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Storie di musicavivonic, Giovanna Bertino, Paolo Dapporto,

Cettina Barbera, Erika Marzano, Roberta Cadorin, Luna de Magistris, Anna Rita Lisco, Giuseppe De Micheli,

Daniele Coviello, Davide Schito, Lavella, Patrizia Rossi

Copertina diIlaria Tuti

Editing e impaginazione diFabrizia Scorzoni

Prima edizione marzo 2013

Questo ebook è distribuito con Licenza Creative Commons BY-NC-NDÈ consentita la riproduzione, parziale o totale, dell’opera e la sua diffusione a uso personale dei lettori, purché sia riconosciuta l’attribuzione dell’opera al suo autore, l’opera non venga modificata e non venga riprodotta a scopo commerciale.http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/

Abaluth

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L’angelo del porto E mi ricordo che eravamo piccolie tu da solo non restavi maio solo un po’ come lo sono tuttie poi un giorno conoscesti leie i vostri occhi divennero un tutt’unoe non ricordo che litigavateforse perché non importava a nessunoforse perché semplicemente era estate.E tornò l’aria dell’autunno incoloree tu che hai sempre odiato settembreperché col freddo non giravi più in motoree poi la scuola e voglia di studiare niente.E un settembre si portò via leinon posso dire quante lacrime versastema i vostri cuori non li separò la nebbiané la distanza, ma mai più v’incontraste.

Poi una mattina l’ha scoperto dal giornalee dal telefono, grazie a una vecchia amicache aveva in mente quelle passeggiatericordate come una gioia antica.

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Lei scivolò in un baratro d’oblioma il tuo sorriso non si può dimenticaree tutto quello che per te ha voluto Dioè di lasciarti per l’eternità al marema non è il mare delle estati da ragazzoin cui stringevi la sua mano e la baciavima quello lurido di un porto di provinciadove da appena qualche ora lavoravi.E mamma che è andata a far la spesaper prepararti un atteso ritornonon vede l’ora di vederti rincasaree chiederti com’è andata il primo giorno.Il primo giorno del tuo nuovo lavoroil primo giorno, tragica ironia,di un settembre privo di decoroche la tua vita ha strappato via.

vivonic

A Luca Vertullo

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Sommario

Seppia.........................................................................................1Bridge.........................................................................................7Ferita........................................................................................12Misery......................................................................................23Quanti anni hai.........................................................................29Black Rose immortal................................................................37Bianco, nero.............................................................................39Alleluia.....................................................................................45Le turbe dell’anima..................................................................49Chi fermerà la pioggia.............................................................51L’energia prorompente di una musica......................................59L’uomo delle note....................................................................62

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AbaluthStorie di musica

SeppiaGiovanna Bertino

Osso di seppia – Mannarino

«Ah coso!, C’hai ‘na cicca?»Seppia si raggomitolò nel cappottone e grugnì: «Lasciami stare.

Non vedi che sto dormendo?»Ma quello diede un calcio allo scatolone.«E ce riesci co’ sto’ freddo?»«Ci riesco sì, se ti togli dai coglioni!»Seppia sentì i passi zoppi dell’altro andar via e cercò di trovare una

posizione meno scomoda. Si girò e rigirò nella sua tana di stracci e cartone, senza successo. In realtà erano notti che non chiudeva occhio. Si sentiva addosso la febbre alta e aveva una tosse così forte che, quando tossiva, era come se il petto gli si squarciasse in due.

“Questa volta mi viene la polmonite” pensò.Quando finalmente la luce filtrò attraverso i fori della sua tana,

Seppia tirò fuori la testa. La stazione era già un formicaio di passeggeri multicolori.

«Ma dove cazzo andate ?» strillò con rabbia.Il catarro gli tornò su, duro e compatto come una pallina da tennis.

Cominciò a tossire violentemente per liberarsene, ma quello gli restava attaccato in gola, come una zecca. Nel rumore generale, nessuno si fermò a guardare la sua sagoma contorcersi sul marciapiede lurido, tra cocci di bottiglie e puzzo di urina. Non ebbe neppure un’occhiata di disprezzo. Quando smise di tossire e il dolore nel petto si calmò, si appoggiò sui gomiti e piano piano si tirò su a sedere. Lo raggiunse l’aroma inconfondibile del caffè del bar dirimpetto. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per un sorso!

«Allora, come va? Ancora febbre?»Paolo sentì la mano fresca e morbida di sua moglie accarezzargli

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la fronte, e seppe di essere amato. Quasi quasi gli dispiaceva di dover guarire, perché tutto quell’eccesso di coccole e premure lo rendeva sereno, protetto come un bambino. Si tirò su a sedere e prese il vassoio che lei gli porgeva. Tè e biscotti dietetici. Chiuse gli occhi e avvicinò la faccia alla tazza fumante.

“Aerosol naturale che scioglie il catarro” pensò.Sorseggiò piano, a occhi chiusi, cercando di concentrarsi sul

benefico effetto che provava. Allora immaginò il fumo salire su per le narici e arrivargli al cervello, e lì sciogliere tutti i pensieri che lo tormentavano. Erano già sei mesi che aveva fatto la cazzata. E non sapeva come uscirne. Ormai ci era dentro fino al collo e più annaspava, più andava a fondo. Era stato uno stronzo a fidarsi. Un completo imbecille.

Guardò sua moglie, così giovane e bella da torcergli l’anima. Forse era quello il momento adatto per confessarle tutto. Ma non poteva; gli mancava il coraggio. Non era sicuro che avrebbe capito. Probabilmente sarebbe scoppiata in lacrime e poi, dopo giorni di broncio, se ne sarebbe tornata dritta dritta dai suoi. Quelli avrebbero fatto festa. Non aspettavano altro.

Paolo si lasciò cadere sul cuscino e ripensò a quando si erano conosciuti: lui, giovane diplomato di belle speranze, lei, figlia quattordicenne di genitori severi. Lui l’aveva sedotta con la sua allegria e la promessa di una vita libera e piena, e lei lo aveva seguito fiduciosa, contro il parere di tutti. Era stato un matrimonio frettoloso, senza sfarzi, tra adolescenti. Erano andati a vivere in un bilocale di periferia: lui, a lavorare nell’officina meccanica che il padre gli aveva lasciato, lei, a badare alla casa. Non aveva avuto rimpianti nel dire addio ai suoi sogni di ingegnere, anzi. Adesso che ci pensava, gli sembravano gli anni più felici della sua vita.

Seppia si mise in piedi, a fatica. Gli girava la testa ma, se non si fosse sbrigato, l’avrebbe fatta in terra. Non che gliene fregasse molto, però quelli delle pulizie erano già in giro e ci andavano giù duro quando lo beccavano. Si appoggiò al muro per non cadere e, quando si sentì stabile, scivolò verso la rampa di scale che portava di sotto, ai

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bagni pubblici. “Speriamo che ci trovo la Gina” pensò, mentre scendeva a fatica le scale di marmo. La Gina lo faceva sempre entrare senza fare storie, ma era l’unica là sotto. Gli altri addetti ai bagni lo scacciavano a colpi di scopa, anche quando aveva da pagare. Dicevano che insudiciava tutto, che aveva le pulci, che puzzava come un secchio della spazzatura. Tutto vero. Lui era il rifiuto mobile della società, un secchio della spazzatura con le gambe. Almeno fino a quando le gambe lo avrebbero retto. Presto sarebbe diventato un sacco nero all’obitorio. Zitto e fermo. Meglio. Un problema in meno per tutti. Però, cazzo! Roma, la città santa dei papi, lo aveva sempre trattato con durezza. I peggiori erano i pellegrini che la domenica sbarcavano a frotte dai treni, con i loro gagliardetti colorati e le croci appese al collo. Gli passavano oltre, lanciandogli occhiate di disprezzo, e correvano ad ascoltare le parole sante del Papa. Se gli avessero lanciato soldi invece che disprezzo, a quest’ora sarebbe stato ricco. Seppia arrivò in fondo alla scala e, appoggiandosi al muro, si trascinò lungo il corridoio deserto che portava ai bagni.

Paolo finì di farsi la doccia e si avvolse nell’accappatoio pulito e caldo. Sua moglie gli venne vicino e cominciò a frizionargli la schiena.

«Sei proprio deciso a voler riaprire oggi?» gli chiese senza smettere.«Se non riapro, addio clienti. Sai com’è la gente. Non ha pazienza

e se non usa la macchina per qualche giorno muore.»«Meglio per noi, no?»«Già, meglio per noi.»Paolo rise ma aveva il cuore che piangeva. I clienti erano ormai

mosche bianche nella sua officina e il più delle volte passava il tempo a mettere in ordine senza vedere nessuno. A parte il postino, i creditori e Lo Zoppo. Il postino arrivava almeno due volte al mese con le cartelle esattoriali ben in vista, come a sbandierarle ai quattro venti. Però in fondo era un povero diavolo e qualche volta gli offriva il caffè, tanto per scambiare due chiacchiere. Appena il postino se ne andava, gettava le cartelle esattoriali nel cestino della carta straccia, dopo averle fatte in mille pezzi, senza neanche aprirle. Restava un cestino pieno di coriandoli. I creditori spuntavano in genere all’ora di

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chiusura perché speravano di mettere le mani sull’incasso della giornata, ma se ne andavano quasi sempre a mani vuote e la bocca piena di ingiurie che riguardavano lui, sua madre e tutti i suoi parenti, sia morti che vivi. All’inizio aveva risposto e insultato a sua volta, facendosi rosso in viso, ma col passare del tempo si era convinto che uno stronzo lo era davvero e che quegli insulti se li meritava tutti, dal primo all’ultimo. Lo Zoppo, invece, lo aveva visto solo un paio di volte e i soldi erano arrivati subito, a fargli riprendere fiato. Era sembrato un amico, uno di cui potersi fidare, un prestito rimborsabile senza troppa difficoltà. Adesso i suoi scagnozzi spuntavano ogni giorno a ricordargli l’impegno. Prima solo in officina, adesso anche sotto casa. Di quelle visite gli restava il ricordo nei lividi sulla pelle e nel terrore sul cuore

Paolo tirò la tenda e sbirciò in strada: l’ Audi non c’era. Tirò un sospiro di sollievo e finì di vestirsi.

Seppia arrivò ai bagni senza incontrare nessuno e meno che mai i soliti teppistelli che, quando erano strafatti, si divertivano a tormentarlo a suon di calci e sputi. Tirò un sospiro di sollievo ed entrò. C’era una ragazza nuova in servizio, tette enormi e fianchi larghi. Un bel bocconcino. Sentì il suo coso muoversi in fretta ai piani bassi.

Lei lo guardò e storse la bocca dipinta.«Qui er cesso se paga» disse con sgarbo.«E se ti pago per il servizietto, ci stai?»Quella scoppiò a ridere«Ma che sta’ a dì? Anvedi de annattene’, che è mejo!»Lui invece le si avvicinò di qualche passo:«Senti» disse abbassando la voce, «ho un ciondolo d’oro con me.

Se vuoi te lo regalo.»La ragazza si scansò«Ma nun te sei visto allo specchio? Ah coso, va’ ar cesso e poi

smamma.»Seppia guardò la sua immagine riflessa nei quattro specchi a

parete, sopra i lavandini. Tutti e quattro gli mandarono indietro l’immagine di un vecchio barbuto, magro e ricurvo come il manico

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di un ombrello. I capelli grigi gli stavano in testa dritti e ammassati, come tentacoli di una seppia. Gli occhi verdi, un tempo belli e magnetici, creavano un effetto orripilante sulla sua pelle giallognola di bevitore incallito. Neanche sua madre, pace all’anima sua, lo avrebbe riconosciuto.

“Mi dispiace amico mio” pensò, “non c’è nulla per te.”Entrò nel gabinetto, si appoggiò alla tazza e lasciò che le lacrime

gli scendessero copiose come la sua pipì.Paolo uscì di casa dopo aver ripetuto a sua moglie di non aprire a

nessuno e di non uscire di casa per nessun motivo. La spesa l’avrebbe fatta lui prima di rincasare. «Accipicchia come sei diventato geloso! » aveva detto lei, con civetteria.

Una volta in strada, Paolo si accertò ancora una volta che quelli non fossero nei paraggi e quindi, a passo svelto, si incamminò in direzione dell’officina. Ormai erano mesi che se la faceva a piedi. A sua moglie aveva detto che era per mantenersi in forma, che quei tre chilometri di strada li faceva volentieri, perché non aveva tempo di andare in palestra; in verità la macchina era senza assicurazione ed evitava di guidarla se non per necessità. Che menzogne che le imbastiva! E lei che ci cascava, con quell’aria da innocente. A volte quel suo candore lo infastidiva; avrebbe voluto che lei lo smascherasse e lo coprisse di pugni e insulti. Si sarebbe sentito meno solo e avrebbe condiviso con lei l’abisso in cui stavano precipitando. E invece lei pendeva dalle sue labbra e credeva a tutto ciò che le diceva. Che cavolo si sarebbe inventato quando avrebbero staccato la luce? Che c’era un topo nell’impianto elettrico? La fantasia non gli mancava. Rallentò il passo quando tagliò per il parcheggio della Stazione. Pieno di macchine ma deserto. I pendolari erano partiti tutti mezz’ora prima, col treno delle 7.30. Come i suoi ex compagni di liceo. Molti si erano già laureati e andavano incontro a una vita piena di speranze e soddisfazioni. Non come lui, che in tasca aveva solo settanta euro e un mare di debiti! A questo punto non aveva che due alternative: o bussare ancora alla porta degli ex amici ed ex parenti nella speranza di convincerli a buttare via i loro risparmi, oppure scappare.

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Paolo si fermò.Già.Scappare.Sempre meglio che farla finita. Andar via, lontano, dove nessuno

lo conosceva, e trovarsi un lavoro qualsiasi. Era giovane e forte, ce la poteva fare. Una volta in piedi, sua moglie lo avrebbe raggiunto e, finalmente, avrebbero costruito insieme il loro futuro pieno di bambini.

Paolo si guardò attorno. Quel posto non gli offriva più nulla e scappando avrebbe salvato anche lei.

Gli serviva solo un pizzico di fortuna.Ed ecco che vide qualcosa luccicare sull’asfalto.Si chinò.Era un ciondolo d’oro, a forma di quadrifoglio.Paolo sorrise, gli occhi verdi che gli brillavano “Che culo! Questo

sì che è un segno del Cielo!”Raccolse il ciondolo e se lo mise in tasca.«Va bene» disse deciso, «da oggi si ricomincia.»Deviò verso la stazione e corse a prendere il treno.

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BridgePaolo Dapporto

Sonata al chiaro di luna – Beethoven

Dio, come ho giocato male a bridge stasera!

Sono tornato a casa tardi come sempre e fatico a prendere sonno in questa camera, dove filtra solo un filo di luna. Non so se mettermi di fianco oppure restare supino. Dopo l’operazione che ho subìto al ginocchio sinistro, è ancora più difficile trovare la posizione giusta per dormire.

Enzo, che di solito sopporta con benevolenza i miei errori, stasera non ha nascosto il suo disappunto e, alla fine della serata, mi ha salutato appena con un frettoloso buonanotte. Ma perché continuo a giocare a bridge? Non ho mai avuto una grande passione per le carte e spesso mentre gioco i miei pensieri navigano altrove.

Stasera pensavo al risultato che un mio racconto aveva ottenuto in un concorso letterario: terzo posto. Appena ho saputo l’esito, ho fatto un salto di gioia, perché non me lo aspettavo questo riconoscimento, anche se il racconto che avevo inviato mi sembrava molto bello, come tutte le cose che scrivo. Ero molto soddisfatto di me stesso e il sorriso dipinto sul mio volto ingannava Enzo sulla bontà delle carte che avevo in mano.

Certo, Enzo ha le sue ragioni per essere arrabbiato con me. In quella mano avrei dovuto attaccare col re di cuori, anche se era secco, così l’avversario avrebbe giocato l’asso, liberando delle carte al mio compagno.

Quando ripenso al concorso letterario, mentre mi rigiro tra queste coperte che diventano sempre più calde, non sono più tanto contento.

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Il terzo posto non mi soddisfa; ha il profumo agrodolce della consolazione. Il giorno delle premiazioni saremo solo in tre: il primo, il secondo e il terzo, cioè l’ultimo.

A me non importa di perdere una mano se gli avversari sono persone con cui mi trovo a mio agio. Ma quando perdo con quelli supponenti, con la puzza al naso, mi prende una rabbia… Chi si credono di essere? Prima di pensare di essere più bravi e intelligenti, si confrontino con me anche su altri argomenti. Il bridge non è l’unica cosa che esiste al mondo.

Domani finisco di scrivere il racconto da mandare a un altro concorso, quello sull’Arno. Ma come si fa a dire qualcosa di originale parlando di un fiume che sta lì sempre uguale da millenni? Boh, inventerò qualcosa, magari tirerò fuori una vecchia storia d’amore con una compagna di classe. Le storie d’amore tra adolescenti funzionano sempre e piacciono molto a chi legge. Lo intitolerò “Un amore sulle rive dell’Arno prima dei lucchetti”.

Però anche Enzo fa degli errori, forse provocati da me, ma sempre errori suoi sono. Forza troppo il gioco anche quando le carte non glielo permetterebbero e gli avversari lo contrano. Lui gioca bene, però, se non ha le carte buone, è un gigante con i piedi d’argilla. La prossima volta glielo dico: «Devi essere più prudente, dichiari troppe volte 6 di qualcosa ed è difficile rispettare la licita anche se giochi bene la mano.»

Io ho tante cose da fare tutti i giorni, ma la cosa più bella è guardare Niccolò, il mio nipotino. Mi sono convinto che lui mi aspetti sempre, e che stia male quando sente suonare il campanello e vede che non sono io. Sto male anch’io quando ci penso. Vorrei andare di corsa a casa sua, fargli un’improvvisata, ma non lo faccio mai perché non voglio essere invadente.

Ho provato a leggere e studiare i libri del bridge, ma sono di una noia mortale. Quello che mi ha prestato Enzo per la verità non è

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male. È scritto da un professionista inglese con molto humor e garbo. Lo leggo volentieri anche per il titolo: “Perché perdete a bridge.” Capissi questo, sarebbe già qualcosa.

Ora c’è anche la gatta che non sta bene. Non si muove dalla sua cuccia e non mangia. Povera Chicca, è vecchia e se continua così non le resterà molto da vivere. Domattina la porto dal veterinario. Gli animali vecchi sono come le persone, vanno trattati con cura, come si trattano i bambini, come io tratto Niccolò e come vorrei essere trattato io quando diventerò ancora più vecchio.

Stasera poi ho avuto una sfortuna che non vi dico. Carte brutte: nessun asso e pochi re. E non è che, in compenso, io abbia fortuna in amore. Non ho mai creduto a questa fantasia popolare, anzi per me è vero il contrario: chi ha fortuna nelle carte ce l’ha anche nell’amore, perché il mondo è ingiusto e aiuta sempre le stesse persone.

Domani dovrei andare avanti anche con il libro che sto scrivendo con Alfonso. Per me non è facile parlare di traffico di droga e di omicidi. È vero, la storia me la racconta lui che sta scontando l’ergastolo per questi reati, ma poi il libro lo devo scrivere io. Preferirei parlare di sentimenti, di amori giovanili vissuti in atmosfere serene.

Il protagonista del mio prossimo libro sarà un maestro delle scuole elementari, uno degli ultimi esemplari di questa specie in via di estinzione. Un uomo che ha conservato la sua anima di fanciullo, come il maestro che avevo io. All’uscita della scuola veniva sempre a riprenderlo il suo figliolo, un ragazzone di una ventina d’anni. Dicevano tutti che era un maestro matto, ma noi gli volevamo bene.

Però, Enzo, almeno una mano l’ho giocata bene, quando ho indovinato due impasse. Ma Enzo stasera non era in vena di complimenti e quando scherzando gli ho detto: «Nel gioco della carta sto migliorando» mi ha risposto di no in modo secco, con la faccia severa.

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Meno male che nel pomeriggio vado a prendere Niccolò. Lo porterò ai giardini perché ora lui ha scoperto gli scivoli. Si diverte a buttarsi giù a testa in avanti e io devo stare in fondo a frenarlo perché altrimenti va a sbattere la faccia per terra. Tra poco finirà due anni e gli devo insegnare a spengere le candeline della torta. Niccolò è la mia gioia. Quando una mia amica mi ha chiesto quale fosse stata la mia prima sensazione di nonno, le ho risposto che ho provato per la prima volta il dispiacere di dover morire.

Una cosa che non capisco del bridge è questa strana gerarchia dei semi (o pali come bisogna chiamarli qui), con le picche che contano più di tutti gli altri. Nel poker vale un’altra regola, quella del “come quando fuori piove”, con le cuori che precedono le quadri (guai a chiamarle mattoni). Mi farò spiegare il motivo da Enzo, che conosce bene la storia del bridge; comunque penso che la ragione stia nel volersi distinguere dai giochi più popolari.

Appena sarà un po’ più grande farò un discorso serio a Niccolò. Gli dirò di non rattristarsi troppo quando non mi vedrà più. I nonni sono stelle comete, volano via quando meno te l’aspetti, insieme alle malattie di stagione e alla giovinezza.

Enzo mi dice spesso che gioco con troppa fretta, senza meditare a fondo su quale carta giocare. Io, Enzo, gioco veloce perché vivo di pensieri semplici, nel bridge e nella vita.

Cavolo! Non è neppure un’ora che sono tornato e ho già voglia di andare in bagno. Mi devo alzare dal letto, ma mi fa tanta fatica. Dovrei andare dall’urologo, ma il pensiero di avere una brutta malattia mi terrorizza. Preferisco non sapere e nascondere la testa sotto la sabbia, come gli struzzi.

Anche se non sono bravo, faccio bene a continuare a giocare. Il bridge stimola il ragionamento e la memoria. Spero anche che tenga a bada l’Alzheimer, una malattia che mi fa molta paura.

I pensieri cominciano a trasformarsi in sogni. Finalmente lei arriva, cortese come un’ombra e leggera come una carezza. I suoi

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occhi neri sono più profondi di un abisso. Mi sorride e dietro le sue labbra rosse intravedo quel dentino scheggiato che mi ha sempre fatto impazzire.

D’un tratto il suo sorriso si confonde con quello beffardo della donna di fiori. L’ho scartata dimenticandomi che il re era già passato e ho buttato a mare uno slam sicuro. Proprio da una donna mi sono fatto fregare.

Lo slam mi fa tornare in mente ricordi lontani di partite a tennis. Chissà se ora con le protesi alle ginocchia potrò ricominciare. Non l’ho detto a nessuno, ma è proprio per poter giocare a tennis che mi sono fatto operare. Ho tirato fuori altri motivi, tipo dolori durante la notte, difficoltà a salire e scendere le scale. La verità è che, quando si diventa vecchi, si ha ancora più voglia di vivere. Si sognano amori travolgenti con donne giovani che ti portano via, imprese sportive straordinarie, scoperte scientifiche che fanno il giro del mondo.

È brutta la vecchiaia se non si ha qualcosa in cui credere o qualcosa che occupi il tuo tempo, come scrivere un libro, come portare a spasso un nipotino.

Può bastare anche il bridge.

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FeritaCettina BarberaHurt – Johnny Cash

“I hurt myself today,to see if I still feel,I focus on the pain,the only thing that’s real.”

Si sveglia, come al solito incollata al pavimento, in un bagno di gelido sudore; il corpo scosso dai tremiti, un conato di vomito nella gola, lacrime e muco secco sul volto.

Fa leva con le braccia deboli per tirarsi su e riesce a staccarsi di qualche centimetro dal suolo.

Raccoglie ogni briciolo di forza che trova nel proprio corpo sfatto, porta le gambe doloranti al bacino e finalmente si mette a sedere.

Un ultimo attimo di preziosa incoscienza le permette di domandarsi che cosa ci faccia lì e perché stia così male; poi la sua vita le ripiomba addosso in un flash accecante che le fa stringere gli occhi.

Vomita un fiotto acido: il suo corpo non può più aspettare. Stille brucianti le torcono muscoli e le infilzano ossa che non sapeva neppure di avere.

Si alza e muove qualche passo incerto nel buio totale che avvolge ogni cosa, aguzza la vista e tenta di mettere a fuoco la stanza; le forme del mobilio scarno si vanno delineando indicandole il percorso.

La ragazza conquista il soggiorno, arrancando contro il muro, gli occhi fissi sulla meta, le pupille dilatate, il respiro corto.

Si farà di nuovo del male, lo sa: non può resistere, non può vincere; non sa nemmeno se vuole.

Sul tavolino basso di teak e vetro, posto al centro della stanza, un cucchiaino dalla punta annerita le restituisce un bagliore argenteo; accanto gli altri strumenti che ormai da più di un anno colmano di

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incubi indispensabili la sua vuota routine: l’accendino, la siringa incrostata di sangue, lo stantuffo rotolato poco più in là, il laccio...

Guadagna centimetri verso il tavolo e scivola a sedere sulla moquette impolverata. I suoi grandi occhi blu si posano sul sacchetto trasparente, pieno di polvere bianca; qualche granello è fuoriuscito e risalta contro il vetro opaco, le sue dita esangui e frementi corrono verso le briciole di morte per recuperarle.

La invade un senso di euforia mista a disgusto per se stessa, una combinazione di sentimenti alla quale non riesce mai a sottrarsi.

Il suo sguardo punta all’ago.Lacrime mute le scorrono sul viso incavato e intanto prepara la

dose; malgrado il tremito che non le abbandona le membra, raggiunge il suo obbiettivo con una precisione e una rapidità sconcertanti.

Stringe il laccio emostatico intorno al braccio e afferra la siringa, fa affondare la punta dell’ago nella pelle tesa senza esitazioni.

Lei che degli aghi ha sempre avuto una paura mortale...Si ferma, le lacrime le annebbiano la vista; si chiede come sia

arrivata tanto in basso senza accorgersene, senza nemmeno provare a frenare la caduta, abbandonata nel vuoto, in discesa rapida, come morta, intrappolata in quel corpo senza stimoli né voglie che vadano oltre il giubilo che prova in quel momento, malgrado il dolore, mentre l’ago le punge la pelle e intacca la vena.

“The needle tears a hole,the old familiar sting...”

Si strappa la siringa dal braccio, inorridita dalla consapevolezza della caducità di quel momento lucido: conosce troppo bene la persona che è diventata e sa bene che ripiomberà presto in ginocchio, alla ricerca dell’unica amica che le è rimasta, per farsi la sua dose di oblio ed estasi chimica e sfuggire, se pure solo per qualche ora, all’odio e alla sofferenza che le hanno portato via tutto, anche se stessa.

Non le è restato nulla al di là di quella voglia cieca che dovrebbe servire a mascherare un passato che non la lascia, che la tormenta a ogni momento di veglia sottratto al baratro dell’eroina, ma non c’è nient’altro

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nella sua anima se non il dolore e non c’è modo di dimenticare.

“... try to kill it all away,but I remember everything.”

Mentre cerca di rimettersi in piedi, le ginocchia le si piegano; non ricorda quando è stata l’ultima volta che ha mangiato, potrebbero essere passati giorni.

Il cuore le batte nel petto all’impazzata, brividi le soffiano gelidi contro la pelle nuda della schiena, coperta a malapena da una sottoveste bianca.

Guarda ancora una volta verso la moquette, verso la siringa, verso quel liquido capace di anestetizzare il suo dolore, anche se solo per poco.

Una rabbia sconfinata la invade.Cosa è diventata?Come ha potuto permettere che le accadesse questo?Sola, bloccata in una fossa di disperazione, una fossa di fango

dalle pareti troppo scivolose perché possa venirne fuori.Si domanda se valga la pena tentare di arrampicarsi, anche a costo

di morire, per raggiungere gli altri che passeggiano sulla sua prigione, come visitatori che si recano al cimitero e passano sopra una tomba senza nome.

Si chiede se ci sia ancora modo di salvarla, la ragazza che era una volta. Quella piena di amici e di vita, con tanti sogni da realizzare e tanta voglia di conquistare il mondo.

Quella ragazza che sapeva amare, che non aveva paura.Quella ragazza dalla vita perfetta e organizzata.Quella ragazza che è stata ferita e abbandonata.Quella ragazza che ha smesso di lottare, che non ha chiesto aiuto,

che ha lasciato che tutti la lasciassero, che si è gettata in quella fossa aspettando di morire.

Il suo sguardo sofferente va alla segreteria telefonica, poggiata accanto al telefono; giace spenta e muta, come addormentata; nessun numero lampeggia sul suo schermo, nessun messaggio per lei.

Nessuno la cerca più ormai.

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“What have I become?My sweetest friend...everyone I know,goes away in the end.”Non è stata l’unica a pagare il prezzo di quel giorno devastante, in

cui un solo atto di violenza terribile le ha portato via tutto ciò che era, tutto ciò che desiderava e tutto ciò che amava.

Era bastata una sola persona a fare la differenza.Lei era cambiata, era diventata negativa e solitaria, non riusciva a

riprendersi, non poteva dimenticare.Molti se ne erano andati via subito, persone che aveva amato con

tutto il cuore, alle quali aveva dato tanto.Erano sparite dall’oggi al domani, troppo prese dalle loro vite,

forse troppo spaventate da ciò che le leggevano negli occhi, da tutta quella verità sul mondo e sul male; ne vedevano le tracce lasciate sul suo volto: la lunga cicatrice che le sfigurava una tempia, pallida rappresentazione della ferita che le aveva mutilato l’anima.

E poi c’erano quella rabbia, quel dolore e il risentimento verso un aggressore del quale non aveva neppure visto il volto.

Ancora non sapeva se fosse un bene o un male.Ma ricordava i suoi occhi pieni di odio e ciascuna delle orribili

cose che le aveva sussurrato, la voce bassa e autoritaria, percorsa da un piacere crudele.

Aveva visto la sua anima: era nera come il passamontagna che indossava.

Alla polizia, quelle cose non le aveva dette.Che senso avrebbe avuto?Non sarebbero state sufficienti per trovarlo.Con coloro che le erano rimasti accanto non riusciva più a parlare.Ogni volta che la guardavano riviveva tutto; si chiedeva che cosa

pensassero di lei, se non credessero che fosse colpa sua in fondo, se non fossero segretamente convinti che avesse potuto evitarlo se solo avesse lottato, nonostante le dicessero il contrario.

C’erano troppi dubbi.

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Se ne era andata via di casa.Per un po’ avevano provato a chiamarla, ma lei non aveva mai

risposto.Odiava tutti, non poteva frenarsi dal provare questi sentimenti.Li odiava perché non potevano capire, perché erano normali,

perché non l’avevano protetta, perché non potevano salvarla, perché non potevano restituirle se stessa e la sua vita.

Li odiava perché provavano a capire, perché volevano che tornasse alla normalità, perché le ripetevano che non c’era niente che avrebbe potuto fare, che doveva essere forte, che doveva ritrovare se stessa.

Piangeva seduta accanto al telefono, bloccata in un limbo di indecisione; ascoltava la voce di sua madre e quella di suo padre, ma non poteva rispondere.

Ora quelle voci le ha quasi dimenticate, il cordless è coperto di polvere; la segreteria è vuota, vuota come la sua vita; la solleva tra le mani e la osserva attraverso un velo di lacrime, la scaglia sul pavimento con un tonfo ovattato.

Le gira la testa, esce dal soggiorno, deve allontanarsi fisicamente dalla siringa o fra un secondo sa già che la starà stringendo di nuovo fra le mani.

Tentoni, raggiunge il bagno. Accende la luce bianca dello specchio e si guarda senza sbattere le palpebre, esterrefatta.

Sono settimane che non vede la propria immagine riflessa.Profondi cerchi violacei le incavano a fondo nel viso cereo gli

occhi ingialliti, il sudore le imperla la fronte e le fa aderire ciocche di capelli unti alle guance smagrite, le sue labbra sono ridotte a una piccola O screpolata, livide, bloccate in un urlo muto.

Lo sente in fondo al proprio petto, le si stringe intorno al cuore, ma non può farlo uscire, non sa come fare.

Da un angolo della sua mente, la ragazza che era la osserva, una smorfia di riprovazione le torce le belle labbra rosee, i suoi occhi tersi la trapassano con disprezzo.

Ha tradito se stessa.

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Ha ferito se stessa, molto più in profondità di quanto persino quel mostro sia mai arrivato.

Stringe le mani con forza, le unghie molli le si conficcano nella pelle e si scheggiano, strappandole un gemito; solleva le braccia e schianta i pugni contro il volto che la osserva lugubre dallo specchio; fiotti di sangue le esplodono dai palmi e dalle nocche sbiancate, disegnando sul suo incarnato illividito piccoli fiori scarlatti.

Varca la soglia del bagno correndo, il petto scosso dai singhiozzi, afferra le chiavi dell’auto e esce di casa, lasciando la porta aperta.

L’erba bagnata le solletica i piedi scalzi, un vento pungente le sferza le gambe nude, i suoi occhi si posano sul disco latteo della luna.

Una volta, quando era un’altra, guardare la luna aveva il potere di calmarla, le permetteva di riprendere fiato, di rimettere ordine nella sua vita.

Sotto la luna, ogni cosa ricadeva in prospettiva, le preoccupazioni di tutti i giorni assumevano una dimensione più sopportabile, ordinaria. Non c’era niente di irrisolvibile.

Ora, guardare la luna serve unicamente a farla sentire più sola e insignificante, poca cosa nello schema dell’universo.

Sale in macchina e avvia il motore, i piedi scalzi stentano e scivolano sul freno e sull’acceleratore; sa che non è prudente guidare in questo modo, specie nelle condizioni in cui si trova, ma non le importa.

La ragazza che si preoccupava di questo genere di cose è morta e tutta la prudenza del mondo non è bastata a salvarla.

La sua vita le scorre davanti come un cortometraggio, fradicio delle lacrime che le bagnano la faccia.

Rivede tutto quello che era.Una bambina che sfreccia sui pattini, graffiando il ghiaccio, gli

occhi chiusi, il viso fiducioso rivolto verso il vento, con spensieratezza, quasi con irriverenza. Le risate dei suoi amici che echeggiano nel parco...

Anche quella bambina è morta, nessuno stupore e nessuna innocenza abitano più il suo corpo.

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Le feste di compleanno.Il primo cucciolo.La cerimonia del diploma, con i tocchi blu, lanciati in alto verso le nuvole.I segreti confidati alle amiche.I sogni.I desideri.Il primo amore.L’abbraccio di sua madre.La voce consolante di suo padre che sovrastava i tuoni spaventosi.La bambola preferita.Gli alberi di Natale.Le liti con le sue sorelle e i loro giochi.Le notti nascosta nel letto di suo fratello maggiore per sfuggire

agli incubi che le rubavano il sonno.Le ore di studio notturno, il divertimento sacrificato al futuro.Il senso di responsabilità.La voglia di realizzarsi, di aiutare il prossimo.Gli esami superati e quelli falliti.Le lacrime versate sui popcorn per i film più sdolcinati.I risultati ottenuti.I sogni avverati e quelli infranti.La macchina comprata da sola con il primo stipendio, la stessa

macchina che ora divora l’asfalto a gran velocità, zigzagando pericolosamente.

Le persone che l’hanno ferita.Le persone che ha ferito.

Sprazzi di normalità, tutti risucchiati nel gorgo vorace della dipendenza, cose che non le appartengono più, memorie sbiadite di una vita lontana, della vita di qualcun altro.

“And you could have it all,my empire of dirt,I will let you down,I will make you hurt.”

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Quelle immagini le riempono la testa e le feriscono l’anima, si susseguono disordinatamente senza un inizio né una fine. Le tolgono il respiro, mentre i battiti del suo cuore si fanno ancora più ravvicinati, preda del gelo che le sconvolge il corpo e le impone ostinatamente di tornare a casa per riprendere la sua amica dal pavimento e relegare fugacemente nel buio i pensieri di odio e i ricordi d’amore, per uccidere il rancore e l’invidia che prova verso la ragazza che giace addormentata da qualche parte, sotto la sofferenza, al di là della ferita che le è stata inferta, quella ferita quasi mortale che avrebbe fatto meglio a ucciderla davvero.

“I wear this crown of thorns,upon my liar’s chair,full of broken thoughts,I cannot repair.”

Se non fosse uscita.Se fosse andata a letto presto.Se fosse stata più attenta.Se fosse andata a sinistra invece che a destra.Se avesse urlato più forte.Se avesse prestato più attenzione ai dettagli.Se gli avesse strappato il passamontagna.Se avesse provato a difendersi di più.Se avesse lottato anche a costo di morire per sottrarsi a tutto quel

dolore, invece di pensare a salvare quella vita che ora per lei non ha più valore.

Troppi se...Non sa ancora per quanto potrà sopportarli.Non ha nessuno e non c’è nessuno che vorrebbe accanto, eppure le

mancano tutti.Non ha più sogni, eppure quando chiude gli occhi rivede tutte le

sue speranze e a volte, anche se solo per un istante, le sente di nuovo proprie come un tempo.

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Non ha colpe, ma si sente colpevole.Non vuole ricordare, ma non può dimenticare.Vuole andare avanti, ma è bloccata dove si trova.

Troppe contraddizioni...

Le scoppia la testa.

Accende la radio.

“Beneath the stains of time, the feelings disappear.”

Una voce maschile, ruvida e potente, segnata dal tempo e dalla sofferenza le racconta una storia troppo simile alla sua per poterla distrarre dai ricordi che la tormentano.

“You are someone else, I am still right here.”

È la voce di una persona che ha ferito ed è stata ferita, come lei.

“What have I become?My sweetest friend...everyone I know,goes away in the end.”

Un dolce sottofondo di chitarra accompagna la voce dell’uomo; in essa galleggiano i ricordi di una vita, annaspano in cerca di ossigeno, non vogliono morire.

Proprio come quelli che continuano a urlare nella mente della ragazza.

“And you could have it all,my empire of dirt,I will let you down,I will make you hurt.”

La vista le si annebbia, tenere l’auto sulla sua corsia diventa sempre più difficile, le macchine in corsa in direzione opposta la

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abbagliano con i loro fari che fendono il buio, i guidatori le fanno cenni inferociti e suonano il clacson a ripetizione.

Le gira la testa, le lacrime le pungono gli occhi affaticati e gonfi, il suo corpo trema selvaggiamente; la pelle nera del volante si fa sempre più scivolosa e le sue dita, madide di sudore glaciale, si stanno intorpidendo.

Alza il volume della radio, le note malinconiche della canzone risuonano nell’abitacolo.

La macchina slitta sull’asfalto scuro, illuminato da rarefatte pozze di luce arancioni che le danzano davanti agli occhi, ferendole le pupille come aghi; come l’ago della siringa che la sta aspettando a casa, sulla moquette stinta che riveste il pavimento.

Non vuole tornare a casa.Non vuole ferirsi ancora.È sul ponte ora...

Un pensiero si fa strada fra gli altri, come un’onda che risale un mare ribollente: non deve per forza tornare a casa, a quella siringa, a quella segreteria sempre muta, a quella vita mesta e vuota.

Accelera più che può; il pedale sfugge al suo piede nudo; gira furiosamente il volante di lato, mantiene a malapena il controllo della vettura.

Le basterebbe un istante per affidarsi finalmente a un vuoto diverso da quello in cui vive, un vuoto senza più dolore, per scomparire nell’oblio, per dimenticare tutto, per non avere più nulla da ricordare, per non ferire più nessuno e per non venire più ferita.

Gettare la macchina giù dal ponte...

Che cosa sarà mai la sofferenza della morte se paragonata a quella della vita?

Un tuffo nel fiume di cui non può vedere il fondo, un attimo per increspare la sua superficie nera come catrame e poi la fine, la tranquillità, il riposo senza più memoria, senza più dolore.

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La ragazza si concentra sulla musica che le riempie le orecchie, sul dolore che può sentire nella voce dell’uomo.

All’improvviso qualcosa in lei cambia. Pigia con forza sul freno. L’auto perde gradualmente velocità. Tutto il suo corpo tremante viene spinto in avanti.

Il suo volto incrostato di lacrime e saliva sbatte contro le braccia che lo riparano per un soffio dallo schianto diretto con il volante.

Intorno a lei i pochi mezzi che transitano sulle due corsie si aprono in due ali per lasciarla passare; sul ponte regna il caos.

“If I could start again,a million miles away...”

Qualcosa nelle parole appena ascoltate ha fatto breccia nel muro di tenace rassegnazione che l’ha quasi consegnata alla fredda stretta della morte.

Quella che sente è la voce di un uomo vecchio e stanco, alla fine del proprio percorso, alla fine della propria vita.

Un uomo pieno di rimpianti che darebbe qualsiasi cosa per tornare indietro, per avere un’altra occasione.

“I would keep myself,I would find a way.”

Dopo essersi ferita tante volte, deve a se stessa un’altra possibilità.La sua vita non è finita; quella ragazza e i suoi sogni possono

ancora essere ritrovati, possono ancora essere salvati.Quella ragazza è lei.Non tornerà a casa dalla sua siringa, ma non getterà nemmeno la

macchina giù dal ponte.Non tenterà più di dimenticare il suo passato, cercherà di conviverci.La ragazza alza gli occhi pieni di lacrime verso la luna bianca, un

sorriso debole le sfiora le labbra.Se c’è una cosa che non dimenticherà mai è questa canzone e

troverà a tutti i costi il modo di tenersi stretta se stessa.

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MiseryErika Marzano

Misery – The Maine

Looking for miseryBut she found me lying naked on the floorI was heading insane,the devil told me his namebut he’s not welcome here anymoreStay away sweet misery!

Ormai la mia vista era quasi completamente annebbiata dal tanto fumo, non riuscivo a guardare al di là del mio naso. Dove prima c’era il soffitto giallognolo con le macchie di umidità e muffa, ora vedevo bizzarre figure roteare e poi sparire.

Sentii la sua risata, lei era sdraiata accanto a me sul pavimento che ora non sembrava più così freddo e duro. Mi voltai; sotto la cortina di fumo, alla mia destra, c’era lei: i capelli ossigenati quasi bianchi che poi a metà diventavano viola, le mani sul viso a soffocare l’ennesima sghignazzata; ancora più a destra, accanto, il mio migliore amico tirava boccate da quella sigaretta rollata male e scoppiava a ridere a intermittenza ogni pochi secondi. Anche lui, come me, a torso nudo sul pavimento.

Con un gesto mi passò la sigaretta, tirai solo una boccata e gliela restituii. «Ragazzi, questo è il giorno più bello della mia vita!» esclamò lui,

Alex, tra una boccata e una risata. «Ma lo era anche ieri» squittì lei. «E il giorno prima ancora» continuai io. «Ah sì? Be’ buon Natale a tutti.»

«Alex, Natale è ormai passato. Dammela, fumare troppo ti fa male.»Gli strappai la sigaretta di mano e la spensi schiacciandola sul

pavimento. «È solo tabacco, giuro!» cercò di giustificarsi mentre rideva. Tabacco o meno era stato l’alcol a fare effetto su di noi e renderci tutti euforici, per dimenticare.

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Tutto era rimasto così come l’avevamo lasciato. Tornati dal nostro turno io e Sam fummo bloccati dal padrone di casa, tale Harry Munnigan, che ci sbarrò la strada. «Fate di nuovo casino e giuro che vi butto fuori a calci! Non mi interessa se siete sempre puntuali coi pagamenti, dal primo giorno vi ho detto niente rumori molesti.» Richiuse la porta del suo appartamento di scatto, proprio come l’aveva aperta sentendoci varcare la soglia del portone.

Salimmo le scale silenziosamente, uno accanto all’altra. Tirai fuori le chiavi dalla tasca posteriore dei jeans ma Sam mi fece cenno di fermarmi ostruendomi il passaggio con un braccio.

«È aperta» mi sussurrò lei. Spinsi leggermente l’uscio col palmo della mano.

Alex si stava fumando l’ennesima sigaretta della serata disteso mezzo nudo sul pavimento. L’avevano picchiato ancora una volta, parte del corpo era viola livido e l’altra era bianca pallida.

I vestiti erano sparsi a terra, armadi e cassetti aperti, il materasso e i cuscini del nostro unico letto sventrati, foto e poster staccati dalle pareti e accartocciati, i fogli in mille pezzetti, il lavandino era stato rotto e ora allagava il mini bagno, la tenda della doccia era stata ficcata con forza nel water, la grande bandiera americana che avevamo appeso al muro dietro la scrivania era squarciata e giaceva sulla scrivania. Al suo posto, nel bianco, era stato scritto con della vernice a spray “Il tuo debito è estinto”.

Alex sembrava essere tornato in sé. «Si è arrabbiato per niente. Gli ho semplicemente detto “Non è colpa mia. Se le droghe non funzionano probabilmente ne hai solo bisogno di altre”.»

«Smettila di giustificarti» sbottai io. «Era ora di dargli quello che aspettava da tempo, solo che noi ci andiamo sempre di mezzo.»

Chiusi gli occhi, non volevo discutere. Non volevo pensare.Feci appena in tempo a sentire Alex uscire tirandosi dietro la porta.

Era un po’ che non guardavo fuori dalla finestra. Tutto grigio. Le strade erano vuote e silenziose, sembrava tutta un’altra città rispetto a pochi giorni prima, giorni di festa.

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Faceva freddo, ecco il perché di tutto quel fumo in camera. Non erano solo le sigarette di Alex, era il nostro respiro. Afferrai Sam per mano e lei appoggiò la testa sulla mia spalla mentre cercavamo in qualche modo di rimediare al caos. «Ethan, quanto tempo è che ci conosciamo?»

«Dieci, undici anni forse.»«Perché il tempo passa così in fretta? Ricordo ancora noi tre, nel

tuo giardino, mentre nascondevamo la nostra scatola dei ricordi giurandoci l’un l’altro che saremmo tornati, cinquant’anni dopo, a riprendercela. Promettendoci che non ci saremmo mai lasciati.»

«In cinquant’anni può cambiare tutto. Forse non torneremo nella mia vecchia casa e, per ora, siamo ancora insieme noi tre. Non sono certo io quello che vuole dividerci, se è questo che vuoi sentirti dire.»

«Non voglio sentirmi dire niente, solo che certo tu non lo aiuti.»«Io non lo aiuto? Magari lui dovrebbe aiutarmi ad aiutarlo. Non

credi che abbiamo sopportato anche troppo le sue porcate, Sam? Siamo passati sopra quando abbiamo scoperto che era diventato uno spacciatore, siamo passati sopra quando abbiamo scoperto che era ormai diventato schiavo di quelle pasticche e lo abbiamo disintossicato, ma adesso basta! Hanno distrutto tutto in casa nostra! Credo sia arrivato il momento di cacciarlo.»

Trascorremmo la notte intera a cercare di rimettere in ordine l’appartamento, nessuno di noi fiatò.

Alex non si fece rivedere se non la mattina dopo quando trovò me e Sam stremati stesi su quel che rimaneva del nostro letto. Silenziosamente cominciò a riempire un vecchio e logoro borsone blu con la sua roba. Il movimento mi svegliò; a fatica aprii gli occhi.

«Che fai?» gli chiesi sussurrando per non svegliare Sam.«Quello che avresti voluto tanto tempo fa, Ethan. Me ne vado.

Lascio Sam e te soli soletti a continuare a vivere la vostra vita tranquilli, senza di me, senza difficoltà. Mi dispiace dei problemi che vi ho procurato finora. Se rimango qui sono sicuro che farò bruciare o forse demolire la casa, insomma so che succederà qualcos’altro e voi verrete coinvolti.» Forse stava piangendo, forse no. Non riuscivo

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a distinguerlo chiaramente dietro il suo occhio nero. Si era fermato un attimo, aspettava che parlassi, magari che lo trattenessi.

«Bene» conclusi. «Chiudi la porta prima di andare via» e tornai a dormire, o meglio a far finta di dormire perché chiusi semplicemente gli occhi.

Sapevo di averlo ferito e forse era proprio quello il mio intento.

Quando mi svegliai, Sam era già in piedi e mi aveva preparato il caffè nell’unica tazza rimasta intatta dopo l’incursione degli “amici” di Alex.

Mi sedetti sul letto e sorseggiai il liquido scuro; la osservavo andare su e giù per il monolocale preoccupata. In una mano stringeva un bicchiere fumante dal quale penzolava una bustina di tè, nell’altra il cellulare di cui guardava ossessivamente il display. I suoi passi a piedi nudi riecheggiavano sulle assi del parquet scadente. «Sono preoccupata, Ethan.»

«Che succede?» le domandai continuando ad assaporare il mio caffè.«Alex non è tornato stanotte e non riesco a contattarlo. Prima ha

chiuso il telefono e adesso è irraggiungibile, deve averlo spento.»Sam aveva raccolto i capelli in una coda di cavallo un po’ storta e

indossava una mia vecchia t-shirt bianca con una stampa divertente.«Sam, Alex se n’è andato» le annunciai calmo.Lei si bloccò, le vidi gli occhi riempirsi di lacrime e l’espressione

trasformarsi completamente.«Cosa dici? L’hai fatto veramente? L’hai mandato via? Credevo

stessi scherzando. Io… io credevo fossi diverso! E invece no, sei come loro! Come quelli che lo hanno picchiato.»

Le fermai le braccia afferrandola prima che mi colpisse; poco dopo lei mi abbracciò e crollò a terra stremata.

«Non l’ho cacciato io, Sam. Se n’è andato di sua spontanea volontà.»«Ma tu non l’hai fermato» singhiozzò tra le lacrime coprendosi gli

occhi.«Ha capito che ci creava solo preoccupazioni.»«Devi trovarlo, Ethan. Devi riportarlo qui. Devi convincerlo.»

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Sam sapeva benissimo che non avrei resistito ai suoi goccioloni e agli occhi rossi ed eccomi qui, come ai vecchi tempi, a vagare per la città in cerca del mio migliore amico.

Buffo come Alex non avesse trascorso nemmeno ventiquattro ore fuori di casa e già gli avrei chiesto di tornare. Cosa avrei dovuto aspettarmi, dopotutto? Non sapevo già dall’inizio come sarebbero andate le cose? Questa situazione mi fa pensare a quanto è indovinato il tatuaggio che ci siamo fatti tutti e tre l’anno che siamo andati a vivere da soli. Riassume sicuramente tutta la nostra condizione. Che ragazzi depressi che eravamo noi tre; da bambini con i nostri sogni e le nostre certezze; maturati siamo diventati adolescenti ribelli ma demoralizzati dalle rivoluzioni silenziose che sono passate inosservate mentre si nascondevano nel loro minuscolo buco. Ora da teenagers cresciuti restiamo fedeli al nostro squallore. “Cercavamo la miseria ma lei ha trovato noi stesi nudi sul pavimento”, queste le parole incise sulla nostra pelle.

Anche se era giorno c’era poca luce in giro. Ancora pochi passi e sorpassai un pub; due clienti erano già lì fuori, uno tremava e l’altro cercava di riscaldarsi le mani con l’alito.

Mi strinsi ancora di più nella giacca.Conoscevo il rifugio di Alex, l’avevo ripescato lì parecchie volte

dopo qualche trip andato male.Al molo c’erano solo un paio di pescatori mezzo addormentati che

se ne stavano immobili a osservare il mare grigio e sporco. Mi arrampicai sul muretto; Alex era seduto sul ciglo con le gambe a penzoloni verso il mare, gli scogli sotto di sé e la borsa blu accanto.

Si stava rollando una sigaretta. Non si voltò né si mosse quando mi sedetti accanto a lui.

Però parlò. «Odio la gente. La gente è mia nemica. Chi dice che solo i buoni

muoiono giovani? Anch’io posso farlo. Se voglio.»«Non morirai giovane, Alex. Non te lo permetterò.»«Siamo dei fuori di testa, noi tre. Non è vero?» Risi insieme a lui e annuii per mostrare il mio consenso.

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Avvisata da un sms, Sam ci raggiunse poco dopo. Io e Alex eravamo rimasti in silenzio tutto il tempo e la situazione non cambiò quando anche lei si aggiunse al gruppetto.

Sam “cadde” tra le braccia di Alex prima ancora di riuscire a proferir parola.

«Siamo intrappolati in questa nostra esistenza. Sì, siamo costretti perché non abbiamo altro luogo dove poter vagare, cazzo» fu l’unica cosa che disse Alex.

Sta’ lontana da noi, o dolce miseria!

I’ve got excuses for all these things that I tried in my lifeLooking for misery but she found me

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Quanti anni haiRoberta Cadorin

Quanti anni hai – Vasco Rossi

Lulù LulùLo scrivo con la penna rosa sul mio diario.«Fai passare Lulù» così aveva detto a Francesca, la bibliotecaria.Non avevo mai visto un uomo della sua età in biblioteca. Lì si

incontrano solo donne e vecchi.Invece lui era lì. Davanti a me. Nella coda, stranamente lunga,

delle sette di sera.Ero andata in biblioteca per studiare. Forse è meglio dire per

fuggire da casa. Non avevo voglia di discutere con mia mamma. Le solite domande: «Cosa hai fatto? Hai mangiato? Hai studiato?»

Mai una domanda sulla mia felicità. Su come mi sento veramente. Ho un’anima. Un’anima fragile che tutti stanno massacrando. Cosa ne sa lei delle mie giornate. Cosa ne sa del fatto che mi ritrovo davanti allo specchio alla ricerca di domande a cui lei non può rispondere.

Ero fuggita da casa per trovare anche quelle risposte.Avevo pochi esercizi da fare. Virginia mi aveva proposto un giro

per il centro commerciale. Provare scarpe e vestiti. Non erano quelle le risposte di cui avevo bisogno.

«Sono indietro con italiano» le avevo risposto distratta.Lei, più distratta di me, aveva accettato la mia scusa. Una che ha

nove in italiano non può essere indietro.Ero finita nella biblioteca della circoscrizione. Non volevo

incontrare le solite facce note e quella biblioteca era solitamente vuota di studenti. Troppo piccola e troppo anonima.

Con l’i-pod alle orecchie avevo finito matematica troppo velocemente. Non volevo rientrare. Mi ero guardata attorno, annusando quell’odore di libri che respiri solo in biblioteca. Un

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odore di vita vissuta, racchiusa dentro un romanzo. I libri in libreria hanno un altro profumo. Profumo di nuovo. Profumo di qualcosa che deve ancora venire.

“L’età di Lulù”.L’avevo preso in mano guardandomi intorno. Alice mi aveva detto

di aver visto un vecchio film. Era un film erotico. Virginia e io eravamo curiose. Curiose di sapere com’era il sesso raccontato in un libro. A quindici anni le uniche conoscenze sono i racconti volgari dei tuoi compagni di classe.

Avevo preso distrattamente altri due libri, per infilarlo in mezzo. Mi bruciava tra le mani. Non volevo che la gente vedesse cosa stavo prendendo.

Ero andata in fila. La biblioteca stava per chiudere.Avevo la guance rosse. Dovevo calmarmi. Fare finta di niente.

Non volevo che gli altri percepissero il mio imbarazzo.Lui era lì, davanti a me. La coda troppo lunga. Quando sta per

toccare a lui, gli suona il cellulare.“Che sfigato, come si può portare il cellulare in biblioteca” avevo

pensato.L’avevo pensato prima che si girasse a guardarmi. Due occhi di

ghiaccio, da lasciare senza fiato.Il suo sguardo aveva indugiato prima sul mio volto, dentro i miei

occhi. Per poi scendere fino ai libri. Erano stati pochi secondi, ma il tempo si era fermato per un’eternità.

Lui continuava a parlare al telefono, anzi ascoltava.«Prego Lulù» mi aveva sussurrato.Si era spostato di lato per farmi passare. Il cuore era a mille. La

faccia definitivamente in fiamme.«Ciao Valeria.» Francesca mi fissava negli occhi.Le avevo sorriso. Non riuscivo a parlare. Lo sentivo dietro di me.

Sapevo che mi stava guardando. Sentivo la sua voce. I suoi «Sì, va bene» ripetuti all’infinito.

I libri erano scivolati dentro il mio Eastpak. Potevo andare. Mi ero voltata verso di lui.

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«Grazie» gli avevo detto. Non so come avevo fatto. Non so come la mia voce fosse uscita.

Lui aveva alzato la mano. Io ero scappata.Non avevo mai visto un uomo così bello.Fuori diluviava. Mi ero infilata sotto la pensilina del bus. Avevo

indossato l’i-pod, selezionando la play-list di Ettore, il mio deejay preferito.

«Ti istruisco io sulla musica.»Si era fissato con Paolo Conte e mi aveva costretto ad ascoltarlo

per tre volte senza giudicare. La terza volta avevo cercato su internet i testi delle sue canzoni. Avevo trascritto sul diario stralci di “Via con me”, “Cosa sai di me”, “La milonga”, “Sotto le stelle del jazz”.

Improvvisamente le parole in musica si erano trasformate in poesie. Se per molti Conte era noioso per me era un grande poeta.

“…lo spettacolo d’arte varia di un innamorato di te…”Pura poesia.Guardavo la pioggia, ascoltavo la musica e pensavo all’uomo che

avevo incontrato.Chi era? Cosa faceva?Avevo cercato di guardare cosa teneva in mano. Non ero riuscita a

identificare niente. Tutto era stretto sotto la sua ascella. Io non volevo continuare a fissarlo. Cosa avrebbe detto? Una bambina che osserva un uomo. Che ridicola. Perché allora continuavo a pensarlo?

Dovevo togliermelo dalla testa. Mi ero chinata sullo zaino a cercare il diario.

Un movimento d’aria mi aveva fatto capire che qualcuno era dentro la pensilina con me. La musica a palla nelle orecchie.

Mi ero girata, non volevo essere d’intralcio. Fuori pioveva.Lui era lì che mi sorrideva e non diceva niente.Avevo tolto le cuffie, con un gesto meccanico. Mia mamma mi

urlava sempre «Togli quei cosi» e io non l’ascoltavo.Con lui era stato tutto normale. Tutto perfetto.«Ciao Lulù, scusa per prima, sono stato davvero cafone.» Una

voce roca.

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Forse troppe sigarette.«Posso darti un passaggio. Con questo tempo l’autobus chissà se

arriverà.» Si era messo a ridere.I suoi occhi erano diventati due fessure. Magnetici anche così.«Grazie, volentieri. Anche perché se arrivo tardi a casa chi la sente

mia madre.»Non potevo dire niente di più infantile.«Ha ragione, anche io mi preoccuperei se non ti vedessi arrivare

con questo tempo.»Che carino!«Ho la macchina proprio davanti, aspettami qui se no ti bagni. Ti

vengo a prendere, due minuti.»In un decimo di secondo avevo pensato che in due minuti

l’autobus sarebbe potuto arrivare e io non avrei avuto più scuse per salire su quella macchina.

«No. Vengo con te. Per due gocce.»Non mi ero nemmeno resa conto di avergli dato del tu. Agli

uomini come lui davo sempre del lei. Ma con lui era diverso. Come lo conoscessi da sempre.

Mi aveva guardata. Mi aveva preso la mano e aveva iniziato a correre verso la macchina. Io correvo e pensavo solo che avrei voluto fuggire via con lui.

Mi aveva aperto la portiera e mi aveva fatto entrare. Gocciolavo. Avevo paura di bagnare dappertutto.

Lui era salito. Sembrava un ragazzino, così bagnato.Avevo messo lo zaino in mezzo alle gambe. L’avevo guardato.«Dove abiti?»«Via Dante» avevo risposto.«Ottimo. Sei pronta?»La sua macchina sapeva di lui. Profumava di fumo.Era diversa da quella di mio padre, sempre in ordine. Mi ero

guardata intorno e ovunque erano sparsi libri e fogli.Lui aveva visto il mio sguardo indagatore.«Scusa il casino, sono appena tornato da un incontro di lavoro.»

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«Figurati, camera mia è ben peggio.»«Cosa ascoltavi?» Aveva indicato il mio i-pod.«Paolo Conte» avevo detto con una punta di orgoglio nella voce.Sicuramente lo conosceva e lo adorava, vista l’età.«Ma è roba da vecchi!» Si era messo a ridere, fissando la strada.

«Quanti anni hai?»«Quindici anni.» Ero quasi offesa. «E poi Paolo Conte non è da

vecchi, è un poeta. Se non lo conosci non puoi giudicare.»«Lulù io con Paolo Conte ho suonato per due anni. È un grande.»

Si era girato a guardarmi. «Dicevo solo che è strano che una bambina ascolti uno come lui.»

«Scusa, non avevo capito. Ma davvero hai suonato con lui? Raccontami tutto!» Ero elettrizzata. Oltre a essere un gran figo, era pure musicista.

Avrei voluto che la strada non finisse mai. Avrei voluto non arrivare più a casa.

Mi aveva raccontato tutto del suo lavoro. Faceva il sassofonista e Paolo Conte l’aveva voluto per una piccola tournee locale che aveva fatto in Piemonte. Per uno di Asti era stato un onore.

Chissà Alice cosa avrebbe detto quando le avrei raccontato tutto.«Dove abiti?» La sua voce mi aveva risvegliato dai miei pensieri.Mi ero completamente rilassata.«Numero 15, quel portone laggiù» gli avevo indicato.«Cosa fai stasera?» mi aveva chiesto.«Non lo so» gli avevo risposto, anche se in realtà avrei voluto

dirgli: «Stare con te. Sempre. Tutta la vita. Sentirti parlare per ore della tua vita, di te. Guardare i tuoi occhi.»

«Meglio che non esci» mi aveva risposto; «con questo tempo meglio starsene a casa a leggere.»

Non avevo replicato, non era ciò che avrei voluto sentirgli dire.«La notte non è sicura» mi aveva detto quasi sovrappensiero.Io lo avevo guardato. Avevo aperto la porta.Prima di scendere gli avevo dato un bacio veloce sulla guancia.«Grazie.» Ed ero scappata.

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Prima di chiudere la portiera avevo sentito solo: «È stato un piacere Lulù…»

Lulù, Lulù ora scritto con la penna verde.Devo chiamare Alice.«Quanti anni hai?» ti avevo chiesto con paura.Mi avevi risposto di getto, come fossi offesa, come nemmeno tu

pensassi che quindici anni erano niente. Una bambina, avevo pensato, però ti guardavo e vedevo una donna.

Erano anni che non entravo in una biblioteca. Avevo bisogno di un vecchio testo di Prevert. Un testo in francese, per una canzone che dovevo comporre.

In libreria mi avevano detto che ordinandolo avrei dovuto aspettare due settimane. L’ispirazione non può aspettare due settimane.

Così mi ero ritrovato sperduto in quella piccola biblioteca di quartiere. Un piccolo gioiello che profumava di vecchio e di vita. La bibliotecaria aveva cercato sul computer il testo. Mi aveva detto dove trovarlo. Mi guardavo intorno confuso e perduto. Poi avevo incontrato la tua schiena, il tuo profumo. Avevi preso da uno scaffale “L’età di Lulù”. Quanti anni erano passati da quando l’avevo letto, da quando avevo visto il film di Bigas Luna.

Avevo sorriso della tua intraprendenza. Avevo sorriso al me di molti anni fa.

Mi ero perso a guardarti, ma la biblioteca stava chiudendo. Non c’era tempo. Avevo preso il libro e mi ero messo in coda.

Il cellulare aveva iniziato a vibrare. Avevo guardato il display. “Emmi”. Non potevo non rispondere. C’era una storia troppo grande dietro quella telefonata. Quella telefonata significava molto più di una telefonata. Mi ero girato e ti avevo vista. Il tuo sguardo di disappunto per un uomo vecchio e maleducato.

«Prego Lulù.»Ti avevo fatto passare, inebriandomi di te.Emanuela mi parlava e io non capivo. Voleva vedermi. Dovevamo

parlare. Dovevamo riprovare. Potevamo rimettere a posto le cose. Io dicevo «Sì, va bene» ma non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso.

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«Questa sera alle otto. Da Barolo.» Aveva chiuso la conversazione.«Sì, va bene.»Avevo spento il cellulare e tu eri andata via.Avrei voluto chiedere di te alla bibliotecaria ma non ne avevo il

coraggio. Per me eri Lulù.Fuori mi aspettava la pioggia.Ne avevo bisogno. La pioggia mi puliva dentro e fuori, mi dava

quella serenità necessaria ad affrontare la serata. La serata con Emanuela. E allora perché io continuavo a pensare a te?

Poi ti avevo vista. Gli auricolari nelle orecchie, lo sguardo dentro la zaino.

Avevo agito d’impulso.«Posso darti un passaggio…» Avevo tirato fuori la scusa del tempo e

degli autobus sempre in ritardo. Ero patetico, ma avevo bisogno di te.La macchina era un disastro. Il mio progetto aveva invaso tutti i

miei spazi, ma volevo far posto per te.Ti guardavo e cercavo di vedere la bambina che non riuscivo a vedere.Ne avevo conosciute tante di quindicenni nella mia carriera di

musicista, ma tu avevi una strana malinconia negli occhi.Non eri serena. Come fossi alla ricerca di qualcosa.Ascoltavi Paolo Conte e questo mi aveva fatto comprendere che

non eri come nessun’altra.«Dove abiti?» ti avevo chiesto.Quando mi avevi detto Via Dante mi ero reso conto che era a

pochi chilometri. Avevo preso la circonvallazione per perdere più tempo. Per stare con te. Il traffico era intasato.

Avevamo parlato di musica e di sogni. Ti avevo raccontato in poco tempo una vita di lavori e di progetti.

Davanti al tuo portone, avrei voluto ingranare la marcia e partire. Portarti via con me. Andare in collina, nell’alberghetto dove mi ritiravo a scrivere. Ti avrei presa in braccio e insieme ti avrei condotta alla scoperta del piacere. Come Pablo aveva fatto con Lulù. Però sarei stato più dolce. Ti avrei accarezzato. Accarezzato i tuoi seni acerbi, per scendere sulla tua pancia soffice fino al Monte di

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Venere dove mi sarei fermato per toccarti ogni centimetro, fino a quando non avresti più resistito al desiderio. Avrei fatto tutto da solo, avrei giocato con ogni tuo punto per farti comprendere cosa significa un orgasmo. Saremmo rimasti abbracciati. Io pago di te e tu di me.

Ma non potevo. Emanuela mi aspettava. C’era una storia complicata che non potevo lasciar perdere. Non potevo approfittare di te. Soprattutto perché dopo non sarei riuscito a stare senza di te.

Prima di lasciarci ti avevo chiesto: «Cosa fai stasera?» Ero geloso, geloso che qualcuno potesse prendere il mio posto.

«Meglio che non esci» ti avevo detto, «la notte non è sicura.»Tu eri scappata, dopo avermi dato un bacio sulla guancia. Non ero

stato sincero con te. Non ti avevo detto tutto, ma forse tu l’avevi capito.

«Quanti anni hai?» ti avevo chiesto.Ci avevo pensato e avevo pensato ai miei quarant’anni. Erano un

abisso. Un abisso che per me non esisteva. Mi ero illuso che fossero solo pochi di più rispetto ai tuoi, ma stavo illudendo me stesso.

«Lu-lu-lu... Lu-lu-lu» canticchiavo seduto al bancone dell’enoteca.«Cosa canti?» Mi ero girato ed Emanuela era lì.La sua mano sulla mia spalla. L’avevo guardata e nei suoi occhi

avevo visto i tuoi occhi.Non sarei riuscito a dimenticarti così in fretta, mia piccola Lulù.

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Black Rose immortalLuna de Magistris

Black Rose Immortal – Opeth

Lento pianto di malinconica realtà.Soffio sulle lacrime di un sogno. Un irreale tributo agli antichi

ricordi. Violenza. Morte. Ossessione. Lagnoso ululare di una chitarra. Silenzio.

Dal suo trono la Morte si congratula con la mia anima, mi ringrazia per aver posato una nuova vittima sul suo altare. Bello, disteso sul terreno umido, il grazioso cadavere mi guarda: occhi spalancati dal terrore, quello di colei che come ultimo ricordo avrà il mio viso. Ho dipinto Rosa di nero e l’ho bagnata di formalina. Con un pennello l’ho resa immortale.

Piove. Vedo le gocce accarezzare la finestra e le mie guance. Il vinile racconta un grido. Accordi maledetti. E tristi. Requiem.

Poi desiderata pace. Un coro di voci d’angelo. Angeli caduti, che urlano dichiarando guerra al Creatore. Sangue, vendetta, sofferenza. La brama di un riscattato fallo.

Chiamo il tuo nome, nemica del mio essere. Muovo il mio corpo a ritmo, cancello il presente. Lascio che la droga e la musica mi entrino nel corpo. Mi abbandono a quel lamento. Brama sanguinosa di morte.

Cammino per la stanza. Le dita scorrono sugli oggetti che ho intorno. Una lampada. Un coltello. Una sigaretta. L’accendo.

Poi apro la bocca e lascio uscire un grido all’unisono con la canzone. Chiudo gli occhi. Emozione.

Apro gli occhi e li poso su una tela, distraendomi. Una figura femminile mascherata. In piedi, la fisso: è bellissima. Quegli occhi di ghiaccio sotto la maschera nera. Sembrano occhi storti. Li guardo meglio, non riesco a capire quale dei due è il più storto. So che dovrò correggerlo, ma come al solito rimando a un poi che non arriverà forse mai.

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Poco dopo mi accorgo che la canzone è finita. Che l’aria di battaglia di prima è finita con lei. E mi ritrovo da sola, al centro di una stanza. Satana con una sigaretta in bocca che fissa il suo quadro. Inizia un’altra canzone. Mi volto verso la musica. E la spengo. Spengo la sigaretta. Volto il viso verso il cadavere. Il mio quadro non sarà mai così bello. Indosso un abito nero e apro la porta. Esco, pronta a uccidere ancora. Pronta a dipingere ancora.

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Bianco, neroAnna Rita Lisco

In bianco e nero – Carmen Consoli

Mio padre, in fin di vita, si trova al policlinico nel reparto rianimazione. Mia madre è invece in custodia cautelare nel carcere, in una cella dove non ci potrebbe stare neanche un cane di piccola taglia. Io non vedo né l’uno né l’altra da una settimana, esattamente da quando è successo il fatto.

L’avvocato d’ufficio che si occupa del caso mi ha detto di collaborare attivamente con la polizia e di non omettere nulla. Ma mi hanno interrogato almeno dieci volte e sempre sulle solite cose, ho catalogato ogni minima azione, ho rendicontato persino i respiri fatti, attimo per attimo, senza cambiare una virgola. Ogni volta insistono sullo stesso dettaglio. Sono stanca di ripetere che sono stati momenti terribili, che il mio cervello è andato in tilt, che ogni volta che ricordo anche un minimo particolare di quel pomeriggio ho il cuore che va in frantumi e la testa mi esplode. Ma a loro non importa, devono sapere, investigare, avere chiaro del perché e del per come, hanno la maniacale necessità di mettere tutto in ordine, persino gli impulsi più scellerati di un’assassina. L’hanno chiamata così mia madre, eppure l’uomo che ha accoltellato non è morto, giace in un letto d’ospedale con alcune ferite da taglio, di cui una piuttosto profonda che gli ha quasi perforato un polmone. È collegato a macchinari sofisticatissimi e la prognosi è riservata. Mamma non si siederà al suo fianco se dovesse salvarsi; soltanto qualche infermiera di buon cuore gli umetterà le labbra, nel caso dovesse averle rinsecchite. Non ha più nessuno e sua moglie non potrà assisterlo come vorrebbe: quella donna è in prigione per un crimine non commesso, un omicidio fallito.

Ho tra le mani alcune sue foto. Una la ritrae credo a tre anni. Com’era felice. Stringe tra le braccia una bambola di pezza. Ha sempre idolatrato qualsiasi giocattolo che avesse le fattezze di una

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bambina. Bambole di stoffa, porcellana, plastica. L’armadio è pieno di scatoloni colmi di sogni abbandonati dalle bambine. Se veniva a conoscenza che qualcuna nel vicinato era stanca di pettinare la solita figlioccia, era lì disponibile ad accogliere l’orfanella consumata. Sono rimaste perfino le mie di bambole, che da bambina utilizzavo nei modi più assurdi. Come pazienti in attesa di ricovero, come guardiane dei giocattoli posti in giardino o come stracci per pulire gli armadietti. Non sono mai stata la loro mamma per gioco, non le ho mai coccolate, non ho mai raccontato una favola per addormentarle. Come avrei potuto se non vi ero abituata, se non ricevevo mai un bacio, se non ero avvezza ad ascoltare filastrocche o ninne nanne?

Domani andrò a trovarla in carcere. Mi ha detto l’avvocato che il colloquio non durerà più di un’ora e di essere concisa e delicata. Mi ha consigliato anche di portarle qualche indumento, dei libri per distrarla e qualche genere di conforto. Come posso confortare mia madre? Non l’ho mai saputo.

Se mi facessero un quiz sulla sua persona, non riuscirei a rispondere a nessuna delle domande.

Quante ne farei domani, una ventina, una dopo l’altra per confonderla, per non darle il tempo di riflettere, per farla rispondere di getto, così come detta l’impulso.

Le chiederei infinite volte il perché dei suoi ostili silenzi, della sua freddezza, noncuranza e mancanza di un banale gesto di affetto nei miei confronti. Chi le ha insegnato a intrappolare i sentimenti? È stata la nonna a farle conoscere il disamore? Oppure è stato il nonno l’avaro di cuore in famiglia? Io non li ho mai conosciuti, sono morti entrambi prima che nascessi e conosco le loro fattezze soltanto attraverso un paio di foto che mia madre conserva in un album logoro, scollato, dove ci sono una decina di foto che raccolgono la sua giovinezza: una della prima comunione, un paio al mare, qualcuna in campagna o a scuola con i compagni. L’intera sua esistenza si racchiude in quei rettangoli monotoni senza colore, con i visi pallidi e gli sguardi svaniti come i personaggi di alcuni cartoni animati. Una foto del matrimonio chiude l’ultima pagina e mi fa

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tristezza perché da quel giorno di foto non ne sono state più scattate. Io non so com’ero da piccola. È possibile che una donna non senta l’esigenza di bloccare lo scorrere del tempo di sua figlia?

Sfoglio meccanicamente l’album e ritrovo un altro rettangolo della sua storia. In questa foto avrà avuto più o meno la mia età, o giù di lì, comunque non più di vent’anni. Un foulard a pois le avvolge il capo; alle sue spalle si intravede il centro storico di Catania e qualche figura indistinta. Guardo mia madre e rivedo il mio stesso sorriso. Spento, di circostanza. Quello che si utilizza col contagocce soltanto per scattare una foto e che rimane immortalato per decenni in un bianco e nero sbiadito. Quante volte l’ho sentita lontana. Eravamo nella stessa casa, ma in due città differenti. Vivevamo lo stesso scorrere del tempo ma in dimensioni contrapposte, irraggiungibili da entrambe, neanche se lo avessimo desiderato fortemente.

Continuo a cercare nei suoi occhi una risposta, la verità che mi ha negato, il significato della mia esistenza. Ha le mie stesse fattezze e forse siamo troppo uguali come due poli di calamite che si allontaneranno all’infinito.

Quel giorno non avrei dovuto essere a casa. Mi aveva detto di cercarmi un altro posto dove trasferirmi ma, come al solito, ho fatto quello che ritenevo potesse più irritarla. Avevo da poco perso il lavoro e non potevo più pagare il fitto dell’appartamento dove ero mi ero trasferita appena compiuti diciotto anni. Come è triste pensare quanto sia stato forte il mio desiderio di lasciare i miei genitori, di non avere più a che fare con loro, per non sentirli più litigare, dirsi parolacce, lanciarsi addosso qualsiasi cosa che potesse fare male, soprattutto le offese. Ogni volta guardavo il calendario e contavo i mesi, le settimane che mi separavano dalla data della mia salvezza, la mia liberazione da ogni vincolo di sangue, dai ricordi violenti, dalle carezze negate. Invece ho fatto finta di annullarmi, continuavo a tenere sospeso quel filo che ci univa, li chiamavo sovente, tornavo a visitarli ogni volta che potevo. Ero come quel cane che, bastonato a morte dal suo padrone, si rifugia nella cuccia e cerca lo sguardo gelido dell’aguzzino.

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Mia madre mi aveva palesato, una delle rarissime volte in cui si confidava, che i rapporti con papà erano arrivati al capolinea e che erano sul punto di lasciarsi. «Finalmente» avevo sospirato.

Quel giorno, carica come una bestia da soma di tutto quello che mi ero portata dalla vecchia abitazione, avevo suonato alla porta quasi felice, illudendomi che, forse, finalmente avremmo cominciato una nuova vita, soltanto io e lei. Invece ad accogliermi con lo stesso sguardo incollerito fu mio padre, che si meravigliò fin troppo della mia visita.

«Che ci fai qui con quelle borse?»Gli rifilai uno sguardo di indifferenza, forse troppo strafottente, e

lo scansai guardandomi attorno alla ricerca di un appiglio.«Se cerchi tua madre non è qui. E comunque qui non c’è più posto

per te.»«Questa è sempre casa mia.»«Da quando hai varcato la porta non hai più diritto di tornare. Cosa

credi, che qui sia un albergo?»Il tono di mio padre mi raschiò i timpani. Cercai di ignorarlo, di

inghiottire senza assaporare quelle frasi sprezzanti, illogiche.«Mamma mi vuole qui. Anzi so che tu presto te ne andrai via dalle

palle.»Non ricordo dopo cosa è accaduto esattamente. Lo giuro. Provo a

fare il rewind come accade con le videocassette, ma il nastro in quel determinato punto si inceppa. Ho solo nitida l’immagine di quell’uomo riverso ai piedi del tavolo, sanguinante, e mia madre con gli occhi sbarrati, china davanti al suo corpo che stringe un coltello tra le mani convulse.

Ma chi ha scelto il finale di questo film? Chi ha determinato le battute, i gesti, le inquadrature? Ditemi che stiamo tutti recitando una squallida trama da film di serie b, uno di quelli che neanche nelle videoteche noleggerebbero volentieri.

Invece subito dopo la polizia e gli infermieri sono intervenuti per davvero. Hanno bloccato mia madre come si fa con i pazzi, legandole le mani, mentre io cercavo ancora di rendermi conto se stessi sognando quelle scene o le vedessi per davvero.

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Un uomo mi ha detto: «Mi segua.» E ho sceso le scale seguendo dei passi sconosciuti, concentrata su delle scarpe mai viste, su schiene ostili, col ritmo del cuore accelerato come un tamburo impazzito. Mia madre era già scomparsa; feci solo in tempo a vedere la sua sagoma attraverso il finestrino di un’auto che partì sgommando. Di mio padre invece non mi presi cura.

Cerco distrattamente un borsone nell’armadietto della cucina. Come si è ingrigita questa casa. Come è fredda. L’album delle fotografie è rimasto aperto sulla pagina dove è ritratta mia madre a vent’anni, col suo sorriso obliquo. Mi guardo allo specchio e mi accorgo che anch’io sorrido così e che ho gli occhi socchiusi mentre lo faccio. Un metà delle faccia ride e un’altra piange, come è patetica quella ragazza che ho di fronte e che potrebbe sembrare lei trent’anni fa.

Quando l’avvocato mi telefona sono già a letto da un paio d’ore. È quasi l’una e non riesco a dormire. Il dubbio che mio padre abbia voluto accoltellarmi e che mia madre sia riuscita ad arrestare la sua furia e a ferirlo quasi mortalmente mi rode il cervello. Ma io non ho versioni differenti, io non ho bloccato i fotogrammi di quegli istanti, il mio cervello si è rifiutato di registrare consapevolmente. Mia madre sostiene di aver fatto tutto da sola. Io ho paura invece che la reazione sia stata soltanto mia e chi ha usato l’arma siano state le mie mani.

«Ilenia ho da darti una bella notizia. Tuo padre si è svegliato. Non è più in pericolo di vita.»

A quelle parole tremo. Dovrei essere felice ma non ci riesco. Almeno mia madre sicuramente non incorrerà in pene che potrebbero annientarla. Riesco solo a sospirare e abbasso la cornetta ammutolita.

Qualche settimana dopo finalmente il p.m. ordina la scarcerazione e raggiungo mia madre al cancello di quella gabbia di persone deluse, amareggiate, senza più speranze. Si può condurre l’esistenza senza avere l’illusione che la vita potrebbe migliorare? Si può calpestare la capacità del sogno che si possiede da bambini e che ci permette a volte di sopravvivere?

Dopo alcune frasi di circostanza finalmente le chiedo ciò che mi sta più a cuore.

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«Mamma, dimmi la verità. Sono stata io a difendermi da papà?»«Tanto a che serve saperlo? È fuori pericolo. E io rischio poco

grazie alla legittima difesa.»«Non è questo che mi interessa sapere. Mamma, tu ti sei addossata

una mia colpa.»«Se non si fa questo per i figli non ha alcun senso partorirli. Tuo

padre stava per picchiarti con una violenza inaudita, come ha fatto sempre con me, per anni. Quello che gli è successo se lo meritava. Adesso per favore non parliamone più. Torniamo a casa, prepariamo le nostre cose e cerchiamoci un altro posto dove stare.»

Non commento. Non confermo. Mi bastano quelle parole per capire tutto. Che non sempre ciò che sembra nero ha quel colore e che le sfumature possono cambiare, schiarirsi, diventare candide come il lenzuolo di un bambino. Ho compreso. Di quanto grande possa essere l’amore di un genitore e di quanta fatica a volte faccia per uscire fuori.

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AlleluiaGiuseppe De MicheliAlleluia – George Händel

«È arrivataaa!»Strappo la busta mentre l’ascensore sale. Contiene un solo foglio

con poche righe.«Evvivaaa!» urlo, facendo rimbombare l’intero vano.L’ascensore non si è ancora fermato, ma io già sto cercando di

aprire la porta.«Finalistaaa!» sbraito mentre esco al mio piano.Non riesco quasi a inserire la chiave nella toppa.«È arrivata la lettera del concorso, sono in finale» proclamo

mentre giro la terza mandata.Spalanco la porta e per un pelo non spacco la faccia a Luciana che

mi sta venendo incontro nell’ingresso, preoccupata per le urla.«Il racconto è in finale.»Le sventolo sotto il naso la lettera della Segreteria del concorso.«La premiazione sarà al Politeama, sabato prossimo.»«Accidenti. Il Politeama avrà almeno ottocento posti.»«Non nel teatro, nel foyer» puntualizzo; «però... con dieci finalisti

e chissà quanti, magari venti accompagnatori per finalista, fanno già duecento persone. Non ci staremo nel foyer, ci vorrà il teatro intero.»

Mi precipito al computer. Digito il subject della mail: “Nuntio vobis gaudium magnum”.

In indirizzo metto il gruppo degli amici intimi, poi ci aggiungo alcuni altri gruppi di corrispondenti. In totale fanno cinquantasette indirizzi. Troppi? E se poi la mail finisce fra gli spam? Meglio frazionare l’invio in pacchetti di dodici indirizzi per volta, all’ultimo ci aggiungo tre contatti a caso, tanto per arrivare a sessanta destinatari.

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Almeno uno su due verrà. Se anche gli altri finalisti faranno altrettanto saremo trenta amici per finalista: trenta per dieci fa trecento. Non potranno confinarci nel foyer, dovranno aprire il teatro.

Mando messaggi anche in facebook, twitter, linkedIn e a tutti i forum letterari, minimizzando: “Per me è già un successo essere in finale”.

Non è vero, l’importante è partecipare, sì, ma... (parolaccia a piacere)... vincere è molto più bello. Solo i primi cinque racconti saranno pubblicati sulla Rivista Letteraria organizzatrice del concorso. Se non sono fra quelli, col piffero che mi accontento di essere in finale. Pubblicato, anelo a essere pubblicato.

Scorro i nomi dei dieci finalisti. Ne conosco solo due, un maturo professore, dall’eloquio molto classico, e una giovane speranza dalla scrittura evocativa ma piuttosto ermetica. Sono bravi, però più o meno al mio livello. Comincio a sperare in un buon piazzamento.

Alleluia.La sera della premiazione ci rechiamo al teatro in quattro: io, mia

moglie e una coppia di amici. Il foyer è quasi pieno, ma credevo in una partecipazione di pubblico più nutrita. In totale ci saranno un sessanta-settanta poltroncine attorno alla pedana che fa da palcoscenico. Non tutte sono occupate. Troviamo quattro posti contigui nell’ultima fila: gli organizzatori hanno calcolato meglio di me il numero dei partecipanti.

Una presentatrice sale sul palco e annuncia che verranno chiamati per primi i classificati dal decimo al sesto posto.

«Decimo classificato: Pinco Pallino» annuncia. Applausi dal pubblico. Consegna dell’attestato, strette di mano, foto.

Sospiro di sollievo. Una manata sul ginocchio del mio amico: «Fuori uno».

Mi scoccerebbe molto essere fra i non pubblicati. Ma devo soffrire. Verranno pronunciati altri quattro nomi di sfigati. Speriamo che il mio non sia fra questi.

«Nono classificato...» È la mia conoscenza evocativo-ermetica. Diamine! Scrive benissimo. Se lei è solo nona chissà a che livello saranno gli altri. Rabbrividisco.

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«Fuori due» sussurro a Luciana stringendole la mano con il nostro intreccio scaramantico di dita. Il pubblico, frattanto, applaude.

Temo che il prossimo nome sarà il mio.«Ottavo classificato: Tizio Sempronio.»Il chiamato si alza dalla sedia con un sorriso contrariato, riceve il

papiro, si sottopone alla foto di rito. Verrà malissimo, con quell’espressione tirata. L’ottavo posto non lo soddisfa per niente. Be’, se toccasse a me, sorriderei spontaneo?

«Settimo classificato...» Quasi svengo. Per fortuna non è il mio nome. Ma durerà ancora tanto questa agonia?

«Fuori quattro» proclama il mio amico con una pacca sulle spalle.Aspetta a congratularti, cribbio, c’è ancora una posizione da trombato.«Sesto classificato...» ma quanto ci mette a rivelarne il nome ’sta

presentatrice? Quasi non lo sento. No, non lo sento proprio, le mie orecchie si sono chiuse. Sordità freudiana? Vedo mia moglie e i due amici che mi sorridono a sessantaquattro denti e si spellano le mani ad applaudire. Non sono io l’ultimo eliminato? No! Non sono io. Vedo il professore che si alza e si dirige verso il palco, non fa nulla per nascondere la delusione. Saluta il pubblico e allarga le braccia in un gesto rassegnato. Il fotografo lo immortala così.

Pubblicato! Il mio racconto sarà quindi pubblicato. Gonfio il petto d’orgoglio e scambio sussiegosi commenti con Luciana e gli amici: «Non mi interessa proprio il piazzamento. Mi basta la pubblicazione. Quello che verrà d’ora in poi sarà tutto grasso che cola dal banchetto della fama.» Quelli seduti davanti a noi sentono e si girano con espressione di disapprovazione. Devono essere amici di qualcuno degli eliminati. Mi faccio piccolo piccolo e mi propongo di non commentare in alcun modo gli annunci successivi.

«Ora leggeremo il racconto quinto classificato» dice la segretaria, e sul palco compaiono un’attrice e un attore che leggono, teatralizzando con misura, il racconto. Non è il mio. Alleluia.

«L’autore si è riconosciuto?» scherza la presentatrice.Be’, ci mancherebbe anche quello, che non si riconoscesse! Sale

sul palco. Ne viene proclamato il nome, gli riempiono le braccia di

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premi: libri di un editore, un buono acquisto libri di una libreria, targa, bacio dell’attrice e fotografia.

Adesso sotto col quarto posto, speriamo che non tocchi a me la medaglia di legno. Non riconosco le parole del racconto. Alleluia, non è il mio.

Mi guardo attorno cercando di individuare gli altri due della terna finale. Saranno quei due piuttosto eccitati, che si agitano e parlano con voce un po’ troppo acuta? O invece quelli taciturni e composti che simulano indifferenza?

Comincia la lettura del racconto terzo classificato. Magnifica sensazione quella di non conoscere le parole che sento. No, non le ho scritte io. Ora i casi possono essere solo due. Primo o Secondo? Il cuore batte a mille.

Le prime parole del racconto secondo classificato sono miele per le mio orecchie e il mio cuore: non è l’inizio del mio racconto. Alleluia. Ho vintoooo. Luciana quasi piange. L’amico mi sloga la spalla a furia di manate. Quelli seduti davanti a noi si girano e ci saettano sguardi velenosi. Sono senz’altro amici di uno dei battuti. Sorrido perfidamente.

E adesso arriva sul palco l’attrice che leggerà il mio racconto. È molto carina, ha una voce molto bella. La ascolto beato.

Legge:“«È arrivataaa!»Strappo la busta mentre l’ascensore sale. Contiene un solo foglio

con poche righe...”

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Le turbe dell’animaDaniele Coviello

Sweet Dreams – Marylin Manson

Una notte d’inverno, dall’alto di una vetta innevata stretta dalla morsa dei ghiacci eterni, luogo in cui il dolce tepore del sole non penetrava mai, un’antica entità valutò l’operato dell’uomo.

Azaroth, questo era il Suo nome Divino, era un Angelo Primigenio, il secondo inviato dall’Altissimo; il primo fu Lucifero.

Il compito dell’Angelo era quello di creare equilibrio, grazie al Suo senso del buono e del giusto in opposizione alla malvagità del Portatore di Luce.

Per fare ciò, ogni mille anni, l’Angelo Azaroth entrava in empatia con un rappresentante della razza umana e ne carpiva l’essenza dell’Anima.

Ciò che questa volta sentì furono le sensazioni stesse del Male.Azaroth pensò: “Le turbe dell’Anima assillano il mio spirito,

trascinandolo verso l’oblio; oh dolce agonia che col buio mi avvolgi e, a tuo modo, mi proteggi celandomi cose la cui sola visione mi farebbe perder l’intelletto.

Demoni si aggirano nella mia testa, visioni di morte e caos, portatori di distruzione. Creature di puro male, anime dannate, Angeli Caduti, un tempo fieri e impavidi, ora ombre della miseria.

Fame, Guerra, Pestilenza, sono solo alcuni dei nomi che Ti sono stati dati, ma gli uomini mille altri ne inventeranno, partorendo altro dolore, altro caos, nuove forme d’odio e d’angoscia, fino al giorno in cui il Signore della contraddizione non brandirà la Sua spada di fuoco, un fuoco eterno che non consuma; il Signore dell’oscurità, il Portatore di Luce, l’Angelo vomitato dal Regno Celeste a causa della sua superbia e che, in principio, fu Luce per dissipare l’ignoranza umana, portatore della ragion d’essere.

Altissimo, abbi pietà delle nostre Anime Immortali.

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Come possono esseri così meschini e indegni essere stati creati a Tua immagine e somiglianza?

Si nutrono del dolore altrui e godono nel procurarne al prossimo.Governi corrotti dal potere e ingordi di capitali Ti sostituiscono

con il Nuovo falso Idolo, il Denaro.Azioni atroci e riprovevoli sono state compiute in suo nome e altre

ne seguiranno. Nuovi genocidi e nuove stragi incomberanno sulle teste dei puri e loro, spettatori forse innocenti, certamente indifferenti, banchetteranno noncuranti sui Loro cadaveri.

Altissimo, abbi pietà delle nostre Anime Immortali.”A quel punto Illuminato dalla Fiamma Divina della Giustizia

Celeste, Azaroth prese una decisione: decise di immolare Se Stesso e di sacrificarsi sicché l’uomo potesse avere un’altra possibilità; quella degli esseri umani era una razza così giovane, non sarebbe stato giusto non darle un’ultima occasione.

Così l’Angelo Primigenio con lo Spirito colmo d’amore divenne cosa unica col mondo incarnandosi in ogni essere, ogni creatura e ogni cosa.

Adesso spetta solo a noi trovare la via della redenzione, la strada da percorrere sarà lunga e irta d’insidie, ma dentro ognuno splende una piccola luce che a dispetto di tutto non potrà essere mai spenta, la Fiamma di Azaroth, l’Angelo Primigenio.

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Chi fermerà la pioggiaDavide Schito

Who’ll stop the rain – Creedence Clearwater Revival

Parte I. Giorgio

Milano, periferia nord-est.La pioggia insistente delle ultime ore si era trasformata ormai in

una vera e propria bufera. Raffiche di vento sferzavano i deboli alberi incastrati tra i viali asfaltati. Il buio della notte, interrotto dai fulmini che di tanto in tanto squarciavano il cielo e dai fari delle poche auto ancora in circolazione, aveva vinto la sua battaglia contro i lampioni, inesorabilmente spenti.

La Fiat Punto di Giorgio sollevò una nuvola d’acqua, sfrecciando sul lungo vialone a due corsie che costeggia la metropolitana nel punto in cui essa, dirigendosi fuori città, abbandona i tunnel sotterranei per emergere in superficie. I tergicristalli lavoravano alla massima velocità, e la condensa aveva leggermente appannato il vetro riducendo la visibilità.

Era ormai quasi arrivato a casa. L’orologio digitale sul cruscotto segnava le 00.13. La serata, tutto sommato, era andata bene, meglio del previsto. Le premesse infatti non erano affatto buone: dopo il litigio con Elena, l’ultima cosa che avrebbe voluto fare era chiudersi in un pub affollato, con la musica a tutto volume che obbliga a urlare nelle orecchie per farsi capire. Però Andrea, il suo migliore amico, aveva così insistito. «Solo una birretta, dai» aveva detto, e poi era una vita che non si vedevano, così impegnati tra lavoro e fidanzate.

Sulle prime aveva pensato di rifiutare: si sentiva stanco e, a dirla tutta, nemmeno dell’umore giusto. Poi però si era lasciato convincere.

“In fondo una birra in compagnia non ha mai fatto male a nessuno”, e così aveva accettato. Chissà mai che in questo modo non

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fosse riuscito anche a dimenticare, almeno per qualche ora, Elena e le sue menate che l’avevano messo così di cattivo umore.

Già, Elena. Chissà come aveva passato la serata. Durante il giorno non si erano proprio sentiti, non dopo quello che era successo ventiquattr’ore prima.

“Le manderò un messaggio appena a casa” pensò imboccando il controviale. In fondo, sotto l’apparente freddezza che a prima vista suscitava nelle persone batteva un cuore tenero, assolutamente incapace di serbare rancore verso chiunque.

Si ritrovò così, suo malgrado, a pensare a quanto accaduto la sera precedente.

Aveva pianificato tutto nei minimi particolari. Aveva prenotato – due mesi prima, come di prassi – un tavolo per due nel ristorante più romantico della città. Una terrazza dalla quale si poteva ammirare un panorama assolutamente mozzafiato di Milano. Si era caldamente raccomandato con il maître che il tavolo guardasse verso occidente, così da poter godere dello spettacolo del tramonto estivo che conferiva un’affascinante colorazione rosata al marmo bianco del Duomo, sul quale la terrazza aveva una visuale privilegiata.

Nella tasca destra della giacca, poi, aveva in serbo la sorpresa finale per quella serata perfetta: un anello d’oro bianco ornato di una sottile fila di brillanti. Aveva speso quasi lo stipendio di due mesi per comprarlo, ma ne sarebbe valsa la pena. Amava la sua ragazza e ora che il lavoro aveva finalmente ingranato si era deciso a compiere il grande passo.

Peccato che nulla di quello che aveva così attentamente pianificato era avvenuto. E tutto per colpa di Antonella, la migliore amica di Elena.

Tra le tantissime qualità che l’avevano fatto innamorare a prima vista, spiccava quello che Giorgio considerava un grosso difetto: un’insana passione per l’astrologia e l’esoterismo. Questa fissazione, come la considerava lui, le era stata inculcata proprio da Antonella, la quale era convinta di possedere delle abilità, dei poteri, con cui predire o addirittura influenzare il futuro. Ovviamente per lui, dotato di una mente altamente razionale, queste erano solo un mucchio di

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scemenze. Aveva provato a farglielo capire, ma non c’era stato verso. Già in altre occasioni avevano discusso per questo.

Questa volta però la cosa era andata oltre. L’amica, a quanto pare, l’aveva convinta a non uscire di casa perché altrimenti sarebbe successo qualcosa di terribile. Aveva usato esattamente queste parole Elena al telefono: qualcosa di terribile. Cosa, non era ovviamente dato saperlo.

Non era riuscito a trattenere la rabbia. La serata perfetta, per cui tanto aveva lavorato, rischiava di saltare a causa dei deliri di una pazza.

Aveva perso completamente il controllo. Le aveva urlato che era una scema a credere a queste stronzate. Che non poteva farsi condizionare la vita da cose che non esistevano. Eravamo noi, con le nostre azioni, a determinare cosa ci sarebbe successo. Niente Dio, niente progetto prestabilito, niente destino. Solo noi, le nostre azioni, e il caso che le fa incrociare.

Ma non c’era stato niente da fare. Anzi, lei gli aveva pure rinfacciato che il vero problema era la sua gelosia. Era geloso di Antonella e della loro amicizia, e questo suo comportamento cominciava a soffocarla. Gli aveva sbattuto il telefono in faccia e non aveva più risposto alle successive chiamate.

Il giorno dopo, ovvero quello che stava per finire, era trascorso senza ulteriori contatti tra i due. Giorgio era stato impegnato in una noiosissima riunione fino alle sette di sera, e una volta uscito dall’ufficio era andato direttamente all’appuntamento con Andrea. L’unica chiamata che aveva ricevuto era stata proprio quella dell’amico.

Ora però, chiuso in macchina nel pieno di un potentissimo temporale estivo, il pensiero di Elena si era fatto sempre più insistente. Anche se faticava ad ammetterlo anche a se stesso, era anche un po’ preoccupato. “Speriamo non sia uscita, con questo tempo” pensò. E bastò il pensiero del suo sorriso a scaldargli un po’ il cuore.

Mancava poco per arrivare a destinazione. Ma come al solito il parcheggio sotto casa era pieno. Una monovolume rossa aveva appena occupato l’ultimo posto disponibile, così Giorgio, seppur di malavoglia, decise di fare un altro giro intorno all’isolato.

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Nell’autoradio, i Creedence Clearwater Revival si chiedevano chi avrebbe fermato la pioggia.

Il boato di un tuono sembrò voler rispondere che, per il momento, nessuno era in grado di farlo.

Parte II. Elena

Elena uscì dal portone dello stabile di periferia in cui Giorgio viveva con la madre che ormai era mezzanotte passata.

Era andata lì, qualche ora prima, proprio per parlare con lui riguardo al litigio della sera prima. Si sentiva in colpa per averlo trattato male e per aver troncato in modo così brusco la conversazione, oltre che per non essersi fatta sentire tutta la giornata. Ma lei era fatta così: quando si arrabbiava per qualcosa non era tipo da affrontare direttamente la questione. Preferiva ritirarsi, come se il solo passare del tempo potesse in qualche modo aggiustare ciò che le parole avevano rotto.

Dopo aver parlato con la madre di Giorgio, poi, si era sentita ancora più stupida. Se solo avesse immaginato. La cena sulla terrazza, l’anello. Aveva mandato all’aria un piano così amorevolmente studiato solo per una sciocca superstizione. Solo ora se ne rendeva conto.

Forse era tempo di crescere davvero, una volta per tutte. Di liberarsi di quella paura dell’ignoto a causa della quale aveva cominciato a trincerarsi dietro tutte quelle assurdità che tanto affascinavano la sua amica Antonella. Aveva ragione lui, come sempre. Era ora di rendersi conto che siamo noi, e non qualcun altro, a prendere le decisioni che costruiscono il nostro futuro.

Sarebbe stato bello dire quelle parole ora al suo uomo. Se solo fosse stato lì! Invece, come aveva appreso da sua madre, era uscito con quel suo amico, Andrea. Avrebbe voluto aspettarlo, ma poi si era fatto tardi e quindi, nonostante la pioggia sempre più insistente, aveva deciso di tornare a casa. Era in bicicletta ma aveva l’impermeabile, quindi con un po’ di fortuna non si sarebbe bagnata più di tanto. In fondo erano solo dieci minuti di strada, pochi chilometri separavano le loro case.

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Prima di infilarsi nel diluvio, Elena estrasse il cellulare e compose il suo numero. Poi però, prima di sentire il suono della linea, interruppe la comunicazione. Se Giorgio stava guidando verso casa, non voleva certo correre il rischio di distrarlo.

Proprio mentre stava per riporlo nella tasca della giacca, però, lo sentì vibrare. Sarà lui, pensò, e già sulle labbra apparve l’accenno di un sorriso.

Sul display comparve invece il nome di Antonella. Le aveva appena scritto un messaggio in cui la pregava di richiamarla al più presto, che era importante. “Figuriamoci” pensò. “La chiamerò domani mattina. Così le dirò una volta per tutte di smetterla di spaventarmi con quei suoi inquietanti presagi.”

Proprio come il giorno prima. Si sentì di nuovo una stupida a essersi comportata in modo così infantile. Era a casa a studiare, quel pomeriggio, quando il campanello di casa aveva suonato distogliendo la sua attenzione dal grosso volume di anatomia che con tanta fatica stava tentando di assimilare.

Era Antonella. Era entrata in casa di corsa e prima che lei potesse aprire bocca aveva liberato la scrivania dal libro di anatomia, cominciando ad aprire mappe stellari piene di strani schemi e simboli esoterici. Fogli e fogli zeppi di calcoli, date e numeri incolonnati.

A metà tra l’eccitato e il terrorizzato, l’amica aveva iniziato a spiegarle che quella sera sarebbe successo qualcosa di terribile in città. Non poteva aggiungere altro, ma le profezie, combinate con la posizione degli astri e altri parametri di cui adesso Elena non ricordava né nome né significato, avrebbero dato luogo a un evento catastrofico. Per la sua sicurezza, quindi, avrebbe fatto meglio a chiudersi in casa. Aveva pronunciato quest’ultima frase con un tono grave e definitivo che le aveva fatto venire la pelle d’oca.

Non ricordava com’era potuto accadere, sta di fatto che si era lasciata convincere ad annullare l’appuntamento che aveva con Giorgio per quella sera. Tanto, si era detta, al più sarebbero andati al cinema come facevano di solito il venerdì. Avrebbero tranquillamente recuperato la settimana successiva, e lui non se la

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sarebbe certo presa. Anche se spesso la rimproverava per questa sua debolezza che le permetteva di credere a tutto ciò che Antonella le diceva, si era sempre mostrato comprensivo nel concederle gli spazi che lei gli chiedeva.

Quella volta, però, le cose erano andate in modo diverso. Lui l’aveva praticamente aggredita verbalmente. Le aveva dato della stupida, le aveva urlato che doveva crescere. Rimasta spiazzata da questa reazione esagerata, aveva ribattuto, e da lì era nato un litigio che lei aveva interrotto bruscamente, riattaccando il telefono all’improvviso e rifiutando ogni chiamata successiva.

Aveva passato la sera piangendo, senza nemmeno sapere perché.Lei era così: non riusciva mai a scegliere il tempo esatto per le

cose. Quando avrebbe dovuto essere forte e tenere testa, spesso abbozzava, e le parole che avrebbe voluto dire rimanevano sospese in un’intenzione mai concretizzata, se non negli immaginari replay che scorrevano a posteriori nella sua mente. Altre volte invece si scopriva inflessibile su questioni di poca importanza.

La verità era che molte volte Elena si sentiva inadeguata. Verso i suoi, verso l’università che non riusciva a finire nonostante le giornate passate sui libri, persino verso Giorgio che reputava sempre un passo avanti a lei.

Ora però, sotto quel nubifragio, tutti i suoi pensieri erano rivolti al fatto di arrivare a casa prima di prendersi una polmonite. Si allacciò così l’impermeabile, e in sella alla sua bici si immise nella via allagata e resa buia dai lampioni guasti.

Parte III. Epilogo

Giorgio era quasi giunto di nuovo sotto il suo portone quando si rese conto che davanti a sé la strada era sbarrata. La pioggia aveva creato una grossa buca sull’asfalto e un vigile in impermeabile blu stava agitando la paletta facendo segno di deviare verso destra.

Gli sfuggì un’imprecazione: le strette vie che si incrociavano dietro casa sua erano un dedalo di sensi unici. Avrebbe dovuto fare il giro largo, perdendo ulteriori minuti.

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Una volta sparito dalla visuale del vigile, estrasse dalla tasca dei jeans il cellulare e decise di provare a sentire se Elena fosse ancora sveglia.

Elena cominciò a rabbrividire: l’acqua stava iniziando a insinuarsi sotto l’impermeabile, rendendo umidi i vestiti. Per non parlare dei piedi, ormai completamente inzuppati.

Sentì il cellulare che vibrava. Stavolta era una chiamata. Sulle prime scelse di ignorarla, ma pochi secondi dopo aver smesso, la vibrazione ricominciò. Successe una, due, tre volte, dopodiché si convinse a estrarre il telefono per vedere chi era che la cercava con tanta insistenza.

Fermò la bici e guardò il display. Di nuovo Antonella. Stavolta però decise di rispondere. Cominciava a pensare che dietro l’insistenza dell’amica ci fosse davvero qualcosa di importante.

L’impazienza di Giorgio fu smorzata dal suono di linea occupata. “Ciò significa che è ancora sveglia” pensò. “Ma con chi starà parlando a quest’ora?”

Eccolo, il tarlo della gelosia che si faceva spazio tra i suoi pensieri. Quella stessa gelosia che Elena gli aveva rimproverato la sera precedente.

Riprovò altre due volte. Stesso risultato.Intanto un altro fulmine, stavolta molto vicino, illuminò a giorno

la strada. In quell’attimo di luce, fu quasi convinto di aver visto qualcosa a pochi metri dal cofano della sua auto. Trasalì, e il cellulare che ancora teneva in mano gli sfuggì andando a finire sotto il sedile del passeggero.

Elena rispose al telefono ma invece della voce dell’amica sentì un fastidioso brusio.

«Pronto? Pronto? Anto, sei tu? Mi senti?» ripeté. Ma dall’altra parte solo rumore e qualche spezzone di parola, incomprensibile.

La bici era accostata al ciglio destro della strada. Il cappuccio dell’impermeabile le copriva interamente la testa togliendole la visuale periferica.

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Non si accorse dei fari dell’auto che stava sopraggiungendo alle sue spalle.

Giorgio imprecò e si chinò per raccogliere il cellulare.Non poté vedere l’enorme pozzanghera che allagava quasi

completamente la strada.Tenendo il volante con una mano sola non riuscì a mantenere il

controllo dell’auto. Gli pneumatici, incontrando l’acqua, persero completamente l’aggancio con l’asfalto.

Nonostante la velocità della Punto non fosse elevata, lo schianto risuonò nella notte piovosa.

Come dopo il boato di un tuono, l’unico rumore che seguì fu lo scroscio continuo delle gocce sul metallo e sul cemento.

Solo un orecchio particolarmente sensibile sarebbe riuscito a distinguere il ticchettio leggero di una ruota di bicicletta che girava a vuoto, agitata solo dal vento che sferzava i pochi alberi di città.

Quello stesso vento che da una casa nelle vicinanze stava portando il debole suono di una musica.

…and I wonder, still I wonder, who’ll stop the rain…

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L’energia prorompente di una musica

LavellaSo Danco Samba – Stan Getz

Un groviglio di pericolosi cavi elettrici avvolge le fatiscenti baracche ammassate in stretti vicoli maleodoranti. Miseria, povertà, fame, delinquenza, fogne a cielo aperto dominano questo scenario brulicante di persone che vivono le une sulle altre sotto la legge dei narcotrafficanti.

I bambini crescono in questo contesto. Subiscono passivamente lo spettacolo della morte, del sangue e della droga, sniffano colla, non hanno diritto all’assistenza sanitaria e devono prestare attenzione alla polizia che quando irrompe nella favela spara contro tutti, grandi e piccoli.

Quest’inferno dantesco si erge su una collina da cui si può osservare il più spettacolare panorama del mondo: la baia di Rio. Il Pão de Açúcar, la Laguna e il mare offrono uno spettacolo mozzafiato, un incredibile contrasto tra incantevole e aberrante, una contrapposizione che ti lascia senza parole. È come se nell’inferno ci fosse una finestra che affaccia sul paradiso.

Dall’alto il Cristo Redentore domina la scena, la osserva dalla vetta più elevata. Nelle giornate limpide, sporgendosi, potrebbe guardare dentro la favela e coglierne ogni dettaglio.

Ma nascere in una favela significa vivere senza prospettive e senza diritti nell’indifferenza di tutti, anche di Colui che “osserva” dalla vetta più elevata.

Eppure c’è una forza che domina questo mondo attirando in un vortice di energia ogni elemento di questo scenario: è la musica. Tutti sorridono, ballano, suonano e questa melodia resta sospesa nell’aria

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amalgamando il bello e il brutto, il male e il bene, la vita e la morte. Anche il Cristo l’ascolta e di tanto in tanto muove le braccia seguendo il suo ritmo. Bossa nova, samba, canti folkloristici e altri generi musicali sono i veri protagonisti di questo teatro in cui sembra sia possibile tutto e il contrario di tutto. Vecchi jukebox ripropongono vecchie canzoni facendoti compiere un vero e proprio tuffo nel passato.

Mentre sorseggio la mia birra, piluccando la mia tapioca, osservo stordita questo mondo e mi domando perché qualche giorno prima avevo sostenuto di essere infelice. Eh sì, ora ricordo, deve essere stato perché il mio collega mi aveva detto qualcosa alle spalle, inoltre non ero riuscita a trovare la cintura di Gucci e mi avevano anche graffiato l’auto. “Tutte a me succedono” avevo pensato.

Improvvisamente ora tutto mi è chiaro: mentre, per il troppo caldo, mi asciugo la fronte con una salviettina e osservo due ragazzini che si inseguono con dei secchi d’acqua, mi accorgo, con profonda sorpresa, di non avere problemi.

Un bambino mi osserva a distanza e sorride in sordina. È ricciolino, con un neo sulla guancia destra e uno sguardo da furbetto per il quale lo mangerei di baci. Prende coraggio e mi pone una domanda in portoghese: «In Italia avete tutti i denti gialli?»

Rido. Gli dobbiamo proprio sembrare brutti. È proprio vero, i loro denti sono di un bianco abbagliante, sembrano essere stati creati per sorridere.

La Presidente della Onlus lo ammonisce per la sua impertinenza e mi racconta che «è stato appena adottato a distanza da un italiano.» «Con i denti gialli» aggiunge ridendo.

Mi avvicino al bimbo e gli offro una penna colorata. Immediatamente accorrono tutti gli altri bambini. Distribuisco penne a tutti. Molti di loro si rimettono in coda per un secondo giro. Sono bellissimi.

Termino la mia birra scambiando ancora due chiacchiere con la Presidente che mi racconta che ogni volta che c’è un temporale i pericolosissimi cavi vanno in corto circuito, la favela si spegne e la

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notte è illuminata solo dalle candele e dalle lontane luci della città. In quel buio scintillante di candele però puoi sentire il suono delle chitarre, il ritmo dei tamburi e un canto melodioso. Neanche il Cristo Redentore potrebbe più vedere nulla in quelle notti ma può ascoltare la musica che proviene dall’animo della favela e canticchiarla silenziosamente.

La mia visita è finita. Firmo un assegno con la mia offerta, saluto e vado via. La sensazione di non aver fatto abbastanza mi accompagnerà per il resto del viaggio e della vita. Quella di non apprezzare ciò che ho, poi, non mi lascerà mai più. Provo pena per me, per i problemi inutili che a volte mi pongo.

In tutti i miei viaggi, in ogni slum del mondo, in ogni casa-famiglia si riproporrà sempre il mio grande punto interrogativo: da cosa nasce il mio mal di vivere? Cosa mi manca?

Rio è stata la mia prima volta, la prima occasione di ridimensionare la mia eterna insoddisfazione. È stata una grande lezione di vita. Con i loro sorrisi questi bimbi hanno ribaltato tutti i miei punti di vista.

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L’uomo delle notePatrizia Rossi

Wherever you are, you are with me – Marco Mercanti

La luce dei lampioni, tremolante a causa della fitta pioggia che ne fendeva l’alone giallastro, allungava le ombre dei passanti frettolosi.

Le dense nubi, nel cielo della sera, erano cariche di minacciose promesse per la notte imminente, la cui tranquillità conferiva alle case, ai vialetti privati e alle strade poco trafficate un aspetto pacifico dai seguiti magici.

Protetto dal resto e velato nella fumosa coltre, il piccolo paese si sopiva e si preparava per andare a dormire.

Rincasava sempre alla stessa ora, con la sua ventiquattrore tra le mani e la stanchezza sulle spalle; i movimenti, come fossero riti, ogni sera si rinnovavano al suo rientro.

Appena aperta la porta, accendeva la luce e rischiarava l’ingresso di quella grande casa, vuota ormai da un paio d’anni, da quando la moglie e i suoi due figli si erano trasferiti in un’altra abitazione. Quel rapporto finito gli aveva lasciato un vuoto enorme, ma non abbastanza da non permettergli di vivere. Era piuttosto un rammarico, una vena d’irrimediabile delusione che calzava ogni mattina assieme alle scarpe e che pareva riuscire a sedare solo con la sua musica, tra note e spartiti, alcuni di melodie finite, altri lasciati al caso, accantonati tra fogli di appunti incompleti in attesa dell’ispirazione.

Le note lo seguivano nei pensieri silenziosi e in quelli che definiva guizzi dell’estro, nei momenti di maggior stress, quando liberare la mente era un’esigenza e un piacere senza costo alcuno.

Dopo il lavoro, quando le finestre del quartiere brillavano di mille luci ed echi di parole risuonavano tra i vicoli, lui si toglieva il soprabito, accendeva la sigaretta e per qualche minuto sedeva sul divano a riposare ossa e pensieri, pareva godere di quel sottofondo di

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stoviglie e risate nelle case d’altri, nello stesso istante in cui la penombra e il silenzio facevano da padroni in casa sua. Sfilava le scarpe, poggiava i piedi sul baule di fronte a lui, reclinava la testa, respirava rumorosamente, chiudeva gli occhi e si metteva in attesa di nulla se non del suo respiro quieto e la conseguente assenza di tensione.

Mentre la stanchezza pareva abbandonarlo, da dietro le spesse lenti “l’uomo delle note” sembrava ritrovare nuova luce negli occhi, in quella sera tutta da inventare, tutta da vivere, tutta da riempire di nuovi suoni, di messaggeri discreti che dal cuore alle mani portavano fili di musica da intrecciare.

Viveva solo in quella casa. La mamma, al piano di sopra, si occupava di quello che poteva.

Scendeva ogni mattina, dal suo appartamento, per rassettare e preparare la cena per la sera.

Portava via la biancheria e una volta lavata e stirata gliela faceva trovare ai piedi del letto.

Piccoli gesti che l’uomo viveva come carezze, con la gratitudine che solo un figlio può avere verso un anziano genitore ancora tanto premuroso.

Era solito consumare la cena poco dopo il suo rientro, in seguito si metteva comodi abiti per casa e a passo flemmatico raggiungeva il piano, dove si sedeva.

Non amava la TV o la compagnia: era piuttosto solitario e, sebbene avesse un buon carattere e una forte predisposizione all’allegria, usciva di rado e ancor meno riceveva visite.

In quei due anni, nonostante la solitudine che gli era stata imposta ma che aveva di buon grado accettato, aveva rifiutato possibili storie sentimentali, senza per questo disdegnare la compagnia femminile, ma mai impegnandosi seriamente.

Era ritornato alla sua musica: una passione adolescenziale che aveva accantonato a causa degli impegni lavorativi prima e di quelli familiari dopo.

In casa, però, il pianoforte della nonna era rimasto nello stesso posto da sempre, là dove lo suonava anche lei, con mani piccole e veloci, ancora capaci di grandi cose, a dispetto dell’età.

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Nonostante la ristrutturazione degli ambienti, il pianoforte non aveva perso la sua posizione originaria di padrone incontrastato, che aveva avuto fin da quando era entrato sorretto a stento dalle braccia dei facchini.

Se ne era sempre preso cura anche se non gli aveva dato voce per lungo tempo.

Ora erano tornati a essere uno, mentre con mani delicate e abili accarezzava i tasti; la melodia era nell’aria... la musica era signora incontrastata della casa.

Finito di cenare, subito dopo la sigaretta, con un bicchiere di vino come compagno silenzioso, scostava lo sgabello, roteava la testa, sgranchiva le mani e iniziava a suonare. Pareva strano a molti che non avesse nozione alcuna della musica.

Da bimbo aveva iniziato a studiarla, la musica, ma dopo i primi solfeggi si era dedicato a qualcosa di più congeniale alla sua età e alla sua corporatura: il rugby. Aveva così dimenticato le sue velleità artistiche, depositandole come era successo alla polvere sui tasti bianchi e neri.

La sua era una passione di quelle che non si spiegano. La musica era lui e lui era della stessa essenza dei suoni.

Così aveva composto tante melodie, senza una vera e propria preparazione, buttando giù le note, scoprendo di saperle gestire e lasciando che le stesse facessero magia.

Da sempre ignaro di avere spettatori, passava come di consueto le serate seduto al piano, suonando, e interrompendosi di tanto in tanto per sorseggiare il suo “rosso d’annata”.

Se anche gli fosse capitato di distrarsi, spostando lo sguardo dalla tastiera alla finestra, mai si sarebbe accorto di quello che accadeva da qualche tempo nella stanza illuminata della palazzina di fronte.

Viveva in uno stabile con cortile interno, su questo si affacciavano le finestre di vari appartamenti, comprese quelli delle palazzine attigue alla sua che componevano il piccolo comprensorio.

Dietro quella finestra della palazzina B c’era la stanza di una donna, solitaria, schiva, sempre a testa bassa quando la s’incontrava,

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la quale era solita dosare sorrisi e parole con parsimonia. Piccola ed esile nella figura, si era trasferita in provincia da qualche anno. Anche lei separata, ma con figli grandi, passava le serate dedicando tempo alla sua passione: scrivere.

Si era imbattuta nelle soffocate note della finestra di fronte, attutite nel loro libero volo dai vetri chiusi, e le aveva apprezzate da subito, aveva imparato ad ascoltare. Sapeva riconoscere una melodia nascente, udiva il ripetersi di battute e restava incuriosita, seduta alla sua scrivania, con l’orecchio teso per seguire la nascita o l’evolversi di quel concatenarsi di suoni e pause rilassanti.

“Il giusto sottofondo per un poeta!” aveva pensato spesso.Si erano incontrati qualche volta con lo sguardo, di sfuggita nel

cortile interno, al loro rientro, oppure nella stagione estiva, quando casualmente si erano ritrovati entrambi alla finestra.

Sapevano pochissimo l’uno dell’altra, e sorridendo garbatamente si salutavano, rincasando o scomparendo dietro le imposte socchiuse.

Un poeta e un musicista, che strano connubio.Eppure le arti hanno gusti strani, s’insinuano e nutrono anime

senza far caso al sesso, all’età o alla loro malinconica predisposizione.Forse era proprio quello il terreno fertile per l’arte: la malinconia,

che vive morbosa e vincente nel silenzio della notte, nella sinergia di pensieri creativi, nella flebile essenza di vita degli “artisti”.

Ciascuno di loro, senza che l’altro lo sapesse, ripiegava le proprie emozioni: lei su un foglio, tra righe d’inchiostro, lui in quelle più severe ma armoniche di un pentagramma.

Nella loro solitudine apparente, quelle due anime avevano collocazioni ben precise: erano nei sogni e nei desideri, quelli svegli di notte e addormentati di giorno, nei quali riecheggiavano le voci della loro natura.

Fu in una di quelle sere, nella luce della finestra di fronte, che la musica divenne immagini e parole come mai prima di allora.

Al suo tavolo, in compagnia della macchina per scrivere, eredità del padre giornalista, la donna pigramente seguiva al ritmo del battere sui tasti il filo logico di una delle sue tante storie.

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D’improvviso rallentò sino a smettere di scrivere, quindi scostò la sedia dalla scrivania e andò a socchiudere i vetri della sua finestra, quel tanto che bastava per udire meglio.

Era inverno pieno ed essi, entrambi fumatori, avevano la stessa abitudine, quella di lasciare che l’aria densa di fumo nella stanza potesse uscire poco a poco dalla finestra, per questo le persiane di legno delle loro camere erano spesso accostate e non del tutto chiuse.

Le parve di perdere i sensi, tanto sentì d’essere pervasa dalla musica.Con un respiro profondo abbandonò la testa in avanti e assaporò

quei dolci suoni, a uno a uno, come se la raggiungessero sottopelle, come a scompigliarle lievemente i capelli, come solo le mani delicate di un amante avrebbero fatto.

Suono dopo suono, nota dopo nota, tutto le apparve in bianco e nero.C’erano ricordi, soffitte polverose e fili di luce a fendere l’aria.In quella melodia le parole danzavano come esili ballerine sulle punte.Scorse farfalle e ancora veli dal vento scomposti.La mente suggerì alle dita una lettera dopo l’altra. Si diradarono

alberi a scoprire fievoli luci di piccole case dal comignolo fumante, mentre la pioggia tamburellava su tetti e vetri.

Sul foglio che nervosamente riempì di battute vide il volto quieto di un uomo, lo sguardo profondo dei grandi occhi nocciola, le lunghe ciglia. Mentre le sorrideva schiudendo appena le labbra carnose, le parve di sentire la sua voce, in un timido saluto. Le ricordò una persona conosciuta. Parlò di lui.

Scrisse della grande casa dal pavimento di legno, del profumo di bucato appena ritirato e della luce soffusa che con discrezione ne riempiva gli angoli di arabeschi fantasiosi.

La melodia, come una spirale magica, sembrava volerla avvolgere per trascinarla via da quella solitudine, da quella durezza di cuore, da quelle tante parole poetiche senza alba. Scrisse tutto quello che la musica le portava a fior di pelle.

L’uomo delle note la accompagnò senza conoscere le regole del gioco, eppure non perse un tasto, non mancò nota né pausa che non sposasse immagini e battute. Lui, dentro le sue note, stretto alla sua

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chiave di violino, parlò con le mani, e lei fece altrettanto riempiendo sino all’orlo di melodia ogni frase.

Scrisse di emozioni, le sue, femminili e rassegnate, buttate in fondo al pozzo della dimenticanza, e di come queste, con ali proprie, l’avessero raggiunta nuovamente. Accelerò le mani in quel suo meccanico pestare sui tasti, temendo di sentir finire il suono. Legò parola e nota, respiri e spazi bianchi a silenziose pause. Il freddo congelò quella notte, piegando il bordo del suo foglio, fissando sul nero dell’inchiostro l’impalpabile delicatezza di un filo di note.

Strano che avessero perso entrambi la cognizione del tempo. Quella sinergia era scivolata via dalle lancette: non aveva battiti se non di cuori, non aveva sonno per invadere gli occhi, non vi era stanchezza da scrollarsi di dosso. Solo musica e parole.

Il cd non avrebbe mai smesso di suonare, il tasto “ripeti” faceva il suo dovere; come in trance lo aveva ascoltato decine di volte, ma l’improvviso black-out l’aveva interrotta catapultandola nella totale assenza d’ispirazione.

Il buio e il silenzio riempirono in un solo istante la stanza; la batteria le permise, in quei pochi minuti di autonomia, di salvare il documento Word, prima che tutto andasse irrimediabilmente perso.

Scostò la sedia dal tavolo del suo studio, stiracchiò le braccia, come se si fosse risvegliata in quel preciso istante e con un paio di malfermi passi, nel buio, alla sola flebile luce del monitor, si recò alla finestra.

Non c’erano palazzi di fronte a lei, non c’erano stanze dalle luci accese, non c’era suono se non quello sgradevole della frenetica vita notturna nella grande metropoli.

Sotto di lei il caos della città continuava senza sosta, il guasto interessava solo il suo quartiere.

Dal venticinquesimo piano tutto sembrava così piccolo e distante; luci di grandi insegne spadroneggiavano nella notte; auto e uomini, come formiche senza sosta, parevano vivere in un mondo che non racconta parole, che non si ferma per ascoltare musica, dimentico dell’arte; vive in un corpo senza sangue, senza cuore, senza battiti.

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Il suo romanzo era terminato, pronto da inviare al suo Editore.Quella provvidenziale, scomoda interruzione, era capitata nello

stesso istante in cui aveva digitato, sulla tastiera del PC, l’ultima considerazione seguita dal punto; era così immersa nella sua fantasia da non essersene accorta.

Accese una sigaretta che brillò immediatamente nel buio e respirò boccate di fumo con la stessa avidità con cui avrebbe chiesto ossigeno; si sentiva soddisfatta del suo lavoro e della sua capacità di scegliere cd musicali in quella bancarella del mercato rionale.

Da qualche parte, in quello stesso istante, in un paese silenzioso, lontano, in una stanza rischiarata dal lume di candela, “l’uomo delle note” sta suonando la sua musica; ignaro di esser stato “inventato”, sfiora con mani lievi non solo una tastiera ma i pensieri altrui, nati dalla sua stessa musica, distesa ora silenziosamente su fogli virtuali.

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