Supplemento 3 2014 - L’inclusione dei bambini con bisogni educativi speciali

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Centro di documentazione per l’infanzia e l’adolescenza Regione Toscana Istituto degli Innocenti Firenze Percorso tematico L’inclusione dei bambini con bisogni educativi speciali: un percorso di lettura e filmografico Supplemento della rivista Rassegna bibliografica infanzia e adolescenza ISSN 1723-2600 NUOVA SERIE n. 3 – 201 Istituto degli Innocenti Firenze Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza

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L’inclusione dei bambini con bisogni educativi speciali è il tema affrontato nel Supplemento online alla Rassegna bibliografica 3/2014. Il percorso di lettura propone una riflessione sull’argomento per capire quali prospettive esistono a una piena e reale attuazione dei processi inclusivi dei soggetti in difficoltà non solo nella scuola, ma anche nei più ampi contesti sociali. Il percorso filmografico, propone alcuni film che hanno rappresentato con efficacia la diversità e la disabilità a partire da Freaks di Tod Browning (1932), fino ad arrivare al capolavoro di David Lynch, The elephant man (1980) e ai più recenti film di produzione italiana come L’isola dei sordobimbi, di Stefano Cattini (2010) e La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo (2010).

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Centro di documentazioneper l’infanzia e l’adolescenzaRegione Toscana

Istituto degli InnocentiFirenze

Percorso tematico

L’inclusione dei bambini con bisogni educativi speciali:un percorso di lettura e filmografico

Supplemento della rivistaRassegna bibliografica infanzia e adolescenzaISSN 1723-2600

NUOVA SERIEn. 3 – 2014

Istituto degli InnocentiFirenze

Centro nazionale didocumentazione eanalisi per l’infanziae l’adolescenza

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Percorso di lettura

Quando la diversità a scuola diventa ricchezzaDall’integrazione all’inclusione dei bambini con bisogni educativi speciali

Maurizio Parente, pedagogista

1. Introduzione

Non è inconsueto – ancora oggi – leggere osentire parlare della disabilità come di un“problema”, di una situazione difficile daricondurre, per quanto possibile, entro i confinidella “normalità”, dimenticando che talecondizione è associata a una persona con ugualediritto di vivere ed essere felice (Medeghini,Valtellina, 2006).

Spesso sottovalutiamo il fatto che, garantireai bambini disabili opportunità di crescita ugualia quelle offerte agli altri individui, consente loronon solo di vivere vite appaganti, ma dicontribuire attivamente allo sviluppo dei contestisociali, culturali ed economici delle comunità dicui essi sono parte integrante.

Crescere bene e vedere rispettati i propridiritti, però, può risultare, per questi bambini,particolarmente difficile: in molti Paesi, infatti, lerisposte alle loro condizioni e bisogni si limitanoal ricovero in istituto o all’abbandono. Soluzionidel genere costituiscono il problema e sonoradicate in pregiudizi negativi o paternalistici diincapacità, dipendenza e differenza generatidall’ignoranza (Bobbio, 2007; Medeghini, Forna­sa, 2011).

Per evitare il perpetuarsi di situazioni simili,abbiamo bisogno di politiche di welfare attente,lungimiranti, ma soprattutto pronte a sostenere idiritti di tutti i propri cittadini. È questo unbisogno sentito, anche se poco sostenuto, poiché– come già sottolineato nel percorso di letturadella Rassegna bibliografica n. 3/2007 dedicatoallo stesso tema1 – il cammino verso il pienoriconoscimento dei diritti dei bambini disabilinon è stato facile e, per certi aspetti, continua aessere ricco di ostacoli. Tale difficoltà, avvertita atutti i livelli, ha posto in evidenza la necessità diricontestualizzare il tema e capire quali prospet­tive esistono a una piena e reale attuazione deiprocessi inclusivi dei soggetti in difficoltà non

solo nella scuola, ma anche nei più ampi contestisociali. Il breve contributo prova a costruire,attraverso una ricognizione bibliografica, unacornice dello “stato dell'arte” dei processi inclu­sivi che, pur non trascurando alcune importantiricerche internazionali, concentra l'attenzione sulpercorso italiano.

Utilizzando come chiavi di lettura privilegiate iconcetti di educabilità di tutte le persone e dicomunità di apprendimento, proviamo a proporreun percorso in grado di condurci attraverso glistretti passaggi che, nel corso del tempo, hannoportato dall'esclusione all'inclusione dei bambiniin difficoltà nella scuola, per poi vedere come siarticolano le diverse dinamiche inclusive al suointerno e quali prospettive future possiamoaspettarci per vedere realizzato un diritto fon­damentale quale quello dell'educazione e dellaformazione.

La Comunità Europea ha rafforzato il proprioimpegno a favore delle persone con disabilità soloa partire dagli anni Settanta con le primeraccomandazioni, le quali hanno permesso diaccendere i riflettori e sensibilizzare le politicheinternazionali sui “bisogni” e i “diritti” di questibambini.

Da quegli anni, la Comunità Europea (oggiUnione Europea) si è a lungo occupata di questeproblematiche, emanando raccomandazioni, ri­soluzioni, investendo in programmi specifici ecostituendo gruppi di lavoro e di scambio, finoalla definizione del Piano di azione europeo sullasituazione delle persone con disabilità nell’Unio­ne Europea che racchiude il triennio 2007­2009.In particolare, tra gli obiettivi prioritari del Piano,ripresi anche nel rinnovo 2010­2020, figuranol’eliminazione delle barriere che limitano l’acces­sibilità, la partecipazione, l’uguaglianza, l’occu­pazione, l’istruzione e la formazione, la prote­zione sociale, la salute e la promozione dei diritti

1 Pavone, M., Zucchi, R., L’handicap e le sfide della modernità, in «Rassegna bibliografica», n. 3, 2007, p. 5­41.

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di queste persone a livello internazionale (DeAnna, 2011, 2012).

Negli ultimi anni le politiche sulle persone condisabilità si sono rinnovate e hanno guadagnatouna formalizzazione giuridica che, per quantoimportante, non appare ancora sufficientementeforte a cambiare quei pre­giudizi che, ancoraoggi, sembrano connotare alcune espressioni disenso comune. Concetti quali quelli di norma ecategoria continuano a procurare danni nonindifferenti. Entrambi oppongono, emarginano erinchiudono. Sommate all’univocità, alla misurae alla sistematicità, diventano prigione dell’iden­tità, dominazione e pretesa di universalità,rappresentando nel contempo una fugadall’intrico della complessità umana e dalle suestranezze, discontinuità, oscurità e disperazioni(Lascioli, 2011).

Tali pre­giudizi ci impediscono di entrare incontatto con coloro che non sono “come gli altri”e di costruire insieme, partendo dal luogo che èloro. Talvolta, senza rendercene conto, nesoffochiamo l’identità in nome della norma; e,mentre loro sperano in una società senzaprigioni, né cancelli e si attendono di camminaresu strade serpeggianti e ricche di curve, noioffriamo loro uno spazio sociale chiuso,rettilineo, prefissato e, come ben sottolineaCharles Gardou, difficilmente usciamo dai luoghispecializzati e dai territori separati, portandoli acondurre un’esistenza insularizzata e perife­rizzata (Gardou, 2006). Perché, allora, preoc­cuparsi dell’accessibilità agli istituti scolastici eai luoghi di lavoro e di residenza, quando è dataloro solo la possibilità di vivere “altrove”, inscuole e laboratori protetti e in luoghi di vitaadatti e riservati?

La separazione è quanto di meno dovremmoattenderci: le norme non dovrebbero essereun’impalcatura rigida che ingessa, ma un modoper offrire libertà e opportunità in un contestoaperto all’accoglienza di chi, per varie ragioni, habisogni diversi da quelli più generali del contestosociale. Rispondere ai bisogni non significacreare privilegi, ma offrire opportunità in gradodi restituire autonomia e dignità.

2. Dall’esclusione all’inclusioneAi sensi della Convenzione Onu sui diritti del

fanciullo del 1989 e della Convenzione Onu suidiritti delle persone con disabilità del 2006, i

governi di tutto il mondo si sono assunti laresponsabilità di garantire che tutti i bambini,indipendentemente dal loro grado di abilità odisabilità, godano degli stessi diritti, senzadiscriminazione di alcun genere2.

Eppure se analizziamo con attenzione lasituazione socioculturale di alcuni Paesi èpossibile notare che, ancora oggi, molti bambinicon disabilità incontrano forme diverse diesclusione che li colpiscono in modi differenti, aseconda del tipo di disabilità che presentano, delluogo dove vivono e della cultura o della classesociale cui appartengono.

I motivi che determinano questi gradidifferenti di esclusione possono essere molti,anche se riconducibili all’esperienza comunedell’essere definiti e giudicati in base a ciò chenon si ha, piuttosto che a ciò che si ha: talipresupposti conducono spesso a considerare ibambini con disabilità soggetti “diversi”, espo­nendoli a una maggiore vulnerabilità. La discri­minazione basata sulla disabilità puòmanifestarsi sotto forma di emarginazione dallerisorse e dai processi decisionali, di esclusionedai contesti comunitari e di relazione, dallapossibilità di realizzazione di una propria vitaautonoma.

Da questo punto di vista dobbiamo evitare aogni costo che un bambino viva situazioni dideprivazione, perché è ormai dimostrato chel’accesso e l’utilizzo di servizi e tecnologie disostegno possono mettere un bambino nellacondizione di prendere il proprio posto all’internodella comunità. A oggi sono disponibili mezziefficaci per costruire società inclusive in cui ibambini, con o senza disabilità, possano goderedei loro diritti in modo equo.

Rispetto ai processi inclusivi, però, vi è pocoaccordo in merito a come debbano essereinterpretati e questo contribuisce a generaremodi diversi di vedere le questioni dei dirittiumani e della giustizia sociale. Concetti come“educazione inclusiva” (Pavone, 2014) e “diver­sità” non sono culturalmente neutrali: i signifi­cati attribuiti, possono aggiungere ricchezza evarietà di scambi interculturali, oppure, inalcuni casi, condurre a confusione e malintesi.Parlare di “inclusione” e “diritti umani” significautilizzare termini che possiedono un significatocontingente, sono situati geograficamente, cultu­ralmente e storicamente: nella sostanza non

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2 Fino al mese di febbraio del 2013, 193 Paesi avevano ratificato la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, mentre 127 Paesidell’Unione Europea avevano ratificato la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità.

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rappresentano – ancora – valori universali eunanimemente condivisi. È importante, dunque,chiarire come utilizziamo la terminologia ericonoscere che l'educazione inclusiva ha diverseinterpretazioni a seconda del contesto, di chi stausando il termine e per quale scopo (Booth,Ainscow, 2008; Striano, 2010).

L’educazione inclusiva mira a offrireistruzione di qualità a tutti i discenti. Perottenere una scuola inclusiva è necessario ilsostegno dell’intera comunità: dai decisori agliutenti finali (gli alunni e le loro famiglie). Ènecessaria una collaborazione a tutti i livelli etutte le parti interessate devono avere unavisione dei risultati a lungo termine, ovvero iltipo di giovani che la scuola e la comunitàintendono formare. Sono necessarie modifiche aterminologia, attitudini e valori, al fine diriflettere il valore aggiunto della diversità e dellapartecipazione paritaria.

Tale pratica si basa sulla convinzione neidiritti di tutti alla parità di riconoscimento, dirispetto e di trattamento, a prescindere dalladifferenza. Questo non significa che non debbanoessere riconosciuti gli interessi particolari, glistili di apprendimento, la conoscenza, il patri­monio culturale e linguistico. Al contrario,l'inclusione riconosce e risponde alla diversità eal diritto di “essere sé stessi”, in una comunitàaperta e democratica.

In riferimento a quanto appena detto,Wilkinson e Pickett hanno fatto notare come unamaggiore uguaglianza, oltre a migliorare ilbenessere di tutta la popolazione, è anche lachiave per la definizione di standard nazionalisul rendimento; inoltre, un paese che vuolealzare i livelli medi di rendimento scolastico tra ibambini in età scolare, deve affrontare ladiseguaglianza di fondo che crea un gradientesociale più elevato nel rendimento scolastico(Wilkinson, Pickett, 2009).

Muovendo da questi presupposti, Farrell ecolleghi (2007) hanno evidenziato in alcuni studicome la collocazione di studenti con bisognieducativi speciali (BES) nelle scuole comuni nonabbia conseguenze per il rendimento scolastico,il comportamento e gli atteggiamenti di tutti glialtri bambini. Analogamente, i risultati di alcunericerche hanno dimostrato i benefici dell’inclu­sione per gli alunni senza disabilità, poichéfavorisce lo sviluppo e il consolidamento diatteggiamenti quali:

­ maggiore apprezzamento e accettazione delledifferenze individuali e della diversità;

­ rispetto per tutte le persone;­ preparazione alla vita adulta in una società

inclusiva;­ opportunità di migliorare le proprie compe­

tenze pratiche esercitandosi e insegnandole aglialtri.

Se l’inclusione di bambini con difficoltà e/odisabili all’interno di scuole comuni non haconseguenze negative sugli altri soggetti, ha esitimolto positivi sui soggetti in difficoltà e/o condisabilità: studi recenti – De Graaf, Van Hove,Haveman (2011), Bennett, Gallagher (2012) –,infatti, hanno documentato gli effetti positivi deicollocamenti inclusivi sugli alunni con disabilità.In questo caso si assiste a un evidente miglio­ramento delle relazioni e delle reti sociali, a unmiglioramento del rendimento, a uno sviluppopositivo della propria autostima.

Appare chiaro come il concetto di inclusionesi discosti dalla semplice integrazione: que­st'ultima infatti si concentra sulla questione dicome un singolo bambino, o un gruppo dibambini, potrebbe adattarsi a una scuola o auna classe, piuttosto che promuovere lanecessità di una fondamentale trasformazionenella vita sociale, culturale, curriculare epedagogica della scuola, come pure la suaorganizzazione fisica. La differenza fondamentaletra il concetto di inclusione e quello di integra­zione è che quest'ultimo si concentra sui deficitpercepiti nel bambino in quanto ostacoli allapartecipazione e quindi deriva da una prospet­tiva vicina al “modello medico”, mentrel'inclusione è sostenuta dal modello sociale eindividua gli ostacoli alla partecipazioneall'interno della scuola, dell'università e dellasocietà.

L'educazione inclusiva si basa su una prospettiva dei diritti umani e sociali, che si rivolgono atutti i bambini e a tutte le comunità. Non c'è untipo di educazione inclusiva per i bambinidisabili e un altro tipo di educazione inclusivaper il resto della popolazione scolastica.

3. Verso una scuola inclusivaSe nella scuola italiana la pratica dell’inte­

grazione dei bambini con bisogni educativispeciali è ormai un modus operandi consolidato(si veda Canevaro, a cura di, 2007; Ianes,Canevaro, 2008), non possiamo sostenere lastessa cosa per l’inclusione. In quest’ultimo caso,infatti, siamo ancora lontani dal riconoscere erispondere efficacemente e in modo generalizzatoai diritti di individualizzazione di tutti gli alunni

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che hanno una qualche difficoltà.Una scuola che sa rispondere adeguatamente

a tutte le difficoltà degli alunni e, ove possibile,sa prevenirle, diventa una scuola profondamenteinclusiva per tutti gli alunni, poiché in essa sieliminano le barriere all’apprendimento e allapartecipazione di ognuno (Suzic, 2009). Questo èil traguardo cui tendere, traguardo che è ormaiben discusso anche nella letteratura scientificainternazionale più avanzata (Booth, Ainscow,2008), oltre che nelle posizioni degli interpretiitaliani (Medeghini et al., 2013). Nella letteraturascientifica internazionale il concetto di "inclu­sione" si applica infatti a tutti gli alunni, comegaranzia diffusa e stabile di poter partecipare allavita scolastica e di raggiungere il massimopossibile in termini di apprendimenti e parteci­pazione sociale. L’idea di inclusione si basa, nonsulla misurazione della distanza da un pretesostandard di adeguatezza, ma sul riconoscimentodella rilevanza della piena partecipazione allavita educativa della scuola da parte di tutti isoggetti. Se l’integrazione tende a identificareuno stato, una condizione, l’inclusione rappre­senta piuttosto un processo, una filosofiadell’accettazione, ossia la capacità di fornire unacornice dentro cui i bambini – a prescindere daabilità, genere, linguaggio, origine etnica oculturale – possono essere ugualmente valoriz­zati, trattati con rispetto e forniti di ugualiopportunità. L’inclusione è ciò che avvienequando ognuno sente di essere apprezzato e chela sua partecipazione è gradita. Il concetto diinclusione riconosce che c’è un rischio diesclusione che occorre prevenire attivamente e,al tempo stesso, afferma l’importanza delcoinvolgimento di tutti i bambini nella realiz­zazione di un ambiente educativo realmenteaccogliente, anche mediante la trasformazionedel progetto educativo­didattico e delle strategieorganizzative della scuola, che devono diventaresensibili all’intera gradazione delle diversitàpresenti fra i bambini (De Anna, 2014; Milito,2013). La scuola inclusiva dovrebbe alloramettere in campo tutti i facilitatori possibili erimuovere tutte le barriere all'apprendimento ealla partecipazione di tutti gli alunni, al di làdelle varie etichette diagnostiche. In particolarequest’ultimo concetto ha condotto a rifletteresull’attuazione di un’educazione inclusiva(Brocca et al., 2015), intesa come nuova frontieradell’educazione che si fonda su una precisafilosofia. L’educazione inclusiva, infatti, èpossibile a due condizioni: se c’è un processo che

trasforma la scuola per aiutarla a modificare ilproprio sguardo sugli altri, gli stranieri, i poveri,gli esclusi, le minoranze, gli emarginati, idisabili, i senza diritti e se c’è un partenariato fratutti gli attori della società: pubblici, privati ecivili.

L’educazione inclusiva perciò risulta essereun approccio che si propone di trasformare ilsistema educativo in modo da farlo corrisponderealle diversità dei bambini. In questo caso ladiversità diviene una sfida e un arricchimentoper l’ambiente educativo, non più un problema.

Non dobbiamo dimenticare che la scuola hauna funzione pubblica e, in tal senso, dovrebbeimpegnarsi nel garantire non solo pari oppor­tunità di accesso ai percorsi formativi a tutti glistudenti, ma il successo scolastico di tutti glistudenti. La scuola diventa realmente inclusivaquando riesce a concentrarsi su tutto quello cheè necessario per produrre il successo “in uscita”nel riconoscimento della diversità.

Se la scuola vuole diventare davvero inclusivaha bisogno – come sottolinea Dario Ianes – di«normalità divenuta speciale», di condizioniordinarie di funzionamento che siano peròdavvero rispondenti alla complessità dei bisognieducativi speciali di molti alunni. Una scuolainclusiva deve essere ordinariamente speciale,non darsi “particolari” e diverse attenzioni, madarsi invece normalmente istituzioni inclusive,che siano parte integrante del suo esserecomunità educante. Questa è la sfida della«speciale normalità» (Ianes, 2006); introdurrenella normalità accogliente del fare scuola quegliingredienti tecnici, pedagogici, didattici epsicologici che rendono la normalità adatta arispondere efficacemente ai bisogni educativispeciali degli alunni. Se non si saprà arricchiredegli aspetti tecnici necessari, adattati alla realtànormale delle scuole, la normalità da sola non cela farà a rispondere con una buona qualitàinclusiva.

Da questo punto di vista, primo compito dellascuola deve essere quello di “riconoscere” lesituazioni di bisogno educativo speciale. Lascuola, infatti, si deve attrezzare, reticolandosicon le tante realtà tecniche del territorio, peroperare una lettura il più possibile corretta e nonautoreferenziale. L’obiettivo di un’inclusione“sufficientemente buona” è strettamente connes­so alla possibilità e capacità della scuola diattivare e mantenere vivace questo elevatointreccio di azioni educative e di relazionisignificative, non frammentarie, tra gli attori dei

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diversi contesti professionali e non, e con lefamiglie. Ciò implica, per i protagonisti, la noncerto scontata disponibilità a mettere a confrontoe in comune – in una parola integrare – le rispet­tive conoscenze, competenze, i differenti linguag­gi (educativo­didattico, sanitario, sociale, cultu­rale, aziendale, ricreativo, ecc.) e gli strumenticomunicativi.

Le esperienze positive non mancano: si pensial crescente uso di procedure di screeningprecoce sui disturbi dell’apprendimento, fruttodell’alleanza tra scuola e servizi territoriali dineuropsichiatria. In questo caso le competenzetecniche entrano ad arricchire stabilmente prassiistituzionali scolastiche di lettura precoce deibisogni e delle difficoltà dei bambini, in modo dapromuovere, dove necessario, l’attivazione dipercorsi e processi preventivi.

Alla base di questo riappropriarsi evolutodella funzione di lettura complessa dei bisognideve stare però un patto fiduciario (che ora nonesiste) tra chi eroga le risorse aggiuntive(direzioni regionali ed enti locali) e chi legge ilbisogno (le singole scuole). La reciproca onestà efiducia deve rimpiazzare la diffidenza altrettantoreciproca, le contrattazioni manipolate, leforzature, ecc. Riconoscere deve significare anche“comprendere” a fondo il reale funzionamentodell’alunno in una qualche difficoltà, non accor­gersi solamente che è in difficoltà. Dobbiamocapire bene perché è in difficoltà. Per questoserve un modello interpretativo in grado dileggere al meglio i bisogni dei bambini.

4. Il modello interpretativoIl modello che ci può aiutare, e che è stato

adottato ufficialmente dal nostro Paese già nel2002, è l’International Classification of Functioning,Disability and Health (ICF) dell’Organizzazionemondiale della sanità (Oms, 2002)3.

Il modello ICF­CY, utilizzato per la compren­sione e comunicazione della salute, malattia edisabilità, sostiene che il benessere/funzio­namento umano (e le sue difficoltà) è il risultatodi un complesso sistema di influenze reciprochetra aspetti biologici, strutturali, competenze,partecipazione a ruoli sociali, facilitazioni oostacoli ambientali, familiari, sociali, culturali,psicologici. La persona, l’alunno è visto da unaprospettiva completa, globale, olistica, sistemica,non riducibile ai suoi soli aspetti biologici, di

abilità, sociali, o familiari (Florian et al., 2006).L’armonia o la disarmonia di tutti questi aspettioriginano gli stati di benessere o di difficoltà.Una comprensione reale e valida del funziona­mento deve dunque fondarsi su di un’antro­pologia globale, occupandosi dell’intera situa­zione di vita di un alunno: da questo punto divista la scuola deve ancora fare molti passiavanti per elaborare e perseguire una visione piùestesa e intrecciata delle variabili in gioco nellacomprensione dei suoi alunni. Crediamo chequesto sia molto più vero nella scuola secondariadi secondo grado, anche se in quella di primogrado talvolta non si scherza quanto a visionimiopi e ristrette.

Sul “valorizzare” le differenze e le difficoltàbisogna innanzitutto dire che il primo rischio cheuna scuola inclusiva deve saper evitare è proprioquello di trasformare differenze (di stile cognitivoe di intelligenza, ad esempio, in sè non dannoseo ostacolanti per l’alunno) in reali difficoltà diapprendimento, non consentendo a quell’alunnodi usare il suo stile o la sua inclinazione,forzandolo a modalità, materiali e codici per luimeno immediati, costruendo monoculture esclu­sivamente linguistiche o logico­matematiche,reprimendo altri linguaggi e modi di analisi dellarealtà. Una difficoltà diventa direttamente unvalore didattico se l’alunno che la presenta vienemesso in interazione ben strutturata con gli altrialunni, e qui il riferimento obbligato è alle varieprocedure di apprendimento cooperativo e ditutoring e, più in generale, alle strategieeducative e didattiche mediate dai pari. Ma unaltro punto legato alla valorizzazione delladiversità deve essere affrontato a fondo: quantola scuola è in grado di documentare, affermare efare leadership culturale sul fatto che l’ap­partenenza totale e la partecipazione piena eattiva di tutti gli alunni con bisogni educativispeciali porta vantaggi tangibili a tutti gli alunni,agli insegnanti e alla comunità scolastica nel suocomplesso? Come sosterrà la scuola i vantaggiportati dall’inclusione sulla didattica e i risultatiapprenditivi, sulle relazioni e i climi di classe,sulle dotazioni tecnologiche, sulla formazionedegli insegnanti, sulla flessibilità organizzativa,sui rapporti con le famiglie e con il territorio,ecc.? Crediamo che la grande partita di unascuola profondamente inclusiva vada giocataanche sui temi della ricchezza concretamente

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3 Lo strumento ha subito nel corso degli anni ripensamenti e revisioni. Oggi ne abbiamo anche una versione per la valutazione

delle difficoltà di bambini e adolescenti: ICF­CY del 2007.

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prodotta per tutti i giocatori, non solo per quellipiù deboli (pena il rischio pietismo e buonismo),contrastando la sensazione che la scuola siacaricata di sempre più pesanti oneri e obblighi,di pesi da portare malvolentieri e con difficoltà.

5. L’inclusione scolastica “in pratica”Nella scuola italiana si è aperto un lungo

dibattito in merito all’inclusività, citata nelleultime direttive e note ministeriali relative ai BES(direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 suglialunni BES e la circolare n. 8 del 6 marzo 2012),nelle recenti Indicazioni nazionali e nelle relativenote di accompagnamento che la menzionano trale tematiche trasversali.

La ricca documentazione ministeriale siintreccia con gli aspetti concettuali e pone unanuova e interessante ricerca su come raggiun­gere una didattica inclusiva, che riconosca evalorizzi le differenze di tutti in modo efficace edefficiente (Ianes, Cramerotti, 2013).

Molte volte si cade nel tremendo errore diconfondere i mezzi con i fini, ovvero di tradurre ilbisogno speciale in procedure burocratiche chesegnalano solo sulla carta “obbiettivi ideali”,senza una procedura didattica realmenteapplicabile.

Ma che cos’è una didattica inclusiva? Unadidattica inclusiva muove da valori di equità eresponsabilità, fa capo a tutti i docenti e nonsoltanto agli insegnanti di sostegno, ed è rivolta atutti gli alunni, non soltanto agli alunni indifficoltà.

Tutta l’équipe insegnante deve essere in gradodi programmare e declinare la propria disciplinain modo inclusivo, adottando una didatticacreativa, adattiva, flessibile e il più possibilevicina alla realtà. Questo comporta il supera­mento di ogni rigidità metodologica e l’apertura auna relazione dialogica/affettiva, che garantiscala comprensione del bisogno e l’attuazione dirisposte funzionali.

Da un documento elaborato dalla EuropeanAgency for Development in Special NeedsEducation – Profilo dei docenti inclusivi, 2012 –vengono delineati quattro valori di riferimentoche delineano il profilo del docente inclusivo:

­ valutare la diversità degli alunni: la diffe­renza tra gli alunni è una risorsa e unaricchezza;

­ sostenere gli alunni: i docenti devono colti­vare aspettative alte sul successo scolastico deglistudenti;

­ lavorare con gli altri: la collaborazione e il

lavoro di gruppo sono approcci essenziali pertutti i docenti;

­ garantire l'aggiornamento professionale con­tinuo: l’insegnamento è un’attività di appren­dimento e i docenti hanno la responsabilità delproprio apprendimento permanente per tuttol’arco della vita.

Nel passato il bisogno educativo è statotroppo spesso medicalizzato e relegato esclu­sivamente alle figure specializzate, così anche ladidattica, resa speciale, diveniva un assem­blaggio di strategie educative indirizzate al casospecifico.

La didattica inclusiva, al contrario, è ladidattica di tutti, che si declina alla perso­nalizzazione e all’individualizzazione attraversometodologie attive, partecipative, costruttive eaffettive.

La qualità della didattica inclusiva èdeterminata dalla riflessività e dall’intenzionalitàeducativa, dalla ricerca delle motivazioni e delleipotesi alternative, dalla capacità di cambiare leprospettive di significato e di produrre appren­dimento trasformativo.

Si fonda sull’apprendimento cooperativometacognitivo ed è caratterizzata da unamodalità di gestione democratica della classe,centrata sulla cooperazione, sulla riflessione suicomportamenti agiti, sull’interdipendenza posi­tiva dei ruoli e sull’uguaglianza delle opportunitàdi successo formativo per tutti.

L’idea di gruppo educativo (Contini, 2007)diventa la soluzione intorno alla quale si gioca ilprocesso di apprendimento e di costruzione dicompetenze degli alunni di una classe: nessuncontenuto didattico, nessuna competenzaevolutiva o adattiva ha maggior possibilità diessere appresa in modo efficace di quanto nonaccada quando viene vissuta all’interno diun’esperienza tra pari.

Ciò accade perché i linguaggi degli alunnisono tra loro simili, perché gli elementi disemplificazione e concettualizzazione in possessodei ragazzi raggiungono livelli di completezza esintesi che gli adulti fanno fatica a ottenere;perché il bisogno di essere insieme nel processodi crescita e identificazione funge da stimolocontinuo, promuove condivisione e co­riflessionedegli obiettivi, mette a disposizione quella som­mativa di risorse e codici che un solo docentefarebbe fatica a reperire.

L’obiettivo della didattica inclusiva è farraggiungere a tutti gli alunni il massimo gradopossibile di apprendimento e partecipazione so­

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ciale, valorizzando le differenze presenti nelgruppo classe: tutte le differenze, non solo quellepiù visibili e marcate dell’alunno con un deficit ocon un disturbo specifico (Chiappetta Cajola,Ciraci, 2013; Milito, 2013).

Le differenze sono alla base dell’azionedidattica inclusiva e, come tali, non riguardanosoltanto le differenze degli alunni, ma anchequelle negli stili di insegnamento dei docenti.Come gli alunni non imparano tutti nello stessomodo, così gli insegnanti non insegnano con lostesso stile. Nella prospettiva della didatticainclusiva, le differenze non vengono solo accolte,ma anche stimolate, valorizzate, utilizzate nelleattività quotidiane per lavorare insieme ecrescere come singoli e come gruppo (Vasquez,Oury, 2011).

L’inclusione, quindi, non è un processo cheprevede l’adattamento di una parte al tutto, main cui ciascuno può giovarsi del tutto perrispondere ai propri bisogni, per migliorare ilproprio livello di relazione con la realtàcircostante. Non occorre fare altro, ma farlo inaltro modo con la consapevolezza che l’alunnodisabile necessita di essere riconosciuto perquegli elementi di specificità che lo carat­terizzano, ma soprattutto per la normalità delfondamentale bisogno di educazione e forma­zione che è uguale per tutti.

In questa ottica è importante che insegnantidi sostegno e insegnanti curricolari lavorinoinsieme in maniera da poter selezionare obiettivi,contenuti e attività che possano essere scanditisecondo livelli di difficoltà e che si pongano comefinalità quelle di seguito elencate.

1. Creare un clima inclusivo. La condizioneimprescindibile per realizzare progetti inclusivi èche il bambino in difficoltà e/o disabile si sentaaccolto nella classe, poiché se si sente accolto eincoraggiato, valorizzato e integrato nel gruppoclasse, allora è nelle condizioni di sviluppare almeglio anche la propria dimensione cognitiva(D’Alonzo, 2012).

2. Utilizzare metodi di insegnamento diversi.Gli insegnanti non devono chiudersi in modelli diinsegnamento preconfezionati, ma aprirsi allasperimentazione per meglio rispondere ai bisognidei bambini, soprattutto in difficoltà. In presenzadi bambini in difficoltà diventa utile fare ricorso ametodi quali il cooperative learning, il tutoring, ilpeer teaching (La Prova, 2008; Dreyer, Harder,2012; Ianes, 2013). L’apprendimento cooperativoè un metodo di insegnamento/apprendimentobasato sul principio per cui ciascun componente

del gruppo, con le sue caratteristiche peculiari especiali, può contribuire all’apprendimento ditutti e può diventare risorsa – e strumento com­pensativo – per gli altri.

Il tutoring è un’altra modalità di aiuto chepermette di utilizzare in modo efficace la risorsa­altri, cioè l’insegnamento reciproco tra alunni,che può essere funzionale in molte discipline eha effetti positivi – in termini di apprendimento,di rapporti interpersonali, di motivazione eautostima – sia in chi svolge il ruolo di inse­gnante (tutor), sia in chi è il destinatariodell’insegnamento (tutee).

Il peer teaching è un metodo che consente aglialunni di collaborare tra loro permettendo aquelli che possiedono maggiori competenze dimetterle a disposizione degli altri (Caccimani,Giannandrea, 2007).

3. Adeguare gli obiettivi del bambino indifficoltà a quelli della classe e viceversa.L’adeguamento del percorso didattico delbambino in difficoltà a quello della classerappresenta una buona occasione, per gliinsegnanti, per riflettere su quale modellodidattico utilizzare per agevolare il processoinclusivo. Muovendo da un obiettivo curricolarestandard destinato a tutti gli alunni è possibileavviare un percorso di adattamento che prevede,a seconda della possibilità di accesso allo stesso,varie possibilità: sostituzione, facilitazione,semplificazione, la scomposizione nei nucleifondanti, la partecipazione alla cultura delcompito. In base alla gravità del deficit, i docentipossono scegliere il livello di semplificazione degliobiettivi che reputano più idoneo per l’alunnodisabile. È evidente che in un’ottica inclusiva èimportante che anche gli obiettivi della classesiano adeguati a quelli del bambino disabile.Naturalmente non si tratta di chiedere a unbambino di quinta elementare di ritornare aripetere l’alfabeto, ma di cercare tutte leoccasioni possibili per avvicinarsi al lavoro delbambino in difficoltà. Se, per esempio, unbambino sta lavorando sulla discriminazione deicolori, si possono programmare delle lezioni sullospettro solare e i colori dell’iride; se sta impa­rando la successione dei numeri servendosi dellaretta numerica, la classe può lavorare sugli assicartesiani che, in fondo, non sono altro che duerette numeriche perpendicolari.

4. Semplificare e organizzare i materiali distudio. Le modalità di adattamento dei materialidi studio alle esigenze degli alunni in difficoltàsono molteplici e ciascuna di esse risponde a un

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bisogno educativo particolare. È possibile farericorso a materiale strutturato facilmente repe­ribile presso distributori specializzati, oppure amateriali non strutturati (es. cartelloni, sem­plificazione dei libri di testo, ecc.), semplificandoe organizzando i materiali della classe. Èpossibile ricorrere a mappe (concettuali, mentali,ecc.) (Buzan, T., Buzan, B., 2010; Novak, 2012) ea schemi in grado di rendere più veloce edefficace l’apprendimento, favorire il recupero diinformazioni durante le verifiche scritte e orali,aiutare a fare collegamenti logici, a ricavareparole­chiave e concetti fondamentali e aordinare la presentazione degli argomenti.

5. Differenziare la mediazione didattica.Utilizzare modalità diverse di presentazione deicontenuti costituisce sicuramente uno dei nume­rosi tentativi che l’insegnante può realizzare permigliorare le condizioni dell’apprendimento.Queste diverse modalità vengono denominate inletteratura come “mediatori didattici”: ossia tuttociò che l’insegnante intenzionalmente mette inatto per favorire l’apprendimento degli alunni.Elio Damiano (2013) parla di quattro tipi dimediatori: attivi, iconici, analogici, simbolici. Ilricorso a modalità alternative di presentazionedei contenuti è una operazione sicuramentenecessaria per l’insegnamento di tutte lediscipline e per tutti gli alunni (in quanto rende ilclima della classe meno monotono e rispettamaggiormente gli stili cognitivi di ciascuno), mase nella classe sono inseriti alunni con problemi,essa diventa assolutamente indispensabile.

6. Prestare attenzione ai processimetacognitivi e ai metodi di studio. La didatticametacognitiva sviluppa nell’alunno laconsapevolezza di quello che sta facendo, delperché lo fa, di quando è opportuno farlo e inquali condizioni, rendendolo gestore diretto deipropri processi cognitivi. Rappresenta le basi diun metodo di studio efficace. L’approcciometacognitivo consente agli insegnanti di nonseparare rigidamente gli interventi di recupero osostegno individualizzato dalla didattica curri­colare, perché si fonda su un riferimentometodologico comune (la metacognizione e lestrategie cognitive) e utilizza una serie di colle­gamenti operativi tra insegnamento curricolare especiale e tra gli alunni stessi (tecniche diinsegnamento reciproco, apprendimento coope­rativo e tutoring).

7. Valorizzare le emozioni, l’autostima e lamotivazione. Grande importanza deve essere pre­stata, soprattutto nei primi giorni di frequenza

scolastica, all’accoglienza del bambino, in mododa curare la costruzione delle prime relazioni.Solo se il bambino le vive bene svilupperà unatteggiamento positivo verso questo nuovo“mondo”. La vita scolastica quotidiana è ricca diaffettività, di emozioni e di stati d’animo: inclasse ci si relaziona con i compagni, si colla­bora, ci si scontra, si discute, si stringonoamicizie, ecc. Realizzare una scuola inclusivasignifica anche rivolgere particolare attenzioneagli aspetti emotivo­relazionali, aiutando tutti glialunni a imparare a vivere bene con se stessi econ gli altri, sviluppando una buona immagine disé, migliorando la propria autostima, il propriobenessere emotivo e le proprie capacità rela­zionali (Mariani, Schiralli, 2012; Barber, 2013).

Quelli presentati sono solo alcuni degli aspettiche, se seguiti, possono favorire lo sviluppo e ilconsolidamento di processi di accoglienza,attenzione e risposta ai bisogni dei bambini indifficoltà, favorendo l’attuazione di un realeprocesso inclusivo. Ogni scuola, infatti, è unascuola inclusiva se “pensa” e “progetta” tenendoa mente tutti; è una scuola che, come diceCanevaro (2015), non si muove sempre nell’e­mergenza, in risposta cioè al bisogno di unalunno con delle specificità che si differenzianoda quelle della maggioranza. Una scuola in­clusiva è una scuola che si muove sul binario delmiglioramento organizzativo, perché nessunalunno sia sentito come non appartenente, nonpensato e quindi non accolto.

Percorso di lettura

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Percorso di lettura

Bibliografia

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Supplemento alla Rassegna bibliografica 3/2014

Percorso di lettura

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Supplemento alla Rassegna bibliografica 3/2014

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Percorso filmografico

Cinema e disabilità

Marco Dalla Gassa, docente di Storia e critica del cinemapresso l'Università Ca' Foscari di Venezia

Quando si affronta il tema della disabilità èsempre opportuno fare molta attenzione allaterminologia che si intende utilizzare, poiché inquest'ambito, ben più che in altri, la scelta delleparole indica inevitabilmente una forma mentis.«Chi parla male pensa male e vive male!» urlavaal colmo della frustrazione Nanni Moretti allasfortunata intervistatrice, colpevole di usare frasifatte e termini come kitch e cheap, nell'indi­menticabile Palombella rossa (Italia, 1989). Ineffetti non sfugge a un'analisi anche piuttostosuperficiale come le definizioni che si sonoevolute nel corso degli anni indichino, a volteaddirittura veicolandoli, dei profondicambiamenti del punto di vista nei confrontidella disabilità. Così, gli individui che fino aglianni ’80 rientravano nella categoria degli“handicappati”, all'inizio degli anni ’90 sonodiventati “portatori di handicap” e poco più tardi“persone con handicap”; è evidente come ilpassaggio dalla prima all'ultima definizione porticon sé un dirompente cambio di paradigma, maè dal 2001, dopo la pubblicazione da partedell'Organizzazione mondiale della sanità dell'ICF(Classificazione internazionale del funziona­mento) che il salto diventa ancora più radicale:l'handicap non è più una caratteristica legataalla persona, ma nasce dall'interazione tra quellapersona e l'ambiente circostante, che deve quindiattrezzarsi per eliminare gli ostacoli all'acces­sibilità e all'inclusione. Si arriva così alladefinizione “persone con disabilità”, da preferiredecisamente all'etichetta “disabili” o all'equivoco“diversamente abili”, anomalia buonista tipica­mente italiana rifiutata con decisione dallacomunità scientifica internazionale e anche dallamaggior parte delle associazioni del settore.

Fatta questa necessaria premessa, èinteressante notare come la rappresentazionesullo schermo delle persone con disabilità,soprattutto i minori di età, si sia evoluta quasi inparallelo rispetto agli stravolgimenti lessicalisopra descritti.

Volendo cercare, esplorando la storia delcinema, esempi di film che abbianorappresentato con efficacia la diversità e ladisabilità, probabilmente il primo titolo che vienein mente è lo straordinario Freaks di TodBrowning (USA, 1932): qui, per la prima volta, ilmondo dei “fenomeni da baraccone” veniva postoal centro dell'inquadratura con una forzadirompente che ancora oggi stupisce e“disturba”. Ambientata all'interno di un circo, lavicenda mostra la cerchia impenetrabile degliesclusi e dei reietti, degli “scarti” della società,che dapprima accoglie con benevolenza l'ingressodella bellissima Cleopatra, poi, scoperto il suosecondo fine, la condanna alla deformità.Occorre però saltare al secondo dopoguerra pertrovare nel celebre Il ragazzo dai capelli verdi(Losey, USA, 1948) una rappresentazione efficacedella diversità legata all'infanzia; ben lontanoancora dall'ambito della disabilità, il film diLosey attraverso la metafora della difformitàcromatica – il giovane protagonista ha effetti­vamente i capelli verdi – pone l'accento sulladifficile condizione degli orfani di guerra,raccontando non tanto la fragile situazionefamiliare quanto piuttosto le enormi difficoltà diinserimento nella scuola e di accettazione daparte dei coetanei. Ma è dagli anni '60 che,parallelamente ai ben noti stravolgimenti sociali,il cinema comincia a interrogarsi sulla rappre­sentazione della disabilità e sulle responsabilitàdella società nei confronti degli individui condisabilità, vivendo, in uno spazio di tempopiuttosto breve, il passaggio dall'illusione alladisillusione. Identificando in Anna dei miracoli diArthur Penn (USA, 1962) il primo capitolo, con ilracconto profondamente venato di fiduciaprogressista di un'istitutrice che riesce a rico­struire le facoltà associative di una bambina sordo­cieca, è evidente come già con Il ragazzo selvaggio(Truffaut, Francia, 1970) il tono sia molto menoottimistico nella rappresentazione di una

2. La scoperta della diversità1.Le parole sono importanti!

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Percorso filmografico

situazione di profonda crisi che investe gli ambitiprofessionali connessi con il diverso funzionale.In un’ideale staffetta perdente, l'educatore delfilm di Truffaut lascia il testimone allo psicologoprotagonista di Family Life di Loach (RegnoUnito, 1971) che a sua volta cede lo scettro alsacerdote de L'esorcista (Friedkin, USA, 1973), incui gli elementi problematici della diversitàvengono ingigantiti in una metafora horror chenon ammette vincitori. La sconfitta, si badi bene,nei film citati, così come in molti altri, non è maicausata dall'incapacità o dall'impreparazionedelle categorie professionali preposte a rappor­tarsi con i soggetti in difficoltà; essa è piuttosto ilgrave sintomo di un cronico ritardo della societàcivile nel costruire alfabeti comuni che superinobarriere, diffidenze, incomprensioni.

A partire da questo status quo si evidenziano,negli anni successivi, una serie di filonid'indagine, di tendenze narrative distinte che èopportuno isolare per comprenderne meglio lecaratteristiche.

3. Gli alfabeti alternativiIl complesso a volte esclusivo alfabeto creato

dalla diversità, le forme di comunicazioneparallele o alternative rispetto a quelle della“normalità”, sono al centro di alcuni film dinotevole interesse. Akira Kurosawa con il suoDodes'ka­Den (Giappone, 1970), propone unarappresentazione onirica di un gruppo didisadattati, di reietti, di emarginati, tra i quali, inun intreccio di storie e di vite che si incontrano,spicca la figura del ragazzo­tramviere: si tratta diun vero e proprio prototipo del soggetto conautismo, una specie di Rain Man ante litteram,che nella ripetizione meticolosa e ossessiva digesti e parole (il dodes'ka­den del titolo non èaltro che il suono onomatopeico delle ruote deltram sui binari) trova un proprio sistema dicomunicazione con il mondo esterno, inparticolare con la madre, impegnata a sua voltanella ripetizione monocorde di un mantrabuddista. Se quello rappresentato da Kurosawa èun incontro casuale, cercato e voluto è invecequello tra l'insegnante di scuola materna Robertoe il piccolo Gianluigi, un bambino con disturbicomportamentali, in Chiedo asilo (Ferreri,Italia/Francia, 1979) o la scoperta, primacasuale poi sempre più articolata, di un canale dicomunicazione attraverso il piede sinistro, unicaparte del corpo che la protagonista può muovere,scoperto dall'umile serva in Gaby una storia vera

(Mandoki, USA/Messico, 1987). Questi filmsuggeriscono e incoraggiano la ricerca di forme dicomunicazione alternative, ribaltando il paradig­ma che vede la persona disabile come soggettoincapace di entrare in relazione con il mondoesterno; è piuttosto il mondo esterno che deve,attraverso intuizioni, ricerche e fallimenti,trovare la via giusta, decifrare l'alfabeto dell'altro.

L'ambito della comunicazione, alla base diuna buona ed efficace relazione, si concretizza inmaniera preponderante attraverso la dimensioneverbale. Sono dunque di particolare interesse ifilm che rappresentano la disabilità uditiva,l'ambito dei non­udenti e degli ipo­udenti che peranni, a causa di un banale equivoco, eranoetichettati come “sordo­muti” e spesso conside­rati affetti da ritardo nello sviluppo cognitivo. Trai numerosi film che hanno posto al centro dellavicenda bambini e adulti sordi o ipo­udentivanno certamente segnalati Dove siete? Io sonoqui (Cavani, Italia, 1993) in cui un ragazzo e unaragazza entrambi non­udenti, ma di estrazionesociale molto diversa, si innamorano e la lorounione, pur tra difficoltà e prove, consente aentrambi di uscire da una situazione socialmentemarginale; nel recentissimo successo La famigliaBélier (Lartigau, Francia, 2014), invece, ilconcetto di inclusione viene ribaltato: Paula, laprotagonista, unica udente in una famiglia disordi, scopre la propria vocazione per il canto ecerca di far accettare la cosa ai genitori i quali,incapaci di sentire la sua voce, vivono leaspirazioni della ragazza come un tradimento dei“codici familiari”; nell'inevitabile lieto fine, infondo si tratta di una commedia, la famiglia“legge” sul volto di chi ascolta il canto di Paula ilsuo talento straordinario e ne comprende ilpotenziale. Qualche anno prima una storia moltosimile era stata raccontata in Al di là del silenzio(Link, Germania, 1996), con la giovane protago­nista, figlia di genitori sordi, che intraprende lacarriera di clarinettista.

Più rigorosi, grazie all'utilizzo di un tagliodocumentaristico, sono poi Nel paese dei sordi(Philibert, Francia, 1992), che ripercorrestoricamente la vicenda delle persone affette dadisturbi uditivi, dapprima, come accennato,rinchiusi nei manicomi poi, lentamente egradualmente, riabilitati socialmente sino aconquistare la giusta autonomia e indipendenza;o il recente L'isola dei sordobimbi (Cattini, Italia,2010) che documenta il lavoro di un istitutoscolastico della campagna modenese nel quale

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l'attenzione all'inclusione degli alunni non­udentiè condotta con dedizione amorevole e porta arisultati straordinari.

4. Bambini e disabili: linguaggi in comuneQuello che emerge in molti film che

raccontano le vicende di persone con disabilità ele loro difficoltà di comunicazione e inserimentoall'interno del contesto sociale, è una specie diinnata predisposizione all'incontro da parte deibambini. Laddove gli adulti, anche i piùprofessionali, preparati e disponibili, falliscono oarrancano a tentativi, i più piccoli possonoraggiungere obiettivi apparentemente impensa­bili. In effetti la comunicazione della primainfanzia, diretta, spontanea e libera da tutta unaserie di pregiudizi e sovrastrutture mentali,spesso può diventare un canale privilegiato pergarantire la ricchezza dell’incontro. Si pensi adesempio al classico Il buio oltre la siepe (Mulligan,USA, 1962), tratto dal celebre romanzo di HarperLee, in cui i due figli dell'avvocato Finch sono leuniche persone in grado di entrare in contatto ein relazione, seppur indiretta, con il vicino Boo,un malato di mente di fatto auto­recluso inquella che viene chiamata “la casa maledetta”; ècertamente una curiosità morbosa quella chespinge i due bambini ad avvicinarsi alla casa, maquesta curiosità veicola una disposizioneall'incontro che Boo è perfettamente in grado dicapire e apprezzare, fino a salvarli in unmomento di estremo pericolo. Un incontro simileè quello raccontato in Lama tagliente (USA,1996), scritto, diretto e interpretato da Billy BobThornton, in cui un adulto con un grave ritardomentale e dal passato infelice si trova a fareamicizia con un bambino; il loro rapporto diventatalmente forte da portare il piccolo protagonista ainsistere con la madre per accogliere nella lorocasa il suo sfortunato amico. Si verifica, quindi,una sorta di incontro tra pari: non certo perché ilbambino abbia difficoltà di apprendimento,quanto piuttosto perché il codice linguistico ecomportamentale dell'adulto, del tutto diverso daquello “normale” degli adulti “normali”, risulta diun'immediatezza e di una spontaneità (banaliz­zando si potrebbe utilizzare il termine “semplici­tà”) che il piccolo protagonista può comprenderee condividere. Le cose si complicano, ovviamente,quando il normale sviluppo cognitivo del bam­bino lo porta a superare quei codici condivisi,come racconta in modo toccante Mi chiamo Sam(Nelson, USA, 2001): Lucy è una bambina di 7anni che vive con il padre affetto da ritardo

mentale e che si ritrova gradualmente asviluppare capacità intellettive che superanoquelle del genitore; la vicenda ben presto sitrasferisce nelle aule dei tribunali a cui Sam,questo il nome del padre, si rivolge perrivendicare il proprio diritto alla genitorialitàdopo che gli assistenti sociali hanno deciso diaffidare la bambina a un'altra famiglia più“adeguata”. Anche in questo caso il rassicurantehappy end non stempera la criticità e lacomplessità del tema, che qui arriva acoinvolgere ben altre istituzioni oltre a quellafamiliare, aprendo una voragine sul tema deidiritti e doveri delle persone con disabilità.

5. La sofferenza e la rabbia del sentirsi diversiMalgrado i significativi passi compiuti negli

ultimi anni in direzione di una sempre maggioreinclusione delle persone con disabilità, è evidentecome la condizione di gran parte di questiindividui sia ancora estremamente svantaggiata,sia per ragioni che concernono l'interiorità (ilsentirsi “diversi” dalla norma), sia per quelle cheriguardano il rapporto con gli altri e il ruoloall'interno del contesto sociale. Sono molti,dunque, i film che, spesso partendo da storievere, mettono in scena la rabbia, la frustrazionee la sofferenza di chi si sente diverso ediscriminato. Si può partire idealmente dalcapolavoro di David Lynch The elephant man(Gran Bretagna/USA, 1980), adattamentodell'omonimo libro biografico del dottor Treves;nell'Inghilterra Vittoriana si ripercorre la vicendatragica di un uomo affetto da una rarissimadeformazione al volto, trattato prima comefenomeno da baraccone, poi come oggetto distudi scientifici, poi ancora rapito dal suosfruttatore, fino all'unico e definitivo gesto diautodeterminazione: lasciarsi morire per soffo­camento. La deformità, qui associata, comespesso accadeva, a una diagnosi di ritardomentale attraverso un rapporto causa­effettotutt'altro che scientifico, diventa metafora esimbolo della “diversità”. Una diversità evidente,inevitabile, insormontabile, innegabile che portaa due tipi di reazione differenti ma ugualmenteinadeguate: da una parte c'è il rifiuto, che nonrinuncia tuttavia alla curiosità morbosa, delvoler guardare il “mostro”; dall'altra c'èl'interesse, prettamente scientifico e freddo, delvoler osservare a scopo di studio. In entrambi icasi è escluso il tentativo di instaurare unarelazione “normale”, e l'appello disperato delprotagonista «Non sono un animale! Sono un

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essere umano!» cade inascoltato.La stessa situazione di estrema difficoltà si

ritrova in Dietro la maschera (Bogdanovich, USA,1985) in cui, ancora partendo da uno spuntobiografico, viene raccontata una storia moltosimile. Qui Rocky, questo il nome del protago­nista, è un adolescente affetto da una raradeformazione del volto che, per sfuggire da unasituazione scolastica di ghettizzazione, decide ditrascorrere l'estate facendo volontariato in uncentro per non­vedenti; si innamora, ricambiato,di una ragazza cieca che non dà alcun peso alsuo aspetto fisico, ma i genitori di lei ostacolanola relazione fino a traslocare dalla città. Anche inquesto caso l'epilogo, con la morte prematura delragazzo, non lascia spazio a soluzioni positive oassolutorie nei confronti di un contesto socialeancora incapace (il film è ambientato alla finedegli anni ’70) di accettare e accogliere ladiversità. In Edward mani di forbice (USA, 1990)Tim Burton trasferisce il tema nella dimensionefiabesca, raccontando di una strana creaturaartificiale perfettamente simile agli uomini, madotata di lame al posto delle dita; è interessantenotare come, anche in questo caso, alladifformità fisica si associ ancora una voltal'inferiorità mentale, morale e sociale. In realtàEdward, in un affresco che non ammette sfuma­ture, incarna tutti i valori sociali positivi, eproprio in quanto dotato di una purezza e di unatrasparenza cristalline, non riesce a inserirsi.Una situazione simile, ma trasferita nella chiusae ristretta provincia statunitense, è quella nellaquale si muovono i protagonisti di Buon comple­anno Mr. Grape (Hallstrom, USA, 1993); qui lafamiglia “disfunzionale”, composta da madrevedova obesa e asociale, figlio minore con ritardomentale e figli maggiori oberati dalle respon­sabilità, non può che concludersi con la fugaverso un altrove in cui ricominciare da capo.

Oltre alla frustrazione del “diverso”, come ciricorda il film di Hallstrom, non va trascuratol'enorme peso di cui spesso i familiari devonofarsi carico. Un vero e proprio fardello sociale chenon sempre è frutto di una scelta consapevole: seper i genitori, infatti, l'assistenza diventa una“vocazione di vita”, anche se numerosi sono i casidi separazione e divorzio causati proprio dallapresenza di figli con disabilità, il ruolo dei fratelli,per troppi anni trascurato, presenta problema­tiche estremamente complesse. La vicenda delfilm di Saverio Costanzo La solitudine dei numeriprimi (Italia, 2010), basato sul best seller delloscrittore Paolo Giordano, prende le mosse

dall'abbandono, da parte di un bambino a cuiera stata affidata, della sorella con autismo, laquale, incapace di cavarsela da sola in un parcopubblico sull'argine del fiume Po, muore perannegamento. Questo trauma infantilecondiziona la vita e il comportamento del ragazzoche, soggetto a frequenti e gravi episodi diautolesionismo, riesce infine a costruire unafaticosa e complicata relazione solo con unacompagna affetta da una vistosa disabilità fisica.L'incontro tra le due “diversità”, pur in unequilibrio delicato e instabile, sembra esserel'unica via d'uscita da una situazione diisolamento in parte auto­imposto. E in effetti è lostesso tipo di incontro che, con un tonototalmente diverso, emerge in Quasi amici(Nakache, Toledano, Francia, 2011). Questacommedia, campione d'incassi nel 2012 e trattada un romanzo autobiografico, riesce nel difficilecompito di coniugare divertimento e riflessionesenza mai cadere nella demagogia o nellaretorica. L'incontro tra Philippe, tetraplegico diambiente altoborghese, e Driss, immigrato dellabanlieue parigina cui viene affidato il compito diassistenza, è la sintesi perfetta di due storie ditotale ghettizzazione costrette a incontrarsi e aconfrontarsi; tra un'infinità di spunti comiciirresistibili, l'analisi viene condotta in manieratutt'altro che banale, con i due uomini­etichettadecisi a scavalcare e distruggere tutte leconvenzioni sociali che vorrebbero imprigionarliin gabbie distinte e chiuse.

6. Abili­disabili: alle radici del luogo comuneLa corsia preferenziale attraverso cui passa

una difficile possibilità di inclusione dellepersone con disabilità, in linea con il concettoambiguo e pericoloso della “diversa abilità”,parrebbe essere lo sviluppo, tanto ipoteticoquanto soggettivo, di capacità altre. È unatendenza, questa, che a ben guardare va oltre ilclassico luogo comune del cieco capace disviluppare il senso dell'udito, del tatto e dell'ol­fatto, quasi che ne derivassero straordinarisuper­poteri, ma che, di luogo comune in luogocomune, finisce per avvolgere lo spettro di quasitutte le disabilità. In questo, bisogna proprioammetterlo, il cinema gioca e ha giocato un ruolofondamentale, con gravi responsabilità nellacreazione di un immaginario collettivo un po'deviato. Al di là degli innegabili meriti artistici,film come Forrest Gump (Zemeckis, USA, 1994) oShine (Hicks, Australia, 1994), nel loro tentativo,che non è esagerato definire mitopoietico, di

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descrizione di personaggi ai margini, disadattatio fortemente penalizzati da ritardi mentali odisabilità fisiche, hanno scoperchiato grazie allaloro forza narrativa tematiche nascoste oignorate, ponendole al centro del dibattito socia­le. Sarebbe stupido pretendere da un film diintrattenimento un livello di approfondimento euna complessità che, per sua natura, non puòpossedere; tuttavia non si può non riscontrarecome il successo di alcune pellicole abbiafortemente condizionato l'approccio generale neiconfronti della disabilità, portandosi dietro unaproblematizzazione estremamente parziale esuperficiale, basata più sull'emozione che sulragionamento.

In questo senso, forse il vero esempio epocale èquello rappresentato da Rain man ­ L'uomo dellapioggia (Levinson, USA, 1988). Si tratta del primofilm in assoluto che abbia affrontato il temadell'autismo (o degli autismi, come sarebbe piùcorretto dire), già studiato in psichiatria a partiredagli anni ’70 ma sempre ignorato dal grande

schermo. All'epoca in cui uscì ebbe una visibilità eun successo tali, grazie anche all'interpretazionedelle due superstar Dustin Hoffman (Oscar per lamigliore interpretazione maschile) e Tom Cruise,da rendere immediatamente attuale il tipo dimalattia che veniva raccontato. Cavalcato dalleassociazioni di tutto il mondo che si occupavano,nell'ombra fino a quel momento, di autismo, ilfilm è diventato il manifesto di quella “idioziageniale” che, da quel momento e per molti annisuccessivi, è stata indissolubilmente associata aquesto disturbo. Il fatto che tra i vari tipi diautismo quelli “ad alto funzionamento” (perutilizzare la definizione scientifica corretta) sianosolo una minuscola porzione, non è stato in alcunmodo preso in considerazione dall'opinionepubblica. Complice, è giusto farlo notare, la colpe­vole assenza di una comunicazione scientifico­medica incisiva e approfondita, il punto di vista,estremamente parziale e soggettivo, di un prodot­to di intrattenimento è entrato a far parte delpensiero comune.

Freaks, Tod Browning, USA 1932

Il ragazzo dai capelli verdi, Joseph Losey, USA 1948*

Anna dei miracoli, Arthur Penn, USA 1962*

Il buio oltre la siepe, Robert Mulligan, USA 1962*

Dodes'ka­Den, Akira Kurosawa, Giappone 1970*

Il ragazzo selvaggio, François Truffaut, Francia 1970*

Family life, Ken Loach, Regno Unito 1971*

L'esorcista, William Friedkin, USA 1973*

Chiedo asilo, Marco Ferreri, Italia/Francia 1979*

The elephant man, David Lynch, Gran Bretagna/USA

1980

Dietro la maschera, Peter Bogdanovich, USA 1985*

Gaby una storia vera, Luis Mandoki, USA/Messico 1987

Rain man ­ L'uomo della pioggia, Barry Levinson,

USA 1988

Palombella rossa, Nanni Moretti, Italia 1989

Edward mani di forbice, Tim Burton, USA 1990*

Nel paese dei sordi, Nicolas Philibert, Francia 1992

Buon compleanno Mr. Grape, Lasse Hallstrom,

USA 1993*

Dove siete? Io sono qui, Liliana Cavani, Italia 1993

Forrest Gump, Robert Zemeckis, USA 1994

Shine, Scott Hicks, Australia 1994*

Al di là del silenzio, Caroline Link, Germania 1996

Lama tagliente, Billy Bob Thornton, USA 1996*

Mi chiamo Sam, Jessie Nelson, USA 2001*

L'isola dei sordobimbi, Stefano Cattini, Italia 2010

La solitudine dei numeri primi, Saverio Costanzo,

Italia 2010*

Quasi amici, Olivier Nakache, Eric Toledano, Francia

2011

La famiglia Bélier, Eric Lartigau, Francia 2014

I film contrassegnati con asterisco sono disponibili presso la Biblioteca Innocenti Library Alfredo Carlo Moro.

Filmografia

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In copertinaIl veliero di Sharon Green, 12 anni (Pinacoteca internazionale dell’età evolutiva Aldo Cibaldi delComune di Rezzato­ www.pinac.it)

Direttore responsabileAnna Maria Bertazzoni

Periodico trimestrale registrato presso il Tribunale di Firenze con n. 4963 del 15/05/2000

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