Sulla comunicazione efficace · 2019. 10. 1. · PRESENTAZIONE I testi qui ... provo a spiegare che...

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equilibra edizioni MASSIMO FRANCESCHETTI SULLA COMUNICAZIONE EFFICACE I discorsi sulla comunicazione efficace sono spesso fraintesi

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equilibra edizioni

MASSIMO FRANCESCHETTI

SULLA COMUNICAZIONE EFFICACE

I discorsi sulla comunicazione efficace sono spesso fraintesi

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PRESENTAZIONE

I testi qui presentati riguardano temi della comunicazione e della collaborazione. Hanno lo scopo di condividere quanto ho appreso attraverso le lezioni tenute in

aziende, istituzioni o scuole. Essi vogliono essere di stimolo alla riflessione e all’azione per coloro che vogliono migliorare il proprio comportamento nelle

relazioni interpersonali. Non vogliono esaurire l’argomento, né sostituire la

lezione. Alla fine viene dato qualche riferimento per orientarsi. Tutto quanto qui scritto è frutto di letture di altri autori rielaborate personalmente. Questi testi non

sono definitivi. Sono uno strumento provvisorio e limitato per aiutare me stesso, innanzitutto, e poi gli altri a riflettere su come migliorare le nostre relazioni.

I testi non hanno subito un lavoro di editing quindi possono presentare errori. Per qualsiasi commento o suggerimento scrivere a:

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I testi sono di proprietà dell’autore, Massimo Franceschetti, che si assume la

responsabilità di quanto scritto. Essi non sono utilizzabili, da terzi, per nessun fine commerciale.

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In copertina, Pietro Longhi, Il rinoceronte, 1751, Ca’ Rezzonico, Venezia.

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INDICE

Comprendere le teorie implicite 5

Una teoria meccanica della comunicazione 6

In sintesi, la teoria meccanica della comunicazione 12

Un'alternativa alla visione meccanica della comunicazione 13

Post Scriptum: “Sì, ma non è facile!” 15

Riferimenti 16

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Non chiederci la parola

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l'uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l'ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925

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Comprendere le teorie implicite

Quando le persone vivono e comunicano tra loro seguono delle teorie implicite e inconsapevoli. Le loro azioni non sono dettate, non sempre almeno, da una valutazione razionale, né tantomeno scientifica, dei fattori in gioco. Spesso non sono pianificate, né agite e poi verificate. I fattori che guidano i comportamenti delle persone sono molti: la loro storia personale, la lingua, il contesto in cui si trovano, le modalità di organizzazione dei loro rapporti, i rapporti di potere presenti, i comportamenti altrui, l’interpretazione del comportamento altrui. Ma forse l’influenza più profonda viene dalle teorie che le persone hanno di come funziona la comunicazione tra le persone.

In questo testo userò la parola “teoria” in senso lato e ampio. Voglio indicare una serie di regole, idee, attese, modelli che le persone hanno e che usano per spiegare il senso o i motivi del loro comportamento. Ogni persona, infatti, eredita delle teorie, a volte anche molto articolate, di come dovrebbe funzionare la comunicazione, di ciò che è permesso o no, di come, quando, dove e con chi attuare un comportamento. Una volta una signora, invitata a parlare bene di sé, mi rispose che "non si parla bene di se stessi, sono gli altri che devono farlo". Ecco un esempio di teoria, di attesa o regola che le persone hanno. Ognuno di noi, ad esempio, ha una “teoria del saluto”: si saluta tutti quelli che si conosce, ogni volta che si incontrano, c’è un saluto per quando avviene l’incontro (ciao, buongiorno, salve, come sta?) e un saluto diverso per quando ci si lascia (arrivederci, buona serata) e così via. Però ci sono luoghi in cui ci si vede spesso e così alcuni sentono l'esigenza di salutarsi ogni volta, altri no.

Così per molte situazioni abbiamo teorie che guidano i nostri comportamenti: le abbiamo per situazioni semplici come l’incontro, ma le abbiamo anche per situazioni più complesse come conflitti o accordi, relazioni di coppia, relazioni in team eccetera. Carl Rogers, in un libro che esplora il rapporto di coppia arriva 1

alla conclusione che uno dei fattori di crisi delle coppie è rappresentato dalle idee di coppia dei due partner. Sono i modelli di coppia che creano problemi alle persone. E questo mi pare interessante. Le teorie o i modelli che abbiamo condizionano i nostri comportamenti in modo profondo, a volte anche a scapito di noi stessi e delle nostre possibilità.

Quasi ogni comportamento di un essere umano adulto obbedisce, dopo una certa età, ad una visione del mondo, ad un pensiero, ad una attesa, ad una teoria. Siamo guidati da copioni che orientano il nostro comportamento in ogni momento che

Carl Rogers, Partners, Astrolabio, 1974.1

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viviamo. Quando la situazione è nuova, tendiamo a chiedere come dobbiamo 2

comportarci, osserviamo quello che fanno gli altri. I più impavidi continuano a comportarsi seguendo le proprie teorie, finendo a volte per generare buffe incomprensioni.

Le nostre teorie sono un mix di elementi personali sviluppati in modo originale durante la propria vita e le proprie esperienze ed anche elementi appresi dai propri genitori, dal contesto nel quale si è cresciuti, dalla tradizione ecc. Questa parte, in realtà, è abbastanza preponderante. Riporto qui una citazione tratta da un testo di Albert Einstein:

«Gran parte del nostro atteggiamento verso le cose è condizionata da opinioni ed emozioni che abbiamo assorbito inconsapevolmente da bambini dall’ambiente esterno. In altre parole, è la tradizione – oltre ad attitudini e qualità innate – che ci rende quel che siamo. Riflettiamo raramente su quanto l’influenza del pensiero consapevole sul nostro comportamento e sulle nostre convinzioni sia piuttosto debole rispetto al peso potente della tradizione».

In effetti, non consideriamo queste teorie in modo proporzionale al peso che hanno sulle nostre vite. Semplicemente, le dimentichiamo. Più propriamente esse sono state assorbite e sono diventate inconsapevoli. E così non le vediamo più e non vediamo più il ruolo che hanno sui nostri e altrui comportamenti. Se ci domandiamo da dove nascono i problemi di comunicazione, ecco che la risposta potrebbe essere: dalle teorie che le persone hanno di come funziona la comunicazione. Le teorie di comunicazione sono il problema principale, più che le persone in se stesse. Molto spesso le persone stanno seguendo una teoria inappropriata per quello che sta accadendo, per come funziona l’essere umano. Non abbiamo bisogno di persone migliori, ma di teorie migliori. Non sarà un processo semplice, facile, ma credo che sia molto più realistico dirsi che è opportuno aggiornare, modificare, rivedere una teoria, piuttosto che dire di cambiare una persona, anche se le due cose sono collegate.

Una teoria meccanica della comunicazione

La comunicazione è una dimensione che ha molte teorie implicite. Il motivo principale risiede nel fatto che essa è pervasiva e fondante l'essere umano. Inoltre, tende a sparire dalla consapevolezza delle persone. Così le persone hanno un'articolata serie di teorie, regole, attese, modelli sulla comunicazione senza

Si veda su questo tutto il lavoro di Eric Berne. In particolare: A che gioco giochiamo, Bompiani, 1987.2

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rendersene conto. Senza aver mai potuto verificare se queste teorie sono fondate, hanno qualche possibilità di essere attuate, sono, insomma, ancora un valido strumento da poter utilizzare. Questo dubbio mi viene pensando a cosa le persone credono sia la cosiddetta comunicazione efficacia. Ecco, mi pare che attorno al tema della comunicazione efficace ci sia come un fraintendimento, che conduce molte persone a pensare che la comunicazione sia riducibile a delle tecniche, applicando le quali si ottengono automaticamente dei risultati. Schemi molto semplici, rassicuranti, organizzano le forme comunicative e le persone in categorie che danno l’impressione di un processo facilmente gestibile. Se questo modo di portare la questione ha un indubbio valore didattico, è anche vero che può indurre qualche fraintendimento.

Provo a spiegarmi meglio con una situazione che mi viene sottoposta molto spesso nei miei corsi aperti a tutti: una mamma vuole che suo figlio ordini la stanza. Cosa fa la nostra mamma? Dice a suo figlio (per semplicità immaginiamo che sia maschio) di mettere in ordine la stanza. Suo figlio non lo fa. La mamma, allora, viene alla mia lezione e si lamenta della propria comunicazione inefficace. Si è iscritta al mio corso proprio sperando di ottenere le istruzioni per una comunicazione efficace. Ma, va detto, lei ha già un’idea di come dovrebbe essere una comunicazione efficace. E questo è il problema principale.

Cominciamo quindi dall’inizio: alla sua richiesta seguono alcune mie domande. Devo dire che quando ricevo questo tipo di richieste rimango interdetto dalla drastica semplificazione che viene fatta della situazione. Ad esempio, non mi viene quasi mai detto (né considerato dalla persona stessa):

a) quanti anni ha l’interlocutore (le mamme, si sa, fanno fatica a distinguere se il figlio ha 3, 13 o 33 anni. Io lo devo sempre chiedere, perché da come parlano non si capisce e spesso ho delle sorprese!).

b) in che contesto il discorso viene fatto: prendendolo da parte da sola, con l’aiuto del marito/padre oppure senza la presenza del padre; passando come fosse una notazione semplice…

c) che tono è stato usato nel discorso: rimprovero, richiesta, suggerimento, supplica?

d) qual è lo scopo effettivo che la mamma vuole ottenere: avere una stanza ordinata? avere un figlio che ordini una stanza? avere un figlio che obbedisce?

e) perché la mamma tiene tanto all’ordine nella stanza del figlio? In teoria, se al figlio hanno dato una stanza, è perché considerano che dovrebbe avere un territorio suo dove dovrebbe decidere il tipo di ordine da tenere, giusto?

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f) Quale rapporto c’è tra figlio e madre in condizioni normali?

g) Cosa è stato detto o fatto dalla madre nel passato sullo stesso tema?

h) Cosa ha risposto il figlio sia a livello verbale e non verbale?

i) Cosa fa il figlio normalmente?

j) Cosa appassiona il figlio?

k) Qual è lo stato d’animo di entrambi?

l) Cosa il figlio considera “ordine”?

Rispondendo ad uno sguardo interrogativo, per non dire disperato, della signora, provo a spiegare che queste mie domande sono necessarie per capire come costruire l’efficacia di una comunicazione. Ciò nonostante la reazione è: “Ma è troppo complicato, io voglio che mio figlio metta in ordine nella sua stanza e basta!”. Una reazione, che seppur comprensibile, mostra ulteriori (pericolosi) presupposti:

a) che il semplice dire sia sufficiente perché l’altro agisca (questa è un’idea meccanica della comunicazione). Forse questo sembra accadere quando il figlio è molto più piccolo ed è più disponibile a seguire quanto richiesto, ma, mano a mano che cresce sarà sempre più complesso ottenerlo in quel modo.

b) che l’altro capisca immediatamente cosa ci si aspetta da lui. Si presuppone che ci sia un messaggio chiaro in sé e che la decodifica sia pura, senza particolari interpretazioni e che tutto ciò avvenga subito! Nella visione meccanica della comunicazione il tempo non esiste. La comunicazione è un processo che è immediato o non è. Non si può apprendere, provare e riprovare, tentare, fallire, riprendere e precisare. Si deve essere immediatamente capaci di determinare un risultato.

c) il che conduce ad un ulteriore corollario: non devo ripeterlo. La ripetizione viene sentita come inappropriata. Se ripeto c’è qualcosa che non va in me o nell’altro.

Quindi, alla fine, per “comunicazione efficace” s’intende la capacità della comunicazione di far agire qualcuno in modo lineare ed immediato. Dicendo che la

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“comunicazione non funziona” la nostra mamma afferma l’inutilità di una parola che non riesce a cambiare le persone, ad imporsi, come fosse la parola in sé ad avere una sua forza. Come se la comunicazione fosse anche una forma inoculazione del messaggio nella testa della persona . E quindi, la mamma, ignara 3

ovviamente, sta chiedendo una parola che “squadri da ogni lato l’animo nostro informe”, senza quasi che l’interlocutore possa intervenire. Una parola deresponsabilizzata, distaccata dall’esempio, dal lavoro quotidiano di costruzione della relazione; staccata dal non verbale, dal gesto, dal comportamento, infine, dalla persona stessa. La parola, il linguaggio, vengono considerati puro strumento impersonale di trasformazione. La parola è uno strumento staccato da tutto, come un martello, che chiunque lo prenda o lo usi pianta, sempre allo stesso modo, un chiodo. Purtroppo le parole, pur essendo strumenti, sono pur tuttavia strumenti speciali e non funzionano come i martelli.

La visione che la madre ha della comunicazione efficace è così semplificata che non c’è alcuna meraviglia che non funzioni. Quando qualcuno vuole imparare la cosiddetta “comunicazione efficace”, in genere - è una mia impressione - ha una visione meccanica delle relazioni umane ed una visione altrettanto meccanica della funzione linguistica e comunicativa. In un certo senso, non si spiega come sia possibile che le proprie parole non generino gli effetti sperati, come se un povero giocatore di biliardo colpisse le palline e le osservasse seguire percorsi imprevisti.

Inoltre, osservo - ma anche questa è solo una mia impressione - che lo scopo di molte persone è di usare la comunicazione come strumento per ottenere, dagli altri, quello che desiderano. La comunicazione non è un processo volto a costruire relazioni, all’interno delle quali, ci si impegna continuamente in un mutuo scambio e coordinamento per arrivare a soddisfare i bisogni di tutti. No, la comunicazione è un utensile neutro attraverso il quale, se gestito bene, è possibile far fare agli altri quello che vogliamo noi. Per quanto comprensibile, questo scopo non è così semplice da ottenere. Non basta imbastire un bel discorsetto per “manipolare” le persone. E’ possibile, per carità, farlo. Ma non è così scontato che “dicendo bene” si ottenga che le persone lo facciano. Occorrono molte più cose di quanto s’immagina, tra cui la complicità della persona stessa che si vuole manipolare. Occorre una sua più o meno consapevole adesione. L’idea che la comunicazione manipoli facilmente le persone può essere anche vera, ma dipende di cosa si sta parlando, dal contesto, dagli obiettivi ecc.

Effettivamente questa era una teoria in voga negli anni 40’ applicata però ai mass media, in particolare la 3

televisione. La teoria chiamata ipodermica considerava il messaggio della tv capace di inocularsi nella testa delle persone e influenzarle profondamente. La teoria ipodermica è stata poi abbandonata a favore di teorie più complesse che spiegano l’influenza dei media in modo molto più articolato.

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Molte sono, infatti, le variabili che intervengono in una comunicazione o relazione.

Forse un tempo la parola aveva un potere maggiore di determinare il comportamento altrui. Forse c’è stato un tempo in cui la semplice autorità della parola bastava a se stessa ed era capace di far agire i figli, gli operai, gli impiegati, gli alunni, i subordinati in genere, secondo la volontà della parola. La parola era accompagnata anche da qualche pena corporale, la quale aveva un effetto dissuasivo semplice ed efficace, quantomeno nel brevissimo periodo. Oggi, però, questo non è più accettabile. Le condizioni di efficacia di un discorso sono irreversibilmente cambiate. Il discorso efficace dei nostri nonni non lo è più per noi.

Il discorso, ogni discorso, è segnato dal contesto in cui sorge, dalle condizioni culturali, economiche, relazionali in cui si inserisce. Le parole, come le persone, non esistono da sole. Una parola non giace in un ripostiglio pronta per essere usata quando c’è bisogno per poi riporla al suo posto quando ha terminato il suo compito. La parola è legata alla vita stessa. La parola è intrisa di vita e come tale non si può ridurre a oggetto inerte e meccanico. L’efficacia di un discorso non è solo nel discorso, non risiede interamente e solamente nella parola, nella sintassi o struttura interna. Certo, queste sono importanti, ma altrettanto importante è chi dice qualcosa, la sua autorità o autorevolezza presso l’interlocutore, l’esempio che egli ha dato prima, il suo modo di porsi, i suoi atteggiamenti. E’ importante come lo dice, quale tono usa; quando lo dice, in che momento, in quale contesto; cosa è successo prima. Inoltre, è altrettanto decisivo l’ascolto: il modo in cui un discorso viene percepito dalla persona che lo riceve. Le sue attese, le sue conoscenze, la qualità della sua attenzione, il suo momento preciso. Sono tutte queste cose che concorrono alla costruzione di una comunicazione. Non si può essere efficaci, realisticamente, se non se ne tiene conto.

Le ragioni di questo le spiegheremo in dettaglio in altri testi, qui diremo che gli esseri viventi sono organismi interdipendenti e strutturalmente chiusi. Essi sono collegati 4

con gli altri esseri, con l’ambiente, con se stessi (interdipendenza), ma ogni segnale che ricevono viene rielaborato secondo il proprio sistema interno (chiusura). I risultati di uno scambio, di una comunicazione, dipendono dal sistema nervoso, dalla percezione, dall’universo interiore di ciascun essere vivente, non da quello che c’è all’esterno. Lo stesso stimolo esterno può avere una interpretazione diversa e quindi dare adito a reazioni diverse.

La fonte teorica principale da cui traiamo le definizioni di “interdipendente” e “strutturalmente chiuso” è il 4

testo di Humberto Maturana, Francisco Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti, 1995.

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Negli esseri umani l’estrema complessità del sistema nervoso rende altamente complesse le interazioni sociali, poiché aumenta le possibilità di variazione. Le cause dei nostri pensieri non sono esterne a noi. Siamo noi, il nostro vissuto, il nostro sistema interiore, il nostro linguaggio, la nostra storia a determinare i nostri pensieri. Per questo motivo un discorso può indurre, ma non determinare un risultato. A volte l’induzione può essere lineare, compresa ed accettata per com’è e condurre facilmente ad un risultato atteso. Così quando dico ad un bambino di fare una certa cosa e lui la fa, ho l’impressione di aver determinato con il mio discorso l’azione del bambino, ma non è così. E’ il bambino che, per ragioni sue, ha accettato quella induzione senza modificarla. Se dico a quello stesso bambino, di fare qualcos’altro, ad esempio mettere a posto la sua stanza e questi non lo fa, non posso pensare che sia solo il mio discorso ad avere un problema. Il bambino, in questo caso, ha deciso di non seguire in modo lineare l’induzione voluta del mio discorso. Ciò che potrò fare però non è nemmeno tentare di cambiare il ragazzino, minacciarlo o che altro. Poiché gli esseri umani sono strutturalmente chiusi, ma interdipendenti e quindi l’unica chiave veramente di accesso è assumere una responsabilità maggiore e provare a cambiare il proprio sistema di comunicazione. Lavorare su di sé per trasformare la relazione e forse, dico forse, anche il comportamento altrui.

Si dovrà provare e riprovare forme diverse di relazione, sempre più complesse, se necessario, in modo da esplorare quale condizione può permettere di ottenere il risultato sperato dalla persona. Dovrò imparare ad accettare e valorizzare l’altro anche quando non fa esattamente quello che voglio, avere maggiore fiducia dell’altro, ad esempio. Sapendo sempre una cosa semplice e chiara: è possibile che l’altro non faccia mai quello che desidero, poiché alla fine ognuno di noi decide per sé.

Tutto questo dovrebbe dare una idea leggermente più realistica di quanto complessa è la rete di eventi, comportamenti, componenti che sostiene una comunicazione tra le persone. Perché questa comunicazione possa essere efficace debbono accadere molte cose, così tante da far dire che l’efficacia di una comunicazione è collegata a un sistema o processo di comportamenti sviluppati nel tempo, di cui è difficile, se non impossibile, predirne il risultato.

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In sintesi, la teoria meccanica della comunicazione

Tenendo a mente l’esempio della mamma e del figlio (sarò mai perdonato per aver scelto questo esempio?) vorrei provare a sintetizzare i principi maggiori di questa teoria:

1. Il linguaggio è uno strumento che riflette la realtà, la quale esiste al di là del linguaggio che la dice. Le parole riflettono uno stato dell’essere.

2. Il linguaggio è uno strumento di manipolazione delle persone. Attraverso le parole “giuste” posso far fare alle persone ciò che ritengo.

3. Quando si parla s’intende dire ciò che si dice. Il linguaggio è “piatto”.

4. Quando si ascolta si comprende ciò che viene detto. Se questo non accade è perché l’altro ha una qualche volontà di fraintendimento.

5. Il fraintendimento è un accidente raro e spesso voluto.

6. La chiarezza di un messaggio dipende esclusivamente dalla forma del messaggio.

7. La comunicazione non verbale ha un ruolo minimo nella formulazione e nella efficacia del messaggio.

8. E’ possibile prevedere l’efficacia del messaggio.

9. Se le persone non fanno quello che si dice loro è per malafede o qualche particolare avversità.

La semplificazione più pericolosa è che basta “parlare chiaro” per poter ottenere un comportamento coerente. Non è così. La teoria meccanica della comunicazione ha questi presupposti di facilità ed immediatezza, di comprensione totale, di possibile previsione dell’efficacia. Questa visione sembra rassicurante al cospetto di un mondo così complesso e molto più umano, come forse non è mai stato prima.

In realtà, una tale semplificazione rende le cose più complicate: abbiamo bisogno di un’altra teoria, apparentemente più complessa, per comprendere la semplicità dell’essere umano, la sua forza, le sue potenzialità.

La crescita di complessità che stiamo sperimentando nella nostra vita, nelle nostre relazioni, induce le persone a chiedere regole semplici e immediate. La paura della complessità delle nostre relazioni genera una domanda di certezza facile e immediatamente applicabile. Invece, abbiamo bisogno di più complessità, (così

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come abbiamo bisogno di più umanità) non di meno complessità (o meno umanità). Alle difficoltà si dovrebbe rispondere con più comprensione di cosa sia l’essere umano, di cosa siamo e vogliamo. Bisognerebbe scendere ancora più in profondità e non acquattarsi, nascondendosi, sulla superficie delle cose. Abbiamo bisogno, per vivere le nostre relazioni in modo più efficace, di più comunicazione, più conoscenza per renderci maggiormente conto delle nostre possibilità, in quanto persone.

Ma, alla fine, si può ottenere e come l’efficacia della comunicazione?

Sì, si può ottenere una comunicazione più efficace, ma non puoi determinare l’efficacia di un discorso, la sua capacità di ottenere un certo risultato, prima di effettuarlo. L’efficacia di una comunicazione è misurata dal ricevente e sul ricevente e quindi la puoi misurare solo a posteriori, a partire da una sua reazione. Per questo, la comunicazione efficace è un processo che si sviluppa nel tempo, attraverso un processo continuo di approssimazione, scambio e interazione con l’altro. In altre parole, la comunicazione efficace è una possibilità, non una certezza. Si possono seguire alcune regole interne al discorso (come strutturare un discorso, che parole scegliere, come e quando dirle, ad esempio); si possono tenere presenti certe condizioni del contesto, e sicuramente devi considerare i destinatari, i loro sistemi interpretativi, le condizioni in cui sono. Si possono considerare, come facciamo, alcuni principi, alcuni comportamenti. Ma la verità è che la comunicazione è collegata a così tante variabili che non è possibile prevederne perfettamente i risultati e quindi l’efficacia. Dire che esiste un discorso efficace sempre e per tutti è dire una falsità. Uno stesso discorso dimostratosi efficace in un contesto e con certi destinatari potrebbe essere pessimo e non ottenere alcun risultato in altri. Del resto, i grandi oratori avevano sì tanti seguaci, ma anche altrettanti nemici. Se il loro discorso fosse stato di per sé efficace avrebbe dovuto esserlo con tutti. Ma sappiamo che non è così.

Un'alternativa alla visione meccanica della comunicazione

Riprendendo la lista dei presupposti soggiacenti ad una visione meccanica della comunicazione, proviamo a contrapporre una visione più olistica, ecologica, organica, della comunicazione, dunque più umana:

1. Il linguaggio non è uno strumento che riflette la realtà, ma la costruisce. Esso contribuisce a dare forma alla realtà. La quale esiste nel linguaggio che la dice.

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Le parole sono uno stato dell’essere. Per riprendere una vecchia formula, si potrebbe dire che la mappa non solo non è il territorio, ma lo genera.

2. Il linguaggio, in quanto parte di un processo di costruzione della realtà, può essere considerato capace di trasformazione delle persone. Attraverso una serie di comportamenti posso indurre le persone a comportarsi in un certo modo, ma le sole parole non bastano, perché le persone sono esseri complessi sottoposti a moltissime variabili ed influenze.

3. Quando si parla, le parole possono assumere numerosi significati indipendenti dalle intenzioni del parlante. Così un discorso può dire anche ciò che non dice espressamente. Il linguaggio è profondo, tridimensionale, articolabile su molti piani.

4. Quando si ascolta si comprende ciò che è possibile comprendere a partire dal sistema interpretativo dell’ascoltatore. Per questo…

5. …il fraintendimento è un accidente normale e sempre possibile.

6. La chiarezza di un messaggio dipende sia dalla forma del messaggio, ma anche dal contesto, dal sistema di interpretazione dell’interlocutore, dal momento e dal modo non verbale di comunicare.

7. La comunicazione non verbale, infatti, ha un ruolo decisivo nella formulazione e nella efficacia del messaggio.

8. Non è possibile prevedere l’efficacia del messaggio. E se le persone non fanno quello che si dice loro è perché avranno dei buoni motivi (uno dei quali potrebbe essere non amare ricevere ordini, più o meno velati o ben intenzionati).

Insomma, le nostre teorie della comunicazione hanno una importanza cruciale nel nostro modo di comportarci. Il modo in cui interpreteremo i comportamenti altrui, le attese che avremo sul potere del linguaggio, gli aspetti che considereremo della comunicazione determineranno, molto più dei messaggi stessi, il nostro modo di agire.

Così è importante imparare a vedere il nostro modo di agire ed interrogarlo. Attraverso i testi qui pubblicati voglio indicare un altro modo di ragionare in comunicazione e fornire, così, una teoria che ritengo più adatta alla complessità dell’essere umano e per questo, probabilmente!, più efficace.

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Post Scriptum: “Sì, ma non è facile!”

A questo punto, qualcuno alza la mano (se alza la mano, altrimenti interviene direttamente) e dice: “Si, ma non è facile!”. L’espressione è tra lo sconsolato e l’irritato, come a dire: “Ma ci stai dicendo che devo fare cose complesse e che occorre lavorare, impegnarsi, rischiare. Non va bene, sono deluso e irritato.”

Questa è un’altra teoria implicita! Proviamo ad immaginare uno studente di ingegneria, che va da un professore di algebra, meccanica razionale, analisi o qualsiasi altra materia e dica: “Ma ci sta dicendo che dobbiamo fare cose complesse e che occorre lavorare, impegnarsi, rischiare. Non va bene, sono deluso e irritato.” Secondo voi è mai successo? Perché a nessuno viene in mente di dirlo, mentre a me lo dicono ogni volta? Perché evidentemente ci sono attese diverse. Si presuppone una teoria diversa.

Se dobbiamo ottenere certi risultati affrontiamo fatiche, allenamento, rischi prove ed errori, senza fiatare, mentre invece per altri risultati la fatica, il tempo, l’allenamento, lo studio, non sono considerati. Perché? Perché nessuno si sogna di andare da quel professore e protestare per le difficoltà proposte?

Per lo studio dell’algebra e dell’ingegneria esiste una teoria che legittima la fatica e l’impegno, il tempo necessario e rende tutto accettabile, mentre per la comunicazione questa teoria dice qualcosa di diverso. La comunicazione viene considerata un’attività per la quale non è necessario né auspicabile applicarsi, allenarsi, acquisire competenze. Le persone pensano di poter ottenere risultati immediati, senza sforzo. L’idea di sforzarsi, imparare ad andare d’accordo, provare a comunicare in diversi modi, non appartiene alla prassi della “comunicazione efficace”. Quando si pensa alla comunicazione efficace si pensa a qualcosa che avviene senza sforzo, immediatamente. Vi sembra realistico? Non è evidente che c’è un fraintendimento?

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Riferimenti

Humberto Maturana, Francisco Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano, 1995. Un piccolo, denso libro scritto da due biologi specializzati nella fisiologia della percezione, che descrivono l’evoluzione della vita sulla terra per poi concludere con una visione della comunicazione degli esseri umani. Difficile, ma per me fondamentale per le basi di una visione della comunicazione più umana.

Fritjof Capra, La rete della vita, Rizzoli, Milano, 1997. Il prof. Capra riprende e colloca il lavoro di Maturana e Varela nel contesto più ampio di un cambio di paradigma: il passaggio da una visione meccanica e riduzionista del mondo, ad una visione organica ed ecologica. Precedentemente aveva scritto Il punto di svolta, Feltrinelli, 1984. Per una visione aggiornata si veda il suo The System View of Life. A Unfying Vision, Cambridge University Press, 2015.

Un film che collego a queste tematiche è quello di Hal Ashby, Oltre il giardino, 1979.