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5 a campione N.° 1 - 2012 Fatti e antefatti della camicia rossa di Garibaldi Sarà solo dopo le prime battaglie vit- toriose dell’Impresa dei Mille che la camicia rossa garibaldina diventerà anche simbolo di quanti auspicano un’Italia unita, indipendente, liberale e, per molti, repubblicana. In altre parole, un simbolo rivoluzionario rispetto ad un sistema di governo ancorato a regimi monarchici, più o meno assoluti. Fino ad allora rimase, però, un semplice capo di abbiglia- mento militare le cui origini risalgono ad alcuni decenni prima, sebbene, fin dall’inizio, rappresentasse un simbolo di libertà. Dopo la dichiarazione dell’indipen- denza uruguayana nel 1806, nello stesso Paese scoppia una guerra civile che si protrae fin dopo il 1848. Da una parte i latifondisti conserva- tori, legati alla monarchia spagnola, regolarmente al governo sotto il generale Oribe; dall’altra i ribelli progressisti, le cui fortune erano le- gate ai commerci, insofferenti delle tassazioni imposte, ritenute ecces- sive, guidati dal generale Rivera. L’esercito legittimo, che poi si allea con l’Argentina del generale Rosas, indossava una divisa bianca e blu. Anche i ribelli, data la stessa origi- ne, inizialmente vestivano uguale o quasi. Per distinguersi adottarono una casacca rossa. Si ebbero così l’esercito blancos e quello rojo e due Sulle camicie rosse di Garibaldi tra storia e manifattura Antonio Mauro e Piero Fiorenzani Occasione: le manifestazioni dei 150 anni dell’Unità Nazionale; gli autori, tecnologi tes- sili, si sono chiesti quale fosse stata la storia materiale e simbolica delle camicie rosse garibaldine. Nell’arco di diversi mesi hanno, pertanto, raccolto vari riferimenti anche con l’aiuto di amici e colleghi dell’Associazione Italiana di Chimica Tessile e Coloristica. Questo articolo nasce dal riordino di quanto è stato possibile disporre. E’ stata, così, tracciata una prima risposta, anche se non ancora del tutto esauriente. Le indicazioni riportate, per la limitatezza delle fonti, devono, perciò, essere intese solo come stesura di ipotesi verosimili. Esse dovranno essere confermate o rifor- mulate attraverso ulteriori ricerche di carattere storico militare, spazianti tra l’inizio dell’Ottocento e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Da sottolineare, poi, come vari riferimenti provengano da zone che oggi conosciamo come aree tessili. Piace, allora, immaginare una specie di collegamento, attraverso il tempo, tra queste aree e le locali sezioni dell’AICTC che hanno contribuito allo sviluppo di questa ricerca avente carattere propositivo come si dirà a conclusione del presente lavoro. Le camicie rosse garibaldine: antefatti e vicende storiche

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Fatti e antefatti della camicia rossa di Garibaldi

Sarà solo dopo le prime battaglie vit-toriose dell’Impresa dei Mille che la camicia rossa garibaldina diventerà anche simbolo di quanti auspicano un’Italia unita, indipendente, liberale e, per molti, repubblicana. In altre parole, un simbolo rivoluzionario rispetto ad un sistema di governo ancorato a regimi monarchici, più o meno assoluti. Fino ad allora rimase,

però, un semplice capo di abbiglia-mento militare le cui origini risalgono ad alcuni decenni prima, sebbene, fin dall’inizio, rappresentasse un simbolo di libertà.

Dopo la dichiarazione dell’indipen-denza uruguayana nel 1806, nello stesso Paese scoppia una guerra civile che si protrae fin dopo il 1848. Da una parte i latifondisti conserva-tori, legati alla monarchia spagnola, regolarmente al governo sotto il

generale Oribe; dall’altra i ribelli progressisti, le cui fortune erano le-gate ai commerci, insofferenti delle tassazioni imposte, ritenute ecces-sive, guidati dal generale Rivera. L’esercito legittimo, che poi si allea con l’Argentina del generale Rosas, indossava una divisa bianca e blu. Anche i ribelli, data la stessa origi-ne, inizialmente vestivano uguale o quasi. Per distinguersi adottarono una casacca rossa. Si ebbero così l’esercito blancos e quello rojo e due

Sulle camicie rosse di Garibaldi tra storia e manifatturaAntonio Mauro e Piero Fiorenzani

Occasione: le manifestazioni dei 150 anni dell’Unità Nazionale; gli autori, tecnologi tes-sili, si sono chiesti quale fosse stata la storia materiale e simbolica delle camicie rosse garibaldine. Nell’arco di diversi mesi hanno, pertanto, raccolto vari riferimenti anche con l’aiuto di amici e colleghi dell’Associazione Italiana di Chimica Tessile e Coloristica. Questo articolo nasce dal riordino di quanto è stato possibile disporre. E’ stata, così, tracciata una prima risposta, anche se non ancora del tutto esauriente. Le indicazioni riportate, per la limitatezza delle fonti, devono, perciò, essere intese solo come stesura di ipotesi verosimili. Esse dovranno essere confermate o rifor-mulate attraverso ulteriori ricerche di carattere storico militare, spazianti tra l’inizio dell’Ottocento e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Da sottolineare, poi, come vari riferimenti provengano da zone che oggi conosciamo come aree tessili. Piace, allora, immaginare una specie di collegamento, attraverso il tempo, tra queste aree e le locali sezioni dell’AICTC che hanno contribuito allo sviluppo di questa ricerca avente carattere propositivo come si dirà a conclusione del presente lavoro.

Le camicie rosse garibaldine: antefatti e vicende storiche

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la data è 1811
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partiti politici, dello stesso colore, tuttora esistenti e che all’epoca, poiché nessuno dei due riusciva a prevalere sull’altro, raggiunsero un’intesa ricordata dalla bandiera nazionale che unisce i colori delle due fazioni. La casacca rossa era, perciò, in quelle terre e in quel pe-riodo sinonimo di indipendenza poli-tica, libertà di commercio, autonomo sviluppo economico, una specie di trasposizione della rivoluzione francese. Garibaldi, all’epoca mazziniano con-vinto, già introdotto nella massone-ria e in esilio in quelle terre, sentiva come suoi questi principi. Sorretto da questi sentimenti, sostenne dal 1836 al 1840, come guerrigliero, la causa dei ribelli del Rio do Sul, una regione a cavallo tra Uruguay e Bra-sile, che aspiravano all’indipendenza dall’Impero Brasiliano. Anche in questo caso una leggenda, che forse esagera qualche cosa di vero, narra che le casacche rosse servissero a mimetizzare i ribelli rispetto al fondo rosso di certe aree delle pampas. Come in realtà ve-stisse Garibaldi in quell’epoca non è definibile, ma certo i poncho rosso, tipici dei rivoluzionari uruguayani, non dovevano essere sconosciuti. Quello che si sa, è che per quasi tutti quegli anni egli combatté come corsaro, lungo i fiumi, nelle lagune e sul mare del Brasile al confine con l’Uruguay e l’Argentina. Nel 1841, prevedendo la fine delle ostilità, egli lascia il Rio do Sul insieme alla com-pagna Anita, conosciuta due anni prima, per spostarsi a Montevideo. Qui, all’inizio, mantiene la famiglia insegnando e, dal 1842, mettendo-si al servizio dei ribelli uruguayani capeggiati sempre da Ribera che, ancora, combatteva contro Oribe ed il suo alleato Rosas. Nello stes-so anno sposa Anita cui regala un medaglione nel quale compare con la camicia rossa.

Sembrerebbe, secondo alcune fonti, che ad ispirare il modello della camicia rossa di Garibaldi sia stato il pittore mazziniano Gaetano Gallino, anch’egli esule in Sud Ame-

rica. Il pittore ebbe diversi contatti con lo stesso a partire dal 1841. Di quell’anno si ritiene sia un ritratto dell’Eroe, custodito al Museo del Ri-sorgimento di Genova, cui seguirono altri negli anni successivi. Del 1845 è un ritratto di Anita nel quale compare con il sopra citato medaglione. Una certa novellistica, diffusa dai biografi mazziniani a scopo propa-gandistico tra i fautori di un cambia-mento in senso liberale, fa risalire, si potrebbe dire, la nascita ufficiale della camicia rossa proprio al 1842 in Montevideo. Essa costituiva l’uni-forme della Legione Italiana, forma-zione di circa 500 volontari, capeg-giata da Garibaldi, che si distinse nei combattimenti per l’indipendenza di quella Nazione contro Oribe ed il suo alleato, il dittatore argentino Rosas. La fornitura, almeno quella iniziale, di queste camicie deriva, sempre secondo le biografie dell’epoca, da una particolare occasione di acqui-sto a basso prezzo. Si trattava di una fornitura uruguayana che non poteva essere consegnata ai macel-lai argentini che le avevano ordinate, causa la guerra in corso. Per quanto finora detto, non do-vrebbe stupire se, combattendo per la difesa di Montevideo, la camicia rossa fosse presa a simbolo di li-bertà; che tutta la Legione vestisse secondo un modello di divisa pro-babilmente ispirata dal Gallino; che, per un colpo di fortuna, fossero di-sponibili in primo approntamento le camicie rosse destinate ai macellai argentini.

Va e vieni delle camicie rosse durante le vicende del 1848 - 49

Quando dall’Italia arriva, nel 1848, la notizia delle sollevazioni e della relativa guerra all’Austria, Garibaldi si imbarca con 63 uomini della sua Legione alla volta di Genova. Quegli uomini indossavano, quasi tutti, la camicia rossa diventata simbolo, in Sud America, di combattenti per la libertà. Ma, nonostante gli entu-siasmi e la curiosità con cui furono accolti, Garibaldi ebbe difficoltà a

farsi accettare come soldato insieme ai suoi uomini, tanto più che quelle divise rosse, fuori ordinanza e sim-bolo rivoluzionario, non risultavano gradite al re e all’entourage militare dell’esercito piemontese. Garibaldi, che già prima di partire dall’America aveva avanzata la proposta, non accettata, di mettersi a disposizione di Pio IX, all’arrivo riceve analogo rifiuto da parte di Carlo Alberto; perciò va a combat-tere sul Lago Maggiore per conto del governo provvisorio milanese. Non potendosi approvvigionare di camicie rosse, fa indossare ai suoi uomini quelle bianche, sottratte dai casermaggi austriaci. In zona le vicende militari si conclu-dono in breve tempo per l’armistizio raggiunto fra il re e Radeztky. Ma, nel frattempo, Roma cade in mano agli insorti; il papa è costretto a fuggire ed il potere passa in mano al famoso triumvirato di Armellini, Saffi e Mazzini. Così, Garibaldi, il 24 ottobre giunge a Livorno con 72 uomini cui si aggiungono anche i 40 Lancieri comandati da Angelo Masini, su cui si tornerà nella parte finale di questo lavoro. Forte, poi, dell’arrivo anche di volontari lom-bardi, desiderosi di combattere alla difesa di Roma, passa il confine con lo Stato Pontificio. Attraverso la Ro-magna e le Marche, giunge a Rieti dove si fermerà settanta giorni per organizzare i volontari diventati, nel frattempo, oltre un migliaio. Questo corpo militare verrà inglobato come truppa regolare dalla Repubblica Romana e si chiamerà “Legione Ita-liana”. Ma le camicie rosse potranno essere indossate solo alla fine di quell’avventura romana. Le uniformi indossate dai Volontari si richia-mano ad un modello classico alla piemontese, costituito da tuniche di colore “turchino oscuro”, cioè grigio azzurro, con fregi verdi, pantaloni e giubba grigio nero. Lo zaino, nero e arrotolato sui tiranti, veniva portato su un cappotto grigio che, all’occor-renza, faceva da coperta. Avevano un costo di 6,50 scudi per la fanteria e 7 per la cavalleria. La relativa confezione, iniziata già a

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Macerata, fu completata a Rieti da 150 sarti ospitati presso il Palazzo Colelli dove Garibaldi aveva posto il suo Quartiere Generale. I Lancieri, che avevano cavalli pro-pri e che provenivano da famiglie abbienti, modificarono le uniformi con abbellimenti estemporanei se-condo i propri gusti. Gli ufficiali, poi, si distinguevano per la sciabola e a volte per un fazzoletto rosso portato al collo. Solo la “Famiglia Militare”, cioè lo stato maggiore di Garibal-di, compreso lo stesso Generale, portava invece la tunica rossa dei tempi di Montevideo, compreso il “lazo”, una lunga frusta di bufalo usata abilmente nei combattimenti ravvicinati.

Il 24 Aprile 1849 il generale francese Oudinot, sbarcato a Civitavecchia con 6.000 soldati e artiglierie, si mette subito in marcia verso Roma. Il 30 fu ingaggiata una prima batta-glia, ma i difensori di Roma ebbero la meglio. La Legione Italiana, sotto la guida di Garibaldi, attaccò alla baionetta i francesi respingendoli fino, di nuo-vo, a Civitavecchia. Nel frattempo anche il re di Napoli era entrato nello Stato Pontificio occupando le zone di confine. Garibaldi, la sua Legione e i bersaglieri lombardi di Luciano Manara li intercettarono a Palestrina il 9 maggio. In appena 2.400 uomini fermarono i circa 10.000 napoletani penetrando an-che in territorio nemico. Per l’onore raggiunto con queste due operazioni, i Garibaldini furono riconosciuti come la truppa di élite e il Generale chiese al governo ed ot-tenne di cambiare le divise dei suoi soldati con la camicia rossa della Legione Italiana di Montevideo. Il Loevinson, che pubblica nel 1902-1904 una monografia su “Giuseppe Garibaldi e la sua Legione nello Stato Romano 1848-49” per conto della Società Dantesca di Firenze, spiega che il prestigio della ca-micia rossa in quel momento è al massimo. In proposito, cita il caso di Gabriele Laviron, ufficiale della Legione Stra-

niera, che cambia la propria unifor-me con quella rossa spiegando che a Roma era salutato con stima solo chi portava l’uniforme degli uomini di Garibaldi. Ma, sempre lo stesso autore, spie-ga che quelle camicie non furono pronte che a guerra quasi finita. Il cambio della divisa con la camicia rossa fu effettuato nella mattina del 28 Giugno 1849, altra giornata di battaglia contro le truppe francesi che, ormai, entro pochissimi giorni avrebbero riconquistato la città da cui, poi, la fine della Repubblica Romana. Garibaldi, forte delle risoluzioni repubblicane e dei pieni poteri concessigli dalla Commissione Co-stituente, mentre non sottoscrive la resa della Città decide anche di proseguire la lotta altrove. Così il 2 Luglio, Garibaldi ed i suoi quattro-mila uomini abbandonano la Città pensando di raggiungere Venezia insorta, attraverso S. Marino. Sarà la tragica e gloriosa marcia per sfuggire agli austriaci che porterà alla morte, fra gli altri, della moglie Anita e dei fidi compagni di tante battaglie, Brunetti e padre Ugo Bas-si. Garibaldi si salverà in extremis, dopo lunghe peregrinazioni e grazie all’aiuto fornito da una catena di patrioti, prima emiliani e poi toscani, che riusciranno ad imbarcarlo a Fol-lonica per Nizza da cui, poi, partirà per New York. Dovranno passare altri undici anni prima che la camicia rossa rispunti nuovamente e questa volta in modo trionfante, ma con un preambolo, ancora, di giacca grigio azzurra tipica della divisa piemon-tese.

Le camicie rosse durante la II Guerra d’Indipendenza e l’Impre-sa dei Mille

Il Generale, considerando esaurito il modello di rivoluzione mazziniana, si accosterà al Regno del Piemonte e facendo di necessità virtù, accetterà di guidare i volontari sotto l’egida del re Vittorio Emanuele II. Sarà il caso dei Cacciatori delle Alpi del

1859. Questo corpo viene ingloba-to nell’esercito regolare sardo con istruttori presi fra i vecchi sottufficiali piemontesi ancora in servizio. Le uniformi sono grigie come quelle dell’esercito regolare. Di camicie rosse non se ne parla. Garibaldi ha il compito di difende-re la piazza di Ivrea da eventuali attacchi austriaci. Per questo, in-seguendo il nemico, entra in Biella, accolto festosamente, con i suoi 3.500 volontari. Qui si ferma alcuni giorni, il tempo per acquisire viveri ed ordinare scarpe per i suoi uomini ai calzolai locali. I suoi attendenti rilasciano ricevute che poi saranno pagate dal Ministero della Guerra di Torino. In questo modo, anche i volontari garibaldini portano un po’ di sollievo economico a diverse imprese artigianali locali. Maurizio Sella, invece, come ha riferito lo studioso biellese Diego Presa in una conferenza del 2007, presenterà un’offerta per una fornitura di divise alla piemontese, ma anche richiede-rà un pagamento per contanti. Tutto sembra procedere secondo i piani militari, ma, come è noto, l’armistizio di Villafranca ferma la II Guerra di Indipendenza e di lì a poco l’Eroe sarà fatto comandante delle truppe degli stati che si erano annessi al Piemonte, Gran Ducato di Toscana e Ducati di Parma e Modena. Garibaldi riterrà sempre legittima-ti, anzi doverosi e consequenziali all’esperienza della Repubblica Romana del 1848, tutti i suoi ten-tativi per liberare Roma. Molto più pragmatico di Mazzini e dei suoi rivoluzionari, quale Pisacane, sa aspettare le giuste condizioni re-sistendo all’impulso di passare il confine a Cattolica. Così dà ordine ai suoi di ricercare nel contempo armi ed equipaggiamenti, mentre egli cura i contatti fra i mazziniani e i vecchi compagni dei Cacciatori delle Alpi. Il governo piemontese guidato da Cavour, che non vuole inimicarsi Napoleone III, lo fa arre-stare e confinare a Caprera.Proprio nei giorni di Biella, Garibaldi approfitta per stringere accordi di

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forniture militari con altri impren-ditori biellesi. I tempi stavano ma-turando verso quella che entro un anno sarebbe diventata l’avventura dei Mille. Così, nello specifico, sono stretti accordi con i fratelli Anton-gini, gli industriali proprietari della Manifattura Lane Borgosesia e con i fratelli Galoppo, altri lanieri. I primi finanzieranno, sempre secondo le ricerche di Presa, una delle navi di trasporto dei garibaldini in Si-cilia contro l’esclusiva del “rosso Garibaldi” delle future forniture; i secondi forniranno la stoffa per la confezione di 200 camicie rosse.

Già da due anni operava, alla luce del sole in Piemonte e in modo clandestino in altre parti d’Italia, la Società Nazionale Italiana. Nata a Torino per iniziativa di Daniele Ma-nin, presidente, poi sostituito dopo la sua morte da Giorgio Pallavicino Trivulzio, e di Giuseppe La Farina, segretario. Giuseppe Garibaldi ne fu presidente onorario. Già all’epoca si diceva che il vero ispiratore fosse, però, il conte Cavour. Questa società ebbe larga diffusione soprattutto tra i liberali delusi dai risultati ottenuti da Mazzini e fu attiva fino al raggiungi-mento dell’unità nazionale nel 1862. Tra le varie iniziative, sostenne la campagna lanciata da Garibaldi per l’acquisto di “un milione di fucili”. Si gettano, in questo modo, le basi per le forniture necessarie ad un’im-presa di quel genere e cioè armi, munizioni e divise. Così, gli accordi, almeno per quanto riguarda le stoffe, non sono solo con Biella, ma anche con Bergamo che, anzi, sarà la prima a vestire di rosso una parte dei primi 1.089 garibaldini. Viceversa, per quanto noto al momento della ste-sura di queste note, altre zone, come Busto Arsizio e Prato parteciperanno inizialmente solo con contributi in denaro e volontari.

Ai primi del 1860, Garibaldi, sfug-gendo alla sorveglianza cui è sot-toposto, ricompare a Genova. E’ indignato per la cessione di Nizza alla Francia e sempre più coinvolto in un’impresa che pare disperata: la

liberazione di Roma partendo dalla Sicilia, allora pervasa da dimostra-zioni e moti di ribellione. Siamo all’impresa dei Mille che, dopo i pri-mi scontri vittoriosi contro le truppe borboniche, consacrerà l’indissolu-bilità del binomio Garibaldi-Camicie Rosse.Dai libri della giornalista inglese Jes-sie White Mario, sempre presente dal 1860 nell’entourage del Gene-rale come organizzatrice dei servizi sanitari, ricaviamo il modo con cui lo stesso Generale si approvvigio-nava nelle varie campagne. Egli si affidava, di volta in volta, ad amici fidatissimi che avevano carta bian-ca sia nella ricerca di finanziamenti che di materiali ed armi. Nel 1860, alla vigilia dell’impressa dei Mille, si affida anche a Francesco Nullo di Bergamo. Questi era un patriota della prima ora, già sulle barricate delle Cinque Giornate di Milano e poi Cacciatore delle Alpi. Di famiglia agiata, operava nel campo dei tes-suti essendo comproprietario con i fratelli di un lanificio. Nullo si sentiva tradito da Napoleone III e dai Savo-ia che, con la pace di Villafranca, avevano lasciata incompiuta l’unità italiana. Per riaffermare il vecchio spirito repubblicano pensò, si pre-sume in pieno accordo col Generale, di munire i volontari bergamaschi di uniformi comprendenti la camicia rossa quale legame ideale con la Repubblica Romana e come au-spicio per la liberazione della Città stessa. Non si sa bene se lui direttamente o un certo Giovanni Fiori, altro ber-gamasco commerciante di tessuti che abitava a Milano, procurarono le stoffe gregge e le fecero tingere in rosso scarlatto. Comunque sia, la follatura e la tintura furono condotte in opifici della Val Gandino, in parti-colare nella “Tintoria di Prat Serval”, particolarmente rinomata per il suo scarlatto. Le camicie furono confe-zionate in parte a Bergamo, nella sartoria di Celestina Belotti, che di Nullo era la fidanzata e in parte a Milano in un atelier provvisoriamente installato nel palazzo della signora Laura Solera Mantegazza, notissima

patriota milanese, impegnata da anni nella causa dell’indipendenza italiana. Purtroppo, per la ristrettez-za dei tempi, furono consegnate in tempo utile ed indossate dai volon-tari bergamaschi poco meno di 200 camicie rosse.La successiva evoluzione degli avvenimenti e la definitiva consa-crazione della camicia rossa quale simbolo dell’epopea garibaldina si desume dalle cronache della spe-dizione. Stralciamo tre momenti significativi dal libro “I Mille”, del volontario gavorranese Giuseppe Bandi, poi residente a Livorno dove fonderà il giornale “Il Telegrafo” e che sarà ucciso da un attentato anarchico. Egli si trovò ad essere un osservatore privilegiato facendo parte della cosiddetta “Famiglia Militare” di Garibaldi.

La prima volta che il Bandi ne parla è a Talamone. Nel piccolo porto i volontari sono scesi a terra e sono schierati davanti alle navi Piemonte e Lombardo in attesa di risalire a bordo. Il Bandi annota come siano presenti i più svariati tipi di abbi-gliamento. Egli stesso, venuto via in fretta e furia dal reggimento dove prestava servizio ad Alessandria, è in divisa da ufficiale dell’esercito piemon-tese. Molti sono studenti di buona fami-glia, vestiti come per un viaggio in campagna; altri hanno gli abiti che portano tutti i giorni, come il Sirtori che ha uno “spronchete” nero o il Crispi che ha una logora marsina; artigiani ed operai indossano, inve-ce, i loro abiti da lavoro. Fra tutti, si nota la macchia rossa dei volontari bergamaschi. Proprio in questa tenuta sgargiante essi si presentano a Marsala e poi a Calatafimi dove sono inizialmen-te scambiati dal colonnello Riario Sforza, comandante della squadra di ricognizione borbonica, per in-sorti siciliani e attaccati a sassate al grido: “Mò venimme lazzaroni e fetentoni”. A Calatafimi, il Bandi vie-ne ferito e rimane in convalescenza circa un mese a Vita, piccolo paese

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limitrofo. Nel frattempo Garibaldi entra a Palermo. Il Bandi approfitta del passaggio di una piccola colonna di volontari, comandati da Carmelo Agnetta, per aggregarsi e raggiun-gere, anche lui, Palermo. Egli aveva perso la sua divisa di uffi-ciale perché tagliata dai chirurghi ed era stato rivestito alla meno peggio con i panni di un mugnaio. Garibaldi lo riprende con sé, ma lo manda an-che con il Bovi, che è l’intendente, a rivestirsi. A quel momento, però, le divise garibaldine non fanno più difetto.

Infatti, visti i primi successi militari in terra di Sicilia, Cavour decide di sostenere Garibaldi per permet-tergli la conquista del Regno delle due Sicilie, ma di non consentirgli di procedere oltre Napoli, da cui il famoso incontro di Teano con il Re. Dopo la famosa e prima spedizione del 18 Giugno 1860, si avranno altri venti imbarchi tra Genova e Livorno che, complessivamente, porteranno altri ventimila volontari garibaldini in aggiunta ai primi. Questi saranno equipaggiati di quanto necessario sotto il profilo degli armamenti, ma soprattutto vestiti con la camicia rossa grazie alle forniture biellesi ma, presumibil-mente, non solo. Ancora una volta, il tutto è mediato dai fidi intendenti di Garibaldi, gli ufficiali Cosenz, Medici e Sacchi. La nuova uniforme è costituita da pantaloni grigi, camicia rossa e fou-lard rosso. Il tutto è ottenuto senza la minima difficoltà, segno, questo, di disponibilità di divise e, in parti-colare, di camicie rosse. Dice ancora il Bandi che le cose mi-glioreranno a Napoli. Quando egli vi giunge nel settembre con l’uniforme lacera dopo due mesi di campagna fra Milazzo e la Sila, troverà la città ribollente di camicie rosse, pantaloni con la banda e fez. In pratica, tutto ciò che contraddistingue il perfetto garibaldino è in vendita su bancarel-le, in negozi e negozietti. In quattro mesi è cambiato tutto e la produzione di divise e camicie rosse

farà prosperare, oltre ai fornitori di tessuto, anche tanti sarti, commer-cianti e venditori ambulanti.

Storia delle camicie rosse dopo l’Impresa dei Mille

L’indiscusso prestigio militare di Ga-ribaldi, unito al fascino delle invitte camicie rosse, sarà parte notevo-lissima del mito che accompagnerà l’Eroe per il resto della sua vita. Ed è in quel periodo e in quelle circostan-ze che la camicia rossa diventerà, finalmente, essa stessa, il simbolo di questo anelito di libertà e di Italia unita con Roma Capitale.

Il relativo valore simbolico sarà poi ribadito nelle successive tre campagne dei volontari garibaldini: l’Aspromonte in Calabria nel 1862; le Valli Giudicarie nel Trentino du-rante la III Guerra d’Indipendenza del 1866; Mentana e Monterotondo nel 1867, sempre nel tentativo di arrivare a Roma. Ci saranno poi due campagne in Francia contro i tedeschi della Prussia: nel 1870 e nel 1914, questa seconda volta sotto il comando del nipote Ezio. Ma con il 1914 siamo già alla fine della storia della camicia rossa quale divisa come si spiegherà più avanti, causa l’evoluzione della tecnologia militare.

In ogni caso rimarranno sempre presenti le difficoltà, se non un po’ di caos, circa l’approvvigionamento delle uniformi. Non ci sarà mai il tempo per preparare, con il giusto anticipo, le monture perché la spe-dizione dell’Aspromonte e quella di Mentana sono semiclandestine e ufficialmente contrastate dal Gover-no Italiano. Quindi sarebbe stato strano, formal-mente inconciliabile per il Piemonte filo imperatore di Francia, licenziare un bando per la relativa fornitura. Dal libro della Jessie White Mario, a proposito della spedizione del 1862, si legge: …Tremila fucili datigli alla dogana non gli bastavano ad armare una mano di volontari raccolti nella

foresta della Ficuzza. Le più alte dame di Palermo rivaleggiavano colle più umili popolane nell’appre-stare camicie rosse per la Legione Romana…

Nella campagna del ’66, finalmente i Garibaldini entrano a fare parte ufficiale dell’esercito con la deno-minazione di Corpo Volontari Italiani. Questa volta possono indossare una divisa regolarmente approvata dallo stato maggiore piemontese. Essa è costituita dai pantaloni azzurrini e dalla camicia rossa. Esempi di que-ste camicie, sia degli ufficiali che dei soldati, sono visibili presso il Museo di Bezzecca. Tuttavia, anche in quell’occasione, la fornitura delle camicie sarà sempre approntata all’ultimo momento, mal sopportando gli ufficiali del re quei volontari portatori di idee liberali e repubblicane. Sembrerebbe ascri-versi a quella campagna una possi-bile fornitura di camicie garibaldine da Prato. Esiste, infatti, nel locale Museo del Tessuto un follone chiamato “follone di Garibaldi”; secondo una certa tra-dizione avrebbe follato i panni delle camicie nel 1866, ma forse, con maggiore probabilità, quelle delle campagne successive. Non dimentichiamo che tra il 1860 ed il 1865 Firenze fu capitale d’Ita-lia e per il Ministero della Guerra dell’epoca l’approvvigionamento sul territorio pratese poteva risultare del tutto ovvio data la vicinanza della città tessile alla capitale.

Tuttavia, sempre per la campagna del 1866, risulta anche una fornitura, che potremmo definire inaspettata, e che meriterebbe, invece, maggiori approfondimenti. Nella città tedesca di Kirchberger, in Sassonia, sono visibili le vestigia di un’antica fabbrica tessile, in attesa d’essere trasformata in un moderno complesso per anziani. Una lapide, posta sulla facciata dell’antico sta-bilimento, ricorda che nel 1866 il generale Garibaldi vi fece tingere in rosso 15.000 divise. La relativa lavorazione fu pagata,

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Anche in questo caso sono stati tolti 5 anni per uno scorrimento di battitura. Le date corrette sono, ovviamente, 1865 - 1870.
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nonostante l’Eroe, unico vittorioso nella III Guerra di Indipendenza, sia definito dai tedeschi, sempre nella citata lapide, un perdente di quella guerra. E’ da domandarsi chi avesse fab-bricato i relativi panni e chi abbia poi confezionato le camicie. Certo è che Kirchberger era parte di un’area a vocazione tessile e la Sassonia, all’epoca, non faceva parte dell’im-pero austriaco con cui l’Italia era in guerra; anzi, è noto, che tra Prussia ed Austria proprio negli stessi anni vi fossero dei conflitti. Questo, non toglie che, mutate le condizioni, Garibaldi combattesse contro gli stessi prussiani insieme ai francesi quattro anni dopo.

Al solito, il tessuto era comprato e lavorato dove era possibile. La si-tuazione non cambiò nel 1870 con la campagna di Garibaldi in Francia. Migliorò, anche se al momento non è dato sapere quanto, invece, nel 1914, quando Ezio, il comandante nipote di Garibaldi, guidò ancora una volta i volontari garibaldini contro i tedeschi invasori della Francia. Ma qui la camicia rossa non poté più essere indossata se non sotto la giubba grigio verde come, in effetti, furono obbligati a fare gli uomini di quel corpo. Cosa era successo nel frattempo?

Effetti degli sviluppi degli arma-menti sulle camicie rosse

La fine della Guerra Civile Americana nel 1865 pone una data limite fra il prima ed il dopo circa il fronteggiarsi degli eserciti. Retrocarica, colpi multipli e canna rigata con tiri fino a 300 metri rappresentano il principale sviluppo dell’armamento americano in quella guerra. A questo segue l’introduzione ed il progressivo miglioramento della mi-tragliatrice. L’insieme di queste cose rendono sempre più pericolosi gli attacchi frontali condotti fino a quel momento da tutti gli eserciti. Negli scontri, più del singolo colpo di fucile che, al massimo, raggiun-

geva i 100 metri, erano importanti i corpo a corpo con la baionetta o gli attacchi di cavalleria come si può vedere in tanti quadri del nostro Risorgimento. In quell’accozzaglia di uomini in lotta era perciò importante riconoscersi dato che la polvere sollevata dalla cavalleria o le esplosioni di colpi di cannone ricoprivano i contendenti di polvere che rendeva tutti irriconosci-bili. Quindi il rosso delle camicie che Garibaldi indossa e fa indossare ai suoi uomini ogni volta che può, non costituisce una prova di temerarietà, ma semmai una necessità militare di riconoscimento secondo lo stato dell’arte militare dell’epoca. Se Garibaldi indossava la camicia rossa, gli zuavi francesi del 1848 a Roma indossavano brache rosse. Anche gli stessi Lancieri del Masini ai tempi della Legione Italiana nella Repubblica Romana avevano parte della divisa tinta in rosso. Paradossalmente, proprio per que-ste divise si hanno notizie attendibili sulla tintura in rosso delle stesse. Nella già citata monografia del Lo-evinson, l’autore riporta, in una nota a pag. 128 del secondo volume, indicazioni sulla monture fornite nel giugno 1849 da parte dell’allora Ministero delle Armi. Si tratta di 117 bluses nuove in pan-no “garance”, cioè rosso tinto con la garanza, altro nome della robbia.

Tutto questo non toglie che stare in prima linea e guidare i propri uomini all’attacco, come spesso fece Ga-ribaldi, richiedesse tanto coraggio, cosa che il Condottiero aveva al pari dei volontari che lo seguirono nelle varie campagne.

L’avvento dei fucili moderni e, so-prattutto, delle mitragliatrici impose via via agli stati maggiori un ripensa-mento sia sul colore delle divise sia sul modo di fare la guerra. La mimetizzazione e la guerra di trincea furono le inevitabili soluzioni allo sviluppo delle armi e le ragioni per cui nella campagna del 1914 i garibaldini dovettero indossare sotto la casacca grigio verde le loro

famose camicie rosse.

Sulla fabbricazione delle camicie rosse

Dall’osservazione diretta delle ca-micie rosse conservate nelle teche dei musei di Palermo, Trapani, Bez-zecca, Roma al Vittoriano, Mentana, Bergamo alla Rocca, Prato al Museo del Tessuto, si nota che le stesse ca-micie si differenziano fra loro per fat-tura, tranne che per quelle del 1866, a riprova di un confezionamento spesso casalingo. Significativo a questo proposito è il quadro rea-lizzato nel 1863 dal pittore toscano Odoardo Borrani, già volontario nei fatti d’arma del 1859, intitolato “le cucitrici di camicie rosse”. Come in altri analoghi quadri risorgi-mentali, la pittura tramanda non solo un modo di operare in mancanza di un’industria della confezione non ancora così sviluppata come quella tessile, ma soprattutto una condizio-ne femminile di “atte a casa”. Così molte di esse contribuirono solo come potevano: cucendo le divise per i loro uomini, fidanzati, mariti o figli, che partivano volontari al richiamo di Garibaldi, ma soprat-tutto di un’Italia più moderna. Le differenze tra le camicie erano, in ogni caso, notevoli fra quelle in-dossate dai soldati di truppa rispetto agli ufficiali. Semplici e funzionali le prime, sempre (almeno quelle osser-vate) in cardato. Più elaborate, delle vere e proprie giacche, le seconde, spesso in panno che sembra petti-nato. Numerosi e alquanto diversi i ricami presenti su queste ultime. Tutte queste divise sono in panno di lana più o meno leggero. Anche se non osservate direttamen-te, non devono escludersi eventuali camicie rosse in fibra vegetale, come lino o forse cotone, stanti i citati racconti dell’epoca ed impie-gate nei mesi estivi. Tanto più che la tintura rossa poteva essere rea-lizzata con gli stessi coloranti usati per la lana. Vario fra tutte il tono del colore che, sebbene stintosi nel corso del tem-

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po, indica pur sempre una diversità originale declinando dal rosso blua-stro allo scarlatto pieno.Una spiegazione plausibile di quanto osservato può essere la seguente. In quegli anni l’arte di fare panni di lana era diffusa, più o meno, in tutta la Penisola. I tessuti greggi, usciti dai telai domestici o dei primi opifici, erano mandati alle gualchiere e alle tintorie per la realizzazione del tessuto finito. La tintura in rosso era ottenuta, da sempre, con la robbia o con la grana o con miscele dei due coloranti su tessuti mordenzati. La mordenzatura era ottenuta, di norma, per bollitura acida con un metallo. Il composto che ne deri-vava era particolarmente stabile e insolubile, perciò solido sia alla luce che all’acqua. Le nuances ottenute erano caratteristiche di ogni singola tintoria che manteneva segreto il procedimento.

La robbia o garanza, dal francese “garance, è un glucoside dell’ali-zarina miscelata con parti di pur-porina e quinizarina. Era estratta dalle radici della pianta officinale Rubia Tinctorum per bollitura con acidi organici deboli e successiva fermentazione dell’estratto per idrolizzare i glucosidi. I principi atti-vi sono dati da tre diversi coloranti antrachinonici idrossilati in grado di chelarsi, ossia di legarsi chimica-mente, con ioni metallici da cui la formazione di lacche solide alla luce ed agli agenti atmosferici. La robbia si colloca, perciò, nella classe dei coloranti fenolico-acidi o coloranti a mordenteLa grana, in arabo Al Kermes come universalmente conosciuta, è, inve-ce, un colorante rosso ottenuto dalle uova del Coccus Ilicis, cioè coccini-glia del leccio, un insetto parassita delle querce. Le uova, raccolte dopo la morte dell’insetto, poi bollite con aceto ed essiccate, assomigliano a pic-coli pallini, da cui il nome “grana”. Dopo la scoperta dell’America fu gradualmente sostituito dal rosso di cocciniglia, un prodotto migliore,

che derivava dalle uova dell’inset-to “Dactylopius Coccus Costa”, parassita dei cactus messicani. Il principio colorante è dato dall’aci-do carminico e in parte dall’acido chermesico. Anche questi sono derivati dell’an-trachinone idrossilato e perciò tingo-no, come per la robbia, secondo la tecnica dei coloranti a mordente. Miscelando, oltre che i coloranti, anche i sali usati per mordenzare, si avevano e si hanno colorazioni diverse.

Nel caso della tintoria di Gandino il segreto del tono delle camicie rosse si può fare derivare dalla stagna-tura delle caldaie dove si bolliva il tessuto. Lo stagno, solubilizzato dalla bollitura acida necessaria per far montare il colorante, assicurava una nuance aranciata caratteristica. Inoltre questa tintoria disponeva di acqua proveniente da una sorgente diversa dalle altre e anche la minore o maggiore presenza di calcio in-fluenzava il tono del rosso. Secondo ricerche svolte a Gandino risulta che: ...nell’800 lavorano alme-no undici aziende tintore, alcune au-tonome, altre collegate a stabilimenti di tessitura. Utilizzano materie prime vegetali, minerali, animali. Per lo scarlatto, il più tipico dei colori gandinesi, si impiega la cocciniglia, un insetto importato dall’America, fatto essiccare, macinato fine fine per poi essere disciolto nel bagno di tintura. La località si chiama Prat Serval, Prato dei Servalli, dal nome di una famiglia. La Tintoria degli Scarlatti era alimentata da una sorgente natu-rale, l’unica, mentre le altre doveva-no sfruttare le acque della sorgente Concossola, ampia come un fiume. La lapide, murata nel 1961 sulla facciata per il centenario dell’Unità, è un volo pindarico del prevosto di allora, don Antonio Giuliani: “Qui arte vetusta tinse le camicie rosse, che sangue generoso avrebbe ritinta nelle battaglie della libertà”. Non esistono documenti, solo una tradizione orale che prende le mosse

dalle memorie di Erminio Robecchi Brivio, nipote dell’intraprendente Fiori che conferma il particolare delle caldaie stagnate in grado di garanti-re una particolare tonalità aranciata e calda allo scarlatto. Oggi sappiamo che non si trattava di una casualità, ma la conferma di una reazione chimica, cosiddetta di chelatura, i cui effetti erano già noti fra i tintori europei fin dal ‘500 anche se gli stessi non ne conoscevano le cause.

Il confronto, infine, tra gli avveni-menti della storia risorgimentale e quelli di carattere tecnico-scientifico porta ad altre considerazioni. Nel 1868 viene sintetizzata da Graber e Liebermann, due chimici tedeschi, l’alizarina sintetica, primo colorante di sintesi uguale ad un colorante naturale, che in breve sostituirà la robbia e la cocciniglia. E’ molto probabile che le camicie rosse dei Garibaldini, che nel 1914 affiancano le truppe francesi a Reims, siano state tinte con alizarina sintetica. Altresì non è possibile stabilire, senza il sostegno di un’analisi spettrosco-pica IR, se fossero stati usati anche coloranti azoici tipo follone che, non avendo bisogno di mordenzatura, erano di più semplice applicazione anche se meno solidi.

Uno studio comparato delle fogge delle divise presenti nei vari musei risorgimentali, una caratterizzazio-ne dei coloranti usati e lo studio sistematico della documentazione disponibile relativa alle varie forni-ture, in questo caso, non solo delle camicie, ma anche dei pantaloni e della buffetteria più in generale, costituirebbe un indubbio contributo alla storia dell’Unità d’Italia. Ma, oltre questo, costituirebbe ele-mento di conoscenza della nascente industria tessile e di quella della con-fezione durante il Risorgimento. E’ questo un invito che gli autori, unitamente all’Associazione Italiana di Chimica Tessile e Coloristica, si augurano possa essere accolto.