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SPECIALE LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ Lo spazio è una questione di tempo I GRANDI SCIENZIATI DELLA STORIA EINSTEIN numero 20 7,90

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SPECIALE

LA TEORIA DELLA RELATIVITÀLo spazio è una questione di tempo

I GRANDI SCIENZIATI DELLA STORIA

EINSTEIN

numero 20€ 7,90

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EinsteinLa teoria della relatività

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David Blanco Laserna è fisico e scrittore. Ha pubblicato numerosi libri di divulgazione scientifica fra i quali spiccano le biografie di Vito Volterra e di un’illustre contemporanea di Einstein, la matematica Emmy Noether.

© 2012 David Blanco Laserna per il testo© della prima edizione 2012, RBA Coleccionables, S.A.© 2014, RBA Revistas, S.L.© 2015 RBA Italia S.r.l. per la presente edizione

Joan Pejoan, Infografica

Foto in copertina: Buco nero, ricreazione artistica di Mark A. Garlick; Einstein non credeva che i buchi neri esistessero davvero, ma la teoria della relatività confermerebbe la loro esistenza. Ritratto di Albert Einstein, Corbis.

Foto a pagina destra: Stelle di nascita recente risplendono nella cuspide della nebulosa Cono, a 2500 anni luce dalla Terra, in una immagine ottenuta con il telescopio Hubble, NASA / STCI / Holland Ford, Università Johns Hopkins.

Foto pagine 4-5: Espansione dello spazio-tempo, ricreazione artistica di Moonrunner Design.

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o diffusa senza il consenso dell’editore.

Pubblicazione periodica mensile Anno I - n. 1

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La teoria della relatività

Lo spazio è una questione di tempo

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Introduz Ione 12

caP ItoLo 1 La rivoluzione elettromagnetica 20

caP ItoLo 2 Ogni movimento è relativo 38

caP ItoLo 3 Le pieghe dello spazio-tempo 74

caP ItoLo 4 Le scale del mondo 102

caP ItoLo 5

L’esilio interiore 126

Letture cons IgL Iate 138

Ind Ice 140

Sommario

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Germania, anno zero

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Albert Einstein nacque a Ulm (sopra, vista della città dal campanile della cattedrale), nel Baden-Württemberg, in Germania, il 14 marzo 1879, e studiò a Monaco. Un uomo che sarebbe diventato uno dei fisici teorici più importanti della storia della scienza, un giorno disse a suo padre: «Non farò mai niente di importante».WALTER G. ALLGÖWER / AGE FOTOSTOCK

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Ogni movimento è relativo

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Einstein al California Institute of Technology nel 1931. Il fisico tedesco pubblicò la teoria della relatività speciale molto prima di recarsi negli Stati Uniti, quando era ancora un giovane fisico sconosciuto. La famosa equazione dell’equivalenza fra massa ed energia (E = m c ²) venne dedotta da Einstein come conseguenza logica di quella teoria.BETTMANN / CORBIS

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La nascita di una nuova cosmologia

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Einstein riformulò i principi di base della cosmologia: la gravità non è una forza come tutte le altre, ma è la proprietà della materia di deformare lo spazio-tempo. La sua teoria permetterà di comprendere le caratteristiche essenziali dell’universo.ZONA CENTRALE DELLA VIA LATTEA, STÉPHANE GUISARD, ESO

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Negli ultimi anni Einstein era diventato una sorta di santo laico. Dopo due con-flitti mondiali che legittimarono la guerra chimica e il panico nucleare, l’ammira-zione per il progresso scientifico si era tinta dei colori della paura. Per un’intera generazione disincantata la figura del sag-gio distratto e spettinato che sosteneva il disarmo e predicava l’umiltà intellettua-le nei confronti della natura era divenuta un’ultima opportunità per recuperare la fede in una scienza umanista.

Al massimo della sua popolarità, quando divenne un’icona che faceva le linguacce ai fotografi, Einstein aveva or-mai compiuto settantadue anni. Per allora aveva avuto il tempo di stemperare la mag-gior parte delle sue passioni, con l’unica eccezione dell’ossessione per riconciliare la meccanica quantistica con la relatività. A partire dal 1980 l’accesso alla sua cor-rispondenza privata diede il via alla corsa alla scoperta di un Einstein più umano, certamente più giovane e anche molto

instein visse in un’epoca di rivoluzioni. Per fortuna

non tutte cruente. Se nel XIX secolo la pubblicità

era riuscita a salire sul carro della carta stampata,

all’inizio del XX secolo essa conquistò la radio e,

in pochi decenni, anche la televisione. In tre ondate

successive l’uomo della strada subì per la prima volta, e in tutta la sua

forza, l’impatto dei mezzi di comunicazione di massa. Chi conquistò

la fama in quegli anni restò impresso per sempre nell’immaginario

collettivo: Charles Chaplin, Marilyn Monroe, Elvis Presley, Albert

Einstein… Poi verranno altri attori, musicisti e scienziati che

dovranno però fare i conti con un pubblico meno ingenuo.

E

I N T R O D U Z I O N E

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più complesso. Alcuni rimasero sorpresi nell’apprendere che fosse tormentato da altre inquietudini a parte fumare la pipa, suonare il violino o non indossare calzini.

I punti oscuri della sua biografia ri-guardano principalmente il rapporto con la prima moglie, Mileva Marić, e due dei loro figli, Lieserl, nata in modo semiclan-destino prima del matrimonio e data in adozione, ed Eduard, con il quale man-tenne un atteggiamento ambivalente dopo aver scoperto che soffriva di una malattia mentale. Per molti resta il ritratto di un cittadino esemplare, un pacifista che si oppose alla Prima Guerra Mondiale, al nazismo e al maccartismo, con una vita privata però non priva di macchie.

L’intensità con la quale è stata esa-minata la sua figura inevitabilmente la deforma, un fenomeno che ricorda gli effetti quantistici: l’atto della misurazio-ne influenza a tal punto ciò che si intende misurare che risulta impossibile liberarsi dall’incertezza. La rivista Time lo scelse come personaggio del XX secolo e forse non riusciremo mai a scalzarlo da quel piedistallo, quello di una figura che, nel-la nostra immaginazione, incarna un secolo, con meno diritto al dubbio e ai difetti di chi, come noi, non rappresenta niente e non deve rispondere ad aspetta-tive universali. Per noi Einstein è le due guerre mondiali, il fungo di Hiroshima, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, l’implacabile espansione della conoscenza scientifica, il suo impatto sociale, il sioni-smo, la paranoia del senatore McCarthy, un’infinità di aforismi, E=mc², il sogno della pace mondiale…

Einstein cercò di tutelare la sua inti-mità scrivendo l’autobiografia con meno dati personali mai pubblicata. Nelle prime

pagine inserì una dichiarazione di intenti da allora ampiamente saccheggiata: «Per un uomo nella mia condizione è fonda-mentale cosa e come pensa e non ciò che fa o soffre». È difficile, tuttavia, che la cu-riosità si fermi a un simile avvertimento. In questo libro si stabilirà un dialogo fra le peripezie biografiche di Einstein e la nascita delle sue meravigliose intuizioni scientifiche. Forse, se avesse ottenuto con facilità una cattedra universitaria invece di un lavoro di otto ore al giorno all’Uf-ficio Brevetti svizzero, avrebbe raggiunto comunque le stesse conclusioni, resta però suggestivo ricostruire in quali circostanze lo fece in realtà.

Einstein nacque circondato dall’avan-guardia tecnologica del suo tempo, per-fettamente integrata nel suo ambiente familiare grazie alla fabbrica di lampadine e materiale elettrico del padre.

È curioso che egli illustri la teoria della relatività speciale con esempi presi dalla sincronizzazione degli orologi e una pro-fusione di treni. Durante la sua infanzia e giovinezza le ferrovie divennero il mezzo di trasporto moderno per antonomasia. Le velocità allora raggiunte sulle strade ferrate erano vissute come un’esperien-za tanto inedita quanto stimolante. Negli anni trascorsi a Berna, la sincronizzazio-ne degli orologi fra le città alimentava la passione cronometrica degli svizzeri. È

Nel suo lavoro sulla relatività speciale inizia la sua vera eredità, un nuovo modo di pensare, un’ispirazione per i fisici che lo seguirono.

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possibile che queste circostanze abbiano entusiasmato la stessa immaginazione che diede i natali a una teoria dove si gioca con gli orologi, con velocità che sfidavano l’esperienza quotidiana e cambi costanti di sistemi di riferimento. In seguito i se-greti della gravità si manifestarono gra-zie a un’altra invenzione che, all’epoca di Einstein, era la più perfetta espressione della modernità: «Ciò che devo sapere con esattezza – esclamava – è cosa accade ai passeggeri di un ascensore che cade nel vuoto!».

Nei suoi primi articoli fece mostra del suo dominio della fisica statistica ed espresse al massimo il quadro classico del-la teoria cinetico-molecolare. Il suo lavoro consentiva di comprendere il movimento delle particelle di polvere in controluce, il colore azzurro del cielo e il tremore del polline in un bicchiere d’acqua. Spiegò inoltre fenomeni che sconcertavano i fisici sperimentali, come l’effetto fotoelettrico. Il meglio però doveva ancora arrivare.

Nel suo lavoro sulla relatività specia-le, del 1905, inizia a lasciarci la sua vera eredità, un nuovo modo di pensare che fu una rivelazione e un’ispirazione per i fisici che lo seguirono. Einstein descris-se così la transizione: «Una nuova teoria è necessaria, in primo luogo, quanto ci scontriamo con fenomeni che le teorie esistenti non sono in grado di spiegare. Questa motivazione, tuttavia, risulta per così dire triviale, imposta dall’esterno. Vi è un’altra ragione di non minore impor-tanza. Consiste nella ricerca della sem-plicità e dell’unificazione delle premesse della teoria nel suo insieme». Seguendo le orme di Euclide, che aveva affrontato tutta la geometria conosciuta partendo da un pugno di assiomi, Einstein estese il campo

di applicazione delle sue teorie alla fisica intera. La sua teoria della relatività gene-rale, pubblicata nel 1915, gettò di fatto le basi per la cosmologia moderna.

Partendo da semplici ipotesi, come la costante della velocità della luce o la supposizione che tutti gli osservatori, in-dipendentemente da come si muovono, sono sottoposti alle stesse leggi fisiche, scosse in modo irreversibile le nostre no-zioni di tempo, spazio o gravità. La sua immaginazione scientifica riuscì a rag-giungere un’estensione che lascia senza fiato, dall’infinitamente piccolo (il rag-gio classico di un elettrone, 10-15 m) fino all’infinitamente grande (con la portata dell’universo osservabile, 1026 m).

Scegliere bene le premesse, separare il grano dalla pula, richiedevano un dono speciale ed Einstein l’aveva dalla nasci-ta. Chiunque si sia mai scontrato con i problemi di una lezione di fisica sa bene quanto sia difficile librarsi al di sopra del-le equazioni, come un calciatore capace di vedere oltre il centrocampista che gli viene addosso. Se qualcosa caratterizzava Einstein era la sua straordinaria intuizione fisica che gli permetteva di leggere le mos-se della natura mentre altri si perdevano nell’apparente caos dei risultati sperimen-tali. In caso di bisogno, sapeva districarsi fra gli strumenti matematici più sofisticati, ma aveva anche la capacità di dialogare con la realtà in modo immediato e profon-do, con una sorta di chiaroveggenza che in seguito articolava logicamente.

A far nascere le sue due grandi teorie, la relatività speciale e generale, furono due immagini mentali che si materializzarono in un momento di repentina ispirazione. Nella prima si vedeva nell’oscurità, men-tre inseguiva un raggio di luce e si do-

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mandava cosa sarebbe accaduto quando l’avesse raggiunto.

La seconda visione aveva come pro-tagonista un uomo che precipitava nel vuoto, perdendo durante la caduta ogni senso del suo peso. Alcuni attribuiscono il fallimento del suo progetto più ambizioso, la costruzione di una teoria definitiva (un insieme di premesse a partire dalle quali si potessero dedurre tutti i fenomeni fisici), al fatto che Einstein non riuscì a trovare l’immagine intuitiva che gli sarebbe ser-vita da guida.

Il suo modo di lavorare lo trasformò in un fisico polemico. Spesso le sue spe-culazioni anticipavano di decenni la loro verifica sperimentale. Quelle stesse con-troversie, però, finivano per trasformarsi nelle sue migliori alleate quando trovava-no soluzione. La conferma, nel 1919, che la luce delle stelle curva in prossimità del Sole gli garantì una fama immediata.

Fu l’autore di una delle ultime opere scientifiche che possono fare a meno di un’impronta personale.

Nelle parole dello scrittore inglese Charles Percy Snow: «Dirac, poco incli-ne agli elogi esagerati, fu colui che rese a Einstein il tributo più sottile. Affermò in primo luogo che, se non avesse pubbli-cato la teoria della relatività speciale nel 1905, altri l’avrebbero fatto in un perio-do molto breve, circa cinque anni [...]. La teoria generale della relatività, però, era una questione completamente diversa. È probabile che, senza Einstein, la starem-mo ancora aspettando».

Otteniamo una prova del suo talento confrontando le due grandi rivoluzioni della fisica del XX secolo. La meccanica quantisti-ca è il risultato dello sforzo di un esercito di formidabili scienziati: Planck, Schrödinger,

Heisenberg, Born, Dirac, Bohr, Pauli, Feyn-man… e lo stesso Einstein.

La formula della relatività generale è, invece, essenzialmente frutto di un’unica persona. Fino al punto che uno dei dilem-mi della fisica attuale è conciliare la vi-sione geometrica imposta da Einstein alla gravitazione e le moderne teorie quanti-stiche. Steven Weinberg, premio Nobel per la Fisica nel 1979, rifletteva su questa sfida indiavolata: «Siamo progrediti mol-to […] nell’acquisizione di una visione unificata delle forze che agiscono sulle particelle elementari […], escludendo la gravitazione, ma è molto difficile fare l’ul-timo passo e riuscire a inserirla nel qua-dro». Una parte sostanziale del problema non riguarda la natura della gravità, ma la rappresentazione di essa che abbiamo ereditato da Einstein, tanto diversa ed esotica rispetto al resto dell’immaginario fisico contemporaneo.

Le relatività e la meccanica quantistica scardinarono per sempre le interpretazio-ni del mondo basate sul buon senso e su concetti che trovavano le proprie radici nella vita quotidiana, come la simultanei-tà, la posizione o la velocità. La meccanica quantistica risultò forse troppo esoterica sin dalla sua nascita per conquistare il cuore del grande pubblico.

La relatività, invece, apriva le porte del cosmo, parlava dello spazio e del tempo, di corpi che, muovendosi, si rimpiccioli-vano e frenavano il ritmo dei loro orologi. Dipingeva uno scenario abbastanza esoti-co da risultare affascinante, ma partendo da elementi sufficientemente familiari per non respingerci del tutto. Se Newton trasformò il mondo in un meccanismo a orologeria che si poteva manipolare per illuminare una Rivoluzione Industriale,

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Einstein lo convertì in uno spazio dove sognare l’impossibile. A prescindere che lo si capisca del tutto o meno, l’eco delle sue idee risuona in lungo e in largo nella nostra cultura.

La sua opera rese naturali concetti in-soliti come viaggi nel tempo, buchi neri, lenti gravitazionali, nuovi stati della mate-ria, universi in espansione, bombe capaci di distruggere il mondo…

Questo libro ha come tema le sue principali creazioni per quanto riguarda la relatività e la fisica quantistica, pur la-sciando spazio anche a quelle minori, in ottica e meccanica statistica, che sarebbe-ro comunque bastate per garantirgli un

posto d’onore nella storia della scienza. Molto si è scritto su Einstein, abbastanza da far traboccare gli scaffali della biblio-teca di Babele, ma almeno una ragione giustifica che si aggiunga altra legna al fuoco: la sua stessa opera, che è ancora viva e in piena espansione. Più o meno direttamente gran parte degli apparecchi tecnologici che ci circondano sono suoi eredi, come il GPS, le cellule fotoelettriche o i lettori DVD. Non trascorre decennio senza che sia confermata una delle sue previsioni, che l’industria trovi una nuo-va applicazione grazie alle sue idee o che si progredisca nella ricerca di una teoria quantistica della gravitazione. j

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1879Albert Einstein nasce a Ulm, in Germania, il 14 marzo, primo figlio di Hermann Einstein e Pauline Koch.

1896 Entra al Politecnico Federale di Zurigo dove conosce la futura moglie, Mileva Marić.

1901 Einstein prende la nazionalità svizzera.

1902 Mileva dà alla luce la loro prima figlia, Lieserl. Einstein inizia a lavorare per l’Ufficio Brevetti di Berna.

1903 Sposa Mileva Marić. La coppia avrà altri due figli, Hans Albert ed Eduard.

1905 L’annus mirabilis di Einstein. Pubblica diversi articoli fondamentali sul moto browniano, la natura corpuscolare della luce, l’equivalenza fra massa ed energia – che contiene la celebre espressione E=mc² – e sull’elettrodinamica dei corpi in movimento. Quest’ultimo lavoro è antesignano della relatività speciale.

1912 Ad Einstein viene una cattedra al Politecnico di Zurigo. Inizia una liaison con la cugina Elsa Löwenthal.

1914 Albert e Mileva si separano.

C R O N O L O G I A

Ulm, città natale di Einstein.

Einstein con Marie Curie.

La Torre Einstein, osservatorio solare a Potsdam, Germania.

DALL’ALTO AL BASSO: WERNER DIETRICH / WESTEND61 / CORBIS; AMERICAN INSTITUTE OF PHYSICS / SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK; MARTIN BOND / SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK

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1915 Presenta le equazioni definitive della teoria della relatività generale all’Accademia Prussiana delle Scienze di Berlino.

1919 L’astronomo Arthur Eddington conferma la predizione della teoria relativista in merito all’effetto del campo gravitazionale sui raggi luminosi. Einstein diventa improvvisamente una celebrità mondiale.

1922 Einstein viene insignito del premio Nobel per la Fisica, non però per la teoria della relatività, ma per la sua spiegazione dell’effetto fotoelettrico.

1933 Dall’estero Einstein è testimone della salita al potere di Hitler e decide di sospendere ogni rapporto con le istituzioni scientifiche tedesche. Alla fine dello stesso anno si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti. Lavora all’Istituto per gli Studi Avanzati di Princeton, dove conosce altri grandi scienziati come Kurt Gödel e John von Neumann.

1939 Einstein firma una lettera indirizzata al presidente americano Franklin D. Roosevelt nella quale lo avverte del potenziale distruttivo di un’eventuale bomba atomica in fase di studio da parte della Germania, incoraggiando gli Stati Uniti a condurre ricerche in parallelo.

1952 Rifiuta l’offerta di diventare il secondo presidente del nuovo Stato di Israele.

1955 Muore a Princeton, il 18 aprile, all’età di settantasei anni per la rottura di un aneurisma dell’aorta addominale.

La casa di Einstein a Caputh, nella periferia di Berlino.

Einstein ed Elsa Löwenthal a Chicago.

Einstein in Inghilterra, dopo aver lasciato la Germania nel 1932.

Institute for Advanced Study, Princeton, Stati Uniti.

DALL’ALTO AL BASSO: MCA / INTERFOTO / AGE FOTOSTOCK; BETTMANN / CORBIS; UNDERWOOD & UNDERWOOD / CORBIS; SUPERSTOCK / AGE FOTOSTOCK

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C A P I T O L O 1

La rivoluzione elettromagnetica

Alla fine del XIX secolo il mondo si arrendeva affascinato all’elettricità e alle sue applicazioni. Gli scienziati,

nel contempo, si impegnavano nel tentativo di riconciliare le loro scoperte sull’elettromagnetismo con la fisica

ereditata da Newton. Un giovane Einstein di soli sedici anni si pose la domanda che avrebbe portato a tutte le risposte:

«Che aspetto avrebbe un raggio di luce se lo raggiungessimo?»

Wilhelm Hallwachs progettò nel 1888 questo elettroscopio per verificare se un corpo fosse elettrizzato e conoscere il segno della sua carica. Nel 1905 Einstein impiegò la teoria quantica per spiegare

l'effetto fotoelettrico, per il quale nel 1921 otterrà il premio Nobel per la Fisica.

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ome narra la tradizio-ne orale della famiglia Einstein, il padre di Albert, Hermann, mo-strò sin da bambino

una forte inclinazione verso la matema-tica che non poté coltivare all’università per mancanza di mezzi economici. Più o meno destinato a una carriera commer-ciale, divenne un nomade, con le valigie sempre accatastate all’entrata di casa sua, pronto per aprire una nuova impresa in un’altra città. Sfortunatamente, quando doveva scrivere sul registro dei conti, in-tingeva la penna più spesso nell’inchiostro rosso che in quello nero.

La sua natura contemplativa, la dif-ficoltà a prendere decisioni per colpa di una tendenza ad analizzare in modo esaustivo ogni alternativa e la sua fiducia nella bontà umana non risultarono esse-re le armi migliori per farsi strada nella spietata giungla degli affari.

Dopo un periodo di apprendistato a Stoccarda, si diresse a Ulm per diventare socio in una fabbrica di materassi di un cugino. La città sveva, cinta dal Danubio, aveva una lunga tradizione commercia-le basata principalmente sul traffico di merci lungo il fiume. Fu lì che si trasferì con la giovane moglie, Pauline Koch, e dove, il 14 marzo 1879, nacque in casa il figlio maggiore, Albert.

Nel giugno dell’anno successivo, Her-mann e suo fratello Jakob sbarcarono a Monaco per avviare una piccola attività di fornitura di acqua e gas. Nel maggio 1885 fondavano la società di ingegneria elettrica Elektro-Technische Fabrik Ja-kob Einstein & Cie. Hermann si sarebbe occupato della divisione commerciale e Jakob sarebbe stato l’anima innovatrice.

Un’avventura imprenditoriale che segnò sotto molti aspetti il destino del giovane Albert.

Il nipote dell’inventoreNon sappiamo molto dell’infanzia di Ein-stein. Restano un pugno di aneddoti che, curiosamente, riguardano la sua testa, sia come contenitore che per il contenuto. È possibile che anticipino l’ossessione fo-rense del dottor Thomas Harvey, patologo dell’ospedale di Princeton, che, molti anni più tardi, decise di estrarre il cervello del genio la mattina stessa della sua dipartita.

Per cominciare, Pauline si spaventò os-servando il neonato che le sembrava defor-me. I medici cercarono di convincerla che la forma allungata e schiacciata della testa del figlio si sarebbe modificata dopo alcune settimane. Avevano ragione, ma la famiglia tardò a convincersi che il cervello non fosse rimasto danneggiato in modo irreparabile: Einstein non iniziò infatti a parlare fino ai due anni compiuti e, quando si decise a far-lo, adottò l’inquietante abitudine di ripetere fra sé e sé quanto diceva, un vizio che non abbandonò fino ai sette anni.

Solitamente si cita Einstein come esem-pio del genio con una carriera scolastica poco brillante, una leggenda che in realtà ha scarso fondamento. In una lettera alla sorella maggiore, Fanny, quando il bambino aveva sette anni, Pauline vedeva compiersi i sogni di ogni madre: «Ieri hanno conse-gnato i voti ad Albert: un’altra volta il pri-mo della classe e ci ha portato una pagella splendida». Negli anni seguenti, durante gli studi superiori al Luitpold Gymnasium di Monaco, avrebbe mantenuto questa tenden-za, soprattutto in fisica e matematica. Il fatto che i suoi professori lo considerassero con frequenza un pessimo allievo era dovuto a

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In alto: i genitori di Albert, Hermann e Pauline Einstein.In basso a sinistra: prima fotografia conservata di Albert Einstein.In basso a destra: Albert Einstein a Monaco a quattordici anni.ARCHIVO RBA (SOPRA); ALBUM (SOTTO)

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un’assoluta inconciliabilità fra il suo carat-tere e il sistema educativo imperante nella Germania del tempo. Lo scontro con l’auto-rità è il secondo grande tema degli aneddoti infantili e giovanili. Si potrebbero riempire pagine intere con i commenti negativi dei suoi maestri. Uno di loro gli confidò che sarebbe stato molto più felice se non si fosse più fatto vedere alle sue lezioni. Einstein fece ricorso alla proverbiale risposta dei bambi-ni: «Ma se non ho fatto niente!» A quel pun-to l’insegnante rispose: «Sì, è vero, ma te ne stai lì seduto, all’ultimo banco, sorridendo in un modo che sovverte completamente il clima di rispetto necessario a un maestro per fare lezione». Non suscitava entusiasmo in chi intendeva indottrinarlo e l’avversione era ricambiata. «I maestri della mia scuola mi sembravano dei sergenti e i professori del liceo dei tenenti», diceva. Erano le pri-me scaramucce di un antagonismo che fu sul punto di frustrare la sua carriera prima ancora che cominciasse.

Sebbene non fosse molto felice a scuola, dove i compagni osservavano con diffidenza il suo scarso interesse per correre, saltare o litigare per un pallone, Einstein fu alleva-to in una bolla calda e protettiva. Il 18 no-vembre 1881 nacque l’unica sorella, Maria, nota con il nomignolo affettuoso di Maja. Nonostante all’inizio Albert abbia mostrato poco entusiasmo verso la nuova arrivata (si narra che chiese: «Ma non ha le ruote?»), con il tempo la sorella divenne la sua più intima complice e confidente. Le famiglie di Hermann e Jakob dividevano una splendida casa fuori Monaco, adiacente alla fabbrica e circondata da un giardino tanto lussureg-giante da isolarli completamente dalla stra-da. I bambini lo chiamavano il loro “piccolo giardino inglese”, facendo riferimento al grande e omonimo parco di Monaco. Gli

Einstein non frequentavano molto i vicini e preferivano organizzare escursioni con i cugini sulle montagne o ai laghi nelle vici-nanze.

Due episodi simboleggiano il processo di iniziazione di Einstein alla scienza: il regalo di una bussola da parte del padre quando aveva quattro anni e la lettura di un volume di geometria euclidea. L’ago magnetizzato spiegò davanti ai suoi occhi i misteri della natura; gli assiomi e i postulati di Euclide, il potere deduttivo dell’intelligenza. La vita di Einstein sarebbe diventata una tenace ap-plicazione del secondo per decifrare i primi. Il magnetismo si può interpretare come un effetto puramente relativista e la stessa re-latività come una visione geometrica dell’u-niverso. Nella bussola e nel libro di Euclide, quindi, era scritto il suo destino.

Un altro mito che consola molti studen-ti è che Einstein andasse male in matemati-ca, quando fu certamente la prima delle sue passioni. Non per nulla il motto di Ulm, la sua città natale, era: Ulmenses sunt mathe-matici (Gli ulmensi sono matematici). Si entusiasmava anticipando il contenuto di ogni corso e inventava dimostrazioni di-verse da quelle presentate nei libri. Abitu-dine che prefigura una delle caratteristiche più evidenti della sua personalità scienti-

«Ancora molto giovane acquisii viva consapevolezza della futilità delle ansie e delle speranze che asfissiano senza tregua la maggior parte degli uomini durante la loro vita.»

Albert Einstein

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fica: l’indipendenza di pensiero. Lo zio in-coraggiava questa disposizione sfidandolo con problemi complessi, prendendolo in giro e mettendo in dubbio la sua capacità di risolverli.

Nonostante abbia finito per condurre Hermann verso un percorso professionale senza sbocchi, Jakob esercitò sul piccolo Albert un’influenza molto più positiva. Certamente Einstein si recava spesso in visita alla fabbrica e un inventore inquieto come lo zio gli avrà di sicuro mostrato il funzionamento dei forni e delle mac-chine, invitandolo a giocare con i galva-nometri e le batterie elettrochimiche e proponendogli un’infinità di esperimenti. Il profilo di Einstein come teorico ci spin-ge a immaginarlo con la testa sempre fra le nuvole, ma è invece certo che coltivò per tutta la vita la passione per le mac-chine. Da bambino lo entusiasmavano le costruzioni, adorava sbirciare all’interno dei vari meccanismi, brevettò diverse in-venzioni, progettò un nuovo modello di frigorifero e di misuratore di corrente e mantenne una vivace corrispondenza con altri appassionati di bricolage tecnologi-co. Einstein aveva dieci anni quando co-nobbe il secondo dei suoi spiriti tutelari: Max Talmey, uno studente di medicina polacco che godeva dell’ospitalità di Her-mann e Pauline. Passava in pratica ogni giovedì da casa loro, in Adelreiterstrasse, per mangiare. Durante le conversazioni dopo pranzo che condivisero per cinque anni si forgiò un’amicizia impari per età – li separavano dodici anni – ma basata su simpatia e interessi comuni. Talmey restò impressionato dall’eccezionale in-telligenza di Einstein e si prefisse il com-pito di stimolare le sue inquietudini. Gli mise fra le mani Forza e Materia di Lu-

dwig Büchner, Il cosmo di Alexander von Humboldt e la popolare serie di libri di scienze naturali di Aaron Bernstein. Ein-stein li divorò con la passione con la quale gli altri bambini leggevano Verne.

Nel mondo isolato del piccolo giardi-no inglese Einstein entrò in contatto con l’avanguardia tecnologica dell’epoca. Le equazioni del campo elettromagnetico an-nunciate da James Clerk Maxwell nel 1861 prendevano vita a un isolato da casa sua, nelle bobine, nelle resistenze e nei conden-satori che utilizzavano i cento dipendenti della fabbrica Jakob Einstein & Cie. L’at-mosfera del XIX secolo era completamente satura di elettricità.

Il secolo dell’elettricitàIl fascino che Einstein sentì a quattro anni, quando ebbe fra le mani una bus-sola, riproduceva un rito quasi primordia-le: la magnetite e i fenomeni elettrostatici erano noti dall’antichità, come dimostra l’origine classica delle parole elettricità (da elektron, il nome greco dell’ambra) e magnetismo (di provenienza più incerta, forse dall’Isola di Magnesia, nell’Egeo). Non sono rimaste notizie di quando si notò per la prima volta che, sfregando una resina fossile, l’ambra, quest’ultima faceva rizzare i peli o attirava piccoli trucioli di legno. L’invenzione cinese della bussola risale sicuramente alla dinastia Han, in-torno al 200 a.C. (sebbene per decifrarne il fondamento e il rapporto con il campo magnetico terrestre fu necessario attende-re le ricerche di un medico elisabettiano, William Gilbert).

L’interesse per i fenomeni elettroma-gnetici si accentuò durante l’Illumini-smo, ma non fu che nel XIX secolo che si iniziarono a decifrare i loro meccanismi

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di base. Nel frattempo fu scritto uno dei capitoli più stimolanti della storia della scienza. Le scoperte rivoluzionarono il tessuto industriale che aveva avviato la riforma del sistema dei brevetti inglese, la razionalizzazione dell’agricoltura e l’in-venzione della macchina a vapore. Gran parte del salto tecnologico che si verificò durante il XX secolo avvenne grazie alla corrente elettrica.

Sul piano teorico fu il francese Char-les Augustin Coulomb (1736-1806) che diede fuoco alle polveri, stabilendo una prima legge che chiamò «della forza elet-trostatica»: l’attrazione o respingimento fra cariche elettriche era direttamente p roporzionale al prodotto delle cariche e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che le separava. Un enun-ciato che restava impregnato di un forte sapore newtoniano. Di fatto, se si elimi-nava l’effetto di respingimento e si sosti-tuivano le cariche con le masse, si poteva quasi ottenere un calcolo della legge di gravitazione universale.

Nel 1800, nel tentativo di riprodurre il meccanismo con il quale alcuni pe-sci, come le razze, generano elettricità, Alessandro Volta inventò la batteria chimica (pila). Regalò così ai ricercatori una fonte stabile di corrente continua, rese possibile la costruzione di circuiti e ampliò drasticamente le possibilità di sperimentazione. Per fare solo un esem-pio: senza la pila sarebbe stata impossi-bile l’elettrolisi, un processo di enorme importanza industriale che consente di scomporre delle sostanze al passaggio di una corrente elettrica.

Grazie alle batterie si scoprì che l’e-lettricità e il magnetismo, che fino a quel momento avevano percorso strade sepa-

rate, nascondevano un vincolo segreto. Nel 1820 il medico danese Hans Christian Oersted (1777-1851) dimostrò davanti a una classe di alunni poco entusiasti che il passaggio di una corrente spostava l’ago di una bussola, una prerogativa riserva-ta sino ad allora ai magneti permanenti. A differenza degli alunni di Oersted, la comunità scientifica rispose commossa: a memoria d’uomo le forze si erano ma-nifestate unicamente fra masse, cariche o magneti. Il risultato dell’esperimento suscitò la curiosità di André Marie Am-père (1775-1836), che fece un ulteriore passo avanti per dimostrare che due cor-renti elettriche si possono anche attrarre e respingere fra loro, interagendo me-diante forze di natura magnetica. Come Coulomb, spiegò il fenomeno mediante un enunciato matematico che legava fra loro un insieme di grandezze osservabili in qualunque laboratorio.

A prima vista queste leggi non presen-tavano grandi sfide concettuali. I fisici, nel loro scrutare l’universo, avevano raccolto un numero ridotto di principi e concet-ti che sembravano bastare per produrre un’immagine logica e precisa dei feno-meni.

Da una parte c’erano le singole parti-celle che interagivano mediante forze cen-trali, ovvero quelle che esercitano la loro influenza nella direzione della retta che le unisce. Questa interazione aveva luogo in modo istantaneo e a distanza. Dall’altra parte c’erano le onde, che si propagavano in un ambiente materiale costituito a sua volta da singole particelle legate fra di loro mediante interazioni.

Come vediamo, al momento di disse-zionare la realtà si ricorreva ad astrazioni ispirate a fenomeni quotidiani: la pietra

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QUELLO CHE L’ELETTRICITÀ HA UNITO...

Considerando che ciò che unisce fra loro gli atomi è di natura elettrica, il pas-saggio di una corrente attraverso una sostanza può indurre l’effetto inverso e scomporla. Nei secoli XVIII e XIX fiorirono le tecniche per disgregare la mate-ria e cercare di identificare i suoi componenti di base. L’elettrolisi divenne una delle più potenti tra queste, separando elementi che fino ad allora avevano resistito a un’azione puramente chimica. Il processo consiste nell’immergere i poli di una pila in un contenitore con la sostanza che si intende scomporre. Affinché questa possa condurre l’elettricità, si fonde o si dissolve nell’acqua. Prendiamo, ad esempio, un po’ di sale comune (NaCl). A temperatura ambien-te gli ioni negativi del cloro (Cl-) e quelli positivi del sodio (Na+) si intrecciano in una struttura rigida. Il primo passo prevede di riscaldare il sale fino a circa 800 °C perché si fonda, in modo da indebolire i legami fra ioni. Con un voltag-gio sufficiente, quindi, gli ioni di Cl- saranno attratti dal polo positivo della pila che staccherà loro gli elettroni. Si trasformano così in molecole neutre di cloro gassoso. Gli ioni di Na+ sono attratti dal polo negativo, dal quale prendono elettroni fino a diventare sodio neutro, che si accumula galleggiando sul sale fuso. Il chimico inglese Humphry Davy (1778-1829) sottopose a elettrolisi il carbonato di potassio, il carbonato di sodio e l’ossido di calcio, isolando per la prima volta il sodio e il potassio (metalli alcalini) e il calcio (alcalino terroso). Faraday riuscì a stabilire leggi precise che mettevano in relazione la corrente che attraversa il contenitore elettrolitico e la quantità di sostanza che si libera o concentra in ogni estremi-tà della pila.

NaCl fuso

Cl–

Na+

Gas di cloroSi deposita il sodio

Na++e– Na 2Cl– Cl2 + 2e–+–

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che tiriamo in uno stagno (la particella) o le increspature che solleva sulla super-ficie (le onde). La natura sembrava fatta a misura della mente umana. Per quanto familiari potessero risultare queste onde e particelle idealizzate, tuttavia, la nozione di un’azione istantanea e a distanza con-servava in sé una profonda stranezza. «Al di fuori della fisica – riassunse Einstein – il pensiero non sa nulla di forze che agi-scono a distanza». Una critica che aveva già ricevuto la formulazione newtoniana della gravità che descriveva i suoi effetti con esattezza matematica, senza però ap-profondirne le cause. È rimasta celebre la replica piccata di Newton a questo tipo di obiezioni: Hipotheses non fingo, ovvero, «Io non invento ipotesi».

L’ammirazione che meritava l’opera di Newton non metteva del tutto a tacere una certa inquietudine per alcune delle sue im-plicazioni. Dalla legge di gravitazione, così come la formulò, si deduce, ad esempio, che potremmo inviare messaggi istantanei all’angolo più remoto dell’universo unica-mente agitando una massa: il suo movi-mento modificherebbe la distanza che la separa da noi e, quindi, anche la forza che esercita su qualunque corpo della Terra. Un rilevatore con sensibilità sufficiente sa-rebbe in grado di individuare, almeno in teoria, questi effetti che potrebbero essere organizzati seguendo un modello, come il codice morse.

Il messia e l’apostoloIl sistema delle forze centrali iniziò a scric-chiolare quando si vide che le interazioni elettromagnetiche non solo dipendevano dalla distanza, ma anche dalla velocità e dall’accelerazione. Fino a quando le cari-che restavano ferme, lo schema classico

manteneva la sua compostezza, ma appena si mettevano in movimento si moltiplica-vano i termini nelle equazioni e la dire-zione della forza deviava dalla linea che univa le particelle, così come indicato nella figura sotto.

Gli sforzi per far rientrare la dinamica delle cariche in una teoria retta da forze centrali ricordavano l’imbroglio di sfere, deferenti ed epicicli ordito da Tolomeo per salvare il vecchio geocentrismo. Progressi-vamente si fece strada l’idea che, con la rete concettuale esistente, non si sarebbe stati in grado di catturare le nuove leggi. Era ne-cessario impiegare degli strumenti diversi e l’inglese Michael Faraday (1791-1867) fu il primo a contemplare dalla giusta prospetti-va l’insolito paesaggio sperimentale che ave-vano dipinto Coulomb, Ampère e Oersted.

Faraday fu un uomo per molti aspetti straordinario. Crebbe in condizioni di tale povertà da non poter neppure sognare la gloria della scienza. Studiò però chimica e fisica sfruttando il suo lavoro di rilega-tore, leggendo i libri che doveva cucire e incollare.

Non frequentò la politica o la filosofa, né si disturbò a fondare religioni, ma re-sta uno degli uomini che più hanno con-tribuito a modellare il mondo così come lo conosciamo oggi. Dell’attuale produ-zione mondiale di elettricità, oltre il 99% proviene da centrali nucleari, termiche, idroelettriche, eoliche, mareomotrici... e tutte impiegano generatori di corrente che sfruttano un fenomeno osservato per la prima volta da Faraday: l’induzione elettromagnetica. Il 17 ottobre 1831 egli annotò sul suo diario che, spostando un magnete nelle vicinanze di un cavo, in quest’ultimo si generava una corrente. La sua scoperta chiudeva il circolo aperto da

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Oersted: in Danimarca una corrente aveva spostato un ago magnetizzato; ora, nei sot-terranei della Royal Institution di Londra, dove Faraday eseguiva i suoi esperimenti, il movimento di un magnete generava cor-rente. Faraday forgiò inoltre la chiave che avrebbe aperto la porta alla fisica teorica moderna: il concetto di «campo». Possia-mo ottenere un’intuizione molto diretta di cosa sia osservando l’allineamento della lana di ferro intorno ai poli di un magnete o di una corrente. Si tratta di una sem-plice esperienza che chiunque può ripe-tere in casa e che sembra riprodurre una radiografia fantasma dello spazio. La sua contemplazione dispiega una costellazione di interrogativi. A quale impulso obbedi-sce la lana di ferro? A cosa si sostengono i mulinelli intorno alle cariche e i poli di un magnete, le «linee di forza», come le chiamò Faraday?

Queste figure vaghe mandarono in esi-lio per sempre le forze centrali di Newton.

Einstein cercò di ricostruire così il processo speculativo di Faraday:

[…] dovette comprendere, guidato da un sicuro intuito, la natura artificiale di tut-ti gli sforzi che cercavano di spiegare i fenomeni elettromagnetici tramite azioni a distanza di particelle elettriche che rea-givano fra loro. Come poteva sapere ogni truciolo di ferro, sparso su un foglio di carta, della presenza di particelle elettri-che singole che pullulavano in un con-duttore vicino? L’insieme di tutte queste particelle sembrava creare nello spazio circostante uno stato che, a sua volta, pro-duceva un ordine determinato nei tru-cioli. Era convinto che, se si fosse compresa la struttura geometrica di ques-te configurazioni dello spazio, che oggi chiamiamo campi, e le loro vicendevoli dipendenze, si sarebbe scoperta la chiave di lettura delle misteriose interazioni elet-tromagnetiche.

Felect

+

+

+

Ftotal

Fmag

v2

Felect

Fmag

Ftotal

Felect

Felect

v1

+

Direzione delle forze fra due cariche: in una situazione statica (a sinistra) e in una dinamica (a destra). Nel caso statico, la forza su ogni carica segue la direzione della retta che le unisce (Felect ). Quando le cariche acquisiscono velocità (v1 e v2) appare una forza magnetica (Fmag ) perpendicolare alla velocità. La forza risultante (Ftotal ) su ogni carica, somma della forza elettrica e della magnetica, non segue più la direzione della retta che le unisce.

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La sintesi elettromagneticaPer spiegare un campo nello spazio basta assegnare dei valori matematici a ognuno dei suoi punti. Se si tratta di semplici va-lori numerici, il campo si chiama scalare. È il caso della distribuzione delle tempe-rature in un solido o di pressioni in una cartina del tempo. Se, inoltre, assegniamo una direzione a ogni punto, avremo un campo vettoriale. Troviamo due esempi classici nella distribuzione delle velocità in un fluido o, ricorrendo ancora una volta alla meteorologia, dei venti in una deter-minata regione.

In ogni caso c’è sempre una struttura soggiacente, materiale o meccanica. La pressione, la temperatura, il fluido o il vento sono manifestazioni macroscopiche di movimenti molecolari. Si pensò che lo stesso dovesse accadere nel caso dell’elet-tromagnetismo. I campi elettrici e magne-tici sono vettoriali, hanno una dimensione e una direzione. Indicano cosa succederà a una carica se la depositiamo in un punto qualsiasi dello spazio. Con quale intensi-tà sarà spostata e in che direzione. Quale struttura microscopica giustifica quindi il tracciato delle linee di forza? Doveva trat-tarsi di un ambiente invisibile e intangi-bile, che permeasse tutto, estremamente sottile, dato che nessuno lo aveva percepi-to né se ne era sentita la mancanza fino a quel momento. Costretto per definizione a rappresentare il massimo dell’etereo, ri-cevette il nome di etere.

Le cariche restavano imprigionate in questo ambiente, la cui struttura elastica creavano e modificavano senza sosta con la loro mera presenza o con i loro movi-menti. La configurazione del campo in una particolare regione indicava il destino di una specifica particella, ma, allo stesso

tempo, ogni particella determinava quella del campo e, quindi, la sua e quella delle altre. Il lavoro di Maxwell poté stabilire le regole precise di questo continuo dialogo fra campi e cariche.

Lo stesso anno in cui Faraday abboz-zava le prime idee sulle linee di forza, nel 1831, nasceva a Edimburgo James Clerk Maxwell. Per molti, Faraday, figlio di un fabbro e di una contadina, era poco più di un artigiano prodigio. Forse con un cer-to snobismo di classe, non prendevano troppo sul serio le speculazioni teoriche di un uomo che non aveva seguito un per-corso di studi canonico. Maxwell, invece, soddisfaceva tutti i requisiti. Sebbene alla lontana, la sua famiglia era imparentata con la nobiltà e aveva studiato nelle uni-versità di Edimburgo e Cambridge, dove ebbe accesso all’esclusiva e più o meno segreta Società degli Apostoli. Fu profes-sore di filosofia naturale al King’s College di Londra e diresse anche il Laboratorio Cavendish.

Nonostante il suo pedigree, tuttavia, egli prese molto seriamente le idee di Faraday. Maxwell disegnò le linee del campo che quest’ultimo aveva intuito nei percorsi della lana di ferro con un preciso tiralinee matematico. Mettendo mano alle derivate parziali, definì le leggi che reggevano la struttura e l’evoluzione dei campi davanti a qualunque configu-razione immaginabile di cariche, correnti e magneti. Fu in grado di spiegare tutti i fenomeni elettromagnetici che si verifica-vano a livello macroscopico, integrando armonicamente i risultati sperimentali di Ampère, Coulomb, Faraday e Oer-sted. In altre parole, scrisse il manuale di istruzioni matematiche che gli ingegneri attendevano per progettare i loro moto-

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ri, o inventare elettrodomestici, telefoni, televisori e radio. Anche per pubblicare un manifesto rivoluzionario bisogna però ricorrere a un linguaggio ereditato. Per costruire le equazioni che decifravano il comportamento dei campi elettrici e ma-gnetici, Maxwell si appoggiò all’impalca-tura dei modelli meccanici. Secondo le parole del fisico Freeman Dyson:

Gli scienziati dell’epoca, compreso lo stesso Maxwell, cercavano di immagi-nare i campi come strutture meccaniche, composte da una moltitudine di rotelli-ne e vortici che si estendevano nello spazio. Si supponeva che queste struttu-re comunicassero le tensioni meccani-che che i campi elettrici e magnetici trasmettevano fra le cariche elettriche e le correnti. Affinché i campi rispettasse-ro le equazioni di Maxwell, il sistema di ruote e vortici doveva essere estrema-mente complesso.

Maxwell non pretendeva che i modelli da lui proposti fossero interamente accetta-ti, ma erano comunque una dimostrazione che i fenomeni che studiava potevano essere spiegati con meccanismi analoghi. A parte ruote, vortici e altre complicazioni formali, le sue equazioni contenevano una profezia sorprendente. Agitando una carica elettrica, si genera un campo elettrico variabile che, a sua volta, induce un campo magnetico va-riabile che, a sua volta, produce un campo elettrico variabile… Le scoperte di Oersted e Faraday sono concatenate e si alimentano vicendevolmente, a cascata, come la cadu-ta di una fila di tessere del domino. Questa «corsa a staffetta» comunica l’agitazione della carica al resto del campo.

Manipolando le sue equazioni, Maxwell ottenne che la perturbazione, propagando-si, obbediva alla descrizione matematica del suono. Si comportava quindi come un’onda ed egli poté pertanto calcolare con esattezza la sua velocità. Corrispondeva al quoziente

Un esempio di campo scalare: mappa della distribuzione delle temperature nell’atmosfera (a sinistra). L’intensità del colore in ogni punto corrisponde a un valore della temperatura. Un esempio di campo vettoriale: distribuzione delle direzioni del vento in Italia (a destra).

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fra le unità elettromagnetiche ed elettrosta-tiche della carica e raggiungeva un valore vicino a 300.000.000 m/s.

Non si trattava di un valore qualunque. Nel 1849, il parigino Hippolyte Fizeau (1819-1896) aveva imprigionato un raggio di luce in un labirinto di specchi e, aiu-tandosi con un delicato meccanismo, era riuscito a misurare la sua velocità nell’a-ria. Ottenne un valore di 314.858.000 m/s che il suo compatriota Léon Foucau-lt (1819-1868) affinò fino a raggiungere 298.000.000 m/s.

I grandi scienziati sono soliti pronun-ciarsi con cautela, ma davanti a una coin-cidenza di questa portata persino Maxwell osò annunciare: «La velocità si avvicina tal-mente a quella della luce che, a quanto pare, vi sono ragioni estremamente fondate per concludere che la stessa luce (incluso il ca-lore radiante e, se del caso, altre radiazioni) sia una perturbazione elettromagnetica che si propaga sotto forma di onde attraverso il campo elettromagnetico, in accordo con le leggi elettromagnetiche».

Questa rivelazione aprì una breccia nell’interpretazione fisica del mondo analo-ga a quella prodotta da L’origine delle specie di Darwin nel campo delle scienze naturali. Ora, finalmente, tutto acquistava senso. L’a-

zione a distanza cedeva il posto ai campi, all’interno dei quali qualunque attrazione era trasmessa a una velocità finita, sotto forma di onde. Le equazioni di Maxwell officiarono una delle prime cerimonie di unificazione della fisica: all’elettricità e al magnetismo, sposati da Oersted, si univa ora la luce. Un matrimonio inatteso, dato che la luce, all’i-nizio, sembrava un mistero totalmente estra-neo ai temi che riguardavano pile, correnti o magneti.

Maxwell entrava così in un esclusi-vo gruppo di scienziati che condivisero l’entusiasmo del fisico Fritz Houtermans quando, davanti a un commento sulla bellezza delle stelle, si poté permettere di rispondere: «Sì, e in questo preciso mo-mento sono l’unico uomo sulla faccia della Terra che sa perché brillano».

Dopo aver letto l’opera di Maxwell, il fisico tedesco Heinrich Hertz si mise a caccia delle sfuggenti onde elettromagne-tiche. Non dovette però muoversi dal suo laboratorio per trovarle. Sebbene fossero passate inosservate, erano rimaste lì con lui tutto il tempo e verificò che, in effetti, erano in essenza analoghe alla luce, solo che avevano una lunghezza d’onda che non sollecitava i fotorecettori dell’occhio umano, rendendole quindi invisibili.

«Immaginate il suo stato d’animo quando le equazioni differenziali che aveva formulato gli mostrarono che i campi elettromagnetici si diffondono sotto forma di onde polarizzate e alla velocità della luce! A pochi al mondo è concesso di vivere una simile esperienza.»

Einstein in merito a cosa provò quando si rese conto della portata della sua scoperta

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LUNGHEZZE E COLORI

Se consideriamo la luce come un’onda, non possiamo modificarne la velocità di propa-gazione nel vuoto, ma possiamo allungarla o comprimerla. Così facendo alteriamo le dimensioni del modello che in essa si ripete e che è noto come lunghezza d’onda, λ.

Più è lunga λ, per una stessa velocità di propagazione, meno è la frequenza ν con la quale si ripete il modello. Pertanto λ e ν sono grandezze inverse, legate dall’e-quazione c = λ · ν, dove λ si misura in unità di distanza e ν in unità inverse di tempo. Nel range delle radiazioni visibili, la varia-zione nella lunghezza dell’onda si traduce in un cambio di colore. Se prendiamo un’onda viola e la allunghiamo, diventa azzurra, poi verde, gialla, arancio, rossa… fino a sparire dalla vista. Scomparirà an-che in caso di compressione. Il range del-le lunghezze trascende la percezione dei nostri occhi e si estende oltre un doppio orizzonte: infrarossi e ultravioletti.

λ

Aumento dell’energia

Aumento della lunghezza d’onda

Raggi gamma Infrarossi

Ultra-violettiRaggi X Onde radio

Radar TV FM AM

0,0001 nm 0,01 nm 10 nm 1 000 nm 0,01 cm 1 cm 1 m 100 m

Luce visibile

I fisici e gli ingegneri si abituarono presto a maneggiare le equazioni di Maxwell, senza doversi preoccupare troppo per l’impalca-tura meccanica di ruote e vortici che si pre-sumeva le sostentasse. Un’impalcatura che finalmente cadde, lasciando però in piedi la struttura. Einstein spiegò il processo con la sua caratteristica capacità di sintesi:

Nei decenni la maggior parte dei fisici era rimasta legata alla convinzione che si sarebbe trovata una struttura mecca-nica soggiacente alla teoria di Maxwell. Il fallimento dei loro sforzi, però, con-dusse alla graduale accettazione dei nuo-vi concetti di campo come fondamenti irriducibili. In altre parole, i fisici si ras-

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segnarono ad abbandonare l’idea di un fondamento meccanico.

Sebbene il concetto di campo soddisfa-cesse un’inquietudine se vogliamo filoso-fica – come può un corpo esercitare la sua influenza su un altro? – si impose inoltre per una questione di comodità. Sarebbe stato sufficiente per reinterpretare anche la gravità, dove continuava a dominare una legge di applicazione istantanea? Per risol-vere la questione Einstein dovette studiare una teoria completamente nuova: la teoria generale della relatività.

Nella buona e nella cattiva sorte L’avanguardia teorica sem inò il terreno per le applicazioni tecnologiche. A Cou-lomb, Oersted, Ampère, Faraday e Ma-xwell seguirono Marconi, Graham Bell, Morse, Tesla ed Edison e uno sciame di imprenditori disposti a guadagnare una fortuna con le loro invenzioni. Jakob ed Hermann Einstein si unirono a quegli im-prenditori che si avvicinarono al campo dell’elettromagnetismo per partecipare al raccolto.

Gli inizi a Monaco sembrarono molto promettenti. Nel 1885 firmarono un con-tratto per illuminare per la prima volta con luce elettrica l’Oktoberfest e parteciparono all’Esposizione Elettrotecnica Internazio-nale che si tenne a Francoforte nel 1891.

Il settore della fornitura elettrica aveva sperimentato una crescita vertiginosa. Nel decennio fra il 1880 e il 1890 la domanda di impianti era così forte che molti piccoli imprenditori poterono ottenere anche loro un pezzo della torta. In Germania, tutta-via, le grandi società cominciarono a fare terra bruciata intorno alle imprese familia-ri fino a metterle in ginocchio ed espellerle

dal mercato. Il 1894 fu l’anno del primo fallimento di Elektro-Technische Fabrik Jakob Einstein & Cie. Il rappresentante italiano della società, Lorenzo Garrone, propose il trasferimento a Pavia. Mentre Hermann soppesava i pro e i contro di una decisione di quella portata, Jakob lo stordì con il suo entusiasmo e lo caricò su un treno verso l’Italia.

Le rispettive famiglie non ebbero altra possibilità che unirsi all’esodo. Hermann e Pauline lasciarono la loro idilliaca re-sidenza all’ombra degli alberi, amici e conoscenti, la musicalità lineare della lingua materna... e loro figlio. Convinti che le difficoltà finanziarie non doves-sero influire sulla carriera di Albert, lo lasciarono alle cure di lontani parenti. Il ragazzo riceveva lettere entusiaste da Milano, alle quali rispondeva telegrafico. Le sue scarne parole non rivelavano che, privato della valvola di sfogo in famiglia, l’ambiente scolastico gli era diventato ir-respirabile. Questo, oltre alla non rosea prospettiva del servizio militare, lo ave-va gettato sull’orlo dello scoramento e lo avviliva sempre di più.

Einstein si sentiva come in un campo di prigionia e si propose di scavare il tun-nel che gli avrebbe permesso di scappare dalla Germania. In qualche modo riuscì a ottenere dal suo medico di famiglia un certificato secondo il quale, se non si fosse immediatamente ricongiunto con i geni-tori, avrebbe corso il rischio di soffrire di una crisi nervosa. Il documento servì affinché la direzione del Luitpold Gym-nasium, che certo non lo annoverava fra i suoi allievi prediletti, lo sollevasse dai suoi obblighi accademici. La parte più difficile era fatta: il 29 dicembre 1894 egli coprì a proprio rischio e pericolo i 350 km che se-

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In alto: Riproduzione del primo generatore elettromagnetico inventato da Faraday. Il disco di rame gira fra i poli di un magnete a forma di serratura. Il movimento produce un flusso di corrente nel disco, trasformando l’energia meccanica in elettrica.In basso: Illustrazioni di Faraday che mostrano il comportamento della lana di ferro in prossimità di un magnete o combinandone diversi insieme.DK LIMITED / CORBIS (IN ALTO); M. FARADAY ELECTRICITY (IN BASSO)

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parano Monaco da Milano. Non si tratta-va di una visita per festeggiare capodanno insieme: Einstein fece capire chiaramente a Pauline ed Hermann che la sua decisio-ne di non rimettere più piede al Luitpold era irrevocabile.

Questo inatteso colpo di testa lasciava il suo futuro appeso a un filo. Da una parte, se non completava gli studi superiori, non avrebbe potuto iscriversi in nessuna univer-sità tedesca. Il servizio militare comportava poi una situazione ancora più difficile. Al compimento dei diciassette anni, i cittadi-ni tedeschi che restavano all’estero e non si presentavano per adempiere ai loro obblighi militari erano considerati disertori.

Durante un viaggio in bicicletta con le Alpi sullo sfondo in direzione di Genova, prese la decisione di rinunciare alla citta-dinanza tedesca e chiedere quella svizzera. Scartata la sua partecipazione all’impresa di famiglia, Einstein decise di iscriversi al Politecnico Federale di Zurigo che of-friva due attrattive irresistibili: era fuori dai confini tedeschi, ma all’interno della zona germanofona svizzera, e godeva di un solido prestigio nell’insegnamento superiore di fisica e matematica. Fra i suoi docenti vi erano alcune delle grandi personalità scientifiche dell’epoca, come Heinrich Weber, Adolf Hurwitz ed Her-mann Minkowsky.

Einstein trascorse la maggior parte del 1895 tra Milano e Pavia, preparando da solo gli esami di ammissione al Politecni-co. Mentre si lasciava conq uistare dalla Sindrome di Stendhal e si innamorava dell’Italia, visitava di quando in quando la fabbrica per dare una mano. Jakob si stupiva che fosse in grado di risolvere in un quarto d’ora problemi che avevano te-nuto in scacco i suoi tecnici per giorni.

Questa tormenta di eventi finì per su-scitare nella mente di Einstein una prima rivelazione fisica. Così ricordava cin-quant’anni più tardi nelle sue Note auto-biografiche:

Questo principio nacque da un parados-so che mi si presentò già a sedici anni: correndo dietro a un fascio di luce con velocità c [la velocità della luce nel vuo-to], dovrei percepire il raggio luminoso come un campo elettromagnetico sta-zionario, sebbene spazialmente oscillan-te. Questo fenomeno, però, non sembra esistere né sulla base dell’esperienza né secondo le equazioni di Maxwell.

Questo paradosso lo tormentò per die-ci anni, periodo che gli fu necessario per risolverlo. Senza saperlo, aveva piantato nella sua immaginazione il seme della te-oria della relatività speciale. In estate trovò il tempo per scrivere il suo primo articolo scientifico, Indagine sullo stato dell’etere in un campo magnetico, che inviò a uno dei suoi zii, Caesar Koch.

In ottobre Pauline e Albert attraver-sarono in treno la frontiera diretti a Zu-rigo. Non sappiamo se a Einstein tremò la mano mentre scriveva il suo nome sui fogli di esame, conscio che era in gioco il suo futuro. Questo primo assalto terminò tuttavia con un fallimento, sebbene fosse andato così bene nelle materie scientifiche e matematiche da impressionare il pro-fessore di fisica, Heinrich Weber, che lo invitò ad assistere alle sue lezioni. Il pre-side del Politecnico gli consigliò quindi di completare gli studi superiori in una scuola cantonale di Aarau, una pittoresca cittadina a metà strada fra Zurigo e Basi-lea. L’anno successivo, dopo il consegui-

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mento del diploma, avrebbe accettato la sua domanda di ammissione.

Lontano dall’atmosfera oppressiva dell’Impero tedesco, il carattere di Einstein poté sbocciare. Dopo il periodo trascorso in Italia e Svizzera spariscono gli aggettivi “solitario”, “introverso” o “asociale” nelle impressioni di coloro che ebbero modo di conoscerlo ed emerge il profilo di un giovane simpatico, a tratti bohémien, che non disdegnava di corteggiare le donne. Ad Aarau il giovane studente fu ospitato a casa di Jost Winteler, un brillante filologo appassionato di ornitologia e scienze na-turali. Einstein trovò nei Winteler affetto e stimoli intellettuali. Erano allegri e libera-li, discutevano instancabilmente di libri e politica e organizzavano feste alla minima occasione. Einstein chiamava “papà” Jost e “mamma” sua moglie, Pauline, che, ol-tre al nome, condivideva con la sua vera madre la passione per il pianoforte. Non trattò tuttavia i loro figli come veri fratelli, quantomeno non Marie Winteler, della quale fu innamorato per un certo periodo.

Superata la prova ad Aarau, Einstein dava inizio a una nuova tappa della sua

vita come studente di uno dei centri di in-segnamento più prestigiosi della Svizzera.

Durante una delle loro chiacchiere da innamorati, Marie aveva espresso ad Al-bert il suo timore che la fisica avrebbe fi-nito per separarli. Fra gli undici compagni di studi che Einstein conobbe al corso che iniziava nella sezione di matematica del Politecnico c’era l’incarnazione di quelle paure: Mileva Marić, una giovane sveglia e indipendente, capace di condividere con Einstein lo stupore per la teoria cinetica dei gas, una caratteristica decisamente inusuale fra le donne che aveva conosciu-to fino ad allora.

Con lei l’amore dello studente approdò ad altri lidi.

Come all’inizio di un’opera, a dicias-sette anni Albert aveva già affrontato i grandi temi della sua vita: aveva scritto il suo primo articolo scientifico, era stato protagonista di un serio scontro con l’au-torità, si era innamorato e disinnamorato e aveva formulato un interrogativo capa-ce di far scoppiare una vera rivoluzione scienwtifica: cosa sarebbe successo se un raggio di luce fosse stato seguito? j

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C A P I T O L O 2

Ogni movimento è relativo

Nel 1905, Einstein, che allora era un anonimo dipendente dell’Ufficio Brevetti di Berna, pubblicò cinque articoli

che avrebbero rivoluzionato la fisica. Fra questi era presente un primo abbozzo della relatività speciale. Fissando la costante

della velocità della luce nel vuoto, egli condannò per sempre all’oblio qualsiasi nozione familiare di spazio e di tempo.

La Svizzera fu uno scenario chiave nella vita di Einstein, specialmente Zurigo (a sinistra), dove si trasferì a diciassette anni per studiare fisica e matematica nel prestigioso

Politecnico, nelle cui aule conobbe la sua futura prima moglie, Mileva Marić.

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a caccia al raggio di luce fu il filo di Arianna che guidò Einstein fino alla relatività speciale. Una te-oria che, fra le molte altre

cose, fornisce una ricetta per conciliare i punti di vista più diversi. Un vero traguar-do per la fisica che il giovane scienziato fu, invece, incapace di conquistare nella vita privata. Gli anni della sua formazio-ne furono caratterizzati da un’assenza di comprensione quasi totale con i suoi professori del Politecnico, le istituzioni accademiche che avrebbero potuto assu-merlo e la sua famiglia, che sino ad allora gli era servita da parafulmine per le tem-peste esterne. Chiusa la parentesi della sua idilliaca permanenza ad Aarau, tornava sul campo di battaglia. Se avesse pensato a un motto per il suo stemma araldico, sarebbe stato: Albert contra mundum. Il suo modo di intendere l’insegnamento, i rapporti sentimentali o l’esercizio del-la scienza sembrava incompatibile con l’ambiente sociale che gli era toccato in sorte. Fermandosi davanti al primo bivio decisivo, l’inizio della sua carriera da ri-cercatore: su un piatto della bilancia c’era la sua ambizione, il suo particolare modo di fare e, sull’altro, quello delle autorità accademiche. Einstein impiegò anni a trovare un equilibrio fra i due.

La reciproca buona impressione che condivise con Heinrich Weber, dopo il primo tentativo fallito di entrare al Poli-tecnico, svanì rapidamente. Non sembra che il disincanto fosse dovuto alle capa-cità di Einstein, dato che Weber premiò sempre il suo lavoro con valutazioni ec-cellenti. Il giovane fisico, però, non inter-pretava il ruolo del docile discepolo dalla fiducia incondizionata con la convinzio-

ne sperata. Invece dell’altisonante “Herr Professor”, preferiva rivolgersi al docente con uno scarno “Herr Weber”. Durante i primi semestri seguì con entusiasmo le sue lezioni di termodinamica, ma sentì ben presto che stava così evitando la fi-sica che era ansioso di apprendere, la te-oria della termodinamica di Maxwell, e finì per disertare le aule per studiarla per proprio conto. Fortunatamente, come ri-corderà nel suo ultimo ritiro a Princeton, «avevo un amico, Marcel Grossmann, che frequentava con regolarità e prendeva ec-cellenti appunti. Così, invece di soffrire per il senso di colpa, che superavo con soddisfazione, godetti della libertà di sce-gliere come occupare il mio tempo fino a un paio di mesi prima dell’esame».

In aula il suo posto vuoto non passò inosservato e certamente non fu interpre-tato come un segno di rispetto. Il parere di Weber si può riassumere in un avver-timento: «Sei intelligente, ragazzo! Ma hai un difetto. Non lasci che nessuno ti dica niente, assolutamente niente». Dopo avergli teso la mano al suo arrivo a Zurigo, prima di iniziare gli studi, l’insegnante gli girò le spalle quando li terminò. Conclusi gli esami finali, Einstein fu l’unico studen-te che, pur promosso, non ricevette un’of-ferta per rimanere a lavorare nel centro. L’eco di questa porta chiusa in faccia si propagò alle altre istituzioni accademiche. Tutti i possibili datori di lavoro chiede-vano referenze al suo mentore e sembra

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«Se son rose, fioriranno.» Risposta di Michele Besso, ingegnere e amico di Einstein, davanti ai dubbi

di quest’ultimo sulle proprie idee

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In alto: Albert e Mileva fotografati nel 1904 e 1905. Nell’immagine a destra, la coppia posa insieme al figlio, Hans Albert. In basso: Mileva con Hans Albert ed Eduard, il secondo figlio avuto con Einstein durante il matrimonio.AGE / FOTOSTOCK (SOPRA A SINISTRA); ALBUM (SOPRA A DESTRA); CORDON PRESS (SOTTO)

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che Weber rispondesse puntualmente e con sincerità. Le richieste di un posto da assistente, il primo gradino indispensabi-le per iniziare una carriera da ricercatore, si scontrarono con un muro di silenzio. L’iniziale reazione di Einstein fu di indi-gnazione. «È veramente spaventoso pen-sare agli ostacoli che questi vecchi filistei pongono sul cammino di chiunque non sia della loro cricca», scriveva nel dicembre 1901. «Queste persone considerano istin-tivamente ogni giovane intelligente come una minaccia per la loro putrescente di-gnità». In seguito la prese con più ironia e rassegnazione: «Dio creò l’asino e gli diede la pelle spessa».

Ma questo non era l’unico conflitto nato nelle aule del Politecnico per colpa della sua allergia alle convenzioni. Appena arrivato, durante il semestre dell’inverno del 1896, conobbe una studentessa serba di quattro anni più grande giunta in Svizzera per continuare gli studi che le autorità au-stroungariche consideravano inadatti per una donna.

Pauline ed Hermann avevano incorag-giato la relazione tra il figlio maggiore e Marie Winteler. Davanti a Mileva Marić reagirono con lo sgomento di chi vede un fantasma. I complimenti che le ri-servò Pauline sono come un boomerang che la dipinge come una suocera quasi da commedia. Per lei Mileva era «trop-po vecchia» e «fisicamente storpia», una

donna che non poteva «aspirare a una buona famiglia». Con questa convinzio-ne perseguitava il figlio, trasformata in un oracolo funesto: «Lei è un altro libro come te, a te invece serve una donna. Quando avrai trent’anni, sarà diventata una strega». Suo figlio, ovviamente, vede-va le cose in modo diverso. «Comprendo molto bene i miei genitori. Considerano la donna come un lusso per l’uomo, che può permettersela solo quando dispo-ne di una vita agiata. Io però ho un’idea molto diversa del rapporto fra uomo e donna dato che, secondo quel punto di vista, fra una moglie e una prostituta l’unica differenza è che la prima, grazie alle migliori condizioni dell’esistenza, può ottenere dall’uomo un contratto a vita. Una tale opinione è la conseguenza naturale del fatto che nei miei genitori, come nella maggior parte delle persone, i sensi esercitano il dominio diretto sui sentimenti, mentre per noi, grazie alle felici circostanze in cui viviamo, le gioie della vita sono infinitamente maggiori». Il semplice immaginare le conseguenze che avrebbero potuto provocare queste gioie rubava il sonno a Pauline.

Se nell’epoca dorata di Monaco si era divertita ad accompagnare al piano il figlio per interpretare delle allegre sonate, ora era dell’umore giusto solo per un requiem. Hermann e la moglie piangevano Albert come se fosse morto. Dopo aver saputo che Mileva non aveva superato gli esami finali, Pauline domandò: «E adesso cosa sarà di quella ragazza?». Einstein ribatté con determinazione: «Diventerà mia mo-glie». L’unica risposta che seppe dare la madre in quel momento fu gettarsi sul letto e coprirsi il volto con il cuscino per soffocare un attacco di pianto.

«Lei è un altro libro come te, a te invece serve una donna.»

Giudizio di Pauline Einstein sulla futura nuora

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Una scena che Einstein raccontò in dettaglio a Mileva. Non stupisce che la giovane nutrisse poca simpatia per la fu-tura suocera: «Sembra che questa signora nella vita si sia prefissata l’obiettivo non solo di amareggiare il più possibile la mia esistenza, ma anche quella di suo figlio».

Sicuramente l’atteggiamento di Pau-line rispecchiava un’ansia comune nella borghesia dell’epoca: realizzare un buon matrimonio.

La relazione sentimentale fra Mileva e Albert nacque permeata di romanticismo e carica delle migliori intenzioni, di progetti comuni dove la passione amorosa si co-niugava con il fervore scientifico. Einstein restò folgorato appena la conobbe alle le-zioni al Politecnico. Per un uomo con il suo temperamento, la peggiore critica del-la madre si trasformava nel complimen-to più ardente: «Lei è un libro come te». Una donna che aspirasse a una carriera scientifica era una mosca bianca nel suo ambiente sociale, un esemplare prezioso per la sua singolarità. Si immaginavano fare ricerche insieme, discutere insieme, vivere insieme, superando insieme qua-lunque opposizione familiare.

Le lettere che Einstein scrisse in quel periodo a Mileva sono tutte una variazio-ne attorno a due temi ugualmente tota-lizzanti: la fisica e l’amore. Vincendo non poche difficoltà, riuscirono a realizzare il loro sogno. In Ungheria Mileva diede alla luce in modo semiclandestino una figlia che Einstein non conobbe mai, si sposaro-no nel 1903 con una cerimonia alla quale non partecipò nessun famigliare, ebbero altri due figli, subirono l’erosione della convivenza in condizioni economiche estremamente precarie, interpretarono una sinfonia di gelosie e recriminazio-

ni e finirono per combattere una guerra sotterranea, trasformando i figli in armi per ferirsi a vicenda. Il loro idillio sbocciò come una commedia romantica e sfociò in un dramma matrimoniale. Una storia che non susciterebbe alcun interesse, se uno dei coniugi non fosse stato eletto a furor di popolo come una delle icone del XX secolo.

L’autore segreto della relatività?Uno dei capitoli più controversi della bibliografia di Einstein riguarda la par-tecipazione di Mileva alla genesi della relatività. Le scienziate sono state sovente maltrattate durante i secoli per il solo fatto di essere donne e il loro contributo è stato sistema-ticamente occultato, quando non usurpato senza il minimo tentennamento. Gli affronti subiti con atteggiamenti ac-condiscendenti e paternalistici da parte di maestri e compagni di ricerca riempireb-bero i volumi di una biblioteca consacrata all’infamia. Affronti che, ovviamente, non restavano certo fuori dalla soglia di casa. Il matematico inglese William Young (1863-1942), ad esempio, non sembrava essere disturbato dall’idea di mantenere nell’ombra la moglie, la matematica Grace Chisholm (1868-1944): «È vero che do-vremmo firmare entrambi i nostri arti-coli, ma, se così fosse, nessuno dei due ne trarrebbe beneficio. No. Adesso per me ci sono l’alloro della gloria e la conoscenza. Per te solo la conoscenza. Al momento non puoi avere una carriera pubblica. Io posso e ce l’ho».

Possiamo applicare questo modello anche al matrimonio di Albert e Mileva? La relatività è in realtà opera, anche solo in parte, di un’altra persona?

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Sappiamo poco delle discussioni e con-versazioni private fra Mileva ed Einstein. Alcune delle accuse più taglienti sono an-date sfumandosi a un esame più attento, come l’affermazione che vi fosse un ori-ginale di Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento firmato da entrambi.

C’è chi vede più di una mano nella redazione di quell’articolo, dove si get-tano le basi della relatività speciale. Alla fine buona parte dell’imputazione risale a una frase pronunciata da Einstein del 1901 fuori contesto («Sono stato così feli-ce e orgoglioso quando, insieme, abbiamo concluso con successo il nostro lavoro sul movimento relativo») e al fatto che egli si fosse impegnato a consegnare il dena-ro ricevuto con il Nobel a Mileva dopo il divorzio.

Come vedremo più avanti, la nozione di movimento relativo è molto comune in fisica e il 1901 è una data eccessivamente precoce perché si facesse riferimento al contenuto dell’articolo pubblicato quattro anni più tardi. Non c’è inoltre motivo di legare i termini della separazione al rico-noscimento di alcuna paternità scientifica. Sappiamo poi, d’altro canto, che Einstein spese parte del premio in investimenti che andarono in fumo a causa della Grande Depressione.

È innegabile che Mileva potesse com-prendere i suoi articoli e che potesse an-che leggerli a caccia di eventuali errori. Einstein amava discutere delle sue idee con altri, come Michele Besso, Philipp Frank o Maurice Solovine. Il suo pensie-ro era stimolato dall’esercizio dialettico. Risulta difficile immaginare che non con-dividesse le sue speculazioni che la perso-na a lui più vicina e che non chiedesse la sua opinione. Fino a che punto, in questo

scambio, ricevette preziosi suggerimenti? La cosa più probabile è che non si sappia mai fino in fondo.

La maggior parte delle lettere che Mi-leva scrisse a Einstein è andata perduta e, fra quelle conservate, sono scarsi gli accenni scientifici. Le missive di Einstein traboccano di entusiasmo per le sue let-ture e i contatti con altri scienziati. Gli appassionati delle teorie del complotto possono sempre pensare che le lettere che contenevano l’apporto di Mileva furono bruciate in un camino. Si conserva inve-ce parte della corrispondenza di Mileva con l’amica Helene Kaufler-Savic, dove la donna esprime l’ammirazione per il lavoro del marito senza attribuire però a se stessa alcun merito.

L’unica certezza è che il virtuosismo scientifico di Einstein sopravvisse alla vita con Mileva.

La costruzione della relatività ge-nerale, il suo successo più ambizioso e profondo, raggiunse il culmine quando lavorava da solo a Berlino, ormai se-parato dalla moglie. Sebbene sia giusto evidenziare alcuni elementi piuttosto maschilisti, comprensibili per l’epoca, nel trattamento riservato a Mileva da Ein-stein, l’usurpazione non sembra essere in linea con quanto conosciamo della sua personalità.

Prima che le aspirazioni accademiche di Mileva svanissero per sempre, dopo aver fallito per due volte gli esami finali, Einstein si diceva felice di poter condi-videre con lei la sua impresa scientifica.

Da quanto si può leggere dalla sua corrispondenza, la incoraggiò sempre a non darsi per vinta. In diverse occasioni, inoltre, difese con decisione e di sua ini-ziativa altre donne che lottavano contro

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l’ostracismo accademico, come nel caso della matematica tedesca Emmy Noether (1882-1935).

Entrata in societàSebbene la prendesse apparentemente con ironia, Einstein non godeva certo dei suoi continui scontri con il resto del mondo. La strenua difesa del suo rapporto con Mileva non doveva creargli eccessi-vi rimorsi, ma il dolore che suscitava nei genitori l’incertezza del suo futuro pro-fessionale lo tormentava. In una lettera alla sorella Maja questa angoscia affiora in tutta la sua crudezza:

Per i miei genitori non sono altro che un peso […]. Sicuramente per loro sarebbe meglio che non esistessi. Solo la convin-zione di avere sempre fatto quanto mi hanno permesso le mie scarse forze e che vivo anno dopo anno senza conce-dermi un piacere, una distrazione, con l’eccezione di quelli offertimi dai miei studi, mi permette di continuare e, a volte, mi protegge dalla disperazione.

Nei momenti di abbattimento con-templò la possibilità di abbandonare per sempre le sue aspirazioni scientifiche e di impiegarsi in una società di assicurazioni. Riuscì tuttavia a restare a galla, facendo equilibrismi tra un lavoro precario e l’al-tro: diede lezioni private, sostituì un pro-fessore di matematica alla scuola tecnica superiore di Winterthur, fu tutore in un collegio di Schaffhausen… e, in qualche caso, mangiò davvero poco.

Il suo amico Friedrich Adler confessò che, in alcune occasioni, temette che po-tesse addirittura morire di fame. Quando il suo ex mentore Max Talmey, ormai di-

ventato medico, gli fece visita e vide dove viveva, affermò che: «Il suo ambiente ri-velava una povertà notevole».

Infine, grazie all’intercessione dell’ex compagno del Politecnico Marcel Gros-smann, Einstein ottenne un posto all’Uf-ficio Brevetti di Berna.

In cambio di uno scarso stipendio doveva valutare l’efficacia delle inven-zioni che aspiravano a un brevetto, per la maggior parte con fondamenti di elet-trotecnica. Era in realtà un’occasione per lasciarsi trasportare dal flusso creativo degli inventori e tornare all’universo ac-cogliente delle bobine, dei trasformatori e delle dinamo al quale era stato iniziato dallo zio Jakob.

Come scrisse alla vedova di Gros-smann trentaquattro anni dopo, si trat-tava di un lavoro «senza il quale non sarei morto, ma avrei gettato via il mio spiri-to». Il posto gli offriva la stabilità psicolo-gica ed economica necessaria per mettere radici e riordinare le idee.

Nel 1905 Einstein ebbe uno dei debutti più memorabili della storia della scienza. Da una posizione assolutamente margina-le del sistema, pubblicò cinque articoli nei quali parlava della natura quantistica della luce, del moto browniano, della relatività speciale e dell’equivalenza fra massa ed energia. Quando la comunità scientifica infine li notò, cercò invano nelle ultime pagine o nelle note in calce qualche ri-ferimento al lavoro di un cattedratico o professore universitario.

Nel suo articolo fondamentale sulla re-latività (Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento), Einstein non cita altri fisici se non Newton, Faraday e Maxwell. La sua unica frase di ringraziamento è per un collega dell’Ufficio Brevetti: «Per conclu-

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IL MOTO BROWNIANO

Nel giugno del 1827 il bota-nico scozzese Robert Brown iniziò ad analizzare al micro-scopio un campione di gra-nelli di polline immersi in acqua. Osservò che le loro particel-le, amiloplasti e sferosomi, sussultavano nel l iquido come se fossero soggetti al costante bombardamento di proiettili invisibili. Gli impatti li facevano ruotare e perdere in traiettorie a zigzag. Brown non poteva osservare con il suo microscopio da 300 in-grandimenti le molecole d’acqua che si scontravano in modo casuale, milioni di volte, contro i minuscoli og-getti che erano immersi nel liquido e li muovevano, co-municando la loro agitazione termica. L’esistenza stessa degli atomi fu messa in dub-bio da alcune autorità scien-tifiche fino all’inizio del XX secolo. Nel maggio del 1905 Einstein completò un articolo che contribuì a concludere la polemica: Sul movi-mento di piccole particelle sospese in un liquido stazionario secondo la teoria cinetica molecolare del calore, testo nel quale portò a termine un’analisi statistica di quali effetti percettibili causerebbe l’agitazione termica delle molecole invisibi-li. Nell’introduzione si mostrava cauto nel descrivere il rapporto fra il suo studio e le osservazioni di Robert Brown:

In questo articolo si dimostrerà che, in accordo con la teoria cinetico-molecolare del calore, i corpi di una dimensione visibile al microscopio, sospesi in un fluido, devono realizzare, come risultato dei movimenti molecolari termici, movimenti di tali dimensioni da poter essere facilmente osservati al microscopio. È possibile che i movimenti che qui saranno dibattuti siano identici a ciò che si denomina moto molecolare browniano [...].

Il francese Jean Perrin verificò in laboratorio le predizioni di Einstein tre anni dopo. Nel suo libro Gli atomi riassumeva così lo stato della questione: «Credo che d’ora in avanti sarà difficile sostenere con argomentazioni razionali un atteggiamento ostile alle ipotesi molecolari».

Diagramma di Jean Perrin nel quale si mostra il movimento erratico di minuscoli granelli immersi in un liquido.

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dere, ricordo che nel lavoro sul problema trattato il mio amico e collega M. Besso è stato fedelmente al mio fianco e a lui devo riconoscere molti e validi stimoli». Era come dire ai membri della comunità scientifica che se ne facessero una ragione e che proprio nulla doveva loro.

I precursori della relativitàLa scienza ha trionfato lì dove hanno fallito la storia, la filosofia e il diritto e dove fal-liamo noi uomini giorno dopo giorno: nel porre d’accordo i più diversi osservatori su ciò che accade in realtà mediante relazioni matematiche e certe. Ovviamente un tale traguardo è stato conquistato a costo di un «piccolo» sacrificio: cestinare le nozioni in-tuitive di tempo e spazio.

Il primo passo verso il principio della relatività è da attribuire a Galileo Galilei che, nella seconda giornata del suo Dialo-go sopra i due massimi sistemi del mondo, proponeva ai suoi lettori un curioso espe-rimento:

Chiudetevi con un amico nello spazio più grande sottocoperta di una nave e chiu-dete con voi anche un pugno di zanzare, mosche o altri piccoli insetti. Portatevi un grosso vaso con dell’acqua e riempi-telo di pesci; appendete una bottiglia che goccioli acqua in un’altra dal collo stretto posta sotto di essa. Con la barca in acque tranquille osservate quindi come gli insetti volano con velocità simile verso ogni lato della stanza, come i pesci nuo-tano indifferentemente in ogni direzione e come tutte le gocce cadano nella botti-glia situata sotto di loro. Lanciando qua-lunque oggetto al vostro amico, inoltre, non dovrete tirarlo con più forza in una direzione piuttosto che un’altra, sempre

che le distanze siano uguali, e saltando per la stanza arriverete tanto lontani in una direzione come in un’altra.Dopo aver osservato queste particolarità, credo che nessuno dubiterà che, fino a quando la barca resterà in acque tranqui-lle, le cose non debbano verificarsi in modo diverso; fate in modo che la barca si muova a una velocità voluta, con un movimento però uniforme e senza osci-llazioni in un senso e in un altro. Non sarete in grado di distinguere alcuna modifica negli effetti citati né potrete dedurre dall’uno o dall’altro se la barca si muova o meno.

Con il termine uniforme Galileo inten-deva «a velocità costante».

Tutte le esperienze qui suggerite sono di natura meccanica. Cerchiamo indizi del movimento della barca nella traiettoria delle mosche, nel gocciolare dell’acqua o nella deriva dei pesci. Eppure non li tro-viamo. Senza un’immagine dell’esterno, nella stiva priva di boccaporti di una nave, siamo incapaci di capire se siamo fermi o ci spostiamo a velocità costante.

Non possiamo fidarci neppure degli occhi. Quando guardiamo dal finestrino di un vagone fermo in stazione e parte il treno situato accanto al nostro, abbiamo l’impressione di essere noi a esserci messi in moto. Un miraggio che termina quan-do scompare l’altro treno e, al suo posto, osserviamo il binario deserto. Come ab-biamo imparato da bambini salendo sulle montagne russe, il miglior rilevatore di movimento è quello che abbiamo “in-stallato” nella pancia e che risponde solo all’accelerazione. Scartata la testimonianza della vista, dovremo riporre la nostra fidu-cia nella matematica.

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Avvicinandoci al pontile di Galileo possiamo ripetere l’esperimento nel modo seguente. Selezioniamo due punti di vista, denominati dai fisici in gergo tecnico si-stemi di riferimento.

Si tratta di un concetto astratto. Se lo troviamo più comodo, possiamo immagi-narlo impersonato da un individuo seb-bene i sensi umani siano poco affidabili.

Si potrebbe inoltre utilizzare anche un apparecchio che registri una o più gran-dezze fisiche. Per praticità li distinguere-mo con le lettere G e D. Se un sistema di riferimento è fermo o si sposta a velocità costante in relazione a un altro, diremo che è un sistema inerziale.

Installiamo uno dei due sistemi sul pontile, a riposo. Misureremo tutte le di-stanze dal punto dove si trova Galileo (G), che considereremo come l’origine delle coordinate.

Alla sua destra e davanti a lui consi-dereremo le distanze positive; alla sua sinistra e dietro, quelle negative. In rela-zione alla posizione di Galileo possiamo determinare per mezzo di due numeri (coordinate x e y) la posizione di qualun-

que elemento (potrebbe essere una mosca, una persona o una bottiglia) presente nello spazio (figura 1).

Non è l’unico punto di vista ammissi-bile. Il nostro secondo sistema viaggerà a bordo dell’imbarcazione, nella stiva, e sarà Domenico, uno degli studenti di Galileo all’Università di Pisa che ha deciso di ese-guire l’esperimento.

Domenico si posiziona nell’angolo in-feriore sinistro della stiva, come mostra il disegno, da dove faremo partire l’origine delle sue coordinate (D).

Supponiamo che l’imbarcazione na-vighi a velocità costante u verso destra, mantenendo la linea di bordo praticamen-te attaccata al molo.

Ci interessa che Galileo possa spiare Domenico, ma che lo studente non riceva alcuna informazione visiva di ciò che ac-cade fuori dalla stiva. A tal fine possiamo immaginare che volti le spalle a una serie di oblò che offrono una vista dell’interno. Galileo, guardando Domenico, osserva che la posizione dello studente cambia man mano che l’imbarcazione avanza (figura 2).

y

x

y '

x 'D

G

u

x

y

xx'

G

y'

D

x1

x2

x3

FIG. 1 FIG. 2

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Entrambi hanno a disposizione un orologio che hanno sincronizzato prima di separarsi in modo da poter registrare i tempi. Se si stanca di misurare le distanze, Galileo può calcolare con facilità la posi-zione del suo allievo in ogni istante. Gli basta moltiplicare la velocità della nave (u) per il tempo indicato dall’orologio (t). Chiamando x la distanza percorsa da Domenico, otterremo:

x = u · t

Chiuso nella stiva con le sue mosche, il giovane non si rende conto che si sta allontanando dal suo maestro. Per lui la sua posizione è sempre la stessa: x' = 0.

Se osserva una mosca volare attorno a lui, darà le sue coordinate (x'm, y'm).

Anche Galileo osserva l’insetto attra-verso un oblò e ottiene per l’altezza alla quale vola un valore, ym, che coincide con quello di Domenico, y'm. Non riescono tuttavia a mettersi d’accordo sulla posi-zione orizzontale, xm e x'm. A ogni movi-mento in avanti e indietro della mosca per la stiva Galileo aggiunge sistematicamente lo spostamento u costante dell’imbarca-zione.

Arrivati a questo punto possiamo domandarci: c’è un modo di mettere in relazione le osservazioni di maestro e di-scepolo? La risposta, affermativa, si trova nelle equazioni seguenti che prendono il nome di trasformazioni galileiane:

x = x' + u · t'y = y' [ 1 ]t = t'

Grazie a esse Galileo può “tradurre” nel suo sistema qualunque traiettoria calcolata da Domenico, tanto di una mosca come di qualunque altro oggetto che stesse os-servando. Lo studente ha a sua volta un proprio gruppo di trasformazioni per in-terpretare le impressioni di Galileo:

x' = x − u · ty' = yt' = t

L’unica differenza sta nel fatto che Do-menico deve sottrarre e non sommare la distanza orizzontale percorsa. Restando all’interno della stiva e ricevendo a voce le informazioni sulle distanze che lo sepa-rano da Galileo, arriverà alla conclusione che quest’ultimo si stia allontanando verso sinistra a velocità costante –u.

Facendo un mezzo giro e gettando un’occhiata dall’oblò scoprirà, tuttavia, di essere lui a muoversi, mentre il suo mae-stro rimane fermo sul pontile.

Una convinzione a sua volta falsa per-ché, ben lungi dal restare fermo, Galileo si trova sulla superficie di un pianeta che si muove a 30 km/s attorno al Sole, oltre a gi-rare come una trottola a oltre 1.500 km/h.

Allora sarà il Sole a stare fermo? Per nulla. È una stella che gira attorno al cen-tro della Via Lattea. E la nostra galassia? Possiamo continuare a saltare da un si-stema all’altro senza sosta, complicando sempre più le traiettorie.

Se, ad esempio, per descrivere il per-corso di un’auto fossimo costretti a con-siderare la velocità alla quale si sposta in compagnia della Terra, del Sole e della Via Lattea, riempiremmo pagine di calcoli inu-

[ 2 ]

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tili. Possiamo concludere che risulta più pratico fissare un punto di vista e calcolare il nostro movimento relativo rispetto a tale punto. In realtà il dibattito eliocentrico o geocentrico non versa attorno al fatto che la Terra giri attorno al Sole o se sia il Sole a girare intorno alla Terra.

I due punti di vista sono ugualmente validi, la questione è che nessuno preva-le sull’altro, fatto salvo per la semplicità delle traiettorie. La Terra traccia delle el-lissi intorno al Sole. Il Sole disegna riccioli di estrema complessità attorno al nostro pianeta. Le mosche, i satelliti e le navi mo-dificano la loro posizione quando li os-

serviamo al passare del tempo. In base al nostro punto di osservazione, la “danza” che eseguono attorno a noi sarà diversa, ma tutte le prospettive sono valide e pos-siamo tradurre delle impressioni in altre senza che si contraddicano logicamente.

Le esperienze che propone Galileo nella stiva della nave prevedono delle accelera-zioni. Parlando di gocce che cadono da una bottiglia all’altra, di mosche che vo-lano o persone che saltano, passiamo per i domini di Newton che inventò il calcolo per esprimere in modo appropriato le leg-gi della dinamica. Le sue equazioni regi-strano accelerazioni, pertanto variazioni di

UNA LEGGE CIECA

Muovendoci in una sola dimensione, possiamo scrivere la seconda legge di Newton:

F d m vdt

m dvdt

=⋅

= ⋅ =( ) . : mm d x

dtm a⋅ = ⋅

2

2 .Se m è costante F

Questa ricetta per descrivere la realtà adotta la stessa forma nei due sistemi di riferimento.

Per :G F m d xdt

= ⋅2

2 .

Se rapportiamo al sistema della stiva, mediante l’espressione di Galileo, qualunque forza misurata sul pontile, come quelle che intervengono in un salto o nei cambi costanti di ve-locità di un pesce o di una mosca:

F md xdt

md x u t

dtm

d xdt

md u t

dt

md xdt

m ud tdt

md xdt

F

( ' ')'

''

( ')'

''

( ')'

''

' .

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

= ⋅ = ⋅+ ⋅

= ⋅ + ⋅⋅

=

= ⋅ + ⋅ ⋅ = ⋅ =

Successivamente G e D applicheranno esattamente la stessa espressione per descrivere la forza, ognuna riferita alle proprie coordinate. La trasformazione di Galileo lascia intatte le equazioni della dinamica.

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velocità, quindi sono “cieche” alla velocità costante dell’imbarcazione. Si muove Ga-lileo o si muove Domenico? Le equazioni di Newton non si pronunciano a favore del punto di vista di nessuno dei due si-stemi. Questo è il principio della relatività di Galileo. Gli esperimenti meccanici non servono per determinare se ci spostiamo con una velocità costante o restiamo fermi. Con la dinamica classica alla mano pos-siamo parlare di movimenti relativi, ma non assoluti.

Il secondo gioiello della corona newto-niana, la legge di gravitazione universale, dipende dalla distanza fra i corpi, un’altra grandezza relativa che non è influenzata da una variazione delle coordinate fra si-stemi inerziali. In generale, Domenico e Galileo si trovano a distanze diverse dagli oggetti attorno a loro, pur misurando le stesse lunghezze che li separano.

La relatività si elettrificaLa scienza del XIX secolo si ubriacò con la rivoluzione portata dall’elettricità, ma si svegliò con i postumi derivanti dai suoi problemi teorici.

Nel capitolo precedente ne abbiamo esa-minati alcuni, ma ci siamo limitati a rac-contare solo una piccola parte della storia. Le interazioni elettromagnetiche, che di-pendono dalla velocità, non solo compli-cavano lo scenario delle forze centrali e istantanee o compromettevano il princi-pio di azione e reazione. Minacciavano anche il regno delle relatività fondato due secoli prima da Galileo.

Per iniziare, le leggi di Maxwell non erano come quelle di Newton: cambia-vano con una trasformazione galileiana. In qualunque sistema inerziale si può esprimere la forza come un prodotto di massa per accelerazione, senza aggiungere necessariamente nuovi termini dovuti a una variazione di coordinate.

Le equazioni di Maxwell, tuttavia, era-no oggetto di una metamorfosi paragona-bile a quella del dottor Jekyll e di Mr Hyde. In un sistema a riposo, come il pontile, mostravano un aspetto conciso ed elegan-te, ma, eseguendo la traduzione data dalla formula [2] per passare a un sistema in movimento, come la barca di Domenico, si evidenziavano diversi tipi di termini nuo-

GD

d

1

2

Sebbene gli osservatori G e D misurino distanze diverse ai punti 1 e 2, la distanza d fra i punti 1 e 2 è la stessa per entrambi.

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vi che complicavano le equazioni. Questi termini, inoltre, descrivevano fenomeni fi-sici mai osservati prima. Le linee di campo intorno a un magnete, ad esempio, che a riposo tracciano delle corde chiuse, risul-tavano tagliate in movimento. In questo caso le equazioni di Maxwell non sareb-bero state “cieche” alla velocità costante e avrebbero offerto un metodo per identifi-care uno spostamento uniforme.

È curioso che Maxwell abbia dedotto le sue eleganti equazioni da fenomeni re-gistrati sulla superficie terrestre che tutti erano d’accordo nel considerare un siste-ma di riferimento in movimento. La Terra godeva forse di privilegi rispetto agli altri sistemi? La questione apriva un abisso ge-ocentrico davanti ai fisici. Aveva quindi ragione la Bibbia quando sosteneva che gli astri giravano attorno al nostro pianeta? Il sistema terrestre era l’unico assolutamen-te fermo, l’unico nel quale le equazioni di Maxwell manifestavano tutta la loro forza e semplicità?

Senza dover necessariamente uscire dallo spazio, ripetendo l’esperienza di Do-menico e chiudendosi nella stiva di una nave, sostituendo le bottiglie, le mosche e i pesci con magneti, bobine con correnti e onde elettromagnetiche, si costatava che le linee di campo non si spezzavano e che, in generale, gli strani fenomeni previsti dai nuovi termini non si presentavano. Seb-bene le equazioni di Maxwell si mostras-sero ugualmente eleganti e semplici nei due sistemi di riferimento, gli esperimenti elettromagnetici non servivano neppure per stabilire se un osservatore si spostava a velocità costante o era fermo, ancorato al pontile.

Per risolvere queste contraddizioni l’unica alternativa era correggere le tra-

sformazioni galileiane, sebbene dettate dal buon senso.

Nel 1904 lo scienziato olandese Hen-drik Lorentz (1853-1928) propose un nuovo gruppo di equazioni per tradurre le coordinate fra sistemi separati da una velocità costante. La comunità scientifi-ca celebrò l’evento battezzandole con il suo cognome: nascevano così le trasfor-mazioni di Lorentz. Offrivano da subito un’irresistibile attrattiva: se si applicavano alle equazioni di Maxwell, queste ultime conservavano la loro mirabile struttura. Inoltre, per velocità molto più basse di quella della luce, si riducevano a quelle di Galileo.

Dato che le velocità alle quali ci spo-stiamo sono solitamente piuttosto limi-tate se confrontate con quella della luce, non doveva stupire che il nostro buon senso non colpisse subito nel segno con le espressioni di Lorentz e si adattasse per diversi secoli all’approssimazione di Gali-leo. La correzione che introducevano era tanto piccola che fu individuata prima da speculazioni teoriche che in laboratorio.

I fisici non avevano ancora smesso di rallegrarsi per i vantaggi formali dell’in-venzione di Lorentz che i suoi effetti secondari cancellarono di colpo il loro sorriso.

Le trasformazioni assegnavano, a un tempo dato del sistema a riposo, un’infi-nità di tempi diversi nel sistema in movi-mento. Di fatto un numero infinito, uno per ogni punto nello spazio. In questo modo due eventi che sono percepiti come simultanei in punti separati del pontile non lo erano più per un osservatore che si trovasse nella stiva della nave.

Giocando un po’ con le equazioni ci si immerge in un mondo dove i corpi,

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LE TRASFORMAZIONI DI LORENTZ

Si possono esprimere nel modo seguente:

xuc

x u t' · ( · )=

−1

12

2

xuc

x u t=

+1

12

2

· ( ' · ')

y ' = y y = y'

tuc

t uc

x' · ( · )=

−1

12

2

2

tuc

t uc

x=

+1

12

2

2· ( ' · ')

È sufficiente esaminare l’espressione che pone in relazione t ' con t e x per vedere le nuvole addensarsi all’orizzonte. A un tempo dato del sistema a riposo, t, corri-spondono diversi valori di t ', di fatto infiniti, in base al punto nello spazio dove ci posizioniamo (pertanto per i diversi valori di x). Due eventi percepiti allo stesso tempo in punti separati del pontile smettono di essere simultanei dalla stiva della nave. Si verifica inoltre che, per velocità molto più basse di quella della luce (per

cui i termini u 2/c 2 e u/c 2 sono pratica-mente nulli) le equazioni si riducono alle trasformazioni di Galileo. Per farci un’idea della dimensione della corre-zione che introducono, possiamo pro-vare a calcolare il valore di u 2/c 2 nel caso di una persona che cammina (a circa 5 km/h) e di un proiettile (imma-giniamo 1000 m/s): rispettivamente 2,1 · 10−17 e 1,1 · 10−11. Le trasforma-zioni presentano un aspetto gradevo-le all’occhio del fisico e una certa sim-metria fra le variabili. Se x' dipende da x e t, anche t ' dipende da esse. Nel caso di Galileo il tempo t ' non dipen-deva dallo spazio x'. Questa struttura suscitò un déjà vu nei matematici: ri-cordava loro le equazioni di una rota-zione nello spazio. L’analogia condusse alla costruzione dello spazio-tempo, dove le trasfor-mazioni di Lorentz sono rotazioni in uno spazio quadridimensionale.

ARCHIVO RBA

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quando si muovono, apparentemente rimpiccioliscono e il tempo in loro sembra scorrere più lentamente.

I fisici richiedevano incrollabili mo-tivazioni per accettare simili sregolatez-ze e vi si opposero con le unghie e con i denti. Prima di arrendersi investirono tutte le loro energie per riuscire a inseri-re l’elettromagnetismo in un quadro più familiare.

I venti dell’eterePrima del lavoro di Maxwell ed Hertz, gli unici fenomeni conosciuti che si propaga-vano sotto forma di onda lo facevano con il supporto di un mezzo, ad esempio il suono attraverso l’aria o l’acqua. Il buon senso, sempre pericoloso, invitava ad assurgere questa circostanza a principio universale. Le equazioni di Maxwell interpretavano la luce come un’onda, pertanto si impo-

L'ESPERIMENTO DI MICHELSON E MORLEY

Nel 1887 Albert Michelson ed Edward Morley cercarono di misurare l’azione dell’etere sulla Terra in movimento, un effetto simile a quello del vento che un motociclista avver-te quando attraversa una massa d’aria in condizione di quiete. Possiamo scomporre l’esperimento in quattro fasi:

1. Si divide in due un fascio luminoso in modo che si separi in direzioni perpendicolari. A tal fine si utilizza una lastra di vetro coperta di una pellicola d’argento dello spes-sore necessario per deviare la metà della luce e lasciare passare l’altra metà. A partire da questo punto i due fasci percorreranno due distanze della stessa lunghez-za.

2. Alla fine di ogni percorso si posiziona uno specchio per far rimbalzare i fasci di luce.

3. La direzione di uno dei fasci coinciderà con lo spostamento della Terra. Se esistes-se l’etere solcato dal nostro pianeta nel suo viaggio orbitale, la sua presenza rom-perebbe la simmetria nel percorso dei due fasci.

4. Quando due onde, A e B, coincidono, si verifica un fenomeno chiamato interferenza.

Se si sincronizzano perfettamente, i ventri (punti più bassi) e le creste (punti più alti) di una e dell’altra si rafforzano vicendevolmente dando come risultato l’onda C (fi-gura 1).

Se si uniscono in modo che ogni ventre coincida con una cresta e viceversa, entrambe si annullano (figura 2). Più comune è un risultato intermedio, in modo che non coincida-no né si annullino esattamente (figura 3). Studiando il modello di interferenza delle onde luminose che si riuniscono dopo un viaggio di andata e ritorno dagli specchi, dovremmo attenderci un terzo risultato. Uno dei fasci, quello che viaggia nella direzione di sposta-mento della Terra, dovrebbe essere soggetto a un effetto di trascinamento dell’etere e

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neva l’esistenza di un mezzo attraverso il quale potesse propagarsi: l’etere. Dato che non erano come i filosofi greci, invece di tracorrere il tempo speculando sulle pro-prietà dell’etere, gli scienziati si chiusero in laboratorio per individuarle. Pensarono a esperimenti estremamente sensibili e det-tagliati per identificare qualche segno del vagare di questa Terra immersa nell’etere. Il risultato fu sempre negativo.

L’etere si comportava come l’assassino di un noir: commetteva il delitto di tra-sportare la luce, ma non lasciava traccia. Si poteva accettare che esso fosse sottile, ma cominciava a essere fin troppo etereo anche per essere etere. Alcuni, al culmine della disperazione, arrivarono a denun-ciare una cospirazione della natura che si divertiva a giocare a nascondino con gli scienziati.

A

B

C

A

B

C

A

B

C

Sfasamento

arrivare più tardi al punto di incontro, perdendo la sincronia con l’altro fascio. Si scoprì, tuttavia, un accordo perfetto fra entrambi. La luce sembrava ignorare completamente il movimento della Terra. In modo curioso, Einstein, che non conosceva l’articolo di Michel-son e Morley, propose a Weber un esperimento molto simile come tesi conclusiva dei suoi studi. Il suo tutor non accettò.

FIG. 1

FIG. 2

FIG. 3

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In questa atmosfera di sospetto si tentò ogni tipo si spiegazione. Alcune si avvici-narono all’obiettivo o riuscirono a strap-pare qualche frammento di verità. Molte delle risposte erano implicitamente già contenute nelle equazioni di Maxwell, se si sapeva leggerle sotto la luce giusta. In realtà, quando Einstein si presentò sulla scena, Lorentz ed Henri Poincaré aveva-no già raccolto tutte le tessere del puzzle. Lorentz aveva introdotto la trasformazione che consentiva di saltare da un sistema di riferimento a un altro senza smantellare le equazioni di Maxwell e dedotto alcune delle loro implicazioni fisiche più rilevan-ti, come la contrazione spaziale. Poincaré aveva seguito molto da vicino il lavoro dell’olandese, con il quale manteneva una corrispondenza di natura scientifica. Fra il 1898 e il 1905 aveva stabilito autono-mamente il principio della relatività, po-stulando la costante della velocità della luce e mettendo in dubbio il concetto di simultaneità. Entrambi però erano accecati dalla “nebbia” dell’etere, dal peso di una certa tradizione, come se, dopo aver bat-tuto tutte le piste sulla scena del crimine, non volessero riconoscere che l’assassino poteva essere un nobile.

Einstein interpretò il ruolo del detecti-ve privato, scevro da pregiudizi o doveri istituzionali che gli impedissero di sma-scherare il vero colpevole. Poincaré seppe riconoscere questo vantaggio: «Ciò che più ammiro in lui è la facilità con la quale si adatta a nuovi concetti. Non resta attaccato ai principi classici».

Da parte sua Einstein ammise che «sen-za dubbio, se consideriamo in modo re-trospettivo lo sviluppo della teoria della relatività speciale, nel 1905 era già matura per essere scoperta».

Con il suo profondo senso estetico non poteva accettare che l’elegante impianto delle equazioni di Maxwell si disfacesse con un semplice cambiamento del siste-ma di riferimento. La sua convinzione che, nell’elettromagnetismo, importassero unicamente i movimenti relativi deriva-va dal fenomeno dell’induzione scoperto da Faraday. L’articolo nel quale fonda la relatività, Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, inizia con le seguenti parole:

È noto che, quando si applica a un corpo in movimento, l’elettrodinamica di Maxwell, così come si intende solitamen-te oggi, conduce ad asimmetrie che non sembrano inerenti ai fenomeni. Prendia-mo, per esempio, l’interazione elettrodi-namica fra un magnete e un conduttore. Qui i fenomeni osservabili dipendono solo dal movimento relativo fra il con-duttore e il magnete, mentre la visione abituale traccia una distinzione netta fra i due casi, dove è in movimento o un cor-po o l’altro.

Sebbene la sua convinzione derivasse da una profonda e quasi istintiva cono-scenza dei fenomeni elettromagnetici che aveva alimentato sin da bambino nella fab-brica di famiglia, Einstein si rese conto che le implicazioni della trasformazione di Lo-rentz trascendevano la sua relazione con l’elettrodinamica. Non era ossessionato dallo «smascherare» la «cospirazione della natura» che frustrava la caccia all’etere. Si mostrava più ambizioso: cercava un qua-dro concettuale generale che, come le leggi della termodinamica, si applicasse a tutta la fisica. Ispirato forse dalla struttura de-gli Elementi di Euclide, voleva fissare una serie di postulati per confrontarsi succes-

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sivamente con le loro logiche conseguenze, che avrebbe risolto una a una, passo dopo passo, attraverso un processo deduttivo e inevitabile. Così nelle audaci osservazio-ni contenute nelle trentuno pagine scritte fitte di Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento si cimenta con due soli punti:

– Le leggi fisiche adottano la medesima forma in tutti i sistemi di riferimento considerati con movimento uniforme.

– La velocità della luce nel vuoto è la stes-sa per qualunque sistema di riferimento inerziale.

Questo modo di operare, che compri-meva il nucleo della teoria in due assunti e spiegava un intero universo fisico attorno a essi, stupì particolarmente molti dei suoi lettori. «Il modo di ragionare di Einstein per me fu come una rivelazione – ricono-sceva uno dei padri della meccanica quan-tistica, Max Born. – Ebbe più influenza sul mio pensiero di qualunque altra esperienza scientifica». I postulati di Einstein erano ben lungi dall’essere, come quelli di Eucli-de, supposizioni che, essendo ovvie, erano accettate senza battere ciglio, come la no-stra nozione di ciò che è un punto o una retta. La sua autorità si basava su evidenze sperimentali: «Una teoria presenta un van-taggio importante se i suoi concetti di base e le sue ipotesi fondamentali sono vicini all’esperienza».

Il secondo postulato contraddice l’a-dagio popolare che riassume la teoria affermando che «tutto è relativo». Come fece notare Max Planck: «La teoria della relatività attribuisce senso assoluto a una grandezza che, nella teoria classica, ha solo un carattere relativo: la velocità della luce».

La correttezza del suo valore si evince di-rettamente dalle equazioni di Maxwell.

Lo stesso Einstein faceva notare che il primo postulato «si soddisfa anche nel-la meccanica di Galileo e Newton». Era la costante della velocità della luce che, combinata con il principio della relatività, cambiava tutto. Per concludere, inoltre, le trasformazioni di Lorentz si potevano dedurre direttamente da questo secondo postulato senza un riferimento diretto alle equazioni di Maxwell e così fece Einstein nel suo articolo del 1905.

Per verificare la distorsione che intro-duce la costante della velocità della luce dobbiamo tornare al pontile di Galileo. Porteremo a termine una serie di esperi-menti che realizzeremo prima nel rispet-to delle leggi di Newton (sarà la versione meccanica) e, in seguito, di quelle di Ma-xwell (la versione elettromagnetica). I risultati ci condurranno in un viaggio concettuale che ci restituirà un’immagi-ne della realtà molto più esatta di quella fornita dal buon senso.

E, proprio per questo, molto più inte-ressante e straordinaria.

La fine della simultaneitàAbbiamo già visto come le trasformazioni di Lorentz impongono delle nuove regole del gioco che impediscono agli osservatori di trovare una descrizione comune di ciò che accade se si muovono. Analizziamo ora come la costante della ve-locità della luce influisce sulla simultaneità di due eventi.

Esperimento di meccanicaIniziamo con due sistemi, G (con coordi-nate x e y) e D (x' e y' ). Abitano un uni-verso dove il tempo fluisce uguale in tutti i

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suoi punti, pertanto gli osservatori di tutti e due i sistemi possono confrontare i loro orologi e verificare che camminino allo stesso ritmo.

Versione dall’interno della stivaDue persone che chiameremo A' e B ', si posizionano negli angoli della stiva guar-dando nel senso positivo dell’asse y'. Al centro si trova un meccanismo che spara due palloni contemporaneamente, uno verso destra e uno verso sinistra, entrambi alla stessa velocità v.

Non consideriamo l’azione della gra-vità che curva la loro traiettoria verso il basso, né lo sfregamento dell’aria. Una terza persona, C ' si posiziona fra A' e B', davanti al meccanismo. A', B' e C' hanno sincronizzato i loro orologi e ognuno ri-ceve il compito di registrare un evento di-verso. Il primo, il colpo della palla contro la parete sinistra, il secondo il colpo della

palla contro la parete destra e C', il mo-mento in cui il meccanismo spara (figura 3). Quando il meccanismo lancia i palloni, C' segna il tempo, t'0, sul suo orologio (fi-gura 4). Quando A' e B' osservano il colpo di ogni palla contro la parete corrispon-dente, segnano t'1 e t'2 (figura 5).

I due palloni percorrono la stessa di-stanza (L'/ 2) alla stessa velocità. Se i tre osservatori mettono in comune quanto registrato sui loro orologi e confrontano i valori t'2 − t'0 e t'1 − t'0 , ottengono lo stesso risultato e concludono che i palloni hanno toccato le pareti nello stesso momento. Si tratta di due eventi simultanei.

Versione dal pontilePer riprodurre il procedimento seguito nella stiva, introduciamo un elemento par-zialmente artificiale che acquisterà reale significato affrontando la versione relativi-sta dell’esperimento. Disporremo lungo il

x'A'

y'

C' B'

vv

FIG. 3

A' C' B'

vv

t'0clic!

FIG. 4

A' C' B't'1 t'2

L'2

clic! clic!

L'2

FIG. 5

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o gni MOVIMENTO è REL ATIVO 59

pontile una fila di osservatori, ognuno do-tato di un orologio, che renderanno conto unicamente di ciò che accadrà davanti a loro (figura 6).

L’imbarcazione scivola lungo il pontile a velocità u. Chiameremo C l’osservatore situato davanti al meccanismo esattamente nel momento in cui quest’ultimo lancia i due palloni. Registrerà il tempo t0 sul suo orologio. A e B sono gli osservatori che

registrano i colpi contro le pareti. Segne-ranno i tempi t1 e t2 (figura 7).

Il movimento della barca rompe la simmetria fra il percorso della palla che viaggia verso sinistra e quella che corre verso destra, d. Prima del lancio, gli osser-vatori vedono che il dispositivo si muove a velocità u verso destra. L’apparecchio comunica questa velocità a s e d dato che, prima del lancio, entrambi si muovono al

FIG. 6

y

x

y'

x'

u

vv

x

y'

x'

u y'

x'

Ct0

At1

Bt2

clic!clic! clic!

FIG. 7

u

v–u v+u

uu

Parete Parete

FIG. 8

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60 einstein

suo interno. In un momento dato, il mec-canismo spara i due palloni in direzioni opposte a velocità v.

Sul pontile si osserva che s si dirige verso sinistra a una velocità di v – u e che d si muove verso destra a una velocità di v – u. Dal loro punto di vista s è più lenta e d più veloce. Eppure per A' e B' aveva-no la stessa velocità. Questa differenza di velocità farà sì che colpiscano le pareti in momenti diversi? No, perché s percepisce la parete sinistra che gli viene incontro a una velocità v, mentre d verifica che la sua parete si allontana alla stessa velocità (figura 8).

Entrambi gli effetti si compensano: la palla più lenta percorre meno distanza e la più veloce deve coprire un percorso più lungo. Raggiungono quindi entram-be le pareti allo stesso tempo. Se A, B e C si riunissero e confrontassero gli orologi,

verificherebbero che t2 − t0 e t1 − t0 hanno lo stesso valore. Gli eventi continuano a essere simultanei.

Esperimento elettromagneticoSostituiamo il meccanismo di lancio e i palloni con una lanterna a doppia lam-pada. Accendendosi proietta due fasci luminosi (radiazione elettromagnetica): uno si dirige verso destra e l’altro verso sinistra.

Versione dall’interno della stivaL’esperimento è essenzialmente molto si-mile al precedente, così come lo è il risul-tato. Avremo di nuovo t'2 − t'0 = t'1 − t'0. Gli eventi sono simultanei.

Versione dal pontileSe ricordiamo l’asimmetria introdotta dallo spostamento della nave, la costante

u

c c

uu

Parete Parete

FIG. 10

y

x

uy'

x'

C

y'

x'

A B

y'

x'

u

clic! clic!clic!

FIG. 9

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della velocità della luce impedirà in que-sto caso che si compensi. Il movimento della doppia lanterna non si comunica alla luce, né per aumentarla né per farla dimi-nuire. Gli osservatori del molo arrivano alla conclusione che i fasci s e d hanno la stessa velocità (figura 9). Osservano però come la parete di sinistra vada incontro al fascio s e come la parete destra si allontani da d. Pertanto s rag-giunge la propria destinazione prima di d. In G gli eventi non sono più simultanei! (figura 10).

La contrazione dello spazioContinuiamo a esplorare le conseguen-ze della costante della velocità della luce all’interno del quadro indicato dal prin-cipio della relatività.

Presenteremo una situazione nella qua-le gli osservatori, G e D, assisteranno allo stesso insieme di fenomeni da prospetti-ve diverse e chiederemo loro di estrarre da tali fenomeni il valore di una distan-za. Come per l’esperimento precedente, racconteremo l’evento da ogni punto di vista e, in conclusione, confronteremo i risultati.

Esperimento di meccanicaDue persone, A' e B' si posizionano ne-gli angoli della stiva guardando nel senso positivo dell’asse y'. Sulla parete sinistra installiamo un lanciatore automatico che, se in funzione, lancerà un pallone a una velocità definita v. Il fenomeno fisico che studieremo (in questo caso meccanico) consiste nel lancio e nella parata del pal-lone e ci serviremo di tale fenomeno per misurare la lunghezza della stiva. Detta distanza sarà uguale allo spazio percorso dal pallone da quando esce dal meccani-

smo di lancio fino a quando non colpisce la parete a destra.

Versione dall’interno della stivaA' e B' pensano di essere fermi. A' re-gistra il momento del lancio sul proprio cronometro (t'1) (figura 11). Quando la palla colpisce la parete, B' segna l’istan-te sul proprio orologio (t'2) (figura 12). Con il valore di v e i tempi registrati, in D è possibile dedurre la distanza percor-sa moltiplicando la velocità per il tempo trascorso. In questo caso:

L' = v · (t'2 − t'1).

Versione dal pontileDisponiamo nuovamente una fila di os-servatori lungo il pontile, ognuno armato di cronometro.

' B't'2

L'

clic!

B't'1

L'

v

clic!

FIG. 11

FIG. 12

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62 einstein

Chiameremo A colui che si trova davanti al meccanismo al momento del lancio. A registra sul suo cronometro il momento nel quale vede uscire la palla (t1) (figura 13). Fra tutti gli osservatori della traversata della barca, B è quello che osserva come la palla rimbalza contro la parete. In quel momento segna il tempo t2 (figura 14).Gli osservatori considerano che la palla avesse già acquisito una velocità all’interno dell’apparecchio, prima del lancio, ovvero quella dell’imbarcazione: u. A seguito del lancio, neppure la parete de-stra resta ferma: si allontana dalla palla a velocità u, obbligandola a percorrere una distanza maggiore. Pertanto, sebbene gli osservatori di G mi-surino gli stessi tempi rispetto a quelli di D, per loro lo spazio percorso e la velocità della palla sono diversi:

L + u · (t2 − t1)

}

distanza alla quale si allontana la parete destra durante il lancio della palla

Ignorando per un istante la presenza della barca e concentrandoci solo sul pallo-ne, costateremo che con una velocità v + u in un intervallo di tempo t2 − t1 percorrerà:

(v + u) · (t2 − t1).

Le due quantità devono essere uguali:

L + u · (t2 − t1) = (v + u) · (t2 − t1).

Otteniamo quindi la stessa relazione di prima per la lunghezza della stiva:

y

x

u

v+u

Lu(t2 – t1)

x1

A B clic!x2 t2FIG. 14

y

x

u

v

At1

clic! ...x1

FIG. 13

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L = v · (t2 − t1).

Possiamo concludere che, vista dal pontile, la palla deve percorrere una di-stanza maggiore dato che la parete si allon-tana da lei, ma, al contempo, va più veloce perché incorpora la velocità dell’imbarca-zione. Entrambi gli effetti si compensano. I due sistemi misurano la stessa lunghezza della stiva.

Esperimento elettromagneticoSostituiamo il lanciatore con una lanter-na e la palla con un fascio luminoso (di nuovo, una radiazione elettromagnetica). L’unico elemento comune ai sistemi G e D sarà il valore della velocità della luce. Tutti i cronometri che partecipano all’e-

sperimento sono usciti dalla stessa catena di montaggio, ma potremo ritenere che due meccanismi segnino la stessa ora uni-camente nel caso in cui abbiano lo stesso sistema di riferimento. Per tradurre le coordinate da un sistema a un altro, tanto spaziali quanto temporali, dovremo ricorrere alle trasformazioni di Lorentz.

Versione dall’interno della stivaCome nella versione meccanica dell’e-sperimento, A' registra il momento in cui l’onda esce dalla lanterna e B', quando raggiunge la parete opposta (figura 15). Pertanto:

L' = c · (t2 − t1).

y

u

A clic! ...

c

t1x1

FIG. 16

L'

B'

t'2clic!

c

x'2

L'

x'1A'

t'1 clic!

FIG. 15

NG_EXTRA_EINSTEIN_CAP2 ITA_m.indd 63 29/04/15 14:57

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Versione dal pontileDal pontile gli osservatori vedono che la parete destra si allontana, ma che l’onda luminosa corre alla stessa velocità c (figu-ra 16). Notano che, prima di raggiungere la parete, la luce ha dovuto percorrere la lunghezza della stiva più la distanza per-corsa dall’imbarcazione fra t2 − t1 (figura 17):

L' + u · (t2 − t1).

D’altra parte, se ci dimentichiamo dell’imbarcazione, in un intervallo di tem-po (t2 − t1) la luce ha percorso uno spazio:

c · (t2 − t1) = x2 − x1.

Affiancando entrambe le espressioni come prima:

L' + u · (t2 − t1) = c · (t2 − t1) = x2 − x1 ,

e applicando le trasformazioni di Lo-rentz si ottiene un risultato sorprendente:

L = β · L' per cui β = 12

−u 2

c.

Dato che la velocità della barca è infe-riore a quella della luce (u < c), il fattore b è minore di 1 e la grandezza di L è infe-riore a quella di L'.

In G, pertanto, si arriva alla conclusio-ne che il valore della lunghezza della stiva è inferiore a quello che hanno dedotto in D. Questa è la cosiddetta contrazione di Lorentz.

Possiamo prevedere un’altra situazione dove gli osservatori assistano allo stesso gruppo di fenomeni da sistemi inerziali diversi per chiedere loro di estrarre da essi il valore di un intervallo di tempo. In Sull’elettrodinamica dei corpi in movimen-to, Einstein si servì di un ragionamento più diretto.

Partendo da due sistemi G e D, dove D si spostava rispetto a G a una velocità u uniforme, posizionò un orologio esatta-mente in corrispondenza delle coordina-te di D e si domandò: «Qual è il ritmo di questo orologio quando si considera dal sistema a riposo?».

La risposta che ottenne, dopo aver ap-plicato la trasformazione di Lorentz, fu:

t' = t – (1 – b) · t .

x2

Lu (t2 – t1)

y

u

A ...

c

Bt2clic!

x1 FIG. 17

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LA MATEMATICA DELLA CONTRAZIONE DI LORENTZ

Di seguito si mostra come si applicano le trasformazioni di Lorentz per ottenere la contrazione della lunghezza. Per il percorso della luce si erano ottenute due espres-sioni:

L + u · (t2 − t1)

c · (t2 − t1) = x2 − x1.

Ponendo l’una a fianco all’altra

L + u· (t2 − t1) = c · (t2 − t1) = x2 − x1 L = x2 − x1 − u · (t2 − t1).

I calcoli si semplificano con un leggero cambio di annotazione:

∆x = x2 − x1 ∆t = t2 − t1 β = −1 2

u2

c.

L’equivalenza che abbiamo trovato per L si riduce a:

L = ∆x − u · ∆t.

Dato che consideriamo ora che il ticchettio dei cronometri si possa indicare con ritmi diversi, in funzione del sistema, per tradurre le coordinate di G e D dovremo ricorre alle trasformazioni di Lorentz:

β

β

x x u t

tt u x

c

=+ ⋅

=+ ⋅

' ' .

' '

.2

Se introduciamo questi valori nell’espressione per L:

Se consideriamo che ∆x' = x2' − x1' = L',

L = b · L'.

L x u t ut u x

c x u t u t= + ⋅ − ⋅+ ⋅

= ⋅ + ⋅ − ⋅ −∆ ∆β

∆ ∆

β β∆ ∆ ∆' ' ' '

' ' '2 1 ∆∆

∆β

∆β

β ∆

x uc

x uc

x x

'

' ' '

=

= ⋅ −

= ⋅ = ⋅

2

2

2

221 ββ.

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66 einstein

Vista l’equazione, concludeva: «[…] se ne deduce che la lettura dell’orologio, considerato dal sistema a riposo, ritarda ogni secondo di 1- β secondi». Da qui la percezione, per chi resta fermo, che il tem-po trascorra più lentamente nel sistema in movimento.

Newton a confronto con la relativitàGrazie alle trasformazioni di Lorentz, le equazioni di Maxwell mantengono la loro forma in qualunque sistema inerziale, ma cosa succede con le vecchie equazioni del-la dinamica newtoniana?

QUALCHE DETTAGLIO IN PIÙ

La situazione prevista da Einstein per dedurre il ritardo degli orologi in movimento era la seguente:

y

x

u

G y'

D

x'

x = u · t

Fece ricorso all’equazione di Lorentz che mette in relazione i tempi:

Per G la posizione dell’orologio (x) – vale a dire l’origine delle coordinate di D – si sposta verso destra a velocità costante, pertanto x = u · t. Sostituendola in t ':

Che si può esprimere anche come segue: t '= t · b + t − t = t − (1 − b) · t.

t t x uc

' .= ⋅ − ⋅

12β

t t u t uc

t uc

t t' = ⋅ − ⋅ ⋅

= ⋅ −

= ⋅ = ⋅1 12

2

22

β β ββ β

NG_EXTRA_EINSTEIN_CAP2 ITA_m.indd 66 29/04/15 14:57

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o gni MOVIMENTO è REL ATIVO 67

Se le sottoponiamo al nuovo cambio di coordinate, sono soggette alla stessa meta-morfosi che interessava quelle di Maxwell davanti alla trasformazione galileiana: compaiono termini senza senso dal pun-to di vista fisico. Abbiamo spogliato un santo per rivestirne un altro? La risposta è che dobbiamo correggere leggermente le equazioni di Newton per aggiornarle. Una volta che ci decidiamo ad accettare i postulati relativisti, dobbiamo applicarli a tutte le leggi della fisica e la dinamica non fa eccezione.

Adesso la massa diventa un’altra gran-dezza, come la lunghezza, che dipende dal-la velocità relativa del sistema dal quale si misura: aumenta con l’accelerazione. Se si introduce questo valore variabile nell’e-spressione della forza, si gettano le basi per la dinamica relativistica, le cui equazioni non cambiano forma con una trasforma-zione di Lorentz. A basse velocità si recu-perano le equazioni che formulò Newton, così come era da aspettarsi.

Tutto è relativo?Arrivati a questo punto dobbiamo do-mandarci se la contrazione di Lorentz e la dwilatazione temporale siano reali. Si-curamente, prima di rispondere, Einstein ci chiederebbe con un mezzo sorriso cosa intendiamo con il termine reale.

Possiamo affermare che, di uno stes-so fenomeno osservato da diversi punti di vista, gli astanti trarranno conclusioni differenti in merito alla distanza, la simul-taneità e gli intervalli di tempo. Si tratta quindi di nozioni non assolute.

Non sono però neppure arbitrarie, dato che possiamo porre in relazione con precisione alcuni punti di vista con altri e prevedere le conclusioni alle quali giun-

geranno gli osservatori di altri sistemi a partire dalle nostre. La contrazione e la dilatazione sono reali nel senso che, se, ad esempio, la luce viaggiasse a 100 km/h, vedremmo gli occupanti di un veicolo che corresse a 90 km/h schiacciarsi come se fossero dipinti sulla superficie di una fisar-monica che si chiude. Non lo sono però se ci attendiamo che gli atomi che compon-gono l’auto e i suoi occupanti si compri-mano in senso fisico letterale. I passeggeri non sperimentano alcuno schiacciamento a bordo del veicolo. Per loro gli effetti re-lativisti si invertono: sono le facciate della strada che si comprimono e i passanti che camminano al rallentatore.

Le nostre nozioni di spazio e tempo sono vincolate al nostro stato di movimen-to e non possiamo estrapolarle allegra-mente per il resto dell’universo. Quando il veicolo si ferma, la magia scompare. Viaggiatori e passanti percepiscono le stesse lunghezze e i loro orologi vanno allo stesso ritmo.

Quest’ultima affermazione non è del tutto esatta, perché per raggiungere una velocità e per fermarci abbiamo bisogno di un’accelerazione, una “invitata” che nessuno si aspetta nella relatività specia-le. E quando l’accelerazione si presenta, bisogna ampliare il campo di gioco fino al quadro della relatività generale, dove ci attendono nuovi effetti inattesi, fra i quali il fatto che la dilatazione temporale lascia traccia anche dopo che ci siamo fermati.

Se viaggiassimo nello spazio a bordo di una navicella che raggiungesse velocità molto vicine a quella della luce, al nostro ritorno saremmo più giovani del nostro fratello gemello che è rimasto ad agitare il fazzoletto in segno di saluto alla base di lancio.

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68 einstein

L’accelerazione rompe la simmetria fra sistemi di riferimento inerziali. Le tra-sformazioni di Lorentz e la rottura della simultaneità risultano bizzarre al nostro intuito.

Man mano che la scienza ispeziona regioni in una scala molto lontana dal-la nostra, con distanze tanto piccole che non riusciamo a concepirle (come nella meccanica quantistica o delle teorie delle stringhe) o tanto grandi da includere l’in-tero universo (come la relatività generale), dobbiamo rinunciare a farci guidare dal buon senso, formato nella nostra sfera quotidiana, per una varietà di fenomeni ridotta. Possiamo adottare un approccio pragmatico, verificare se le teorie presen-tano contraddizioni logiche e corrispon-dono all’esperienza.

Se le conclusioni risultano semplice-mente sorprendenti, la colpa non è della fisica, ma del nostro limitato ventaglio di esperienze.

Nel mondo di Newton e Galileo ogni evento si ripercuote in tutto lo spazio in modo istantaneo, pertanto la simultaneità acquista significato.

Nel mondo relativista non possiamo accordarci con tanta velocità.

L’informazione corre sulle spalle di viaggiatori che, al massimo, si spostano alla velocità della luce. Possiamo rispon-dere solo delle nostre misurazioni e co-municare con il resto dell’universo, ad esempio, lanciando sonde sotto forma di raggi luminosi.

A partire dai dati che otterremo co-struiremo la nostra immagine di ciò che lì accade.

Non esiste alcun osservatorio privile-giato dal quale contemplare i fenomeni e costatare cosa sia realmente accaduto.

Un raggio irraggiungibile Completando Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento Einstein poté rispon-dere finalmente alla domanda che l’aveva assillato in Italia a sedici anni: cosa succe-derebbe se cercassimo di raggiungere un raggio luminoso?

Oggi la risposta è parte della cultura popolare: nulla può andare più veloce del-la luce né raggiungerla. Perché?

I passeri disegnano migliaia di traiet-torie nel cielo prima di posarsi, i bambini si mettono a correre, il vento spazza la strada. Attorno a noi il cambiamento si manifesta costantemente attraverso varia-zioni di velocità e ciò ci invita a doman-darci quale sia la ragione della barriera della luce.

Se un pilota di Formula 1 può schiac-ciare l’acceleratore e passare da 0 a 100 km/h in meno di 2 secondi, cosa succede quando raggiungiamo un regime ad alte velocità?

Perché una navicella spaziale non può contare su una propulsione infinita?

Da dove nasce questa limitazione della velocità che nessun corpo dell’universo è in grado di spezzare?

Una delle cose che ci dice l’equazione F = m · a è che, se applichiamo una forza a un corpo, questo accelererà tanto di più quanto minore sarà la sua massa e vice-versa. L’esperienza ci insegna la stessa lezione senza necessità di ricorrere alla matematica. Una spinta che può far ca-dere una lampada, lascerà indifferente un camion. Possiamo quindi interpretare la massa come una misura della resistenza che i corpi offrono cambiando il loro stato di movimento. La massa quindi aumenta con la velocità. A basse velocità l’effetto è impercettibile.

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DOVE IL TUTTO NON È LA SOMMA DELLE PARTI

Se le scale dello spazio e del tempo si distorcono nell’universo relativista, qualunque grandezza da noi fabbricata con le stesse rispecchierà tale perturbazione. Senza an-dare troppo lontano, consideriamo la velocità. Immaginiamo che da un sistema D, che si sposta a una velocità u, si osservi una mosca che vola seguendo una linea retta, parallela a una orizzontale. Per scoprire la sua velocità si parte della sua coordinata x’ e dal tempo misurato in D, t '.

v dxdt

' ''.=

In G la velocità della mosca, tuttavia, si costruisce con un altro gruppo di coordinate e tempi: x e t.

Le trasformazioni di Lorentz permettono di mettere in relazione i due ritmi ai quali cresce lo spazio percorso con il trascorrere del tempo:

v v uv uc

=+

+

'' ·

.1 2

Dopo aver analizzato nel dettaglio l’equazione, scopriamo che implica che non pos-siamo raggiungere un raggio di luce. Il buon senso pare ribellarsi e proporre che, se un’imbarcazione si muove alla metà della velocità della luce (c/2), sotto coperta, qualcuno spara un proiettile sempre alla metà della velocità della luce (c/2), dal molo, almeno teoricamente, dovremmo vedere il proiettile che taglia il vento a ve-locità c. L’analisi di Einstein conduce a un risultato molto diverso:

Nell’aritmetica relativista, la somma di ½ più ½ ha come risultato 4/5.

y

x

u

y'

x'

vv'

G D

v dxdt

= .

v

c c

c c

c

c=

+

+

=

+=

2 2

12 2

1 14

2

·

445· .c

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70 einstein

Una persona che cammina acquista 0,00000000000000001 volte la sua massa. Man mano che aumenta la velocità, cre-sce l’opposizione a un nuovo incremento. Quando si fosse sul punto di raggiungere la luce, la massa sarebbe diventata quasi infinita, esattamente come per la resisten-za a ulteriori accelerazioni. Questo impla-cabile freno portava Einstein a concludere: «Le velocità che superano quella della luce non sono possibili».

In realtà il quadro teorico della relati-vità è più flessibile. Sebbene nessun corpo più lento della luce possa, mediante un’ac-celerazione, riuscire a raggiungerla, è pos-sibile presumere che ci siano particelle più veloci, sempre che non frenino tanto da finire per correre più lente della luce.

È la barriera di c che non si può supe-rare in un senso o nell’altro, da velocità superiori o inferiori. Così come il tempo trascorre più lentamente quanto più ci avviciniamo alla velocità della luce, supe-randola dovremmo viaggiare diretti verso il passato.

L’esistenza di particelle più veloci della luce è teoricamente stimolante, sebbene sia anche causa di diversi rompicapo, pre-sumibili violazioni della causalità e della possibilità di inviare messaggi indietro nel tempo.

L’equazione più famosa di tutti i tempi: E = m c2

Nel settembre del 1905, tre mesi dopo aver spedito Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento agli Annalen, Einstein inviò un’appendice alla stessa rivista.

Il nuovo articolo si occupava di rispon-dere all’interrogativo che annunciava nel titolo: «L’inerzia di un corpo dipende dalla sua energia?».

La domanda era retorica e la risposta si trasformò nell’equazione che i fisici corse-ro a farsi stampare sulle camicie:

E = m c 2.

Per dedurre questa espressione Ein-stein considerò una situazione molto particolare, un corpo che emetteva una radiazione elettromagnetica contemplato da due punti di vista: un sistema dove il corpo era a riposo e un altro che si muo-veva a velocità costante rispetto allo stes-so.

Ottenne che la perdita energetica dovuta all’emissione si traduceva anche in una perdita di massa nell’ordine di m = E / c 2.

Facendo mostra della sua nota ampiez-za di vedute elevò le sue conclusioni al rango di enunciato universale:

Se un corpo cede l’energia E sotto forma di radiazione, diminuisce quindi la pro-pria massa come E / c 2. In questo caso è chiaramente indifferente che l’energia persa dal corpo diventi energia della radiazione e siamo quindi condotti alla conclusione generale; la massa di un corpo è una misura del suo contenuto di energia. Se cambia la sua energia in E, cambia quindi la sua massa nello stesso senso in E / 9 · 10 20, quando misuriamo l’energia in erg e la massa in grammi. Non si esclude che, mediante i corpi il cui con-tenuto di energia è altamente variabile (per esempio i sali di radio) si possa ottenere una conferma della teoria. Se la teoria si mostra in accordo con i fatti, la radiazione trasmette inerzia fra i cor-pi emittenti e assorbenti.

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o gni MOVIMENTO è REL ATIVO 71

L’equazione impressiona, ma i fenome-ni che descrive possono passare facilmente inosservati. Una lampadina da 11 W, ad esempio, perde 0,000000000000000012 kg al secondo per colpa della luce che emette.

Il fattore di cambiamento fra massa ed energia è esorbitante: c 2. Per aggiun-gere altri numeri all’equazione E = m c 2, possiamo partire dal consumo totale di energia di un Paese sviluppato con circa 40 milioni di abitanti, che si aggira intorno ai 140 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (tep).

1 tep = 4,2 · 10 10 J.

c = 3 · 10 8 m/s.

Pertanto, se E = m c 2,

Quindi, se fossimo in grado di tra-sformare la nostra massa in energia, ri-usciremmo a soddisfare il fabbisogno energetico di un intero Paese per un anno.

La pena dell’eroeA partire dalla pubblicazione dei suoi ar-ticoli, nel 1905, ebbero fine le peripezie alquanto dickensiane di Einstein e iniziò una storia di trionfi universalmente rico-nosciuti.

È vero che, all’inizio, egli si disperò rendendosi conto che il suo lavoro non

m Ec

= =⋅ ⋅ ⋅

⋅=

2

6 10

16140 10 4 2 10

9 1065 3, , kg.

TUTTO È MOVIMENTO

In un’occasione Einstein scrisse al figlio Eduard: «La vita è come andare in bici-cletta. Se vuoi restare in equilibrio, devi muoverti». Qualcosa di simile accade alla materia. Quando un corpo emette radiazioni di-venta più leggero. Succede il contrario quando le assorbe. L’energia cinetica, legata al movimento, genera anch’essa una sua massa. La luce, ad esempio, ha una massa solo in virtù del suo movimento e manca di massa a riposo. Il nostro corpo è composto di molecole e queste sono composte di atomi. All’in-terno di un atomo la massa si concentra soprattutto nel nucleo, dove neutroni e protoni sono formati da quark. Il nome stesso della forza che li mantiene uniti, l’interazione forte, e della parti-cella responsabile di questa unione, il gluone (dall’inglese glue, colla), suggeri-scono il motivo: è molto difficile separarli. L’interazione forte è la più potente in natura e, invece di indebolirsi, cresce quando cerchiamo di distanziare i quark. Non possiamo considerarla come un’at-trazione istantanea alla Newton, ma come uno scambio costante di gluoni che si creano e distruggono senza sosta, trasportando la forza. Tutto questo movimento di messaggeri della forza che vanno e vengono fra i quark, creandosi e distruggendosi, si traduce in massa. Si può affermare che oltre il 90% della nostra massa non è altro che il movimento delle particelle che ci compongono.

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Una foto del giovane Einstein.BETTMANN / CORBIS

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o gni MOVIMENTO è REL ATIVO 73

aveva avuto la minima ripercussione, come se l’avesse scritto con dell’inchiostro invisibile. Einstein si attendeva «un’oppo-sizione categorica e le critiche più dure» che cercò invano nei numeri seguenti de-gli Annalen. Nel 1906 ricevette una lette-ra con timbro di Berlino nella quale Max Planck gli esponeva i dubbi nati durante la lettura del suo lavoro sulla relatività. Fu a quel punto, dopo aver attirato l’attenzione del fisico più importante di Germania che la sua sorte cambiò per sempre.

Ma, in accordo con l’archetipo più clas-sico, l’eroe doveva pagare la sua vittoria a caro prezzo.

Albert Einstein sarebbe diventato lo scienziato più famoso del suo tempo, de-gno erede della stirpe di Newton e Galileo. Agli occhi del padre, però, sarebbe sempre rimasto un giovane di talento al quale il mondo aveva girato le spalle e che aveva compromesso il suo futuro con un matri-monio sfortunato.

Nell’autunno del 1902 il cuore di Her-mann Einstein cedette infine all'assedio delle preoccupazioni. Gli ultimi anni della sua vita potevano riassumersi in una parola: bancarotta. Dopo l’ennesimo fallimento inanellato durante la sua ac-cidentata avventura imprenditoriale, Ja-kob si diede per vinto e accettò un posto da ingegnere in una società italiana. Con la sua formazione, Hermann non poteva permettersi una via di uscita così semplice e continuò a perdersi nel labirinto dei suoi commerci. Ignorando le suppliche e gli avvertimenti del figlio, avviò una nuova fabbrica a Milano.

In quegli anni Hermann e Albert sta-vano combattendo una lotta impari con il mondo. Una delle testimonianze più com-

moventi dell’affetto e della preoccupazione che Hermann nutriva per il figlio si trova nella lettera che inviò di sua iniziativa al chimico Wilhelm Ostwald.

Dopo le prime righe dedicate a scusarsi per tanto ardire, presenta gli studi di Ein-stein e ne loda le capacità, passando quindi a descrivere la sua situazione:

[…] ha cercato, senza successo, di otte-nere un posto da assistente che gli con-senta di continuare la sua formazione in fisica teorica e sperimentale. […] Mio figlio è quindi profondamente infelice non trovando al momento un posto e la convinzione di essere fuori dal suo ambiente lo fa sentire ogni giorno più isolato. Lo opprime inoltre il pensiero di essere un peso per noi, famiglia dai mezzi modesti.

Hermann chiedeva a Ostwald di leg-gere il primo articolo di Einstein, Conclu-sioni tratte dal fenomeno della capillarità, pubblicato nel 1901 sugli Annalen: «[…] e che gli scriva, se possibile, qualche parola di incoraggiamento, in modo che possa recuperare la gioia di vivere e lavorare». Per quanto ci è dato di sapere, Ostwald non rispose mai.

Pochi mesi dopo aver preso servizio all’Ufficio Brevetti, la prima settimana di ottobre, Einstein attraversò il tunnel più lungo d’Europa, il San Gottardo, per tor-nare in Italia e salutare per l’ultima volta il padre. Prima di morire, Hermann fece l’unica cosa ancora nelle sue possibilità per alleviare le tribolazioni del figlio: die-de finalmente la sua benedizione al matri-monio con Mileva. j

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C A P I T O L O 3

Le pieghe dello spazio-tempo

Sebbene a malincuore, il mondo accademico finì per arrendersi al genio di Einstein. Dalla cattedra di professore

a Zurigo si prefisse di affrontare la sfida di introdurre la gravità nello scenario relativista. Nel 1915 era molto vicino

a raggiungere il suo obiettivo quando scoprì che il matematico David Hilbert si era proposto di completare

la teoria prima di lui. Iniziò così uno dei periodi di maggiore stress psicologico della sua vita.

La teoria della relatività generale che Einstein presentò nel 1915 rivelò che spazio e tempo sono uniti in una trama flessibile, curvata e deformata dalla materia. La forza di gravità

non è altro che la materia che scivola a causa delle curvature spazio-tempo.

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en lungi dal provocare un terremoto, gli articoli che Einstein pubblicò nel 1905 ricevettero un’acco-glienza piuttosto tiepida

da parte della comunità scientifica. All’i-nizio solo Planck ammise di averli presi in considerazione. L’ultimo a reagire, ovvia-mente, fu il mondo accademico. Einstein sostenne con quest’ultimo un ostinato tira e molla scandito da vicendevoli conces-sioni accettate malvolentieri. Nel mondo universitario tedesco il livello più basso della scala gerarchica corrispondeva al po-sto di privatdozent, incarico non retribu-ito che consentiva di tenere delle lezioni in cambio di un modesto stipendio a ca-rico degli alunni. Einstein pensò che fosse una posizione per la quale aveva ottenuto meriti sufficienti e presentò domanda nel 1907, senza però considerare la punti-gliosità dei funzionari dell’Università di Berna. Nella lista dei requisiti figurava la presentazione di un articolo scientifico inedito. Einstein ne consegnò diciasset-te. Come minimo due meritano un posto d’onore fra i grandi classici della lettera-tura scientifica. Nessuna considerazione, tuttavia, pesò più del fatto che li avesse già pubblicati. La commissione avrebbe potuto dispensarlo da questa formalità, se avesse ritenuto che Einstein avesse rag-giunto qualche altro merito degno di nota. Paul Gruner, professore di fisica teorica, giudicava la relatività «molto problema-tica». Il professore di fisica sperimentale, Aimé Forster, era meno sottile. Sull’elet-trodinamica dei corpi in movimento per lui era illeggibile. «Non capisco neppure una parola di quello che ha scritto qui», disse. Era opinione del corpo docente che la relatività fosse stata «rifiutata, in

modo più o meno chiaro, dalla maggior parte dei fisici contemporanei». Einstein descrisse l’episodio nel suo insieme come «divertente» e desistette.

Impiegò un anno a ingoiare l’orgoglio e ancora una volta a «tentare la sorte, nonostante tutto, [...] all’Università di Berna». All’inizio del 1908 presentò Con-seguenze per la costituzione della radiazio-ne dalla legge di distribuzione di energia di corpo nero, un articolo che non avreb-be rivoluzionato la fisica, ma che aveva il pregio di essere inedito. Schivava inoltre lo spinoso terreno della relatività. In feb-braio l’università accettò la sua domanda.

Nel semestre estivo del 1908 Einstein mise piede per la prima volta in un’aula universitaria lasciandosi alle spalle i ban-chi degli studenti per salire in cattedra come professore. Solo tre persone ebbero la voglia di svegliarsi presto il martedì e sabato per ascoltare, alle sette del mattino, come dissertava di un tema adatto alla sta-gione: la teoria molecolare del calore. Fra loro non mancavano sostenitori incon-dizionati come Michele Besso. A volte la sorella Maja, che preparava una tesi sulle lingue romanze a Berna, faceva un salto per dargli appoggio morale.

Con un tale successo di pubblico non poté far altro che mantenere il posto all’Ufficio Brevetti. Nel maggio dell’anno successivo fu nominato professore asso-

B

«È difficile che qualcuno capace di comprenderla veramente possa sfuggire alla meraviglia di questa teoria.»

Albert Einstein sulla relatività generale.

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ciato dell’Università di Zurigo dopo una dura contrattazione. L’incarico era stato offerto in prima battuta a un suo ex com-pagno del Politecnico, Friedrich Adler, che seppe chiamarsi fuori con eleganza: «Se alla nostra università si presenta l’oppor-tunità di avere un uomo come Einstein, sarebbe assurdo nominare me». Dopo aver superato questo ostacolo, egli si pose il problema delle sue capacità pedagogiche. Davanti alla critica di tenere unicamen-te monologhi, si limitò a rispondere con ironia: «Ci sono già abbastanza professori senza di me».

Tuttavia, trascorso un certo periodo, necessario per stemperare ancora una volta la sua indignazione, fece valutare la sua competenza didattica durante un esa-me tenuto davanti alla Società di Fisica di Zurigo nel febbraio 1909. Ricevette una sufficienza risicata. Restava da sistemare una piccola irregolarità nel suo certificato di nascita che il comitato incaricato del-le assunzioni non ignorò: «Herr doctor Einstein è un israelita». La relazione del comitato analizzava nel dettaglio le con-seguenze che ciò poteva comportare per l’istituzione: «Proprio agli israeliti, fra tutti gli accademici, si attribuisce (in mol-ti casi non senza fondamento) ogni sorta di sgradevoli peculiarità di carattere, come l’indiscrezione, l’insolenza e una mentalità da commercianti nella percezione del loro ruolo accademico». Dopo complicate ri-flessioni non considerarono «compatibile con la loro dignità adottare l’antisemitismo come politica».

Ritennero però degno negoziare un po’ e offrirgli uno stipendio più basso di quello che Einstein riceveva all’Ufficio Brevetti. Per questo egli rifiutò le condizioni. Au-mentarono l’offerta fino ai 4.500 franchi

l’anno che guadagnava a Berna. Einstein accettò. Quando finalmente il posto a Zuri-go fu suo, un collega si complimentò: «Era ora che te ne andassi dall’Ufficio Brevetti». Al che Einstein rispose: «Così ora anch’io sono ufficialmente membro della corpora-zione delle prostitute».

Nel luglio del 1909 ricevette un dottora-to honoris causa dall’Università di Ginevra e, in ottobre, fu valutata la sua prima can-didatura al premio Nobel. Dopo un inizio accidentato, la sua carriera accademica era finalmente decollata con tappe successive all’Università Karl-Ferdinand di Praga (nell’aprile 1911), nella sua università di origine, di ritorno a Zurigo (nell’agosto del 1912) e, infine, a Berlino (nel marzo 1914), dove gli offrirono un posto senza obbligo di insegnamento e l’ingresso all’Accademia Prussiana delle Scienze.

Ogni trasloco era accompagnato da un miglioramento dello status sociale e da una maggiore stabilità economica per gli Einstein. La coppia che aveva saputo mantenersi unita nei momenti più difficili non seppe però sopravvivere al benessere. Sembra che Zurigo sia stato lo spazio na-turale per i due sposi e, nei tre lunghi pe-riodi che vi trascorsero, si può riassumere la loro evoluzione come i tre atti di un dramma, con un principio, un momento di catarsi e una risoluzione. Lì si conob-bero e si innamorarono, lì superarono la prima crisi, nel 1909, concependo il loro secondo figlio, Eduard, e lì persero anche l’ultima sfida. Quando Einstein accettò l’offerta di Berlino sancì la la fine del suo matrimonio.

Mileva, donna dal carattere impulsi-vo e complicato, incline alla depressione, non doveva essere una persona semplice con cui vivere. Gli anni da studentessa

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erano una luce che illuminava la sua vita ma questa iniziò a oscurarsi man mano che quel periodo dorato si allontanava nel passato. Albert e Mileva avevano sognato di trasformare la scienza in un’avventura condivisa. Fu un periodo carico di pro-messe, frustrato però da una gravidanza prematura. Negli anni più duri, a Berna, fecero fronte comune contro un mondo ostile. Lei lo espresse con un gioco di pa-role: «Noi due siamo come una roccia (in tedesco ein stein)». Albert vide realizzar-si la sua ambizione e non seppe condivi-derla. «Mi sarebbe piaciuto essere lì, aver potuto ascoltare un po’ e vedere quelle magnifiche persone», gli scriveva Mile-va da Praga mentre lui partecipava a un incontro scientifico a Karlsruhe e lei re-stava a casa. Uno dei biografi di Einstein, sposato con una figlia della sua seconda moglie, racconta come Mileva spesso de-siderasse partecipare ai dibattiti scientifici del marito, «ma lui la lasciava a casa con i bambini». Dopo un decennio di vita in comune, nel 1912 circa, entrambi dichia-ravano apertamente l’insoddisfazione per la loro unione. Mileva si sentiva sempre più isolata e ignorata ed Einstein rifuggiva la sua compagnia. I rimproveri per le sue assenze erano frequenti: «È talmente tanto che non ci vediamo che mi domando se mi riconoscerai». Nelle lettere all’amica Helene Savi, Mileva mostrava più aper-tamente il suo sconforto: «Lavora senza sosta ai suoi problemi; si può dire che viva solo per loro. Devo confessarti, con un poco di vergogna, che non gli interes-siamo e che per lui veniamo al secondo posto».

Certamente a Einstein piaceva coltivare una certa retorica del distacco. Così faceva nel suo saggio Il mondo come io lo vedo,

scritto quando aveva ormai superato la boa dei cinquant’anni:

Il mio appassionato senso della giustizia sociale e della responsabilità civile ha sempre contrastato in modo singolare con una pronunciata assenza della necessità di contatto diretto con altre persone o comunità umane. In realtà sono un viaggiatore solitario e non ho mai donato completamente il mio cuo-re al mio Paese, alla mia casa, ai miei amici e neppure ai miei famigliari più stretti.

È vero però che, nonostante la scienza lo occupasse la maggior parte del tempo, non trascurava neppure la vita sentimen-tale. Aveva semplicemente cambiato l’og-getto delle sue attenzioni.

Durante le vacanze pasquali del 1912 si recò da solo a Berlino per fare visita alla famiglia.

Dopo essere rimasta vedova, Pauline era andata a trascorrere qualche giorno con la sorella Fanny. Il marito di quest’ul-tima, Rudolph, apparteneva a un altro ramo dell’affollato albero genealogico de-gli Einstein. Suo padre era il fratello del padre di Hermann ed era uno dei cugini che aveva perso ingenti somme di dena-ro investendo nelle sue imprese in campo elettrotecnico. Sopra l’appartamento di Rudolph e Fanny si era trasferita la figlia Elsa, reduce da un divorzio.

Elsa ed Einstein si erano conosciuti a Monaco e lei amava raccontare come, da bambina, si fosse innamorata del cugino ascoltandolo interpretare Mozart al vio-lino. Non sappiamo se rimase affascinata da una nuova esibizione musicale, ma il sentimento infantile rifiorì.

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In alto, ritratto di Albert Einstein nel 1911 e della cugina Elsa che sarebbe diventata la sua seconda moglie.In basso, la scrivania di Einstein all’Ufficio Brevetti di Berna, occupazione che conciliava con le lezioni all’università della capitale svizzera.ARCHIVO RBA (IN ALTO A SINISTRA); ALBUM (IN ALTO A DESTRA E IN BASSO)

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Sebbene si ignorino i dettagli del loro incontro, sappiamo che, tornato a Praga, Einstein iniziò un corteggiamento epistola-re segreto. Dopotutto non era un viaggiato-re tanto solitario: «Ho bisogno di qualcuno da amare – ammetteva – altrimenti la vita è così triste. E quel qualcuno siete voi». Si può descrivere Elsa in molti modi, ma forse è più immediato dire che era l’esatto contrario della taciturna, introversa e tor-mentata Mileva: civettuola, divertente, un animale sociale senza alcun interesse per la scienza… Se Einstein soffocava nel suo rapporto con la moglie, in Elsa non poteva trovare nulla che gliela ricordasse. Sentiva ancora sufficiente responsabilità, però, per allarmarsi per la piega che avevano pre-so gli eventi e fece un passo indietro: «Se cedessimo alla nostra comune attrazione, provocheremmo solo confusione e disgra-zia». Alla fine di maggio decise di tronca-re definitivamente. O forse non proprio. Nella stessa lettera dove annunciava a Elsa: «[…] vi scrivo per l’ultima volta e mi piego di nuovo all’inevitabile […]», la informava di essersi trasferito. Si aprì una parentesi di un anno.

Nel marzo del 1913, in occasione del trentaquattresimo compleanno di Einstein, Elsa ruppe la tregua con degli auguri. Lui rispose e la corrispondenza riprese presto lo slancio dimenticato.

La convivenza con Mileva era andata sempre più deteriorandosi. Ormai dormi-vano in camere separate ed Einstein perfe-zionava l’arte dell’assenza, parandosi dietro un muro di obblighi professionali. Dopo il trasferimento a Berlino, nel marzo 1914, la vicinanza di Mileva non fu di ostacolo per-ché Einstein, come scrisse all’amico Besso, godesse di una «relazione estremamente piacevole e bella» con la cugina, «la cui

natura permanente» era garantita «dalla rinuncia al matrimonio». Si ha l’impres-sione che non volesse separarsi da Mileva. «Possiamo perfettamente essere felici insie-me», aveva spiegato a Elsa, «senza doverla ferire». Forse si convinse che, con qualche strano gioco di prestigio, avrebbe potuto avere tutto. Mantenere il rapporto con la moglie, per non ferirla né sentirsi colpevole e neppure separarsi dai figli, e recuperare con Elsa un universo sentimentale che era ormai solo un ricordo. Se pensava però che la cugina si sarebbe accontentata di occu-pare una delle punte del triangolo, si sba-gliava. Elsa affermò sempre con chiarezza che il divorzio poteva attendere, ma non all’infinito.

Quando la crisi scoppiò, a fine luglio, Mileva si alzò presto per prendere il treno che l’avrebbe riportata a Zurigo in compa-gnia di Hans Albert ed Eduard. All’inizio la decisione non sembrò irreversibile. Gli amici della coppia avviarono una delicata rete di mediazioni. In altre circostanze, for-se, ci sarebbe stato margine per una ricon-ciliazione. Proprio il giorno in cui Mileva prendeva il treno, però, l’Austria-Unghe-ria invadeva la Serbia e scoppiava la Prima Guerra Mondiale. La frontiera tra Germa-nia e Svizzera fu chiusa. Einstein ed Elsa rimasero da una parte, a Berlino. Mileva e i bambini dall’altra, a Zurigo. Sebbene avesse ora un nuovo amore per consolarsi della separazione, Einstein visse come una lacerazione l’allontanamento dai figli. Due anni più tardi faceva il bilancio seguente di quanto accaduto in una lettera a un’amica della moglie:

Per me la separazione da Mitsa (Mileva) era una questione di vita o di morte. La nostra convivenza era diventata impos-

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sibile, persino deprimente, ma non saprei dire perché. Così mi sono separato dai miei figli, che amo tanto. Nei due anni che siamo rimasti lontani, li ho visti due volte. La scorsa primavera ho fatto un breve viaggio con Albert. Con profonda tristezza ho capito che i miei figli non comprendono il mio agire, alimentano una furia silenziosa contro di me e sono giunto alla conclusione che, sebbene mi dolga molto, è meglio per loro che il loro padre non li veda più.

Negli anni in cui Einstein portava avanti la sua laboriosa transumanza sen-timentale rifletteva anche intensamente sulla gravità e la meccanica quantistica. Aveva fatto onore al suo credo: «Fino a quando potrò lavorare, non posso lamen-tarmi né lo farò, perché il lavoro è l’unica cosa che dà sostanza alla vita». Uno dei periodi di maggiore stress psicologico coincise con il 1915.

Per allora si erano aperti davanti a lui tre grandi fronti: la Prima Guerra Mon-diale, il divorzio da Mileva e, infine, il braccio di ferro con i matematici di Got-tinga per vedere chi avrebbe completato per primo una teoria geometrica della gravitazione.

Equivalenza tra gravità e accelerazioneLa stella polare che guidò Einstein duran-te la sua ardua traversata verso la relati-vità generale – che durò quasi otto anni segnati dall’incertezza – si accese nel mese di novembre del 1907. In seguito la defi-nirà come l’idea più felice della sua vita. Un aneddoto ne colloca l’origine nella caduta di un imbianchino dall’alto di un ponteggio. Quando Einstein gli chiese se

stesse bene, l’uomo gli raccontò che, du-rante la caduta, per un brevissimo istante, gli era sembrato di galleggiare nell’aria. «Una persona in caduta libera – ricor-derà anni dopo – non sentirà il suo peso. Sono rimasto spiazzato. Questa idea così semplice mi segnò profondamente e mi spinse verso una teoria della gravitazio-ne». Il cammino per svelare la gravità si arricchiva quindi di un nuovo capitolo della sua particolare mitologia che vede-va come protagonisti tre fisici leggendari. Prima Galileo, che aveva lasciato cadere una palla di legno e una di piombo dall’al-to della Torre di Pisa. Poi Newton con la sua mela e, infine, si aggiunse l’incidente sul lavoro dell’imbianchino di Einstein. È quasi certo che nessuno dei tre episodi accadde veramente.

Nella lettera indirizzata all’astronomo americano George Ellery Hale dell’otto-bre 1913 Einstein esponeva la possibilità che «i raggi di luce fossero soggetti a una deviazione in un campo gravitazionale» e suggeriva che, nel caso della massa solare e molto vicino alla stella, tale deviazione arrivasse a 0,84’’, scendendo di 1/R, dove R è la distanza più breve fra il raggio e il centro del Sole. Questa idea costituisce il nucleo originale dell’esperimento che, nel 1919, avrebbe confermato la relatività generale.

Insegniamo ai bambini delle elementa-ri che la gravità è una forza che ci mantie-ne attaccati al terreno e che gli astronauti, lontani da grandi masse come la Terra che li attirino, galleggiano liberi stagliandosi nell’oscurità dello spazio. Eppure, in un certo senso, abbiamo tutti uno spirito da astronauta. Se, come per magia, si aprisse un pozzo sotto i nostri piedi, diciamo di dieci metri di profondità, per pochi se-

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condi sperimenteremmo la stessa caduta libera di un paracadutista che salta da un aereo. La Terra resterebbe al suo posto, la reciproca attrazione anche, ma la nostra sensazione di peso svanirebbe.

Quando ci cade di mano una tazza di caffè, si rompe in mille pezzi sul pavimen-to. Se la lasciassimo cadere nel preciso istante in cui il pozzo si apre sotto di noi, ci accompagnerebbe durante la caduta, galleggiandoci misteriosamente accanto.

Una persona prigioniera in un cubico-lo senza abbaini né finestre non potrebbe dirci se galleggia nel vuoto all’interno di una capsula spaziale o se cade nella stiva di un aereo. Se si togliesse il portafoglio di tasca e lo mettesse all’altezza degli occhi, vedrebbe che resterebbe fermo, galleg-giando davanti a lei.

Non serve però ricorrere necessaria-mente agli artifici del pozzo o del prigio-niero. Spiccando un salto, proprio dopo aver raggiunto il punto più alto, speri-mentiamo una fugace caduta libera. I bambini si ubriacano della sensazione di mancanza di gravità che percepiscono a intermittenza cadendo e rimbalzando su un tappeto elastico.

Lo stesso fenomeno è sfruttato per l’addestramento degli astronauti, in ae-rei che prendono quota e poi si lasciano cadere nell’atmosfera per garantire qual-che secondo di mancanza di gravità ai loro occupanti. E anche qualche effetto secondario: il turboreattore KC-135 della NASA fu battezzato con il nome ufficiale di “meraviglia senza gravità”, ma i suoi agitati passeggeri preferivano chiamarlo con il nomignolo familiare di vomit co-met, confermando che il miglior indicato-re dell’accelerazione è installato nel nostro stomaco.

Einstein scoprì l’illusione che si anni-da in qualcosa in apparenza di tanto so-lido come la nostra sensazione di gravità. L’ambiguità fra accelerazione e gravità si estende a qualunque valore del peso. In un ascensore, i cambiamenti di velocità ci fanno sentire più leggeri o più pesan-ti. Un’incertezza che possiamo portare all’estremo. Recuperando lo spirito degli esperimenti di Galileo, possiamo chiudere Domenico in una perfetta riproduzione della stiva della nave, senza boccaporti, e introdurla in un grande ascensore spa-ziale, lontano da qualunque massa. Se l’a-scensore salisse con un’accelerazione tale da produrre in Domenico la sensazione esatta del suo peso, il nostro studente non sarebbe in grado di dire se si trova sulla Terra o nello spazio, a prescindere dall’esperimento che deciderà di svolgere all’interno della stiva.

La brillante idea di Einstein evoca un illusionismo da prestigiatore: qualunque effetto di gravità si può imitare mediante un’accelerazione e viceversa. Chiamò que-sta relazione tanto particolare principio di equivalenza. A partire dal 1905 la grande sfida che gli si presentava era ampliare il quadro della relatività speciale. Quest’ul-tima contemplava solo corpi che si muo-vono a velocità costante. Una teoria fisica completa, tuttavia, doveva tenere per for-za in conto le accelerazioni. Al contempo Einstein voleva incorporare la gravità.

La legge di gravitazione universale fun-zionava con un meccanismo matematico che era diventato antiquato dopo la rivo-luzione relativista. La famosa equazione di Newton presentava due problemi:

F GM mrT=2

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In questa lettera indirizzata all’astronomo americano George Ellery Hale dell’ottobre 1913 Einstein esponeva la possibilità che «i raggi di luce fossero soggetti a una deviazione in un campo gravitazionale» e suggeriva che, nel caso della massa solare e molto vicino alla stella, tale deviazione arrivasse a 0,84'', scendendo di 1/R, dove R è la distanza più breve fra il raggio e il centro del Sole. Questa idea costituisce il nucleo originale dell’esperimento che, nel 1919, avrebbe confermato la relatività generale.AGE FOTOSTOCK

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FIG. 2FIG. 1

LE FORZE DI MAREA

Esaminando la questione più a fondo, Einstein si rese conto che, dopotutto, un uomo chiuso in un cubicolo aveva comunque modo di verificare se galleggiava nel vuoto (a parte lasciar trascorrere il tempo sufficiente fino a scontrarsi contro qualcosa). Immaginiamo che il prigioniero del cubicolo si svuoti le tasche: toglie un portafoglio, un fazzoletto, delle chiavi e un cellulare. Mentre galleggia dispone i quattro oggetti attorno a lui. Lascia galleggiare il portafoglio sopra la sua testa, il fazzoletto alla sua destra, le chiavi a sinistra e il cellulare ai suoi piedi. Partendo da questa premessa, esploriamo due conclusioni, cambiando lo scenario di fondo: durante una caduta libera verso la Terra e galleggiando nel vuoto dello spazio.

1) Durante una caduta libera. Ci ricorderemo immediatamente di Newton: l’intensità con la quale la Terra attrae altre masse è inversamente proporzionale al quadrato della distanza che la separa da queste:

F GM mrT= 2

dove G è la costante universale della gravitazione (6,67 · 10−11 m3 · kg−1 · s−2), MT , è la massa della Terra, m un’altra massa qualsiasi ed r la distanza. Il portafoglio resta un poco più distante dalla superficie terreste rispetto al prigioniero, quindi sarà attratto più debolmente. Da parte sua, il cellulare è più vicino e sperimenta un’attrazione maggiore. Questa differenza finirà per separarli. Ma cosa succede al fazzoletto e alle chiavi? Dato che la direzione di attrazione è rivolta verso il nucleo delle masse, le linee che li uniscono con il centro della Terra non sono parallele. Con il trascorrere dei secondi, quindi, il portafoglio si allontanerà dalla testa del prigioniero, così come farà il cellulare ai suoi piedi. Il fazzoletto e le chiavi si avvicineranno ai lati (figura 1). A volte si descrive questa deriva affermando che sugli oggetti agiscono forze di marea, perché si tratta dello stesso effetto rilevato per le maree terrestri.

2) Nello spazio. Senza la Terra in vista, non si verificherà alcuna delle deviazioni precedenti. Avviato l’esperimento, se il prigioniero assiste alla deriva degli oggetti, potrà iniziare a prepararsi per un doloroso atterraggio (figura 2).

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Se la osservassimo attentamente ve-dremmo, da un lato, che nel denomina-tore compare r, la distanza che separa le masse. Einstein, però, sapeva che, in base alla contrazione di Lorentz, due osserva-tori, uno in movimento e uno a riposo, non devono necessariamente misurare le stesse distanze. Quale di queste doveva essere introdotta nell’equazione? D’al-tro canto, e forse aspetto più importante, nell’espressione non figura il tempo. Ciò implica che l’azione della forza è istan-tanea. Se m si allontana da m', le forze cambiano in modo immediato. Questo violava i precetti relativisti che stabiliva-no che nulla potesse viaggiare più veloce della luce. Scoprendo l’equivalenza fra gravità e accelerazione, Einstein si rese conto che poteva affrontare i due proble-mi contemporaneamente: se riusciva a in-trodurre l’accelerazione nella relatività, la gravità si sarebbe inserita in essa in modo automatico.

Se ci concedono poco tempo e ci pri-vano di alcuni dei nostri sensi, non sa-premo determinare se precipitiamo in caduta libera o galleggiamo in assenza di gravità. Questa incertezza potrebbe crear-si anche spiccando un salto. Congelando il nostro movimento nel fotogramma dove raggiungiamo il punto più alto, proprio prima di iniziare la discesa, se ci cancel-lassero la memoria, in una frazione di se-condo saremmo incapaci di distinguere la nostra caduta dalla mancanza di gravità. Su questa ambiguità si basa il principio di equivalenza. Se lasciassimo passare il tempo sufficiente, tuttavia, prima o poi osserveremmo una deviazione dalla man-canza di gravità. Ci può aiutare una si-militudine geometrica: percorrendo una breve distanza non possiamo capire se la

Terra è piatta o rotonda. In un viaggio più lungo finiremo per identificare qual-che deviazione dalla linea retta, pertanto la curvatura del pianeta. Questa analogia nasconde la chiave per far accomodare la gravità all’interno di una teoria relativista.

Nell’estate del 1912, appena tornato a Zurigo da Praga, Einstein inviò una richiesta di aiuto a un vecchio amico, Marcel Grossmann: «Devi aiutarmi o di-venterò pazzo». Da studenti, Grossmann gli aveva prestato i suoi appunti quando saltava le lezioni e, più avanti, lo ave-va salvato dalla precarietà con il lavoro all’Ufficio Brevetti. In quegli anni era or-mai diventato un’autorità nella geometria non euclidea. Ancora una volta acconsen-tì di buon grado a collaborare. Insieme, Einstein e Grossmann intrapresero un’e-scursione nel mondo delle superfici molto simile a quella che stiamo per iniziare.

Anatomia di una superficieIn una superficie piana, due individui che traccino perpendicolari a una stessa linea retta disegneranno due parallele che non si incontreranno finché avranno pazien-za, anche se questa dovesse essere infinita. Trasferendosi all’equatore di una sfera, la situazione cambia. In funzione delle di-mensioni del globo, prima o poi finiranno per incontrarsi (figura 1).

In una sfera gigantesca è possibile che non si rendano mai conto che il territorio che abitano non è in piano. L’umanità im-piegò migliaia di anni a convincersi della curvatura della Terra e ciò non sorprende, se non si può dare un’occhiata dallo spazio o fare il giro del mondo. Probabilmente la prima intuizione della sua convessità la ebbero i marinai che intraprendevano lunghi viaggi guidati dalle stelle. L’esperi-

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mento delle parallele fornisce agli abitanti di una superficie uno strumento dedutti-vo per verificare se vivono su un terreno piano o tondeggiante. Basta partire per-pendicolarmente dall’equatore e lasciar passare il tempo sufficiente. Quando si renderanno conto di avvicinarsi, avranno individuato la curvatura. Cosa succede se riduciamo drasticamente il tempo della loro indagine? Riusciranno a disegnare solo due segmenti molto corti, quasi dei punti, paralleli. Dopo averli analizzati non potranno sapere se abitano su un piano o una sfera.

Immaginiamo ora di prendere un fo-glio di carta e di disegnarvi sopra due pun-ti (figura 2). Se ci chiedessero di unirli con un tratto continuo il più breve possibile, sceglieremmo la linea retta (figura 3). Nel caso di una sfera, la risposta diventa l’arco di una circonferenza (figura 4).

La condizione estrema che abbiamo imposto a questi tracciati li distingue dal resto delle possibili traiettorie, facendo sì che si meritino un nome ad hoc: geodeti-che. Non importa quanto complichiamo la geografia della superficie, continueremo a trovare geodetiche, anche se dovranno serpeggiare per superare ogni tipo di irre-golarità (figura 5).

A prescindere dalla complessità dalla superficie, potremmo approssimare anche le aree circostanti di qualunque dei suoi punti mediante un piano: il loro piano tangente (figura 6). Ripetendo l’opera-zione attorno a molti punti finiremo per coprire l’intera superficie. In un terreno ragionevolmente liscio, utilizzeremo delle «tessere» grandi. Se lavoriamo con un ri-lievo accidentato, otterremo un mosaico di pezzetti pianeggianti di piastrelle molto piccole.

Partiamo da una superficie, con due punti e una geodetica che li unisca, e pro-cediamo a «piastrellarla» (figura 7 e 8). Si osserva che, così come la superficie si scompone in una manciata di piastrelle

FIG. 4

A

B

A

B

A

B

FIG. 1

FIG. 2

FIG. 3

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piatte, la geodetica si rompe in una serie di linee rette (figura 9). Per un abitante della superficie che possa operare solo all’inter-no del ristretto margine di una piastrella, il mondo sarà piano e le geodetiche rette.

Prigioniero di una regione limitata, non potrà determinare se vive su uno spazio li-scio o irregolare. Man mano che ampliamo i nostri domini, le linee rette cominceran-no a ritorcersi e a deformarsi in geodeti-che più complesse. La situazione ricorda l’indecisione della caduta libera e la sua risoluzione dopo aver lasciato trascorrere il tempo sufficiente. Einstein propose che avvenisse lo stesso.

Nell’estate del 1912 si rese conto che la teoria delle superfici creata dal matematico Carl Friedrich Gauss «conteneva la chiave che apriva il mistero» per inserire l’inte-razione della gravità nella sua teoria della relatività. Questa scoperta lo portò a ini-ziare un corso accelerato di sofisticazione matematica tenuto da Grossmann per do-minare gli strumenti capaci di tradurre la sua intuizione fisica nel linguaggio formale della geometria differenziale. Fino all’ini-zio del XIX secolo, con la pubblicazione di Investigazioni generali sulle superfici curve di Gauss, gli spazi bidimensionali erano stati studiati da una prospettiva tridimen-sionale, erano quindi osservati per lo più dall’esterno. Gauss si immerse invece nella superficie, inciampando uno dopo l’altro nei suoi ostacoli man mano che li incon-trava. Questo viaggio dell’immaginazione inaugurò lo studio della geometria intrin-seca delle superfici che avrebbe ricevuto un impulso definitivo con l’opera di uno degli studenti di Gauss, Bernhard Riemann (1826-1866).

In un piano risulta ragionevole estra-polare le proprietà di una piccola regio-ne e applicarle alle aree immediatamente circostanti. La sua monotonia rende ogni palmo di terreno identico agli altri. Un ambiente scosceso, tuttavia, ci offre a ogni ostacolo un punto di riferimento. Distin-

B

A

B

A

A

B

FIG. 5

FIG. 6

FIG. 7

FIG. 8

FIG. 9

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guiamo una vetta da un avvallamento e non possiamo imporre la singolarità di una parte del territorio al resto. Pertan-to, per esprimere la struttura intrinseca di una superficie, dobbiamo mappare la sua intera estensione.

Per farlo, Gauss si concentrò su ciò che accade in un punto qualunque della superficie quando ci posizioniamo sullo stesso e decidiamo di avanzare di una di-stanza molto ridotta in una direzione a caso. Se siamo su un terreno pianeggian-te, come quello di un appartamento, ci è indifferente la direzione che sceglieremo: lo stesso passo ci allontanerà sempre della stessa lunghezza.

Se siamo su una superficie ondulata, però, la situazione si complica. Andando verso destra, potremmo muoverci in di-

scesa e, verso sinistra, in salita lungo una pendenza pronunciata.

Per fare un esempio estremo, studiamo la situazione delle due persone del disegno qui accanto. Entrambe camminano da A a B, una accanto all’altra. La persona 1 cam-mina in linea retta su un terreno pianeg-giante; la 2 lungo un avvallamento che si apre proprio accanto a lei. Per andare da A a B, la 2 deve fare più passi rispetto alla 1 a causa della geometria curva del terreno (figura 10). Se domandiamo a entrambe qual è la distanza fra A e B, daranno ri-sposte diverse.

Gauss costruì una funzione matematica (una relazione metrica, rappresentata tra-mite la lettera g) che mostrasse, per ogni punto di una superficie, la distanza percor-sa con un piccolo passo in base alla dire-

LA VITA PRIVATA DELLE SUPERFICI

Carl Friedrich Gauss (1777-1855) nacque in una famiglia di umili origini, ma con una mente privilegiata, seconda solo a quelle di Newton o Archimede. Lasciò che alcune delle sue

scoperte più significative, come la geometria non euclidea o l’algebra dei numeri complessi, prendessero polvere in un cassetto per risparmiarsi polemiche scientifiche. Se lo poteva permettere: la parte della sua opera che decise infine di pubblicare fu sufficiente per segnare un prima e un dopo nella storia della matematica. Riemann generalizzò le sue idee sulla geometria differenziale in una conferenza tenuta nel 1854 che concluse con una nota di suspense: «Questo ci conduce ai domini di un’altra scienza, all’ambito della fisica, dove il tema di oggi non ci permette di addentrarci». Senza saperlo, le sue parole erano rivolte a qualcuno che non era presente in sala e che non sarebbe nato se non venticinque anni dopo. Sarebbe stato Albert Einstein a osare attraversare finalmente la soglia sulla quale si era fermato Riemann, applicando gli strumenti matematici che aveva forgiato per radiografare la struttura segreta dell’universo.

ARCHIVO RBA

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zione verso la quale ci muoviamo. Questa informazione cambia con l’orientamento e da un punto all’altro in una superficie accidentata, ma non in una piana.

La relazione metrica si può considerare come il manuale di istruzioni per creare una superficie dal momento che racchiu-de tutti i dati che vogliamo estrarre dalla stessa.

Contemplando uno spazio da una di-mensione superiore, le sue irregolarità saltano all’occhio. La relazione metrica ci permette di apprezzarle «a tentoni», dalle viscere della superficie stessa.

Le proprietà geometriche di uno spa-zio devono essere indipendenti dal si-stema di coordinate che scegliamo per descriverlo. Possiamo ricorrere all’ana-logia di una notizia che racconta di un evento in una particolare lingua: anche se il testo fosse tradotto in un’infinità di lingue diverse, in tutte sarebbe narrato lo stesso fatto. La distanza fra due punti, ad esempio, è un’informazione che non è influenzata da una traduzione, pertan-to da una trasformazione di coordinate. I punti 1 e 2 sono a distanze diverse a seconda che li si misuri da A o da B, ma la distanza fra loro non cambia. In lin-guaggio algebrico si dice che la distan-za è un invariante (figura 11). Partendo dalla relazione metrica si può calcolare qualunque distanza fra due punti di una superficie. Permette inoltre di costruire altri invarianti, come la curvatura, una grandezza che rispecchia quanto una su-perficie devia dal «retto comportamento» euclideo (figura 12).

Gli invarianti riflettono le proprietà obiettive dello spazio e non dipendono dal punto di vista prescelto per descrivere una superficie. Questa proprietà presentava

una seconda analogia estremamente sug-gestiva per Einstein, che si domandava: «È concepibile che il principio della relatività sia valido anche per sistemi che accelerino uno rispetto all’altro?». Pertanto, se il prin-

A B

1

2

A B

1

2

FIG. 10

FIG. 11

Curvaturapiccola

Curvaturagrande

Curvaturazero

FIG. 12

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cipio era rispettato in sistemi separati da una velocità costante, si sarebbe mantenu-to valido per sistemi separati da una velo-cità variabile? Ricordiamo che uno dei due postulati della relatività spaziale era: «Le leggi della fisica adottano la stessa forma in qualunque sistema di riferimento che consideriamo in movimento uniforme». Un’affermazione che sembra derivata dal seguente enunciato geometrico: «Gli in-varianti, come la distanza o la curvatura,

adottano la stessa forma da qualunque si-stema di coordinate». Questo parallelismo, sommato all’analogia del principio di equi-valenza, lo portava a un passo dall’unire finalmente fisica e geometria.

Dalla relatività speciale a quella generaleIl matematico lituano Hermann Min-kowski (1864-1909) fu colui che spianò la strada affinché le idee di Einstein potesse-

LA CREAZIONE DELLA RELAZIONE METRICA DI GAUSS

Per creare la relazione metrica Gauss partì dalla distanza fra due punti qualsiasi molto ravvici-nati in una superficie, le cui coordinate differissero unicamente per valori infinitesimali. La no-zione più elementare di distanza (s), quella euclidea, si evince dal teorema di Pitagora (figura 1). Per indicare che possiamo ridurre la distanza fra due punti (x1 , y1) e (x2 , y2) a piacere, cambiamo la notazione da Δx (grandezza misurabile) a dx (grandezza differenziale) (figura 2). Questa espres-sione smette di essere valida se le coordinate non si riferiscono più a due assi perpendicolari x e y o, in generale, se ci troviamo in una superficie curva, come, ad esempio, una sfera (figura 3). Per ampliare il quadro di questa teoria, Gauss lavorò con coordinate più generali, u e v (coordi-

ds 2 = dx 2 + dy 2

FIG. 2

FIG. 3

FIG. 1

2 +

+x=

s x y

s

2

2

2=Δ

Δ

Δ

y 2Δ

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ro venire espresse nel linguaggio di Gauss. Prese il tempo e lo spazio della relatività speciale e forgiò, a partire da questi ulti-mi, un’unica realtà tetradimensionale, lo «spazio-tempo».

Con tono abbastanza teatrale, egli proclamò: «D’ora in avanti lo spazio sin-golarmente inteso e il tempo singolar-mente inteso sono destinati a svanire in nient’altro che ombre e solo una radicale connessione dei due potrà preservare una

realtà indipendente». Minkowski riservò lo stesso trattamento matematico sia alle tre coordinate spaziali (larghezza, profon-dità e altezza) sia al tempo.

Se immaginiamo una mosca che si sposta lungo una linea retta, dobbiamo visualizzare il suo spostamento in una dimensione, scattando delle istantanee a intervalli di tempo regolari.

Possiamo anche considerarla come un punto che scivola lungo una diagonale su

nate gaussiane), e scrisse che il quadrato della distanza fra due punti separati da una distanza infinitesimale (u, v) e (u+du, v+dv) è dato da:

ds 2 = E (u,v) du 2 + 2 F (u,v) du dv + G (u,v) dv 2,

dove E, F e G sono funzioni delle coordinate. Per recuperare una lunghezza misurabile basta sommare, lungo una curva, tutte le distanze infinitesimali ds2 comprese fra i suoi estremi. Il te-desco Bernhard Riemann non si accontentò di studiare le superfici bidimensionali ed estese le impostazioni di Gauss a un numero arbitrario delle stesse. Pertanto:

ds g dx dxi ji j

n

i j2 =∑

,

,

dove n può assumere qualunque valore naturale. Le quantità gij sono, ancora una volta, funzioni delle coordinate. Il quadrato della distanza fra due punti estremamente vicini ds 2, pertanto, si allunga e comprime in funzione del nostro spostamento sulla superficie e della registrazione dei suoi ostacoli. Se traduciamo l’espressione gaussiana nei termini, più ampi, proposti da Riemann, otterremo che:

n = 2 x1 = u x2 = v g12 = g21 = F g11 = E g22 = G

Le funzioni gij (la metrica) nel loro insieme riflettono le irregolarità del rilievo. Si possono presen-tare mediante una matrice quadrata di n² elementi.

… … … …

g g g

g g g

g g g

n

n

n n nn

11 12 1

21 22 2

1 2

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un piano a due dimensioni, dove t e x sono variabili somiglianti:

Analogamente, il movimento dei corpi attraverso lo spazio, con il passare del tem-po, diventa uno spostamento lungo una «ipersuperficie» di quattro dimensioni. La dinamica si trasforma in geometria. Dopo questo salto concettuale, che Minkowski applicò per riformulare con eleganza la re-latività speciale, i parallelismi fra la caduta libera e l’assenza di gravità e fra una super-ficie curva e il suo piano tangente smettono di essere semplici analogie. Da parte loro, le geodetiche e gli invarianti della relazione metrica acquisiscono immediatamente un significato fisico.

Per un matematico, una geodetica è una linea statica, un tratto sulla carta, ma fra le quattro dimensioni della relatività di Minkowski figura il tempo: le geodetiche dello spazio-tempo risultano dinamiche, sono traiettorie. La coordinata temporale traduce un semplice punto in un evento, le trasformazioni di coordinate in cambi di sistemi di riferimento.

Si può applicare anche il punto di vista contrario e considerare la fisica come una geometria. Osserviamo un’immagine bi-

dimensionale della Luna che gira attorno alla Terra (figura 13).

Se ora chiedessimo una rappresentazio-ne della posizione della Luna in funzione del tempo, la risposta più intuitiva sarebbe immaginare che il satellite disegna un cir-colo attorno alla Terra. Eppure, spoglian-do il tempo dei suoi privilegi e trattandolo come una normale coordinata spaziale, come fece Minkowski, otteniamo una rap-presentazione geometrica tridimensionale (figura 14).

Nel gergo relativista, la distanza è nota come tempo proprio e si rappresenta me-diante la lettera greca tau: τ. Si tratta di una grandezza che non corrisponde alla separazione fra due posizioni, ma fra due eventi. Ogni insieme di coordinate si com-pone di tre valori spaziali e di uno tempo-rale che indicano un dove e un quando. Spostandoci da un punto all’altro lascia-mo una scia tetradimensionale: una «linea dell’universo». La nostra vita si può con-templare come una traiettoria nello spazio di Minkowski, una successione di luoghi e momenti legati fra loro. Così lo intese il fisico George Gamow quando intitolò le sue memorie La mia linea di universo. Un’autobiografia informale.

Nel capitolo precedente abbiamo sco-perto fino a che punto le nostre percezioni

xt = 1 t = 2 t = 3

t

x

3

2

1

«Quando uno scarafaggio cieco si trascina sulla superficie di un ramo piegato, in realtà non si rende conto che il tracciato che percorre è una curva. Ho avuto la fortuna di capire ciò che lo scarafaggio ignorava.»

Risposta di Einstein quando il figlio Eduard gli chiese perché fosse tanto famoso.

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sono malleabili. Una volta entrati nel labi-rinto degli specchi relativisti, saltando da un sistema di riferimento all’altro, i tempi e le distanze acquisiscono un comportamen-to lunatico. Come la scenografia di un film espressionista, si deformano, si allungano e si schiacciano. Gli oggetti in movimen-to si restringono e frenano la marcia dei loro orologi. Eppure, nonostante tutte le implicazioni psicologiche, il tempo in sé non smette di essere una distanza, quindi

una proprietà geometrica. È pertanto un invariante e offre le stesse informazioni a tutti i sistemi di coordinate, quindi a tutti i sistemi di riferimento: a tutti gli osser-vatori.

Per vederlo meglio facciamo ricorso a un’altra parabola tridimensionale. Collo-chiamo una bacchetta in posizione verti-cale, vicino a una parete, illuminata da due torce, una situata in cima e una di lato. La torcia verticale proietterà un punto a terra,

Due rappresentazioni “piane” del sistema formato dalla Terra e dalla Luna dove lo spazio è descritto solo in due dimensioni. Nella seconda immagine (figura 14) si aggiunge il tempo.

FIG. 13

FIG. 14

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mentre quella laterale rifletterà sulla parete l’intera bacchetta (figura 15).

Se adesso la incliniamo (rispetto al pia-no definito dalle due torce), la torcia verti-cale creerà un’ombra che crescerà a terra, mentre la silhouette sulla parete si ridurrà di pari passo di dimensione (figura 16).

Mettendola in posizione orizzontale, avremo invertito la situazione originaria. Il punto apparirà sulla parete, mentre a ter-ra la bacchetta si rifletterà in tutta la sua lunghezza (figura 17).

Possiamo dire che la parete e il terre-no sono osservatori bidimensionali che contemplano come la bacchetta si rim-picciolisce (nello spazio) o si allunga (nel

tempo). Stiamo conferendo un’interpre-tazione geometrica alla contrazione di Lorentz e alla dilatazione temporale. Gli abitanti di queste superfici potrebbero in-quietarsi scoprendo che la lunghezza della bacchetta cambia in modo imprevedibile quando si muove, ma potrebbero anche ideare un modello matematico in tre di-mensioni e arrivare alla conclusione che le mutazioni sono un’illusione. Il movimen-to modifica unicamente la dimensione delle ombre: la lunghezza della bacchetta resta inalterabile in uno spazio con una dimensione superiore.

Gli esempi proposti fanno ricorso a superfici in due dimensioni o spazi di tre,

LA METRICA DE MINKOWSKI

Se il quadrato della distanza euclidea fra due punti molto vicini (ds) si definiva come ds2 = dx 2 + dy 2 + dz 2, nella geometria di Minkowski è dato da: ds 2 = dx 2 + dy 2 + dz 2 − c 2 dt 2.Il prodotto della velocità della luce c (calcolato, ad esempio, nel sistema internazionale delle unità di misura in m/s) per t (in s) fa sì che la quarta variabile abbia la stessa lunghez-za delle tre variabili spaziali. La grandezza ds 2 è un invariante. Misurandola da due sistemi di coordinate differenti (x, y, z, t) e (x', y', z', t'), si ottiene lo stesso risultato:

ds 2 = dx 2 + dy 2 + dz 2 − c 2dt 2 ds 2 = ds' 2 ds' 2 = dx' 2 + dy' 2 + dz' 2 − c 2dt' 2

Cercando quale trasformazione di coordinate leghi i due sistemi, in modo che si rispetti l’equivalenza ds 2 = ds' 2, si ottengono le equazioni di Lorentz. Estraendo la metrica dall’e-spressione di ds²:

1 0 0 00 1 0 00 00 0

1 00 2–c

⎧⎩ ⎧⎩

Qui i componenti di g, con valori costanti, disegnano un piano senza ostacoli né curvature. Le sue geodetiche sono linee rette, ma il cambio di segno nel termine temporale introduce una peculiarità: non corrispondono più alla distanza più breve fra due punti dello spazio-tem-po, ma alla più lunga.

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ma l’universo di Minkowski ne prevede un’altra: la curvatura dello spazio-tempo si evidenzia in quattro dimensioni. Per aumentare le difficoltà del gioco, quando vogliamo mettere in relazione le storie di due osservatori che si muovono in un am-biente relativista, parte di ciò che per uno è lo spazio, per l’altro è il tempo e vicever-sa. Una circostanza facile da tradurre in equazioni matematiche o da rispecchiare in una similitudine, ma quasi impossibile da accettare in modo intuitivo.

Lo spazio-tempo di Minkowski offre una certa austerità perché è piano, come è giusto in uno scenario dove i corpi si spo-stano a velocità costante. Dalla prospet-tiva delle quattro dimensioni, gli oggetti senza accelerazione si possono rappresen-tare mediante punti o linee rette. Introdu-cendo la gravità e l’accelerazione, le rette si ritorcono. La gravità avvicina i corpi come la curvatura della sfera rende più vicini i disegnatori di parallele. Così come la linea retta di un mondo piatto si tra-sforma in un arco percorrendo una sfera, le traiettorie rette della relatività speciale mutano in geodetiche curve «acceleran-

do» nell’universo della relatività generale. Come in una superficie curva possiamo approssimare lo spazio attorno a un punto mediante il suo piano tangente, possiamo fisicamente avvicinare la traiettoria di un corpo accelerato mediante una caduta libera, sebbene per un breve momento. L’approssimazione risulterà più o meno precisa in funzione di quanto pronunciata sia la curvatura dello spazio, pertanto in base all’accelerazione alla quale è sotto-posto il corpo.

La relatività generale prende d’assalto lo spazio piano di Minkowski e lo defor-ma. Chi è responsabile della distorsio-ne? La presenza della massa. Quanta più materia (o energia) «iniettiamo» al suo interno, più si separerà lo spazio dalla condizione di planarità. Secondo le parole del fisico statunitense John Wheeler: «La gravità non è una forza aliena e fisica che opera nello spazio, ma una manifestazio-ne della geometria dello spazio proprio lì dove si trova la massa».

Arrivati a questo punto possiamo sin-tetizzare il nucleo della relatività generale in due enunciati:

FIG. 15 FIG. 16 FIG. 17

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– La traiettoria di un corpo in un cam-po gravitazionale adotta la forma di una geodetica dello spazio tetradi-mensionale.

– La relazione tra la presenza della mas-sa e la forma dello spazio tetradimen-sionale è data dall’equazione:

Facciamo nuovamente ricorso a Whe-eler per tradurre questa espressione in un linguaggio più quotidiano: «Lo spazio dice alla materia come muoversi e la materia dice allo spazio come curvarsi». Sul lato sinistro dell’equazione riconosciamo la g della metrica (gμν). Sia Rμν sia R sono com-ponenti matematici che si costruiscono a partire da g e sono invarianti. Indicano quanto devia lo spazio dal piano di Min-kowski, misurano quindi la sua curvatura in ogni punto.

ll secondo termine, che tecnicamente si denomina tensore di energia-impulso, Tμν, incarna la materia.

L’equazione di Einstein ci dice che, in una porzione determinata dello spazio, la sua curvatura risulta proporzionale a un numero (la costante G) e alla quantità di materia (o energia) che racchiude. Possia-mo immaginare un universo a bassa in-tensità e velocità costanti come un foglio liscio, solcato da traiettorie diritte, che comincia a incresparsi quando la densità aumenta e l’accelerazione fa atto di presen-za, fino a rompere tali linee. La relazione metrica riflette questa transizione facendo in modo che le sue componenti costanti comincino a variare da un punto all’altro.

La presenza della massa ci permette di costruire l’architettura esatta dello spazio tetradimensionale attraverso il secondo enunciato. Una volta delineato questo scenario, il primo detta le evoluzioni di qualunque corpo che transiti per lo stesso.

L’equazione di Einstein conserva una proprietà geometrica decisiva. È costituita da invarianti e, pertanto, mantiene la pro-pria forma per qualunque spettatore. Se la distanza e la curvatura non dipendono dal sistema di coordinate, neppure i fenomeni fisici possono dipendere dal punto di vista scelto dall’osservatore per descriverli. Si tratta della generalizzazione di uno dei due postulati della relatività speciale: «Le leggi della fisica adottano la stessa forma in qualunque sistema di riferimento che consideriamo con movimento unifor-me». Adesso possiamo spingerci oltre e affermare: «Le leggi della fisica adottano la stessa forma in qualunque sistema di riferimento che consideriamo con movi-mento accelerato».

Fisici contro matematiciFu colpa di Hermann Minkowski se il vi-rus della relatività si impossessò dell’U-niversità di Gottinga. Nel suo circolo di fedelissimi figurava uno dei matematici più prolifici e influenti del XX secolo: Da-vid Hilbert. Nonostante la loro amicizia, Minkowski impiegò anni a contagiarlo con la sua passione per la fisica. Arrivò a usarla come pretesto per non fargli visi-ta durante le vacanze di Natale: «Date le circostanze, non so se ti serve che ti con-soli. Credo che mi avresti trovato infettato fino al midollo dalla fisica. È addirittura possibile che debba essere messo in qua-rantena prima che Hurwitz e tu mi possia-te ammettere di nuovo come compagno

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IL MOVIMENTO DEI CORPI IN UN CAMPO GRAVITAZIONALE

Immaginiamo che più persone sorreggano un lenzuolo steso. Posizionano quindi al centro una sfera pesante, come la palla che si usa per giocare a bowling. Muovendo delicatamente il lenzuolo, otterranno sulla tela un’ondata di solchi e pieghe che met-terà in movimento la boccia. L’inerzia la spingerà a disegnare ogni tipo di traiettoria, evitando piccoli monticelli, rotolando verso il basso negli affossamenti e frenando quando incontra una pendenza. La forma che adotta la superficie della tela, la sua «geometria», che le persone possono modificare a piacere, detta il percorso della palla. Quest’ultima, tuttavia, non si limita a interpretare un ruolo passivo, poiché an-che il suo peso e il suo movimento modellano la forma del lenzuolo. La sua presenza disturberebbe, ad esempio, la traiettoria di una biglia lanciata in linea retta sulla tela, così come i movimenti delle persone che la sostengono. Cosa succederebbe con un lenzuolo in quiete e che fosse anche trasparente? Uno spettatore newtoniano vedrebbe come una forza misteriosa, la cui origine si posizio-nerebbe al centro della palla, che attira la biglia con un’azione che, in apparenza, è esercitata in modo immediato e a distanza. Sicuramente non penserebbe neppure di imputare la curva che disegna la pallina di vetro a una deformazione di un lenzuolo invisibile che trasmette con un certo ritardo qualunque cambiamento della sua geometria provocata dalla presenza e dal movi-mento di qualsiasi corpo appoggiato su di esso. Questa analogia si può estendere ai campi gravitazionali, dove la presenza della massa (anche di energia) deforma il tessuto dello spazio-tempo e, così facendo, frena e accelera, devia dalla loro traiet-toria o intrappola i corpi in una coreografia dinamica, alla cui creazione collettiva partecipano tutte le masse.

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delle vostre passeggiate, matematicamente puro e astratto».

Minkowski inaugurò la sua prima conferenza sulla relatività, nel 1907, con uno sconsolato ritratto dei fisici: «Sembra che la teoria elettromagnetica della luce stia dando luogo a una completa trasfor-mazione delle nostre rappresentazioni dello spazio e del tempo che dovrebbe suscitare un interesse straordinario fra i matematici. Il matematico si trova in una situazione privilegiata per adottare questo nuovo punto di vista, dato che comporta per lui un mero acclimatamento a sche-mi concettuali già familiari. Il fisico, al contrario, è costretto a riscoprire questi concetti e aprirsi un varco attraverso un bosco primigenio di oscurità. Accanto, il vecchio sentiero, disposto con precisione dal matematico, permette di progredire in tutta facilità».

In considerazione di questo chiaro svantaggio, la chiaroveggenza di uno dei suoi ex studenti al Politecnico di Zurigo quasi lo infastidiva: «Oh, quell’Einstein, non faceva che saltare le lezioni. A essere sincero, non lo avrei mai creduto capace di tutto questo!».

Un’appendicite mise bruscamente fine alla vita di Minkowski e lasciò il suo lavo-ro incompiuto.

Fu un duro colpo per Hilbert, il cui atteggiamento verso la fisica cambiò no-tevolmente. Da allora le sue parole adot-tarono il tono di un medium attraverso il quale Minkowski continuava a divulgare le proprie inquietudini: «Nella sua espo-sizione scritta, il fisico ignora con legge-rezza passi logici importanti, [...] mentre spesso il matematico diventa la chiave per comprendere i processi fisici». In un ambiente più informale la si prendeva

con più spirito: «La fisica sta diventando troppo complicata per lasciarla in mano ai fisici».

In modo più o meno cosciente, Hilbert si proposte di dare concretezza al programma del suo vecchio amico. Uno dei suoi princi-pali traguardi era stato l’assiomatizzazione della geometria. Adesso avrebbe trattato nello stesso modo la fisica, ricostruendola dalle fondamenta con un rigore sconosciuto e applicando le più moderne tecniche. Ri-assumeva il suo programma con un ordine: «Abbiamo riformato la matematica, adesso dobbiamo riformare la fisica e, in seguito, sarà la volta della chimica». Sino a qui era giunto quando incontrò Einstein, con una teoria generale della relatività a metà e for-mulata in un linguaggio geometrico che non riusciva ancora a dominare.

Dopo ormai quasi un anno di conflitto, la Prima Guerra Mondiale, ben lungi dal volgere al termine, si stava inasprendo. Nell’aprile del 1915 i tedeschi avevano inaugurato la guerra chimica, avvolgen-do le trincee di Ypres in una nebbiolina verdastra e giallognola di gas-mostarda. Nella storia della relatività si avvicinava una battaglia meno sanguinaria, ma non certo esente da colpi di scena. A fine giu-gno Einstein accettò un invito di Hilbert e si recò a Gottinga per tenere un ciclo di sei conferenze, durante le quali rese noto il livello di sviluppo raggiunto dalla sua teoria generale della relatività. Nel corso della sua permanenza alloggiò a casa del matematico, con il quale ebbe occasione di conversare animatamente, senza so-spettare di sollecitare così sin troppo la sua curiosità.

L’impressione che riportarono del col-lega fu eccellente per entrambi. «Con mia grande gioia ho avuto pieno successo nel

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convincere Hilbert e Klein», si rallegrava Einstein. Neppure Hilbert nascondeva la sua soddisfazione: «In estate abbiamo avuto i seguenti ospiti: Sommerfeld, Born ed Einstein. Le conferenze di quest’ultimo sulla teoria della gravitazione in particolare sono state un vero e proprio evento».

Senza dubbio Einstein era riuscito a sedurre i matematici di Gottinga con la sua geometrizzazione della gravità. Non poteva però indovinare che l’avessero an-

che visto perso davanti a un bivio: il punto dove la fisica diventava troppo complessa per lasciarla ai fisici. Il gran patriarca della scuola di Gottinga, Felix Klein, si lamen-tava: «Nell’opera di Einstein ci sono im-perfezioni che non arrivano a pregiudicare le sue grandi idee, ma che le nascondono alla vista». Hilbert si permetteva qualche battuta: «Qualunque ragazzino di strada di Gottinga ne capisce di più di geometria tetradimensionale di Einstein».

DAVID HILBERT

Hilbert nacque nella città prussiana di Königsberg nel 1862. Ebbe una carriera fol-gorante e, sin dai suoi esordi, fu riconosciuto come la figura carismatica che avreb-be guidato i matematici della sua generazione. In collaborazione con Felix Klein trasformò l’Università di Gottinga in uno dei centri di ricerca matematica più pro-duttivi di tutti i tempi. Durante il Congresso Internazionale dei Matematici del 1900, svoltosi a Parigi, passò in rassegna una serie di ventitré problemi la cui risoluzione avrebbe segnato, a suo giudizio, lo sviluppo futuro della disciplina. Nonostante la rivalità scientifica con Einstein, i due avevano molto in comune e fra loro scattò subito una vera simpatia. Entrambi si rifiutarono di firmare una dichiarazione di appoggio all’intervento tedesco nella Prima Guerra Mondiale. Come Einstein, anche Hilbert ebbe un figlio affetto da schizofre-nia con il quale mantenne un rapporto complesso. Non era da meno anche in fat-to di aforismi. A testimonianza di questa sua capacità, una sola frase: «Possiamo misurare l’importanza di un’opera scientifica dal numero di pub-blicazioni precedenti che rende superflue». Arrivò a compiere ottantuno anni, una lon-gevità che visse come una disgrazia poiché ebbe tempo di vedere come i nazisti di-struggevano la scuola matematica che ave-va creato in decenni di fatiche. Quando, durante un banchetto nel 1934, il Ministro della Cultura gli chiese se fossero vere le voci secondo le quali la matematica tede-sca aveva risentito delle purghe nazionalso-cialiste, Hilbert rispose: «Risentito? La ma-tematica non ne ha risentito affatto, signor ministro. Semplicemente non esiste più».

ARCHIVO RBA

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Le carte furono scoperte in novembre. Einstein iniziò riconoscendo che aveva «perso totalmente la fede nelle equazioni di campo» che aveva difeso negli ultimi tre anni. Decise di riprendere una linea di attacco che aveva abbandonato nel 1912, con eccessiva fretta, accettando una re-strizione che si rivelò senza fondamento. La notizia che Hilbert aveva individuato le sue imperfezioni e aveva iniziato in au-tonomia l’assalto alle equazioni di campo fu per lui una vera doccia gelata. Hilbert aveva il vantaggio di una superiorità ma-tematica innegabile, in un problema dove questo sembrava un fattore decisivo. A suo favore, Einstein poteva contare sul suo ine-guagliabile istinto fisico.

Stimolato dalla rivalità, sprofondò in un abisso di equazioni che riempiva di cancel-lature, prove e modifiche fino a termina-re ogni possibile alternativa. Abbandonò praticamente qualunque attività che mi-nacciasse la sua massima concentrazione. Non distingueva più il giorno dalla notte e a volte si dimenticava persino di mangiare.

Questa tenacia estenuante finì per dare i suoi frutti. La nebbia si dissipava attorno alla matematica della teoria... quando il 14 novembre trovò nella cassetta della posta una lettera con il timbro di Gottinga dove Hilbert si vantava dei suoi progressi che considerava quasi definitivi: «È vero che mi piacerebbe pensare prima a qualche ap-plicazione concreta per i fisici, come qual-che affidabile relazione tra costanti fisiche, prima di offrire la soluzione assiomatica al tuo gran problema».

La corrispondenza fra i due si trasformò in un fuoco incrociato di suggerimenti e astuzie. Il 18 novembre Einstein vide final-mente la luce. La sua ultima versione della teoria prevedeva un’irregolarità nell’orbi-

ta di Mercurio, descritta dal matematico Urbain Le Verrier nel 1859, che sfidava le previsioni newtoniane. Correggeva inoltre la stima classica della curvatura della luce sotto gli effetti gravitazionali. Infine, le sue equazioni si riducevano a quelle di Newton in campi gravitazionali di bassa intensità. La rivelazione gli provocò una tachicardia e uno stato improvviso di euforia che non lo abbandonò per giorni.

Il 25 novembre 1915, un Einstein allo stremo delle forze presentava la sua versio-ne delle equazioni di campo davanti all’Ac-cademia di Berlino: «Finalmente la teoria generale della relatività mostra una strut-tura logica chiusa». Cinque giorni prima, Hilbert riassumeva le conclusioni del suo programma assiomatico davanti all’Acca-demia delle Scienze di Gottinga. Chi aveva vinto? Per cominciare possiamo affermare che, nonostante le apparenze, avevano par-tecipato a competizioni diverse.

Sebbene Hilbert fosse stato il primo a rendere pubblici i suoi risultati, negli originali dell’articolo che riassume la sua conferenza di Gottinga non compaiono le equazioni di campo corrette, sebbe-ne figurino nella versione che pubblicò nel marzo del 1916. La priorità è quindi di Einstein. Se misuriamo il risultato in base all’obiettivo che ognuno dei due si era prefissato, quest’ultimo centrò il ber-saglio, mentre Hilbert sbagliò il tiro con un ampio margine.

Il matematico ignorò quasi completa-mente il paesaggio sperimentale. La let-teratura relativista della gravitazione era solo un aspetto della sua vasta ambizione assiomatica che pretendeva conquistare non solo la gravità, ma anche l’elettroma-gnetismo e la sua interazione con la mate-ria. Le equazioni fondamentali della fisica

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dovevano sorgere a partire da una funzione che chiamò «funzione dell’universo», le cui proprietà aveva definito in un paio di as-siomi. Hilbert intitolò la sua conferenza I fondamenti della fisica, una disciplina dalla quale, a partire da allora, «sarebbe sorta una scienza come la geometria».

Seppe dispiegare un’artiglieria for-malmente superiore a quella di Einstein e risolvere alcuni dei suoi problemi tecnici in modo più diretto, ma le sue pretese di aver unificato la relatività e l’elettroma-gnetismo, dando conto, nel frattempo, dei fenomeni che si verificavano nell’atomo, risultarono infondate. Einstein pensava che il proposito di Hilbert nascondesse, «mimetizzata fra le tecniche», la pretesa «di un superuomo».

Fu forse un alunno di Hilbert, Her-mann Weyl, il cui contributo fu tanto importante per la fisica teorica, a saper comprendere meglio di chiunque altro l’atmosfera di svolta: «Gli uomini come Einstein e Niels Bohr si aprono la strada a tentoni, nell’oscurità, fino a raggiungere le loro concezioni della relatività generale o della struttura atomica mediante un tipo di esperienza o immaginazione diversa da quella che serve al matematico, sebbene

senza dubbio la matematica costituisca un ingrediente essenziale».

Einstein giudicò il lavoro di Hilbert come un’intromissione, una convinzione che trapela in modo velato in alcune delle sue lettere. I suoi sospetti però svanirono presto, soprattutto dopo che Hilbert non fece nulla per mettere in dubbio la priorità del fisico tedesco. Il 20 dicembre Einstein gli scriveva una lettera conciliante:

Fra di noi vi è stata una certa ostilità della quale non pretendo di analizzare le cause. Ho lottato contro il sentimento di amarezza che è nato in me e l’ho vin-to completamente. Penso di nuovo a te con un affetto sul quale non si allunga alcuna ombra e ti prego di fare lo stesso con me.

Vera ironia della sorte, dopo che Min-

kowski contagiò Hilbert con la passione per la fisica, a sua volta Hilbert trasmise le sue aspirazioni da superuomo a Einstein. Quest’ultimo consacrò gli ultimi decenni di vita a costruire una teoria nella quale si fondessero i campi elettromagnetici e gravitazionali. Una ricerca anch’essa de-stinata al fallimento. j

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ILLUSTRAZIONE DI JUAN CARLOS CASADO / SHELIOS

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C A P I T O L O 4

Le scale del mondo

Un volta alzato il “ponteggio” delle equazioni relativiste, Einstein si impegnò a dipingere la sua immagine personale

dell’universo. La cosmologia, una scienza dominata fino ad allora dalla speculazione, fece con lui un enorme

passo avanti. La conferma sperimentale, nel 1919, della deviazione della luce per azione della gravità trasformò

improvvisamente Einstein in una celebrità.

La Luna oscura la sfera solare durante l’eclissi anulare del Sole nel 2005. Le immagini che sir Arthur Eddington ottenne dell’eclissi solare totale nel maggio del 1919 costituirono una delle prime dimostrazioni sperimentali della teoria della relatività generale di Einstein.

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lla fine di ogni tempe-sta creativa, Einstein si ammalava. L’intensità del contraccolpo era proporzionale al lo

sforzo investito. Se dopo i mesi di ipe-rattività che portarono alla stesura degli articoli del 1905 trascorse a letto due set-timane, a seguito del lungo e sostenuto braccio di ferro con la relatività generale la convalescenza si prolungò, a fasi al-terne, per diversi anni. Il razionamento dovuto alla guerra non poté che aggrava-re le sue condizioni. A partire dal 1917 il suo organismo cedette a un susseguirsi di piccoli collassi, calcoli biliari, disturbi epatici, itterizia e ulcere gastriche che lo obbligarono a letto per mesi, facendogli temere che non si sarebbe mai più rista-bilito del tutto. Arrivò a perdere fino a venticinque chili in due mesi.

Con l’arrivo dell’estate, Elsa gli affittò un appartamento nel suo stesso stabile e, con discrezione, su e giù per le scale, si prodigò nel ruolo di infermiera, cuoca, vicina di casa e amante. In cambio della sua totale dedizione, aumentò le pressioni sul divorzio. L’anno successivo Einstein ripresentò la spinosa questione a Mile-va e, facendo mostra di particolare tatto, cercò di renderla più accettabile con una spettacolare offerta economica che com-prendeva il premio in denaro che avrebbe ricevuto con un eventuale Nobel.

Inizialmente Mileva reagì con l’antica furia, ma dopo poche settimane venne a più miti consigli.

La persistenza della separazione e la determinazione di Einstein erano pro-va che l’unione matrimoniale era ormai irrimediabilmente distrutta, nonostan-te la presenza dei figli. Era afflitta dalle

precarie condizioni di salute, così come la sorella e il figlio minore. Dato che il passato era un territorio che ormai non poteva riconquistare, era forse arrivato il momento di affrontare l’inevitabile nel-le condizioni migliori possibili. Vinte le reticenze di Mileva, restava da superare un avversario ancora più temibile: la bu-rocrazia. «Sono curioso di vedere cosa durerà di più – confidava Einstein alla moglie – la guerra mondiale o le nostre pratiche di divorzio». Durò di più il di-vorzio.

Mileva fu probabilmente il grande amore della sua vita. Nel suo primo ma-trimonio aveva cercato tutto, corpo e spirito. Nella corrispondenza con Elsa, Einstein recupera il linguaggio di un in-namorato, ma la temperatura è più bassa e si moltiplicano le obiezioni: «Non è per mancanza di vero affetto che il matrimo-nio smette di sostentarmi!».

Con una nota di cinismo, si potrebbe dire che Mileva incarnava l’amore ideale per un giovane di vent’anni, mentre Elsa lo rappresentava per un uomo di quaranta. La cugina gli garantì una grande pace, in cambio di un’affinità meno profonda. For-se non discuteva molto di fisica con Elsa, né erano uniti da un amore passionale, ma si offrirono appoggio e compagnia e con-dividevano un gran senso dell’umorismo. In lei trovò il modo di coniugare il bisogno di affetto con la comodità.

«Sono felice che la mia attuale compagna non sappia nulla

di scienze, a differenza della mia prima moglie.»

Einstein alla sua allieva Esther Salaman

A

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La sostituzione di Mileva con Elsa rendeva evidente una transizione più sotterranea. Dopo l’incoronazione della teoria della relatività generale, Einstein iniziò a svestire i panni dell’iconoclasta. Lui stesso se ne lamentava: «Per castigare il mio disprezzo verso l’autorità, il desti-no ha decretato che diventassi io stesso un’autorità».

Durante il divorzio, Einstein fece una promessa a Mileva: «Non rinuncerò mai a vivere solo, uno stato che si è rivelato come un’indescrivibile benedizione». Ci mise meno di quattro mesi a cambiare idea. Ottenne il divorzio da Mileva il 14 febbraio 1919 e lo ritroviamo sposato con Elsa il 2 giugno dello stesso anno.

Pauline festeggiò la separazione da Mileva come se avesse vinto la lotteria: «Se il tuo povero padre fosse ancora qui per vederlo!». Poté tuttavia godersi poco la nuova situazione. Sarebbe morta infat-ti un anno più tardi per un tumore allo stomaco. Un colpo che, ancora una volta, contraddisse la presunta insensibilità di Einstein: «Sentiamo nelle ossa cosa signi-ficano i vincoli di sangue».

L’eclissiNel 1804 un astronomo bavarese, Johann Georg von Soldner (1776-1833), si basò sulla teoria corpuscolare di Newton – che considerava la luce composta da masse puntiformi, sensibili alla gravità – per formulare una curiosa predizione: «Se […] un raggio luminoso passa accanto a un corpo celeste, invece di continuare in linea retta, l’attrazione di quest’ultimo lo costringerà a descrivere un’iperbole la cui concavità si dirige verso il corpo che lo attrae». Nel caso del Sole, Von Soldner calcolò in circa 0,84 secondi d’arco l’an-

golo della deviazione. Un fenomeno tanto suggestivo si sarebbe potuto vedere dal-la Terra? «Se fosse possibile osservare le stelle fisse molto vicine al Sole, dovremmo prendere in considerazione questo effetto.

Eppure, giacché è ben noto che così non accade, dovremo ignorare la pertur-bazione del Sole». Durante il XIX secolo, la teoria corpuscolare della luce perdette progressivamente appeal in favore dell’ipo-tesi ondulatoria, tanto che la congettura di Von Soldner, impossibile da verificare con i mezzi dell’epoca, fu presto dimenticata. Nel giugno del 1911, partendo da alcuni presupposti teorici molto diversi e senza conoscere l’opera di Von Soldner, Einstein resuscitò l’idea nel suo articolo L’influenza del campo gravitazionale sulla propagazio-ne della luce, nel quale raggiunse un valore praticamente identico: 0,83 secondi d’arco. La sua conclusione, però, differiva diame-tralmente da quella dell’astronomo:

Dato che durante le eclissi totali di Sole le stelle fisse diventano visibili nelle regioni del cielo vicine al Sole, questa conseguenza della teoria può essere veri-ficata mediante una prova sperimentale [...]. Sarebbe auspicabile che gli astrono-mi prestassero attenzione alla questione qui riportata, sebbene possa sembrare che le riflessioni sopra annotate manchi-no di sufficiente fondamento o, addi-rittura, siano stravaganti.

Tre anni dopo che Einstein rese pub-blica la sua sfida sugli Annalen der Physik, gli almanacchi astronomici del 1914, un anno che sarebbe stato carico di eventi, fissarono per il 21 agosto un’eclissi che presentava tutti i requisiti per effettuare la verifica.

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Erwin Freundlich (1885-1964), giova-ne astronomo di Wiesbaden, si affrettò a raccogliere il guanto di sfida, ma la Prima Guerra Mondiale rovinò la sua spedizione in Crimea. La Germania dichiarò guerra alla Russia il 1 agosto e, come rappresaglia, i soldati dello zar catturarono il gruppo di astronomi tedeschi le cui aspirazioni scien-tifiche furono interpretate come una gros-solana copertura per attività di spionaggio. «Il mio buon amico, l’astronomo Freundli-ch – si lamentava Einstein in una lettera a Ehrenfest – invece di portare avanti espe-rimenti su un’eclisse di Sole in Russia, do-vrà sperimentare di persona la prigionia in quel Paese». Nonostante l’antimilitarismo dello scienziato, le truppe zariste gli stava-no quasi facendo un favore. La sua teoria non era ancora in condizioni di superare l’esame dei cieli. Invece di confermare la relatività, le osservazioni di Freundlich l’avrebbero confutata.

Nella sua famosa conferenza del 25 novembre 1915, Einstein aveva dedotto, a partire dall’equazione di campo corret-ta, una seconda stima che si allontanava nettamente da quella di Von Soldner: 1,7 secondi d’arco. La disparità forniva ora un’eccellente base per confrontare la vi-sione relativista della gravità con quella classica newtoniana. Arthur Eddington (1882-1944), direttore dell’Osservatorio di Cambridge, superò in questa occasio-ne Freundlich, che era intanto tornato in Germania a seguito di uno scambio di prigionieri. L’inglese era convinto di avere un appuntamento con il destino il 29 maggio 1919:

L’effetto della curvatura influenza le stelle vicine al Sole e, quindi, l’unica opportunità di effettuare questa osser-

vazione è durante un’eclissi totale, quando la Luna sospende la propria accecante luce. Anche allora una gran-de quantità di luce passa dalla corona solare e si estende lontano dal disco. Pertanto è necessario considerare stelle che brillino abbastanza vicine al Sole e che non svaniscano nello splendore della corona. [...] Un astronomo che consultasse oggi le stelle annuncerebbe che la data più favorevole dell’anno per calcolare la luce è il 29 maggio. Il moti-vo è che il Sole, nel suo percorso annua-le attorno all’ellissi, attraversa campi stellari di diversa ricchezza, ma il 29 maggio si trova nel mezzo di una por-zione assolutamente eccezionale di ste-lle brillanti, una sezione delle Iadi, di gran lunga il miglior campo di stelle disponibile.

La spedizione scientifica organizzata dall’Università di Cambridge e dalla Regia Società Astronomica per coprire l’eclissi si divise in due gruppi attorno al circolo dell’equatore. Uno, a sud, si diresse verso la città brasiliana di Sobral, l’altro, a nord, all’Isola del Principe, davanti alla costa della Guinea.

Come molte spedizioni, anche questa fu sul punto di essere annullata per il mal tempo. La mattina dell’eclissi, invece del Sole, Eddington si trovò di fronte una mol-titudine di nubi e un diluvio. Alle tredici e trenta il sole si affacciò timidamente, ma le nuvole si comportavano come un sipa-rio che si alzava e si abbassava, coprendo e scoprendo lo scenario dove sarebbe stata giudicata la teoria della relatività. Quando la luna iniziò a coprire il sole,

Eddington si concentrò sulla frene-tica impressione di una lastra fotogra-

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Descrizione delle osservazioni di Crommelin a Sobral apparse sull’Illustrated London News il 22 novembre 1919.THE ILLUSTRATED LONDON NEWS

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fica dopo l’altra. Aveva a disposizione solo cinque minuti. Guardando il cie-lo, a volte vedeva l’eclissi, altre volte le nubi. Fra le sedici immagini che scattò dell’ammasso stellare delle Iadi, solo due sembravano utilizzabili. Corse subito a

svilupparle, attanagliato dall’inquietudi-ne: cosa era successo a Sobral? Secondo il racconto di Andrew Crommelin, respon-sabile della spedizione brasiliana, il clima si rivelò snervante, ma «una schiarita fra le nubi si aprì in prossimità del sole ap-

TerraSole

Posizione apparente

Posizione reale

2° 1° 2°1°

La massa del Sole curva in modo significativo la luce che passa nelle sue vicinanze, facendo sì che alcune stelle sembrino occupare posizioni diverse da quelle reali, come si evidenzia nella rappresentazione della figura 1. Questo fenomeno si nota chiaramente mediante la sovrapposizione di due immagini dello stesso campo stellare, con e senza eclissi, scattate nel 1922 e che sono rappresentate nella figura 2. Ogni freccia collega la posizione reale di una stella (il punto) con la posizione apparente (la punta).

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pena in tempo e, per quattro dei cinque minuti di oscuramento, il cielo attorno al sole rimase completamente terso».

Eddington giocò un po’ a favore del-la relatività, manipolando i dati e con-frontando le fotografie con altre dello stesso campo stellare scattate una notte di inverno in Inghilterra, quando il Sole non sviava la luce dalle Iadi. Dopo aver scartato i dati che più si allontanavano dalle sue aspettative, imputando le loro devianze a diversi difetti strumentali, considerò valida una deviazione di 1,7 secondi d’arco.

Alcuni inglesi giudicarono l’esperimen-to come una continuazione della guerra con altri mezzi, un duello fra il loro grande genio nazionale, Isaac Newton, e un tede-sco, per quanto poco Einstein potesse con-siderarsi tale (e per quanto ancora meno tedesco lo considerassero i suoi connazio-nali). Il 6 novembre del 1919 una riunione congiunta della Società Astronomica Reale e della Royal Society a Londra concluse che l’analisi delle fotografie certificava la pre-dizione della relatività generale.

Se la prima spedizione di Freundlich fu organizzata con un pessimo tempismo, tanto storico quanto scientifico, la secon-da fece centro in entrambi i bersagli. Con grande sorpresa di tutti, una notizia scien-tifica era considerata degna della prima pagina dei principali quotidiani, da dove si scatenò un terremoto senza precedenti nell’opinione pubblica.

Scorrendo i titoli dell’epoca, leggiamo: «Trionfa la teoria di Einstein» (The New York Times), «Rivoluzione nella scienza», «Confutate le idee newtoniane» (The Ti-mes), «Una nuova importante figura nella storia mondiale: Albert Einstein» (Berliner Illustrirte). Le masse non tardarono a ra-

tificare la canonizzazione del fisico sugli altari della scienza.

La convalida della teoria non elevò solo lo sguardo di giornalisti e lettori verso il fir-mamento, ma anche quello degli scienziati. È vero che l’equazione di campo poteva essere applicata a qualunque gruppo di masse, ma il cosmo sembrava l’ambiente naturale della relatività.

I suoi effetti passavano inosservati nella danza atomica dei nuclei e degli elettro-ni, ma si manifestavano in tutto il loro splendore fra stelle e galassie. Lì si sareb-be aperto il primo atto della meccanica post-newtoniana.

La luce, prigioniera dell’oscuritàNel suo duello con Hilbert, Einstein ave-va presentato la sua equazione con tre casi particolari, alla ricerca di una rapida conferma sperimentale: il calcolo di un’a-nomalia nell’orbita di Mercurio, insieme alla deviazione di un raggio di luce e allo spostamento verso il rosso (un effetto che spiegheremo più avanti), entrambi per cau-se gravitazionali.

Fu una corsa contro il tempo, nella quale Einstein si limitò a estrapolare so-luzioni approssimative.

La sua teoria attirò improvvisamente l’attenzione di altri e smise di essere solo il suo passatempo. Il primo a fornire una soluzione esatta fu un astronomo, Karl Schwarzschild (1873-1916), che si allon-tanò così dagli orrori del fronte russo dove lo aveva condotto il suo fervore patriotti-co. Schwarzschild aveva l’astronomia nel sangue: pubblicò il suo primo articolo, sull’orbita delle stelle doppie, a sedici anni, quando era ancora uno studente delle su-periori.

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Tre giorni prima del Natale del 1915, scriveva a Einstein per mostrargli i suoi calcoli sulle anomalie dell’orbita di Mercu-rio: «Vede che, nonostante il fuoco serrato dei cannoni, la guerra mi tratta con suffi-ciente clemenza da consentirmi di evadere da tutto questo e di passeggiare per la terra delle sue idee».

Schwarzschild cercò di plasmare nel dettaglio la versione relativista di una stella. Per semplicità la considerò sferica e statica. Per prima cosa calcolò la curva-tura spazio-temporale nei pressi del corpo celeste e, in seguito, si gettò all’osservazio-ne della matematica al suo interno.

Riuscì a determinare la distorsione che introduceva la massa stellare nel tessuto dello spazio-tempo. Comprese che il tem-po fluisce più lentamente man mano che ci si avvicina alla massa, pertanto all’au-mentare dell’intensità del campo gravi-tazionale, una tendenza che si mantiene dopo averne attraversato la superficie, diretti verso il centro. Una manifestazio-ne osservabile di questo fenomeno è che la luce che emette la stella è interessata da ciò che si conosce come spostamento verso il rosso.

Studiando la materia, riscontriamo che l’attività dei suoi elettroni genera radiazioni elettromagnetiche sotto for-ma di onde di diverse lunghezze. Così come la luce del Sole si divide nei colori dell’arcobaleno, è possibile analizzare una radiazione qualunque e spiegarne i suoi componenti. Grazie a un apposito apparecchio siamo in grado di stampa-re l’impronta luminosa della materia e la sua registrazione è nota con il nome di spettro. Grazie agli spettri atomici possiamo determinare la composizione di una stella analizzando la luce che ci

arriva dalla stella stessa. Le equazioni di Schwarzschild indicavano che, per un atomo situato sulla superficie di una stella, il tempo trascorre più lentamen-te che per un altro atomo dello stesso elemento sulla Terra (dal punto di vista di un osservatore che si trovi sul nostro pianeta). Pertanto, le loro scale di tempo non coincidono (figura 1).

Questa differenza influenza la nostra percezione della radiazione stellare. Sebbe-ne per ogni sistema di riferimento (quello vicino alla stella e alla Terra) atomi uguali generino, alla stessa temperatura, spettri identici, per gli astronomi terrestri le onde emesse vicino alla stella si registrano con periodi (T) più lunghi (figura 2).

Il periodo è, per essere esatti, l’inverso della frequenza (T = 1 / ν). Man mano che cresce T, diminuisce v, e ciò significa che le onde che compongono l’impronta dell’ele-mento sono ricevute con una frequenza più corta. All’interno dello spettro visibile, la luce con minore frequenza è quella rossa. Per estensione, si dice che la distorsione gravitazionale della massa stellare sposta la radiazione verso il rosso.

Questo effetto si accentua con l’inten-sità del campo gravitazionale. Quanto più compatta e massiccia è la stella, più pronunciato sarà lo spostamento verso il rosso, un indicatore che il tempo trascorre più lentamente nelle sue vicinanze. Por-tando la situazione all’estremo, troveremo che, per una densità critica, il tempo fini-sce per fermarsi e lo spostamento verso il rosso aumenta in modo esponenziale, fino ad annullare lo spettro.

Schwarzschild giudicava questo limite come un’illusione matematica senza cor-rispondenza nella realtà. Era ignaro di stare scrivendo per la prima volta di una

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t1s 2s 3s 4s 5s

t1s 2s 3s 4s 5s

T

T

FIG. 1FIG. 2

Confronto delle scale di tempo sulla superficie della stella e sulla superficie terrestre. La disparità è dovuta al fatto che l’intensità del campo gravitazionale è superiore vicino alla stella rispetto che al nostro pianeta.

peculiarità astronomica che avrebbe affa-scinato l’immaginazione dei fisici (e de-gli appassionati di fantascienza): un buco nero. Il termine sarebbe stato coniato da John Wheeler mezzo secolo dopo, duran-te una conferenza all’Istituto Goddard di Studi Spaziali della NASA nell’autunno del 1967.

Einstein fu entusiasta del lavoro di Schwarzschild, ma l’impressionante incur-sione dell’astronomo nella relatività gene-rale fu una stella cadente che si spense con la guerra. Una malattia autoimmune della pelle strappò Schwarzschild alle trincee e lo riportò a Potsdam, per mettere fine alla sua vita nei pressi dell’osservatorio che ave-

va diretto prima di arruolarsi volontario nell’esercito.

Dopo aver soppesato la questione, Einstein concluse che «le peculiarità di Schwarzschild non esistono nella realtà fisica». Le sue obiezioni, tuttavia, conte-nevano delle lacune.

Nella conferenza nella quale battezzò i buchi neri, Wheeler non solo accettava la loro possibile esistenza, ma fece inoltre una vivida e plausibile descrizione della loro traumatica nascita.

Quando il combustibile nucleare di una stella si esaurisce, questa si trova davanti a un bivio. La sua sorte dipende quindi da una serie di variabili, fra le quali la sua

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massa iniziale. Può verificarsi che la sua già ridotta energia radiante non basti per sostenere la sua massa e che questa le cada addosso, provocando una drastica contra-zione.

[…] a causa di un’implosione sempre più rapida, [la superficie della stella che collassa] si allontana dall’osservatore con maggiore rapidità. La luce si sposta verso il rosso. Diventa più debole milli-secondo dopo millisecondo e, in meno di un secondo, troppo scura per poterla vedere... [La stella], come il Ghignagat-to, sparisce dalla vista. Uno lascia dietro di sé solo il suo sorriso, l’altra l’attrazio-ne gravitazionale.

Nel capitolo precedente abbiamo visto come il grado di curvatura in una regione dello spazio-tempo rifletta il suo contenuto di materia.

La densità di un buco nero equivale a schiacciare la massa del Sole all’interno di uno spazio grande la metà dell’isola di Manhattan. Una tale concentrazione forza il tessuto spazio-temporale fino a limiti che Schwarzschild ed Einstein si arrischiava-no a considerare solo nei loro quaderni di equazioni. Eppure l’universo è risultato essere molto più estremo di quanto osas-sero sognare i patriarchi della relatività. In prossimità di un buco nero si moltipli-ca la frenata temporale che si apprezzava già nelle vicinanze della superficie di una stella. In altre parole, avvicinandoci al suo orizzonte con cautela entriamo in un film girato al rallentatore e, allontanandoci, possiamo essere proiettati a migliaia di anni nel futuro.

I buchi neri non lasciano traccia in nes-suno spettro e, perciò, al fine di localizzar-

li è necessario applicare la stessa strategia impiegata per dare la caccia all’uomo in-visibile: abbassare lo sguardo per scopri-re le sue orme nella neve. Sebbene non ci siano prove dirette della loro esistenza, i telescopi rilevano perturbazioni gravitazio-nali nella danza delle stelle e delle galassie che rispondono in modo mirabile alla loro teorica influenza.

Sembra ironica la sospettosità di Ein-stein nei confronti dei buchi neri, dato che, come sottolineava Freeman Dyson: «Sono gli unici luoghi dell’universo dove la teoria della relatività si manifesta in tutta la sua potenza e splendore».

Lo spostamento del perielio di Mer-curio o i buchi neri mostravano angoli suggestivi del cosmo relativista, ma non consentivano di concentrarsi sui dettagli. Dato che le equazioni di campo si poteva-no applicare a qualunque gruppo di mas-se, si era tentati di inglobare nel termine Tμv tutta la materia e l’energia dell’uni-verso per vedere cosa sarebbe successo.

Ancora una volta Einstein fu il primo a lanciarsi in questo audace tentativo, ta-gliando il traguardo che inaugurò la co-smologia moderna. Si doveva confrontare con uno scenario tanto smisurato che do-vette affrontare il tema partendo da ap-prossimazioni.

Sin da subito, dovendo contemplare la massa dell’universo, socchiuse gli oc-chi e suppose una distribuzione continua della materia. Considerò di fatto, inoltre, che qualunque punto o direzione dell’u-niverso fosse fondamentalmente equiva-lente agli altri (condizioni di omogeneità e isotropia).

Nel 1917, quando costruì il suo mo-dello, l’immagine che aveva del cosmo si riduceva a un’istantanea della Via Lattea.

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LENTI GRAVITAZIONALI

Nel 1936, Rudi Mandl, ingegnere e scienziato dilettante di origini ungheresi, pensò che, se le grandi masse deviavano i raggi luminosi, potevano agire anche come una lente, concentrando la luce in un punto. Nel caso di due stelle convenientemente allineate con la Terra, poiché il corpo ce-leste centrale è estremamente grande, quest’ultimo si comporterebbe esattamente come una lente di ingrandimento, materializzando davanti agli osservatori terrestri un’immagine della più lontana. Einstein aveva preso in esame la stessa nozione nel 1912, ma l’aveva scartata, pen-sando forse che l’effetto non sarebbe stato rilevabile. Spronato dall’entusiasmo di Mandl, ripeté i calcoli vent’anni dopo e pubblicò una piccola nota sulla rivista Science. Nell’ultimo paragrafo adottava il tono scettico di Von Soldner, convinto che non vi fossero «molte opportunità di apprezzare questo fenomeno». Un pessimismo ragionevole negli anni Trenta, ma non nel 1979, quando Dennis Walsh, Robert Carswell e Ray Weymann identificarono, nell’Osservatorio di Kitt Peak, nel deserto dell’Arizona, le prime immagini generate da una lente gravita-zionale. Le lenti gravitazionali creano in genere immagini multiple e altre distorsioni ottiche, come archi, aloni e croci. Il disegno mostra una galassia che si comporta come una lente gravitazionale: nonostante si interponga sulla sua linea di visione, produce due immagini sfalsate di un quasar molto lontano.

Terra

Posizione apparentedel quasar

QuasarLinea della visuale

Posizione apparentedel quasar

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Un colossale arcipelago di stelle arenato nel vuoto. Introducendola nell’equazione di campo, tuttavia, la foto risultava mossa. Le masse non tardavano ad abbandonare le loro posizioni fisse, spinte dalle reciproche attrazioni gravitazionali che le avvicinava-no le une alle altre. Per rimediare al collas-so che si scatenava davanti a lui, Einstein inserì un nuovo termine nell’equazione di campo: la costante cosmologica che inter-pretava il ruolo di una forza repulsiva su scala cosmica.

Il significato fisico di questo escamo-tage matematico restava oscuro, dato che il suo unico scopo era garantire ad hoc un universo statico. Per il resto, il modello presentava la fattura rivoluzio-naria di Einstein. Scelse l’universo piat-to di Newton, lo ritorse e lo chiuse su se stesso, trasformandolo nella superficie di un’ipersfera (una sfera a quattro dimen-sioni). L’esempio classico per visualizzare l’operazione è il materiale plastico di un palloncino gonfiato ad aria. Gli ipotetici abitanti in piano della sua superficie sa-rebbero immersi in uno spazio finito, ma senza limiti, dato che potrebbero cammi-nare senza sosta in qualunque direzione, tornando più e più volte al punto di par-tenza, senza mai incontrare una frontie-ra. Nel caso del nostro universo, lo spazio tridimensionale equivale alla plastica e si chiude su se stesso proprio come un pal-loncino. Una nave spaziale che mantenes-se la rotta finirebbe per circumnavigare l’universo e tornare al punto di partenza.

Nel 1930 Eddington dimostrò che la costante cosmologica non serviva neppure per confutare l’espansione.

Da un punto di vista matematico, l’u-niverso di Einstein era in equilibrio pre-cario, come il bastone sulla punta del naso

di un equilibrista. La più piccola pertur-bazione lo spingeva verso l’espansione o la contrazione.

Durante i decenni seguenti, man mano che si raffinavano le tecniche di osserva-zione, lo scenario astronomico crebbe in modo esponenziale. Oltre le frontiere del-la nostra galassia, l’universo continuava. Nel 1929, Hubble avvertì che, quanto più una galassia era distante da noi, più rapi-damente si allontanava. La sua velocità non deve essere interpretata come uno spostamento attraverso lo spazio, ma come una dilatazione dello spazio stes-so. Recuperando la similitudine del pal-loncino, se lo gonfiamo, un punto sulla superficie si allontanerà da quelli vicini, sebbene lo stesso non si stia spostando su tale superficie.

Allo stesso modo, ciò che osservia-mo nel firmamento è una composizione del movimento proprio dei corpi celesti sommato all’espansione dello spazio. A seguito di questa combinazione possia-mo riscontrare che alcune galassie si av-vicinano alla Via Lattea, come nel caso di Andromeda.

Il quadro delle galassie in fuga dipinto da Hubble mal si conciliava con l’immagi-ne statica di Einstein. Per sua fortuna, nel 1922, il fisico sovietico Alexander Fried-mann (1888-1925) aveva dimostrato che per un universo omogeneo e isotropo le equazioni di campo, lasciate libere, con-sentivano sia un’espansione sia una con-trazione.

Non era più necessario assegnare pro-prietà esoteriche allo spazio per evitarne il collasso: l’attrazione gravitazionale si limitava a frenarne l’espansione. «Mentre discutevo di problemi di cosmologia con Einstein – raccontava George Gamow

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nella sua autobiografia – affermò che l’in-troduzione del termine cosmologico era stato il più grande errore della sua vita». Eppure, come un film del terrore, la co-stante cosmologica sorprese gli astronomi con un ritorno vendicativo. Alla fine degli anni Novanta si costatò che, in realtà, l’e-spansione dell’universo sta accelerando, un vero rompicapo per i fisici teorici che resta ancora senza soluzione.

Il lato oscuro della luceDurante gli spensierati anni Venti, mentre diventava un assiduo praticante della sua nuova teoria della gravitazione, Einstein fu molto coinvolto nel dibattito aperto in materia di meccanica quantistica. A dif-ferenza della relatività, questa teoria fu il risultato dello sforzo collettivo di decine di fisici, pertanto non si apprezza nella sua creazione la medesima coerenza. La sua stessa natura sembrava sfidare qual-siasi immaginazione formatasi nella fisi-ca classica, fino al punto che un modo di interpretarla risultava tanto importante, se non più importante, di un risultato spe-rimentale.

Molti dei suoi artefici coniarono qual-che frase ingegnosa con la quale dare sfo-go al loro sconcerto. Per Niels Bohr: «Chi non si commuove conoscendo per la prima volta la meccanica quantistica è impossi-bile che l’abbia compresa». Da parte sua, Schrödinger sembrava vergognarsi del suo contributo: «Non mi piace e mi dolgo di averci avuto a che fare». Einstein, parti-colarmente dotato per gli aforismi, gliene dedicò abbastanza da scrivere un libro. La maggior parte non sono molto lusinghieri: «Più successo ottiene la teoria quantistica, più sembra ridicola».

Se riuscì a imporsi contro i suoi de-trattori, tra le cui file si contavano persino alcuni dei suoi pionieri, fu grazie alla sua implacabile efficacia, la sua capacità di or-ganizzare logicamente le nuove scoperte e di realizzare predizioni sperimentali con un grado di precisione inusitato. Poche teorie potevano affermare di dare conto, secondo Paul Dirac, «di gran parte della fisica e di tutta la chimica».

Se dovessimo indicare una fissazione di Einstein, un feticcio scientifico, potremmo scommettere sulla luce.

Fu la luce ad alimentare il primo slan-cio ispirato, il tentativo di raggiungere un raggio luminoso.

La conferma della sua deriva rispetto alla massa del Sole gli conferì lo status di mito vivente.

Ben lungi dal considerare il tema esau-rito, Einstein si avventurò anche nel lato più oscuro, quantistico, della luce. Possia-mo dire che questa illuminò, attraverso lo scienziato, le due grandi costruzioni fisiche del XX secolo: la relatività e la meccanica quantistica.

Tutto ebbe inizio quando Max Planck postulò che la materia emettesse e assorbis-se la radiazione elettromagnetica sotto for-ma di pacchetti discreti (quanti) di energia.

Lo scambio energetico non funzionava come la divisione di una torta che si po-teva tagliare in porzioni arbitrariamente piccole. La natura imponeva un limite a partire dal quale non era possibile trasfe-rire quantità più piccole. Einstein si spinse un passo oltre con questa ipotesi e propose che fosse la radiazione stessa che, anche quando si propagava liberamente attraver-so lo spazio, lontano dai corpi, lo facesse sotto forma di «un numero finito di quanti di energia».

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Einstein non era a suo agio con la con-tinuità del campo elettromagnetico di Ma-xwell e la natura discreta, puntiforme, dei componenti della materia, a prescindere che fossero atomi o molecole. Uniforme e graduale contro improvviso e frammenta-rio; erano tasselli che non combaciavano. Suggerì che, applicando una lente di in-grandimento quantica alle onde elettro-magnetiche, si sarebbero frammentate in un’infinità di piccole unità, come una foto-grafia che si divide in un miliardo di pixel quando l’occhio si avvicina allo schermo del computer.

Per molto tempo l’establishment del-la scienza ignorò con tatto questa ipotesi. Nella lettera rivolta nel 1913 da Nernst e Planck all’Accademia Prussiana delle Scienze per sostenere la candidatura di Einstein, si profusero in elogi, scusandosi, tuttavia, che, a volte, avesse potuto «spin-gersi troppo oltre con le sue speculazioni, come, per esempio, nella sua ipotesi del quanto di luce».

Il problema in questo caso, come per la relatività, è che molte delle sue congetture anticipavano considerevolmente le eviden-ze sperimentali.

Davanti allo scetticismo generale, Ein-stein, come era solito fare, continuò per la sua strada. Nel 1916 si dedicò a un’idea che gli ronzava in testa da quasi un decen-nio: che la parcellizzazione dell’energia si manifestasse sotto forma di particelle dotate di momento (una grandezza fisica vettoriale che si ottiene moltiplicando la massa di un corpo per la sua velocità).

I quanti di luce, pertanto, si compor-tavano come proiettili di energia, i fotoni, che potevano ad esempio scontrarsi con gli elettroni e farli deviare dalla loro tra-iettoria.

Sette anni dopo la sua ipotesi fu con-fermata in laboratorio da Arthur Comp-ton (1892-1962).

L’idillio con la meccanica quantistica ri-sultò effimero, dato che la palla di neve so-spinta da Bohr, Heisenberg e Born rotolava già a valle. Senza quasi scomporsi, Einstein passò dal favorire un atteggiamento ecces-sivamente ardito a un altro estremamente conservatore.

Parlando di buchi neri, abbiamo visto come la radiazione elettromagnetica servis-se a identificare gli atomi che la emettono. Gli spettri atomici offrivano uno strumento di analisi inestimabile ai fisici, a costo di porre loro numerose domande imbaraz-zanti. Per iniziare, da cosa derivava ogni modello? Che tipo di struttura soggiacente lo generava?

Dopo molti tentativi ed errori, il mate-matico svizzero Johann Balmer compose una formula che forniva le frequenze della luce che emetteva l’idrogeno, senza riferirsi però ad alcun modello teorico.

Nel marzo del 1912, Niels Bohr, gio-vane fisico danese, arrivò all’Università di Manchester, allontanato da Cambridge, per chiedere asilo al Schuster Labora-tory. Il suo direttore, Ernest Rutherford (1871-1937), non tardò ad apprezzare la

«Devo sembrare una specie di struzzo che nasconde sempre

la testa nella sabbia relativista per non affrontare quei malvagi

dei quanti.»Einstein, in una lettera al fisico Louis de Broglie

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sua mente aperta al paradosso che funzio-nava come un rullo compressore: pesante, lenta, ma dalla forza demolitrice.

Appassionato della moda dei quanti di Planck ed Einstein, Bohr delineò le orbite degli elettroni, decretando che girassero unicamente a determinate distanze dal nucleo. A ogni orbita corrispondeva un valore o un livello di energia. Gli elettroni potevano solo passare da un circolo all’al-tro, emettendo o assorbendo nel processo pacchetti di energia. Tali pacchetti erano i quanti della radiazione elettromagnetica: i fotoni di Einstein.

La differenza di energia fra i due livelli coinvolti in un salto corrispondeva alla carica energetica di ogni pacchetto.

Possiamo immaginare che la struttura interna di ogni elemento eriga il proprio anfiteatro di energie, con gradini ad altez-ze diverse, mentre i loro elettroni saltano da uno all’altro, assorbendo ed emettendo i fotoni che caratterizzano il suo spettro. In questo modo, i modelli che si notavano nella radiazione rispecchiavano l’architet-tura degli atomi (figure 3 e 4).

Facendo riferimento all’articolo ori-ginale di Bohr, il fisico Alan Lightman

Salto di un elettrone da un livello di energia (E1) a un altro più alto (E2), con l’assorbimento di un fotone (figura 3). Salto di un elettrone da un livello di energia (E2) a un altro più basso (E1), con l’emissione di un fotone (figura 4).

FIG. 3

FIG. 4

Salto dell’elettrone

E2

E1

Nucleo

Fotone

E2

E1

Nucleo

Fotone

Salto dell’elettrone

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sottolinea come la vaghezza quantisti-ca si infiltrasse già nel linguaggio degli scienziati:

Desta particolare attenzione che Bohr descriva gli elettroni che «passano» da un’orbita all’altra, sebbene non possa apportare alcuna immagine fisica di ciò che significa questo verbo. La sua inter-pretazione suggerisce che l’elettrone non può occupare lo spazio fra le orbite in nessun modo conosciuto. In caso con-trario irradierebbe continuamente ener-gia. In un certo modo l’elettrone può iniziare a un livello di energia, che corrisponde a un’orbita, e, improvvisa-mente, riapparire in un’altra orbita con un altro livello di energia. Ho appena impiegato il termine «riapparire». Bohr utilizza la parola «passare». Alcuni scienziati usano «saltare». In realtà, però, non abbiamo a disposizione il vocabola-rio appropriato per descrivere un feno-meno simile, dato che tutto il nostro vocabolario proviene dall’esperienza umana del mondo.

Il modello di Bohr si adattava come un guanto all’atomo più semplice, l’idrogeno. Man mano che incorporava più elettroni, tuttavia, e nonostante continuasse a getta-re luce sulla stabilità e sul comportamento chimico degli elementi, diventava eviden-te che non era alla fine del suo percorso, ma solo in una stazione di transito.

Bohr aveva messo sul tavolo un’im-magine chiara dell’atomo, ma lascia-va troppe domande senza risposta. Ad esempio, i fotoni erano emessi con una direzione e in momenti precisi.

Cosa determinava entrambi? Perché circolando per le orbite permesse l’elet-

trone non irradiava energia e lo faceva invece quando saltava?

Il modello era un ibrido tra fisica nuova e tradizionale. Werner Heisen-berg (1901-1976) arrivò alla conclusione che il suo punto di forza era proprio la sua stranezza e che ciò che lo limitava era quanto aveva mantenuto ancora di classico. Per progredire doveva diventare ancora più strano.

La sovversiva visione di Heisenberg fu forgiata come vetta di un processo febbrile. In piena estate del 1925 egli si era rifugiato nell’Isola di Heligoland, nel Mare del Nord, vittima di un grave attac-co allergico. In assenza di antistamini-ci, che non erano ancora stati scoperti, combatteva la rinite riflettendo sulla co-struzione della relatività speciale.

Einstein aveva rifiutato qualunque concetto che non corrispondesse a fe-nomeni osservabili, per intuitivi che ri-sultassero a prima vista, come nel caso della simultaneità.

Heisenberg decise di far proprio que-sto programma fino alle estreme conse-guenze. Certo, si potevano contemplare spettri atomici, ma qualcuno aveva mai sorpreso un elettrone nel pieno di un salto da un’orbita all’altra? Le traiettorie di Bohr, con un raggio e un periodo de-terminati, non erano osservabili, quindi mancavano di senso.

Il suo impeto distruttore («Investo tutte le mie energie nell’annichilire la nozione di orbita») gettò le basi sulle quali si sarebbe poggiata la nuova teo-ria: il principio di indeterminazione. Per Heisenberg i fenomeni naturali su scala atomica «si potevano comprendere solo lasciando da parte, per quanto possibile, qualunque descrizione visiva».

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Max Planck consegna a Einstein la medaglia che porta il suo nome in questa fotografia del 28 giugno 1929. Furono i primi due a ricevere l’ambito riconoscimento, creato per premiare conquiste eccezionali nel campo della fisica.

CORBIS

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Dopo aver scartato le immagini, cercò di costruire una struttura logica i cui uni-ci mattoni fossero grandezze misurabili in laboratorio.

Per analizzare la materia non restava altro che interagire con essa. La domanda che ci pone il mondo quantistico è fino a che punto questo intervento influenza il fenomeno che pretenderemmo di osser-vare, se non lo modifica l’atto stesso del-la misurazione, alterando l’informazione che avevamo creduto di estrarre.

Con una similitudine, per farci un’idea del rilievo di una statua, possiamo sparare proiettili di gomma che rimbalzino per-fettamente contro diversi punti della sua superficie, analizzando quindi in quale direzione sono stati sviati.

Per iniziare, i proiettili non sviati forniranno una buona stima del volume della statua.

Se utilizziamo palloni da spiaggia, saremo in grado solo di ottenere una rappresentazione molto approssimativa. Potremo dire, al massimo, se la figura è in piedi o seduta o se aveva un braccio steso. Man mano che si riduce la dimen-sione dei proiettili, aumenterà il numero dei dettagli. In tal caso risulterà critica la relazione fra curvatura dei pallini che lanciamo e quella dei dettagli che deside-riamo verificare.

I fotoni della luce visibile sono molto più piccoli degli oggetti che vediamo e sono morbidi, alterano appena la disposi-zione globale della materia mentre intera-giscono con essa. Non conviene utilizzare la similitudine alla lettera, perché la luce non rimbalza.

I fotoni che colpiscono un oggetto non sono gli stessi che ci giungono dallo stes-so, ma lasciamo da parte questo tipo di

disquisizioni dato che intendiamo farci solo un’idea intuitiva del processo.

Su scala atomica, i proiettili che pri-ma ci sembravano piccoli acquisiscono la stessa portata e costituzione di ciò che intendevamo studiare attraverso di essi. Se provassimo a lanciare fotoni a bas-sa energia e notevole lunghezza d’onda per localizzare un elettrone, ad esempio, staremmo lanciando palloni da spiaggia grandi come la statua.

Per aumentare la precisione non resta che aumentare l’energia del fotone e ciò comporta un indurimento dei proiettili. Proprio quando iniziamo a distinguere i primi dettagli, i pallini acquisiscono la durezza sufficiente per rompere la statua. La loro deviazione non è più frutto di un rimbalzo classico, che fornisce dati sul rilievo, ma del processo di frammenta-zione della figura. Il nostro impegno per l’osservazione altera completamente il fenomeno.

Il limite della precisione risulta ineren-te al procedimento dato che utilizziamo onde e particelle come sonde per studiare onde e particelle e le une si ripercuotono sulle altre. Per peggiorare la situazione, non è neppure chiara la frontiera che le separa, dato che una particella può comportarsi come un’onda e viceversa. A prescindere dalla natura delle entità quantistiche, non si può attribuire loro la semplice etichetta di «onda» o «parti-cella», potendo essere entrambe in base alle circostanze.

Con le leggi classiche alla mano, se abbiamo un elettrone e conosciamo in un istante dato la sua posizione e velo-cità (un vettore che segnala verso dove si sposterà in seguito), potremo disegnare la sua traiettoria. Heisenberg affermava che

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UN EINSTEIN non da meno

Le opere minori di Einstein lo sono unicamente per confronto, messe in ombra dalla relatività. Qualunque fisico avrebbe firmato i lavori seguen-ti dove, ancora una volta, la grande protagonista era la luce:

- Dirigendo un fascio luminoso contro una lamina metallica si liberano elettroni. Nel 1902 Philipp Lenard (1862-1947) scoprì che la velocità delle particelle emesse aumentava con la frequenza della luce incidente, ma non con la sua intensi-tà. Einstein spiegò il mistero, denominato «ef-fetto fotoelettrico», supponendo che la luce si componesse di quanti. La carica energetica che trasporta ogni fotone dipende dalla frequenza, ma un aumento dell’intensità del fascio di luce si traduce semplicemente in un maggior nume-ro di fotoni che raggiungono con la stessa ener-gia più elettroni.

- Gli elettroni interagiscono con i fotoni salendo e scendendo la scala energetica in modo sponta-neo. Nel 1917 Einstein contemplò la possibilità di forzarne l’emissione. Indicò due requisiti: un atomo con un elettrone eccitato (in condizione di scendere a uno scalino più basso) e un fotone la cui carica energetica coincidesse con l’altezza dello scalino. Sparando il fotone contro l’atomo, questo avrebbe risposto emettendo due fotoni con la stessa direzione ed energia. Gettò così le basi per l’emissione stimolata della luce, in ingle-se stimulated emission of radiation (SER). Si do-veva solo rafforzare l’effetto e amplificare la luce, light amplification (LA), per inventare il laser.

- Nel 1924 Einstein ricevette l’articolo di un fisico di Calcutta, Satyendra Nath Bose (1894-1974), nel quale quest’ultimo sviluppava un modo ori-ginale per descrivere statisticamente la luce (nella foto, lo scienziato nel 1925). Bose eviden-ziava il fatto che i fotoni, al contrario degli elettroni, potevano arrivare a perdere la loro identità individuale. Einstein considerò la possibilità che un gas presentasse lo stesso comportamento. Abbassando la sua temperatura fino allo zero assoluto, gli atomi si sarebbero spogliati dell’unica caratteristica capace di distinguerli, l’energia, dando luo-go a un nuovo stato della materia: i condensati di Bose-Einstein, che si comportano all’unisono come un superatomo. Nel 1995 essi presero corpo in laboratorio.

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SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK (IN ALTO); ARCHIVO RBA (IN BASSO)

Philipp Lenard

Satyendra Nath Bose

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si doveva abbandonare questa pretesa in ambito atomico:

La risposta più evidente alla questione di come sia possibile osservare l’orbita di un elettrone nel suo percorso all’interno dell’atomo è forse quella di utilizzare un microscopio con un potere di risoluzione molto elevato. Dato che il campione per questo microscopio dovrebbe essere illuminato con luce a una lunghezza d’onda estremamente corta, però, il primo quanto della luce della fonte luminosa che raggiungesse l’elettrone e penetrasse nell’occhio dell’osservatore spingerebbe l’elettrone completamente fuori dalla sua orbita [...]. Sarebbe quindi possibile osservare a livello sperimentale solo un punto della traiettoria per volta.

Se non si possono tracciare traiettorie mediante un esperimento, non si possono introdurre con rigore nella teoria. La con-tinuità di movimento che ci detta il buon senso è un miraggio, l’osservazione da una grande distanza di uno scenario impreciso per natura. Da vicino, ogni linea perde in definizione e diventa sfocata.

Il grande merito di Heisenberg non fu invocare l’incertezza, ma limitarla mate-maticamente. Rivelò come le principali grandezze osservabili siano segretamente legate: la posizione e il momento, il tempo e l’energia. Quanta più precisione si acqui-sisce misurando una di esse, più si perde nell’altra. Al limite sarebbe possibile deter-minare la posizione esatta di un elettrone, se si rinunciasse a sapere alcunché sulla sua velocità. L’atomo diventava sfocato e que-sto offuscamento sarebbe stato al centro della nuova scienza.

Sebbene molti fisici che parteggiarono per la rivoluzione quantistica lo fecero im-piegando lo stile di pensiero che avevano imparato da Einstein, i suoi successi pre-sero in contropiede chi gli era servito di ispirazione. Le traiettorie, le grandi prota-goniste della nuova teoria della gravitazio-ne, attraverso le geodetiche, erano ormai il passato. Questo fatto trasformava il prin-cipio di indeterminazione in un acerrimo nemico della relatività generale.

I fisici che seguirono le orme di Hei-senberg, come Born, sottoposero l’incer-tezza a un rigoroso trattamento statistico. È vero che, prima di misurare, non si può affermare dove si trova un elettrone o quando un atomo eccitato emetterà un fotone, ma le risposte a queste domande non sono comunque arbitrarie. Le regole della meccanica quantistica facilitano la probabilità associata a ognuna delle pos-sibilità e dettano la loro evoluzione con il passare del tempo.

Einstein espresse in privato e in pub-blico le sue titubanze in merito alla nuo-va dottrina. Si fece coinvolgere con Bohr nella polemica più esasperata e cordiale che si ricordi nella storia della fisica. Si stavano simpatici, si rispettavano, ma non potevano divergere di più nella loro interpretazione della meccanica quantisti-ca. Quando Einstein arrivava a un punto morto si arroccava su un aforisma («Dio non gioca a dadi»), un atteggiamento che, a volte, strappava Bohr dal suo affabile mutismo («Non stia sempre a dire a Dio cosa deve fare!»).

Una questione sostanziale consisteva nel decidere fino a che punto la condizione statistica del mondo quantistico era frutto della mancanza di informazione o era parte della sua natura. Il punto di vista deter-

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minista di Newton indicava che, se cono-scessimo la posizione e la velocità di tutte le particelle dell’universo, quest’ultimo si comporterebbe come un meccanismo a orologeria la cui destinazione saremmo in grado di stabilire con precisione assoluta. Eppure, nella pratica, risulta impossibile maneggiare un volume di informazioni di questa portata. Qualcosa di simile accade studiando sistemi estremamente comples-si, come il clima, dove ricorriamo a una descrizione statistica. Qui l’incertezza non nasce dal cuore dei fenomeni, ma dalla nostra incapacità di elaborarli a un livello determinista.

Per Einstein la descrizione quantisti-ca in questo senso risultava incompleta. Secondo il criterio di Bohr, non esisteva un livello più profondo della realtà dove recuperare il determinismo. Solo l’atto di misurare, la scelta di una dimensione osservabile – una condizione che influen-za la struttura dell’esperimento – scioglie l’incertezza e concretizza un aspetto: la po-sizione, ma non il momento; il tempo, ma non l’energia. In gran misura, lo sconcerto davanti al mondo quantistico si presenta cercando di riempire gli interstizi che lascia la sperimentazione su scale atomiche con il buon senso che importiamo dal mondo macroscopico.

Con Bohr, Heisenberg e Born la de-scrizione della realtà poteva risultare sconcertante, ma era finalmente diventata logicamente coerente.

L’esilio dei due mondiDato che i paradossi quantistici pren-devano d’assalto la fisica, era inevitabile che Einstein ricevesse il premio Nobel non per la teoria della relatività, ma per la sua spiegazione dell’effetto fotoelettri-

co. La sua candidatura fu respinta in ben otto occasioni. Inizialmente pochi degli incaricati di valutare il suo lavoro erano in grado di farlo.

Intervenne inoltre l’antipatia personale di alcuni consulenti del comitato, come il Nobel per la fisica del 1905, Philipp Lenard, che considerava la teoria della relatività «una frode giudaica», sebbene nelle sue relazioni mascherasse i pregiudi-zi razziali dietro ad argomentazioni meno grossolane.

Inoltre, gran parte dei fisici che gui-davano allora l’Accademia Reale Svedese delle Scienze o erano suoi membri o erano scienziati sperimentali, poco affezionati alla sofisticazione speculativa.

Einstein non fu l’unico teorico che l’Accademia mantenne per anni in qua-rantena prima di assicurarsi di non essere in errore. Procedette con una cautela simi-le anche nei casi di Planck e Born.

Dopo l’apoteosi dell’eclissi del 1919, era più in dubbio il prestigio del Nobel che quello di Einstein. Alla fine gli svedesi fecero sfoggio della loro proverbiale di-plomazia e concessero il premio, ma non per la relatività. Einstein sarebbe stato ri-conosciuto per aver scoperto una legge, quella dell’effetto fotoelettrico, non per avere abbozzato altre teorie.

Il segretario dell’Accademia Reale redasse quasi una clausola di esonero di responsabilità, precisando che fra i suoi

«Una fiducia insensata nell’autorità è il peggior nemico della verità.»

Einstein, in una lettera a Jost Winteler

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meriti non era stata contemplata la pos-sibilità che la relatività fosse confermata.

Quando gli annunciarono la vittoria, Einstein aveva già programmato un viag-gio in Giappone e non si prese il disturbo di cancellarlo. Non mise piede a Stoccol-ma fino al luglio dell’anno successivo.

Mentre Planck, Born o Heisenberg fondavano la meccanica quantistica, molti dei loro compatrioti si affannava-no in altri esperimenti, in questo caso politici e su grande scala.

Potremmo dedicare un capitolo in-tero all’ostracismo sofferto da Einstein nell’atmosfera nazista che tolse lenta-mente l’aria alla Repubblica di Weimar fino a soffocarla.

Ebreo, acerrimo oppositore del na-zionalismo tedesco, aveva rinunciato alla nazionalità per evitare il servizio militare (sebbene gli fosse stato di nuovo imposto prima di entrare all’Accademia Prussiana delle Scienze), era un pacifista dichiara-to, un pubblico oppositore della Prima Guerra Mondiale e un attivo difensore dell’internazionalismo: la realtà lascia scarso margine all’immaginazione.

La popolarità, inoltre, aveva trasfor-mato Einstein in un facile bersaglio. La campagna di denigrazione adottò tutte le forme possibili: articoli sulla stampa,

libri, volantini, discorsi, conferenze... Si costituì persino una società per cana-lizzare a livello istituzionale l’avversio-ne che suscitava, l’Arbeitsgemeinschaft deutscher Naturforscher zur Erhaltung reiner Wissenschaft (Associazione degli scienziati tedeschi per la conservazione della scienza pura).

Dietrich Eckhart, uno dei padri spiri-tuali del nazionalsocialismo, aveva preso posizione apertamente per l’assassinio di Einstein.

Quest’ultimo cercò di valutare la si-tuazione senza perdere la calma. «Il problema si riduce al fatto che i giornali riportano costantemente il mio nome, agitando così le folle contro di me – scris-se a Max Planck. – Non ho altro rimedio che portare pazienza e andarmene all’e-stero. Le chiedo solo una cosa: prenda questo piccolo incidente come me, con umorismo».

La tormenta si placò, ma la minaccia restò latente.

«Sotto le ceneri», avvertiva Max Born, sopravviveva «la brace dell’animosità contro di lui, fino a quando non prese apertamente fuoco nel 1933». Sulle vali-gie di Einstein si accumularono adesivi da ogni angolo del pianeta: Marsiglia, Colombo, Singapore, Hong Kong, Shan-gai, Kobe, Tokio, Palestina, Barcellona, Buenos Aires, Rio de Janeiro, Montevi-deo, L’Havana, Stati Uniti...

I suoi viaggi ricordano la strategia delle coppie che decidono di combattere il logorio della loro relazione con assenze sempre più prolungate.

Erano anche la dimostrazione del suo impegno verso la repubblica e la sua di-sponibilità a interpretare il ruolo di am-basciatore della riconciliazione davanti ai

«Non ho altro rimedio che portare pazienza e andarmene all’estero. Le chiedo solo una cosa: prenda questo piccolo incidente come me, con umorismo»

Einstein, in una lettera a Max Planck

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vincitori, essendo uno dei pochi tedeschi che non si era macchiato dell’ardore bel-lico nel 1914.

In parte, forse, era anche un allena-mento per prepararsi all’esilio.

Einstein aveva valutato senza sosta le ragioni per restare in Germania o partire, dibattendosi in una dualità tanto schizo-frenica come quella che confondeva onde e particelle. Nell’estate del 1932 prese co-scienza che il Paese era alle porte di una «imminente rivoluzione nazionalsociali-sta» e gli eventi dell’autunno e dell’inver-no, che culminarono con l’insediamento di Hitler alla Cancelleria di Stato, non poterono che confermare i suoi timori.

Abbandonando la sua residenza di campagna a Caputh, alla periferia di Ber-lino, raccomandò a Elsa di dirle addio con un ultimo sguardo: «Non la vedrai mai più».

Per allora il suo prestigio e la vita no-made lo avevano trasformato in un citta-dino del mondo. Il 10 dicembre 1932, la nave a vapore Oakland sciolse gli ormeggi a Bremerhaven e partì alla volta degli Stati Uniti, portandolo lontano dalla Prussia e dal nazionalismo tedesco. Il mese succes-sivo il Reichstag era in fiamme.

Un anticipo dei focolai che avrebbero favorito il divampare dell’incredibile de-lirio nazionalsocialista. j

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L’esilio interiore

Man mano che si spegneva la sua stella creativa, si accresceva la dimensione pubblica di Einstein. Divenne una figura patriarcale, critica e rispettata, ma dalla quale le nuove generazioni di fisici si emancipavano. Immune

allo scoraggiamento, si lanciò da solo alla conquista di una teoria non quantistica capace di riconciliare

elettromagnetismo e gravitazione.

Nel dicembre del 1932 Einstein abbandonò definitivamente la Germania e partì per gli Stati Uniti. Nel 1933 fece il suo ingresso all’Istituto per gli Studi Avanzati di Princeton

(a sinistra), centro academico al quale resterà legato fino alla sua morte, nel 1955.

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hissà se, in gioventù, fantasticando sul suo futuro, Einstein aveva sognato la gloria della scienza? È improbabi-

le, comunque, che si vedesse trasformato in un punto di riferimento morale, le cui opinioni sulla pace, Dio o la libertà sa-rebbero andate ad arricchire le collezioni di frasi celebri. Avrebbe dovuto scorgere in una sfera di cristallo il dramma del XX secolo. Mentre lui si affannava a promuo-vere il fisico, le due guerre mondiali e il nazismo lo imposero come pacifista, sio-nista e rifugiato. Inaugurò la permanenza negli Stati Uniti come mirabile scienzia-to e la concluse venerato dalle masse. La simpatia e l’affetto che suscitava ovunque erano in parte dovuti alla sua modestia e all’immagine di saggio fra le nuvole, ma soprattutto al fatto che seppe sfruttare la propria fama per schierarsi a favore di cause considerate dai più tanto giuste quanto perse. Non mancò chi pensava che potesse risparmiarsi la sua coscienza civi-ca. L’amico Max von Laue gli rinfacciava: «Ma perché dovevi diventare famoso an-che in politica? Non voglio assolutamente criticare le tue idee, solo mi sembra che un erudito dovrebbe restare al margine. La lotta politica esige altri metodi e nature rispetto alla ricerca scientifica».

Davanti alla guerra e alle tempeste ideologiche che colpirono duramente l’Europa, Einstein dovette pensare che confidare nei metodi e nella natura dei politici equivalesse a un suicidio col-lettivo. In Germania la sua immagine pubblica gli attirò l’odio di molti com-patrioti e il suo appello a non collaborare alla caccia alle streghe portata avanti dal senatore Joseph McCarthy, negli anni

Cinquanta, fece alzare più di una voce di dissenso negli Stati Uniti. Se non diven-ne famoso come buon tedesco né come americano esemplare, cercò almeno di esprimersi con sincerità e responsabili-tà, pur correndo il rischio di scontentare tutti.

Il 16 ottobre 1933 attraccò con Elsa nel porto di New York, di ritorno dopo un breve soggiorno in Europa. Superata la quarantena, dovette sottoporsi un’ul-tima volta al processo di acclimatamento a un nuovo centro accademico, l’Istitu-to per gli Studi Avanzati di Princeton, al quale resterà legato per il resto della vita. Elsa rimase meravigliata dai meriti architettonici dell’edificio: «Il luogo è incantevole, di ispirazione interamente inglese, uno stile Oxford elevato all’en-nesima potenza». Alcuni studiosi, tut-tavia, lo vedevano come un “cimitero” intellettuale, una torre d’avorio dove la mancanza di contatto con gli scienziati sperimentali e la dispensa dagli obblighi di docenza finivano per soffocare invece che stimolare la creatività.

Più la sua dimensione pubblica cre-sceva, più i fisici perdevano interesse nella sua opera. Abraham Pais ricorda che, vedendolo entrare a una conferenza sulla fisica delle particelle, restò inter-detto, come sarebbe accaduto a Einstein se, a una delle sue lezioni a Berna, avesse scorto Newton fra il pubblico che cercava un posto libero.

Nel suo sforzo lungo decenni per ottenere l’unificazione fra gravità ed elettromagnetismo, Einstein riuscì a dare un’interpretazione geometrica alle equazioni di Maxwell, ignorando però le interazioni forti e deboli che reggono i destini del nucleo atomico. Inoltre, il

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suo certosino lavoro teorico non riusci-va neppure a gettare luce sull’eccentrico comportamento quantistico: l’incertezza di Heisenberg non si manifestava nelle sue equazioni di campo.

Alcune tessere importanti per il puz-zle che intendeva completare non erano ancora state scoperte, sebbene si debbano ricercare le motivazioni del suo fallimento in gran parte nel suo disinteresse verso la fisica nucleare. Una materia che finì per richiamare la sua attenzione in modo tan-to tragico quanto inaspettato.

A metà luglio del 1939, due fisici un-gheresi, Leo Szilard (1898-1964) ed Eu-gene Wigner (1902-1995), si recarono in visita a Einstein che trascorreva i mesi più caldi a Nassau Point, poco distante dalla baia di Peconic. Szilard era un suo vecchio collaboratore, con il quale aveva lavorato per anni cercando di sviluppare un modello commerciale di frigorifero. La conversazione, tuttavia, prese altre strade. Si concentrò sulle conseguenze del bombardamento di uno degli isotopi meno abbondanti dell’uranio (235U) con dei neutroni. Una fissione tipica origina una coppia di elementi più leggeri, quali kripton e bario e la liberazione di due o tre neutroni che si possono utilizzare per continuare il bombardamento. Così fa-cendo, i proiettili atomici si moltiplicano

raggiungendo ogni obiettivo, trascinando i nuclei di uranio e scatenando una rea-zione a catena capace di liberare enormi quantità di energia. Quest’ultima poteva essere destinata a fini molto diversi, ma Szilard e Wigner sospettavano che Hit-ler avrebbe saputo approfittare solo dei peggiori. Come scienziati, mostravano scarsa fiducia nelle coincidenze: uno dei principali giacimenti di uranio si trovava in Cecoslovacchia, paese invaso in marzo da un Terzo Reich in espansione.

Molti ritengono che l’espressione E=mc2 sia stata il seme che fece germo-gliare l’idea della bomba atomica. Ascol-tando le spiegazioni di Szilard, tuttavia, Einstein esclamò: «A questo non avevo proprio pensato!». Una cosa era scoprire nella materia una riserva estremamente concentrata di energia, un’altra, molto diversa, il meccanismo per liberarla. La conversione fra massa ed energia si pro-duce senza sosta in natura e, nonostante il ruolo che svolge nella fissione nucleare, questa non costituisce la sua conseguenza più immediata.

Non deve stupire che, quando Einstein stabilì la sua equazione nel 1905, la pri-ma cosa che gli venne in mente non fu una reazione a catena. Mancavano ancora ventisette anni prima che James Chadwi-ck supponesse l’esistenza dei neutroni. Szilard, inoltre, riassumendo le fonti che ispirarono l’idea, le faceva risalire a un ro-manzo di H.G. Wells, La liberazione del mondo, nel quale il chimico Holsten con-cepiva una bomba atomica che scoppiava in modo continuo.

Il risultato dell’incontro di Nassau Point fu una lettera indirizzata al presi-dente Roosevelt, datata 2 agosto, nella quale Einstein consigliava che gli statu-

«Ho poca influenza, mi considerano una specie di fossile che, con gli anni, è diventato sordo e cieco.»

Einstein, in una lettera a Max Born

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nitensi si rifornissero di uranio e inve-stissero con convinzione nella ricerca di applicazioni della fissione nucleare. Dopo due anni di titubanza, Roosevelt avviò il Progetto Manhattan nel dicembre 1941, un giorno prima che gli aerei giapponesi bombardassero Pearl Harbour.

Dopo aver fornito una dettagliata consulenza sul metodo per setacciare gli isotopi di uranio, Einstein abbandonò la scena del programma nucleare. La sua natura anticonformista e le ventila-te tendenze socialiste suscitavano scarse simpatie fra i politici e mettevano ancora più in guardia i militari. Considerato un rischio per la sicurezza, fu tenuto lontano dal Progetto Manhattan. La sua relazione con la bomba atomica non riprese fino a dopo Hiroshima.

Vide allora le sue raccomandazioni a Roosevelt sotto una luce diversa: «Se avessi saputo che i tedeschi non sarebbe-ro riusciti a fabbricare la bomba atomica, non avrei mosso neppure un mignolo». A Szilard commentò pentito: «È impossibile indovinare tutte le conseguenze delle no-stre azioni, per questo il saggio si limita in modo rigoroso alla contemplazione». Ora che il danno era fatto, però, egli non cercò comunque rifugio nella vita contempla-

ESTRATTO DELLA LETTERA DI EINSTEIN A ROOSEVELT

Signore,

alcune ricerche svolte recentemente da E. Fermi e L. Szilard, a me giunte sotto forma di manoscritto, mi inducono a ritenere che l’uranio possa essere trasformato nell’imme-diato futuro in una nuova e importante fonte di energia. […] Potrebbe essere fattibile provocare una reazione nucleare a catena in una grande massa di uranio, mediante la quale si genererebbero enormi quantità di energia e grandi quantità di nuovi elementi simili al radio [...].Questo nuovo fenomeno condurrebbe anche alla fabbricazione di bombe ed è possibi-le pensare – anche se qui la certezza è minore – che in questo modo si possa creare una nuova tipologia di bombe, estremamente potenti. Una sola bomba di questo tipo, trasportata su un’imbarcazione e fatta scoppiare in un porto, con ogni probabilità po-trebbe distruggere il porto intero e una parte del territorio circostante [...].Considerata la situazione, forse potrebbe valutare conveniente stabilire dei contatti permanenti fra l’Amministrazione e il gruppo di fisici che lavora negli Stati Uniti nel campo delle reazioni a catena [...]. Ho saputo, peraltro, che la Germania ha sospeso la vendita di uranio delle miniere ce-coslovacche che ha conquistato. L’adozione di una decisione tanto precipitosa può intendersi alla luce del fatto che il figlio del sottosegretario di Stato tedesco, Von Weizsäcker, è iscritto all’Istituto Kaiser Willhelm, a Berlino, dove si sta ora svolgendo una parte delle ricerche statunitensi sull’uranio [...].

«Ignoro con che tipo di armi si combatterà la Terza Guerra Mondiale, ma nella Quarta si useranno bastoni e pietre.»

Da un'intervista concessa nel 1949

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tiva. Sin da bambino il nazionalismo gli aveva provocato una repulsione viscerale. L’arsenale atomico, al servizio del patriot-tismo miope e interessato di ogni singolo Stato, garantiva, a suo giudizio, lo scoppio di una guerra così devastante che l’unico vantaggio sarebbe stato il fatto di non po-tersi ripetere. Approfittò di qualsiasi pos-sibilità a sua disposizione per promuovere il disarmo, il pacifismo e la creazione di una politica sovranazionale che gestisse e custodisse l’energia nucleare. Il suo im-pegno per la riunificazione si traduceva dalla fisica alla politica internazionale. Se le forze principali della natura potevano convivere fraternamente, forse anche le nazioni potevano essere capaci di cedere la loro sovranità a un organismo che sa-pesse integrarle.

ConclusioneProprio come la sua visione fisica appar-teneva sempre di più al passato, anche ciò che restava del suo mondo svaniva a poco a poco. Elsa non riuscì a festeggiare il Natale del 1936, stroncata da un attacco di cuore. Mileva morì nell’estate del 1948 per un’emorragia cerebrale. Sua sorella Maja lo lasciò il 25 giugno 1951 per una polmonite. Michele Besso scomparve il 15 marzo 1955 colpito da una trombosi. Sebbene a Einstein piacesse coltivare una certa retorica del distacco, mille gesti lo smentiscono. Pur senza considerare la sua perseveranza nell’aiutare i rifugiati del nazismo, basta ricordare il suo dolore vedendo come si disintegrava il circolo dei suoi affetti più intimi. Poco propenso al sentimentalismo, cercò di trovare forza nel lavoro. Quando non riusciva a concentrar-si, si lasciava dominare da un umore teso e ombroso. In un’occasione il caro amico

Paul Ehrenfest gli aveva rimproverato che non avesse bisogno di nessuno; Einstein gli rispose indignato: «Ho bisogno della tua amicizia tanto se non più di quanto tu abbia bisogno della mia».

Cosciente della progressiva perdita del-le sue facoltà, fino all’ultimo lavorò alla «geometrizzazione» della fisica. La scienza, la sua prima e più duratura passione, man-teneva intatto il suo fascino. Ogni mattina entrava nel suo ufficio di Princeton con in tasca un pugno di equazioni alle quali aveva pensato durante la notte.

La sera del 13 aprile 1955 non si sentì bene. Poco dopo essersi svegliato da un sonnellino pomeridiano, fu colpito da un collasso in bagno. Un aneurisma dell’a-orta, all’altezza dell’addome, che pendeva come una spada di Damocle sulla sua sa-lute da ormai sette anni, si era rotto, cau-sando un’emorragia interna. Nonostante i forti dolori, si oppose all’operazione: «Voglio andarmene quando lo decido io. Mi sembra di cattivo gusto prolungare la vita in modo artificiale. Ho già fatto la mia parte. È arrivato il momento che esca di scena e lo farò con eleganza». Il venerdì successivo riuscirono a convincerlo a far-si ricoverare all’Ospedale di Princeton. Si andò spegnendo, alternando momenti di veglia ad altri di sonno dovuti ai sedativi.

Il figlio maggiore, che insegnava idrau-lica a Berkeley, attraversò il Paese per ri-unirsi al padre. Il loro rapporto aveva vissuto alti e bassi, ma, dopo l’arrivo di Hans Albert negli Stati Uniti, aveva rag-giunto un punto di equilibrio ragionevo-le. La ferita aperta durante il divorzio con Mileva si era chiusa, anche se la cicatrice non sarebbe mai scomparsa del tutto. Ein-stein non riuscì però a dire addio al figlio minore, Eduard. L’aveva dato per perso

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nel labirinto della schizofrenia da quando gli fu diagnosticata la malattia a vent’anni. Non smise mai di preoccuparsi della sua situazione, attraverso famigliari o amici rimasti in Svizzera, dove viveva internato in un sanatorio, ma negli ultimi anni non si sentì in grado di riprendere i contatti.

Refrattario a qualunque solennità o sfarzo, soprattutto se funebre, Einstein non volle esequie pubbliche. Chiese di essere cremato e che le ceneri fossero di-sperse al vento, in un luogo sconosciuto. Appena prima di morire riuscì a burlarsi ancora una volta degli altisonanti gesti che tanto odiava. Le sue ultime parole le sus-surrò in tedesco all’orecchio di una scon-certata infermiera del turno di notte che non capì neppure una sillaba e non poté quindi tramandarle ai posteri.

Albert Einstein morì la mattina del 18 aprile 1955. Accanto a lui restavano, in-complete, le equazioni che aveva scaraboc-chiato a matita prima di lasciarsi vincere dal sonno.

La scienza di Einstein dopo EinsteinI postulati della relatività speciale si sono integrati con naturalezza in tutti gli stra-ti della fisica. Riuscirono a essere accolti anche dalla meccanica quantistica, con la

quale forgiarono un’alleanza che condusse alla predizione di nuovi fenomeni, come l’esistenza dei positroni (gemelli degli elet-troni in tutto salvo che nella carica, positi-va), che non tardarono a essere identificati nella radiazione cosmica. Come abbiamo visto, la fisica nucleare sfruttò sin da subito la relazione E=m c 2. Una precoce verifi-ca, indiretta, dell’equivalenza tra massa ed energia si svolse nel 1932 con lo studio della disintegrazione dei nuclei di litio, bombardati da protoni. Eppure la minima deviazione avrebbe provocato implicazio-ni fisiche sostanziali. Nel 2005 l’equazio-ne fu sottoposta a un rigoroso scrutinio. In una delle prove si spararono neutroni contro l’isotopo più comune dello zol-fo ( 32 S). Il risultato fu un altro isotopo stabile ( 33 S), in uno stato di eccitazione, che, recuperando l’equilibrio, emette un fotone ad alta energia (γ). La reazione si può rappresentare come: n + 32 S  → 33 S + γ. Facendo un bilancio delle masse coinvolte prima e dopo il processo con l’energia del fotone, si verificò la relazione E = m c 2 con una precisione dello 0,00004%.

Le dilatazioni temporali, gli incrementi di massa e le contrazioni spaziali fanno parte della vita quotidiana degli accele-ratori di particelle. Nel tentativo di rag-giungere la velocità della luce consumano

«Per chi è stato vinto dall’età, la morte arriverà come una benedizione. È qualcosa che sento con intensità, adesso che io stesso sono invecchiato e ho finito per considerare la morte come un vecchio debito che, alla fine, bisogna pagare.»

Einstein a Gerhard Fankhauser, professore di Biologia a Princeton

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In alto a sinistra: Einstein il giorno del suo settantesimo compleanno circondato da un gruppo di piccoli sfollati provenienti da un centro di accoglienza.In alto a destra: Copertina del Time del numero di dicembre 1999. La rivista nominò Einstein «il più grande pensatore del XX secolo».Sotto: Un giornale annuncia la morte di Einstein.

ALBUM (SOPRA A SINISTRA); TIME (SOPRA A DESTRA); CORBIS (SOTTO)

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sufficiente elettricità per alimentare un’in-tera città. Le loro collisioni liberano enor-mi quantità di energia che si trasformano in particelle di massa, tanto instabili da sopravvivere solo una milionesima parte di secondo.

Finora la relatività generale detiene la versione ufficiale della gravità, ma non può restare per sempre al margine delle sue interazioni sorelle (elettromagneti-ca, deboli e forti), che convivono sotto l’ombrello delle teorie quantistiche dei campi, un matrimonio matematico par-ticolarmente felice tra relatività speciale e meccanica quantistica. L’unificazione delle quattro forze all’interno di uno stesso qua-dro concettuale, conosciuto con il nome di «teoria del tutto» o «teoria finale», co-stituisce una delle principali ossessioni dei fisici moderni. In questo contesto, le diver-

se teorie delle stringhe si profilano come uno degli sforzi più promettenti. Intessono un universo con dimensioni addizionali e, dalla loro prospettiva, se effettivamente risultasse fattibile, la nostra visione della relatività sicuramente sperimenterebbe dei cambiamenti.

La relatività regna nel dominio delle stelle e delle galassie e la meccanica quan-tistica fra atomi e quark. Si può presume-re che il punto dove si sovrappongono le loro giurisdizioni, dispiegando un rosa-rio di fenomeni esotici, corrisponda alla cosiddetta «lunghezza di Planck», circa 10−35 m. Si tratta di una distanza tanto piccola da risultare quasi inconcepibile, ben oltre i numeri. Equivale al salto di scala fra il raggio dell’universo osserva-bile e il diametro di un’elica di DNA. Per osservare da vicino cosa accade a queste

NELL'ONDA

Nel 1918, per distrarsi dai terribili dolori allo stomaco che lo inchiodavano a letto, Einstein si intrattenne con un’idea che avevano già soppesato Lorentz e Poincaré: l’esistenza di onde gravitazionali. Una perturbazione in un punto di un campo elettro-magnetico si comunica al resto sotto forma di onde elettromagnetiche. Sarebbe suc-cesso lo stesso con la deformazione geometrica di una regione dello spazio-tempo (un cambiamento nella sua distribuzione delle masse)? Le onde gravitazionali, se esistessero, interagirebbero appena con la materia. A differenza della luce, che stabi-lisce il suo dialogo con le cariche elettriche, queste influenzerebbero le masse. Con le parole del fisico svizzero Daniel Sigg, i suoi effetti osservabili non sono piccoli «perché l’energia che si irradia sia piccola – al contrario, è enorme – ma perché lo spazio-tempo è un ambiente rigido». La radiazione elettromagnetica si propaga attra-verso lo spazio, ma, nel caso delle onde gravitazionali, sarebbe lo stesso tessuto dello spazio-tempo a vibrare. Si pensa che la diminuzione progressiva del periodo di rotazione di due stelle di neutroni che girano una attorno all’altra nella costellazione dell’Aquila potrebbe costituire una prova indiretta della sua esistenza. Se la torsione che impongono al tessuto spazio-temporale si propaga sotto forma di onde gravita-zionali, ancora non è possibile misurarlo. Tuttavia, la sua emissione provocherebbe una perdita di energia che le avvicinerebbe, precipitandole in una spirale. L’evoluzione del sistema che predice la teoria, basandosi sull’ipotesi ondulatoria, concorda abba-stanza bene con le osservazioni degli astronomi.

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latitudini sono necessarie energie nell’or-dine di 1016 TeV (circa 500 kWh). Nel grande collisore di adroni del CERN, a Ginevra, il principale acceleratore di particelle al mondo, si mettono in gioco energie fino a 7 TeV. È possibile che nella scala di Planck lo spazio-tempo perda la sua continuità, si rompa e la sua natura quantistica contempli violazioni dei pre-cetti relativisti. Avvicinandoci a questo strettissimo margine delle distanze, le particelle potrebbero presentare la loro struttura interna di stringhe e la gravità guardarsi finalmente nello specchio del resto delle interazioni. Oggi si presenta come un territorio inaccessibile con la nostra competenza tecnologica e, presu-mibilmente, continuerà a esserlo per de-cenni. Ben lungi dal rassegnarsi all’attesa, i fisici scandagliano lo spazio conosciuto a caccia di indizi o resti dell’architettura dei livelli più profondi.

Fra le energie accessibili, la relatività ha superato tutti gli esami ai quali è stata sot-toposta. Uno dei principali problemi per mettere a confronto le ipotesi di Einstein è il grado di precisione con il quale cor-reggono quelle newtoniane. A sua volta, perfezionare la relatività comporta una sfi-da che spinge gli scienziati al limite dell’a-cutezza sperimentale. Per molto tempo si ritenne che la relatività generale fosse il paradiso dei fisici teorici, ma il purgatorio di quelli sperimentali. La situazione si è ribaltata negli ultimi decenni.

Nel 1962, Irwin Shapiro concepì ciò che fu poi denominata «la quarta verifica della relatività generale» e che andò ad aggiungersi alle tre classiche ideate da Einstein. Sfrutta il fatto che un’onda elet-tromagnetica non subisce una deviazione solo in prossimità di un corpo dalla massa

ingente, come una stella. La sua traiettoria è disturbata in uno spazio quadridimen-sionale che comprende anche la coordina-ta temporale e l’onda accumula un ritardo lungo il suo percorso. Questo ritardo non obbedisce al fatto che la traiettoria curva sia più lunga di quella retta, si tratta di un effetto puramente relativista. Per identifi-carlo, Shapiro pensò a un esperimento che richiedeva la presenza di una congiunzio-ne superiore di Venere o Mercurio: i pia-neti, visti dalla Terra, dovevano allinearsi con il Sole, posizionandosi dietro la stella. Appena prima di entrare o uscire dalla congiunzione si sarebbero inviate onde radio che si sarebbero riflesse sul pia-neta. Questo viaggio di andata e ritorno avrebbe richiesto più tempo rispetto alla ripetizione dell’esperienza senza l’interpo-sizione del Sole. Nonostante i desideri di Shapiro («Sarebbe stato bello dimostrare che Einstein si era sbagliato»), l’effetto non fece che confermare le aspettative relativiste.

Il 20 aprile 2004 la NASA lanciò in or-bita il satellite Gravity Probe B. Il suo sco-po era misurare le distorsioni introdotte nello spazio-tempo dalla presenza della massa terrestre e l’effetto di trascinamen-to che aggiunge la sua rotazione. Nello spazio di Newton, una sfera che girasse su se stessa sospesa a 600 km dalla su-perficie terrestre manterrebbe il suo asse di rivoluzione diretto sempre nella stessa direzione. Il tessuto tetradimensionale di Einstein, invece, trasmetterebbe alla sfera le perturbazioni della Terra e il suo asse devierebbe poco a poco. La sonda Gravity Probe B analizzò per un anno la progres-sione dell’asse di rivoluzione di quattro sfere di quarzo quasi perfette. All’inizio dell’esperimento si allinearono nella di-

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rezione definita da un telescopio puntato su una stella della costellazione di Pegaso. Gli strumenti della sonda erano in grado di individuare spostamenti nell’angolo di rivoluzione equivalenti allo spessore di un capello visto da una distanza di 32 km. L’analisi definitiva dei dati fu pubblicata nel maggio del 2011, quando il direttore del progetto, Francis Everitt, dell’Uni-versità di Stanford, annunciò: «Abbiamo concluso un fondamentale esperimento che mette alla prova l’universo di Ein-stein. Ed Einstein è sopravvissuto».

Un secolo dopo la sua scoperta, le sottigliezze della relatività sono penetra-te nella nostra quotidianità. I dispositivi GPS determinano la posizione confron-

tando i dati che ricevono da un pugno di satelliti. Affinché le informazioni siano precise, gli orologi in orbita e quelli ter-restri devono essere sincronizzati. Se de-sideriamo affinare la posizione sotto i 30 m, dobbiamo prendere in considerazione due correzioni relativiste. Dobbiamo at-tribuire un ritardo alla relatività speciale (de 7 μs), causato dalla velocità del satel-lite, e un anticipo a quella generale (de 45 μs), dovuto al fatto che il tempo trascorre più in fretta man mano che diminuisce l’intensità di un campo gravitazionale (effetto inverso al ritardo che provoca lo spostamento verso il rosso). La gravità è più debole a 20.000 km di altezza, dove sono i satelliti, rispetto che sulla super-

642 km

E�etto della rotazione

E�etto della massa

Stella di riferimento IM Pegasi (HR 8703)

Il satellite Gravity Probe B, lanciato nel 2004, aveva la missione di dimostrare la distorsione che sia la massa sia la rotazione del nostro pianeta esercitano sullo spazio-tempo. Il satellite era dotato di quattro giroscopi puntati verso la stella IM Pegasi come punto di riferimento. I cambiamenti nella direzione di rivoluzione sperimentati dimostrarono tale distorsione.

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ficie. Questi sfasamenti sono cancellati nei nuovi sistemi di posizionamento che incorporano alla rete le stazioni terrestri.

Il maggior passo avanti per la relatività finora compiuto si ebbe con l’annuncio, nel settembre 2011, di un presunto su-peramento del limite superiore della ve-locità della luce. I neutrini generati in un acceleratore del CERN, vicino a Ginevra, attraversarono la crosta terrestre fino ai rilevatori interrati sotto il picco più alto degli Appennini, il Gran Sasso, a 100 km da Roma. Dopo aver completato i loro calcoli, i responsabili dell’esperimento arrivarono alla conclusione che si erano presentati 60 ns prima del previsto. La notizia fu annunciata con molta cautela e ricevuta con ancora maggior scetticismo, soprattutto dopo l’individuazione di un collegamento difettoso nel meccanismo di sincronizzazione fra gli orologi del CERN e del Gran Sasso. Nel giugno del 2012 venne confermato che l’anticipazione delle particelle era stata solo un miraggio.Anche qualora i neutrini avessero aperto una breccia attraverso la quale osservare la nuova fisica, gli effetti relativisti non sareb-

bero svaniti. Altri esperimenti del CERN hanno confermato la struttura fondamen-tale della teoria con un grado di precisione che sarebbe espresso in millimetri se misu-rassimo la distanza fra la Terra e la Luna. L’affascinante mondo della relatività si è installato nel cuore della scienza e possia-mo affermare che alcuni dei suoi tratti vi resteranno per sempre. Così come la fisica continuerà a essere newtoniana per le velo-cità più basse confrontate con quella della luce e in presenza di campi gravitazionali poco intensi, la fisica di Einstein ha con-quistato un proprio dominio, anche se non riuscisse a comprendere l’intero territorio.

La scienza funziona come una leviga-trice che, di volta in volta, regala descri-zioni sempre più precise della natura. Da lontano, la fisica si riconosce nelle idee di Newton; più da vicino si distinguono i tratti quantistici e relativisti che le in-globano, rivelando a loro volta dettagli inattesi. Chi può dire quale volto finirà per mostrare in futuro. Senza dubbio Einstein, alla luce delle nuove scoperte, distinguerebbe le sue vecchie ossessioni: tempo, spazio e gravità. j

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L E T T U R E C O N S I G L I AT E

Bergia, S., Einstein e la relatività, Bari, Laterza, 1978.Bernstein, J., L’uomo senza frontiere. Vita e scoperte di Albert Einstein, Milano, Il Saggiatore,

2000.Einstein, A., Corrispondenza con Michele Besso (1903-1950), Guida, Napoli, 1995.Einstein, A., Pensieri di un uomo curioso, Milano, Mondadori, 1997.Ferris, T., L’avventura dell’universo, Milano, Editrice Leonardo, 1991.Gamow, G., Biografia della fisica, Milano, Mondadori, 1998.Gribbin, J., In search of Schrödinger’s cat, Toronto, Bantam Books, 1984.Gribbin, J., L’avventura della Scienza Moderna, Milano, Longanesi, 2003.Hawking, S., Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, BUR-Rizzoli, Milano, 2000.Heidegger, M., Umanesimo e scienza nell’era atomica, Brescia, La Scuola, 1984.Helge Kragh, Cosmology and Controversy, Princeton University Press, 1999.Helge Kragh, Quantum Generations: a history of physics in the twentieth century, Princeton

University Press, 1999.Isaacson, W., Einstein. La sua vita, il suo universo, Milano, Mondadori, 2010.Kaku, M., Il cosmo di Einstein, Torino, Codice Edizioni, 2005.Landau, L. e Rumer, Che cos’è la relatività?, Roma, Editori Riuniti, 1983.Pais, A., Sottile è il signore... La scienza e la vita di Albert Einstein, Torino, Bollati Boringhieri,

2012.Penrose, R. e AA. VV., Equilibrio perfetto: le grandi equazioni della scienza moderna, a cura e

prefazione di Graham Farmelo, Milano, Il Saggiatore, 2005.Pyenson, L., The Young Einstein: the advent of relativity, Institute of Physics Publishing, 1985.Rosenblum, B., Kuttner, S., Quantum enigma, Oxford University Press, 2008.Sparzani, A., Relatività, quante storie, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

Albert Einstein suona il violino a bordo della nave S.S. Belgenland nel 1931 durante un viaggio negli Stati Uniti, quando era ormai un fisico famoso a livello mondiale.

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I N D I C E A N A L I T I C O

Accademia Prussiana delle Scienze 19, 77, 116, 124Adler, Friedrich 45, 77Ampère, André Marie 26, 28, 30, 34

Balmer, Johann Jakob 116Berna, Ufficio Brevetti di 14, 18, 38, 45, 73, 76, 77, 79, 85 Università di 76, 78Bernstein, Aaron 25Besso, Michele Angelo 40, 44, 47, 76, 80, 131Bohr, Niels 16, 101, 115, 116, 117, 118, 122, 123 Born, Max 16, 57, 99, 116, 122, 123, 124, 129Bose, Satyendra Nath 121browniano, moto 18, 45, 46Brown, Robert 46Buco nero 111, 112

campo elettromagnetico 25, 32, 35, 36, 116 gravitazionale 19, 81, 83, 96, 97, 110, 111, 136Carswell, Robert 113Chadwick, James 129Chisholm, Grace 43Compton, Arthur 116condensato di Bose-Einstein 121costante cosmologica 114, 115contrazione di Lorentz 64, 65, 67, 85, 94Coulomb, Charles Augustin 26, 28, 30, 34Crommelin, Andrew 107, 108

curvatura 85, 86, 89, 90, 95, 96, 100, 106, 110, 112, 120

Davy, Humphry 27dilatazione temporale 67, 94, 114Dirac, Paul 16, 115Dyson, Freeman 31, 112

E = mc2 11, 70, 71, 132Eddington, Arthur Stanley 19, 103, 106,109, 114effetto fotoelettrico 15, 19, 21, 121, 123Ehrenfest, Paul 106, 131Einstein Eduard 14, 18, 41, 71, 77, 80, 92, 131 Elsa 19, 78, 79, 80, 104, 105, 125, 128, 131 Hans Albert 18, 41, 80, 131 Hermann 18, 22, 23, 24, 25, 34, 36, 42, 73, 78 Jakob 24, 34, 45, 73 Lieserl 18 Maria «Maja» 204, 45, 76, 131emissione stimolata della luce 121equazioni di Maxwell 31, 32, 33, 36, 51, 52, 54, 56,

57, 66, 128etere 30, 55Euclide 15, 24, 56, 57Everitt, Francis 136

Faraday, Michael 27, 28, 29, 30, 31, 34, 35, 45, 56Fermi, Enrico 130

Visita di Einstein all’osservatorio astronomico del monte Wilson nel 1931. L’osservatorio, nel sud della California, ospitava il telescopio più grande dell’epoca.

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Feynman, Richard 16fissione nucleare 129, 130Fizeau, Hippolyte 32fotone 117, 120, 121, 122, 132Foucault, Léon 32Frank, Philipp 44frequenza 33, 110, 121Freundlich, Erwin 106, 109Friedmann, Alexander 114

Galilei, Galileo 46-53, 57, 67, 68, 73, 81, 82Gamow, George 92, 114Gauss, Carl Friedrich 87, 88, 90, 91geodetica 86, 87, 92, 96geometria differenziale 87, 88, 90 euclidea 24 non euclidea 85, 88Gottinga, Università di 81, 96, 98, 99, 100GPS 17, 136gravità 15, 16, 17, 28, 34, 58, 75, 81, 82, 85, 87, 95, 96,

100, 105, 106, 128, 134, 135, 136, 137Gravity Probe B 135, 136Grossmann, Marcel 40, 45, 85, 87

Heisenberg, Werner 16, 116, 118, 120, 122, 123, 124, 129

Hertz, Heinrich 32, 54Hilbert, David 75, 96, 98, 99, 100, 101, 109Houtermans, Fritz 32Hubble, Edwin 114Humboldt, Alexander von 25Hurwitz, Adolf 36, 96

induzione elettromagnetica 56

Karl-Ferdinand, Università 77Kaufler-Savic, Helene 44Klein, Felix 99Koch Einstein, Pauline 16, 22, 25, 34, 36, 37, 42, 43,

78, 105

Laue, Max von 128Lenard, Philipp 121, 123legge di gravitazione universale 16, 17, 26, 28, 51, 82lunghezza d’onda 32, 33, 120, 122 di Planck 134lente gravitazionale 113Lorentz, Hendrik 52, 53, 56, 57, 63, 134

Mandl, Rudi 1137Marić, Mileva 18, 37, 41-45, 73, 77, 78, 80, 81, 104,

105, 131Maxwell, James Clerk 25, 30, 31, 34, 45, 54McCarthy, Joseph 14, 128Michelson, Albert 54, 55Minkowski, Hermann 90, 91, 92, 94, 95, 96, 98, 101Morley, Edward 54, 55

Nernst, Walther 116Newton, Isaac 16, 23, 28 29, 45, 50, 51, 57, 66, 67, 68,

71, 73, 81, 82, 84, 100, 105, 109, 114, 123, 128, 135, 137

Noether, Emmy 45

Oersted, Hans Christian 26, 28, 29, 30, 31, 32, 34onda elettromagnetica 52, 115, 134, 135 gravitazionale 134Ostwald, Wilhelm 73

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iNDICE 143

Pauli, Wolfgang 16Perrin, Jean 46Planck, Max 16, 57, 73, 76, 115, 116, 117, 123, 124,

134, 135Poincaré, Henri 56, 134Politecnico Federale di Zurigo 18, 36-37, 40, 42, 43,

45, 98Princeton, Istituto per gli Studi Avanzati di 19, 128,

131principio di equivalenza 82, 85, 90 di indeterminazione di Heisenberg 118, 129

relatività speciale 15, 16, 19, 44, 67, 68, 75, 76, 81, 83, 95,

101, 103, 104, 105, 109, 111, 122, 134, 135 generale 13, 14, 17, 44, 67, 68, 75, 76, 81, 83, 95,

101, 103, 104, 105, 109, 111, 122, 134, 135relazione metrica 88-92, 96Riemann, Bernhard 87, 88, 91Roosevelt, Franklin D. 19, 129, 130Rutherford, Ernest 116

Schrödinger, Erwin 16, 115Schwarzschild, Karl 109, 110, 111, 112Shapiro, Irwin 135Snow, Charles P. 16 Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento 18,

44, 45, 56, 57, 64, 68, 70Soldner, Johann Georg von 105, 106, 113Solovine, Maurice 44Sommerfeld, Arnold 99

spazio-tempo 53, 75, 91, 92, 94, 95, 97, 110, 112, 134, 135, 136

spostamento verso il rosso 109, 110, 112, 136stringhe, teorie delle 68, 134Szilard, Leo 129-131

Talmey, Max 25, 45teoria finale 16, 132tempo proprio 92trasformazione di Galileo 49-53, 76 di Lorentz 52-57, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 85,

94

Verrier, Urbain Le 100Volta, Alessandro 26

Walsh, Dennis 113Weber, Heinrich 36, 40, 42, 55Weinberg, Steven 16Wells, Herbert George 129Weyl, Hermann 101Weymann, Ray 113Wheeler, John 95, 96, 111Wigner, Eugene 129Winteler Jost 37, 123 Marie 37, 42

Young, William 43

Zurigo, Università di 75, 77

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