SULLA FRATELLANZA UMANA · Un vero e proprio appello alla meta-noia, la conversione del modo di...

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Elisabetta Lo Iacono Emanuele Rimoli (a cura di) SULLA FRATELLANZA UMANA A 800 anni dall’incontro tra Francesco d’Assisi e il Sultano al-Kamil Supplemento di San Bonaventura informa (ottobre 2019)

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Elisabetta Lo Iacono Emanuele Rimoli

(a cura di)

SULLA FRATELLANZA UMANA

A 800 anni dall’incontro tra

Francesco d’Assisi e il Sultano al-Kamil

Supplemento di San Bonaventura informa(ottobre 2019)

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Elisabetta Lo Iacono Emanuele Rimoli

(a cura di)

SULLA FRATELLANZA UMANA

A 800 anni dall’incontro tra Francesco d’Assisi e il Sultano al-Kamil

Supplemento di San Bonaventura informa

(ottobre 2019)

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Ai costruttori di dialogo e fratellanza

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INDICE

Prefazione di Giulio Cesareo ............................................................................................................... 7

THE SULTAN AND THE SAINT

Egitto 1219: Francesco di Assisi incontra il sultano Al-Kamil di Emanuele Rimoli ....................... 11Un annuncio di pace per testimoniare la presenza di Dio di Felice Autieri ..................................... 13Genesi e obiettivi del docu-film: intervista al regista di Emanuele Rimoli ....................................... 17

LO STILE DELL’INCONTRO

Lo stile di Francesco e dei suoi frati: mitezza e umiltà di Guglielmo Spirito .................................. 23La spogliazione come stile della missione di Domenico Sorrentino ................................................. 27Francesco e il silenzio docile dell’incontro e dell’ascolto di Antonio Di Marcantonio ................... 31Lo stile missionario di Francesco tra i musulmani di Dariusz Wisniewski .................................... 33Il cibo tra frate Francesco e il sultano di Pietro Messa .................................................................... 37

L’INCONTRO NELLE DIFFERENZE

I tre monoteismi per riscoprire la natura esodale e migrante della fede di Vincenzo Rosito .......... 41I monaci di Thibirine e il dialogo con i musulmani di Guido Dotti ................................................. 43Per i miei fratelli e sorelle dell’Islam e del mondo intero di Piccola sorella Paola Francesca ......... 47Il miracolo dell’incontro di Silvestro Bejan ...................................................................................... 51Datteri ripieni con san Francesco e al-Kamil di Michael Lasky ...................................................... 55

Consigli di lettura a cura di Emil Kumka .......................................................................................... 59Appendice: gli Autori ......................................................................................................................... 61

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PREFAZIONE

Giulio Cesareo

La celebrazione dell’anniversario dell’incontro tra san Francesco e il sultano Al-Kamil è certamente molto più del ricordo di un evento. Nel nostro contesto sociale e - perché no? - ecclesiale è certamente una grazia speciale e un dono che conferma, tra l’altro, la perenne attualità di san Francesco, uomo evangelico per eccellenza, e un’occasione per riflettere seriamente sul nostro mondo e sul modo in cui stiamo al mondo. La nostra, infatti, è un’epoca di grandi contraddizioni - forse come ogni epoca d’altronde - eppure siccome è la nostra “ora”, queste opposizioni risultano particolarmente evidenti e generano tensioni decisive, spesso violente e non raramente sono fonte di dolore, morte e distruzione: non diversamente dal tempo di Francesco e del sultano Al-Kamil. Una delle nostre grandi contraddizioni socio-culturali è la lotta tra le forze sociali centripete – che tendono a fare del mondo un tutto omogeneo, sotto un unico modello culturale ed economico, e tutte le forze centrifughe delle culture, delle rivendicazioni di libertà e autonomia, dei modelli di vita alternativi, dei nazionalismi, ecc. Già Romano Guardini, nella sua giovanile opera filosofica L’opposizione polare, sosteneva che alcune opposizioni sono connaturali alla vita umana in quanto tale e quando queste opposizioni tendono a risolversi a danno dell’uno o dell’altro elemento della tensione, la vita e la sua qualità ne risentono fortemente. Le varie forme di idealismo, viceversa, sostengono che la soluzione ai conflitti è il loro superamento in una sintesi superiore, che in qualche modo annulli la conflittualità stessa. Guardini invece ritiene che il conflitto, la tensione è in se stessa vitale e va custodita in quanto tale, evitando che uno dei fuochi dell’ellisse fagociti l’altro. Parlando in termini esistenziali potremmo dire che ci viene proposto non di risolvere le tensioni ma di abitare queste contraddizioni apparentemente inconciliabili in maniera che siano feconde di vita. Esse vanno dunque paradossalmente difese contro ogni tentativo di annullamento e assimilazione delle opposizioni. Nel contesto di un’eterna tensione tra il centro e la periferia, tra i sogni totalitari delle tante Babele della storia (che vorrebbero annullare le differenza tra popoli, culture, ecc.) e le rivendicazioni delle differenze come ragioni sufficienti per le divisioni e le contrapposizioni, ci viene incontro allora un altro pensatore cristiano, san Massimo il Confessore che nel VI secolo diceva - a partire dalla sua visione trinitaria della realtà - che le differenze sono sante, mentre le divisioni sono del demonio! Da questo punto di vista un atteggiamento che abita in maniera vitale la tensione tra particolarità e universalità, tra individualità tendenti a imporsi e alla colonizzazione culturale, e altre protese alla difesa oltranzistica di sé, è proprio il dialogo, che è un’attività che gli uomini possono imparare solo da Dio, che è da sempre dia-logos (cfr Gv 1,1-5): incontro, relazione, alterità. Il dialogo infatti non cerca di annullare le differenze, né di produrre una sorta di sintesi tra le posizioni: il dialogo autentico implica abitare le differenze attraverso l’amore, in modo che queste stesse differenze siano la materia prima della comunione. Il dialogo dunque non è senza scopo, non è un’attività erratica: ha un obiettivo ben preciso, che è l’unità. Spesso riteniamo – a vari livelli – che l’unità sia possibile solo a spese delle differenze e cioè che la conditio sine qua non dell’unità sia l’uguaglianza e l’uniformità.

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Eppure noi cristiani – anche se lo dimentichiamo spesso – sappiamo da sempre che il mondo proviene da e va verso una comunione totale realizzata proprio nella distinzione radicale delle persone, che è Dio stesso: il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Per questo un uomo tutto evangelico come san Francesco e un sovrano illuminato come Al Kamil hanno potuto vivere un incontro, impensabile 800 anni fa, ma ancora oggi difficilmente immaginabile. Tutto questo così ci riporta a una considerazione fondamentale (richiamata da vari pontefici negli ultimi decenni di conflitti etnici e religiosi in varie parti del mondo) e cioè che le fedi religiose, quando sono autentiche nel vissuto personale, non sono radici di violenza ed esclusione ma di unità.

La vita nuova che il Signore ci propone sembra scomoda e si trasforma in scandalosa ingiustizia per coloro che credono che l’accesso al Regno dei Cieli possa limitarsi o ridursi solamente ai legami di sangue, all’appartenenza a un determinato gruppo, a un clan o una cultura particolare. Quando la “parentela” diventa la chiave decisiva e determinante di tutto ciò che è giusto e buono, si finisce per giustificare e persino “consacrare” alcuni comportamenti che portano alla cultura del privilegio e dell’esclusione (favoritismi, clientelismi, e quindi corruzione). L’esigenza posta dal Maestro ci porta ad alzare lo sguardo e ci dice: chiunque non è in grado di vedere l’altro come un fratello, di commuoversi per la sua vita e la sua situazione, al di là della sua provenienza familiare, culturale, sociale, «non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Il suo amore e la sua dedizione sono un dono gratuito a motivo di tutti e per tutti. […] [Risulta] difficile seguire il Signore quando si vuole identificare il Regno dei Cieli con i propri interessi personali o con il fascino di qualche ideologia che finisce per strumentalizzare il nome di Dio o la religione per giustificare atti di violenza, di segregazione e persino di omicidio, esilio, terrorismo ed emarginazione. L’esigenza del Maestro ci incoraggia a non manipolare il Vangelo con tristi riduzionismi, bensì a costruire la storia in fraternità e solidarietà, nel rispetto gratuito della terra e dei suoi doni contro qualsiasi forma di sfruttamento; con l’audacia di vivere il «dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio» (Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019).

L’amara constatazione dei conflitti religiosi che hanno insanguinato e mietono tuttora morte a varie latitudini sono la prova - ahimè - che spesso le religioni vengono semplicemente assunte come credenze, come sistemi ideologici e idolatrici, perché non giungono a rinnovare il cuore e la mentalità dei credenti. Spesso infatti le differenze religiose sono vissute come conflitti, come opposizioni: segno questo che in noi persone ufficialmente religiose a livello intellettuale – prima ancora che puramente religioso o sociale – il principio religioso della pace, del rispetto, dell’amore spesso non mette radici profonde. Ecco, allora, perché è opportuno e necessario riflettere su questo incontro tra Francesco e al-Kamil, come ci viene proposto attraverso le riflessioni e le testimonianze delle prossime pagine – anche alla luce del recente incontro tra papa Francesco e il grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb nel febbraio scorso. L’eloquente forza della realtà di un dialogo – apparente impossibile - può essere per tutti - soprattutto per gli uomini e le donne di buona volontà, appartenenti ad ogni religione e credo, perfino laico - l’occasione di un grande esame di coscienza in vista di un nuovo esodo. Per passare cioè da una concezione difensiva della propria identità culturale ad un approccio relazionale, in cui l’altro, nella sua alterità, è l’elemento essenziale della propria crescita personale, religiosa e sociale. Per tutte queste ragioni, e per tante altre, allora, un sentitissimo grazie agli autori e ai curatori del volume. Buona lettura a tutti!

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T H E S U L TA N A N D T H E S A I N T

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EGITTO, 1219 FRANCESCO DI ASSISI INCONTRA IL SULTANO AL-KAmIL

Emanuele Rimoli

«Non si può costruire la civiltà senza ripudiare ogni ideologia del male, della violenza e ogni interpretazione estremista che pretende di annullare l’altro e di annientare le diversità manipolando e oltraggiando il Sacro Nome di Dio».

Con queste parole papa Francesco si rivolgeva alle autorità egiziane (Il Cairo, 28 aprile 2017), ribadendo la necessità e l’urgenza del dialogo senza secondi fini, anzi creativo e promotore di una narrativa della pace che coinvolga a un tempo la schiettezza della propria testimonianza di fede, e la fragilità del rendersi disponibile all’incontro. Un vero e proprio appello alla meta-noia, la conversione del modo di pensare, sigillato dal Papa con un augurio memorioso agli studenti dell’università al-Azhar: «Si levi il sole di una rinnovata fraternità in nome di Dio e sorga da questa terra, baciata dal sole, l’alba di una civiltà della pace e dell’incontro. Interceda per questo san Francesco di Assisi, che otto secoli fa venne in Egitto e incontrò il Sultano Malik al Kamil». Di questo incontro, datato 1219, papa Francesco ha indirettamente inaugurato, anticipandolo, l’ottavo centenario che le famiglie francescane celebrano quest’anno raccogliendone e sviluppandone la ricca eredità. Che valore ha il ricordo di questo incontro nel contesto attuale? Pur non essendo dotto «Francesco d’Assisi conosceva molte cose più importanti dell’erudizione, sapeva bene come vivere con la gente, come amare la gente» (card. McCarrick), perciò l’eredità che si raccoglie e si vorrà tradurre in creatività dovrà portare il segno della prossimità, della vicinanza senza pretesa, dell’incontro faccia a faccia. È il segno del paradosso evangelico: l’invisibile eppure vivificante lievito nella massa (Lc 13,21). «Come Gesù, fa’ parte di questa massa umana. Penetra profondamente e santifica il tuo ambiente, conformando ad esso la tua vita, con l’amicizia, con l’amore, con una vita totalmente donata, come quella di Gesù, al servizio di tutti, con una vita talmente mischiata a tutti, fino a essere una cosa sola con tutti, volendo essere tra loro come il lievito che si perde nella pasta per farla lievitare» (ps. Magdeleine di Gesù). È, questo, anche il segno della minorità che ha caratterizzato la vita e l’operato di Francesco di Assisi, ed è eredità di ogni francescano.Una minorità mai dichiarata, quanto piuttosto coniugata come un verbo (siano minori) – allusione alla dinamicità, lenta e imprevedibile, del vivere più che alla sua definizione astratta e rigida – come infatti dimostrano le indicazioni di Francesco ai frati missionari: «possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi.

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Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano» (RnB XVI: FF 43). È la consapevolezza che l’incontro, con Dio e ogni uomo, è sempre in fieri, e in questo crogiuolo si viene continuamente plasmati e generati alla verità; è l’espressione del genio ponti-ficio francescano in cui fede, immaginazione e misericordia costituiscono assieme uno sguardo creativo, sempre propositivo, mai arreso al muro della letteralità. A raccontare di questo sguardo nuovo è Alex Kronemer, regista e co-fondatore di UPF (Unity Productions Foundation), casa di produzione che si occupa di promuovere la pace attraverso progetti culturali nelle scuole, film e documentari. Tra questi c’è il docu-film The Sultan and the Saint (USA 2016) del quale abbiamo avuto l’onore di ospitare l’anteprima europea (9 maggio 2018). Basandosi sul libro di Paul Moses “The Saint and the Sultan: The Crusades, Islam, and Francis of Assisi’s mission of Peace” (Doubleday 2009), e tenendo conto che in ogni incontro entrambe le parti si toccano, Kronemer srotola la storia di due uomini di fede, Francesco d’Assisi e il Sultano al-Kamil i quali, in un rocambolesco incontro, subiscono l’uno il fascino dell’altro e dall’altro sono disposti ad imparare. «È fondamentale essere in relazione, imparare gli uni dagli altri e l’incontro di Francesco con il Sultano è una storia che ci definisce come francescani», ha ribadito in un’intervista Patrick Carolan (Franciscan Action Network). «Il film rivela la possibilità di coesistenza, di apertura mentale e di dialogo in quel periodo [la quinta crociata (NdR)]» (fr. Antonio Adeeb, OFM). Se, infatti, il film da un lato contribuisce a intendere la religione come un fattore che spinga alla conoscenza reciproca piuttosto che alla divisione, a costruire e custodire ponti di dialogo più che barricate, dall’altro colpisce al cuore ogni settarismo ed estremismo senza toni moralistici né vago buonismo – il sottotitolo, si noti, è Peace requires risk (la pace richiede rischio). L’invito al dialogo, infatti, è mostrato nella sua concreta possibilità, non insegnato come teoria politico-religiosa. «Le fonti usate sono agiografiche. Non possono essere lette come storia, ma da queste si può dedurre la storia» (fr. Michael Cusato, OFM). È una potente intuizione che interpella la responsabilità e la creatività di ognuno: dar seguito e sviluppo a una narrazione nuova, ispirata, costruttiva. La proiezione è stata ospitata presso l’Auditorium Seraphicum il 9 maggio 2018, in una serata organizzata dalla Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” - Seraphicum in collaborazione con il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica (PISAI). Al film ha fatto seguito un momento di dialogo tra due esperti: fr. Dariusz Wisniewski, OFMConv (teologo francescano e già missionario in Turchia) e il prof. Adnane Mokrani (professore associato del PISAI), moderati da fra Emil Kumka, OFMConv. L’intero evento, grazie alla collaborazione degli ospiti e alla numerosa e appassionata presenza delle associazioni romane dedite al dialogo, è stato un’occasione per esporsi alla forza di una storia che consegna una ricca eredità da raccogliere e da sviluppare. In sala erano presenti anche Alex Kronemer (regista), Patrick Carolan (Franciscan Action Network) e fr. Mike Lasky, OFMConv (Justice, Peace and Integrity of Creation Ministry).

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UN ANNUNCIO DI PACE PER TESTImONIARE LA PRESENZA DI DIONELL’INCONTRO TRA FRANCESCO DI ASSISI E IL SULTANO AL-KAmIL

Felice Autieri

Il film The Sultan and the Saint scritto e diretto da Alex Kronemer e prodotto dalla Unity Productions Foundation, ha come oggetto il racconto dell’incontro tra san Francesco ed Al-Malik Al-Kamil. Cercheremo, attraverso un raffronto critico dell’evento dal punto di vista storico-agiografico, di capire il contesto storico complesso e spesso non realmente conosciuto, in cui è avvenuto l’incontro. Analizzeremo i seguenti punti: 1. Il film The Sultan and the Saint; 2. I protagonisti e l’incontro; 3. La quinta crociata e Damietta.

1. Il film The Sultan and the Saint

Il film The Sultan and the Saint ci presenta il confronto e non lo “scontro” tra due uomini di fede, un cristiano ed il capo di un regno musulmano. Entrambi, incontrandosi, hanno sfidato un secolo di guerre, di sfiducia e di propaganda contro l’avversario, a favore della ricerca della pace. Il Kronemer ha presentato la figura di san Francesco, aspirante cavaliere originario di Assisi il cui vissuto tribolato lo ha spinto a testimoniare la vittoria sull’odio, riorganizzando radicalmente la sua vita e i suoi valori. L’altro è Al-Malik Al-Kamil, principe musulmano e nipote del brillante saladino, cresciuto nel palazzo del sultano ed educato da sua madre a diventare un giorno sovrano. Nella trama del film, la storia del loro incontro ha come scenografia costante il sanguinoso campo di battaglia, dove l’esercito dei crociati si scontrò con quello egiziano. Il film mette in luce come le crociate hanno causato secoli di conflitti crescenti che furono diretti non solo verso i musulmani, i non europei e i non cristiani, ma anche contro gli ebrei, i cristiani ortodossi ed infine contro quei popoli europei che, per ragioni diverse, non avevano partecipato con propri uomini alle crociate. Proprio in questo contesto l’incontro tra questi due uomini ha cambiato la storia, ha permesso di ridimensionare le conseguenze velenose del conflitto, cercando di dare un proprio contributo di pace, ad una guerra apparentemente senza fine. Francesco di Assisi intraprese uno dei suoi viaggi tra i più coraggiosi, attraversando le linee nemiche per incontrare il sultano, giudicato un nemico apparentemente crudele e “satanico”. Il Sultano, a sua volta, rispose con uno dei più grandi atti umanitari nella storia della guerra, salvando gli “odiati” crociati dalla fame quando l’alluvione del Nilo intrappolò il loro esercito.

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La trama è drammatica con una serie di colpi di scena affascinanti, con personaggi centrali che sono più convincenti della storia in sé. È stato rilevato un errore linguistico nel film, in cui i musulmani usano la parola “crociati”, quando invece vennero chiamati a quel tempo “frenja”, cioè “franchi”. Tuttavia il Kronemer ha voluto trasmettere attraverso il film, la propria percezione della storia, accompagnando i personaggi e le loro vicende personali. In questo ha adattato il testo e la storia ai “ritmi” cinematografici, con dei personaggi chiamati ad esprimere, attraverso l’interpretazione dei rispettivi ruoli, il messaggio di pace e di speranza che il film vuole trasmettere.

2. I protagonisti e l’incontro

I protagonisti dell’incontro sono san Francesco ed il sultano Al-Kamil. San Francesco nel 1219 si recò ad Ancona per imbarcarsi alla volta dell’Egitto, dove da due anni era in corso la quinta crociata. Durante questo viaggio, in occasione dell’assedio crociato alla città egiziana di Damietta, ottenne dal legato pontificio, il benedettino portoghese Pelagio Galvani Cardinale vescovo di Albano, il permesso di poter passare nel campo saraceno e incontrare disarmati, a loro rischio e pericolo, Al-Malik Al-Kamil. Lo scopo dell’incontro per il santo non fu quello del martirio, sebbene non potremmo escludere che ne avesse calcolato la possibilità, neppure predicare il vangelo e convertire il sultano e i suoi soldati per mettere fine alle ostilità. Al contrario, per lui fu preminente il desiderio dell’annuncio profetico di pace come testimonianza della presenza di Dio nella sua vita. Non fu solo un cambio di prospettiva della spiritualità del martirio in odium fidei, tra l’altro tipico nella prima storiografia francescana, ma vivere attraverso l’incontro con l’altro l’esperienza viva del Cristo che aveva abbracciato la sua “lebbra” e cambiato radicalmente la sua vita. Pertanto come uomo di Dio, sentì necessario testimoniare questa dimensione cristocentrica nell’incontro e nell’ascolto dell’altro. L’incontro fu uno tra i più straordinari gesti di pace nella storia del dialogo tra islam e cristianesimo. L’Assisiate era determinato ad andare tra i musulmani, tentò per tre volte di realizzare questo obiettivo senza riuscirvi, ma anche senza scoraggiarsi dei fallimenti che si erano verificati. Il terzo tentativo fu quello buono per l’incontro con il sultano che non ebbe difficoltà ad ascoltare Francesco, quello “strano” cristiano venuto dall’Italia. Siamo nel settembre del 1219, il rapporto tra i due protagonisti si sviluppò nella cortesia, nel rispetto e nel dialogo. Damietta rappresentò la possibilità di incamminarsi sulla strada che avrebbe potuto aprire degli orizzonti di pace. Potremmo affermare che in Dio san Francesco non ebbe paura di Maometto e il sultano non ebbe paura di Cristo. Entrambi non ragionarono secondo criteri ideologici del tempo, ebbero una ferma chiarezza delle proprie radici culturali e religiose, tali da non riconoscere nell’altro un nemico da eliminare, ma una persona da ascoltare e da rispettare nella propria diversità.

3. La città di Damietta e la quinta crociata

Damietta è una città sul delta del Nilo, ma è anche un importante porto dell’Egitto che si affaccia sul Mar Mediterraneo, a circa 200 km a nord da Il Cairo.

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Durante la quinta crociata nel 1217 fu scelta dalle truppe europee come centro del loro attacco, infatti l’occupazione del porto significò il controllo del Nilo, e da lì i crociati sperarono di poter conquistare l’Egitto, da dove avrebbero potuto attaccare la Palestina e conquistare Gerusalemme. La quinta crociata fu indetta da Onorio III e coinvolse gli eserciti franchi, ungheresi, ciprioti e austriaci in una campagna militare che ebbe luogo in Palestina ed Egitto fra il 1217 e il 1221. Sebbene lo scopo della crociata fosse la ripresa della città di Gerusalemme, il conflitto si spostò in Egitto con la speranza di occuparlo per poterlo scambiare con la Terra Santa. La crociata si risolse con la presa di Damietta, ma dissidi all’interno del campo crociato e l’intransigenza del legato papale Pelagio causarono l’insuccesso della spedizione. Lo svolgimento della crociata iniziò con la “campagna di Palestina”, dopo una serie di sconfitte, dopo l’arrivo di nuovi rinforzi provenienti dall’Occidente, Giovanni di Brienne convinse i crociati a occupare l’importante porto di Damietta, per poi negoziare l’entrata in Gerusalemme: inizia la “campagna d’Egitto”. I crociati avevano stretto un’alleanza con il capo dei Selgiuchidi del sultanato di Rûm che dominavano l’Anatolia, Izz al-Dīn Kaykā’ũs bin Kaykhusraw, conosciuto anche come Kaykaus I. Il 29 maggio 1218 la flotta crociata raggiunse la città di Damietta e la cinse d’assedio. Il 24 agosto, i crociati presero le torri esterne della città e ruppero le catene che bloccavano le navi, potendo quindi entrare dal Nilo e controllare l’entroterra della città bloccandone i rifornimenti. Il sultano Al-Adil morì qualche giorno dopo il 31 agosto e gli successe il figlio Al-Malik Al-Kamil, che non riuscì però a contrastare l’attacco crociato. Per allontanare la minaccia crociata, Al-Kamil propose la cessione di Gerusalemme e le terre di Ascalona, Tiberiade, Laodicea, Jable, a condizioni che i crociati lasciassero l’Egitto. Giovanni di Brienne, i crociati e i baroni siriani erano unanimemente favorevoli alla proposta di Al-Kamil, ma il legato pontificio Pelagio rifiutò l’offerta. Dopo alcuni successi crociati nei mesi di luglio e di agosto, Al-Kamil propose un altro accordo sullo scambio di Gerusalemme, ma sempre rifiutato dal legato pontificio. La guarnigione di Damietta, indebolita dalla dissenteria e da altre epidemie, opponeva una resistenza sempre più debole agli assalti crociati, tanto che il 5 novembre 1219 la città di Damietta fu conquistata e Al-Kamil riparò nella fortezza di Manṣūra. L’anno successivo si provvide a rafforzare le difese della città ed, in questo contesto politico militare, il 24 giugno 1219 san Francesco si imbarcò dal porto di Ancona con undici compagni, giunse nella città egiziana dove era in corso l’assedio da parte dei crociati. Sorretto da una precisa concezione missionaria che si scontrava con la diversificata strategia crociata condotta nelle terre del Medio Oriente, chiese il permesso al legato pontificio di recarsi con i suoi confratelli dal sultano: gli concesse a malincuore il suo benestare. Fu ricevuto con grande cortesia dal sultano che ebbe con lui un lungo colloquio, al termine del quale Francesco ritornò nel campo crociato. La vittoria invece di unire i crociati per poter ottenere la vittoria finale, innescò a fasi alterne una serie di guerre in cui si combatterono fra di loro. Pelagio a questo punto, sperò nell’arrivo dell’esercito di Federico II, ma il sovrano aveva più a cuore la pace con Al-Malik Al-Kamil, i cui territori erano molto vicini alla Sicilia e con il quale manteneva buoni rapporti e non gli mosse guerra.

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Nel maggio del 1221, arrivò solo un modesto contingente, condotto dal duca Ludovico I di Baviera e dal Gran Maestro dell’Ordine Teutonico Hermann von Salza. Pelagio decise comunque di partire all’offensiva chiamando Giovanni di Brienne, il quale si trovò costretto a partecipare alla spedizione per evitare che gli fosse attribuita la responsabilità dell’eventuale fallimento dell’impresa. Il 27 agosto 1221, i crociati vennero sconfitti a Manṣūra da truppe provenienti dalla Siria e dall’intelligente strategia militare del sultano che posizionò l’esercito nel migliore dei modi. Costretti dalla fame e dai crescenti problemi logistici, i crociati non poterono fare altro che arrendersi e negoziare la loro libertà in cambio della cessione di Damietta. Nel mese di settembre i crociati si ritirarono senza aver raggiunto alcun risultato, tanto che nel 1221 furono sconfitti definitivamente e cacciati dall’Egitto.

CONCLUSIONI

L’incontro tra Francesco e Al-Malik Al-Kamil è stato interpretato diversamente dalle diverse generazioni, che hanno costruito attorno a questo evento molteplici interpretazioni che spesso sono state divergenti anche se non contrapposte. In effetti le fonti spesso ci dicono di più della sensibilità di chi le ha scritte e della generazione nella quale furono concepite, che dell’episodio di Damietta in sé. Se è vero che le immagini costruite sull’avvenimento in questione sono molteplici, non è vero per questo che la verità storica di quell’avvenimento sia caduta nell’oblio della storia. La pace di san Francesco era radicata nell’esperienza di Cristo che lo aveva abbracciato nella sua realtà di uomo, manifestandogli la sua misericordia. Pertanto ciò che lo spinse a recarsi in Egitto fu un’idea religiosa, che non negava le eventuali ripercussioni sul piano storico e politico, ma non poteva perdere di vista che essa fosse radicata in Cristo vissuta nella sua vita e testimoniata al sultano. Se la pace cercata dal sultano era dunque principalmente una pace politica, davanti a lui san Francesco aveva fatto della pace un punto fondamentale della sua scelta di vita, al punto da scrivere nel Testamento: “L’Altissimo mi rivelò questo saluto: il Signore ti dia pace”. Il film vorrebbe offrire da quell’evento degli spunti di riflessione che apporterebbero conseguenze positive oggi nei rapporti tra cristiani e mussulmani. Infatti l’incontro tra Francesco e Al-Malik Al-Kamil ci ha testimoniato che questo dialogo è stato particolarmente importante nel contesto della società del tempo. Entrambi compresero che se le religioni non fossero diventate parte della soluzione, sarebbero divenute facilmente parte del problema. Insomma quando l’elemento religioso fosse stato strumentalizzato, questo sarebbe potuto diventare un’arma ideologica pericolosa con tutte le conseguenze immaginabili. Non sappiamo se il film potrà inviare un messaggio di questo genere, ma siamo certi che, pur tra alcune imprecisioni di natura storica, il bisogno di pace e di speranza può essere capace di donarlo agli uomini e alle donne di buona volontà.

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GENESI E OBIETTIVI DEL DOCU-FILm THE SULTAN AND THE SAINTNELL’INTERVISTA AL REGISTA AmERICANO ALEx KRONEmER

Emanuele Rimoli

Con la premiere europea del docu-film The Sultan and the Saint (9 maggio 2018), la Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum, ha idealmente dato l’avvio alle iniziative che celebrano l’ottavo centenario dell’incontro tra san Francesco d’Assisi e il sultano d’Egitto Melek Al-Kamil (1219-2019). Sul progetto del film, le possibili deduzioni e le risonanze abbiamo parlato con il regista Alex Kronemer, presente in sala alla premiere.

Da dove viene l’ispirazione per questo film? Qual è la genesi?

L’idea del film mi venne quando ero studente al college e mi trovavo in Italia per un viaggio di studio. Ebbi l’occasione di entrare nella basilica superiore di Assisi e lì vidi il famoso dipinto di Giotto raffigurante san Francesco che incontrava un uomo col turbante. Non ero davvero sicuro se si trattasse di un episodio inventato o fosse ispirato a una storia vera. Rimasi però colpito da questo incontro di due culture, feci delle ricerche e scoprii che se ne sapeva davvero poco. La mia vita poi ha preso il sentiero che mi ha condotto a diventare uno storyteller con una particolare sensibilità nel costruire ponti che sanassero la divisione tra musulmani e occidentali. Non ho mai dimenticato questa straordinaria immagine di san Francesco che incontra il Sultano Al-Kamil e ho custodito dentro di me l’idea di trasformarla in un film.

Perché ha scelto di raccontare proprio ora la storia di questo incontro?

Non sono un regista indipendente. L’organizzazione che ho fondato, la Unity Production Foundation (UPF), è il vero motore che sta dietro a questo film. The Sultan and the Saint è il nostro undicesimo docu-film e il primo interamente prodotto da noi. Abbiamo scelto di imbarcarci in questo racconto perché abbiamo sentito che la marea era giusta. Con la elezione di papa Francesco e le continue violenze in molte parti del mondo che rendono nemici musulmani e cristiani, abbiamo avvertito come il mondo avesse bisogno di questa storia in questo preciso tempo.

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Cos’è la Unity Production Foundation? Di cosa si occupa?

La missione di UPF è di contrastare il bigottismo e creare pace attraverso i media. Crediamo che condividendo narrazioni convincenti dei musulmani attraverso film, TV e nuovi media, possiamo sfruttarne il potere per responsabilizzare i cittadini con maggiore comprensione e nutrire il pluralismo in America e in tutto il mondo. Questi film fanno parte di campagne educative a lungo termine volte ad accrescere la comprensione tra persone di fedi e culture diverse, specialmente tra musulmani e altre fedi. Le proiezioni hanno avuto luogo in migliaia di aule e istituzioni civiche. Oltre l’83% dei partecipanti alle proiezioni e ai dialoghi dei nostri film hanno dato un feedback positivo. Infine, lavoriamo a Hollywood attraverso un progetto chiamato MOST (Muslims on Screen and Television), che fornisce fatti e ricerche a sceneggiatori e produttori di spettacoli popolari visti in tutto il mondo.

Nelle narrazioni ci sono sfide e sorprese, quali si è trovato ad affrontare?

Volevamo raccontare questa storia leggendaria in maniera che la comunità cristiana, specialmente cattolica, e quella musulmana potessero relazionarsi. La sfida più grande era di ottenere il migliore equilibrio possibile. Dopo aver fatto alcune ricerche abbiamo trovato la storia un po’ sbilanciata sul lato francescano. C’erano molti studi, testimonianze e documenti storici sull’incontro tra san Francesco e il Sultano, ma molto poco sul Sultano stesso. Così abbiamo lavorato con alcuni prestigiosi studiosi di storia araba per dare vita alla storia del Sultano. Le intuizioni e le fonti scoperte hanno modellato la storia in modi che il mondo non aveva mai conosciuto, e hanno dato luogo a un film completamente diverso da quello che ci aspettavamo.

È venuto a Roma con dei francescani (un frate conventuale, una suora e un laico del FAN), qual è stato il loro ruolo nella realizzazione e produzione del film?

Il FAN (Franciscan Action Network) è stato l’anima e il cuore dell’impegno dell’intero gruppo di lavoro del film. Ha avuto un ruolo fondamentale per collegarci con i sostenitori cattolici e francescani nelle oltre sessantacinque anteprime che abbiamo tenuto in tutto il Nord America. Le Suore Francescane di Clinton (Iowa) sono state tra i primi sostenitori del film e siamo molto grati per il loro supporto finanziario.

Vorrebbe ringraziare qualcuno in particolare?

Di sicuro l’intero team di produzione di Baltimora (MD), lo staff principale di Unity Productions Foundation e i suoi speciali sostenitori. Ma soprattutto tutti gli incredibili sottoscrittori del film che meritano i più grandi elogi e ringraziamenti per il loro eccezionale supporto e lavoro.

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Una proiezione a Roma, città del papa, e una ad Assisi, città di san Francesco: che valore hanno?

Le due premiere a Roma e ad Assisi (nella foto)credo siano gli eventi più importanti in assoluto. Per me personalmente ha avuto un grande significato poter presentare il film nella città di papa Francesco e portarlo nella città di san Francesco dove, tanti anni fa, ho avuto l’intuizione di raccontare questa storia.

Il film è stato proiettato anche in Egitto, paese di Al-Kamil…

Le proiezioni in Egitto, ospitate dal giornale Al-Ahram, sono state di grande ispirazione. Gli eventi si sono svolti in un’importante chiesa copta e hanno ricevuto recensioni molto positive dai media. Abbiamo creato una versione del film sottotitolata in arabo, e miriamo a distribuirlo il più possibile nei paesi di lingua araba.

Siamo soliti dire che l’incontro è avvenuto tra Francesco e il Sultano, ma il film inverte le posizioni. C’è una ragione particolare?

La missione di UPF è incentrata sul raccontare la storia musulmana. Abbiamo iniziato il nostro lavoro più di quindici anni fa raccontando la storia del Profeta Muhammad e da allora abbiamo realizzato una serie di film che cercano di raccontare la storia musulmana in un modo che apra gli occhi della gente e serva a umanizzare questa tradizione culturale e di fede. Con The Sultan and the Saint abbiamo posto consapevolmente il nome del Sultano in prima linea perché la storia del Sultano è, per molti versi, il contributo più fresco che il film offre agli spettatori. Questo non vuol dire che il nostro modo di trattare san Francesco non fosse nuovo di per sé. Siamo stati molto contenti di avere avuto alcuni tra i migliori studiosi francescani che hanno offerto autorevoli commenti in molti modi; il fatto che così tanto si sappia di san Francesco rende ancora più difficile raccontare la sua storia.

Sta lavorando a qualche altro progetto?

C’è un detto nel settore dei media che ho scoperto avere un po’ di verità, dice che sei buono solo come il tuo prossimo progetto. Il nostro prossimo progetto si rivolge a un linguaggio interamente nuovo. Siamo in pre-produzione per un film d’animazione chiamato Lamya’s Poem, un film in stile realista, magico e immaginario sul famoso poeta Rumi e una giovane ragazza contemporanea siriana di nome Lamya in fuga dal suo Paese per via della guerra. Il film alza i riflettori sulle sofferenze e i traumi di un’intera generazione di giovani siriani costretti ad affrontare questo terribile conflitto, e mira a raccontarli come una storia che ispiri.

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Ha una laurea in studi teologici a Harvard. Vorrebbe lasciare un messaggio ai professori e agli studenti della nostra facoltà di teologia?

Una delle cose più importanti che abbiamo imparato nel corso delle nostre ricerche è che nell’incontro il cuore supera l’intelletto. San Francesco e Al-Kamil hanno avuto un vero incontro e scambio nella fede, non un dibattito intellettuale. Penso che questo insegni molto sia ai teologi accademici sia ai leader laici sul modo di vivere con l’altro. Credo che prendere coscienza di questo fatto apra a una più ampia dimensione pratica dell’incontro, rendendolo un modello e un esempio per il dialogo interreligioso.

Per concludere, quale messaggio per i cristiani e i musulmani di oggi?

Penso che il messaggio che risuona di più in questo film sia che la pace richiede l’incontro. È necessario che incontriamo l’altro in modi che ci mettono alla prova. Gli incontri sono spesso asimmetrici. Un vero incontro è quello che manda in tilt le tue intuizioni e obiezioni. Ti sorprende e ti afferra. Il messaggio del film è di essere aperti all’incontro. Non sai mai quando l’altro ti afferrerà. Il film ci ricorda che san Francesco e il sultano Al-Kamil ci hanno regalato un modello perfetto che deve essere imitato.

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L O S T I L E D E L L’ I N C O N T R O

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Lo StILE DI FRANCESCo E DEI SUoI FRAtI: mItEzzA E UmILtàVIAGGIO NELL’ “ECOSISTEmA FRANCESCANO” DELLE mISSIONI

Guglielmo Spirito

Per entrare nel Regno dei Cieli è necessario diventare come bambini (Mt 18, 3-4), è necessario cioè diminuire, addirittura abbiamo bisogno di rinascere (Gv 3, 7): il mistero si verifica in noi quando, attraverso Gesù Cristo, Dio ci predestina all’adozione come suoi figli (Ef 1, 5), e noi diventiamo figli nel Figlio. Questo mistero però allude all’abbassamento del Figlio (cf. Fil 2), al suo “svuotamento” fino a diventare, per amore nostro, “uno qualunque”. Questo tratto affascinò san Francesco di Assisi e quindi i suoi frati. Dalla notte di Natale a Greccio, quando - nell’espressione audace di Paul Payan, Francesco “è diventato” Giuseppe - i francescani hanno mantenuto nei secoli un rapporto molto stretto, veramente familiare, con l’umile artigiano “figlio di Davide”, la “guida guidata” che visse nella marginalità e nell’insignificanza pubblica, custode della santa famiglia di Nazareth. I figli di san Francesco, diventano così ferventi evangelizzatori del nome di “Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret” (Gv 1, 45), nella migliore logica dell’Incarnazione. Marginalità, discrezione, mitezza, umiltà, semplicità e ordinarietà nella fatica quotidiana furono lo stile che il Poverello scelse per sé e per i suoi. Uno stile nazareno. Questo si intravede anche nell’atteggiamento che desidera abbiano i frati che partono in missione in partibus infidelium, come testimonia la Regola non bollata, al Capitolo XVI:

I frati poi che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e nel Figlio redentore e salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani…

Il primo modo è quello che Francesco aveva in mente pensando alle terre dei Mori e dei Saraceni, ma non solo come propedeutica al secondo, bensì come stile proprio della missionarietà francescana: era così che gli altri avrebbero potuto vedere qualcosa dello splendore della vita nuova in Cristo, mite ed umile di cuore, ed essere attirati ad essa. Dunque, mitezza ed umiltà come stile. Nelle terre dominate dalla Mezza Luna, tra Mori e Saraceni, solo tanto faticosamente - e al costo di molto sangue versato-, i frati riescono a custodire un minimo di feconda presenza: la storia travagliata della Provincia d’Oriente e della Custodia di Terra Santa ne dà testimonianza.

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E nella sua fragilità e vulnerabilità regge fino ad oggi, dalla Turchia alla Siria, dalla Palestina all’Egitto, e altrove. Mentre fu l’epopea missionaria, iniziata con la scoperta di Colombo, che vide i francescani fiorire e fruttificare oltremisura nelle terre americane, seguendo i dettati della Regola non Bollata: le nazioni meticce dell’America Latina - come pure la nuova Francia, il Canada - sono nati con un “timbro” che distinse particolarmente la presenza francescana: un timbro di umiltà, di condivisione delle fatiche della vita, di magnanimità, di coraggio, di affabilità e di mitezza. Questo vale pure per le Filippine ed il Giappone. Come risulta dalle cronache del tempo, molti dei primi missionari francescani si lasciano accompagnare ed ispirare da un “tono” di minorità nazarena nella condivisione della vita povera e faticosa degli indios, che attirò la durevole simpatia e affezione delle popolazioni indigene verso di loro, preferendoli ad altri missionari. Una curiosità: partecipando a una missione tra gli indios chiriguanos nel nord dell’Argentina - quasi alla frontiera con la Bolivia - alla fine degli anni ‘70, fui sorpreso nel sentire che se un bambino non era ancora stato battezzato era un “moro”: un linguaggio popolare tramandato dal tempo dei primi missionari francescani di secoli addietro! I figli di san Francesco si lanciarono in una epopea missionaria nell’intero continente americano: dal Canada, dalla California, dalla Florida, dal Messico, giù fino al Cile e all’Argentina, passando per il Centroamerica, il Perù, la Bolivia e il Brasile. Lo zelo missionario li spinse oltre, sino a raggiungere parte dell’Asia: principalmente il sud dell’India, le Filippine e il Giappone, partendo dal Messico o circumnavigando l’Africa. Già nel medioevo i frati avevano seguito i percorsi della Via della Seta, arrivando in Cina, ma adesso si lanciavano in grandi numeri, desiderosi di raggiungere i lontani e di ricreare una “nuova cristianità” puramente evangelica, spiritualmente ispirata dal sogno francescano più radicale.San Junípero Serra nel 1769 proclamò san José “patrono del mare e delle spedizioni terrestri”, prima di partire per la sua missione in California. Già nel vicereame del Perù un ampio spettro di attività e gruppi umani erano considerati sponsorizzati da lui: giovani, lavoratori sposati, carpentieri, assemblatori e falegnami in generale, fabbri, muratori, trovatelli, senzatetto, morenti e “monti di pietà” - gli istituti di credito contro l’usura -, tra gli altri, sostenevano di essere i suoi figli. I frati diffondevano uno stile di vita, radicato nell’umiltà concreta della vita di Gesù il Figlio del falegname. In tutto il vasto territorio dei vicereami spagnoli, i grandi centri di creatività artistica, come ad esempio la scuola cuzqueña del Perù, animati dagli ordini religiosi - in primis quello francescano -, si diffuse l’immagine della Sacra Famiglia, dove il ruolo di marito e padre è innalzato, riaffermando la santità del matrimonio, l’educazione della prole e la vigorosa protezione dei genitori. In una società in cui le crisi familiari, le guerre e i soprusi, l’emigrazione, l’infedeltà e l’abbandono dei neonati sono stati problemi reali, la fraternità francescana ha cercato di collaborare nella guarigione dell’immaginario, proponendo una nuova figura di mascolinità mite con un bel san Giuseppe, casto e premuroso, tenero e potente nella sua umiltà, protagonista in primo piano, accanto a sua moglie santa Maria, madre esemplare, sposa devota e operosa.

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Il Figlio Crocifisso e Risorto, mite ed umile di cuore, era stato allevato bene… Beninteso, questo unito a un prodigioso lavoro di apprendimento delle lingue locali, riprendendo il sogno e le iniziative linguistiche di Raimondo Lullo per entrare nel mondo musulmano! Questo, assieme alle traduzioni e preparazioni di catechismi illustrati nelle lingue indigene, fa sì che i frati missionari nel Messico rimangono in buona misura un modello di inculturazione (e parzialmente di preservazione) del mondo precolombiano, trattando i nativi come figli e fratelli, senza sottostare alle discriminazioni e agli abusi che il sistema coloniale non riusciva ad evitare. Anche l’architettura fu un campo di creatività, adattando e trasformando stili europei, plasmando nuovi spazi - cortili, cappelle esterne - secondo i bisogni della catechesi e dei rituali adatti alle popolazioni locali, come è palese in Bolivia, dove perfino si ispirarono alla architettura moresca dei cortili delle moschee. Le missioni francescane hanno creato nuovi modelli di costruzione, di aggregazione e di organizzazione dei villaggi indigeni, un vero “ecosistema francescano”, implementando intuizioni che più tardi i gesuiti continueranno, adattandole e perfezionandole, nelle loro famose missioni del Paraguay. Ovviamente le mancanze, le omissioni, i tentennamenti, i cedimenti non mancarono. Ma nell’insieme, i francescani hanno custodito e tramandato fino ad oggi uno stile riconoscibile: mitezza, umiltà, semplicità, affabilità. Non darsi arie. Essere “uno qualunque”. Uno stile nazareno che la gente semplice chiama volentieri “francescano”. Quello stile che papa Francesco testimonia con i suoi gesti e le sue parole.

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LA SPOGLIAZIONE COmE STILE DELLA mISSIONEFRANCESCO VA DAL SULTANO DISARmATO mA FORTE DI DIO

Domenico Sorrentino

Il “codice” della spogliazione

Il celebre incontro di Francesco di Assisi con il Sultano d’Egitto al-Malik al-Khamil, nell’odierno orizzonte culturale ed ecclesiale, suscita riflessioni attualizzanti soprattutto in tema di rapporto con l’Islam e, più in generale, di rapporto con le diversità culturali e religiose.Le attualizzazioni rischiano sempre l’anacronismo. Francesco di Assisi è un uomo del Concilio Lateranense IV (1215), in cui si decise la V crociata, o un antesignano del Concilio Vaticano II? È un “guerriero”, pronto ad affrontare il rischio con l’ardore e quasi la voglia del martirio, o un “uomo dialogico”, precursore di ciò che oggi, con l’espressione coniata da san Giovanni Paolo II, chiamiamo “spirito di Assisi”? Difficilmente la collocazione storica di una persona regge al discrimine dell’aut-aut. Ognuno di noi è, in linea di principio, un uomo del suo tempo, salvo qualche intuizione profetica di spiriti privilegiati, che sanno prendere le distanze da ciò che respirano, e pongono premesse di sviluppo che il futuro, prima o poi, sancirà. Per saperne di più, nel caso di Francesco, dovremmo interrogare lui. Ma egli non ci ha lasciato, su quell’evento, testimonianze dirette. I racconti fatti dagli altri, anche quando possono vantare il più sincero scrupolo storiografico, sono sempre sospetti. Evito dunque di entrare in un dibattito, che specialisti provati animano con differenti sentenze. Faccio mio piuttosto, ma integrandolo, un approccio già da altri esplorato, prendendo come punto saldo del pensiero di Francesco il capitolo XVI della Regola non bollata (appresso Rnb), concernente la missione dei frati tra i saraceni. Questo testo, in realtà, nulla dice dell’episodio in sé dell’incontro con il sultano, ma indirettamente può dire qualcosa sull’animus con cui Francesco lo visse.Per avvicinarmi ancor più ai suoi presumibili sentimenti, mi pare stimolante mettere in correlazione il messaggio di questo testo con un altro punto di prospettiva, anch’esso abbastanza solido nella biografia del Santo: l’atteggiamento che egli adottò nella sua spogliazione davanti al padre Pietro di Bernardone e al vescovo Guido.La recente erezione ad Assisi del Santuario della Spogliazione sta facendo riemergere - se non dall’oblio, almeno dall’emarginazione - quell’episodio, spingendo a riflettere sulle sue valenze interiori e programmatiche.

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Ma che cosa c’entra, quell’episodio, in cui il rapporto dialettico è tutto intra-familiare, interamente posto dentro le coordinate della societas christiana, con l’altro episodio - l’incontro con il sultano - che si pone ad anni di distanza, in tutt’altro contesto di dialettica inter-culturale e inter-religiosa? Mi pare che una relazione ci sia. La spogliazione del giovane Francesco - gesto spettacolare quanto profetico - lungi dall’essere un episodio chiuso in sé, configura un “codice” che ormai regola i suoi sentimenti e si può considerare una chiave della sua vita. Anche l’incontro con il Sultano ne viene in qualche modo illuminato.

Agnelli in mezzo ai lupi

Il cap. XVI della Rnb comincia con una citazione dal discorso missionario di Cristo: «Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». Come è caratteristico di questa Regola non ancora sfrondata dal “ri-ordino” formale di quella bollata, Francesco ripropone ampiamente i testi del Vangelo. Quello che dice ai frati, ne è un’applicazione che vuol essere, il più possibile, ad litteram. Ne nascono conseguenze pratiche che esprimono lo stile proprio di Francesco. Innanzitutto è evidente che Francesco sta qui facendo un discorso missionario, e non un esercizio di dialogo culturale e inter-religioso. I discepoli di Cristo - in questo caso i frati - sono mandati, e mandati in mezzo ai “lupi”. Il quadro persecutorio del discorso evangelico è applicato espressamente al rapporto con i saraceni (ma anche agli altri infedeli). Non c’è fondamento per una edulcorazione che risponderebbe solo alla logica dell’odierno “politicamente corretto”. I persecutori - i lupi! - sono loro: proprio quelli che oggi la Nostra Aetate del Vaticano II ci invita ad incontrare in un sincero dialogo. D’altro canto, difficilmente si può immaginare che, data la sua obbedienza totale alla Chiesa, Francesco abbia contestato la strategia ecclesiale della crociata, per quanto il suo stile sia mille volte lontano dalla sua espressione più bellicosa e certamente più vicino alla sua caratterizzazione penitenziale. Ciò che invece - rileggendo la Rnb - fa l’originalità di Francesco è che, nel rifarsi pienamente al Vangelo, il punto di gravità del suo discorso cada non tanto sulla connotazione di “lupi” data ai saraceni (come del resto agli altri “infedeli”), quanto sulla vocazione dei frati ad essere “agnelli”. Non deve poi sfuggire che la citazione del vangelo nella Rnb XVI continua con l’evocazione di due altri animali: i serpenti, di cui è ammirata la prudenza, e le colombe, di cui è esaltata la semplicità. Occorre far sintesi tra le due virtù. Il cristiano, per Francesco, almeno stando a questo testo che sicuramente porta la sua impronta, non è uno che, pur desiderando il martirio, vi si getti a capofitto (come in realtà sembra abbiano fatto i primi francescani martirizzati in Marocco nel 1220), ma piuttosto sa organizzare le cose - parole e gesti - in modo che tutto, nella missione, si svolga in buon ordine. Il che significa che se, da un lato, il frate dovrà essere sempre pronto a testimoniare, non dissimulando la propria identità, dall’altro, dovrà saper scegliere modi e tempi perché la testimonianza sia davvero efficace. Il traguardo a cui tendere è comunque la “conversione” dei saraceni.

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Rientrano, a mio parere, in questa logica complessiva, i “due modi” con cui i frati possono predicare: modi posti in successione, come in un crescendo. Nel primo modo, adatto evidentemente alle situazioni in cui l’ostilità dei “lupi” è più forte, i frati si limiteranno a confessare e testimoniare il loro essere cristiani, evitando “liti e dispute” e facendosi “soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio” (Rnb XVI; FF 43); l’altro modo, quando se ne offra la possibilità, è la predicazione aperta, mirante alla conversione: “si facciano cristiani”, perché solo in questo modo potranno salvarsi. Il discorso è chiaro. Del tutto anacronistico sarebbe interpretarlo alla luce di una teologia ispirata a ciò che oggi la coscienza ecclesiale ha maturato, rispetto alle possibilità di un incontro con Cristo, e dunque di salvezza, non strettamente condizionati dalla consapevolezza esplicita della fede. Che cosa dunque c’è di profetico, e di attuale, nelle disposizioni di Francesco? Già il fatto che, in tutto questo discorso, alla crociata non si faccia minimanente cenno, è indice di una sensibilità, se non di una chiara scelta di campo. Senza esserne un critico, insomma, Francesco sta da un’altra parte. Il suo è un ritorno al vangelo, che lo distingue nettamente dalla sua epoca. Chi conosce la storia “spirituale” delle crociate, sa che il vangelo si adoperava - e ai più alti livelli del magistero - per motivarla. Francesco sceglie, come sua ottica privilegiata per il rapporto con i saraceni, il discorso evangelico della missione intrecciato con la beatitudine della persecuzione. Il cristiano, insomma, se è fedele alla sua identità, è tenuto a portare la pace, ma si deve aspettare la guerra: dev’essere pronto allora non ad uccidere, ma a lasciarsi uccidere. Esigente l’applicazione della Rnb XVI: «E tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che si sono donati e hanno abbandonato i loro corpi al Signore nostro Gesù Cristo. E per il suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili, poiché dice il Signore: “Colui che perderà l’anima sua per causa mia la salverà per la vita eterna”» (FF 45).

La forza della debolezza

Proprio quest’ultima indicazione sui “corpi” abbandonati al Signore ci riporta, con la forza di un’analogia persino lessicale, al tema della “spogliazione”, codice della vita di Francesco. Quello che egli fece, il giorno in cui, di fronte alle pretese del padre, non si limitò a restituire il denaro, ma si denudò, rimanendo totalmente disarmato nel suo modo di porsi di fronte al mondo, alla persecuzione, ad ogni possibile vessazione, non potè non influire anche sulla maniera con cui concepisce la missione tra i saraceni. Nell’ampia citazione che egli fa del discorso missionario, abbinandolo alla beatitudine dei perseguitati, Francesco fa cadere - per la chiara diversità del contesto - un versetto del vangelo di Matteo che avrebbe aiutato ancor più a cogliere l’arco totale della spiritualità della spogliazione, applicato non solo ai “lupi” esterni - i nemici dichiarati della fede, quali possono essere i non cristiani e, nello specifico, i saraceni - ma anche i “lupi” che possono vestire i panni dei familiari.

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Si tratta delle parole di Gesù: «Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno» (Mt 10,21). Nel contesto della Rnb, che stiamo esaminando, questo versetto sarebbe stato fuori posto. Ma gli occhi di Francesco si saranno tante volte misurati con esso, quando proprio dal padre gli era venuta la più grande persecuzione della sua vita, ed egli si era sentito davvero l’agnello nelle mani del lupo, scegliendo questa volta non la “prudenza” che avrebbe suggerito ai frati, ma l’imprudenza quasi sfidante del denudarsi. Il suo è un gridare, a corpo nudo, l’essere figlio del Padre che è nei cieli, non “contro” il padre terreno, che il quarto comandamento gli imponeva comunque di onorare, ma a dispetto dell’essere dal padre rigettato e diseredato. Egli sceglie, come logica della sua nuova vita, la spogliazione radicale, ad immagine della spogliazione di Cristo (cf. Fil. 2), sapendo bene che la debolezza davanti agli uomini rende forti della forza di Dio. Viene spontaneo supporre che sia questo l’atteggiamento con cui il Santo va ad incontrare il Sultano.Che sia stato in lui prevalente il sentimento missionario o quello dialogico - per stare al dibattito in corso -, può essere discusso. È sicuro invece che egli vada a quell’incontro come un uomo “nudo”, disarmato nel profondo, non centrato su di sé ma radicato in Dio, pronto ad affrontare tutte le possibili prove, con quella stessa energia sperimentata il giorno della spogliazione nel vescovado di Assisi. Quali che siano le parole da lui scambiate con il sultano - le diverse ricognizioni cercano di riprodurle fino ad immaginarlo impegnato in una “prova del fuoco” - Francesco sa che non deve preoccuparsi. Come nel gesto della spogliazione, ancora una volta, nella morsa e nel rischio della persecuzione, le parole gli verranno dall’alto. Gli farà da “bussola” quella mano del Padre che Giotto pone in alto, mentre le braccia di Francesco si librano nell’azzurro: «Quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi (Mt 10, 19-20)».

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FRANCESCO E IL SILENZIO DOCILE DELL’INCONTRO E DELL’ASCOLTO IL RUOLO DI FRATE ELIA PER LA PRESENZA FRANCESCANA IN ORIENTE

Antonio Di Marcantonio

Nel XII capitolo della Regola bollata, approvata da papa Onorio III il 29 novembre 1223, si legge: «Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i saraceni e tra gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. I ministri poi non concedano a nessuno il permesso di andarvi, se non a quelli che riterranno idonei a essere mandati». Più espressamente, nel capitolo XVI della Regola non bollata, approvata qualche anno prima dall’assemblea capitolare dei frati, frate Francesco esortava: «I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio, perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo, non può entrare nel Regno di Dio». Il riferimento esplicito nella Regola alla predicazione tra i saraceni e gli altri infedeli è senza dubbio una delle conseguenze del viaggio di Francesco in Oriente. Qui frate Francesco sperimenta in prima persona un nuovo approccio alla ‘riconquista’ dei Luoghi santi: non il rumore violento della conversione, ma il silenzio docile dell’incontro e dell’ascolto. Il viaggio in Oriente fu dunque fondamentale per la prima e la seconda stesura della Regola. Il Centro studi frate Elia da Cortona nel 2017 ha promosso un incontro di studi dedicato agli ottocento anni della presenza francescana in Terrasanta, con particolare attenzione al ruolo svolto da frate Elia come primo ministro della nuova provincia ultramarina. Come noto, infatti, nel 1217 il capitolo generale, riunito alla Porziuncola, stabilisce la suddivisione dell’Ordine in undici province. La cosiddetta Provincia di Siria o di Terra Santa, comprendeva all’incirca Costantinopoli e il suo impero, la Grecia e le sue isole, l’Asia Minore, Antiochia, la Siria, la Palestina, l’isola di Cipro, l’Egitto e tutto il resto del Levante. Fin dall’inizio venne ritenuta la provincia più importante dell’Ordine e, forse anche per questo, venne affidata alla competenza e alla capacità di governo di frate Elia, allora figura preminente della nascente fraternità.

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L’incontro ha dunque messo in evidenza, a distanza di otto secoli, l’importanza di tale evento, non solo come momento di formazione (anche in chiave “diplomatica”) per lo stesso frate Elia, ma anche per il modello che tale esperienza rappresentò per i futuri missionari francescani. Gli atti dell’incontro sono in fase di pubblicazione, a cura di P. Gabriel Marius Caliman, nella collana Cortona francescana promossa in collaborazione con l’Accademia Etrusca di Cortona, e data alle stampe per i tipi del CISAM di Spoleto. La presenza di Elia in Oriente, come noto, fu uno dei fattori di successo del viaggio nelle terre d’Oltremare dello stesso Francesco. I biografi di Francesco di Assisi, o meglio gli agiografi, e alcuni cronisti narrano che, dopo la conversione, il figlio di Pietro di Bernardone vivesse divorato dal desiderio di partire per l’Oriente; allo stesso modo, tempo addietro, nella sua giovinezza, era stato percorso dal fremito di partire per la guerra e conquistarsi sul campo le insegne cavalleresche. Falliti alcuni tentativi: prima, via mare, attraverso l’Adriatico, per raggiungere la Dalmazia e di qui la Siria; poi, via terra, attraverso Italia e Francia, per raggiungere la Spagna e di qui il Marocco; al suo terzo tentativo, Francesco riuscì a giungere alla Terrasanta, mentre quest’ultima assisteva esanime a uno dei momenti più sanguinosi della sua storia, la quinta crociata (1217-1221). Il viaggio del Santo in Oriente lo condusse a Damietta (in Egitto), dove si era spostato lo scontro tra cristiani e saraceni. Le fonti, anche quelle musulmane, tramandano della permanenza del santo a Damietta e, forse già nel giugno 1219, Francesco dovette assistere alle sofferenze arrecate dalla guerra e, di lì a qualche mese, persino alla grande disfatta dei cristiani, avvenuta il 29 agosto. Questo è lo scenario, in cui il Poverello matura la decisione di forzare le fila nemiche, armato soltanto dello «scudo della fede e un grande coraggio», e della «spada dello spirito, cioè la parola di Dio», come racconta Jacques da Vitry. Nel 2019 il Centro studi frate Elia da Cortona ha inteso dunque ricordare l’incontro di Francesco con il Sultano d’Egitto, promuovendo una serie di incontri mirati a metter in rilievo la portata di tale evento anche in funzione della futura organizzazione istituzionale dell’Ordine. In Oriente infatti Francesco matura la sua idea di predicazione, e forse non a caso nel suo viaggio di ritorno porta con sé tre frati che ricopriranno un ruolo di primo piano nel passaggio dalla fraternitas all’Ordine: Pietro Cattani, Cesario da Spira e il ministro Elia. Gli incontri sono stati coordinati da Filippo Sedda e Simone Allegria, con la supervisione del comitato scientifico del Centro. Il Centro studi ha inoltre commissionato agli artisti Luigi e Kate Agnelli un’opera grafica per celebrare l’anniversario, che sarà presentata al pubblico nella primavera del 2019.

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LO “STILE” mISSIONARIO DI FRANCESCO DI ASSISI TRA I mUSULmANIPER ImPARARE AD ANDARE NON “CONTRO” O “PRESSO” QUALCUNo mA “IN mEZZO”

Dariusz Wisniewski

Negli ultimi decenni sono stati pubblicati diversi libri dedicati all’incontro di Francesco di Assisi con il Sultano al-Kamil presso la città di Damietta (tra questi Basetti-Sani, Jeusset, Hoeberichts, Tolan, Moses). D’altra parte si tratta di una storia che, anche dopo otto secoli, non cessa di affascinare e interrogare. Nel mezzo della terribile guerra i due personaggi, appartenenti alle civiltà in conflitto, si incontrano senza armi per dialogare sulle rispettive esperienze spirituali. Questa storia è carica di un messaggio costruttivo, pacifico, riconciliante di cui anche oggi abbiamo grande bisogno. Il docu-film The Sultan and the Saint del regista Alex Kronemer dimostra come le immagini permettono di raccontare il passato in un modo coinvolgente e suggestivo. Ed è bello costatare come l’arte cinematografica attinga ispirazione dalla storia francescana. Penso che il documentario si possa interpretare su due piani separati. Il primo è quello del messaggio per lo spettatore odierno, che vive nel contesto delle tensioni provocate dalla guerra nel Medio Oriente, dal terrorismo e dalla crisi migratoria. Il docu-film mette in luce l’importanza dell’incontro e del colloquio senza pregiudizi e secondi fini. Ascoltarsi, guardarsi negli occhi e condividere le esperienze fa cadere i muri della diffidenza e dell’odio. Il dialogo fa scoprire il vero volto dell’altro e stabilire un nuovo rapporto di amicizia, di rispetto e di pace. Mi sembra che questo messaggio, oggi tanto attuale, sia l’obbiettivo principale del regista. Il secondo piano di valutazione del film rimanda alla fedeltà alle fonti e cronache sui motivi e sullo svolgimento dell’incontro. Da un documentario si aspetterebbe una puntualità storica, altrimenti si rischia di scivolare verso il cinema di finzione... A mio avviso il docu-film sostiene una forzata visione di Francesco come un pacifista nel senso moderno a scapito della realtà storica. A prescindere dalle testimonianze tardive (e quindi meno credibili), dove Francesco giustificherebbe addirittura l’uso delle armi (es. Illuminato 2: FF 2691), la maggior parte delle fonti vede come la ragione del viaggio di Francesco in Oriente il desiderio di annunciare il Vangelo ai musulmani e la sete del martirio. Il Poverello è convinto che la condizione indispensabile per stabilire una durevole pace sia la conversione del sultano e in seguito – secondo la tattica dei missionari medievali – anche del popolo che gli è suddito. Quello che rende il discorso di Francesco eccezionale per gli standard dell’epoca è il fatto che non usa mai un linguaggio offensivo nei confronti della fede islamica, non ferisce la sensibilità religiosa del suo interlocutore, non insulta Maometto. E parliamo del tempo in cui perfino le allocuzioni papali contenevano parole ingiuriose.

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A mio parere la visita del Poverello dal sultano, più che una missione di pace, era – se vogliamo usare i termini moderni – una dimostrazione della libertà religiosa con la quale i nostri protagonisti potevano dialogare in modo pacifico e rispettoso. Al di là della ricostruzione filmica, dalle fonti storiche sappiamo che il comportamento del Poverello in Egitto si muove come tra due poli: da una parte l’obbedienza e dall’altra la contestazione verso la Chiesa. Da un lato Francesco rimane fedele all’insegnamento e alla politica ecclesiale, non mettendo mai in questione l’idea della crociata. Rimangono domande aperte se il Poverello si sottopose al rito di benedizione, se fece il voto del crociato, se portava il pezzo di stoffa a forma di croce. Comunque sia, fa parte dell’esercito come un assistente spirituale o un cappellano militare. Prima di andare nel campo musulmano chiede il permesso al legato papale Pelagio. Dopo il ritorno in Italia, Francesco va da papa Onorio per rendergli omaggio e chiedere la protezione per il suo Ordine. Non è quindi giusto isolare o contrapporre il Santo ai progetti della gerarchia ecclesiastica. Ma dall’altro lato Francesco non è neanche un cieco esecutore della politica papale.Lui segue la voce di Dio e mette in pratica le sue intuizioni, compie i gesti profetici incomprensibili ai suoi contemporanei come ai suoi confratelli, si presenta come un pacifico annunciatore del Vangelo nel contesto della terrificante guerra. Francesco lascia l’Egitto amareggiato e deluso dal comportamento dissoluto dei crociati dopo la conquista di Damietta. Le fonti principali non accennano alla sua presunta visita nei luoghi santi. Il Poverello affretta il suo ritorno in patria preoccupato dopo aver ricevuto una notizia sulla crisi nel governo dell’Ordine. Un altro motivo della sbrigativa partenza per l’Italia potevano essere i problemi di salute, che si manifestavano sopprattuto con una dolorosa malattia degli occhi. Tuttavia, il viaggio in Oriente lascia le tracce non soltanto nel corpo di Francesco, ma segna profondamente anche il suo spirito.Le tensioni nella comunità dei frati, durante l’assenza di Francesco, dimostrano che il nascente Ordine a carattere internazionale aveva urgentemente bisogno di un preciso ed efficace regolamento giuridico. Francesco è il primo fondatore di un Ordine religioso che inserisce nella sua legislazione un’intera sezione dedicata alle missioni. Per la prima volta l’annuncio del Vangelo non è solo un incarico affidato a singoli personaggi carismatici, ma tutto l’Ordine viene incoraggiato a seguire concrete linee operative. Francesco non si compiace ad escogitare idee astratte, lui è un uomo pratico che per scritto condivide l’esperienza vissuta nel mondo musulmano. La novità del progetto missionario di Francesco si manifesta nel titolo del capitolo XVI della Regola non bollata: “Di coloro che vanno tra i saraceni e altri infedeli”. Infatti, mentre a quel tempo i crociati andavano “contro” (contra) i musulmani, il Poverello manda i suoi frati non solo “a” (ad) loro, ma li invia addirittura “tra” (inter), in mezzo a loro. Questa espressione suppone che la mentalità di creare un’enclave, una colonia occidentale, un ghetto è completamente estranea allo spirito francescano. L’incontro con il Sultano e la permanenza in Oriente influisce anche sulla spiritualità del Santo: assimila alcune forme di pietà che ha osservato da vicino nell’ambiente islamico. Queste attinenze si possono individuare sia nelle preghiere che nell’attività epistolare la quale, verso la fine della vita del Poverello, sostituisce il suo apostolato itinerante.

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Nella Lettera ai reggitori dei popoli Francesco suggerisce di creare nei Paesi cristiani un incaricato che – alla maniera del muezzin – possa richiamare la gente alla preghiera. Un remoto eco di questa proposta di Francesco è l’iniziativa di frate Benedetto di Arezzo, già ministro provinciale in Terrasanta, a cui si deve l’uso della campana durante la recita dell’Angelus – una pratica che in seguito sarà accolta e propagata dall’Ordine francescano in tutta la cristianità. La visita di Francesco alla corte del sultano al-Kamil e l’incontro pieno di cortesia sollecita anche oggi i francescani a coltivare i rapporti di amicizia, di pace e di rispetto con i musulmani. L’eredità del Santo ci spinge a promuovere nel mondo lacerato dagli scontri di civiltà i valori della libertà religiosa e del dialogo.

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IL CIBO TRA FRATE FRANCESCO E IL SULTANOL’ALTO VALORE REALE E SImBOLICO DEL NUTRImENTO

Pietro Messa

Come per molti altri fatti anche per l’incontro tra frate Francesco e il sultano è da distinguere tra ciò che è stato e ciò che è diventato, ossia il significato assunto nella storia a seconda di come è stata costruita la memoria degli eventi. Infatti fin dalle narrazioni agiografiche del secolo XIII si può notare che spesso l’autore più che narrare l’avvenimento in sé vuole dare un giudizio sulla storia del proprio tempo. Così in alcune narrazioni si nota una posizione antifedericiana molto evidenziata: mentre l’imperatore Federico II, pur di non ostacolare i propri commerci, scese a compromesso con al-Malik al-Kāmil e non temette di incorrere nella scomunica, il povero san Francesco pur di annunciare il Vangelo non disdegnò di affrontare l’ordalia, ossia la prova del fuoco! Come la Basilica assisana è una ecclesia specialis quale contraltare a Castel del Monte – emblema del potere di Federico II – così la narrazione e raffigurazione dell’incontro-scontro tra il santo e il sultano sono un giudizio molto preciso sul comportamento imperiale. Simile messaggio è presente, anche a livello iconografico, nel racconto dell’incontro-scontro tra sant’Antonio di Padova e il terribile ghibellino Ezelino da Romano, alleato di Federico II. Una delle fonti principali per conoscere l’incontro tra Francesco d’Assisi e il sultano al-Malik al-Kāmil è la Cronaca di Ernoul databile tra il 1227 e il 1229. Infatti l’autore, avendo dimorato in Oriente molti anni, è testimone oculare di quanto narra, tra cui l’assedio di Damietta guidato dal cardinal legato Pelagio e durante il quale l’assisiate si recò dal sultano (FF 2231-2234). La suddetta fonte narra che dopo essere riusciti a estorcere al legato papale la possibilità di andare in campo saraceno, Francesco e un altro frate giunsero alla presenza del sultano dove confessarono la loro fede cristiana e proclamarono di essere giunti a portare un messaggio da parte del Signore per la sua salvezza. Dopo un confronto con i saggi mussulmani il sultano li ringraziò e «aggiunse che se essi volevano rimanere con lui, li avrebbe investiti di vaste terre e possedimenti»; al diniego dei due fece «portare oro, argento e drappi di seta in gran quantità, e li invitò a prenderne con libertà». Ma anche questa volta rifiutarono chiedendo soltanto «qualcosa da mangiare» prima di andarsene al che il sultano «offrì loro un abbondante pasto». La condivisione del cibo ricorda quanto fece lo zio di al-Malik al-Kāmil, ossia il famoso Saladino, quando nel luglio 1187 si trovò di fronte alcuni cavalieri e baroni crociati tra cui Guido di Lusignano e Rinaldo di Châtillon; mentre fece abbeverare il primo a una coppa d’acqua fresca in segno di rispetto per la sua vita negò da bere al secondo destinato ad essere ucciso (cfr. G. Ligato,

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Sibilla crociata. Guerra, amore e diplomazia per il trono di Gerusalemme, Milano 2007, p. 204). Tutto ciò mostra l’alto valore reale e simbolico che ha il nutrimento sia presso la corte del sultano che per frate Francesco. Infatti un termine importante per quest’ultimo è mater che, come afferma nel Cantico di frate sole, «sustenta e governa» (FF 263), ossia si prende cura innanzitutto nutrendo; simile significato ha il termine minister – che ha la medesima radice di minestra – essendo il minor che deve pensare a servire a mensa mentre il maior quale magister parla con gli altri da una posizione superiore (cfr. G. Cassio - P. Messa, Il Cibo di Francesco, Milano 2015). Quindi nell’incontro tra frate Francesco e il sultano al-Malik al-Kāmil un ruolo importante ha avuto il cibo e di conseguenza il nutrimento. A distanza di otto secoli la nutrizione è una delle problematiche globali e richiama un’equa distribuzione dei beni. Oggi a livello interreligioso, oltre al primordiale rispetto reciproco e accanto ad un pur importante dialogo culturale che richiede una preparazione specialistica, vi è il dialogo della vita fatto soprattutto di azioni comuni nei confronti dei disagiati e volto a risolvere questioni urgenti. Tra queste vi è appunto quella della fame nel mondo e proprio su questo piano, attingendo anche dall’incontro tra Francesco d’Assisi e il sultano, cristiani e mussulmani possono agire assieme per contribuire a risolvere il problema della nutrizione.

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L’ I N C O N T R O N E L L E D I F F E R E N Z E

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I TRE mONOTEISmI PER RISCOPRIRE

LA NATURA ESODALE E mIGRANTE DELLA FEDE

Vincenzo Rosito

Nel maggio 2018 si è concluso a Vittoria (RG) un ciclo di incontri pubblici promosso dalla Cattedra di Dialogo tra le Culture in collaborazione con la Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” e con l’Ufficio per la Cultura della Diocesi di Ragusa. Nel corso dell’intero anno diversi studiosi ed esponenti delle tre religioni monoteiste hanno dibattuto sul tema: “Ebrei, cristiani e musulmani figli di Abramo. Riscoprire la fratellanza fra i monoteismi abramici”. In occasione dei vari appuntamenti il riferimento al patriarca Abramo si è tradotto in un cammino di riconoscimento delle prospettive comuni e delle radici condivise. Abramo continua a ispirare una fede radicalmente esodale anche in un tempo storico in cui la condizione migrante diventa esclusivamente un’emergenza da fronteggiare con urlate soluzioni propagandistiche. L’uscita da sé e dalla propria casa, l’affidamento a una parola promettente, l’opzione per la vita itinerante: sono questi i “movimenti” della biografia di Abramo che letteralmente si av-via e si offre quale condizione di un’esistenza credente. È oltremodo necessario un coinvolgimento pratico e teorico dei tre monoteismi nella riscoperta quotidiana della natura esodale e migrante della fede. Occorre misurare la bontà del dialogo interreligioso sulla base delle modalità e-statiche del credere. Come insegna la storia di Abramo, la fede in Dio ha la forma dell’uscita e dell’allontanamento per chi non si accontenta semplicemente di confermare contenuti e dottrine. È questo un tratto fondamentale dei monoteismi abramici nella misura in cui vengono interpellati e coinvolti nella scena pubblica globale. La consapevolezza del movimento riflessivo della fede è una qualità comune a ebrei, cristiani e musulmani. Questi, condividendo la stessa vitalità sorgiva, possono avanzare credibili istanze di cambiamento all’interno del mondo globalizzato. È necessario riflettere ad esempio sul contributo che le diverse religioni monoteiste potrebbero offrire alla costruzione della “casa di tutti”. L’universalismo delle fedi si concretizza infatti nell’orizzonte esteso e inclusivo che esse stesse sono chiamate a realizzare. Per fare questo è necessario riconoscere le implicazioni sociali, economiche e politiche di una fede anti-idolatrica. Paul Ricoeur amava ripetere che le religioni monoteiste sono «depositarie di un’eccedenza di speranza sulla pianificazione». Potremmo opportunamente ricorrere a questa espressione per evidenziare la portata critica e demitizzante della fede nel Dio unico. Il mito, compreso quello della razza, della nazione o del sistema economico vigente, non è mai eccedente o sovrabbondante, non riserva sorprese o doni inaspettati.

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I monoteismi conservano invece un’eccedenza religiosa che supera i confini delle rispettive comunità confessionali, un’eccedenza che assume la forma diversificata dei riti, dei simboli e delle narrazioni, un pluralismo delle pratiche che non è mai confinabile nella sola dimensione normativa o prescrittiva. Bisognerebbe rinvenire sempre più occasioni di incontro e di riflessione tra le diverse tradizioni religiose per affrontare la cruciale questione del pluralismo. Affermiamo di vivere in un mondo diversificato e complesso. Tuttavia il concetto di pluralismo religioso non è sinonimo di complessità, esso non descrive la mera coesistenza di più fedi all’interno del medesimo contesto geografico. Pluralistico è ad esempio un quartiere in cui non soltanto è facile incontrare diversi luoghi di culto, ma dove è possibile avere “conversazioni prolungate” con uomini e donne di fede diversa. La frequentazione assidua tra differenti stili di vita e modi di credere è allo stesso tempo garanzia e premessa di un universo religioso pluralistico. Sarebbe necessario osservare e studiare opportunamente la differenziazione che caratterizza internamente le singole fedi storiche. Alle religioni monoteiste spetta il compito di riflettere in modo particolare sul pluralismo interno ovvero sui processi di diversificazione delle forme e delle pratiche credenti che intimamente le contraddistinguono e le attraversano. Questo lavoro comune può essere sostenuto da una ricerca teologica attenta al paradigma della complessità e alla relazione intercorrente tra l’unità e le parti. I modi della cattolicità, ad esempio, chiedono di essere interrogati dall’intera coscienza ecclesiale. Può essere utile lasciarsi guidare da un’immagine suggestiva con cui papa Francesco, da diversi anni, sta insistentemente richiamando l’attenzione del Popolo di Dio: «Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità […] Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno» (Francesco, Evangelii gaudium, n. 236).

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I mONACI DI TIBHIRINE E IL DIALOGO CON I mUSULmANIPARTIRE DALLA VITA E DALLA CONOSCENZA DELL’ALTRO

Guido Dotti

La chiave attraverso la quale vorrei percorrere quattro assi del ruolo e della modalità del dialogo dei monaci trappisti di Tibhirine con l’Islam è il nome che avevano dato a un gruppo che si riuniva per pregare e riflettere: “Legame di pace”. Il gruppo era sorto non per iniziativa della comunità come tale, ma di alcune figure della Chiesa cattolica di Algeria, tra i quali fr. Christian, il priore di Tibhirine. Questo gruppo veniva ospitato spesso anche in monastero, ed era composto di cristiani, la maggior parte religiosi, e da musulmani, in particolare, una confraternita sufi, proveniente da Medea, la città più vicina a Tibhirine.

Un primo asse è quello della vita quotidiana: un’intera comunità di monaci che progressivamente impara a vivere e a convivere con una più grande comunità di credenti, quella dei musulmani della zona. Già per un monastero cristiano in contesto sociale cristiano ci sono dei limiti alla condivisione con il mondo esterno; possiamo immaginarci quali caratteri possa assumere in un contesto privo di altre presenze cristiane esterne, se non distanti decine di chilometri. Ma questa condivisione è avvenuta in modo molto spontaneo, grazie proprio a un’iniziale spartizione di terreni: per lavorare gli appezzamenti rimasti di proprietà del monastero, i monaci hanno dato vita a una cooperativa assieme ad alcuni capifamiglia del villaggio, i quali continuano ancora oggi a coltivare la terra e a ricavarne i prodotti per dare da mangiare alle loro famiglie. I monaci troveranno normalissimo anche mettere a disposizione una stanza nel loro grande monastero perché fosse usata come luogo di preghiera, dove regolarmente la comunità musulmana del villaggio poteva trovarsi a pregare ai suoi ritmi: un’entrata indipendente, che non sconvolgeva le regole della clausura del monastero, consentiva ai musulmani di accedere alla loro casa di preghiera, all’interno di quella “casa di preghiera” che è un monastero. Inoltre, c’era la partecipazione al vissuto quotidiano attraverso l’opera di fr. Luc come medico. In una zona priva di servizi sociali, medici, ambulatori, possibilità di cura, si può capire cosa volesse dire una persona che giorno e notte è pronta a prendersi cura di chi era bisognoso. I monaci hanno condiviso anche i momenti di festa o di lutto della comunità musulmana – circoncisioni, feste di maggior età, festività per i matrimoni dei figli, ma anche funerali: semplice condivisione delle gioie e dei dolori della comunità locale.

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Il secondo asse del dialogo dei monaci di Tibhirine con l’Islam è il gruppo “Legame di pace”. Siamo soliti dire – e in parte è vero – che i non specialisti non possono discutere di questioni teologiche: si devono limitare all’aspetto pratico, etico, lasciando perdere ciò che lo anima e motiva. Soprattutto non si può pregare insieme, non si può entrare in una dimensione di dialogo spirituale. L’esperienza che hanno fatto i monaci di Tibhirine e questo piccolo gruppo di cristiani, più largo della comunità dei monaci, va in direzione contraria. Ecco le proposizioni che si erano dati insieme, cristiani e musulmani, “per concretizzare oggi una volontà di comunione”.

1. Facciamo memoria, giorno dopo giorno, del tema che scegliamo perché sia, tra un incontro e l’altro, il nostro legame di pace (Ribât es-Salâm) nella preghiera, il servizio e la fedeltà reciproca.

2. Lasciamoci interpellare, destabilizzare, arricchire dall’esistenza dell’altro; ascoltiamolo, cerchiamo di capire meglio la sua tradizione così come la proclama e di rispettarla così come la vive.

3. Restiamo aperti a tutto ciò che ci rende prossimi al cammino della fede, condividendo la speranza di questa unità che Dio promette alle nostre differenze. Rivestiamoci della sua pazienza in questo itinerario.

4. In questo spirito, preoccupiamoci di promuovere gruppi, per quanto modesti, di preghiera e di incontro tra uomini e donne sinceri e benevoli.

5. Nelle nostre relazioni quotidiane prendiamo apertamente le parti dell’amore, del perdono, della comunione, contro l’odio, la vendetta, la violenza che ai nostri giorni colpiscono tutti. Entriamo così nell’atteggiamento del Dio di tenerezza e di misericordia che è con ogni uomo che soffre.

6. Crediamo al dono della pace che ciascuno porta in sé, per sé, per l’altro, per il mondo intero. Impariamo a contemplarla al di là delle apparenze. Sia per noi sorgente di gioia, di fiducia e di perseveranza nel legame che ci unisce.

Il terzo asse del dialogo vissuto a Tibhirine è illustrato da un articolo scritto da uno dei sopravvissuti al rapimento, fr. Jean-Pierre: sulla scorta degli scritti di fr. Christian, rilegge l’episodio evangelico della Visitazione di Maria a Elisabetta come figura della minuscola presenza dei cristiani in un mondo musulmano. È un’intuizione che risale a fr. Charles di Foucauld: questi sosteneva che bisognasse essere come Maria, che porta in grembo Gesù, quando visita Elisabetta. Quindi attraverso la Visitazione e il servizio reso all’altro noi portiamo un Cristo che ancora non si vede, ma che già portiamo. Fr. Christian l’ha ripresa e rielaborata con un’aggiunta ulteriore: alla dimensione di Cristo nascosto nel grembo di Maria, che si fa prossimo attraverso il servizio reso da Maria a Elisabetta, fr. Christian aggiunge la sottolineatura del dato che a sua volta Elisabetta ha qualcosa in sé che la mette in grado di riconoscere il Cristo: porta in grembo Giovanni Battista. Fuor di metafora, il non cristiano – che noi accostiamo attraverso il servizio e al quale portiamo Cristo anche quando non gliene parliamo esplicitamente – ha in sé una presenza che lo mette in grado di riconoscere il Cristo che viene, portato da noi. Questa comprensione ulteriore di fr. Christian è divenuta patrimonio di tutta la Chiesa di Algeria: man mano che le vicende la portavano a ridursi sempre di più: cresceva la consapevolezza che l’altro

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– in questo caso l’altro musulmano – ha già in sé, messa da Dio, una presenza che lo rende capace di riconoscere Cristo, anche senza una predicazione esplicita. Consapevolezza decisiva, nel dialogo non solo con i musulmani ma con chiunque non confessi Gesù Cristo a propria salvezza: se noi crediamo che ogni essere umano ha impressa in sé l’immagine e la somiglianza di Dio, dobbiamo anche essere convinti che l’immagine insopprimibile è una presenza che rende l’altro capace di ritrovare la somiglianza di Dio in Cristo.

Infine, quarto asse, vi è una riflessione sulla quale fr. Christian ha meditato a lungo e ha scritto copiosamente: l’immagine della scala mistica. La scala di Giacobbe ha due montanti appoggiati a terra e la sommità arriva in cielo. Fr. Christian rilegge questa immagine in modo originale: i due montanti sono le due fedi, quella cristiana e quella musulmana. Naturalmente lo spazio tra l’appoggio della scala e la sommità è il mondo spirituale, simboleggiato nella scala di Giacobbe dagli angeli che salgono e scendono gli scalini, che allo stesso tempo tengono insieme e distanti i due montanti che non s’incontrano, formando la scala: senza scalini, non c’è scala. Fr. Christian osserva che i pioli ben fissati nei due montanti delle due fedi sono una serie di elementi comuni della vita spirituale:Il dono di sé all’assoluto di Dio: “Islam” significa “abbandonarsi”, così il musulmano è colui che è abbandonato in Dio. Ma la capacità di lasciare tutto da parte per immergersi in Dio è esigenza richiesta anche al cristiano.Il secondo scalino è la preghiera regolare, l’aver dei momenti determinati di preghiera durante il giorno, durante l’anno. Il terzo scalino è il digiuno, anche se con significati diversi. Per i cristiani ha radici veterotestamentarie, ma si riferisce soprattutto al digiuno di Gesù nel deserto e assume anche una finalità caritativa. Riconoscere questo elemento di ascesi comune agli appartenenti alla fede musulmana, ci aiuta a capire una pratica cristiana ormai quasi completamente abbandonata in occidente. Un altro scalino è la condivisione, che si collega allo scalino successivo, l’elemosina, una delle cinque pratiche dell’Islam. Per molti versi, il modo di vivere la povertà cristiana è innanzitutto quello della condivisione dei beni, e del donare il superfluo. Un altro elemento spirituale è la conversione del cuore, un altro ancora è la memoria incessante della divina presenza, la memoria Dei, che troviamo in san Benedetto e in tutta la tradizione cristiana. Nella tradizione musulmana troviamo il richiamare alla memoria i 99 nomi di Allah, il fare memoria costantemente della presenza del Signore, e il comportarsi come se Dio ci vedesse.La pratica dell’ospitalità: anche questo è chiesto al fedele musulmano, come al cristiano. Ci sono contesti socioculturali che lo richiedono, così per tutti i popoli semitici che abitano nel nord dell’Africa, ebrei, musulmani, cristiani, l’ospitalità è sacra: se infatti nel deserto tu non fai entrare chi si è perso e bussa alla tua tenda, tu lo condanni a morte. E ancora, la chiamata alla lotta spirituale, presente nella tradizione cristiana e particolarmente nella vita monastica. La tradizione musulmana la chiama “la grande Jihad”, la lotta personale, mentre quella interpretata come “guerra santa” è la piccola Jihad.

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Comune a entrambe le tradizioni, cristiana e musulmana, è infine il pellegrinaggio. Vi è l’obbligo per il credente musulmano di recarsi in pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita. Ma una dimensione del pellegrinaggio che vivono i musulmani anche quando non possono permettersi di andare alla Mecca, e a cui sono chiamati tutti, è quella interiore che si collega alla conversione del cuore, al ritornare al Signore.

Questi mi paiono i quattro assi più significativi per comprendere il rapporto tra i monaci di Tibhirine e i credenti musulmani. Questo tipo di approccio – affrontare il dialogo non come qualcosa di astratto o teorico, ma a partire dalla vita, dalla conoscenza dell’altro, dalla passione per ciò che brucia nel cuore dell’altro – è oggi fondamentale. In questo i bambini ci sono maestri: con la loro curiosità e i loro “perché” hanno una naturalezza di approccio di cui avremmo bisogno anche noi per discernere le opportunità che ci vengono date, proprio perché il dover rendere conto all’altro mi obbliga a riscoprire le motivazioni di fondo di tante cose che o non facevo più, o facevo per abitudine. Siamo così aiutati a porre le giuste domande anche all’altro: questo vale per i fedeli delle altre religioni come per i non credenti. Sono infatti i non cristiani che ci chiedono conto della speranza che è in noi, una speranza che è tale solo se è per tutti.

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“PER I mIEI FRATELLI E SORELLE DELL’ISLAm E DEL mONDO INTERO”

LA TESTImONIANZA DELLE PICCOLE SORELLE DI GESù

ps. Paola Francesca

Vorrei che credeste che ci può essere una vera amicizia, un affetto profondo fra persone che non appartengono né alla stessa religione, né alla stessa razza, né allo stesso ambiente…bisogna che il vostro amore cresca, si approfondisca e diventi delicato. L’amore generoso si trova più facilmente, ma l’amore delicato e rispettoso per ogni creatura è raro. In ognuna di loro c’è il volto del Signore.

Con queste parole piccola sorella Magdeleine fa chiaramente riferimento alla propria esperienza vissuta all’inizio della fondazione della Fraternità delle Piccole Sorelle di Gesù. Partita in Algeria sui passi di Charles de Foucauld, dopo una prima esperienza a Boghari ed un anno di noviziato canonico presso le Suore Bianche, durante il quale il Prefetto Apostolico le chiede di scrivere le costituzioni in vista della fondazione di una nuova congregazione, si stabilisce nel sud del Sahara, a Touggourt verso la fine del 1939. È un’oasi abitata soprattutto da nomadi semi-sedentarizzati, impoveriti dalla siccità degli ultimi anni. Durante i primi anni, il tempo necessario perché le prime giovani in Francia si impegnassero nella congregazione e si formassero, piccola sorella Magdeleine passa dei lunghi periodi da sola a Touggourt, in mezzo a quelli che poi oserà chiamare “co-fondatori”. È senza dubbio un’esperienza unica nella storia della Chiesa: una fondazione che fin dai suoi primi passi non si situa tanto “per” ma piuttosto “con” un popolo. Sì, la Fraternità è nata da un incontro, l’incontro tra questa donna straniera e la popolazione araba di Touggourt: lei, giovane donna francese in Algeria (allora ancora colonia francese), si situa chiaramente contro ogni mentalità colonizzatrice, si tuffa nella realtà araba lontana dai quartieri residenziali degli europei, per assumere la lingua e i costumi della popolazione locale. Per imparare a vivere in quell’oasi e poi sotto la tenda, si mette alla loro scuola, senza l’illusione di aver sempre qualcosa da dare, senza illusioni di superiorità. Loro, gli abitanti di Touggourt, hanno colto in lei l’Amore che la guidava e hanno risposto con la stessa generosità. Riparare insieme la casa abbandonata e semisommersa dalla sabbia perché diventi la prima fraternità, è stata l’occasione di costruire insieme un’amicizia profonda. Piccola sorella Magdeleine si interessa a tutto ciò che fa parte della loro vita, senza esitare a rendersi garante e a difendere i loro diritti davanti all’Amministrazione francese.

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In un periodo di forte carestia in cui l’amministrazione civile distribuisce ad ogni famiglia una quantità di farina per sei mesi, lei si rende conto che per queste famiglie così povere, che abitano in piccole capanne fatte di rami di palma, è impossibile conservare una simile quantità. Inventa allora dei cartoncini rosa su cui scrive “amici di piccola sorella Magdeleine” e che dà ad ogni capo famiglia: mostrandolo alle autorità potrà così ricevere la sua razione mese per mese, in modo da poterla gestire più facilmente. Sa però anche incoraggiarli a prendere le proprie responsabilità di fronte alle proprie colpe: convincerà un uomo che aveva rubato ed era fuggito di prigione a ripresentarsi per scontare la propria pena, pur intercedendo presso i responsabili perché questo atto non porti ad un supplemento di condanna. Piccola sorella Magdeleine dà fiducia e riceve fiducia. C’è chi le chiede consiglio in vista di un matrimonio e lei a sua volta confida i propri progetti e rilegge con i muratori del cantiere le costituzioni che sta scrivendo per avere un confronto! Athman, il capo-cantiere, è l’amico fedele che veglia discretamente ed efficacemente su piccola sorella Magdeleine, al punto da farsi garante dei suoi tempi di preghiera, tenendo lontano i bambini con i loro giochi chiassosi in prossimità della cappella. Addirittura quando l’orologio di piccola sorella Magdeleine si romperà, sarà lui che ogni giorno busserà alla porta della cappella per segnalarle che l’ora di adorazione è terminata! «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici, ci dice Gesù nel vangelo di Giovanni» (Gv 15,13). In effetti quando il legame d’amore è profondo si vorrebbe dare tutto perché l’altro possa vivere in pienezza. È questo il senso dell’offerta della propria vita per l’altro. Per Magdeleine la fede si concretizza nel dono della propria vita. È così che fin dalla sua giovinezza, certamente formata dalla spiritualità del proprio tempo, offre la sua vita al Signore. «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12, 1). Questo dono è totale e irrevocabile e si farà sempre più forte con l’avanzare nella vita spirituale, fino ad arrivare al desiderio del martirio. Lo esprimerà con la parola “immolazione” che certamente oggi suona antiquato alle nostre orecchie …, ma lei lo utilizza nel senso biblico del termine, in unione all’offerta di Cristo per la Redenzione del mondo intero. L’esperienza fondatrice dei primi anni fa che questo dono sia caratterizzato dall’amicizia con il mondo musulmano e si concretizza con l’espressione della formula della professione religiosa delle Piccole Sorelle di Gesù “per i miei fratelli e sorelle dell’Islam e del mondo intero”. Offerta rinnovata ogni giorno dopo aver comunicato al Corpo e Sangue di Gesù nella celebrazione eucaristica:

Ricevi, o Padre Santo, in unione al sacrifico del Corpo e del Sangue di Gesù e a gloria del tuo Nome, l’offerta della mia vita per i miei fratelli e sorelle dell’Islam e del mondo intero. Te la offro anche perché con tutti i miei fratelli e sorelle poveri e oppressi troviamo la vera liberazione nella giustizia e nella carità di Cristo, perché siano riuniti tutti i credenti nell’unità della fede e perché regni tra le persone di ogni ambiente, popolo e cultura, nel rispetto reciproco, attraverso le differenze di temperamento e di età, l’unità nell’amore del mio Amatissimo Fratello e Signore Gesù. Amen.

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L’amore profondo che abitava Magdeleine l’ha profondamente modellata, mettendole nel cuore il desiderio intenso di unità al di là di ogni tipo di divisione e di barriera, spingendola a percorrere i cinque continenti, al di là della fragilità della sua salute, per costruire comunione. Ha saputo allargare la sua esperienza algerina alla ricerca dei più piccoli e ai margini delle società del suo tempo, rendendo la differenza “luogo” di incontro con l’altro, com-unione. La Fraternità è nata da un incontro, l’incontro di piccola sorella Magdeleine con gli abitanti di Touggourt; l’incontro tra due realtà che sarebbero potute restare ben lontane l’una dall’altra: nazionalità, religione, cultura … tutto avrebbe potuto separare ed è invece diventato occasione di affetto e amicizia, nel rispetto reciproco delle differenze, in un grande atto di amore offerto e ricevuto! E ancora oggi “ogni volta che viviamo un incontro la Fraternità nasce” (dalle Conclusioni del Capitolo generale 2017). Sì, ancora oggi ovunque nel mondo quando due persone vivono l’incontro nella verità di ciò che ognuno è, la fraternità umana si realizza e il Regno di Dio si concretizza nel nostro quotidiano. In un periodo storico in cui spesso la nostra società non sa come relazionarsi con lo straniero, in cui la violenza perpetrata spesso nel nome dell’Islam ci interroga, ci fa paura, e rischia di bloccarci, la realtà di relazioni profonde, piene di amore e di rispetto, capaci di andare oltre le differenze diventano segno del progetto di Dio per noi.

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IL mIRACOLO DELL’INCONTROACCOGLIENDO LA DIVINA ISPIRAZIONE E FACENDOSI “mINORE”

Silvestro Bejan

In preparazione all’ottavo centenario dell’incontro di san Francesco con il Sultano Al-Kamil (1219), il Centro Francescano Internazionale per il Dialogo di Assisi (CEFID) e la Comunità Religiosa Islamica Italiana (COREIS) hanno organizzato nel giugno 2018, presso il CEFID, una giornata di dialogo cristiano-islamico dal titolo: “San Francesco e shaykh Abu al-Hassan al-Shadhili. Contemporaneità e attualità di due grandi maestri e rinnovatori spirituali del cristianesimo e dell’islam. Crisi, decadenza ed escatologia. Come restaurare la religione che va in rovina?”. I lavori sono stati introdotti dai saluti del sottoscritto, come direttore del Centro Francescano Internazionale per il Dialogo, da quelli di Abd al-Sabur Turrini, direttore della Comunità Religiosa Islamica Italiana, e del sindaco di Assisi Stefania Proietti. Per la parte francescana sono intervenuti fra Guglielmo Spirito, docente di Teologia Spirituale all’Istituto Teologico di Assisi con la relazione “Avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione” (Rb 10): La vita nuova inseguita da san Francesco e fra Domenico Paoletti, docente di Teologia alla Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum di Roma con la relazione “L’escatologia prospettiva della vita. Oltre la crisi e la decadenza”. Per la parte islamica, invece, sono intervenuti l’imam Yahya Pallavicini, presidente COREIS italiana con la relazione “La scuola di ‘restauro” spirituale dello shaykh Abu al-Hassan al-Shadhili, contemporaneo di Francesco” e Abd al-Ghafur Masotti, responsabile del dialogo interreligioso COREIS italiana con la relazione “Crisi e analfabetismo sulla religione. Riflessioni islamiche dal De Vera Religione di Sant’Agostino”. Non è la prima volta che il CEFID e la COREIS propongono una giornata simile. Nell’anno 2010 fu organizzato un evento dal titolo: “Assisi nuovo incontro”. In quella occasione fu detto: «Il Sultano scopre nel Poverello un uomo di fede e Francesco scopre nel Sultano un “credente”. Ciascuno afferma la propria identità, la diversità viene rispettata e si vive la reciprocità. E avviene il miracolo dell’incontro. Francesco supera ogni muro e ostacolo. Si sente inviato da Dio, come egli stesso dirà al Sultano, di fronte al quale non esita a confessare la sua fede nel Dio uno e trino».

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A questo riguardo le parole del patriarca di Antiochia Grégoire III Laham (nella foto) sono molto significative per il cristiano di oggi: «Se l’Islam avesse davvero davanti a sé una cristianità reale, accogliente, limpida, forte, capace di testimonianza, se l’Occidente fosse davvero animato dalla forza spirituale cristiana, il rapporto con l’Islam sarebbe un’interazione, un dialogo, una convivenza leale». Ogni anno, il CEFID svolge diverse attività di accoglienza, riflessione e momenti di condivisione con i credenti musulmani provenienti dall’Italia e dall’estero. Ne ricordiamo qui solo tre. Il primo momento significativo da ricordare è avvenuto il 23 gennaio 2014. Si tratta del convegno “Tre uomini faccia a faccia con Dio: Isacco il Siro, Francesco d’Assisi e Mevlana Galal al-Din Rumi”, organizzato dal CEFID, in collaborazione con l’Ambasciata di Romania e l’Ambasciata della Turchia presso la Santa Sede. Dopo gli indirizzi di saluto, il tema dell’incontro fu introdotto dall’Ambasciatore di Romania, Bogdan Tătaru-Cazaban (“Contemplazione e misericordia – Radici del dialogo”). Il programma dell’incontro vide le relazioni presentate da fra Sabino Chialà (“Isacco il Siro e l’ecumenismo della santità”), fra Fabio Scarsato (“De toto corpore fecerat linguam. Le parole e i segni di San Francesco”) e S.E. prof. Kenan Gürsoy, Ambasciatore della Turchia presso la Santa Sede (“I colori e l’armonia nella prospettiva dell’unicità trascendente divina nell’opera di Mevlana Galal al-Din Rumi”). Ciascun intervento fu seguito da un momento musicale della propria tradizione spirituale. Da sottolineare ancora altri due momenti formativi organizzati dal CEFID in Turchia per i frati dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali. Il primo incontro formativo organizzato ad Iskenderun, nel 2012, intitolato “In mezzo ai musulmani per divina ispirazione” e il secondo ad Istanbul, nel 2013, con il titolo “Vita del credente in Dio: cammino di fedeltà e di sacrificio”. In questi due incontri i frati hanno voluto raccontare le proprie esperienza e riflettere insieme non tanto su ciò che fanno nei Paesi musulmani ma su ciò che sono come frati francescani “in mezzo ai musulmani”. All’inizio di ogni missione c’è la divina ispirazione. Nella vita di san Francesco, nella vita del cristiano e nella vita del frate minore, c’è la divina ispirazione. Il fine della vita cristiana, diceva san Francesco, non è pregare, né fare penitenza. Il fine è “avere lo Spirito del Signore e la sua vita in noi” (Rb 10). Una volta che il frate ha dentro di sé lo spirito del Signore, allora nasce l’opera. D’altra parte l’adagio dice: “agitur sequitur esse”, l’agire segue l’essere. Non vi è prima l’agire e poi l’essere. Se vi fosse prima l’agire e poi l’essere, sarebbe un problema, perché non si vivrebbe come si pensa, ma si finirebbe con il pensare come si vive e ciò sarebbe drammatico. La divina ispirazione è dunque di grandissima importanza. Il dialogo vero è sempre difficile. Nelle varie parti del mondo ci sono grandi difficoltà a trovare interlocutori disposti a dialogare e modi nuovi per stare insieme, accettando entrambi di cambiare qualcosa per venirsi incontro.

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Molti frati che vivono in mezzo ai musulmani, dopo aver pregato, dopo aver riflettuto, dopo aver chiesto consiglio e dopo aver anche sofferto molto, si sono dati un’unica risposta: a volte, l’unica missione possibile, è la missione di presenza. Esserci e basta! Essere una presenza. Una presenza, però, che sappia amare, che sappia rispettare, che sappia anche dialogare con i vicini senza tante parole. Il dialogo del frate minore conventuale non è fatto solo di parole: il dialogo può essere vissuto anche senza parole. La strategia dialogica secondo lo spirito francescano è delle più semplici: guadagnare la benevolenza di tutti facendosi verso tutti umile e rispettoso servitore, cioè essere minore. Questo atteggiamento deve caratterizzare il modo di essere dei frati in mezzo agli uomini: «per questo motivo sono detti “frati minori”, perché devono essere i più piccoli di tutti gli uomini del mondo, sia nel nome, sia nell’esempio e nel comportamento» (LegPer 15). Stare con gli altri, mai contro gli altri. Predicare Dio con la propria vita ed essere testimoni della Parola che si vive.

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DATTERI RIPIENI CON SAN FRANCESCO E AL-KAmIL mANgIARE E DIgIUNARE IN SoLIDARIEtà

Michael Lasky

Era il mio primo iftar, il pasto musulmano che al tramonto interrompe il digiuno durante il Ramadan. Alcuni di noi francescani avevamo digiunato in segno di solidarietà, ed eravamo tutti affamati mentre la luce del sole estivo indugiava fuori della finestra. Alle 20:32 Alex Kronemer (coproduttore del premiato docu-film The Sultan and the Saint), che ci aveva invitato per la serata, è emerso dalla cucina con un piatto di datteri ripieni di formaggio di capra. Ognuno ne ha educatamente preso uno e Alex è scomparso di nuovo in cucina. Mi sono immediatamente ficcato in bocca quella leccornia e ho cominciato a masticare. Una delle suore presenti, tenendo il suo dattero in mano mi disse “Mike, che stai facendo? Prima di mangiare ci sarà sicuramente una preghiera che interrompe ufficialmente il digiuno!”. Ero mortificato e preso dal panico, mentre i miei fratelli e sorelle francescani alzavano gli occhi al cielo e soffocavano le risa. Nel frattempo cercavo la maniera migliore per tirar fuori dalla mia bocca il dattero mezzo masticato e renderlo presentabile per l’atteso “rituale del dattero”. Per fortuna Alex, rientrato in salotto e visto che tenevamo gli antipasti in mano senza mangiarli, ci disse “Che succede? Ormai è sera, mangiate!”. Il rapporto di Alex con i francescani è cominciato quando, da giovane, era in viaggio in Italia. Ad Assisi, nella Basilica di san Francesco, aveva deciso che di chiese ne aveva viste abbastanza e che gli sarebbe bastato per tutta la vita. Allontanandosi lentamente dal suo gruppo, si girò per cercare l’uscita più vicina quando gli cadde lo sguardo sull’affresco che ritrae l’incontro di san Francesco e il sultano Malik al-Kamil. Vide qualcosa che per lui, un musulmano, suonava familiare e ne fu profondamente attratto. Alex spesso racconta come quella esperienza fece nascere in lui il desiderio di narrare la storia di un’amicizia e di un pacifico dibattito religioso avvenuta nel bel mezzo della guerra. Nel 1999 Alex ha co-fondato la Unity Production Foundation (UPF), la cui missione è “contrastare l’intolleranza e costruire la pace attraverso i media. La UPF produce film che narrano storie avvincenti come parte di una campagna educativa a lungo termine, la quale mira ad incrementare il pluralismo religioso e culturale, soprattutto fra i musulmani e le altre fedi”. Parecchi francescani hanno collaborato con UPF per la preparazione del film The Sultan and the Saint, e così si è finalmente realizzato il sogno di raccontare la storia dell’incontro fra Malik al-Kamil e Francesco.

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Alex parla molto dell’importanza delle narrazioni morali. In qualità di regista riconosce che nel passato le buone storie avevano bisogno di un eroe e di un cattivo affascinanti. Ma questo non regge il confronto con la realtà, poiché il paradigma “buono vs cattivo” tende a rendere la narrazione piatta e con distinzioni troppo nette. Queste storie “binarie” non sono utili poiché spesso creano una verità falsa e alternativa su cui si radicano e diffondono l’odio e il pregiudizio. Anche la narrazione della storia francescana è caduta in questa trappola, specialmente l’episodio dell’incontro tra Francesco e Malik al-Kamil. Invece, ciò di cui oggi c’è bisogno è di una narrazione morale che mostri personaggi realistici, persone multidimensionali. La famosa serie tv C’era una volta ha fatto un eccellente lavoro da questo punto di vista, poiché ha rimodellato le vecchie e piatte favole del passato in modo che rassomigliassero alle complesse e scombussolate vite e scelte di persone qualsiasi. Riflettiamoci: quanti libri e film hanno ritratto il Sultano come un malvagio toccato dalla grazia per l’intercessione di san Francesco? Alcune fonti arrivano addirittura ad immaginare la sua conversione al Cristianesimo, per assicurare che alla fine noi (i cristiani, i buoni) vinciamo e loro (i musulmani, i cattivi) perdono. Questa narrazione monodimensionale è supportata anche dal fatto che fino ad oggi quasi tutti si riferiscono all’evento come all’incontro tra “san Francesco e il Sultano”. Il “cattivo” non ha nemmeno il nome, poiché nominandolo si sarebbe rischiato di ritrarlo come una persona multidimensionale. Nel film The Sultan and the Saint, la parte per me più interessante è stata di poter finalmente conoscere Malik al-Kamil. “Il ritratto occidentale del Sultano era influenzato dalla propaganda crociata e dalla mancanza di una conoscenza pur basica della società e fede islamica da parte degli scrittori cristiani. In Egitto (al-Kamil, ndr) era conosciuto per la sua tolleranza nei confronti della minoranza cristiana. Era un uomo colto, e amava intrattenersi in conversazioni dotte con gli eruditi della sua corte. Preferiva negoziare con i suoi nemici piuttosto che ingaggiare battaglia”. Ci voleva un regista musulmano, con qualche amico francescano, per rischiare l’impresa di raccontare di nuovo la storia dell’incontro, stavolta come narrazione morale, così da ri-presentare al mondo il Sultano di Egitto con il suo nome proprio, Malik al-Kamil (il principe perfetto). Così Alex racconta l’incontro: “Un semplice frate cristiano di nome Francesco e un sovrano musulmano assediato, Malik al-Kamil, nel mezzo delle crociate scelgono di ignorare le storie immorali che ciascuna parte raccontava dell’altra. Si sono incontrati e si sono raccontati le diverse esperienze di multidimensionali persone di fede, le cui storie iniziarono molto prima della guerra e che sarebbero continuate anche dopo la fine della battaglia. Francesco e al-Kamil si sono incontrati secondo la virtù della compassione”. Al cuore della narrazione morale c’è la virtù personale, fondamentale per un’autentica amicizia. Questa virtù non risiede solo nei personaggi della storia, come al-Kamil e Francesco, ma ancor di più nel narratore e negli ascoltatori. Secondo la Dottrina Sociale della Chiesa, infatti, è la virtù personale che fonda le basi per il ministero nel campo della giustizia sociale. La virtù personale è il catalizzatore per l’amicizia in solidarietà, e ci induce a compiere atti di giustizia abbattendo i muri del razzismo e del pregiudizio eretti con parole di storie false, tanto del passato quanto del presente. Nel giorno dell’iftar estivo, alcuni del nostro piccolo gruppo di francescani avevano deciso di digiunare in segno di solidarietà con i fratelli e sorelle musulmani.

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Non era stata una decisione presa alla leggera, al contrario eravamo confermati da fatto che questo tipo di azioni sono “la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune (in questo caso si trattava di dialogo interreligioso e di amicizia, nda)… perché tutti siamo veramente responsabili di tutti”. È stato così un modo per portare in prima linea l’atto del digiuno, presente in entrambe le nostre tradizioni, nel segno di un’amicizia condivisa e attraverso un rispettoso atto di solidarietà. Questo accade quando, come per Francesco e al-Kamil, incontriamo l’altro praticando la virtù della compassione, il desiderio di “patire con l’altro” non soltanto nella fame, ma anche nel dialogo e in atti di fede, giustizia e pace. Dopo l’iniziale momento di “discolpa culinaria” per il dattero al formaggio, ci siamo seduti a tavola per la cena. Una volta sistemati ognuno al suo posto, Alex ci ha invitati a prenderci per mano e chinare la testa. Aspettando la preghiera del pasto dell’iftar, ho udito Alex dire “Frate Mike, potresti pregare?”. Ho alzato lo sguardo e tutte le teste erano chine tranne quella di Alex. Mi sentivo impreparato e guardavo Alex che mi sorrideva e fiducioso chinava la testa. Immagino che al-Kamil abbia fatto la stessa cosa con Francesco quando, 800 anni fa, spezzarono il pane assieme. Mentre guardavo i presenti radunati attorno al tavolo in amicizia, il mio sguardo correva su ciascuno riportando alla mente la virtù che ognuno personifica nella sua vita multidimensionale. Riconoscendo in ogni persona-virtù un riflesso del divino, ho cominciato a pregare ad alta voce lodando Dio: il buono, il saggio, il paziente, il giusto, l’umile, il mite, il fedele, il misericordioso, la nostra speranza.

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CONSIGLI DI LETTURA*

Jean Gwénolé Jeusset, Dio è cortesia. Francesco d’Assisi, il suo Ordine e l’Islam, Edizioni Messaggero, Padova 1988.

Daniel Dwyer, Hugh Hines (a cura), Islam and franciscanism. A dialogue, The Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure (NY) 2000.

Jan Hoeberichts, Francesco e l’Islam, Edizioni Messaggero, Padova 2002.

Pacifico Sella, San Francesco e l’incontro con il sultano d’Egitto. Rivisitazione storica per una rilettura dei rapporti con l’Islam, Antonianum 080 (2005) 485-498.

Luciano Radi, Francesco e il sultano, presentazione di Franco Ferrari, Cittadella Editrice, Assisi 2006.

Gwenolé Jeusset, Francesco e il sultano, prefazione di Pierre Claverie, Jaca Book-Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2008.

John Tolan, Il santo dal sultano. L’incontro di Francesco d’Assisi e l’Islam, Editori Laterza, Roma-Bari 2009.

Franco Cardini, Nella presenza del soldan superba. Saggi francescani, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2009.

Edoardo Scognamiglio, Francesco e il sultano. Lo “Spirito di Assisi” e la profezia della pace, Edizioni Messaggero, Padova 2011.

San Francesco e il sultano: Atti della Giornata di Studio, Firenze, Biblioteca francescana ‘Stanza delle Laudi’, 25 settembre 2010, Studi Francescani 108 (2011) 425-738.

Chiara Frugoni, Francesco e le terre dei non cristiani, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2012.

Leonhard Lehmann, Francesco incontra il sultano: l’inizio di una missione di pace. Studio comparativo delle più antiche fonti, Miscellanea Francescana 112 (2012) 504-556.

Steven J. McMichael, Francis and the encounter with the sultan, in: The Cambridge companion to Francis of Assisi, Cambridge University Press, Cambridge 2012, 127-142.

Cristóbal Solares, El encuentro corre el riesgo de convertirse en un choque: Francisco de Asís y Alik al Kamil, sultán (rey) de Egipto, Antonianum 89 (2014) 713-724.

Alberto Cadili, Francesco e il sultano. Riferimenti minimi su una questione storica aperta, Italia francescana 90 (2015) 249-262.

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* a cura di Emil Kumka, OFMConv

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GLI AUTORI

Felice Autieri, OFMConv - Docente di Storia del francescanesimo

Silvestro Bejan, OFMConv - Direttore del “Centro Francescano Internazionale per il Dialogo”

giulio Cesareo, OFMConv - Responsabile editoriale “Libreria Editrice Vaticana”

Antonio Di marcantonio, OFMConv - Presidente del Centro Studi “Frate Elia da Cortona”

guido Dotti - Monaco di Bose

michael Lasky, OFMConv - Director of the “Justice, Peace, and Integrity of Creation Ministry”, USA

Pietro messa, OFM - Docente di Storia del Francescanesimo

Paola Francesca, Piccola Sorella di Gesù - Missionaria in Siria

Emanuele Rimoli, OFMConv - Docente di Antropologia cristiana

Vincenzo Rosito - Docente di Filosofia teoretica

Domenico Sorrentino - Vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino

guglielmo Spirito, OFMConv - Docente di Spiritualità francescana

Dariusz Wisniewski, OFMConv - Teologo, già missionario in Turchia

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