto nel 313. Infine, proviene dalla stessa area, un frammento di sigillata africana che reca come decorazione la figura di un santo con croce gemmata e dalmatica, simile ad un esemplare proveniente dalla Villa di Tiberio a Sperlonga, dove alcune comunità cristiane possono essersi insediate dopo l’abbandono di Tiberio e alle quali può essere attribuita l’azione di “frammentazione” delle sculture che abbellivano la grotta.La piccola comunità cristiana formiana nacque successivamente al passaggio e alla predicazione degli Apostoli o dei delegati apostolici.394 La comunità cristiana si era consolidata e accresciuta tanto che, nel III sec. d.C., si costituì la diocesi di Formia. Le diocesi più antiche erano quelle collegate direttamente alla sede petrina, sia per la loro vicinanza geografica e strategica sia per rapporti stabili e continuativi di fedeltà consolidatisi nel tempo, anche a difesa contro le eresie che minacciavano l’unità eccle-siastica. Nel 303 d.C. il vescovo di Formia Probo diede la sepoltura ad Erasmo vescovo antiocheno; poco dopo il 313 d.C. la diocesi formiana eresse un santuario nel luogo della sepoltura. La chiesa di S. Erasmo nasce sull’area di una necropoli romana collo-cata extra moenia ( fuori le mura). Complessi scavi archeologici hanno permesso il rin-venimento di un sistema di inumazioni sotto la pianta della chiesa attuale, con alcuni sepolcreti riferibili a tombe cristiane. Resti di una domus invece si trovano reimpiegati nelle fondazioni della chiesa originaria ad unica navata. Una tomba a fossa, rivestita in marmo con mensa sovrastante, è inscritta in un martyrion ad aula absidata: si tratte-rebbe del sepolcro del vescovo e santo Erasmo, morto a Formia il 2 giugno del 303 d.C. Il mancato rinvenimento del corpo confermerebbe la narrazione della Passio Sancti

392 FIOCCHI NICOLAI 2002, p. 167.393 DI FAZIO 2002, p. 71.394 Gli atti di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello attestano l’arrivo di S. Paolo a Gaeta: “Partiti da Baia, giunsero a Gaeta, dove Paolo prese ad insegnare la parola di Dio. Vi rimase infatti per tre giorni in casa di Erasmo, che Pietro aveva invitato da Roma a predicare il vangelo di Dio. Partito da Gaeta arrivò alla borgata di Terracina”. FRECENTESE- MIELE 1995, p. 34 nota 185.

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Erasmi di Gelasio II, dove si ricorda la traslatio (la traslazione) delle ossa del santo a Gaeta a causa delle incursioni saracene.395 A partire dalla fine del IV sec. d.C. e inizi del V sec. d.C. Formia, così come il resto della penisola, venne sconvolta dalle invasioni di popoli provenienti dal nord Europa e dell’acuirsi della minac-cia di pirati, contro cui scarse erano le difese. I Visigoti vi tornarono rompen-do le trattative stipulate con l’impera-tore Onorio, accordandosi con schiavi traditori che aprirono le porte dell’Urbe che fu presa e conquistata nel 404 d.C. Il saccheggio durò per più di tre giorni, dopo i quali le truppe di Alarico si diressero verso l’Italia Meridionale. Giunti a Formia, probabilmente a causa dello scarso presidio e per la paura dei cittadini, ottennero libero passo e anche viveri e denaro. La città non venne risparmiata da incendi e devastazioni.396

Nel IV-V sec. d.C., nel territorio occidentale di Sperlonga, sulle rovine di un tempio pagano, costruito, a sua volta, sulle rovine della villa patrizia edificata da Mamurra sul colle che sovrasta il laghetto, si insediò un piccolo nucleo religioso.397 Probabilmente ad Ercole, che secondo alcune leggende fondò la città di Fondi, che allora comprendeva anche il territorio di Sperlonga,398 era dedicato il tempio pagano che si insediò nella villa del lago. Successivamente l’edificio cambiò destinazione d’uso e maturò, deve supporsi, la credenza di un San Potiti, erede della villa e del territorio già di Ercole: Potiti, infatti, si chiamavano i sacerdoti di Ercole stesso.399

Nella villa di Sperlonga si insediarono, a loro volta, membri di una confraternita “basilia-na”, osservatori della regola di S. Basilio il Grande, arcivescovo di Cesarea di Cappadocia. In particolare, nel 455 d.C. Genserico, nuovo re dei Vandali, stanziati ormai in Nord Africa, al comando di una flotta saccheggiò la Sicilia, risalì la costa tirrenica distruggen-do ogni cosa fino alle porte di Roma. Ed anche in questo caso la villa della Spelonca non potette sfuggire al suo destino.Fu poi il tempo degli Eruli e, infine, dei Goti che restaurò brevemente l’autorità imperiale in Italia quale delegato del lontano Basileus. Oramai la costa fondana non doveva essere più che un susseguirsi di ville in abbandono.400

395 Cit. sopra pp. 34-35; GUERRIERO 1976, p. 54.396 GUERRIERO 1976, pp. 57 e sgg.397 SCALFATI 1997, p. 36. Se gli insediamenti cristiani dei primi secoli si trovavano abitualmente sovrapposti ad insedia-menti pagani, ciò dipese da opportunità di natura giuridica. Il patrimonio appartenente ai templi pagani era, per diritto roma-no, “cosa sacra” e perciò apparteneva per sempre al dio del tempio. Con l’affermazione del Cristianesimo a unica religione il patrimonio pagano sarebbe poi diventato patrimonio cristiano.398 Per approfondimenti M. Forte, L’origine di Fondi alla luce del culto di Ercole e dei suoi antichi monumenti, Bollettino di Storia ed Arte del Lazio Meridionale, Vol. IV, Roma, 1966.399 SCALFATI 1997, p. 37.400 SCALFATI 1997, pp.35 e sgg.

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Per i secoli successivi le vicende e le fortune di Minturnae sono narrate non dall’urbani-stica ma dagli interventi di rifacimento e restauro che si susseguirono fino al VI sec. d.C.: il ninfeo orientale e quello occidentale, il mercato, le terme urbane, il teatro, le stesse domus testimoniano la lunga vita della città ben oltre il tramonto del potere di Roma ed oltre la fine dell’Impero romano d’Occidente. Alla fine del IV sec. d.C. inizia la decadenza causata dalle invasioni barbariche e dalla mancanza di rifornimenti sicuri. Procopio (B.G., VII, 26, 4-9) ricorda che Totila, re degli Ostrogoti, mentre stava assaltando Roma, con un gruppo di cavalieri si spinse in Cam-pania dove intendeva evitare che i senatori, lasciati li in ostaggio dallo stesso re, venissero liberati dai Romani guidati da Giovanni, nipote di Vitaliano, generale di Giustiniano. L’esercito arrivò a Minturno per poi dirigersi verso Capua. Qui avvenne lo scontro tra i cavalieri dell’esercito di Totila e quelli di Giovanni. I barbari, volti alla fuga, si rifugiarono proprio a Minturno, dove era rimasto il grosso dell’esercito barbaro. Le operazioni belli-che della Guerra Gotica inflissero il colpo decisivo all’antica colonia. Le ultime testimo-nianze epigrafiche note sono una dedica agli imperatori Teodosio II e Valentiniano III posta da Nicomaco Flaviano e la dedica a Flavio Teodoro patrono della città.

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3.2 Le invasioni barbariche e i Longobardi (Alessandro De Bonis)

3.2.1 I popoli barbarici in ItaliaI Romani, molto fieri delle loro radici latine, designavano con il nome di “barbari” tutti quei popoli che vivevano oltre i confini del regno, rivendicando l’origine della loro lingua non latina (barbaro da balbuziente).Al di là del regno vivevano i Vandali, gli Alamanni, i Franchi e i Burgunti; oltre il Da-nubio i Visigoti e gli Ostrogoti. Come anticipato, verso la fine del IV sec. d.C., gli Unni, provenienti dalle steppe dell’Asia centrale, si riversarono sulla Russia meridionale, spin-gendo verso Occidente le altre popolazioni barbariche. Questi popoli non avevano né vere e proprie città né un’organizzazione statale, praticando per altro una agricoltura particolarmente primitiva, anche se negli ultimi anni del secolo alcuni barbari erano stati arruolati nelle truppe romane, consentendo anche la diffusione del cristianesimo mediata dalla dottrina eretica ariana401. Prima i Visigoti di Alarico nel 410, poi gli Unni di Attila nel 451 e ancora i Vandali di Genserico nel 455 saccheggiarono ripetutamente Roma, fin quando Odoacre, il generale barbaro re degli Eruli, nel 476 tolse dal trono l’ultimo imperatore romano Romolo Augu-stolo, cosa che sancì la fine dell’Impero romano d’Occidente. Sopravvisse invece l’impero d’Oriente che aveva accolto meno barbari nelle sue truppe, riuscendo a mantenere anche una flotta e un esercito potente, dando vita al grande impero bizantino che riuscirà per tutto il Medioevo a costituire un baluardo per la difesa dell’Europa, e dell’Italia in parti-colare, dalle invasioni asiatiche.Le invasioni barbariche avevano dunque sconvolto l’Europa, tuttavia, laddove si erano stanziati i Germani occidentali (Franchi, Sassoni, Alamanni, Angli, Burgundi), si for-marono regni più duraturi, mentre i regni dei Germani orientali (Ostrogoti, Visigoti, Vandali) ebbero vita breve; inoltre, antichissime popolazioni europee sottomesse a Roma riacquistarono la loro indipendenza (Baschi in Spagna e Celti in Inghilterra) spingendo sempre più queste popolazioni a spostarsi verso l’Italia. Romani e barbari di fatto dove-vano convivere entro i nuovi regni, con due religioni e due sistemi giuridici diversi, per questo i nuovi regni furono chiamati romano-barbarici, alcuni generando il nucleo per i futuri stati europei402.In Italia, il regno di Odoacre fu abbattuto dall’invasione ostrogota del 489 d.C., guidata da Teodorico. Per governare l’Italia il nuovo sovrano si servì di funzionari romani, cer-cando anche in prima battuta di mantenere un clima disteso tra gli Ostrogoti e i Latini. Verso la fine del suo regno, il sovrano iniziò però a sospettare di una cospirazione dei suoi funzionari con Bisanzio, tanto da innescare una serie di sconvolgimenti interni e la persecuzione dei cattolici. Nel frattempo Giustiniano stava progettando di restaurare tutto l’impero e, nel 553 d.C., i Bizantini sconfissero gli Ostrogoti, assoggettando l’Italia a pesanti tributi fiscali.Il dominio bizantino fu frammentato in Italia dai Longobardi che nel 568, dopo una lunga guerra, riuscirono ad infiltrarsi nelle regioni centro-settentrionali. Questa fu la più

401 MONTI - BIAGINI 1989, pp. 278-291.402 TABACCO 2005, pp. 5-39.

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pesante tra le dominazioni straniere nel nostro paese, tanto che gli abitanti della penisola furono ridotti a tributari e il paese giunse al massimo della sua decadenza.

3.2.2 I LongobardiDopo aver conquistato l’Italia, l’imperatore Giustiniano emanò la Prammatica Sanzio-ne del 554 d.C., con cui veniva estesa la sua legislazione anche alla penisola italiana in quanto parte integrante dell’impero, pur se di fatto l’Italia fu solo sottoposta ad una oc-cupazione militare da parte di Narsete che governò per 15 anni mantenendo nei diversi territori dei duchi messi a capo delle province. Questo assetto fu sconvolto dall’ingresso violento dei Longobardi, una popolazione sel-vaggia e feroce originaria delle terre a ridosso delle coste del Mar Baltico, poi spostatasi in Pannonia (Ungheria) e da li scesi nella nostra penisola. Questo popolo, che mai era stato in contatto con le compagini romane prima di allora, guidati dal re Alboino, pe-netrarono nella nostra penisola presso il Friuli, dandosi a devastazioni e saccheggi siste-matici. Tutti i proprietari terrieri furono spogliati dei loro possedimenti e beni, tanto da perdere qualsiasi riferimento all’antica aristocrazia romana. Anche la chiesa cattolica ebbe duri contraccolpi, tanto che alcuni vescovi furono costretti alla fuga (Milano e Aquileia) e intere città furono abbandonate (Modena, Ariccia, Po-pulonia, Potenza), mentre sorgevano città come luoghi di riparo per i profughi in aree paludose (Ferrara e Venezia). Di fronte a questo violento urto longobardo, i Bizantini non riuscirono ad organizzarsi, tanto da ridursi nella sola difesa di alcune aree costiere in cui erano castra fortificati, dove gli aiuti sarebbero arrivati dall’Oriente più facilmente via mare. Lo scontro tra Bi-zantini e Longobardi perdurò per circa trent’anni e, quanto si giunse alla Pace di Bisanzio (603 d.C.), l’Italia era ormai divisa a macchie irregolari, per la prima volta dopo il tempo delle guerre puniche403.Il dominio longobardo si estendeva su quasi tutta l’Italia settentrionale, sulla Toscana e su gran parte dell’Italia centro-meridionale, con i due ducati di Spoleto e di Benevento. Ai Bizantini restavano le aree lagunari del Veneto, Ravenna con la Romagna, cinque grandi città della costa adriatica (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona) e cinque città dell’entroterra (Urbino, Fossombrone, Iesi, Cagli e Gubbio), oltre al ducato di Roma, al ducato di Napoli, la Puglia, la Calabria e le isole di Sicilia, Sardegna e Corsica. I re longobardi, a cominciare da Alboino, stabilirono la capitale a Pavia, anche se il loro potere fu sempre molto debole a causa dei duchi che continuavano a farsi guerra tra loro. Alboino fu assassinato nel 572 per mano di una congiura, così come il suo successore Clefi, che salì al potere per soli due anni. Alla morte di quest’ultimo i duchi preferirono restare senza un re e combattere ciascuno per proprio conto tra loro e contro i Bizantini, ma con il tempo si resero conto che la mancanza di un potere centrale li rendeva solo più deboli contro le forze d’Oriente, e nel 584 decisero di eleggere un nuovo re, Auta-ri, concedendogli ciascuno la metà delle proprie terre. Il nuovo re sposò la principessa Teodolinda, colei che riuscì a portare il popolo longobardo verso un lungo periodo di prosperità e pace, guidando il suo popolo di credenza ariana, anche se di fatto pagani,

403 TABACCO 2005, pp. 39-56.

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verso la totale conversione al cattolicesimo, grazie anche ad uno stretto accordo che Te-odolinda riuscì a chiudere con il papa Gregorio I404. La conversione, pur se lenta, contribuì a migliorare i rapporti fra gli invasori e le genti latine: sarà il periodo di regno di Teodolinda il solo bagliore avuto dopo una lunghis-sima fase di totale decadenza ed imbarbarimento generale che si palesò in una netta diminuzione della popolazione in Italia. Crollò anche il commercio a causa del totale abbandono delle strade romane e della quasi totale scomparsa della moneta; tutto ritor-nò alla forma di baratto preromano, ruotando l’economia prevalentemente attorno alle piccole corti locali.Altra grande figura del periodo fu proprio il papa Gregorio I o Gregorio Magno (590-604 d.C.), grande uomo religioso, derivante dalla rigida formazione monastica, e abile uomo politico dall’acuta sensibilità civica. Fece distribuire i grandi latifondi ecclesiastici ai conta-dini, combatté la corruzione della chiesa imponendo anche la ridistribuzione delle rendite ai più poveri e propagandò una notevole opera di apostolato verso i popoli ancora pagani del nord Europa, aiutato dalla stretta amicizia, di cui rimangono scambi epistolari, avuta con la regina Teodolinda. Il papa ottenne inoltre da Agilulfo, secondo marito di Teodolin-da, la rinuncia ad occupare Roma, che mantenne di fatto una cultura filo-bizantina; tutte le città legate a Bisanzio dovettero imparare però a difendersi autonomamente, viste anche le pressioni dei Persiani e delle popolazioni balcaniche sulle terre d’Oriente, dunque la non possibilità di Bisanzio di agire nella penisola italiana.Ad approfittare di questa debolezza fu Rotari, uno dei successori di Agilulfo, che conquistò altre terre in Liguria e Venero. Il sovrano rimase famoso per il suo Editto (Editto di Rotari) che diete forma scritta al diritto degli uomini, eliminando di fatto la faida privata e limi-tando le pene di morte solo agli alti tradimenti verso il regno. Tutti gli altri danni a cose e persone furono punite con una ammenda (guidrigildo), che imponeva però una forma di schiavitù nel caso in cui l’uomo colpevole non poteva pagare la propria ammenda405.

3.2.2.1 Cultura e arte longobarda406

Non si sono preservate testimonianze originali della cultura letteraria germanica propria dei Longobardi. In seguito all’integrazione tra questi e i Romanici, avviata con decisione a partire dagli inizi del VII secolo, risulta difficile isolare i contributi propri dell’una o dell’altra tradizione nella produzione letteraria dell’Alto Medioevo  italiano, inclusi gli anni successivi alla caduta del Regno longobardo (774) che non comportò la spartizione del popolo. Esemplare di questa commistione è la più alta figura della cultura longo-barda: Paolo Diacono. Originario del Ducato del Friuli, orgogliosamente longobardo, adottò tuttavia nelle sue opere la lingua latina, come nella Historia Langobardorum, te-stimoniando la concreta fusione culturale di queste genti.Durante la lunga fase nomade (I-VI secolo d.C.), i Longobardi svilupparono un linguag-gio artistico che aveva molti tratti in comune con quello delle altre popolazioni germa-niche dell’Europa centro-settentrionale. Popolo nomade e guerriero, non poté dedicarsi

404 TABACCO 2005, pp. 56-72.405 MONTI- BIAGINI 1989, pp. 294-302; TABACCO 2005, pp. 56-72.406 DE VECCHI - CERCHIARI 1991, pp. 302-325; CASTELFRANCHI VEGAS 2001, pp. 7-32.

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allo sviluppo di tecniche artistiche che presupponessero un insediamento stanziale e l’u-so di materiali di difficile trasporto. Nelle loro tombe si ritrovano quasi esclusivamente armi e gioielli, che rappresentano l’essenza della creazione artistica materialmente ese-guita da maestranze longobarde. La situazione si modificò con l’insediamento in Panno-nia prima e, soprattutto, in Italia poi, quando i Longobardi vennero a contatto con l’in-flusso classico e si avvalsero di maestranze romaniche e addirittura di artisti bizantini. Il risultato, al di là dell’appartenenza etnica degli artisti, è stata comunque una produzione per molti versi di sintesi, sviluppata con tratti anche originali durante l’epoca del regno lungo l’intera Penisola italiana.L’attività architettonica sviluppata in Langobardia Major è andata in gran parte per-duta, per lo più a causa di successive ricostruzioni degli edifici sacri e profani eretti tra VII e VIII secolo. A parte il tempietto di Cividale del Friuli, rimasto in gran parte intatto, gli edifici civili e religiosi di Pavia  (il Palazzo Reale, la chiesa di Sant’Eusebio, la basilica di San Pietro in Ciel d’Oro), Monza  (la Residenza estiva, la basilica di San Giovanni) o altre località sono stati ampiamente rimaneggiati nei secoli seguenti. Anco-ra integre rimangono così soltanto poche architetture, o perché inglobate negli amplia-menti successivi (la chiesa di San Salvatore a Brescia, la Basilica Autarena a Fara Gera d’Adda, la chiesa di Santo Stefano Protomartire a Rogno), o perché periferiche e di mo-deste dimensioni (la chiesa di Santa Maria foris portas a Castelseprio). Testimonianze maggiormente fedeli alla forma originale si ritrovano, invece, nella Langobardia Minor: a Benevento si conservano la chiesa di Santa Sofia, un ampio tratto delle Mura e la Roc-ca dei Rettori, unici esempi superstiti di architettura militare longobarda, mentre altre testimonianze si sono conservate in centri minori del ducato beneventano e in quello di Spoleto (la chiesa di San Salvatore a Spoleto, il Tempietto del Clitunno a Campello sul Clitunno) a cui si affiancano alcune testimonianze nella piana pontina come nel caso della “Torre detta Triangolare” del castello di Monte San Biagio, tipico luogo di vedetta longobardo mirato al controllo del territorio basso organizzato su uno sperone allungato verso una piana407. Un’iscrizione longobardo-romana, in caratteri maiuscoli, si ritrova a ridosso delle porte del castello di Itri (Iter), il che indurrebbe a rafforzare l’ipotesi sulla presenza su un nu-cleo gentilizio longobardo sul luogo dell’attuale castello.Notevole, in ambito religioso, fu l’impulso dato da diversi sovrani longobardi (Teodolin-da, Liutprando, Desiderio) per la fondazione di monasteri, strumenti al tempo stesso di controllo politico del territorio e di evangelizzazione in senso cattolico di tutta la popola-zione del regno. A questo periodo si deve la diffusione della venerazione di San Giovanni Battista e di due figure di Santi che richiamano però lo schema del dio guerriero Odino, ovvero San Michele principalmente, rappresentato con la spada divina e in rapporto minore San Giorgio, come emblema del bene che vince il male o del cattolicesimo che sovrasta il paganesimo.Tra i principali monasteri sorti in età longobarda, spicca l’abbazia di Bobbio legata a San Colombano, pur se altri resti ci permettono di dare testimonianza sulla presenza di ori-ginari impianti, poi riutilizzati e modificati nel tempo, come nel caso dell’originaria fon-dazione della chiesa di San Giovanni Battista a Monte San Biagio, della chiesa di San

407 DE BONIS A. - DE BONIS B. - CATENA 2013, pp. 133-135.

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Michele Arcangelo ad Itri, che preserva ancora le colonne longobarde all’esterno della scalinata di accesso alla struttura e la presenza al suo interno di emblemi religiosi del pe-riodo, quali la rosa simbolo della segretezza e della perfezione divina, a cui è da collegare il percorso della via Micaelica sorta all’incirca in questa fase e che mirava a collegare tra loro tutti i monasteri suburbani dedicati a San Michele Arcangelo, che divenne il protet-tore dei pellegrini lungo i loro cammini di espiazione. Altre rilevanti testimonianze che si possono far risalire a questo periodo si hanno nell’ab-bazia di San Magno di cui parla lo stesso Gregorio I, che nell’area della cripta conserva pregevoli affreschi filo-bizantini, e in alcune testimonianze pertinenti impianti religiosi antichi impostati su aree di culto precristiane, come nel caso della chiesa di Sant’Erasmo a Formia edificata secondo la documentazione in età costantiniana su un cimitero pa-gano-cristiano. Alcune testimonianze legano all’ingresso longobardo nella penisola lo sviluppo di Cam-podimele e di parte del suo originario impianto fortificato (VI secolo d.C.), anche se probabilmente il paese aveva già svolto un ruolo importante - legato al locale crescita – durante l’età romana prima e in riferimento al monastero di Montecassino poi. In realtà tutta l’area sud-laziale vide a più riprese la presenza di Longobardi, da una parte impe-gnati in vere e proprie opere di distruzione di grandi città romane al loro arrivo nel sud, come documentato per l’antica Minturnae, mentre dall’altro attivi, assieme ai Bizantini, in una lega voluta dal Papa Giovanni X per fronteggiare le continue incursioni saracene nelle terre a ridosso del Garigliano; una dura battaglia fu combattuta tra il Castrum Forte e il Castrum Suji408. Come in altri casi, anche se la persistenza longobarda nella Langorbadia Minor è più prolungata nel tempo, in realtà le documentazioni preservate sull’intero territorio resta-no limitate, pur trovando testimonianza anche per aspetti di vita domestica e contadina, come l’allevamento e il trattamento delle carni mediante l’uso del coriandolo, tralascian-do la grande testimonianza nella produzione di insaccati – maggiormente salsicce – aro-matizzate con tale spezia essiccata e triturata, miscelata al fine di mantenerne la qualità. Secondo le testimonianze avute, le carni soprattutto suine, dopo essere state lavorate, ve-nivano lasciate disseccare in affumicatura secondo le procedure antiche all’interno di ca-panne. Legata alla diffusione della cultura longobarda si lega infatti anche quest’aspetto, ovvero la diffusione, lungo tutta la dorsale appenninica, della capanna italica di tipo mo-nocellulare, che diverrà nella zona sud-laziale, soprattutto tra Terracina e il Garigliano, il tipico pagliaio, con basamento di pietra a secco di forma ellissoidale o circolare e una copertura di stoppie intrecciate su travi lignei totalmente impermeabile ma capace, sen-za la presenza di un comignolo, di far fuoriuscire il fumo prodotto nel focolare centrale della capanna utilizzato contemporaneamente per l’affumicatura dei prodotti insaccati.Secondo le attestazioni documentarie, si dovrebbe ai Longobardi anche l’inserimento e la diffusione della Bufala a ridosso del fiume Garigliano, in origine utilizzata solo per

408 Di rilevante importanza risulta il recente rinvenimento di un ciclo di affreschi messi in luce durante gli scavi nel Castrum Suji. Le scene datate all’età desideriana (XI secolo d.C.), riproducono immagini di personaggi coronati con abiti riccamente decorati e scene con santi, tra cui assume un ruolo rilevante l’immagine di San Michele. Il ciclo di affreschi diventa oltremodo importante perché il culto di San Michele, come già accennato, si diffonde proprio in riferimento alla persistenza longobarda nei territori del sud Italia. In particolare il culto di San Michele a Suio riprenderebbe anche il culto in grotta: infatti sotto la terrazza su cui si apre la chiesetta a lui dedicata, si apre una grotta naturale lungo un percorso viario pedemontano.

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lavori di forza nei campi e poi sfruttata, anche grazie alla diffusione dei monasteri citati, per la produzione del latte e dei formaggi freschi prodotti dagli stessi monaci.

3.2.2.2 La scultura409

La scultura longobarda rappresenta una delle più eleganti manifestazioni dell’arte al-tomedievale. Tipici sono le rappresentazioni zoomorfe e il disegno geometrico; tra le sue manifestazioni sopravvissute fino ai nostri giorni, si annoverano pale d’altare, fonti battesimali e soprattutto splendide lapidi dai bassorilievi fitomorfi. Ne sono un esem-pio i Plutei di Teodote, entrambi conservati a Pavia: si tratta di due lastre tombali risa-lenti alla prima metà dell’VIII secolo che rappresentano, rispettivamente, l’albero della vita  tra  draghi marini alati  e  pavoni  che bevono da una fonte sormontata dalla  Cro-ce (simbolo della fonte della Grazia divina). Sempre a Pavia è custodita la Lastra tombale del duca Adaloaldo, risalente al 718 e recante una lunga iscrizione arricchita da bassori-lievi a soggetto vegetale, mentre mirabile è la raffinatezza esecutiva della Lastra tombale di San Cumiano, presso l’abbazia di Bobbio: risalente agli anni del regno di Liutprando: reca anch’essa un’iscrizione centrale, racchiusa da una doppia cornice a motivi geometri-ci (serie di croci) e fitomorfi (tralci di vite). Tra le opere scultoree sopravvissute fino ai nostri giorni, spicca, nel Tempietto longo-bardo di Cividale del Friuli, l’Altare di Rachis, tipico esempio artistico della “Rinascenza liutprandea”: la tendenza, nota appunto a partire dal regno di Liutprando, volta a inte-grare l’arte longobarda con gli influssi romani. Interessanti resti scultorei attestanti questa fase sono conservati anche in alcune chiese del sud-pontino, come nel caso del duomo di San Cesareo a Terracina, che presenta al-cune porzioni di lastre con cornici decorate a corde intrecciate tipiche della produzione artistica longobarda, a cui si affiancano alcuni resti presenti in area beneventana. Vista la scarsità documentaria, rimane oltremodo fondamentale la scoperta di una cassa lignea, detta di Terracina dal luogo di rinvenimento, datata tra la fine del X e l’XI sec. d.C., realizzata con bassorilievi chiaramente ispirati alla scuola longobarda che riprodu-cono la vicenda legata al peccato originario. Ad oggi questa cassa, conservata a Roma, rimane un unicum su tutto il territorio della Langobardia Minor410.

409 DE VECCHI - CERCHIARI 1991, pp. 302-325.410 Catalogo del Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, n. inv. 1480 – Roma.

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A L E S S A N D R O D E B O N I SC H IA R A C A S A L E

C A S S A N D R A R I TA RU S S O

L’articolato sistema territoriale pertinente i luoghi compresi nel Lazio sud-occidentale - e in minore risonanza sui territori a nord-Ovest della Campania - rappresenta un insieme di dati occupazionali distribuiti in di� erenti fasi preistoriche e protostoriche. Questo lavoro si pre� gge come scopo, il reperimento di tutte le informazioni scienti� che atte a rendere un quadro delineato e chiaro sulle vari fasi occupazionali pertinenti queste terre ricche di testimonianze visive.Partendo dai resti sul territorio pertinenti il periodo preistorico e romano, si è proceduto alla ricostruzione delle tappe fondamentali di occupazione del basso Lazio arrivando � no all’avvento delle conquiste longobarde, focalizzando maggiormente l’attenzione sui luoghi sotto la rete del Sistema Bibliotecario sud-Pontino, senza tralasciare - ove utile - panoramiche territoriali più ampie necessarie ad inquadrare perfettamente le dinamiche storiche e occupazionali di questi luoghi a� acciati sul Mar Tirreno.

9 788899 460228

ISBN 978-88-99460-22-8

Sviluppi storici nelle terre del basso Lazio

Dalla preistoria all’avvento dei Longobardi

Amministrazione Provinciale di Latina

Comune di Monte San Biagio Collana “Memorie del territorio”