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Studi e ricerche Le aristocrazie terriere europee nell’età contemporanea Maria Malatesta Questo saggio intende individuare i caratteri delle élite terriere in Europa in un periodo che va dall’inizio dell’Ottocento alla prima guerra mondiale analizzando le loro risposte alla crisi dell’Ancien régime, all’industrializzazione e alla grande depressione degli anni ottanta. La pro- prietà fondiaria conservò il suo predominio in Europa per tutto il secolo. Le aristocrazie terrie- re dell’area occidentale, formate dalla nobiltà e dalla ricca borghesia urbana e rurale, derivaro- no la loro immutata influenza sociale dal ruolo di mediatrici tra la città e la campagna e dal controllo sulle comunità rurali. La terra conti- nuò ad essere fonte di potere ma anche di inve- stimenti economici. La comunità internazionale dei proprietari terrieri frequentava gli stessi cen- tri economici e sociali, che andavano dalle so- cietà agrarie al Parlamento; essi contrattavano i matrimoni per consolidare il loro patrimonio e continuavano a ricorrere a espedienti testamen- tari per evitare il frazionamento della terra; infi- ne si sentivano accomunati da una solida cultu- ra agronomica. Comunque il concetto di rifeu- dalizzazione, pur spiegando la persistenza del potere agrario, non risulta affatto valido per l’intero secolo. La scomparsa del sistema dei notabili in Francia, la rovina della aristocrazia terriera irlandese per mano di una nuova élite di grandi affittuari e commercianti, la vendita del- le terre della maggior parte dei proprietari ter- rieri inglesi, tutti questi fenomeni contribuirono a modificare la composizione e il ruolo delle éli- te terriere. D’altro canto, le conseguenze econo- miche della crisi agraria, nel contesto del muta- to clima sociale di fine secolo, avrebbero inne- scato una riorganizzazione delle élite terriere, a partire dalla ricerca di una nuova identità basa- ta sul concetto di professionalità agraria. This essay aims to identify the peculiarities o f the landed élites in Europe in a period running from the start of the XIXth century up to the First World War by analysing their attitudes and reactions in the face o f the collapse o f the Old Regime, the industrialization process and the great depression o f the Eighties. Landow- nership retained its dominance in Europe throughout the century. The persistent social influence o f Western landed aristocracies, made up o f nobility and urban and rural rich bour- geoisie, was the result o f their role o f mediators between the town and the country and o f the control they held on rural communities. Land was to remain a source o f power as well as an economic investment. An international commu- nity o f landowners frequented the same social and political centres, ranging from the agrarian societies to Parliament; they contracted marria- ge in order to reinforce their real estate and they continued to be protected by testamentary devices which avoided dividing up the land; fi- nally they felt joined by a strong agronomic culture. However, if the concept o f refeudalisa- tion can state the persistence o f land power in Europe, it is by no means valid fo r the entire century. The disappareance o f the notables sy- stem in France, the violent overthrow o f the Iri- sh landed aristocracies by a new élite o f large farmers and traders, the sale of land by most of the English landowners, all helped modify the composition and role o f the landed élites. Meanwhile, the economic effects o f the agrarian crisis, along with the climate o f social change at the end o f the century, were to bring forth a reorganization o f the landed élites, starting from the search o f a new identity based on the con- cept o f professionalization in agriculture. Italia contemporanea”, marzo 1995, n. 198

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S tu d i e ricerche

Le aristocrazie terriere europee nell’età contemporanea

Maria Malatesta

Questo saggio intende individuare i caratteri delle élite terriere in Europa in un periodo che va dall’inizio dell’Ottocento alla prima guerra mondiale analizzando le loro risposte alla crisi dell’Ancien régime, all’industrializzazione e alla grande depressione degli anni ottanta. La pro­prietà fondiaria conservò il suo predominio in Europa per tutto il secolo. Le aristocrazie terrie­re dell’area occidentale, formate dalla nobiltà e dalla ricca borghesia urbana e rurale, derivaro­no la loro immutata influenza sociale dal ruolo di mediatrici tra la città e la campagna e dal controllo sulle comunità rurali. La terra conti­nuò ad essere fonte di potere ma anche di inve­stimenti economici. La comunità internazionale dei proprietari terrieri frequentava gli stessi cen­tri economici e sociali, che andavano dalle so­cietà agrarie al Parlamento; essi contrattavano i matrimoni per consolidare il loro patrimonio e continuavano a ricorrere a espedienti testamen­tari per evitare il frazionamento della terra; infi­ne si sentivano accomunati da una solida cultu­ra agronomica. Comunque il concetto di rifeu- dalizzazione, pur spiegando la persistenza del potere agrario, non risulta affatto valido per l’intero secolo. La scomparsa del sistema dei notabili in Francia, la rovina della aristocrazia terriera irlandese per mano di una nuova élite di grandi affittuari e commercianti, la vendita del­le terre della maggior parte dei proprietari ter­rieri inglesi, tutti questi fenomeni contribuirono a modificare la composizione e il ruolo delle éli­te terriere. D’altro canto, le conseguenze econo­miche della crisi agraria, nel contesto del muta­to clima sociale di fine secolo, avrebbero inne­scato una riorganizzazione delle élite terriere, a partire dalla ricerca di una nuova identità basa­ta sul concetto di professionalità agraria.

This essay aims to identify the peculiarities o f the landed élites in Europe in a period running from the start o f the XIXth century up to the First World War by analysing their attitudes and reactions in the face o f the collapse o f the Old Regime, the industrialization process and the great depression o f the Eighties. Landow- nership retained its dominance in Europe throughout the century. The persistent social influence o f Western landed aristocracies, made up o f nobility and urban and rural rich bour­geoisie, was the result o f their role o f mediators between the town and the country and o f the control they held on rural communities. Land was to remain a source o f power as well as an economic investment. An international commu­nity o f landowners frequented the same social and political centres, ranging from the agrarian societies to Parliament; they contracted marria­ge in order to reinforce their real estate and they continued to be protected by testamentary devices which avoided dividing up the land; f i ­nally they felt joined by a strong agronomic culture. However, i f the concept o f refeudalisa- tion can state the persistence o f land power in Europe, it is by no means valid for the entire century. The disappareance o f the notables sy­stem in France, the violent overthrow o f the Iri­sh landed aristocracies by a new élite o f large farmers and traders, the sale o f land by most o f the English landowners, all helped modify the composition and role o f the landed élites. Meanwhile, the economic effects o f the agrarian crisis, along with the climate o f social change at the end o f the century, were to bring forth a reorganization o f the landed élites, starting from the search o f a new identity based on the con­cept o f professionalization in agriculture.

Italia contemporanea”, marzo 1995, n. 198

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I processi di formazione delle élite

Gli sguardi incrociati che gli osservatori ot­tocenteschi si scambiarono tra gli Stati Uniti e l’Europa hanno tramandato al Novecento l’immagine della diversità tra vecchio e nuo­vo mondo costruita sulla contrapposizione tra aristocrazia della ricchezza e aristocrazia del sangue, tra modelli plurimi di distinzione sociale e un unico modello di distinzione ri­calcato sulla nobiltà. La recente storiografia europea ha messo in luce la varietà dei pro­cessi di formazione delle élite europee otto­centesche, più complessi e articolati di quan­to non supponga la tesi della rifeudalizzazio- ne dell’Europa ottocentesca elaborata dalla storiografia americana.

Secondo la prospettiva europea, le aristo­crazie terriere furono solo una fra le élite che formarono le società ottocentesche. Pur mantenendo indiscussi privilegi, esse sparti­rono con altri gruppi sociali emergenti spazi e poteri in misura sempre più consistente man mano che i processi di industrializza­zione e di articolazione sociale diventano più diffusi e radicati. Il modello della condivi­sione sociale, piuttosto che quello della do­minazione, contraddistingue l’approccio eu­ropeo allo studio delle élite terriere rispetto a quello statunitense ancora catturato, come lo fu Henry James, daH’immagine di una nobiltà che continua a rappresentare la cifra della civiltà europea otto-novecentesca1. Éli­te tra le élite (e per questo i due termini pos­sono considerarsi per molti aspetti sinoni­mi), l’aristocrazia terriera produsse un capi­tale simbolico al cui interno il concetto di nobiltà si intrecciava a quell’idea di ordine naturale profondamente connesso alla terra e all’agricoltura. Questo capitale simbolico fu il prodotto materiale di un’economia eu­ 1

ropea ancora dipendente dall’agricoltura e di un processo di defeudalizzazione che mantenne una proprietà terriera socialmen­te, anche se non più giuridicamente, vincola­ta. Da queste basi materiali scaturì una co­struzione immateriale che consentì ai ceti vecchi e nuovi di sfruttare l’eredità del pas­sato e creare nel nuovo regime un sistema di distinzione sociale incentrato sul possesso terriero.

Uno studio sui processi materiali di pro­duzione del capitale sociale delle élite terrie­re dell’Europa occidentale in una prospetti­va comparata deve tenere conto di due fat­tori fondamentali. Innanzitutto la ristrettez­za della mobilità sociale verso il possesso terriero europeo, rimasta sostanzialmente li­mitata ai ceti medio-alti. Ai vincoli sociali che ancora pesavano sulla proprietà si ag­giunse il fatto che in Europa la colonizzazio­ne della terra si era conclusa nella prima età moderna. La scarsità di terra disponibile ag­gravò nell’Ottocento la chiusura sociale im­pedendo quella mobilità verso l’alto che contraddistinse buona parte della società ru­rale americana non solo all’Ovest, ma anche nel Sud delle piantagioni. Il passaggio da coltivatore senza terra a proprietario non esaurì certo tutta la storia della colonizza­zione statunitense. Da un lato 1’esistenza di un’emigrazione “proprietaria”, composta soprattutto da inglesi che in alcuni casi for­marono nel Middle-West dei veri latifondi; dall’altro la crescita di una proprietà rurale assenteistica di origine urbana che fece au­mentare nella seconda meta dell’Ottocento il numero degli affittuari; infine la presenza di massicci fenomeni speculativi che interferi­rono nella distribuzione delle terre federali creando situazioni di monopolio: tutti questi fattori hanno indotto da anni a ripensare a

1 Francis Joseph Grund, Aristocracy in America from the sketch-book o f a German nobleman, London (prima ed. 1839), New York, Harper & brothers, 1959. La migliore rappresentazione tracciata da Henry James della nobiltà europea è contenuta nei romanzi L ’americano (1876) e La coppa d ’oro (1904). Cfr. Arno J. Mayer, Il potere del- l ’Ancien régime fino alla prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1982.

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quel modello americano, basato sullo sfrut­tamento di infinite possibilità sociali, tanto elogiato da Turner2. Letti in una prospetti­va comparata questi fenomeni appaiono in ogni caso indotti da logiche di mercato e non, come in Europa, dal retaggio di privi­legi sociali ed economici. L’altro fattore da considerare sono le caratteristiche e le di­mensioni della mobilità europea nel corso dell’Ottocento. Diversamente da quanto ac­cadde nell’Europa dell’Est, all’Ovest essa fu di grande dimensioni e provocò un ingresso massiccio della borghesia urbana e rurale nel novero di proprietari terrieri, comple­tando così quella fusione tra nobiltà e bor­ghesia già iniziata durante l’antico regime. Il concetto di aristocrazia terriera espri­me più esattamente di quanto non lo fac­cia quello di nobiltà questa configurazio­ne sociale caratteristica dell’Europa occi­dentale. Esso comprende infatti sia il con­cetto di mobilità ristretta che quello di com­posizione nobiliare-borghese delle élite ter­riere.

Nella prospettiva di uno studio compara­to dei processi di formazione della società europea contemporanea proponiamo, sulla base delle indicazioni fornite da Michael Confino a proposito delle nobiltà europee3, un modello di analisi delle aristocrazie ter­riere dell’Europa occidentale formato da al­cune variabili: le aristocrazie furono un’élite economica e di potere; furono un gruppo misto, a composizione nobiliare-borghese, con una mobilità limitata agli strati alti che

favorì la fusione tra le due componenti so­ciali; reagirono al mutamento economico e sociale; elaborarono strategie riproduttive (ereditarie, matrimoniali e culturali) e orga­nizzative per difendere la loro identità.

Le aristocrazie come élite economica e so­ciale

La base del potere delle aristocrazie terriere nel XIX secolo fu la persistenza in buona parte dei paesi europei di sistemi agrari do­minati dalla grande proprietà. Il grande pos­sesso fondiario non esauriva il panorama dell’Europa agraria. Esso coesisteva, come in Spagna, in Italia, in Francia, in Germania e in Austria, con la piccola proprietà colti­vatrice, o aveva un ruolo insignificante in paesi come la Svezia o la Danimarca dove la politica anti-nobiliare settecentesca della Corona aveva favorito il consolidamento agli inizi dell’Ottocento di uno strato di con­tadini proprietari che divenne la base dei si­stemi agrari dei paesi nordici. Negli altri paesi europei, al centro e nelle periferie il processo di liberazione delle terre dai vincoli feudali, conclusosi all’Ovest entro la prima metà dell’Ottocento e prolungatosi all’Est fin quasi alla fine del secolo, non smantellò il sistema della grande proprietà. In molti casi esso venne anzi rafforzato, o creato ex novo, dalla formazione di una proprietà ter­riera individuale con libero accesso al mer­cato4. Anche la Francia, nonostante la crea-

2 Shearer D. Bowman, Antebellum Planters and Vormärz Junkers in Comparative Perspective, “The American Historical Review”, 1980, n. 4, pp. 799-808; A.G. Bogue, From prairie to corn belt. Farming on the Illinois and Io­wa prairies in the Nineteenth Century, Chicago and London, 1963.3 Michael Confino, Some Current Problems in Comparative Social History: the Case o f the European Nobility, in Ferenc Glatz (a cura di), Modern Age-Modern Historian. In Memorian György Ränki (1930-1988), Budapest, Insti­tute o f history of the Hungarian accademy of sciences, 1990; Hartmut Kaelble, La storia sociale comparata del­l ’Europa contemporanea, “Italia contemporanea”, 1993, n. 193, pp. 691-7064 Josefina Cruz Villalón, Proprietad y uso de la tierra en la Baja Andalucia: Carmona, sighs XVIII-XX, Madrid, Serie Estudios de Agricoltura, 1980; Werner Conze, The Effects o f Nineteenth-Century Liberal Agrarian Reforms on Social Structure in Central Europe, in F. Crouzet, W.H. Chaloner, W.M. Stern (a cura di), Essays in European Economic History 1789-1914, London, 1969; Marta Petrusewicz, Latifondo. Economia morale e vita materiale in una periferia dell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1989.

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zione di un ampio strato di contadini pro­prietari autosufficienti, non fu esente da questo processo. A fine Ottocento, un quar­to del suolo agricolo francese era dominato dalla grande proprietà. In Inghilterra e in Ir­landa, paesi rimasti estranei ai sommovi­menti del mercato seguiti alla caduta dei vecchi regimi continentali, fino agli anni set­tanta dell’Ottocento rimasero intatte la con­centrazione e l’estensione delle unità agrarie raggiunte nel Settecento5. Grande proprietà non significava ovunque concentrazione del possesso fondiario, né necessariamente grande coltura. Poteva far parte, come nel Sud e nell’Est dell’Europa di un sistema in­tegrato con la piccola proprietà contadina. Aveva dimensioni differenti che andavano dagli enormi possedimenti inglesi e dell’Eu­ropa dell’Est, alle minori dimensioni della grande proprietà francese e italiana. Si pre­sentava nella versione capitalista della gran­de azienda inglese, prussiana, francese o del Nord Italia, o in quella semifeudale del lati­fondo del Sud della Spagna, dell’Italia meri­dionale e dell’Europa orientale. Poteva esse­re una proprietà assenteistica condotta at­traverso il sistema dell’affitto (il che non contrastava con il suo sfruttamento capitali­stico), o una proprietà gestita dal proprieta­rio, o condotta a mezzadria con i contadini. Questi tipi di conduzione coesistevano, co­me accadeva in Francia e in Italia, all’inter­no delle medesime regioni e contribuivano ad arricchire la varietà del panorama agrario europeo.

Diversificata nell’estensione e nelle forme di sfruttamento, la grande proprietà terriera convisse nell’Europa occidentale con il pro­cesso di industrializzazione e da esso trasse indubbi vantaggi economici. Finita la crisi agraria degli anni venti e trenta, l’agricoltu­

ra europea fu caratterizzata da un’ascesa spettacolare dei prezzi agricoli e della rendi­ta, provocati dall’aumento della produttivi­tà della terra e dalla lievitazione della do­manda di generi alimentari indotta dalla cre­scita della popolazione urbana. L’alta pro­duttività dell’agricoltura capitalistica occi­dentale si sviluppò all’interno di sistemi eco­nomici che, pur avendo imboccato la via dell’industrializzazione, rimasero per tutto il secolo legati al settore primario. Nel Nove­cento solo l’Inghilterra e il Belgio, seguite dalla Svizzera e dall’Olanda, si erano total­mente emancipati dall’agricoltura, mentre in Francia e in Germania rispettivamente il 43 e 40 per cento della popolazione dipendeva da questo settore. Ma queste percentuali, che nel Sud dell’Europa arrivavano al 72 e 65 per cento della Spagna e del Portogallo, restavano complessivamente inferiori a quel­le dell’area orientale, dove la forte dipen­denza dal settore agricolo si univa al perma­nere di un sistema fondiario ancora permea­to da tratti di feudalesimo. L’industrializza­zione dell’Europa occidentale accentuò per certi versi la sfasatura tra lo sviluppo econo­mico e quello sociale. Un declino più rapido dell’antico regime e il precoce avvio dell’in­dustrializzazione non furono sufficienti a smantellare il potere socio-economico della grande proprietà terriera, come dimostrano in modo esemplare i casi dell’Inghilterra, del Belgio e della Germania. Le élite terriere dell’Ovest spartirono il loro potere con le nuove élite urbane. Ciò nonostante la loro influenza sociale continuò ad essere garanti­ta nella prima metà dell’Ottocento da siste­mi elettorali censitari che privilegiavano la rappresentanza politica dei proprietari ter­rieri; da sistemi notabiliari che in Francia, Spagna e Italia garantivano il potere locale

5 Pierre Barrai, Aspects régionaux de l ’agrarisme français avant 1930, “Le Mouvement Social”, 1969, n. 67, pp. 3- 16; Michael Thompson, The Social Distribution o f Landed Property in England Since the Sixteenth Century, “The Economic History Review”, 1966.

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alla nobiltà e alla borghesia terriera; dal mantenimento di poteri giurisdizionali e di polizia per le aristocrazie terriere inglesi e prussiane.

Il potere delle aristocrazie terriere occi­dentali si mantenne anche grazie al consen­so accordato loro per essere divenute delle élite nazionali.

L’adesione ai regimi liberali italiani e spa­gnoli è un esempio della capacità di adatta­mento delle aristocrazie terriere alle trasfor­mazioni politiche e della loro abilità di sfruttarle per garantirsi una posizione di po­tere alPinterno della società. La dimostra­zione e contrario è data dalla nobiltà porto­ghese, distrutta economicamente dal rifiuto di appoggiare il regime liberale6. Ma anche in Germania, in Inghilterra, in Belgio l’i­dentificazione tra terra e nazione rimase uno dei capisaldi dei sistemi politici e costi­tuzionali ottocenteschi.

L’ostilità della nobiltà francese alla Terza Repubblica e la competizione apertasi tra aristocrazie terriere e repubblicani per il controllo delle campagne fu il momento conclusivo di un lungo periodo di adesione delle aristocrazie terriere ai precedenti regi­mi monarchici.

L’integrazione delle aristocrazie terriere occidentali nei nuovi regimi venne facilitata anche dall’assenza di quella “diversità etni­ca” tipica dell’Europa orientale7. Sebbene in paesi quali la Polonia e l’Ungheria la no­biltà avesse assunto — come avvenne anche in Italia — la leadership politica del movi­mento di indipendenza nazionale, la diversi­tà etnica fece sì che la lotta dei contadini per la riforma della terra coincidesse con la

lotta per la rivoluzione nazionale, mentre fu la ragione del consolidamento di un si­stema sociale basato sul dualismo delle éli­te. Fino alla seconda guerra mondiale la nobiltà terriera e la gentry dell’Europa orientale restarono portatrici di una cultura totalmente distinta da quella della borghe­sia urbana, composta da ebrei e stranieri; e la separazione tra le due culture non venne mai totalmente colmata nonostante i pro­cessi di complementarità ed inclusione in­tercorsi tra le due élite8. L’assenza di una diversità etnica facilitò nell’Europa occi­dentale la fusione tra i segmenti dell’aristo­crazia terriera, la sua integrazione sociale e il ruolo di mediatore da essa svolto tra città e campagna, due realtà che in questa area erano sempre più correlate grazie alla cre­scita dell’urbanizzazione, all’integrazione dei mercati e allo sviluppo delle comunica­zioni. L’importanza dell’identificazione con la nazione nel processo di riproduzione del­le élite terriere occidentali è dimostrata dal­l’eccezione dell’Irlanda. L’Irlanda fu l’uni­co paese dell’Europa dell’Ovest nel quale si verificò la congiunzione tra la questione della terra e la questione nazionale. La guerra della terra scoppiata negli anni della grande depressione di fine Ottocento si svi­luppò all’insegna di un conflitto socio-poli­tico che ricalcava i modelli dell’Europa del­l’Est. Ma in Irlanda la borghesia urbano- rurale fu in grado di mettersi alla guida del movimento di rivolta agrario e nazionale e di provocare il totale ricambio delle élite spodestando, per la prima volta in Europa, l’aristocrazia terriera e sostituendola con

6 Nuno G. Monteiro, Los ingresos de las casa tituladas portuguesas en la crisis del Antiguo Regimen, in Pegerto Saavedra, Ramón Villares (a cura di), Señores y campesinos en la Península ibérica, siglos XVIII-XX, vol. I, Bar­celona Editorial critica, 1991.7 Derek W. Urwin, From Ploughshare to Ballotbox. The Politics o f Agrarian Defence in Europe, Universitetsfor- laget, Oslo-Bergen-Troms0, 1980, pp. 174 sg.8 Victor Karady, Une élite dominée: la bourgeoisie juive en Hongrie dans l’entre-deux-guerre (Un cas du problème de la dualité des élites dans la modernization en Europe Centrale), paper presentato al Colloque international “An­ciennes et nouvelles aristocraties”, Université Toulouse - Le Mirail, settembre 1994.

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una nuova élite formata da affittuari e commercianti9.

Le aristocrazie come gruppo misto nobiliar- borghese

Lo smantellamento degli antichi regimi non mutò in modo sostanziale la struttura gerar­chica della proprietà terriera europea. Il possesso nobiliare non fu distrutto, mentre si aprì per la borghesia un canale straordi­nario di mobilità sociale. Grazie alla defeu- dalizzazione nell’Europa continentale del­l’Ovest si accelerò il processo di fusione tra nobiltà e borghesia iniziato nel Sei-Settecen­to e già compiutosi in Inghilterra. Nell’Eu­ropa orientale la terra rimase invece appan­naggio della nobiltà e della gentry. L’ingres­so della borghesia rurale nelle campagne russe, iniziato dopo il 1861, non apportò modifiche sostanziali nella struttura agraria e nella mentalità collettiva. Il caso della Bulgaria, dove la riforma agraria degli anni sessanta creò una classe stabile di contadini proprietari indipendenti, può considerarsi l’eccezione che conferma la regola10 11.

La composizione sociale mista delle ari­stocrazie terriere fu il risultato della forte mobilità che interessò la proprietà terriera all’Ovest. Anche la proprietà inglese, sep­pure più stabile di quella continentale per­ché non toccata dalle tempeste della defeu- dalizzazione, fu attraversata da un movi­mento massiccio di trasferimento del pos­sesso fondiario. Nel 1889 più di nove milio­ni di ettari di terra inglese avevano cambia­

to di mano nel corso di una o due genera­zioni. La crisi agraria degli anni venti e tren­ta accentuò la mobilità del possesso fondia­rio continentale a spese dei contadini affran­cati e a vantaggio della borghesia. Anche in Inghilterra fu l’erosione della proprietà degli yeomen, accentuatasi negli anni venti, a of­frire un canale di ascesa sociale ai ceti mer­cantili, che poterono entrare a far parte del­le gentry anche attraverso la piccola proprie­tà terriera11.

L’espulsione dei contadini dalle proprietà acquisite con la defeudalizzazione e l’erosio­ne della proprietà yeomen rafforzarono complessivamente la struttura gerarchica della proprietà terriera dell’Ovest. La sua uscita dall’antico regime non differì molto, nella struttura, dagli andamenti della defeu­dalizzazione giapponese. A partire dalla ri­forma fiscale del 1873 crebbe la percentuale dei contadini che avevano perso la terra, fa­cendo arrivare nel 1930 al 50 per cento la percentuale delle terre date in affitto12. Co­me in Europa, anche in Giappone la perdita della proprietà contadina favorì i vecchi si­gnori feudali o i nuovi proprietari di estra­zione urbana. Nell’Europa occidentale buo­na parte della mobilità interna al mondo ru­rale passò attraverso il ceto medio agricolo dei grandi affittuari. Presenza trascurabile nelle campagne dell’Europa orientale, dove la locazione dei latifondi costituiva una mi­nima percentuale rispetto alla conduzione diretta o dove l’affittuario era, come in Ro­mania, un intermediario simile al gabellotto siciliano, i grandi affittuari diedero invece un contributo fondamentale allo sviluppo

9 James S. Donnelly jr., The Land and the People o f Nineteenth Century Cork, London and New York, Routledge and Kegan Paul, 1975; Michael D. Higgins, John P. Gibbons, Shopkeepers-graziers and land agitation in Ireland 1895-1900, in P.J. Drudy (a cura di), Ireland: Land, Politics and People, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.10 Dominic Lieven, The Aristocracy in Europe, 1815-1914, London, Basingstoke, 1992, p. 91; John D. Bell, Pea­sants in Power. Alexander Stamboliski and the Bulgarian National Union, 1899-1923, Princeton, Princeton Uni­versity Press, 1979.11 M. Thompson, English Landed Society in the Nineteenth Century, London, Routledge & Kegan, 1980, pp. 109 sg.12 Yojiro Hayami et al., A Century o f Agricultural Growth in Japan, Tokyo, 1975, pp. 47 sg.

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dell’agricoltura capitalistica dell’Ovest. De­tentori di capitali, furono i primi esponenti delle comunità rurali a realizzare l’ascesa sociale. In Prussia, Francia, Italia, Spagna e anche in Inghilterra divennero proprietari mantenendo spesso anche il mestiere di af­fittuario. Nei paesi latini divennero caposti- piti di grandi fortune familiari, entrarono a far parte dell’aristocrazia terriera e acquisi­rono in alcuni casi anche la nobilitazione. Quando la crisi agraria di fine secolo indus­se parte delle aristocrazie terriere a disfarsi delle terre, gli affittuari restarono il vettore principale della mobilità sociale nelle cam­pagne. Il fenomeno si presentò in forma spettacolare nell’Inghilterra del primo No­vecento quando essi furono costretti ad ac­quistare le proprietà frazionate dell’aristo­crazia terriera, ma interessò anche la Fran­cia. Dopo la prima guerra mondiale in Ita­lia e in Spagna, entrarono in possesso di larghe porzioni di terra13. Ovunque, essi fu­rono tra gli attori principali della “ruraliz- zazione” delle campagne, ossia di quel pro­cesso che tra la fine dell’Ottocento e la pri­ma guerra mondiale riconsegnò la terra la­sciata dai notabili ai ceti rurali. Ma la mo­bilità del possesso terriero occidentale ri­guardò soprattutto la borghesia che, assie­

me alla terra, acquistò quel potere sociale che scaturiva dal suo ingresso nell’aristo­crazia terriera. Essa si accaparrò le terre re­se disponibili dalla defeudalizzazione e di­ventò in buona parte dell’Europa il mag­gior proprietario terriero. Due modelli pos­sono essere individuati. Il modello dell’in­clusione fu caratteristico dell’Europa cen­trale dove la diffusione della proprietà bor­ghese avvenne all’interno di quella nobiliare mantenendo la struttura di privilegio ad es­sa connessa. La borghesia prussiana entrò in possesso nella prima metà dell’Ottocento del 66 per cento delle terre e divenne pro­prietaria a fine Ottocento della quota mag­giore delle terre superiori ai cento ettari14. Il modello della contiguità caratterizzò in­vece l’aristocrazia terriera dei paesi latini, dove la vendita dei beni nazionali e di quel­li ecclesiastici consentì che si formasse una proprietà borghese a fianco di quella nobi­liare. La contiguità diede origine, in Spagna e in Italia, alla formazione di un blocco so­ciale nobiliare-borghese coeso. In Francia le due componenti, unite nello spazio socio­politico del notabilato, mantennero una maggiore distanza sociale determinata dalla tendenza alla separatezza della nobiltà fran­cese15.

13 Jean-Marc Moriceau, Gilles Postel-Vinay, Ferme, entreprise, famille. Grande exploitation et changements agri­coles: les Chartier XVIIe-XXe siècles, Paris, Ecole des hautes études en sciences sociales, 1992; Jean Pierre Jessen- ne, Le pouvoir des fermiers dans les villages d'Artois (1770-1848), “Annales E .S.C .”, 1983, n. 3, pp. 702-734; Ro­berto Robledo, Los arrendamientos castellanos ante y después de la crisis de fines del siglo XIX, in Ramón Garra- bou et al. (a cura di), Historia agraria de ¡a España contemporánea, vol. II, Barcelona, Editorial Crítica, 1985; Ma­ria Malatesta, Gli affittuari capitalistici inglesi e italiani, in L'agricoltura in Europa e la nascita della questione agraria, Annali 14/15, Istituto Alcide Cervi, Bari, 1994; Hanna Schissler, Preussische Agrargesellschaft im Wan- del, Gòttingen, 1978, p. 87.14 Wilhelm Abel, Congiuntura agraria e crisi agrarie: storia dell’agricoltura e della produzione alimentare nell’Eu­ropa centrale dal XIIIsecolo all'età industriale, Torino, Einaudi, 1976, pp. 339-357; Hans Rosenberg, Die Pseudo- dekratisierung der Rittergutsbesitzerklasse, in Michael Sturmer (a cura di), Moderne deutsche Sozialgeschichte, Diisseldolf, 1981.15 Pedro Ruiz Torres, La aristocracia en el país valenciano: ¡a evolución dispar de un grupo privilegiado en ¡a España del siglo XIX', Adeline Daumard, Noblesse et aristocratie en France au XIXe siècle, in Les noblesses euro­péennes au XIXe siècle: actes du colloque organisé par l ’Ecole française de Rome et le Centro per gli studi di politi­ca estera e sull’opinione pubblica de l ’Université de Milan (Roma 21-23 novembre 1985), Roma, Ecole française de Rome, 1988; Carlo Capra, Nobili, notabili, élites: dal modello francese al caso italiano, “Quaderni storici”, 1978, n. 37, pp. 12-42; Maria Teresa Pérez Picazo, De regidor a cacique: las oligarquías municipales murcianas en el siglo XIX, in P. Saavedra, R. Villares, Señores y campesinos en la península ibérica, cit.

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Gli investimenti terrieri della borghesia, proseguiti nel corso dell’Ottocento, ebbero un evidente significato sociale. L’emulazio­ne dello stile di vita nobiliare fu alla base della diffusione di quel modello aristocrati­co che spinse industriali, finanzieri e profes­sionisti ad acquistare proprietà e dimore ru­rali. Se il valore simbolico di questi com­portamenti è particolarmente alto soprattut­to quando essi vennero messi in atto nei paesi piii industrializzati, non va sottovalu­tato il valore economico rivestito a seconda dei contesti e dei periodi dagli investimenti fondiari.

Il confronto tra l’andamento degli inve­stimenti della borghesia in Francia, Italia e Spagna nella seconda metà dell’Ottocento illustra chiaramente il significato economico connesso alla continua ed anzi accresciuta presenza della borghesia urbana sul mercato immobiliare terriero.

In Francia la tendenza della borghesia a privilegiare gli investimenti immobiliari che aveva dominato durante la Restaurazione subì nel secondo Ottocento una netta inver­sione. Gli investimenti terrieri diminuirono sensibilmente a favore di quelli mobiliari pur senza sparire dal portafoglio delle classi elevate. Andarono invece proporzionalmen­te crescendo in quello delle classi popolari. In Spagna e in Italia al contrario professio­nisti, commercianti, industriali continuaro­no ad acquistare terra fino alla prima guerra mondiale. La ritardata industrializzazione e, perciò, la minore possibilità di investimenti mobiliari alternativi, unita al perdurare di un alto valore della rendita fondiaria, raf­forzarono al Sud dell’Europa la componen­te borghese delle aristocrazie terriere16.

Le risposte al mutamento economico-sociale

La sopravvivenza delle nobiltà alla defeuda- lizzazione e all’industrializzazione è il primo esempio di adattamento delle aristocrazie terriere al mutamento sociale. Sia che fosse tutelata giuridicamente, come la nobiltà te­desca, sia che godesse come negli altri paesi di una situazione di fatto, la possibilità di sopravvivenza della nobiltà continentale nel nuovo regime dipese dalla sua capacità di garantirsi un reddito sicuro. Le strategie economiche della nobiltà che possedeva del­la terra furono così orientate a trasformare i vecchi beni feudali in fonti di reddito al­l’interno dell’economia di mercato. Nella prima metà dell’Ottocento sopravvissero — in alcuni casi si rafforzarono — quei gruppi nobiliari che furono in grado di uscire dalla crisi finanziaria di fine Settecento, fronteg­giare la perdita dei diritti feudali e superare la crisi agraria della prima metà del secolo. Queste tre congiunture agirono da selezione della specie. Più colpita fu la nobiltà terrie­ra che possedeva esclusivamente beni signo­rili, come quella portoghese e valenziana, mentre resistettero quei patrimoni signorili che furono svincolati in un lungo arco di tempo17. La nobiltà veneziana soccombette al passaggio al nuovo regime perdendo il 61 per cento delle terre. Quella prussiana, sot­to gli effetti dell’indebitamento e della crisi agraria, perse nel corso di un secolo un ter­zo delle proprie terre. La nobiltà milanese iniziò il suo declino economico negli anni trenta. Ovunque, la perdita del possesso no­biliare andò ad aumentare la percentuale di terra posseduta dalla borghesia.

16 A. Daumard (a cura di), Les fortunes françaises au dix-neuvienne siècle: enquête sur la répartition et la composi­tion des capiteaux privés a Paris, Lyon, Lille, Bordeaux et Toulouse d ’après l ’enregistrement des declarations de succession, Paris-La Haye, Mouton, 1973; R. Robledo, La renta de la tierra en Castilla ¡a vieja y Leon (1836-1913), Madrid, Banco de España Servicio de Estudios, 1984; Alberto M. Band, Les richesses bourgeoises dans l ’Italie du XIXe siècle: exemples et remarques, in Mélanges de l ’Ecole française de Rome, tomo 97, 1985.17 Maria J . Baz Vicente, El patrimonio de ¡a casa de Alba en Galicia en el siglo XIX, Lugo (Galicia), Servicio de pubblicaciones, 1991.

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Le congiunture della prima metà del seco­lo accentuarono il divario tra nobiltà ricca e povera, come dimostra in modo esemplare il caso della nobiltà francese. Tuttavia questa distinzione patrimoniale non corrispose ne­cessariamente ad una distinzione di status. Se in Prussia fu la nobiltà inferiore a subire le perdite maggiori, a Valencia essa fu la più abile a riconvertire il suo patrimonio signo­rile. In Italia, alcune famiglie della nobiltà recente — come i Torlonia di Roma — co­stituirono tra Sette-Ottocento dei veri imperi fondiari. La maggior parte della nobiltà continentale — a differenza' della stabilità economica mantenuta da quella inglese fino agli anni ottanta — subì delle perdite, ma in linea di massima seppe sfruttare la congiun­tura e risanare i suoi patrimoni. In Belgio, Spagna e Francia, allo stesso modo che in Inghilterra, molti nobili proprietari terrieri continuarono a far parte durante il secolo del gruppo dei magnati dei loro paesi.

Parte della nobiltà francese aveva ricosti­tuito il proprio patrimonio terriero prima ancora della legge sui beni degli emigrati. Nella regione parigina e in quelle limitrofe, nel Nord-ovest, nel Sud-ovest e nella regio­ne alpina i beni fondiari della nobiltà resi­stettero alla congiuntura economica e alle ondate speculative. Altre nobiltà sfruttaro­no le varie modalità ed i tempi della defeu- dalizzazione. Nel Sud e nell’Ovest della Germania, colmarono negli anni trenta l’in­debitamento a spese dei contadini senza di­sfarsi delle proprietà18. In Italia e Spagna impiegarono gli indennizzi loro concessi per

la perdita dei diritti feudali e approfitta­rono della vendita dei beni nazionali per ri­costituire le loro fortune. Grandi casate dell’antica nobiltà spagnola attestano la capacità di adattamento delle élite terrie­re alla nuova congiuntura e l’oculatezza da loro dimostrata nel risanamento dei patri­moni.

La capacità di adeguarsi al nuovo ordine si espresse attraverso l’applicazione di stra­tegie economiche diversificate. Contrappor­re una strategia imprenditoriale ad una strategia rentière — ossia l’adesione al mu­tamento economico introducendo nell’agri­coltura sistemi di sfruttamento capitalisti- co, o la resistenza ad esso perpetuando una logica economica semifeudale corrispon­dente allo sfruttamento estensivo della terra — appare riduttivo, soprattutto se lo si fa coincidere con la divisione tra Nord e Sud. È innegabile che il Nord Europa fu caratte­rizzato da uno sviluppo capitalistico delle campagne legato alla diffusione delì’high- farming. Ma accanto alla precoce scelta im­prenditoriale dell’aristocrazia inglese e quella della nobiltà prussiana affermatasi nel primo Ottocento, anche l’aristocrazia terriera francese, quella del Nord Italia e persino quella spagnola furono complessi­vamente attente a seguire i ritmi dell’econo­mia capitalistica e di mercato19. Presa nel suo complesso l’aristocrazia terriera occi­dentale, nobile e borghese, mostrò un’atti­tudine spiccata verso lo sfruttamento capi­talistico anche in molte aree del Sud Euro­pa. Dall’altro canto, non possiamo dimen-

18 Ronald H. Hubscher, L ’agriculture et la société rurale dans le Pas-de-Calais du milieu du XIXe siècle à 1914, vol. I, II, Arras Mémoires de la Commission Départementale des monuments, 1979; David Higgs, Nobles in Nine­teenth-Century France. The Practice o f inegalitarianism, Baltimore and London, Johns Hopkins University Press, 1987; Gregory W. Pedlow, The Survival o f the Hessian Nobility 1770-1870, Princeton, Princeton University Press, 1988.19 H. Schissler, The Junkers. Notes on the social and historical signifiance o f the agrarian élite in Prussia, in Ro­bert G. Moeller, Peasant and Lords in Modern Germany, Boston, London, 1986; Alain Guillemin, Rente, famille, innovation. Contribution à !a sociologie du grand domaine noble au XIXe siècle, “Annales E .S.C .”, 1985, n. 1, pp. 54-70; R. Garrabou, J. Sanz Fernández, La agricultura española durante et siglo XIX: immobilismo o cambio?, in R. Garrabou et al. (a cura di), Historia agraria de la España contemporánea, cit.; Alberto M. Banti, Terra e dena- ro. Una borghesia padana dell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1989.

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ticare il permanere di logiche latifondisti- che, volte a mantenere come avvenne ad esempio nel Centro-sud dell’Italia, il patri­monio terriero ampliandone l’estensione piuttosto che la redditività e mantenendo il più a lungo possibile la produzione agricola al riparo dalle fluttuazioni del mercato. In questi casi, ma anche in alcune forme di ge­stione nobiliare della Franche-Comptée, prevalse sulla razionalità capitalistica un’e­conomia morale, volta da un lato a preser­vare l’universo comunitario intatto, a per­petuare dall’altro lato uno status e uno stile di vita nobiliare20. L’attitudine imprendito­riale delle aristocrazie terriere occidentali fu il segno del loro adattamento alle trasfor­mazioni capitalistiche dell’agricoltura. No­bili e borghesi furono a fianco nel processo di modernizzazione delle campagne. In Ita­lia e in Francia formarono quel gruppo di capitani deH’industria rurale che introdusse­ro le nuove tecniche agronomiche e la mec­canizzazione nell’agricoltura. Questo mo­dello di comportamento economico diffe­renziò profondamente l’aristocrazia terriera dell’Europa occidentale da altre realtà. In Europa orientale 1’“agronomia” delle élite terriere non si tradusse nella modificazione dei sistemi agrari in senso capitalistico, né — come accadde in Russia prima dell’af­francamento dei servi — fu in grado di so­stituire una nuova razionalità economica al­l’agricoltura consuetudinaria praticata nelle comunità contadine. La modernizzazione dell’agricoltura dell’Europa occidentale si

realizzò prevalentemente grazie all’iniziativa delle élite terriere. Questo modello di inter­vento nell’economia agraria gestito dai pri­vati avvicinò maggiormente l’Europa occi­dentale agli Stati Uniti, mentre la differen­ziò sia dall’Europa dell’Est che dal Giappo­ne di fine Ottocento. In queste due aree, in­fatti, fu l’intervento dello stato a creare, at­traverso riforme dall’alto, le condizioni per lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura e ad organizzare capillarmente — come av­venne in Giappone — la produzione agrico­la aH’interno delle comunità rurali21.

Le aristocrazie terriere rimasero legate al­l’economia agraria. Il loro contributo all’in­dustrializzazione fu prevalentemente, anche se non solo, indiretto, basato cioè sul finan­ziamento attraverso il capitale azionario e sullo sfruttamento delle risorse. In entrambi i casi il loro agire economico, pur model­landosi sugli imperativi dell’economia capi­talistica, mantenne alcuni caratteri tipici della mentalità del proprietario terriero. La partecipazione diretta delle aristocrazie fon­diarie all’industrializzazione seguì in linea di massima la diffusione dello sviluppo in­dustriale. Nel Sud dell’Italia e in Spagna fu inesistente, mentre si ebbero casi di forte partecipazione, attraverso la fornitura di capitali e imprenditoria, della nobiltà terrie­ra in regioni come la Normandia, la Slesia, la Boemia e la Sassonia. Anche in Lombar­dia, la prima regione italiana a industrializ­zarsi, alcune famiglie titolate divennero im­prenditrici. Tuttavia la relazione tra indu-

20 Guido Pescosolido, Terra e nobiltà. 1 Borghese. Secoli XVIII e XIX, Roma, Jouvence, 1979; Eduard E. Malefa- kis, Agrarian Reform and Peasant Revolution in Spain: Origins o f the Civil War, New York, Yale University Press, 1970; Claude I. Brelot, Une politique traditionnelle de gestion du patrimoine foncier en Franche-Compté au X Ie siècle, in Les noblesses européennes, cit.21 M. Confino, Systèmes agraires et progrès agricole: l ’assolement triennal en Russie au XVIIIe-XIXe siècles, Pa­ris, La Haye, Mouton, 1969; Péter Gunst, Agrarian Systems o f Central and Eastern Europe, in Daniel Chirot (a cura di), The Origins o f Backwardness in Eastern Europe: Economics and Politics from the Middle Age until the Early Twentieth Century, Berkley, University of California Press, 1989; M. Petrusewicz, Agromania: innovatori agrari nelle periferie europee dell’Ottocento, in Piero Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. Ili, Venezia, Marsilio, 1991; Thomas R. H. Havens, Farm and Nation in Modem Japan. Agrarian Nationalism 1870-1940, Princeton-N.Y., Princeton University Press, 1974.

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strializzazione precoce e partecipazione eco­nomica diretta delle élite terriere non fu una regola. In Belgio furono pochi i nobili dive­nuti imprenditori. Anche in Inghilterra la partecipazione dei proprietari terrieri all’in­dustria metallurgica, che ebbe un certo peso nella prima metà dell’Ottocento, andò dimi­nuendo nel periodo successivo. Complessi­vamente in Europa, compresa quella dell’E­st, la nobiltà si ritirò dal settore manifattu­riero su cui aveva mantenuto il controllo du­rante l’antico regime, optando per forme di investimento meno rischiose e impegnati­ve22. Non solo l’investimento nei titoli di stato e nelle banche ma anche la partecipa­zione azionaria alle industrie avvennero al­l’insegna della logica economica della sicu­rezza. I finanziamenti industriali delle élite terriere iniziarono a decollo industriale av­venuto e quando i settori industriali si erano affermati, come mostrano gli investimenti fatti nelle ferrovie. L’adattamento al ciclo industriale non modificò in modo radicale la mentalità rentière che caratterizzava al fon­do le aristocrazie terriere. La stessa aristo­crazia inglese, la prima in Europa ad intro­durre nell’agricoltura la logica degli investi­menti di capitale, non sfuggì a questa ten­denza e preferì affittare le miniere di ferro e di carbone piuttosto che sfruttarle diretta- mente. Lo stesso dicasi per i proprietari ter­rieri slesiani che affidarono la gestione delle proprie industrie ai manager, trasferendo anch’essi sul piano industriale quella separa­zione tra proprietà e gestione che è alla base dell’affitto rurale. La partecipazione all’in­dustria agro-alimentare — come quella degli

Junker nelle distillerie o degli agrari emiliani nelle fabbriche di zucchero, formaggio e po­modoro — non contraddice quanto detto prima. L’impegno nel settore agro-alimenta­re era un prolungamento dell’economia agricola, la trasformazione industriale di un’attività che restava sotto il controllo del proprietario.

Un ulteriore esempio della razionalità economica delle aristocrazie terriere otto­centesche, orientate a sfruttare i benefici lo­ro derivati dall’industrializzazione evitando di pagare costi elevati e senza esporsi a ri­schi, è rappresentato dagli investimenti im­mobiliari urbani. Nell’Ottocento la presenza dell’aristocrazia nella città non ebbe più, co­me in passato, lo scopo di modellarla a sua immagine, ma quello di sfruttare dal punto di vista economico i processi di urbanizza­zione. Per le aristocrazie terriere che — co­me quella del Nord e dell’Ovest della Fran­cia o quella prussiana — accentuarono nel corso del secolo la loro fisionomia rurale, le rendite urbane non erano una componente rilevante dei loro patrimoni. Per quelle spa­gnole, italiane e inglesi, che mantennero una fisionomia urbano-rurale o decisamente cit­tadina, le rendite urbane svolsero un ruolo decisivo per la loro sopravvivenza. Per gli esponenti più ricchi dell’aristocrazia inglese, proprietari anche di immobili e suoli urbani, la crescita vertiginosa delle città si tradusse in una fonte di reddito superiore alle entrate agricole e fu la ragione della loro tenuta eco­nomica dopo la crisi agraria di fine secolo, diversamente da quanto accadde a coloro che possedevano solo terreni agricoli. La ri-

22 D. Spring, English Landowners and Nineteenth Century Industrialism, in John Tower Ward, Richard George Wilson (a cura di), Land and Industry: the Landed Estate and the Industrial Revolution, Newton Abbott, David and Charles, 1971; Jürgen Kocka, Enterpreneurs and Managers in German industrialization, in Peter Mathias, Mi­chael M. Postan (a cura di), The Cambridge Economic History, voi. VII, part 1, Cambridge, University Press, 1978; Samuel Clark, Nobility, Bourgeoisie and the Industrial Revolution in Belgium, “Past and Present”, 1984, 105, pp. 140-175; Guy Richard, La noblesse dans l ’industrie textile ex Haute-Normandie dans la premiere moitié du X IX e siècle, “Revue d’Histoire Economique et Sociale”, 1968, 3, pp. 305-338; Costanza Patti, Strutture asso­ciative e formazione professionale, in Giorgio Fiocca (a cura di), Borghesi e imprenditori a Milano dall’Unità alla prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1984.

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conversione della rendita agricola in rendita urbana dopo la crisi agraria fu un fenomeno comune anche a parte dell’aristocrazia ter­riera italiana, settentrionale e meridionale. In Inghilterra, paese in cui nel 1914 era au­mentata la percentuale dei ricchi aristocrati­ci proprietari di immobili urbani, e in Lom­bardia, la regione italiana a maggiore svilup­po industriale, ci troviamo di fronte ancora una volta ad un comportamento economico delle élite terriere caratterizzato da una forte sensibilità nei confronti del trend economico e da un suo intelligente sfruttamento. Gli in­vestimenti immobiliari urbani delle élite ter­riere inglesi e lombarde si accentuarono in­fatti, alla fine della grande depressione, in concomitanza con la ripresa del ciclo delle costruzione23.

Una valutazione del comportamento eco­nomico delle aristocrazie terriere nel periodo dell’industrializzazione deve tenere conto di un’ulteriore variabile, ossia del significato economico assunto — a seconda dei periodi e delle zone — dagli investimenti extraagri­coli. Nella fase del decollo industriale essi furono — come dimostra il caso dell’Inghil­terra, del Belgio, della Germania e, sia pure in misura minore, della Francia e dell’Italia — una dislocazione dei capitali eccedenti in agricoltura nel settore industriale e finanzia­rio. Si trattò di un fenomeno analogo a quanto avvenne all’inizio dell’industrializza­zione giapponese, quando i proprietari ter­rieri investirono tutti i proventi derivanti da­gli indennizzi per la perdita dei diritti feudali nelle banche, trasformandosi in magnati della finanza.

Alla fine della grande depressione, quan­do avvenne il mutamento del ciclo economi­co che condusse alla definitiva affermazione in Europa dell’economia industriale, si veri­ficò il processo inverso. Il calo della rendita fondiaria seguito al crollo ventennale dei prezzi agricoli unito all’esodo della mano­dopera rurale con la conseguente lievitazio­ne dei salari agricoli, produsse soprattutto in Inghilterra, ma anche in Francia, un’on­data massiccia di vendite delle proprietà ter­riere. I patrimoni vennero deruralizzati per necessità economica, per paura del futuro, per la perdita di fiducia nella terra come be­ne rifugio, per la fine dell’“aura” connessa alla proprietà terriera. La deruralizzazione dei patrimoni comportò uno spostamento verso la ricchezza mobiliare o la rendita ur­bana24. Gli investimenti extraagricoli furono in questo caso il segno del ritiro delle élite terriere dalle campagne. Ma la deruralizza­zione dei patrimoni non fu una prerogativa dei paesi più industrializzati. Essa interessò anche l’Italia centro-meridionale non indu­strializzata in cui si assistette a rilevanti spostamenti delle rendite agricole nel settore finanziario e immobiliare urbano. In Spa­gna al contrario il risanamento dei patrimo­ni della nobiltà nel corso dell’Ottocento av­venne — come mostra il caso madrileno — attraverso la loro ruralizzazione. La vendita delle proprietà urbane servì allora per risa­nare il patrimonio rurale. Il ritiro della no­biltà madrilena dalla città lasciò così uno spazio che venne occupato dalla borghesia proprietaria25.

Non dobbiamo sopravvalutare la dipen-

23 M. Thompson, The Land Market in the Nineteenth Century, “Oxford economie Papers”, 1957, n. 3; David Cannadine, Lords and Landlords. The Aristocracy and the Towns 1774-1967, Leicester, Leicester University Press, 1980; M. Malatesta, I signori della terra. L ’organizzazione degli interessi agrari padani (1860-1914), Milano, Angeli 1989, pp. 314-319.24 D. Cannadine, The Decline and Fall o f the British Aristocracy, New Haven and London, Yale University, 1990; Maurice Levy-Leboyer, Le revenue agricole et la rente fondere en Basse Normandie. Etude de croissance regionale, Paris, Editions Kemckseck, 1972."5 Angel Bahamonde Magro, Crisis de la nobleza da cuna y consolidación burguesa (1840-1880), in Madrid en la societad del siglo XIX, Madrid, 1986, voi. I.

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denza delle aristocrazie terriere dal ciclo eco­nomico. Non si può nondimeno trascurare il peso esercitato dal livello di industrializza­zione dei vari paesi europei nella sopravvi­venza delle élite fondiarie. Tra Otto e Nove­cento in Francia e in Inghilterra vi fu un “ri­tiro pacifico” delle élite terriere dalle campa­gne dovuto principalmente al mutamento del ciclo economico. In Italia e in Spagna, paesi ancora dominati a fine Ottocento dal­l’economia agricola, non si verificò invece un ritiro in massa delle élite terriere dalle campagne. La terra continuò ad essere una forma di investimento privilegiato per i ceti urbani, perché il valore della terra restava alto e la rendita fondiaria aveva ripreso a sa­lire, diversamente da quanto avvenne nei paesi più industrializzati. L’intensificazione dello sfruttamento capitalistico delle campa­gne del Nord Italia a fine Ottocento, che si giovò della “nuova colonizzazione” attuata attraverso la bonificazione delle terre della bassa Valle Padana, accentuò la fisionomia imprenditoriale delle élite terriere del Nord Italia che in tal modo concorsero a sostenere l’avvio del processo di industrializzazione.

Strategie a difesa dell’identità aristocratica

Pur adattandosi alle trasformazioni sociali ed economiche, le aristocrazie terriere dife­sero per tutto il secolo la loro identità. At­traverso la famiglia, la cultura e la sociabili­tà esse cercarono di preservare la fisionomia del proprietario terriero di fronte alle minac­ce costituite dalPindustrialismo, dall’urba­nizzazione e dalla società di massa. La con­servazione del possesso fondiario all’interno della famiglia continuò ad essere una delle più importanti forme di riproduzione delle 26

élite terriere. Mantenere all’interno del li­gnaggio le terre che gli appartenevano rive­stiva ancora un alto valore simbolico, oltre che economico e sociale. Favorite furono, da questo punto di vista, le aristocrazie ter­riere del Nord Europa che usufruivano di si­stemi ereditari che consentivano di evitare il frazionamento del possesso terriero. Lo strici settlement fu uno dei fattori di mag­giore rafforzamento dell’aristocrazia ingle­se. Si trattava di un dispositivo ereditario che consentiva di mantenere intatto il patri­monio fondiario grazie a una pianificazione familiare estesa a più generazioni. Esso con­tribuì anche a formare quella mentalità lun­gimirante necessaria alla aristocrazia terriera per realizzare nel Settecento le grandi mi­gliorie fondiarie che comportavano ingenti investimenti di capitali.

L’alta nobiltà tedesca aveva mantenuto il privilegio di una forte autonomia familiare e la prerogativa di trasmettere la proprietà per linea maschile. Nonostante ciò, essa si batté nel corso dell’Ottocento perché venissero reintrodotti i fedecommessi, allo scopo di restituire alle terre una fisionomia nobiliare sottraendole al mercato, ossia alla possibili­tà di un loro acquisto da parte dei borghesi. È significativo che i fedecommessi, reinte­grati in Germania nel 1852, avessero avuto la maggiore diffusione negli anni ottanta quanto più forti furono le perdite economi­che della nobiltà terriera a causa della crisi agraria25. Nello stesso periodo in Inghilter­ra, sotto gli effetti congiunti della crisi agra­ria e dell’opinione pubblica radicale che vo­leva la liberalizzazione del mercato della ter­ra per colpire l’aristocrazia e facilitare la formazione della piccola proprietà coltiva­trice, fu emanato nel 1882 il Settled land act. Frutto del compromesso tra le tendenze

26 Eileen Spring, The Settlement o f Land in Nineteenth Century England, “The American Journal o f Legal Hi­story”, 1964; Christof Dipper, La noblesse allemande à Tepoque de la bourgeoisie. Adaptation et continuité, in Les noblesses européennes au X IXe siècle, cit.

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radicali e quelle conservatrici, il Settled land act non eliminò lo strici settlement ed anzi rafforzò i poteri del tenant for life. Consentì però che le terre vincolate arrivas­sero sul mercato, accelerando in tal modo la deruralizzazione dei patrimoni aristocra­tici.

Nei paesi europei dove la legislazione na­poleonica aveva introdotto il principio della successione egualitaria, i proprietari terrieri ricorsero a strategie familiari per impedire quella frantumazione del possesso fondia­rio che era stata all’origine della rovina di molte famiglie nobili sul continente. La tra­smissione della proprietà indivisa venne ga­rantita attraverso tre strategie. In primo luogo una forte ripresa deH’endogamia fa­miliare caratterizzata — come avvenne nel Sud dell’Italia — dalla violazione del divie­to di consanguineità fino al quarto grado di parentela. La logica del cognome si in­trecciò con le necessità economiche dei pa­trimoni fondiari. Nell’Italia meridionale il fenomeno riguardò sia nobili che borghesi. Ma fu soprattutto la borghesia agraria ad essere interessata alla contrazione della pa­rentela, perché non era disposta a perdere le terre faticosamente conquistate. La se­conda strategia consistette nella formazio­ne, attraverso matrimoni tra gruppi fami­liari, di famiglie allargate — come avvenne nel Sud della Spagna — attraverso le quali garantirsi il controllo di fette imponenti di territorio. Infine, il mantenimento del pos­sesso terriero indiviso poteva essere il frut­to di una strategia economica basata da un lato sull’accumulazione delle terre, dall’al­tro sulla pianificazione dei ruoli degli eredi nella gestione del patrimonio, in modo tale 21

da evitare che la proprietà venisse smem­brata27.

Il ripiegamento sul lignaggio per contra­stare gli effetti dello sviluppo del mercato fondiario ebbe come conseguenza un’accen­tuazione della separatezza delle aristocrazie terriere, confermata dai comportamenti matrimoniali di molte nobiltà europee. Fu soprattutto la vecchia nobiltà ad essere ca­ratterizzata da una stretta correlazione tra lignaggio ed endogamia. La separatezza so­ciale fu però contraddetta in molti casi dal­l’imperativo economico di immettere nella famiglia nuovo capitale. La fusione tra no­biltà e ricca borghesia continuò, anche se spesso fu realizzata attraverso il matrimo­nio degli eredi maschi con donne borghesi, o affidata in altri casi alla funzione di re­lais che la nobiltà minore ebbe tra borghe­sia e alta nobiltà, o infine realizzata attra­verso il matrimonio con famiglie di indu­striali nobilitate di recente28.

La cultura fu l’altro elemento di distin­zione delle aristocrazie terriere. Di fronte alla nuova cultura urbana e industriale le élite terriere riaffermarono la loro identità proseguendo la tradizione agronomica set­tecentesca e rinnovandola con l’apertura ai nuovi risultati della scienza e della tecnica ottocentesche. L’“agronomia” che si diffu­se in tutta l’Europa fu il terreno in cui i segmenti dell’aristocrazia terriera trovarono un’ulteriore e solidissima occasione di uni­ficazione. La passione per la scienza diede origine ad un’Internazionale agraria euro­pea, formata dalla crema delle élite terrie­re, quel gruppo di riformatori agrari fidu­ciosi nel progresso e nella possibilità di mantenere per l’agricoltura una funzione di

21 Gerard Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli, Torino, Einaudi, 1988, pp. 325-338; Paolo Macry, Ot­tocento. Famiglia, élites e patrimoni a Napoli, Torino, Einaudi, 1988, pp. 172-175; François Héran, Les bourgeois de Séville. Terre et parenté en Andalusie, Paris, Puf, 1990.28 Gary W. Me Donogh, Good Families o f Barcelona, Princeton, Princeton University Press, 1986; A.M. Banti, Strategie matrimoniali e stratificazione nobiliare. Il caso di Piacenza, in Les noblesses européennes, cit.; H. Kael- ble, Borghesia francese e borghesia tedesca 1870-1914, in J. Kocka (a cura di), Borghesie europee dell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1989.

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guida anche nelle società industrializzate. L’élite delle aristocrazie terriere era ricca, colta e conosceva le principali lingue euro­pee. Partecipava ai congressi agricoli, visi­tava le esposizioni universali e faceva viaggi di studio. Diffondeva informazioni sulle tecniche agronomiche e sui sistemi agrari dei vari paesi, incrementava la circolazione della letteratura scientifica, contribuendo a mantenere elevato il livello di aggiornamen­to tra le élite terriere. Gli scambi furono in­crementati dalla diffusione in tutta l’Euro­pa delle associazioni agrarie. La sociabilità agraria, eredità dell’Antico regime o frutto dell’età napoleonica, non si limitò a raffor­zare il volto conservatore delle aristocrazie terriere. Essa fornì il modello dal quale, at­traverso un processo di filiazione diretta o di trasformazione e diversificazione, prese avvio l’associazionismo agrario di fine Ot­tocento. Il capitale culturale delle aristocra­zie terriere fu investito nel nuovo terreno dell’organizzazione degli interessi. Le nuo­ve associazioni agrarie furono da un lato il prodotto dell’evoluzione dell’antica sociabi­lità delle accademie, dei club e delle piccole associazioni agrarie locali. Dall’altro lato furono istituzioni completamente nuove do­tate, rispetto al passato, di obiettivi più complessi quali la difesa della produzione agricola dalle fluttuazioni del mercato e il conseguimento di politiche economiche, fi­scali e sociali favorevoli alla proprietà ter­riera. Esse nacquero sotto gli effetti della grande depressione di fine secolo allo scopo di difendere — come in Germania e in Ita­lia — la produzione agricola dalla concor­renza straniera; oppure — come nel 1868 in Francia o nel 1907 in Inghilterra — per fronteggiare la politica liberista o la nuova politica fiscale filo-popolare dei rispettivi governi; infine per contrastare gli scioperi agricoli del primo Novecento, come le asso­ciazioni agrarie del Nord Italia. Attraverso le associazioni, le aristocrazie terriere mise­ro in atto una strategia di riproduzione e di

riconversione che raggiunse un duplice ri­sultato. Creò, attraverso il ricorso all’azio­ne collettiva e alla partecipazione una nuo­va identità del proprietario terriero profes­sionista dell’agricoltura. Ridisegnò i confini sociali delle élite terriere completando l’in­tegrazione dei grandi affittuari e rimarcan­do la differenza nei confronti dei piccoli proprietari e dei lavoratori agricoli.

La professionalizzazione dell’agricoltura e la difesa degli interessi agricoli diede ori­gine ad un’identità collettiva e difensiva. Essa però non fu tanto il frutto dell’opposi­zione dei vecchi notabili e aristocratici al cambiamento sociale ma — ancora una vol­ta — il risultato della loro capacità di adat­tamento. Le aristocrazie terriere, soprattut­to in Francia e in Germania, realizzarono dei progetti di ingegneria sociale sfruttando tecniche vecchie (come il paternalismo e l’alleanza con la chiesa cattolica) e nuove (come il nazionalismo e l’organizzazione del consenso di massa) per non perdere il con­trollo sulle campagne minacciate dall’indu­strializzazione e dal socialismo.

Lo spopolamento delle campagne nei paesi industrializzati non fu solo una mi­naccia economica, costituita dalla crescita dei salari agricoli, ma fu anche una minac­cia sociale in quanto condusse alla dissolu­zione di quella struttura di deferenza che era stata uno dei fattori indispensabili alla conservazione dell’identità delle aristocrazie terriere. Il mutamento del ciclo economico, tra Otto e Novecento, coincise con la perdi­ta del valore sociale della terra. Significati­vamente il possesso di terra cessò di essere — come si evince dal caso del Belgio e del­l’Inghilterra — il requisito indispensabile per la nobilitazione. La nuova nobiltà di stato, dell’industria e delle professioni era ormai emersa ed aveva strappato alla vec­chia aristocrazia il capitale simbolico. In questa svolta epocale, le aristocrazie terrie­re difesero la loro identità attraverso la for­ma collettiva dell’organizzazione e del grup­

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po di pressione. Elaborarono, attraverso le associazioni, strategie di riconquista delle campagne usando, a seconda dei contesti so­ciali, varie tecniche: il paternalismo oppure la violenza; la diffusione dell’istruzione agraria; l’organizzazione della produzione e della distribuzione. L’azione modernizzatri- ce delle organizzazioni agrarie riguardò so­prattutto il campo economico. La diffusione della cooperazione agricola, frutto dell’al­leanza tra le aristocrazie terriere e gli scien­ziati economici e sociali, fu uno dei canali della ripresa dell’agricoltura dopo la crisi agraria e al tempo stesso uno strumento di organizzazione del consenso dei contadini e dei piccoli proprietari. La capacità di inno­vazione delle aristocrazie terriere raggiunse l’apice là dove le organizzazioni agrarie die­dero vita — come avvenne per la Société des agriculteurs de France e per il Bund der Landwirte — a reseaux conglomerés, ossia ad organizzazioni a differente vocazione (as­sociazione politica, sindacato economico, credito agricolo, assicurazioni sociali) coor­dinate o unificate dalla stessa direzione. Al­tre associazioni concentrarono la loro attivi­tà su settori specifici, come la politica fiscale per la Central Land Association, la difesa contro gli scioperi per le associazioni agrarie padane o la cooperazione economica per la Federazione Italiana dei consorzi agrari29.

La rappresentanza politica delle aristocrazie terriere

L’organizzazione agraria fu il risultato della capacità delle élite terriere di adeguarsi

al mutamento formulando le domande so­ciali attraverso il nuovo canale del gruppo di interesse. L’adesione alle nuove identità col­lettive non modificò tuttavia in modo radi­cale la struttura della rappresentanza politi­ca delle aristocrazie terriere. Lo scopo finale delle associazioni agrarie era aumentare la rappresentanza dell’agricoltura nei parla­menti per contrastare le politiche economi­che filo-industrialiste e la pressione fiscale sulla proprietà terriera. La nascita dei grup­pi di interesse ha mutato nell’Europa del Novecento la rappresentanza politica, sosti­tuendo alla rappresentanza di tipo notabilia- re, fondata sull’accumulazione del capitale personale, una rappresentanza fondata sul capitale delegato, ossia detenuto interamen­te dall’organizzazione. Tra Otto e Novecen­to questa trasformazione era appena iniziata e si realizzò solo in Germania, dove era già avanzato il processo di formazione del capi­talismo organizzato30. A differenza di quella prussiana, le altre aristocrazie terriere euro­pee furono restie ad abbandonare la logica individualistica e a rispettare sul piano poli­tico la disciplina dell’organizzazione. A1TE- st come all’Ovest le associazioni di proprie­tari terrieri non si trasformarono in un par­tito agrario31. La spiegazione di questo fatto è duplice. In primo luogo i gruppi economici sono strutturalmente impediti di diventare un partito perché rappresentano interessi settoriali, non generali. Le aristocrazie ter­riere si trovarono tra Otto e Novecento in un’impasse. Si proclamavano i rappresen­tanti dell’interesse generale. Ma non poteva­no più richiamarsi all’agricoltura come alla sola industria in grado di rafforzare l’identi-

29 Hans-Jürgen Pulhe, Agrarische Interessenpolitik und preussescher Konservatismus im wilhelminischen Reich 1893-1914, Bonn-Bad Godesberg, Verlag Neue Gesellschaft GmbH, 1975; Pierre Barrai, Les agrariens français de Méline à Pisani, Paris, 1968; M. Malatesta, Une nouvelle stratégie de reproduction: les organizations patronales agraires européennes (1868-1914), paper presentato all’Eleventh International Economie History Congress (Mila­no, settembre 1994).30 Pierre Bourdieu, La representation politique, “Actes de la recherche en sciences sociales”, 1981, n. 38; Hans P. Ullmann, Interessenverbände in Deutschland, Frankfurt am Mein, Suhrkamp Verlag, 1988.31 Lâszlo Péter, The Aristocracy, the Gentry and their Parliamentary Tradition in Nineteenth-Century Hungary, “Slavonic and Easter European review”, 1992, n. 1, pp. 97-98.

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tà economica nazionale, né potevano rap­presentare la nazione anche a nome dei ceti medi e delle classi lavoratrici. In secondo luogo, esse non pensarono mai di creare un partito di massa. Lo stesso Bund der Land- wirte era un gruppo di pressione extraparla­mentare e tale restò. Usarono invece delle tecniche trasversali, per ottenere il consenso più vasto possibile tra i vari schieramenti

parlamentari sulla politica agraria. La tecni­ca delle alleanze aiutò la rappresentanza del­l’agricoltura nei parlamenti europei otto-no- vecenteschi. Ma fu anche il segno che l’epoca del privilegio delle aristocrazie terriere era tramontata e che la loro sopravvivenza di­pendeva ormai dalla loro capacità di contrat­tazione.

Maria Malatesta

Maria Malatesta insegna Storia economica contemporanea all’Università di Bologna. Si occupa di sto­ria dell’agricoltura e di recente ha curato due volumi sulla storia delle professioni nell’Italia contempo­ranea, di prossima pubblicazione presso la Cambridge University Press e la casa editrice Einaudi.

STUDI STORICISommario del n. 3, 1994

Giuseppe Cambiano, Automatorr, Alessandra Gara, L’esperimento nella cultura anti­ca.

Opinioni e dibattiti

Michail M. Narinskij, Togliatti, Stalin e la svolta di Salerno; Federico Romero, Le fron­tiere storiografiche della guerra fredda.

Ricerche

Anna Girgenti, Vittorio Amedeo II e la cessione della Sardegna: trattative diplomati­che e scelte politiche; Luigi Parente, Luigi Blanch e la sua “Scienza militare"-, Giorgio Borniquez, Interessi regionali e politica internazionale: il traforo del Sempione (1850- 1914); Paolo Blasina, Santa Sede e Regno dei serbi, croati e sloveni. Dalla missione di dom Pierre Bastien a! riconoscimento formale (1918-1919); Valerio Marchi, "L’Ita­lia" e la questione ebraica negli anni trenta.

Note critiche

Paolo Alatri, Amministrazione e riforme del Settecento francese; Roberto Vivarelli, Salvatore Adorno, A proposito di Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla gran­de guerra alla marcia su Roma.