Studi, ricerche e documenti - Milano, 1796

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161 CONFRONTI 2/2012 Elena Riva Professore associato di Storia moderna e contemporanea, Università Cattolica di Milano Durante il Triennio rivoluzionario per la prima volta la prospettiva dell’indipendenza e dell’unità della Penisola fu al centro del dibattito delle élite politiche italiane Milano, 1796: federalisti e unitari a confronto nel concorso di idee promosso dall’amministrazione napoleonica sul tema Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia?Quella che si aprì in Italia nel 1796 con la discesa delle ar- mate francesi al comando di Napoleone non fu una mera epoca di conquista e di dominazione straniera. L’azione militare fu sempre accompagnata da una straordinaria ed efficace azione politica frutto dello scontro, ma anche dell’incontro tra una nuova esperienza istituzionale co- me quella della Francia rivoluzionaria e la complessa e articolata struttura degli antichi Stati italiani. Da questo incontro/scontro – che poi la storiografia risorgimenta- le italiana spesso vorrà ignorare – si svilupparono inedi- ti laboratori politici, dove gli “italiani” tutti, moderati e rivoluzionari, appresero i primi rudimenti della parteci- pazione politica attiva e di una nuova cittadinanza. Tutto ciò, pur se non condusse nell’immediato all’Unità politica della Nazione, ebbe obiettivamente il merito di portare alla ribalta la questione. Il cosiddetto Triennio rivoluzio- nario fu infatti il momento in cui per la prima volta la prospettiva dell’indipendenza e dell’unità della Peniso- la fu al centro del dibattito delle élite politiche italiane. In questo contesto, va inquadrata una delle più inte- ressanti esperienze che il Triennio rivoluzionario aprì nell’ambito della cultura politica e istituzionale: il celebre concorso di idee sul tema “Quali dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia”, che il 27 settembre 1796 (il 6 vendemmiaio del V anno della Repubblica france- se) l’Amministrazione Generale della Lombardia bandì, Studi, ricerche e documenti

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Elena RivaProfessore associatodi Storia modernae contemporanea,Università Cattolicadi Milano

Durante il Triennio rivoluzionarioper la prima voltala prospettivadell’indipendenzae dell’unità della Penisolafu al centro del dibattito delle élite politiche italiane

Milano, 1796: federalisti e unitari a confronto nel concorso di idee promosso dall’amministrazione napoleonica sul tema “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia?”

Quella che si aprì in Italia nel 1796 con la discesa delle ar-mate francesi al comando di Napoleone non fu una mera epoca di conquista e di dominazione straniera. L’azione militare fu sempre accompagnata da una straordinaria ed efficace azione politica frutto dello scontro, ma anche dell’incontro tra una nuova esperienza istituzionale co-me quella della Francia rivoluzionaria e la complessa e articolata struttura degli antichi Stati italiani. Da questo incontro/scontro – che poi la storiografia risorgimenta-le italiana spesso vorrà ignorare – si svilupparono inedi-ti laboratori politici, dove gli “italiani” tutti, moderati e rivoluzionari, appresero i primi rudimenti della parteci-pazione politica attiva e di una nuova cittadinanza. Tutto ciò, pur se non condusse nell’immediato all’Unità politica della Nazione, ebbe obiettivamente il merito di portare alla ribalta la questione. Il cosiddetto Triennio rivoluzio-nario fu infatti il momento in cui per la prima volta la prospettiva dell’indipendenza e dell’unità della Peniso-la fu al centro del dibattito delle élite politiche italiane.In questo contesto, va inquadrata una delle più inte-ressanti esperienze che il Triennio rivoluzionario aprì nell’ambito della cultura politica e istituzionale: il celebre concorso di idee sul tema “Quali dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia”, che il 27 settembre 1796 (il 6 vendemmiaio del V anno della Repubblica france-se) l’Amministrazione Generale della Lombardia bandì,

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Nei contenutidelle diverse

propostepredominava

la parolademocrazia,

diventata una realtàpolitica vissuta.

Altre parolericorrenti erano

cittadino,repubblica,

federazione,ma soprattutto

costituzione

La pubblicazionedei testi

del concorso giunti fino a noi si deve ad

Armando Saitta

sembra su consiglio di Napoleone Bonaparte stesso, e che rappresentò un banco di prova significativo della causa democratica e un laboratorio della cittadinanza attiva.Lo stato attuale delle fonti e degli studi non consente an-cora oggi di chiarire le motivazioni che spinsero l’Am-ministrazione generale della Lombardia a organizzare un concorso indirizzato a tutta l’Italia e non ai soli lom-bardi: se esso nascesse, quindi, come una sorta di son-daggio di opinione per capire la forma da dare al nuovo Stato, se si rivolgesse a quella parte di territori italiani ancora da liberare o se fosse semplicemente l’espressio-ne di una volontà politica del generale, la quale sarebbe stata tuttavia di lì a breve superata da altre ambizioni da parte francese.In ogni caso, ciò che interessa ai fini del presente discorso riguarda i contenuti delle diverse proposte che giunsero all’Amministrazione Generale e che segnalano l’esisten-za di un vivace dibattito politico in corso sul migliore dei governi possibili per l’Italia, per nulla banale e scontato. Esso conteneva infatti tutte le novità del vocabolario po-litico imposto all’Europa dalla Rivoluzione francese del 1789, in cui predominava la parola democrazia, che fino a quel momento era rimasta inquadrata nell’ambito del-le pertinenze di una categoria teorica e che ora invece si trasformava in una realtà politica vissuta. Accanto a “de-mocrazia”, altre parole, da sempre presenti nel dibattit-to politico a più riprese e secondo accezioni differenti, ora si preparavano a diventare prassi nella politica rea-le, come per esempio cittadino, repubblica, federazione, ma soprattutto costituzione. Quest’ultima parola assunse immediatamente un significato politico forte, in quanto ogni cittadino di un paese diventava tale proprio in virtù della costituzione.Si deve ad Armando Saitta la pubblicazione dei testi del concorso giunti fino a noi e il primo tentativo di sintesi interpretativa che, non a caso, si intitolava Alle origini del Risorgimento. I testi di un “celebre” concorso1. In realtà

1) A. Saitta, Alle origini del risorgimento: i testi di un “celebre” concorso (1796), 3 voll.,

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I partecipantial concorsofurono 57, compresi alcuni francesi. Il vincitore fuil piacentino Melchiorre Gioia

quello del grande studioso napoletano rimane ancora l’u-nico studio analitico dedicato interamente al tema e alla completa analisi dei testi e ciò ha probabilmente a che fare con la difficoltà, già chiarita nelle pagine preceden-ti, della storiografia nostrana a leggere le posizioni poli-tiche dei patrioti, in particolare quelle che proponevano una soluzione federale dell’Italia. Recentemente, altri studi hanno analizzato i testi del Concorso e li hanno inquadrati all’interno di un dibatti-to storiografico più aggiornato, soprattutto nell’ambito del pensiero politico, e mi riferisco a Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia, a cura di Ga-briele Carletti2, nel quale alcuni studiosi analizzano una piccola parte dei testi presentati, ma soprattutto al volu-me di Giovanna Angelini Il Risorgimento democratico. Tra unità e federazione3, che offre un’interessante prospettiva di analisi sul lungo periodo di una parte dei testi.I concorrenti furono 57, compresi alcuni francesi, e il con-corso, come si sa, fu vinto dal piacentino Melchiorre Gio-ia, che produsse sicuramente il progetto più originale e convincente. I partecipanti provenivano da diverse realtà italiane: vi furono 30 lombardi, sette piemontesi, due ve-neti, due bolognesi, due parmensi, un modenese, due to-scani, due romani e tre napoletani; oltre a sei francesi. La Commissione giudicatrice, eletta all’interno della società di Pubblica Istruzione, risultava composta da alcuni degli uomini più in vista del momento, ossia Pietro Verri, che ne era anche presidente, Gaetano Porro Schiaffinati, Alfon-so Longo, Andrea Squadrelli, Cesare Pelegatti, Ambrogio Birago. Melchiorre Gioia si trovava in quel momento in carcere, per cui poté ritirare il premio solo nel gennaio del 1798 e pubblicare la sua dissertazione entro quello stesso anno. Non tutte le disquisizioni giunte alla commissione

Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma, 1964. In realtà il primo studioso ad analizzare in modo articolato il Concorso fu S. Pivano, Albori co-stituzionali d’Italia (1798), Fratelli Bocca Editori, Torino, 1911.2) Si tratta del numero monografico della rivista “Trimestre. Storia, politica e socie-tà”, a. XXXIII (2000), 1-2.3) G. Angelini, il Risorgimento democratico. Tra unità e federazione, presentazione di A. Colombo, Franco Angeli, Milano, 2011.

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Il messaggioveicolato

assecondavale aspettative

patriottiche italiane,

che però, con l’avvento

della Repubblica cisalpina, furono

quasi subito disilluse

Sia le propostedi matrice

ideologica unitariasia quelle di stampo

federalistaprovengono dal portatoconcettuale

della Rivoluzionedel 1789,

e non esprimonoculture politiche

antitetiche

furono poi edite. Alcune rimangono ancora manoscritte e sono conservate presso l’Archivio di Stato di Milano4.Il messaggio che tale concorso veicolava era senza dub-bio “rivoluzionario”, mirato ad assecondare le velleità e le aspettative dei patrioti italiani, lasciando intravedere la possibilità di creare a breve una Repubblica “lombarda” autonoma, la quale sarebbe poi stata il preludio della li-berazione dell’intera penisola. Tali speranze furono qua-si subito disilluse dall’atteggiamento di Bonaparte, che favorì la nascita della Repubblica cisalpina (e delle altre sorelle), ma sotto la totale dipendenza francese.

Federalisti e unitari: diversi ma non antiteticiAl di là di alcune considerazioni che è possibile fare ai margini di ogni singolo lavoro, ciò che mi preme sottoli-neare è che le proposte presentate al Concorso, sia quelle di matrice ideologica unitaria sia quelle di stampo federa-lista, provengono dal medesimo portato concettuale, ov-vero la cultura politica uscita dalla Rivoluzione del 17895, e non esprimono affatto culture politiche antitetiche.Una certa subordinazione della storiografia italiana sui fat-ti del 1789 agli sviluppi di quella d’Oltralpe ha impedito per esempio di leggere l’ipotesi federativa, al pari di quella uni-taria, come figlia del medesimo portato ideologico-politico della Rivoluzione francese, come se la preferenza per quei patrioti che invocavano la soluzione unitaria per l’Italia fos-se una sorta di cartina di tornasole per misurare il tasso di democratismo presente tra i protagonisti del Triennio gia-cobino ed emarginando, quindi, dal pensiero politico rivo-luzionario i sostenitori dell’ipotesi federativa, ritenendoli ancorati su posizioni tradizionaliste e arcaiche6.Non è un caso, quindi, che sulla base di una dicotomia tendenzialmente semplicistica, la storiografia del secon-

4) Tutto l’incartamento del concorso è conservato in Archivio di Stato di Milano, Studi, p.a., cart. 17.5) Lo afferma A. De Francesco, Rivoluzione e costituzione, cit., p. 11.6) In realtà tutte le implicazioni storiografiche legate alle percezione degli eventi di Francia, dal 1789 al 1815, e il tormentato rapporto del mondo intellettuale italiano con l’interpretazione della Rivoluzione francese sono contenute in A. De Francesco, La Rivoluzione francese nella cultura politica italiana del Novecento, Guida, Napoli, 2006.

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Per i patrioti italianile due stradeerano ugualmentepercorribili.È stata la storiografiaa confonderele posizionifederalistecon quelle moderateo conservatrici,senza capirne la matrice rivoluzionaria

do dopoguerra abbia spesso letto la via italiana al fede-ralismo come patrimonio ideologico dei moderati e, in qualche modo, una posizione conservatrice ed emargi-nata dal campo rivoluzionario, mentre quella della uni-tà indivisibile dello Stato sia stata vista come bagaglio dei democratici e quindi maggiormente progressista, con evidenti conseguenze e ricadute sul dibattito pubblico post bellico, oltre che contemporaneo.Nella realtà dei fatti, per i patrioti italiani le due stra-de erano ugualmente percorribili; solo la storiografia ha spesso confuso le posizioni federaliste con le posizioni moderate o conservatrici, senza capirne la matrice rivo-luzionaria. Nessuno tra i concorrenti che parteciparono al Concorso può essere ascritto a posizioni politiche re-azionarie. Le successive contingenze storiche e il radica-lizzarsi della lotta, complici anche gli esiti francesi della Rivoluzione e la lettura in chiave robespierrista di tutto il giacobinismo italiano, hanno fatto sì che queste idee de-mocratico-federaliste finissero appannate e confuse den-tro la lente interpretativa del conservatorismo politico7.Si trattava in realtà, e paradossalmente per certi versi, di posizioni politiche e di lettura di un eventuale futuro “ita-liano” a tratti innovativo, da parte di coloro che cercavano di andare oltre la pura e semplice applicazione del model-lo francese e volevano evitare una sorta di mero “copia e incolla” di tale modello nella penisola, consci che la real-tà italiana richiedeva e poteva proporre soluzioni diverse.

Un dibattito molto complesso e articolatoIl dibattito politico del cosiddetto Triennio rivoluziona-rio fu quindi molto complesso e articolato e la rivaluta-zione delle posizioni federaliste emerse in quel contesto storico consente di chiarirne meglio i contorni, tanto più che la parcellizzazione della realtà italiana e la difficoltà a mettere insieme «tanti popoli» con tante tradizioni e

7) Su questi temi si consideri anche A. De Francesco, Il governo senza testa. Movimen-to democratico e federalismo nella Francia rivoluzionaria, 1789-1795, Morano Edito-re, Napoli, 1992.

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Nelle variedissertazioni

le posizioni talvoltasi sovrappongono.

Un elementoè poi comune a tutte: l’idea

che non si possaprescindere

dall’Unitàdella penisola

Accomunale posizioni

di unitari e federalisti

anche un forteaccento

pedagogico

«caratteristiche distintive»8 – quindi la peculiarità tutta italiana nella realizzazione di un’unità statuale – erano ben presenti anche nei progetti dei cosiddetti unitari. Le soluzioni proposte nel Concorso non possono dunque davvero essere annoverate nel troppo semplicistico sche-ma di unitari e federalisti contrapposti tra loro, cercan-do di riprodurre quello dei decenni della Restaurazione e del dopo Unità tra moderati e progressisti.Tali posizioni talvolta si confondono e si sovrappongo-no, anche se un elemento è comune a tutte le disserta-zioni, ossia l’imprescindibilità dell’Unità della penisola, e non è cosa di poco conto, anche perché il raggiungimen-to dell’Unità nazionale rappresentava il collante di opi-nioni e di esperienze politiche diversificate, le quali, per produrre risultati, avevano bisogno di essere inquadrate all’interno di un medesimo scopo.Infatti, se dall’analisi delle proposte presentate al Concor-so si esclude per un attimo la soluzione relativa all’assetto unitario o federale e si considerano altri aspetti sul versante sociale e politico, appare evidente come la distinzione tra unitari e federalisti si assottigli in modo considerevole. Sul tema della sovranità popolare, per esempio, il napoletano Giuseppe Abamonte9, che può essere annoverato nel grup-po degli unitari, esprimeva forti riserve sulla Costituzione francese dell’anno III e sulle restrizioni del libero esercizio della volontà popolare. Le medesime argomentazioni ven-nero riprese anche dal piemontese Carlo Botta, il quale con Abamonte non condivideva solo tali posizioni, ma anche il destino di esule in Francia all’inizio degli anni Novanta e il ritorno in patria con Bonaparte nel maggio del 1796.Altro elemento che accomuna le posizioni di unitari e fe-deralisti è il forte accento pedagogico delle loro disserta-zioni, nel convincimento che la democrazia non potesse essere costruita dall’oggi al domani, ma avesse bisogno di un lungo processo di “pubblica istruzione” e di educa-

8) Questa è ad esempio la posizione di Matteo Galdi.9) Giuseppe Abamonte era un napoletano fuggito dalla capitale partenopea nel 1794 quando fu scoperto un complotto giacobino contro il re. Esule in Francia, tornò in Italia con le truppe francesi nel 1796.

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Per l’Italia «divisada molti secoliin domini, e costumi, e dialetti,ed interessi diversi»Giovanni Antonio Ranza proponeva«una confederazionedi undiciRepubbliche, ossia Stati liberi federati d’Italia»sul modello degli Stati Uniti e della Svizzera

zione. Popolazioni a lungo divise avevano bisogno di es-sere sensibilizzate e condotte lungo un comune percor-so di condivisione di valori e di convergenze di volontà verso l’obiettivo comune dell’unificazione e della costru-zione della Repubblica. Tale pedagogismo è un’ulteriore dimostrazione del comune background culturale e filoso-fico che univa tutti i partecipanti al concorso, frutto della medesima cultura politica che la scelta tra Unità centrale e federalismo lasciava sostanzialmente immutata.

Il federalismo rivoluzionario di Giovanni Antonio RanzaNon mancarono, dunque, nelle tesi federaliste degli scrit-ti partecipanti al concorso, anche quelle di segno demo-cratico e rivoluzionario. Tra le posizioni più conosciute vi è quella del tipografo vercellese Giovanni Antonio Ranza, amico di Carlo Antonio Pilati, protagonista con Filippo Buonarroti, prima dell’armistizio di Cherasco, del tenta-tivo di instaurare la Repubblica in Piemonte allo scopo di coinvolgere l’intero paese nella Rivoluzione. Qualche me-se prima del concorso egli aveva pubblicato un interes-sante scritto Della vera idea del federalismo, apparso poi a Milano nel 1797, e probabilmente allegato alla Disser-tazione presentata al Concorso10, dove esprimeva la sua personale idea di Italia sostenendo la tesi che «Siccome l’Italia è divisa da molti secoli in domini, e costumi, e dia-letti, ed interessi diversi, non è ora possibile di darle una forma di governo unica per tutti. Adunque adotteremo l’unità del governo federativo degli Stati Uniti d’America o dei Cantoni Svizzeri, ad onta dello spauracchio degl’im-becilli chiamato federalismo; organizzandolo in undici Repubbliche federate, ossia Stati liberi federati d’Italia; ciascuno de’ quali dentro il 1797 adunato in Convenzio-ne nazionale formerà la sua costituzione più o meno de-mocratica, secondo il suo stato fisico, politico, e morale, ad oggetto di cercarvi la possibile felicità»11.

10) Il testo di riferimento è G. A. Ranza, Soluzione del quesito proposto dall’ammini-strazione generale della Lombardia: quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia?, in Alle origini del Risorgimento, cit., vol. II, pp. 189-199.11) Ivi, p. 191.

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Ranza consideravala soluzione

federativauna fase

transitoria,necessaria

per condurre i popoli italiani

a un comune sentire verso

l’Unità

La sua propensione al federalismo come soluzione per il futuro dell’Italia era imputabile alle forti differenze di tradizioni, di costumi, di dialetti e, non ultimo, di interes-si, che avrebbero dovuto imparare a percepire «l’interesse comune della […] Patria» in modo graduale. La rigene-razione politica degli italiani non sarebbe stata possibi-le, a suo avviso, in breve tempo, per cui da un punto di vista pragmatico la soluzione federativa si profilava co-me la più idonea per la penisola, sebbene la consideras-se transitoria, ovvero una fase necessaria per “affratel-lare” i diversi popoli italiani e condurli, in un secondo momento, a un comune sentire verso l’Unità: «federati tra noi, ma indivisibili», questo era un po’ il suo motto. «Non si può distruggere in pochi giorni – scriveva Ran-za –, e modificar subito diversamente l’opera di molti se-coli avvalorata dall’abitudine di tante generazioni; senza guerra tra popoli e popoli, senza spargimento di sangue, senz’anarchia. Andiamo per grado; e noi otterremo il no-stro gran fine con poco disturbo, e col minimo possibile di disordini»12. Ranza opponeva anche un «picciolo fede-ralismo» a un «gran federalismo». Il primo era stato pro-prio dell’Italia nel XII secolo, soprattutto in Lombardia, e a suo avviso era stato fatale per la penisola perché aveva eretto in ogni città «una repubblichetta dominata da ca-porioni aristocratici di diverso partito» che erano serviti solo «di flagello reciproco e […] d’universal distruzione di tutto il corpo»13. Ed è per tale ragione che Ranza cri-ticava aspramente la scelta fatta da Bologna nel 1796 di dotarsi di una «particolare costituzione» per «fare tutto da sé», perché così avrebbero fatto anche Modena, Reg-gio, Ferrara e altre città. Non c’era bisogno in Italia, af-fermava, di «picciolo federalismo», ma di «gran quadri tizianeschi, raffaelleschi e delle grandi opere di Miche-langelo per formare la […] galleria rivoluzionaria»14. E gli undici «Stati liberi d’Italia» rappresentavano quei «gran quadri», su esempio della Svizzera, delle Province Uni-

12) Ivi, p. 196.13) Ibidem.14) Ibidem.

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Il suo progettoprendeva le distanzeda un certogiacobinismoradicale,avvalorandol’incontrotra il cristianesimoe la rivoluzione

te e degli Stati Uniti d’America. Egli desiderava ardente-mente «un tutt’insieme repubblicano democratico», ma solo le generazioni successive, i «figli e i nipoti», avreb-bero visto la sua realizzazione; in quel momento occor-reva solo «prepararne la strada, spianarne il cammino, agevolarne la marcia»15.Tuttavia il suo progetto di unità federale prendeva le di-stanze da un certo giacobinismo radicale, avvalorando l’incontro tra il cristianesimo e la rivoluzione, nel segno di quell’egualitarismo evangelico che più di ogni altra co-sa avrebbe potuto condurre a un rinnovamento non solo politico, ma anche sociale. Tale rinnovamento, però, non passava attraverso la chiesa cattolica e in questo assunto si avvertiva la lezione di Machiavelli, che nel Triennio ri-voluzionario diventò l’autore di riferimento per i patrioti e il campione del repubblicanesimo. Sulla scia del pen-siero del fiorentino, anche per Ranza «la religione [era] al tutto necessaria a voler mantenere una civiltà»16 ed era in virtù di ciò che egli riteneva indispensabile l’incontro tra politica rivoluzionaria e tradizione religiosa, da cui sarebbe derivato un «culto patrio» per nulla in contrasto con la libertà religiosa17.

La “necessaria confederazione” di Gianmaria BosisioSul tema della necessaria «confederazione di tutti […] stati d’Italia» insisteva anche il comasco Gianmaria Bo-sisio18, la cui dissertazione è purtroppo rimasta ai mar-gini del dibattito storiografico, nonostante la perspicacia di alcune osservazioni che rivelano una persona prepara-ta e in possesso di una cultura politica di un certo spes-sore. Consapevole dell’estrema articolazione della peni-sola, per giustificare il proprio progetto federale, egli si richiamava espressamente a Montesquieu e allo Spirito

15) Ivi, p. 197.16) G. A. Ranza, Aforismo politici, in “Amico del popolo”, tomo I, [aprile-maggio 1798], pp. 103-104, dove si fa esplicito riferimento a Machiavelli.17) Su questo tema cfr. L. Russi, Giovanni Antonio Ranza. Un patriota rivoluzionario tra Machiavelli e Robespierre, in “Trimestre, cit., pp. 125-137.18) Le uniche annotazioni biografiche di Gianmaria Bosisio sono ricavabili dalla dis-sertazione presentata al concorso, in cui si dice comasco abitante in Milano.

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Per GianmariaBosisio ai «diversi

climi» dell’Italiaerano necessarie

«diverse formedi regime»

L’obiettivo era realizzare

la «Repubblicaitaliana», ma

attraverso l’unionefederale dei diversi

Stati d’Italia,liberi di scegliere

una propria costituzione,subordinata

a «una Costituzione fondamentale»

delle Leggi, che aveva considerato il clima tra i fattori ca-paci di influenzare la legislazione e la forma di governo di un popolo, insieme con l’assetto geografico e l’esten-sione del territorio, le forme economiche dominanti, i costumi e la religione. Scriveva Bosisio che «la naturale posizione dell’Italia, che è simile ad una spina di pesce fatta dalla continuazione dell’Appennino spalleggiato da basse colline e da vaste pianure che terminano al mare dall’una e dall’altra parte […] tagliata in ogni verso dal-le valli e da un gran numero di fiumi [possiede] una tale varietà di climi quanti ve n’ha forse in tutta l’Europa», per questo «diverse forme di regime» erano necessarie «a diversi climi»19.L’obiettivo di Bosisio rimaneva quello di realizzare la «Repubblica italiana», ma attraverso l’unione federale dei diversi Stati d’Italia, liberi di scegliere la propria co-stituzione, la quale avrebbe però dovuto essere subordi-nata a «una Costituzione fondamentale», risultato del lavoro di un Senato permanente, composto «da mem-bri scelti da ciascuno Stato», afferente alla federazione, il quale si sarebbe riunito con un certa periodicità e, di volta in volta, in una capitale differente, all’interno di un «Consiglio nazionale». Questi due Magistrati (Senato e Consiglio nazionale) – annotava Bosisio – avrebbero avuto «tutta l’autorità so-vrana nella Repubblica italiana cioè il primo la legisla-zione, il secondo l’esecuzione e ambedue la giudiziaria nei soli affari che riguardano tutta la Nazione o uno stato relativamente all’altro, senza potersi mai ingerire nell’in-terno regime di ciascuno stato, che si reggerà da sé me-desimo colla forma di governo e colle leggi che più gli saranno benevise sotto la garanzia e protezione della in-tiera Nazione che ne sarà richiesta dalla pluralità del Ma-gistrato dello Stato, che ne avrà bisogno»20

Il progetto di Bosisio si rivela interessante sotto due punti di vista. Da un lato perché egli lo metteva a confronto con

19) G. Bosisio, Quesito: Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia? Risposta, in Alle origini del Risorgimento, cit., pp. 357-366, in particolare pp. 361-362.20) Ivi, p. 357.

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Bosisio metteva il suo progetto a confrontocon le altre soluzionidi tipo federaleallora esistentiin Europa – in Germania, Olanda, Svizzera – e ne ricavava interessantirilievi critici

le altre soluzioni di tipo federale allora esistenti in Euro-pa (lasciando inspiegabilmente fuori dal suo discorso gli Stati Uniti), come l’Olanda, la Germania e soprattutto la Svizzera, che egli evidentemente ben conosceva, data la vicinanza geografica. Dall’altro per i rilievi critici che egli ricavava da tale confronto. La sua obiezione principale andava infatti al modello svizzero, nel quale gli Stati da-vano vita a una «semplice confederazione e non una Re-pubblica», dal momento che essi erano «tredici sovrani» tenuti insieme «con un nodo di convenienza e interesse e non di costituzione»21. Ogni cantone faceva le proprie alleanze anche con i nemici di altri cantoni, senza con-dividere in sostanza con gli altri una coscienza unitaria, indispensabile per la realizzazione di una Repubblica. Anche le Province Unite olandesi apparivano al comasco poco collegate tra loro, con una «sovranità troppo spar-sa» in cui nessun vincolo autentico poteva fungere da collante e da elemento aggregante l’intera unione. Oltre alla parcellizzazione della sovranità, le Province Unite presentavano altri «vizi», tra cui «l’uniformità di suffra-gi richiesta alle risoluzioni degli interessi generali che le rende troppo lente e difficili […] l’Eguaglianza di voti sen-za riguardo alla maggiore o minore popolazione e contri-buenza che rende[va] le assemblee tumultuose […]. Lo Statouder che era giudice inappellabile delle differenze religiose e politiche fra gli Stati e che perciò aveva troppa influenza e interesse nel fomentarle per acquistare mag-giore ascendente»22.Lo stesso discorso valeva a suo avviso per la Germania, ancora inserita nel sistema del Sacro Romano Impero, dove i rapporti tra gli Stati risultavano piuttosto precari e asimmetrici soprattutto dal punto di vista militare, un aspetto che li divideva e metteva in contrasto tra loro in-vece di unirli. «La società germanica – scriveva – compo-sta da un popolo di sovrani, ha dei membri troppo potenti per essere contenuti nel dovere o puniti per le violazioni

21) Ivi, p. 363.22) Ibidem.

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Evidenziavacon lungimiranza

la differenza tra confederazione

e federazione,che sarebbe emersa

nel dibattito politico solo in anni

successivi, e sosteneva che

proprio in virtù della loro

specificitàgli italiani

avrebbero dovuto operare scelte

diverse dai francesi e dagli altri

europei

del patto sociale. Il suo capo se è debole non basta a di-fenderla e far rispettare la costituzione, se è troppo forte la mette in pericolo o diffidenza di esserne ingoiata. Il suo Senato non ha il potere di far eseguire le sue decisioni e queste sono osservate solo quando la parte favorita ha la forza in mano per farle rispettare»23.Nella “Costituzione fondamentale” sarebbe stata proi-bita «come atto di lesa Nazione» ogni guerra «offensi-va fra uno stato e l’altro e contro qualunque stato estero […]; ogni conquista sul territorio altrui […]; ogni allean-za con gli esteri che non sia prima approvata dalla Na-zione o suo Consiglio […] l’allargamento o diminuzione della rispettiva forza armata […] la renitenza o ritardo di uno o più stati a concorrere col proprio contingente di forza, derrate o denari al pubblico bisogno della Na-zione […] la violazione della legge fondamentale fatta da uno o più stati»24.Eleggibili nelle assemblee primarie, a suo avviso, avreb-bero dovuto essere le «persone più abili» che fossero «sta-te in carica» e avessero «meritata la stima pubblica», in un numero fissato al momento dell’atto di nascita della Confederazione e sempre proporzionale «alla sua popo-lazione ed alla sua contribuenza nelle spese nazionali»25.Il penetrante giudizio del comasco non solo metteva in evidenza con una certa lungimiranza la differenza tra confederazione e federazione (sebbene vi fosse nel suo scritto ancora qualche confusione a livello lessicale), la quale sarebbe emersa nel dibattito politico solo in an-ni successivi, e individuando quindi due modelli di fe-deralismo, ma esprimeva anche la convinzione che per raggiungere la meta prestabilita, ovvero la Repubblica, gli italiani avrebbero dovuto operare scelte diverse dai francesi e dagli altri europei proprio in virtù della loro specificità. Per gli italiani occorreva creare un “vincolo”, mediante la gradualità e l’istruzione pubblica prima di giungere a trasformarsi nella Repubblica italiana.

23) Ivi, pp. 363-364.24) Ivi, p. 358.25) Ivi, pp. 358-359.

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Giuseppe Fantuzzi auspicavauna sintesi tra democrazia e aristocrazia.L’Italia avrebbeformato «unaRepubblica unica,sola e indivisibile»,distinta in dieci parziali repubbliche

Voleva garantirela realizzazionedell’unitàdi una nazioneparcellizzata e frantumatada secoli, rispettandone la pluralità culturale

La “demostocrazia” di Giuseppe FantuzziAl Concorso parteciparono altri progetti federalisti, tra cui quello del bellunese Giuseppe Fantuzzi, il quale ela-borò un originale modello di governo basato sull’idea della «demostocrazia»26, una sintesi tra democrazia e aristocrazia, che avrebbe vivificato «le parti costituen-ti la grande famiglia» italiana senza creare oppressio-ni e usurpazioni. Tale modello stabiliva la divisione dei tre poteri: il legislativo e sovrano prerogativa dell’interno popolo, l’esecutivo interno e l’esecutivo esterno. Con tale sistema l’Italia avrebbe formato «una Repubblica unica, sola e indivisibile», distinta però, dal punto di vista del governo interno, in dieci parziali repubbliche «costitui- te sopra la base degl’immutabili principi della libertà ed eguaglianza»: Alpina, Liguriana, Etrusca, Lombarda, Adriatica, Bellica, Ausonica, Vesuviana, Sillacarida e Iso-rica, aventi ognuna per capitale rispettivamente Torino, Genova, Firenze, Milano, Venezia, Bologna, Roma, Na-poli, Palermo e Cagliari. Ogni repubblica avrebbe avuto il proprio senato, ma il coordinamento generale sareb-be spettato a un «alto Consiglio nazionale, detto Consi-glio dei Saggi», titolare del «potere esecutivo esterno» e presieduto da un «saggissimo», da cui andava distin-to il «potere esecutivo interno» spettante a ogni singo-la repubblica. Nella dissertazione, Fantuzzi rimarcava la differenza tra «federazione» e «demostocrazia»: nel primo caso «cadaun stato essendo indipendente non vi [era] che la sua volontà particolare che lo tene[va] unito al corpo federativo», nel secondo «cadaun governo [era] parte indivisibile del tutto, né po[teva] agire che a senso della costituzione». Nella sostanza egli voleva garantire la realizzazione dell’unità di una nazione parcellizzata e frantumata da secoli, rispettandone la pluralità culturale, allo scopo di evitare scontri. Continuo è il richiamo alla diversità tipica dei popoli italiani che egli definiva «così antipatici fra loro», i quali al grido di «figli siete tutti fra-

26) G. Fantuzzi, Discorso filosofico politico sopra il quesito proposto dall’Amministra-zione Generale della Lombardia “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia”, in Alle origini del Risorgimento, cit. vol. I, pp. 210-262.

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Come altri,il progetto

di Fantuzzisottolineava

l’impossibilitàdi estendere

il modellofrancese in Italia

Sul temadella necessaria

gradualitàverso l’unità

nazionale insistetteanche il progetto

del francese Pierre Rouher

telli, tutti italiani» avrebbero risposto «che m’importa»27. Non a caso, egli identificava le popolazioni italiane con le città-capitali, tante quante erano i popoli che, a suo avvi-so, componevano la penisola.Al pari degli altri progetti federalisti, anche quello di Fan-tuzzi sottolineava l’impossibilità di estendere il modello politico istituzionale francese in Italia, la quale non era la Francia, e la «rivoluzione italiana non [era] del carat-tere di quella francese»; inoltre la Francia, «accostumata a vedere in Parigi la capitale» e a seguirne «quasi mecca-nicamente» le «impulsioni», l’aveva seguita anche nella rivoluzione; in Italia, al contrario, le diverse città divise da «odio» e «disprezzo», non avrebbero mai ceduto di fronte alla «pretesa capitale Roma»28. Nel finale, Fantuz-zi dichiarava che se avesse vinto il premio del concorso, vi avrebbe rinunciato «a pro della patria», purché fosse convertito «in ben puntate baionette», consapevole che «le rivoluzioni vengono preparate dai filosofi, le baionet-te le decidono»29.Sul tema della necessaria gradualità italiana verso l’unità nazionale insistette anche il progetto di un francese, Pier-re Rouher, che uno dei giudici membri della commissio-ne, il conte Gaetano Porro, giudicò tra i migliori, ma non premiabile proprio perché avanzava una proposta fede-rale30. Secondo Rouher, l’Armata francese aveva svolto un ruolo provvidenziale nell’innescare il processo rivoluzio-nario anche in Italia; dal canto loro i patrioti avrebbero dovuto attuare un «pacte social» federale dell’intera na-zione che creasse, cominciando dalla Lombardia, da Bo-logna, Ferrara e Mantova, un «faisceau» di repubbliche tra loro federate, tale da costituire una base sulla quale in un futuro prossimo si sarebbe elevato l’edificio della

27) Ivi, p. Su Fantuzzi si consideri M. FeRRARi, Il Discorso filosofico-politico di Giu-seppe Fantuzzi, in “Trimestre”, cit. pp. 139-156.28) Ivi, pp.29) Ivi, pp.30) La lettera di Porro è pubblicata da Armando Saitta in Alle origini del Risorgimen-to, cit., vol. I, Introduzione, p. XXXI, n. 1. Il titolo della dissertazione di Rouher era De tous les gouvernements libres, quel sera celui qui conviendrait le mieux à l’Italia, in Ivi, vol. III, pp. 117-164.

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La discussione,mai sopita,riprese quotadopo la cadutadi Napoleone

Unitari e federalisti torneranno a contrapporsi negli anni dei motirivoluzionari precedentil’Unità nazionale

libertà italiana, ovvero la Repubblica31. La debolezza mi-litare dei singoli Stati italiani era per Rouher il migliore argomento per convincerli a federarsi, in modo da tra-sformare la penisola da terra di conquista militare per gli stranieri, in una potente nazione europea.

Il trattato di Campoformio e la fine delle speranze dei patrioti italianiLo sviluppo degli avvenimenti dopo il Trattato di Cam-poformio del 1797 infranse molte delle speranze dei pa-trioti italiani, anche per l’orientamento reazionario del Direttorio, chiaramente avverso a ogni forma di unifica-zione della penisola. Il breve ritorno degli austro-russi nel 1799, ma soprattutto il colpo di stato di Brumaio con la conseguente creazione della Repubblica italiana e poi del Regno d’Italia posticiparono la realizzazione del progetto di dare all’Italia una nuova configurazione politico-isti-tuzionale in un futuro indeterminato, commisurando in-vece l’azione politica al contingente storico secondo una prassi di governo caratterizzata da prudenza e modera-zione, come dimostrano l’esperienza di Francesco Melzi d’Eril al governo e gli anni del Regno d’Italia.La discussione sul problema nazionale, in realtà, non si assopì mai, anche negli anni del bonapartismo, pur con articolazioni e prospettive differenti, dettate appunto dal divenire storico, e riprese quota dopo la caduta dell’im-peratore.La contrapposizione tra unitari e federalisti tornerà pre-potentemente alla ribalta della disputa politica negli an-ni dei moti rivoluzionari che precedettero l’Unità nazio-nale, anche se la distanza che separerà gli unitari vicini a Mazzini e i federalisti collocati sulle posizioni di Cat-taneo non fu così ampia come ancora oggi si continua a sostenere, anche se il dibattito politico acquisirà accen-ti di forte polemica, soprattutto dopo il fallimentare esi-to dell’esperienza del 184832. L’idea di Nazione diventa-

31) Su tale progetto si consideri A. M. Lazzarino Del Grosso, Rivoluzione e conserva-zione nel modello federale di Pierre Rouher, in “Trimestre”, cit., pp. 25-44.32) Su queste stesse posizioni G. Angelini, Il Risorgimento democratico, cit, pp. 27 ss.

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Tutte le suggestionigià in nuce nei

progetti federalistidel Triennio

rivoluzionarioriemergeranno

in occasione delle Cinque giornate

di Milano

Al pari di ognialtro paese

europeo,la presa di coscienza

della nazioneitaliana è stata

lenta e articolata,spesso

contraddittoriae lacerante nelle scelte

va sia nel pensiero di Cattaneo sia in quello di Mazzini un «criterio di interpretazione» della storia europea del XIX secolo33.Tuttavia, tutte le suggestioni già in nuce nei progetti fede-ralisti del Triennio rivoluzionario torneranno alla ribalta proprio nel 1848, in occasione delle Cinque giornate di Milano. Non è un caso che la sera del 17 marzo, quando Carlo Cattaneo venne esortato a partecipare all’insurre-zione di Milano da Enrico ed Emilio Dandolo e da Lu-ciano Manara, egli progettò poi in un lasso di tempo bre-vissimo il programma politico della rivolta. Esso sarebbe stato repubblicano e federalista e avrebbe dovuto appari-re sul Cisalpino, giornale della nuova Lombardia repub-blicana. Come sappiamo le cose andarono in altro mo-do, ma non c’è dubbio che un certo dibattito politico e culturale sui temi del federalismo politico fosse presente in Lombardia da qualche decennio e che molto doveva alla lezione dei patrioti dell’età napoleonica, rivoluzio-nari anch’essi.

Oltre a una riflessione sulla genesi dell’idea di Nazione italiana, queste brevi pagine vogliono rimarcare anche che la presa di coscienza della nazione italiana è stata lenta e articolata, spesso contraddittoria e lacerante nel-le scelte, con risultati non sempre esaltanti, al pari però di qualsiasi altro paese europeo. Non esiste uno Stato che abbia una storia migliore di quella di un altro, esi-stono solo “storie” diverse. Il cammino della storia non è mai lineare e il compito dello storico dovrebbe essere infatti, a mio parere, quello di dare conto della comples-sità dell’agire umano e dei risvolti che tale agire produce (complici anche le passioni e i rapporti personali tra gli individui che si tende in genere a sottovalutare), pur nel-la pluralità delle opinioni che deve garantire una libertà di espressione. Se il dibattito pubblico nostrano legges-se con maggiore attenzione il lavoro degli storici, spesso

33) F. Della Peruta, Carlo Cattaneo politico, Franco Angeli, Milano, 2001, p. 89, ripre-sa anche da G. Angelini, Il Risorgimento democratico, cit., p. 44.

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Il lavoro degli storici può aiutare la politica a uscireda una logica basata su contrapposizionisemplicistiche

basato su anni di ricerca e di studio, e uscisse dalla logica purtroppo tipica di questo paese basata sulla contrappo-sizione secolare tra “guelfi” e “ghibellini”, tra il “nemico” e l’“amico” ne guadagnerebbero tutti, se non altro in ter-mini di conoscenza e di costruzione di un giudizio sto-rico e quindi politico più equilibrato e meno affrettato e semplicistico, anche perché, come la storia insegna – e non solo la storia – nessuno si salva da solo.

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