Sulle ali di Althaira

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Ci sono cose nella vita che si librano sulle ali di potenti emozioni per arrivare a sfiorare l’Eternità. Così è per questi sei magnifici racconti che vi porteranno sulle tracce dell’Amore. Per una donna, per la vita, per se stessi. Sei storie da leggere tutte d’un fiato, da vivere con la mente aperta e il cuore spalancato. Per sognare Sulle ali di Althaira, la seducente musa dei sogni.

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DESCRIZIONE:

Ci sono cose nella vita che si librano sulle ali di potenti emozioni per arrivare a sfiorare l’Eternità. Così è per questi sei magnifici racconti che vi porteranno sulle tracce dell’Amore. Per una donna, per la vita, per se stessi. Sei storie da leggere tutte d’un fiato, da vivere con la mente aperta e il cuore spalancato. Per sognare Sulle ali di Althaira, la seducente musa dei sogni. Leyla e Maximus

L'AUTORE:

Massimo Valentini è scrittore e giornalista. Scrive su riviste nazionali e internazionali specializzate in divulgazione scientifica. Nel 2007 ha ricevuto il premio “Reportages” nell’ambito della V edizione del concorso letterario nazionale “Crathis”. Ha pubblicato anche:

“Quattro Ombre Azzurre” (2009, Zerounoundici Edizioni). “Ultima Thule” (2008, Falco Editore Cosenza) “Alfa e Omega” (2007, Falco Editore Cosenza) Il suo blog è www.gabbianidellestelle.blogspot.com

Titolo: Sulle ali di Althaira Autore: Massimo ValentiniEditore: 0111edizioni Collana: SelezionePagine: 134 Prezzo: 13,00 euro

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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO)

ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI

Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'!

Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione.

TUTTI I RACCONTI VERRANNO PUBBLICATI IN ANTOLOGIA

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MASSIMO VALENTINI

SULLE ALI DI ALTHAIRA

www.0111edizioni.com

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www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

SULLE ALI DI ALTHAIRA 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Massimo Valentini

ISBN 978-88-6307-239-6 In copertina: Immagine www.shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2009 da

Digital Print Segrate - Milano

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Introduzione Sulle ali di Althaira è un’opera che non deve solo essere letta, ma è un qualcosa su cui meditare, da sottolineare, su cui riflettere. Questi sei racconti mettono a nudo lo spirito dello scrittore e sembrano sfiorare il primo strato di polvere che incrosta la sua anima e che egli stesso cer-ca di pulire. Massimo Valentini ha il coraggio e la consapevolezza di mettere a nudo il proprio universo interiore e offrirlo come occasione di profonde considerazioni. Un libro che segna la nascita di un nuovo percorso letterario dell’autore che ancora una volta riesce ad affascina-re il lettore con scene forti che arrivano sempre alla mente e al cuore. Storie che sottendono tanta voglia di verità, spesso nascosta con parole velate. Ambienti, personaggi, vicende che si presentano come liberi giochi di fantasia, espressioni di paure inconsce, simboli della condi-zione dell’uomo. L’amplificazione di emozioni sotterranee e oscure, oltre a suggestionare il lettore, elimina i confini tra realtà oggettiva e le sensazioni del personaggio-narratore. Già all’inizio del primo rac-conto, intitolato Althaira, l’autore dà la sua definizione dell’essere scrittore, non certo quello che si piega alle fredde leggi del mercato: “l’artista vero è un fine egoista… Egli trova se stesso solo nella pro-pria arte e si differenzia dagli altri perché la sua vita e la sua stessa sa-nità mentale s’inerpicano sulla sottile linea di una conoscenza più pro-fonda e sublime.” Il suo alter ego è Althaira, solo apparentemente una donna, dal nome attribuito dallo scrittore a una stella, ma in realtà sua ispirazione personificata, la sua capacità immaginifica, quella che lo farà sognare di nuovo. E ancora continua la simbologia in una tela bianca, sulla quale tutti noi dobbiamo dipingere la nostra vita. Ciascu-no di questi racconti è preceduto da riflessioni personali o di altri auto-ri celebri, che offrono una chiave interpretativa al lettore. Ad esempio, ne I gabbiani di Althaira, l’alter ego dello scrittore è la stella che brilla con una luce diversa ed egli lo ascolta, sognando la sua voce che parla dagli abissi profondi della sua stessa mente. E all’uomo timoroso, che ha paura delle tenebre, di affrontare se stesso, suggerisce di seguire il ritmo della vita e imparare dalla natura. Deve liberarsi da un mondo

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fatto di vuote statistiche, perché ognuno è una differenza nella simili-tudine. “Chi vuole contemplare la potenza dell’Onnipotente sulla Ter-ra deve farlo in solitudine”, è invece la celebre asserzione di Poe come ideale cornice al racconto Il canto della Solitudine. L’autore, a mio avviso, è un moderno Leopardi che, inutilmente, fugge da se stesso. “Per molto tempo,” dirà in questa storia, “non ricordo quanto, ho viaggiato in strani posti dove la gente comune non si sarebbe sognata di andare alla ricerca della saggezza che religioni vecchie di millenni si vantano di possedere… Dov’erano finite le tante, amene promesse di legami eterni? Dove il senso dell’onore o le virtù della morale?” E ancora: “La Solitudine, non i miei simili, mi ha insegnato ad amare la vita.” In definitiva, quindi, questo volume è ricco di descrizioni estre-mamente minuziose e precise di alcuni particolari. E lo stile di Valen-tini, quasi fotografico, capace di registrare le immagini, conferisce a questi racconti i contorni di un’apparenza oggettiva, tanto da acquista-re una consistenza fisica che le rende altrettanto reali delle vicende del mondo esterno. Mario De Bonis

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Note dell’Autore Queste pagine sono molto importanti per me perché fanno parte del mio vissuto e dei miei sogni. Di più, sono capitoli di un libro assai più grande che è il romanzo della mia vita. Perché questi racconti sono ve-ri, esistono, si librano sulle ali della mia consapevolezza. Ma anche i sogni hanno bisogno di un aiuto concreto per volare. E se non fosse per il sostegno di molte persone probabilmente queste storie sarebbero state diverse da come sono adesso. Desidero perciò ringraziare il pro-fessor Mario De Bonis per la splendida introduzione; mia madre An-na, per avermi insegnato l’amore per i libri, gli affezionati “circoli di lettura” per i consigli e le pazienti, spassionate analisi critiche prima della pubblicazione; gli iscritti al gruppo di facebook creato da una let-trice che mi segue fin dal mio primo libro, Paola, sempre pronta a e-largire consigli di grande valore; a Roberto, per il suo incrollabile ot-timismo e determinazione; a Ivan, amico e collega impagabile, per gli apprezzati e arguti suggerimenti. Un grazie di cuore, ovviamente, va ai miei lettori per il loro entusiasmo nel porre commenti interessanti, at-tentissimi e di notevole spessore sul mio blog: www.gabbianidellestelle.blogspot.com Per il costante sostegno che mi dimostrano giorno per giorno, mi è sembrato giusto far loro scegliere la copertina. Infine, ma non per ul-tima, voglio dare un grazie speciale a chi da sempre sussurra per me il suo amore nel vento dell’Eternità. Alla donna che abita il mio cuore, mia musa ispiratrice ogni volta che sogno e, quindi, ogni volta che scrivo. Questo libro è per te, Antonella…

Massimo Valentini

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Althaira

“Se Dio è Onnipotente Consapevolezza, l’uomo non può sperare di vederlo che attraverso i sogni.

Solo questi consentono allo spirito di riunirsi all’Idea dell’Eterno.”

M. V.

1 Nessuno sembra fare caso al sottile mistero che circonda il momento che separa lo splendore del giorno dall’oscurità della notte. Sappiamo che è la linea di demarcazione tra il mondo chiaro della luce, dove tut-to è visibile e identificabile, e quello dell’oscurità, dove gli oggetti più comuni assumono contorni sfumati e inquietanti nati da un dilemma antico e profondo. Allo stesso modo, il confine tra luce e buio separa il reale dall’irreale. Le persone più sensibili sanno che non esiste una di-stinzione affidabile tra i due stati e che spesso uno scivola nell’altro senza soluzione di continuità. La realtà come noi la percepiamo non è che una porzione della Verità e non è mai assoluta. Sbagliano, quindi, le persone che si basano solo sulle proprie sensazioni fisiche per muo-versi nel mondo tridimensionale che ci circonda perché esiste un pia-no, al di là della barriera percepibile dai nostri sensi limitati, che sepa-ra il tramonto della nostra consapevolezza dall’Infinito dell’Eterno. Anche il concetto di buio riveste per noi esseri umani un significato ancestrale e terrificante nella propria antichità che ricorda vecchie paure mai veramente sopite nel nostro animo. Per questo abbiamo ide-

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ato tutta una serie di ingegnose soluzioni per scacciare le tenebre e i fantasmi che le abitano. Ma nonostante le invenzioni scaturite dal no-stro ingegno gli individui più sensibili temono ciò che si nasconde al di là di un lampione o nella zona meno rischiarata dai fari delle auto. E’ quello il mondo costituito da lampi di visioni oltre la sfera del ma-terialismo, dove la vita come noi la conosciamo arriva a un livello più profondo di consapevolezza che dipana i petali della sua saggezza per chi è abbastanza sensibile da percepirli. Spesso questi sognatori sono invisi all’intelletto comune che considera un tramonto come un normale concatenarsi di eventi fisici mentre l’artista lo vede come un piano affatto aleatorio del reale che spalanca gli abissali cancelli della fantasia. Fin dalla mia infanzia mi sono illuso di vedere il mondo con gli occhi del materialista convinto, legato alla rassicurante visione di causa ed effetto, ma agitato nel profondo da un qualcosa che non riu-scivo a identificare. La realtà, pensavo, è là fuori e niente che non sia matematicamente prestabilito ha realmente senso. Temevo la supersti-zione religiosa e ideologica come una minaccia per il pensiero razio-nale e mi circondavo di libri, persone, situazioni prevedibili e prosai-che. Poi, non so dire quando, il mio animo cambiò e se anche non si è mai avvicinato al misticismo non esito ad affermare che il mio modo di vedere ha perso una parte della razionalità per cercare la porta che mi avrebbe portato verso nuove dimensioni dell’essere ai confini dell’ignoto. Ormai non ricordo più quando è stato il momento in cui ho capito di essere uno scrittore ma so che scrivere è l’aspetto che più di ogni altro è inestricabilmente legato al mio essere uomo. Più che una semplice passione, ciò che mi spinge a comporre i miei romanzi è un qualcosa che coesiste nel mio essere fin da quando ne ho memoria e che mi spinge a tentare di capire almeno una parte di me stesso. Chiamo questo qualcosa Althaira e devo a lei se ho capito che tutte le mie opere sono frammenti di quel romanzo più grande che è la mia stessa essenza. Da quando la penso in questo modo confesso che nella mia vita non sono mai mancate situazioni al limite del possibile e per certi versi abbastanza inconsuete. La incontrai per la prima volta alcu-ni anni fa, quando ancora vivevo a New York; lei cambiò la mia con-cezione della vita donandomi i mezzi per guardare ciò che si staglia oltre il velo dell’esistenza. Ricordo perfettamente gli eventi di quei giorni tutti uguali, quando girovagavo svogliatamente nelle primaveri-li mattinate newyorchesi. Me ne stavo assorto in contemplazione di tutto e niente, cercando di trovare l’idea vincente per un nuovo ro-

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manzo che potesse placare per un po’ la sete di vendite del mio edito-re. E’ noto che noi scrittori siamo gente eccentrica, qualcuno direbbe che non abbiamo tutte le rotelle a posto, ma quando decisi di curiosare in quel vecchio negozio di antiquariato, chiesi gentilmente al commes-so di poter dare un’occhiata in giro pur sapendo che non avrei acqui-stato nulla. Pertanto mi aggirai tra volgari imitazioni di libri antichi e mobili tarlati privi di un reale interesse storico, guardato a vista dal proprietario. Ero così occupato quando fece la sua comparsa una deli-ziosa ragazza bruna, sui 25 anni, che aveva tutta l’aria di essere preoc-cupata per qualcosa di importante. Non sono mai stato un gran fisio-nomista, ma quella donna attrasse la mia attenzione, e di molto, perché parlava con un accento straniero che però non riuscii a identificare. La sua voce era dolcemente sonora, cosa che m’incuriosì perché sembra-va provenire da mondi remoti ed esotici. Sembrava parecchio agitata e guardava il nostro anfitrione con un atteggiamento di sfida. Il com-messo che, al contrario, aveva tutta l’intenzione di volersi liberare da quella inopportuna scocciatrice la trattò in modo sbrigativo, ma la donna si rivelò più difficile del previsto e insisté pesantemente per ria-vere un certo oggetto che le apparteneva. Finalmente l’antiquario issò bandiera bianca e consegnò alla sua testarda avversaria una curiosa rosa di cristallo, pesantemente lavorata, incastonata in una custodia di mussola che sembrava aver visto tempi migliori. Onestamente non a-vrei dato un soldo per quell’oggetto che a prima vista non mi sembrò dissimile da altre rose in cristallo che pure erano disseminate qua e là nel negozio. Immaginai perciò che l’interesse della ragazza fosse e-sclusivamente di tipo affettivo. Il caso volle che in quel momento non trovando niente d’interessante, passassi proprio davanti ai due e nella foga della discussione la giovane donna si voltò urtandomi leggermen-te al gomito lasciandosi cadere l’oggetto di mano. Sul suo volto lessi istantaneamente le violente emozioni della tristezza quando avvertì il suono secco dell’impatto sul pavimento e la gioia della speranza quando vide che il suo tesoro pareva intatto. Mentre farfugliavo con-fuse scuse al suo indirizzo quella non mi badò che di sfuggita, intenta com’era a raccogliere con ogni delicatezza la custodia di mussola scarlatta. Le lanciò uno sguardo di una tenerezza infinita e solo allora alzò gli occhi su di me. Aveva un viso semplice, occhi grandi e since-ri, le labbra atteggiate a un timido sorriso. Qualcosa in lei, non saprei dire di che si trattasse, mi sedusse all’istante e subito desiderai cono-scerla, parlarle, sapere qualcosa della sua vita e del suo posto nel

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mondo. Non me ne diede il tempo e dopo poche parole di circostanza se ne andò dalla mia vista portando con sé quella rosa che a uno sguardo più attento mi parve paurosamente, indescrivibilmente antica.

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2 Non l’avrei rivista se alcuni giorni dopo non fossi tornato nelle vici-nanze di quel negozio. Vivo solo e l’abitudine alla vita da eccentrico non è mai riuscita ad affrancarmi dalla necessità di fare la spesa, se di tanto in tanto voglio mangiare un boccone che non sia la solita robac-cia delle friggitorie o dei ristoranti. Così andai in un negozietto italia-no che si trovava sulla Olympic, proprio davanti all’antiquario. Era la prima volta che ci andavo, ma me ne avevano parlato come uno dei pochi dove servono realmente specialità italiane in luogo delle tante varianti, più americane che altro in verità, che si trovano in alcuni cen-tri commerciali. Me ne stavo tranquillamente dietro uno scaffale ten-tando di scegliere tra vari tipi di pasta quando notai una slanciata figu-ra che si aggirava sperduta vicino a me. Era la stessa ragazza, senza dubbio, ma aveva cambiato pettinatura e dato un po’ più di phard alle guance. Quando mi vide un lieve sorriso errò sulle sue labbra scarlatte e si diresse senza indugi verso di me. Mi tese la mano che strinsi con delicatezza scusandosi della lieve baruffa del giorno prima con una familiarità inconsueta, come se fossi un vecchio amico. Si chiamava Altha, un nome curioso, e lavorava come commessa in una boutique di profumi a pochi isolati da lì, tutti i pomeriggi tranne nei week-end. Ma il suo lavoro era più che altro un modo per continuare ad acquistare il materiale necessario per la sua vera passione, dipingere. Aveva attrez-zato uno studio a pochi isolati dal suo luogo di lavoro e trascorreva la maggior parte del suo tempo libero tra tele, cavalletti e svariate so-stanze chimiche. Sapeva chi ero, perché aveva letto i miei libri (o al-meno così mi disse) al punto da usare addirittura alcune delle mie sto-rie come ispirazione per le sue tele. Devo ammettere che quella rivela-zione mi fece un certo effetto e le chiesi di dirmi di più, ma ribatté che preferiva mostrare le sue opere piuttosto che descriverle. Era abbiglia-ta in modo bizzarro, con una vaporosa camicetta bianca stretta in vita da un elegante nastro in raso nel cui centro era incastonato uno splen-dido gabbiano di corallo. Le gambe nervose, apparentemente modella-te da molte ore di palestra, erano fasciate da una gonna nera che non le

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arrivava oltre il ginocchio. Nel complesso era molto graziosa, ma più la guardavo più mi sembrava diversa, non saprei dire il perché. Aveva tutta l’aria di voler chiacchierare e io, non sapendo cosa dirle, le chiesi spiegazioni sull’oggetto della discordia tra lei e l’antiquario. “Ah, la rosa di cristallo!” Gorgheggiò con grazia, “è un oggetto che risale alla mia infanzia. E’ da sempre appartenuta alla mia famiglia ma, purtroppo, qualche tempo fa fui costretta a venderlo per vari mo-tivi. Ma dopo aver trovato questo lavoro sono corsa dall’antiquario per riscattarlo scontrandomi immediatamente con una richiesta esosa!” Nel dire queste parole le guance le si imporporarono di rabbia, cosa di cui dovette essere consapevole quasi subito perché si scusò pronta-mente del tono che aveva usato: “Il signor Bates non è famoso per la sua onestà!” Aggiunse, “e del resto in passato ha già tentato di non re-stituirmi la rosa accampando scuse sempre diverse. Ma ieri gli ho por-tato i suoi soldi e mi sono sentita rispondere che aveva ritoccato per l’ennesima volta il prezzo verso l’alto. Converrà con me che si è trat-tato di una situazione delicata.” Era evidente che fosse più che intenzionata a parlare. I suoi occhi splendenti, la sua voce misurata, l’atteggiamento aperto erano tutti indizi in tal senso. Perché avesse scelto proprio me non saprei dire, ma il fatto è che provavo un’istintiva tranquillità mentre ne ascoltavo la voce cristallina. “Ad ogni modo è riuscita a recuperarla, no?” La mia voce mi uscì dal-le labbra stranamente tremula, ma Altha non sembrò farvi caso: “Per fortuna!” Mi rivolse un sorriso radioso, “e ora che è nuovamente in mio possesso mi sento più rilassata e tranquilla.” La mia natura essenzialmente timida non mi ha mai reso abile nel dia-logo con una persona appena conosciuta, ragion per cui provai subito una sensazione di lieve imbarazzo che mi avrebbe fatto apprezzare un rapido commiato. Di questo la mia interlocutrice non se ne accorse, ma continuò a parlare del più e del meno dando prova di una voce morbida come poche che fondamentalmente apprezzavo. E tuttavia la squisita compostezza dei suoi modi e la genuina dolcezza della sua voce mi rilassavano contrastando efficacemente la mia naturale timi-dezza. Ben presto dimenticai la mia cena, il negozio e la gente che oc-casionalmente ci guardava e mi appassionai alla sua presenza effimera forse, ma seducente quanto può esserlo una delicata sinfonia sull’animo di un appassionato. E quando mi salutò lasciandomi quasi nel bel mezzo della conversazione perché aveva fatto tardi, una punta

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di tristezza mi accompagnò nel guardarla andar via sgattaiolando leg-gera dal negozio e salutandomi con un vezzoso cenno della mano. Tutto ciò m’incuriosiva tantissimo perché provai una strana sensazio-ne di tristezza quando scomparve dal mio campo visivo. Sapevo che il motivo per cui quella sconosciuta esercitava tanta attrazione su di me esulava dal mero aspetto fisico. Non sono mai stato un uomo sensibile solo alla bellezza esteriore, che pure nel suo caso era evidente, e intui-vo che c’era qualcosa di più che però al momento non riuscivo a iden-tificare. Fu con una punta di difficoltà che tornai al motivo che mi a-veva spinto in quel negozio, la scelta degli ingredienti per la cena. Ep-pure il viso di quella donna non voleva saperne di abbandonare i miei pensieri. Dove l’avevo vista? Non lo sapevo, ma una vocina misterio-sa nella mia testa mi informò che era solo una questione di tempo. Quanto al resto, non avrei dovuto fare altro che aspettare.

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3 Nei giorni che seguirono mi gettai a capofitto nel lavoro cercando l’ispirazione giusta per il mio nuovo romanzo. Il ritmo della scrittura era rapido e le idee scivolavano una dopo l’altra come tante nuvole che danzavano in un cielo fatato. Generalmente la mia attività occupa la maggior parte della mia giornata tipo a meno che altri impegni non richiedano la mia presenza altrove. Ma quello era un periodo strano per me, generalmente così fecondo per quanto attiene alla mia attività di scrittore. La mia fantasia è sempre stata sfrenata e decisamente pro-duttiva, cosa che mi permette spesso di essere avanti di un bel po’ ri-spetto alle mie stesse pubblicazioni. Così non era, però, in quei giorni che mi trovarono privo di opere inedite e per di più senza un valido libro che potesse soddisfare le pressanti richieste della mia casa editri-ce. E in mezzo alla paura di aver perso la mia capacità immaginifica, la voglia di solitudine che mi avvolge quando mi trovo in situazioni delicate come quella e l’insistenza del mio agente che mi rammentava la necessità di scrivere un nuovo romanzo per assicurarmi una pubbli-cazione all’anno, il mio solo pensiero fu in realtà il desiderio di cono-scere meglio la strana pittrice. L’interesse verso di lei non era affatto diminuito e anzi provavo una grande curiosità all’idea di conoscere meglio la sua storia personale e magari di dare un’occhiata ai suoi di-pinti. Cominciai perciò a frequentare il negozio dove lavorava fingen-do, le prime volte, di capitarvi per caso ma ben presto la nostra reci-proca conoscenza ci portò a intavolare lunghe e frenetiche discussioni sulle similitudini e relative distanze tra la sua arte e la mia. Ciò che animava i nostri incontri, mai frettolosi ma neanche intimi, era l’interesse di Altha per lo stesso concetto di emozione che com’è noto è talmente vago e sfuggente da non essere identificabile a priori nei protagonisti di una tela o di un romanzo: “Sono un’iperrealista dei sentimenti!” Amava dire di sé stessa, “ed è nella capacità di fissare sulla tela le emozioni che si riconosce un vero artista da chi non lo è!” A volte facevamo lunghe passeggiate in Town Square per chiacchiera-re all’ombra degli alberi, ma più spesso mi portava in periferia dove

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ancora esistevano vecchi edifici che per lei presentavano un fascino ben maggiore di quelli moderni. Una sera che eravamo più propensi del solito di vederci, andammo a cena insieme al Tinie’s, un costoso ristorante alla moda nell’East End, dove cenammo con pizza e bru-schette. Verso le 22 pagai il conto e uscimmo nella fresca brezza della sera per continuare la nostra chiacchierata. Fu quello il momento in cui le chiesi per la prima volta di vedere i quadri. Mi guardò con una strana espressione prima di rispondere, tipica, a conti fatti, di una per-sona triste o spaventata: “Se ho detto qualcosa che non va…” Comin-ciai timidamente io. “Affatto, Gabriel!” Rispose, “è solo che non ho mai fatto entrare un uomo a casa mia prima d’ora!” “Sul serio?” Cercai di usare il tono più naturale possibile per non indi-spettirla in alcun modo. Lei mi fissò: “Ti assicuro che è la verità.” Scrollai le spalle: “Scusa, non volevo offenderti.” “Non lo hai fatto! Vedi, da quando sono rimasta sola al mondo, non faccio che vagare da un posto dall’altro. La mia sola ragione di vita è dipingere e nient’altro. Non ho mai considerato l’amore o le avventure perché non fanno parte di me. Non ancora per lo meno!” “Capisco quello che intendi. Neanch’io ho una famiglia o una donna con cui dividere la mia vita. La sola cosa che so fare è scrivere e no-nostante quell’idiota del mio editore si ostini a pretendere libri fatti in serie continuo a scrivere senza guardare più di tanto al mercato. E’, questo, il solo modo che conosco per non uccidere la fantasia.” A sentire le mie parole Altha si fermò all’istante guardandomi con una curiosa luce negli occhi: “Uccidere la fantasia?” sorrise, “mi piace questa espressione!” “Ti secca se te lo chiedo di nuovo?” “Cosa?” “Ma è ovvio: vorrei vedere i tuoi dipinti!” Sorrise: “Farai il bravo?” Alzai solennemente la destra, dicendo: “Non comporta fidanzamen-to!” Altha scoppiò a ridere, ma assentì. Usammo un taxi per andare nel suo studio che si trovava nelle vicinanze di South Lane e, mentre l’auto sfrecciava nel buio della notte solo a tratti illuminata dalle insegne al neon dei Night, rimase silenziosa come se fosse indecisa se acconten-tarmi o meno. Mi chiesi se fossi stato troppo precipitoso nell’esporle

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la mia richiesta, anche se ormai non potevo farci più nulla. Risolsi di stare in silenzio a mio volta e quando arrivammo a destinazione pagai e uscimmo dall’auto. Mi ritrovai davanti a un vecchio palazzo che sembrava fuori posto dal contesto generale perchè si trovava a pochi passi dalle zone più moderne di New York. Era un edificio risalente ai primi del ‘900 che se ne stava acquattato tra gli altri palazzi come una belva in procinto di spiccare un balzo verso altri luoghi dell’essere. Non sembrava aver mai conosciuto una mano di vernice che non aves-se più di trent’anni e la sua forma, a cominciare dall’ampio portone ad arco, i soffitti alti e stranamente ancora bianchi, le mura spesse e rive-stite di solidi pannelli di marmo, rivelava buon gusto e una passata impronta di solidità economica. Niente a che vedere, certo, con gli ar-diti disegni cui ci hanno abituati i progettisti moderni, ma una solidità a tutta prova, quasi ossessiva che trapelava in ogni dettaglio, sicuro indizio di un modo di costruire che ha ormai fatto il suo tempo. Subito prima di varcarne l’ingresso una pioggia leggera e sottile, stranamente ritmica, cominciò a ticchettare dolcemente su di noi, le auto ferme ai lati della strada e sui passanti, ammantando ogni cosa degli umidi u-mori delle nuvole. Salimmo la stretta e ripida rampa che portava all’ascensore costruito in ferro battuto come si usava una volta e co-perto di motivi ornamentali oggi desueti. Osservai quella figura snella ed elegante avanzare tranquilla, senza voltarsi o pronunciare una sola parola, e io la imitai, ascoltando il rumore dei nostri passi e dei suoi tacchi che echeggiavano in quegli ambienti austeri e solenni. Una sen-sazione di serena tranquillità mi avvolse e la mia fervida immagina-zione mi portò al cospetto di un luogo dove la pioggia che carezzava l’esterno era in realtà la rugiada scaturita dai sogni del mondo.

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4 Il suo studio era ricavato da una spaziosa mansarda arredata con gusto tutto femminile non privo di un certo estro. L’ambiente era umido e nonostante le evidenti attenzioni cui lo sottoponeva la sua proprietaria era chiaro che aveva visto giorni migliori. I dipinti completi erano già appesi alle pareti mentre quelli ancora in esecuzione erano sistemati sui cavalletti; di questi ultimi, alcuni erano coperti da un drappo men-tre gli altri permettevano di rilevare la tecnica usata dall’artista. Infatti, sulle tele appena abbozzate, un fitto diagramma tracciato a matita rive-lava una minuta precisione dei dettagli. Un po’ ovunque notai boccet-te contenenti le più varie gradazioni cromatiche e su tutto aleggiava un misto tra un odore di pulizia, tempere e profumi di cucina. Senza dub-bio mi trovavo in un posto affascinante, il sancta sanctorum dove Al-tha realizzava i suoi capolavori. Perché di vere opere d’arte si trattava. Se è vero che il senso dell’attesa aveva innalzato la mia curiosità alle stelle è anche vero che non ero assolutamente preparato a quel che vi-di. Tutti i quadri, anche quelli appena cominciati, erano vividi e reali-stici in un modo impressionante. E quel che più mi riempiva di stupo-re era il vedere che effettivamente alcuni dei dipinti ritraevano perso-naggi e situazioni che avevo già descritto nei miei libri. C’era un qua-dro quasi completo, intitolato Il cigno, raffigurante una giovane donna con una gran massa di capelli corvini. Era una figura formosa dagli occhi nocciola e la pelle olivastra; se ne stava vicina a una creatura mitica dal corpo di cigno e il volto di donna che aveva le sue stesse sembianze. Sullo sfondo, un castello enorme e semi diroccato immer-so nel buio della notte eterna. Il suo dolcissimo sguardo, leggermente triste, mi diede i brividi perché in quella tela era stata trasfusa la vita stessa. C’era qualcosa, in quell’opera, che rasentava la follia perché un normale intelletto, artista o meno, non potrebbe, non saprebbe ripro-durre la vita come invece sapeva fare la donna che mi stava a fianco. Mai prima di allora avevo visto opere di tal fatta tranne, forse, quelle degli iperrealisti che riproducono le scene più varie o semplici nature morte con un’incredibile esattezza dei dettagli. Fino a quel momento

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credevo che niente avesse potuto superare quei maestri della prospet-tiva. Ma in effetti mi sbagliavo. Altha era riuscita là dove altri artisti non potevano arrivare neanche nei loro sogni più sfrenati. Guardare per troppo tempo quel quadro equivaleva a piangere lacrime di sangue tanto era perfetta l’esecuzione. Niente a che vedere con ciò che da qualche tempo si chiama arte moderna che tutto sembra tranne… arte. Premetto che non sono certo un esperto, ma è mia opinione che quan-do un manufatto uscito da mani umane rasenta la perfezione, la bel-lezza dell’arte salti agli occhi anche senza avere una specializzazione. Altha me ne mostrò un altro, stavolta appeso a parete, dal titolo Sull’oceano del tempo. Mostrava un mare primordiale a tratti rischia-rato da lampi possenti, sulle cui acque aleggiava una splendida paradi-sea che si dirigeva verso un titanico sperone di roccia su cui troneg-giava la statua di un ragazzo nella posizione dell’attesa. Ogni detta-glio, anche il più insignificante, era rappresentato in modo squisito al punto tale che mi avvicinai il più possibile per verificare che non fosse davvero una fotografia. Sorridendo, l’artista si avvicinò a me con uno sguardo radioso: “Ti piace?” La sua voce lieve, carezzevole, mi parve un sussurro nell’eternità. Non trovavo parole per commentare quei capolavori e lo dissi: “Sono così belli che non sembrano quadri.” La ragazza sorrise: “Scommetto che stai pensando che si tratta di im-magini generate al computer o qualcosa di simile.” In effetti, era proprio il dubbio che mi era balenato: “La tua tecnica è talmente bella che…” “… non preoccuparti!” M’interruppe lei, sorniona “sarebbe certamen-te il pensiero di tutti se vedessero le mie opere.” “Vuoi dire che non hai mai mostrato a nessuno il tuo lavoro?” Scosse elegantemente la testa: “Non ancora. Io non dipingo per vende-re, ma per me stessa. Sono i sogni che realizzo sotto forma di quadri e i sogni vanno protetti, non esibiti.” “Hai ragione,” commentai pensieroso, “questo è quel che farebbe un vero artista che si differenzia dal mistificatore che mira solo al succes-so e, a dirla tutta, nessuno più di me potrebbe capirti.” “E nonostante questo, i tuoi romanzi li vendi…” “Ma io non sono certo un artista.” Obiettai. Altha rise, garrula, mettendo in mostra un sorriso abbagliante: “Ma certo che lo sei… Qualsiasi persona che svolge un attività creativa di un certo tipo è un artista. Anche se ammetto che esistono diverse for-

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me d’arte non vedo perché i tuoi romanzi non lo siano. Io sono una buona lettrice delle tue opere e so riconoscere l’arte scritta da quel che è scritto e basta.” “Hai detto che un artista non vende i propri sogni, no? Quindi io non lo sono.” Mi rivolse un secondo, splendido sorriso: “E’ vero, ma esiste una certa differenza tra fare in modo che i sogni volino e vendere soltanto. Nel tuo caso è normale che le tue opere siano riprodotte in migliaia di co-pie altrimenti non potrebbero essere conosciute. La stessa cosa si fa con i cataloghi delle gallerie che illustrano i dipinti. Ma qual è l’opera reale che si differenzia dalle copie?” Disse queste parole con un sacro fervore che non le avevo ancora vi-sto. Era evidente che credeva moltissimo in quello che faceva: “La mia impressione è che tu stia per dirmela.” Risposi in un soffio. I suoi occhi mandarono lampi: “E’ l’idea la forma d’arte perfetta per eccellenza!” Sedette sull’orlo di un tavolo ingombro di tele bianche e continuò: “l’arte è ovunque, Gabriel, in ogni dove e in ogni tempo, ma serve qualcuno che riesca a vedere ciò che si nasconde nella realtà di ogni giorno per riuscire a farne un dipinto, una composizione, un rac-conto. L’artista vero è un fine egoista, dovresti saperlo. Egli trova se stesso solo nella propria arte e si differenzia dagli altri perché la sua vita e la sua stessa sanità mentale s’inerpicano sulla sottile linea di una conoscenza più profonda e sublime. Pensi forse che basti condurre una vita dissoluta, rabberciare qualche verso o scribacchiare roba alla mo-da per dichiararsi artisti? L’artista vero percepisce che qualcosa nel suo animo ha bisogno di esplicarsi nei momenti più vari del tempo e dello spazio. Prima ancora di essere un lavoro, l’arte è una necessità. E’ ovvio che facendone a meno si viva comunque, ma chi avverte re-almente il suo sacro fuoco nelle vene e non può esprimerlo muore semplicemente d’inedia. Tutti gli altri sono solo volgari imitatori.” Mentre così parlava notai che era sudata e respirava a fatica. Nei suoi occhi vidi una strana luce, un arcano splendore che si irradiava sul suo viso rendendo fisiche tutte le emozioni che provava. Era una qualità che trascendeva l’essere umano e la rendeva simile a qualcosa che so-lo vagamente aveva legami con il mondo di ogni giorno, preferendo restare a osservare il banale affaccendarsi delle cose umane ai margini di una dimensione diversa dell’essere e del sentire. Per un secondo che sembrò eterno mi chiesi se fuggire o restare a contemplarla ammaliato, poi lo splendore scomparve lasciandomi nella più completa confusio-

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ne. Sbattei diverse volte le palpebre come per liberarmi di un sogno troppo vivido e in quel momento avvertii la delicata mano della mia interlocutrice sfiorarmi il polso: “Gabriel, tutto bene?” Assentii, ancora un po’ confuso: “Credo di essere un po’ stanco; ulti-mamente ho lavorato tanto, ma non riesco ad avere l’idea giusta per il mio prossimo romanzo e se aggiungi l’editore che mi sta alle costole capisci ciò che intendo dire. Devo essere un po’ stressato e questo è quanto.” “Vuoi qualcosa da bere?” La testa mi girava e il suono delle sue parole mi giunse ovattato come se provenisse da un mondo lontano e non di questa terra. Riuscii a non cadere solo perché Altha mi aveva afferrato per le braccia. Mi aiutò a sedere con delicatezza quindi preparò un drink. Quando mi passò il bicchiere assaporai il piacevole tintinnio dei cubetti di ghiaccio, ma centellinai il contenuto lentamente. Restammo in silenzio per un po’, ciascuno perso nelle proprie fantasie. Ero ancora confuso e non mi spiegavo la stranissima sensazione che avevo provato qualche istante prima nell’osservare i suoi occhi. Finii di bere e le porsi il bicchiere che depose con garbo su un tavolinetto, poi mi venne di nuovo vicino, lanciò un’occhiata veloce al suo orologio da polso e mi sussurrò: “Si è fatto tardi…” Abbozzai un sorriso: “Va bene!” Ricambiai un casto bacio che mi die-de sulle guance e mi accompagnò alla porta. Mi chiese se volessi un taxi per il ritorno, ma rifiutai: “Una bella passeggiata è quel che mi ci vuole dopo tante emozioni.” “Verrai a rivedere i miei quadri?” Più che un invito le sue sembravano parole di speranza: “Se m’inviterai ancora!” Con un sorriso, richiuse delicatamente alle mie spalle la porta e a me non restò altro da fare che usare l’ascensore. Una volta in strada m’incamminai placidamente verso casa, ma il mio pensiero tornava alla serata appena trascorsa. Nonostante la frequentassi da un po’ non potevo ancora dire di conoscere realmente Altha. Certo, la sua era una personalità complessa e affascinante, ma strana. La sua eccentricità era seconda solo alla sua arte e forse in questo stava la chiave dei ca-polavori che mi aveva mostrato. Ma chi fosse realmente, quali i suoi pensieri sulla nostra reciproca conoscenza lo ignoravo. Mi rendevo conto di non conoscere nulla di lei; il suo passato e la sua vita mi era-no ignoti, come se quella ragazza fosse un’incognita misteriosa e in-

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conoscibile che nulla lasciava agli altri se non lo splendore della pro-pria arte sovrannaturale. Arte e Bellezza parevano i soli scopi della sua esistenza, infiniti in ogni direzione e tuttavia presenti solo per chi li sapesse cogliere. Mi resi conto in quel momento con un brivido inat-teso della terrificante seduzione che esercitava sui miei sensi con ogni gesto, ogni parola, ogni movimento aggraziato dei suoi capelli di seta perché di quella donna vedevo solo ciò che lei desiderava che vedessi, non il resto. Quali erano le sue intenzioni e che ruolo avevo io nei suoi propositi mi era del tutto ignoto; una consapevolezza, questa, che in situazioni normali non avrebbe mancato di farmi drizzare le antenne ma che, in quel caso, non ebbe alcun potere. Qualsiasi cosa fosse, sen-tivo che Altha era parte di me e in un moto di sorpresa per la mia stes-sa audacia arrivai al punto da mettere da parte le domande sulla sua vita, poiché ciò che anche a me interessava, la suprema bellezza dell’Arte, era tutta racchiusa in quella donna misteriosa ed eterea, ca-pace di modellare in forma compiuta la stessa materia dei sogni.

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5 Trascorse un po’ di tempo prima che potessi rivederla. Dopo quella strana serata mi buttai a capofitto nel lavoro ma nonostante la mia buona volontà non riuscii a mettere su carta niente di valido. Pagine e pagine si affastellavano le une sulle altre, ingombrando la mia scriva-nia e componendo pile cartacee di scarsa utilità. In cuor mio sapevo perfettamente cosa non andava: lo scrivere su commissione, che è poi la costante di ogni scrittore che abbia firmato un contratto con una grossa casa editrice, non soddisfaceva affatto i miei standard di qualità né tanto meno le mie esigenze. Naturalmente capivo benissimo le di-namiche che stanno dietro il mondo editoriale, ma non potevo negare l’evidenza dei fatti. Purtroppo io non possiedo le qualità che permet-tono a molti di architettare ingegnose banalità fatte in serie concepite per soddisfare sia gli editori che i lettori; per quanto mi riguarda o scrivo le storie che stanno in fondo al mio animo o non ho molte spe-ranze di continuare a scrivere. Ma se da una parte il mio modo di esse-re non mi rende parte della cerchia dei cosiddetti scrittori professioni-sti, dall’altra sono libero di esprimere il mio talento senza tener conto delle richieste del mercato. Per niente al mondo cambierei questa po-sizione perché detesto sottostare ai prosaici canoni produttivi della meccanizzazione consumistica che ormai interessa ogni aspetto dell’attività umana. E anche se di tutto questo non davo certo respon-sabilità al mio editore mi trovavo comunque a un punto morto da cui avevo fretta di uscire. In quei giorni composti di frustrazione e tristez-za il lato eccentrico del mio carattere ne fu favorito e mi allontanai da tutti, conoscenti e amici, rifugiandomi sempre più nella solitudine. Spesso ripensavo ad Altha e alle sue meravigliose tele, ma nonostante la curiosità che agitava le mie notti non volli farle visita nel negozio dove lavorava perché non volevo darle l’impressione di essere oppri-mente. Considerate le tante variabili oscure di quella faccenda, forse avrei fatto meglio a lasciare l’incombenza di rivederla al destino, sen-za fare niente per aiutarlo. Continuai a vivere in questo modo per un po’ fino a quando non decisi di trascorrere qualche giorno nella mia

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baita in montagna in modo da lasciarmi alle spalle New York e tutte le sue distrazioni. Decisi così perché, se la mia ispirazione sembrava proprio essersi concessa una vacanza, io avevo tutte le intenzioni di andarla a trovare. Al riparo dei boschi e delle tranquille acque del la-ghetto che brilla nella valle di Nederland scrissi molto, mi rilassai e vissi in pace come non mi riusciva da molto tempo. Lentamente, la voglia di scrivere sul serio tornò a guizzare nelle mie vene assopite a causa della vita cittadina e il suo imperioso desiderio ridiventò la co-stante dei miei pensieri. Ad Altha non pensai, non consapevolmente almeno, e i miei sogni tornarono tranquilli e produttivi. Scrissi un nuovo racconto che avrebbe costituito l’inizio del mio prossimo libro e nel rileggerlo mi rallegrai di riconoscere in quelle pagine l’impronta della mia solita capacità descrittiva. Quando tornai a New York ero rilassato e mi sentivo in grado di affrontare la vita di ogni giorno con un nuovo vigore. Per tutto il tempo della mia vacanza dal mondo non avevo pensato alla strana pittrice ma quando rividi i familiari gratta-cieli dell’East End il pensiero di lei rioccupò dolcemente il mio cervel-lo. Ripensai al suo sorriso, alle parole che mi aveva detto, alla stranez-za del suo atteggiamento quando parlava delle sue tele. Mi stupii di me stesso quando cambiai idea e avvertii una certa tristezza a non a-verla avvertita dei miei spostamenti, anche se non sapevo minimamen-te spiegarmene la ragione. Mentre così pensavo raggiunsi la mia abita-zione, una villetta immersa nel verde che caratterizza un po’ tutto il tranquillo quartiere di White Lane, subito alle spalle del quartiere spa-gnolo. Salutai con un cenno del capo un paio di conoscenti e mi ap-prestai a parcheggiare l’auto nel box. Sulle prime non feci minima-mente caso al curioso oggetto che qualcuno aveva lasciato sul piane-rottolo dell’ingresso, ma quando gli fui davanti non potei non notarlo. Si trattava di una cassa di legno di medie dimensioni, recante il timbro delle poste newyorchesi, ma nessuna indicazione sul mittente o sul contenuto. L’oggetto, il cui fasciame esterno era realizzato in legno di pino, era perfettamente liscio e senza una macchia. A un lato vidi un foglio protetto dal cellophane con il mio indirizzo e il mio nome, ma nessun altra informazione. Provai a sollevarla constatando con un cer-to sollievo che non era per nulla pesante. Armeggiai qualche minuto per trovare la chiave di casa, quindi diedi una pedata alla porta dell’ingresso ed entrai nel disimpegno di casa mia. Posai con attenzio-ne l’oggetto sul pavimento, richiusi la porta e gettai la giacca che in-dossavo su un divano, accanto ai fogli del mio manoscritto. Più tardi,

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armato di un cacciavite sollevai delicatamente il coperchio della cassa e subito avvertii un lieve profumo, molto dolce, che mi ricordava il legno di sandalo. C’era un telo di lino grezzo di ottima qualità avvolto strettamente attorno al vero contenuto della cassa. Evidentemente, il misterioso autore del gesto ci teneva all’integrità dell’oggetto. Nono-stante la copertura di protezione, notai subito che con ogni evidenza si trattava di un quadro privo di cornice. Anche se ancora non capivo come avesse fatto a conoscere il mio indirizzo, risolsi che forse Altha aveva deciso di farmi dono di una delle sue tele e all’apice dell’eccitazione tolsi il drappo con movimenti convulsi delle mani. Ma il mio desiderio di rivedere uno dei suoi capolavori fu vano perché quello che liberai dal lino era soltanto una tela bianca. Senza perdermi d’animo, scartabellai nella cassa dove trovai un foglietto con un nume-ro di cellulare seguito da una parola, Althaira. Così quello era il suo nome completo, il nome di una stella. C’erano molte domande che vorticavano nel mio cervello, ma non diedi loro peso limitandomi a comporre il numero immediatamente. Il telefono squillò per un po’, poi qualcuno sollevò la cornetta e pronunciò un “pronto” affrettato, quasi seccato. Nonostante il tono affatto amichevole riconobbi in quel suono la voce della mia misteriosa conoscente: “Pronto?” Disse di nuovo. “Sono davanti alla cassa che mi hai spedito!” Risposi senza mezzi ter-mini. La voce all’altro capo del telefono emise un leggero risolino: “Sei tor-nato! Come sono andate le tue vacanze?” Confesso che la voglia di rivederla era altissima, ma in quel momento il mio ego non mi permise di essere accomodante come la situazione richiedeva: “Posso chiederti, per favore, come hai fatto a sapere dove abito?” Cominciai. Ma il mio tono minaccioso non scompose minimamente la mia anta-gonista e, anzi, rese più dolce la sua risposta: “So molte cose di te, Gabriel. Non ti dice niente quella tela?” “Dovrebbe?” “Credevo fossi più intelligente di così.” Stavo cominciando a innervosirmi: “Come devo chiamarti, Altha o Althaira?” “Althaira è il mio nome, ma tutti lo abbreviano in Altha, per comodità. Mi spiace vedere che non hai apprezzato il mio dono, ma ti assicuro che non intendevo offenderti.”

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“Non lo sono,” la dolcezza dei suoi modi mi aveva tranquillizzato, “ma devo ammettere che mi aspettavo di trovare un quadro, uno dei tuoi, e invece trovo un indovinello. Ti assicuro che in un altro momen-to mi sarebbe piaciuto risolverlo ma per una volta vorrei qualche spie-gazione in più.” La voce all’altro capo del filo perse immediatamente il suo tono alle-gro e ridivenne seria: “D’accordo Gabriel, ti dirò tutto. Come te, anch’io sono una persona molto sensibile e decisamente outré, se ca-pisci cosa intendo. Direi, anzi, che le nostre esistenze sono in qualche modo reciprocamente interdipendenti. Sono alla ricerca dell’ispirazione giusta per un nuovo dipinto e come ti ho accennato tempo fa, capita che faccia uso delle atmosfere che leggo nelle tue o-pere. Forse, tu e io potremmo esserci utili a vicenda. So che hai scritto un nuovo racconto e forse potrei servirmene per dipingere un altro quadro, no?” “Come sai che…” Tentai. Non mi diede il tempo di finire: “… so tutto di te e dei tuoi sogni. Co-nosco ciò che agita le tue paure più recondite e le tue speranze più bel-le. So che non sei contento della prosaica esistenza degli uomini e ane-li a cercare oltre il velo della vita per scoprire cosa si estende al di là di essa. Tu desideri contemplare l’Idea dell’Arte come faccio io, ma questo desiderio, che pure ti muove, da un lato ti atterrisce perché hai paura dell’ignoto. La tela che ti ho inviata è un simbolo, ogni cosa lo è, basta saper guardare. I protagonisti dei tuoi racconti sanno dove guardare, lo hai scritto tu, no?” “E’ vero ma…” “… e tu sai dove guardare, Gabriel?” Tagliò corto lei, quasi a mezza voce. “Stai parlando ancora per enigmi!” Osservai, “cosa significa?” “Che un artista vero è in grado di vedere ciò che i comuni intelletti non vedono; è lui il grande demiurgo della sua opera, il deus ex machina che tira i fili della vita stessa rendendo le sue opere vive e re-ali. Perché nella sua arte, che la chiami ‘dipinto’ o ‘romanzo’ non im-porta, egli è in grado di realizzare i sogni. Io ti ho inviato il tuo sogno, Gabriel, ma a modo mio. Per te è un mucchio di pagine bianche da riempire di parole, per me è una tela bianca su cui fissare forme e sfumature. Entrambi diamo la vita a un’idea che prima di acquisire forma materiale esiste solo nella nostra mente. Tu e io siamo creatori di stelle!”

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“Voglio vederti ora, subito!” “Pensavo dovessi scrivere.” “Voglio vedere te!” Ripetei. “Non adesso, Gabriel, non sono ancora pronta per te. Ti chiamerò io.” Ciò detto, riattaccò senza darmi il tempo di rispondere. Feci nuova-mente il suo numero, ma aveva già spento il telefono. Posai con di-sappunto il cordless sul tavolo e imprecai. Forse, dopotutto, avrei do-vuto dimenticare quella donna e i suoi giochetti se davvero volevo riacquistare il controllo delle mie azioni. Quel che era certo è che non avevo più il controllo della mia vita e neanche dei miei pensieri. Di scrivere proprio non era il caso, così trascorsi il resto della giornata facendo tutto e niente, a volte bighellonando senza meta al volante della mia auto. L’impulso di correre da lei e chiederle spiegazioni una volta per tutte sfiorò la mia mente, ma non lo misi in pratica per rispet-to al mio amor proprio. Cenai fuori, da solo, in una pizzeria del centro, ma tornai a casa piuttosto presto. Rividi la tela nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata quella mattina, candida, senza una macchia, po-sata sulla cassa al posto del coperchio. Alla luce dei lampioni che fil-trava attraverso le imposte la sua superficie pareva fatta di avorio anti-co. La sollevai con una mano e percepii di nuovo quel buon profumo di sandalo. Ma c’era dell’altro che sull’istante non potei decifrare. Poi mi accorsi che non era così bianca come avevo creduto, ma che c’era un disegno eseguito a matita che non avevo notato. Incredulo, accesi la luce di una vicina lampada da pavimento e per poco non vacillai dallo stupore. L’immagine, eseguita con la tecnica del carboncino, pa-reva guardarmi dalla superficie bidimensionale della tela e mostrava una stupefacente precisione dei dettagli. Eppure la prima volta che a-vevo visto quell’oggetto non c’era traccia del minimo segno sulla sua superficie! Ero vittima di un’allucinazione? Scossi la testa, incredulo su quel che mi era capitato, come se quel semplice gesto bastasse per farmi capire l’arcano. Poi qualcosa nell’aria cambiò e percepii una sorta di vibrazione o un ronzio, che riempì la mia consapevolezza mi-nacciando di farmi perdere l’equilibrio. Chiusi gli occhi un momento, confuso e, quando finalmente riportai lo sguardo su quella tela mi cadde dalle mani in un urlo di stupore. Là, davanti a me, se ne stava l’immagine esatta di Altha che mi fissava sorniona dalla tela. Non po-tevo essere impazzito, e di certo ero sveglio e non immerso nell’oblio di un sogno particolarmente vivido. L’impressione che non si trattasse di un oggetto ma di una cosa viva mi atterriva oltre ogni descrizione,

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ma non potevo, non volevo allontanarmi da lì. E quando quelle labbra dipinte formularono il mio nome, un urlo disumano, il mio, proruppe dal mio animo spaventato, prima che il mondo cominciasse a girare vorticosamente permettendomi di vagare, ormai libero, tra gli aspetti più remoti della mia anima in tempesta.

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6 Mi svegliai adagiato nel mio letto in un bagno di sudore. Ero ansante, spaventato e la testa mi girava. La pioggia ticchettava lieve sui vetri della finestra e il suo mormorio mi aiutò a rilassarmi. Sospirai rumo-rosamente, inquieto. Non sapevo dove fossi, non sapevo neanche per-ché mi trovavo lì. Poi, lentamente, misi a fuoco ciò che mi circondava e capii di essere nel mio letto. Non osavo alzarmi e scendere di sotto perché non sapevo se la tela fosse ancora lì dove l’aveva vista la sera prima. Il disegno che avevo visto, la voce che avevo udito erano stati solo un sogno frutto della mia mente eccitata? O la spiegazione era più semplice e forse tutto si risolveva in una normale allucinazione da troppo stress? Mi puntellai sul letto aiutandomi con i gomiti e lanciai un altro sospiro. Il rumore della pioggia mi tranquillizzava e immagi-nai la gente ammantata di ombrelli e le macchine sferragliare rumoro-samente sulle strade. La penombra che avvolgeva la mia stanza con-tribuiva a rilassarmi e cercai di non pensare al fatto che, in effetti, non avevo la più pallida idea di come mi trovassi sul letto. Mi alzai con un solo e rapido movimento e raggiunsi l’ingresso a piedi nudi, come se istintivamente temessi ogni rumore. La cassa era lì, esattamente dove l’avevo lasciata, ma sulla tela non c’era ombra di carboncino o matita! La scoperta avrebbe dovuto darmi più certezze, ma stranamente riuscii solo a provare una nuova, sottile paura. Non toccai quegli oggetti, non m’interessavano più, invece risalii di sopra e mi vestii per uscire. Or-mai ero certo che la situazione mi fosse sfuggita di mano e non ero nelle condizioni mentali di poter fare congetture logiche e solide. Tra il raccattare i vestiti che avevo indossato il giorno prima, sparsi per tutto il pavimento e il gettarmi sotto la doccia impiegai pochissimo tempo. La piacevole sensazione procuratami dall’acqua tiepida mi av-volse e per qualche istante riuscii a non pensare. Poi mi vestii e infine oltrepassai la soglia di casa evitando di guardare ciò che giaceva a po-chi passi dall’ingresso. Un’occhiata al mio orologio m’informò che erano soltanto le 10 del mattino; il cuore mi sobbalzava violentemente nel petto a ogni passo e tutto ciò che vedevo, dai passanti alle insegne

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dei negozi, dalle nuvole alla pioggia che bagnava ogni cosa di rugiada, mi parlava di Altha e della sua arte. Cosa avesse quella donna per ap-parirmi così seducente lo ignoravo, ma ogni volta che pensavo a lei, alla sua voce suadente, alla sua stessa presenza accanto a me provavo una indefinibile sensazione di familiarità. E quando un’ora dopo rag-giunsi South Lane tremavo di rabbia e desiderio insieme. Avrebbe po-tuto essere in qualsiasi posto, al lavoro o semplicemente a fare shopping, ma non intendevo bussare. Stavo per voltarmi quando udii il familiare squillo del mio cellulare che era rimasto acceso dalla sera prima: “Sali, Gabriel.” Disse una voce quando sollevai il flip per ri-spondere: era lei. Non mi chiesi come avesse fatto a sapere che ero lì né mi premurai di sollevare lo sguardo nella speranza di vederla affac-ciata da un balcone, ma salii e basta. Non mi fidai del vecchio ascen-sore e salii a piedi, ansando, fino al quarto piano. La porta del suo ap-partamento era lievemente accostata e lasciava filtrare una luce vapo-rosa. La porta del suo studio mi apparve come in un sogno, un portale antico e terrificante dove la mia logica svaniva e restava solo il mio desiderio di credere ai sogni. Esitai un attimo prima di bussare ma so-lo nell’istante del gesto mi accorsi che quella porta era socchiusa. Di-menticando le buone maniere e qualsiasi accenno di cautela entrai in quell’ambiente pulito, ma avvolto da una fitta oscurità. Le finestre e-rano infatti chiuse e solo lembi di luce filtravano timidamente dalle imposte scrostate dal tempo e dagli elementi. Quando la vidi, il cuore perse un battito e mi arrestai, confuso, in preda all’eccitazione di rive-derla. Era di spalle, seduta davanti a una tela incompiuta, in mezzo a una confusione di pennelli e tavolozze dalle forme più disparate. Una lampada a acetilene illuminava la stanza e riverberava sulla sua pelle esaltando le sue morbide forme. La tela che aveva davanti era solo un disegno a carboncino ed era niente di più che uno schizzo preparato-rio. Senza neanche voltarsi, mi disse: “Sono felice che tu abbia rispo-sto al mio invito.” La sua voce, delicata come al solito, mi sconvolse e balbettai confuse scuse riguardanti il mio modo di entrare in casa d’altri. Un attimo do-po ricordai di non aver ricevuto alcuna telefonata da parte sua e lo dis-si, ma ciò non la scompose: “Ti ho mandato un messaggio sul telefo-no, non ricordi?” Senza rispondere, tirai fuori da una tasca il mio cellulare e notai la co-nosciuta icona di un sms sul display. Non aprii il messaggio, non era necessario, ma mi chiesi se non fosse un’altra coincidenza anche quel-

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la. Non dissi nulla e la guardai armeggiare intorno a una tela, o almeno così mi parve. Le chiesi se fosse troppo occupata per ricevermi, ma Altha scosse il capo in un cenno di diniego. Nel rispondermi si voltò e io per poco non arretrai dall’emozione. Quella donna aveva una bel-lezza che andava al di là dell’aspetto fisico e avanzava con una sorta di grazia fluida che toglieva il respiro. Era carezzata da uno splendido vestito di satin azzurro e ai piedi minuti e delicati portava sandali alti che valorizzavano le sue caviglie sottili ed eleganti. Nel complesso, comunque, un ben strano abbigliamento per qualcuno che vuole di-pingere. Ma usare le parole per descrivere la perfezione è poco meno che inutile. Non ricordavo fosse così splendida e man mano che si av-vicinava cercai convulsamente di chiedermi il motivo di tanta ammi-razione da parte mia. Non avevo forse visto altre belle donne? Perché, dunque, tanto sconcerto al suo solo apparire? Mi venne davanti legge-ra come una tigre rivolgendomi un sorriso suadente: “Sei qui per i miei quadri, vero?” “Sono qui per vederti e contemplare le tue opere insieme a te.” Dissi semplicemente. Lei sorrise: “Vieni, allora.” Mi fece strada fino a una stanza dove conservava le tele che ancora non mi aveva mostrato. Quando le vidi capii che erano tanto ben ese-guite da essere impossibili da descrivere senza cadere nei limiti del linguaggio umano. Non avevano nulla a che vedere con tecniche note nel passato della grande arte italiana o di quella olandese. E in verità non avevano niente da spartire con nessuna tecnica che avessi mai vi-sto. E stavolta ebbi la prova che neanche gli iperrealisti si avvicinava-no a quei risultati sconvolgenti, perché quelle opere superavano la per-fezione di ogni altra tecnica rasentando una perfezione sublime. Poi, Altha mi guidò davanti a una serie di quadri che non avevo ancora vi-sto; uno di essi era intitolato Il mare della memoria e raffigurava una giovane donna su una nave a vela ritratta sullo sfondo di un oceano in tempesta. Anche questo, come alcuni degli altri dipinti, si ispirava a uno dei miei racconti di cui riutilizzava integralmente il titolo. Fu, quindi, con un’emozione sottile che contemplai le minute sfumature di quell’oceano vorticoso su cui un fragile sloop lottava per non farsi in-ghiottire dai suoi flutti iracondi. La donna che governava la nave esi-biva tratti talmente impressionanti da non sembrare dipinta e neanche una fotografia. L’altro dettaglio che mi riempì di commozione era che i suoi lineamenti erano sorprendentemente simili a quelli che avevo

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immaginato io nell’atto di scrivere il mio racconto. Non mi chiesi se cose del genere possano realmente essere attribuibili al caso o a una serie di curiose coincidenze perché l’istinto mi avvertiva che quella non era la sola meraviglia che mi attendeva. Come a rendere concreti i miei pensieri, Altha mi mostrò un’altra tela dall’esauriente titolo di Ultima Thule, ossia quello del romanzo che avevo pubblicato solo tre anni prima. Ma se il mio libro descriveva un mondo primordiale fatto di ghiaccio e Solitudine, quel quadro aveva il potere di rendere le pa-role che avevo scritte in immagini perfette! Le Montagne Transantar-tiche, cuore della mia narrazione, erano lì rappresentate talmente bene da rendere difficile distinguere quella tela dalla realtà nuda e cruda. Quale incredibile, sovrannaturale tecnica aveva a disposizione l’artista per realizzare quel capolavoro senza eguali? Quali conoscenze, per quanto perfette, avevano il potere di produrre un risultato simile? Spinto da un impulso che non so spiegare, tesi le mani fino a sfiorare il dipinto. Una sensazione di gelida carezza sfiorò le mie dita e istinti-vamente le ritrassi. In quel momento avvertii una mano delicata sfio-rarmi la spalla. Era la mia ospite: “Continua…” Mi sussurrò. Il cuore mi batteva impazzito nel petto e la mia fronte era imperlata di sudore perché grazie al mio gesto di prima avevo intuito, anche se non potevo accettarla, la terrificante verità che si nascondeva dietro quei dipinti. Feci tuttavia come mi aveva chiesto e tastai quella che credevo essere la superficie del quadro. Quando avvertii il ghiaccio rendere e-sangui le mie dita le ritrassi di scatto, spaventato. Guardai Altha, men-tre domande senza risposta vorticavano nella mia mente spaventata e senza più difese. Con voce tremante le chiesi una spiegazione e di nuovo la mia ospite parlò con un tono tranquillo: “Cominci a capire cosa sono i miei quadri?” Non ebbi la capacità di rispondere; la mia mente era troppo sconvolta per essere lucida. Niente di quel che vedevo apparteneva alla normale realtà di ogni giorno e fare domande in quel momento sarebbe equi-valso a chiedere spiegazioni logiche alla follia. Ma se io non riuscivo a proferire parole sensate, Altha non intendeva darsi per vinta e parlò al posto mio: “Questi sono sogni, Gabriel, i sogni che tu stesso hai con-cepito!” Scossi il capo davanti all’enormità di una simile affermazione ma, di nuovo, restai in silenzio perché le mie labbra non si mossero: “Perché no?” Aveva continuato lei, “ti sei mai chiesto cosa provano i lettori di un libro quando sono bambini? Quando leggono di mirabolanti avven-

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ture nei mari tempestosi, quando sognano di volare in compagnia di una bellissima fata? E i quadri, Gabriel, i quadri degli iperrealisti che tanto ammiri! Splendidi, è vero, ma quando li tocchi capisci che sono solo un illusione. Ma queste opere non sono una mera rappresentazio-ne della realtà, sono la realtà stessa! I miei quadri sono finestre che portano nei sogni di chi li ha immaginati.” “Perché?” Domandai, sconvolto da quelle rivelazioni. “Perché sono io quella che ti farà sognare di nuovo.” Ciò detto, Altha mi venne davanti e io vidi le sue spalle sottili, fine-mente disegnate, sovrastate da un esile collo ornato da una rosa di cri-stallo, la stessa che avevo visto durante il nostro incontro al negozio dell’antiquario. E come se quella donna mi avesse soggiogato con un potente incantesimo non pensai più alla realtà, alla logica, alle noiose attività del mondo esterno. Sollevai una mano e la passai tra i suoi ca-pelli come a sincerarmi che fosse vera e non un illusione. Quell’esile contatto mi diede la certezza che la realtà come la conoscevo si era cristallizzata nel grigiore di ogni giorno. “Vedi,” continuò lei, “io sono qui perché lo desideri.” “Io non so cosa desidero, voglio solo scrivere.” Riuscii a dire. “Stai facendo qualcosa di più, Gabriel; anche se non ne sei veramente consapevole, in questo momento tu stai desiderando di scrivere.” Ciò detto si avvicinò a me offrendomi le sue labbra morbide che assa-porai avidamente. Immersi le mie mani nei suoi capelli morbidi e chiusi gli occhi, ormai inebriato dal profumo di quella donna che eser-citava una così potente attrattiva sui miei sensi. E provai la sensazione, struggente e delicata, di fluttuare verso un piano che non aveva riferi-menti con la mia normale esperienza di tutti i giorni. Immagini sfocate e indistinte cominciarono a vorticarci davanti in una babele di suoni e gradazioni cromatiche, poi mi accorsi di cadere senza peso verso il nulla più profondo ma non provavo alcuna emozione. In un certo sen-so, sapevo che Altha era con me e questa semplice consapevolezza mi rassicurava. Quando riaprii gli occhi mi accorsi di trovarmi su una su-perficie solida che non aveva niente a che fare con il suo studio. E in quel momento capii che Altha, o qualsiasi fosse il suo nome, era scomparsa.

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7 Non esistono parole in grado di fornire una descrizione attenta del luo-go dove mi ritrovai. Sapevo solo di essere posato su qualcosa di concreto, ma in realtà non saprei dire se mi trovassi sul pavimento di un’abitazione o sul suolo di una landa solitaria. E, del resto, avevo la curiosa sensazione di non usare alcuno dei sensi fisici per guardarmi intorno. L’impressione di cadere che avevo provato solo un istante pri-ma era scomparsa, sostituita da un rumore, ritmico, inquietante, prove-niente da un punto lontano nello spazio. Per diverso tempo l’ambiente intorno a me sembrò confuso, indistinto e a parte l’odioso rumore in lontananza niente turbava quel luogo. Poi, come se i vari aspetti del paesaggio apparissero davanti ai miei occhi dal Nulla, vidi un bosco costellato di alberi imponenti che oscuravano il cielo con i loro rami frondosi. Istintivamente rabbrividii perché l’aria era praticamente ghiacciata. Possibile che fossi realmente sveglio? Mi tastai il volto, toccai la corteccia degli alberi, passai le mani tra le foglie umide, ma constatai con raccapriccio che era tutto vero. Dal suolo si alzava una nebbia fitta e turbinante che mi dava ai nervi. Avanzai con cautela in quell’ambiente vasto e misterioso e per un certo tempo provai la strana impressione che non fossi realmente solo, ma che vi fosse qualcuno o qualcosa che mi osservava. Pensai potesse trattarsi di Altha, e allora la chiamai a gran voce, ma non ottenni risposta. Allora continuai la mia esplorazione ma non riuscii a trovare alcuna traccia di eventuali esseri viventi. Ero dunque solo con me stesso. Il terrore di questa sensazione mi atterrì a tal punto che mi accorsi di tremare. Per quanto cercassi, non riuscivo a capire il senso di ciò che stavo vivendo, ma era al di là di ogni dubbio che quel che vedevo e sentivo non era un sogno lucido, e neanche l’esperienza allucinata prodotta da una sostanza psicotropa. Tuttavia, l’istinto mi diceva che se avessi scoperto cosa in realtà si na-scondeva dietro l’assurda situazione che stavo vivendo sarei impazzito. A un tratto mi parve di vedere qualcosa in lontananza, una minacciosa massa scura che si elevava beffarda tra la terra e il cielo, in attesa dell’incauto che osasse fargli visita. Il mio cuore sussultò

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quando riconobbi l’immensa massa di un rudere che avevo già de-scritto in un mio racconto. Era un immenso parallelepipedo di pietra marrone scuro, macchiato qua e là dal verde di un muschio dall’o-dore sgradevole, terrificante. La grande porta ad arco che si apriva nella facciata ovest era aperta, come se qualcuno fosse appena entrato nell’edificio. Un senso di arcano stupore pervase la mia mente, perché mi rendevo conto di osservare qualcosa che avevo soltanto im-maginato, ma che in quello strano luogo era reale e concreto, come se la sua massa oscillasse tra il Tempo e lo Spazio in eterno. Ogni blocco di pietra che componeva il castello del Nederland era rea-le in ogni dettaglio, e io mi chiesi se non mi trovassi in una sorta di realtà alternativa dove le invenzioni artistiche assumono forma e so-stanza. Un mondo dove le elaborazioni mentali umane come un rac-conto, un quadro, o la melodia composta su uno spartito diventano reali, esattamente come nella realtà di ogni giorno sono reali gli ogget-ti di uso comune. Mi resi conto che questa era la sola ipotesi plausibile e, data la situazione in cui mi trovavo, non era il caso di essere scetti-co. Ma se le cose stavano realmente così e quello che mi ero appena lasciato alle spalle era veramente il castello del Nederland, chi era l’artefice di quel mondo? E la donna che si faceva chiamare Altha che ruolo aveva in tutto questo? Mi chiesi se avessi potuto incontrare altri scrittori in quel luogo preternaturale, anche se al momento non vedevo nessuno. Con questi pensieri mi inoltrai nel bosco perché volevo stare lontano da quel castello misterioso. Dopo un certo periodo di tempo avvertii il tipico rumore prodotto dallo sciabordio delle onde su una spiaggia e mi affrettai nella direzione da cui proveniva il suono. Men-tre avanzavo mi resi conto che il cielo, prima plumbeo e irto di nuvole, si andava rarefacendo in un azzurro terso e delicato. Non vidi traccia del sole, se pure in quel posto potesse esistere il sole, ma una splendi-da luminosità che non feriva gli occhi era ovunque. Mi ritrovai davanti a una spiaggia completamente bianca, la cui sabbia finissima era lam-bita dalle acque cupe di un oceano senza fine. In genere amo il mare e quando voglio rilassarmi davvero spesso vado in posti dove possa ap-prezzare il placido mormorio delle onde, ma in quella circostanza mi sentii stranamente inquieto e quasi spaventato. Quelle acque, infatti, erano scure, innaturalmente scure, e si muovevano come se fossero composte da olio. E anche la schiuma che il vento sollevava sulla loro superficie corrucciata sembrava cristallizzarsi per infiniti attimi nell’aria prima di scomparire. Era mia impressione che esistessero

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strani legami tra gli oggetti che vedevo, alberi, mare, cielo, legami di-versi da quelli del mondo reale. Stavo così pensando quando mi resi conto che nell’aria si avvertiva una sorta di vibrazione curiosa che non riuscii a identificare. Il suono diventò gradatamente più avvertibile poi le onde si ingrossarono e qualcosa di candido ed enorme emerse a po-ca distanza dalla mia posizione sollevando un enorme quantità d’acqua e schiuma. Resomi improvvisamente conto che sarei annega-to, mi misi a correre all’impazzata in direzione opposta, ben sapendo che le acque mi avrebbero investito ugualmente. E infatti fui raggiunto da un mare primordiale che passò attraverso il mio corpo come se fos-si un fantasma. Urlai con quanto fiato avevo e chiusi gli occhi, come se quel semplice gesto potesse allontanare il terrore. Ma non fui tra-volto né avvertii minimamente il contatto delle acque, solo il suono, alieno e beffardo, che martellava i miei timpani con precisione mate-matica. Facendo un certo sforzo di volontà mi alzai e sollevai lo sguardo per dare un’occhiata intorno. Non c’era più traccia dell’ondata e l’oceano si era ritirato parecchio sulla spiaggia. Ma un nuovo oggetto si stagliava splendente nel liquido elemento, un’immane montagna di ghiaccio di proporzioni titaniche che si ele-vava enigmatica verso il cielo. Fu in quel momento che l’aria diventò ancora più gelida mentre l’enorme massa di ghiaccio cominciò lenta-mente a stabilizzarsi. A quella vista, mi fermai, tremante, incapace di proferire un solo suono. Il solo pensiero che abitava la mia mente era quello di fuggire il prima possibile dal quel mondo alieno. Allora mi scagliai verso gli alberi correndo a perdifiato per lunghi minuti vol-tandomi di tanto in tanto per assicurarmi che niente o nessuno mi se-guisse. Finalmente arrivai a uno spiazzo privo di vegetazione e lì mi fermai, ansante. Ero sconvolto, ma non abbastanza da non notare che l’aria era diversa da quella che si respirava sulla spiaggia e più vivibi-le. Anche gli alberi che vedevo in lontananza parevano differenti, più scuri, e di una specie che non riuscivo a identificare. Anche il suono che avvertivo era diverso, come se qualcosa nelle sue qualità timbri-che fosse cambiato semplicemente spostandomi da una zona all’altra di quel non-luogo. Confesso che provai paura perché più che un suono pareva una vibrazione, non saprei definirla meglio, ma non poteva es-sere un fenomeno naturale. Guardando meglio intorno a me mi parve che la stessa atmosfera fosse diversa e vibrasse in sintonia con quel rumore che adesso aveva raggiunto altezze acustiche terrificanti. Non feriva il mio udito ma dimostrava una sorta di coscienza, come se più

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che di un fenomeno acustico si trattasse di una forma differente di vi-ta. Afferrando il coraggio a due mani, mi diressi in direzione del suo-no e ben presto mi ritrovai in uno spazio bianco che si estendeva o-vunque e sembrava non avesse mai fine. Feci per tornare indietro, ma scoprii con disappunto che quell’ambiente aveva sostituito quello pre-cedente. Tutto mi faceva pensare di essere capitato nel nulla più asso-luto, come peraltro sembrava indicare lo stesso concetto di bianco che per sua natura è una non-entità cromatica. Per fortuna riuscii a non perdere il controllo dei miei nervi e cercai di trovare anche in quel frangente una soluzione accettabile, a patto di non usare le leggi fisi-che come io le conoscevo. Basandomi su quel che avevo visto in pre-cedenza, dovevo arguire che il posto in cui mi trovavo era frutto delle mie idee, o almeno di quelle che componevano alcuni dei miei raccon-ti. Quello spazio bianco era dunque l’equivalente del mio momentaneo arresto creativo? Era uno spazio da abitare per le mie future idee? Il suono di prima era scomparso, ma non ebbi modo di rallegrarmene da-to che scoprii ben presto che in quel luogo non esisteva alcuna sorta di vibrazione acustica, compresa quella della mia voce. Tuttavia vi era ossigeno a sufficienza da consentirmi di sopravvivere. Non posso dire per quanto camminai e, a ben vedere, non so neanche se camminai, visto che i miei piedi lievitavano letteralmente senza incontrare alcuna superficie solida. Ormai non mi chiedevo più se stessi sognando o se fossi semplicemente impazzito perché era ovvio che affidarmi ancora ai miei sensi materiali non poteva aiutarmi nel comprendere la strana situazione in cui mi ero andato a cacciare. In quel mondo ovattato non c’era luce, ma una sorta di radiazione di fondo che mi permetteva di vedere o meglio, di percepire i confini invisibili in cui mi trovavo. Forse, pensai, se avessi avanzato per un tempo sufficiente avrei potuto raggiungerli. Continuai quindi ad avanzare finché, stanco e demoraliz-zato, vidi qualcosa che dal punto in cui mi trovavo pareva abbastanza vicina da raggiungerla con un ultimo slancio. Da quella distanza era un oggetto, forse un piano, ma non potevo esserne sicuro. Riuscii ad avvicinarmi quel tanto che bastava per vedere altri dettagli, cosa che mi confermò senz’ombra di dubbio che mi trovavo davvero di fronte a un pianoforte. O almeno sembrava un pianoforte, perché ciò che ave-vo davanti era un oggetto infinitamente più complesso. Stupito, esa-minai con attenzione le lisce superfici di metallo e il grande e ipnotico cristallo che troneggiava quasi a ridosso della tastiera. Tutto in quella macchina mi faceva pensare a una tecnologia diversa ed estranea a

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ogni cosa nota all’uomo. Ma quando lo vidi capii che le congetture che avevo fatto sulla natura del luogo in cui mi trovavo erano assolu-tamente corrette. Quello strumento era il Piano Interdimensionale che avevo immaginato ne: La melodia del cuore, un altro dei miei raccon-ti. Con mano resa tremante da una violenta emozione toccai ancora una volta i tasti, raggiungendo senza problemi il pulsante di attivazio-ne. Era proprio dove lo avevo immaginato, adiacente alla base dove il grande cristallo poggiava sul metallo circostante. Non appena premetti il delicato tasto a sfioramento, la macchina emise un suono minaccio-so e io provai un brivido d’eccitazione. Conoscendo la storia, sapevo per quale scopo era stato progettato. Quello strumento serviva ad apri-re un varco spazio dimensionale tra il mondo della veglia e quello del sogno. Se avesse funzionato davvero, avevo la possibilità di tornare nella mia realtà? Non lo sapevo ma valeva senz’altro la pena provare. Premetti dolcemente sulla tastiera, evocando subito uno spaventoso vortice di note pulsanti assolutamente inconsuete. In preda a un’estasi sonora chiusi gli occhi mentre affondavo in quel vero e proprio oceano di suoni eterei densi di significato. Continuai in questo modo per un po’, poi qualcosa sfuggì al mio controllo e mi ritrovai su una lastra di quella che sembrava ardesia vicina a una spiaggia lambita dai flutti di un mare minaccioso. Ero dunque riuscito a superare il velo dello Spa-zio Bianco, ma non ero ancora tornato nella mia realtà. Mi chiesi se, forse, ero condannato a vagare in quella dimensione per sempre visto che, dopotutto, c’erano tutti i presupposti per crederlo. Fu allora che avvertii per la prima volta il suono di una voce umana. Allora non ero solo! Fuori di me dall’eccitazione, aguzzai la vista in direzione del suono e subito scorsi parecchie forme fantasma, prima oscure e poi gradatamente più chiare, che venivano nella mia direzione. Il cuore mi sobbalzò nel petto quando riconobbi Eleonor, la duchessa di Sheil che aveva abitato al castello del Nederland. Accanto a lei, in una fantastica e impressionante processione, c’era Leyla, la romantica protagonista di un’altra mia opera letteraria. E poi Liira, Angelykaa e dopo di loro una miriade di nomi e volti che avevano abitato la mia mente prima e le pagine dei miei libri poi. Ormai non mi chiedevo più se fossi pazzo o se quel che vedevo fosse un’allucinazione o un sogno molto vivido, perché tutto il resto aveva perso di significato. Non mi domandai se le persone che abbracciavo fossero reali o fantasmi della mia fantasia, non aveva più importanza. In quel luogo perso tra il tempo e lo spazio provai l’inebriante sensazione di essere tornato a casa dopo un periodo

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di oblio e finalmente mi resi conto di essere tornato dove tutto era co-minciato. CONTINUA...