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Storie di soldati di Bergamo a cura di Paolo Barcella Storia di Alberto Sacchetti Dati anagrafici: Nome e cognome: Alberto Sacchetti Data di nascita: 11 novembre 1898 Luogo di nascita: Bergamo Luogo di residenza: Bergamo Professione: tipografo Statura: 1,65 Capelli: castani Occhi: castani Fondi di riferimento: Archivio “Carte Elisabetta Sacchetti” conservato presso l’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea e ruolo matricolare del caporale Alberto Sacchetti conservato presso l’Archivio di Stato di Bergamo. L’archivio “Carte Elisabetta Sacchetti” contiene le fotocopie di un quaderno scolastico di pp. 29 manoscritto dal soldato durante la Grande Guerra e le fotocopie de I nefasti della Santa Entrada, testo in cui Sacchetti evoca la sua partecipazione all’impresa di Fiume. Le memorie di Alberto Sacchetti, soldato del 71° Reggimento Fanteria, consentono una parziale rilettura dell’esperienza dei soldati nel corso della Prima guerra Mondiale. Come molti altri giovani scaraventati al fronte, Sacchetti rifiuta le logiche coercitive della vita militare e si avventura in una serie di fughe dalla sua caserma nel tentativo di mantenere saldi i legami con il mondo esterno. La convivialità e l’irriducibile desiderio di libertà diventano così la cifra distintiva di un racconto che, rifuggendo la retorica patriottica, si fa viva testimonianza di una guerra diversa da quella descritta nei documenti 1

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Storie di soldati di Bergamo

a cura di Paolo Barcella

Storia di Alberto Sacchetti Dati anagrafici: Nome e cognome: Alberto Sacchetti Data di nascita: 11 novembre 1898 Luogo di nascita: Bergamo Luogo di residenza: Bergamo Professione: tipografo Statura: 1,65 Capelli: castani Occhi: castani

Fondi di riferimento: Archivio “Carte Elisabetta Sacchetti” conservato presso

l’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea e

ruolo matricolare del caporale Alberto Sacchetti conservato presso l’Archivio di

Stato di Bergamo. L’archivio “Carte Elisabetta Sacchetti” contiene le fotocopie

di un quaderno scolastico di pp. 29 manoscritto dal soldato durante la Grande

Guerra e le fotocopie de I nefasti della Santa Entrada, testo in cui Sacchetti

evoca la sua partecipazione all’impresa di Fiume.

Le memorie di Alberto Sacchetti, soldato del 71° Reggimento Fanteria,

consentono una parziale rilettura dell’esperienza dei soldati nel corso della

Prima guerra Mondiale. Come molti altri giovani scaraventati al fronte,

Sacchetti rifiuta le logiche coercitive della vita militare e si avventura in una

serie di fughe dalla sua caserma nel tentativo di mantenere saldi i legami con il

mondo esterno. La convivialità e l’irriducibile desiderio di libertà diventano così

la cifra distintiva di un racconto che, rifuggendo la retorica patriottica, si fa viva

testimonianza di una guerra diversa da quella descritta nei documenti

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ufficiali. Una guerra, insomma, fatta di sofferenze da evitare e dal timore di

sperimentare un inevitabile imbarbarimento personale. La scrittura di

Sacchetti, straordinariamente matura per la giovane età del soldato, è dunque

un brioso e ironico strumento di demistificazione. Le sue memorie si

dividono in 7 paragrafi, ciascuno con un titolo e una struttura propri.

“La partenza” è il resoconto delle ansie di un ragazzo che il 17 marzo 1917

inizia la sua vita militare. Diretto alla caserma di Venezia, Sacchetti teme di

dover percorrere il tragitto in treno «solo come un cane», ma la sorella Maria,

che lo accompagna, riconosce tra la folla della stazione di Bergamo tale Rota,

con il quale si raccomanda di tenere compagnia al fratello. “Il viaggio”, così si

intitola la seconda sezione delle memorie, è scomodo: i sedili sono troppo

duri e non pochi sono gli ubriachi che «fanno un baccano indiavolato». La

mattina dell’8 marzo il convoglio raggiunge Venezia. I soldati sono di stanza

presso i capannoni marittimi e devono dormire in una baracca piena di paglia

sporca, dove «si erano già coricati migliaia e migliaia di individui». Tanto

meno si può uscire dalla baracca, poiché il terreno circostante è coperto per

tre quarti d’acqua e la restante porzione è pattugliata da ben 60 sentinelle.

L’impressione che Sacchetti ricava dalle sue prime ore di vita militare è, in

altre parole, disastrosa: «eravamo vigilati e rinchiusi come tanti farabutti, e

guardandomi attorno mi pareva di essere come un condannato ai lavori

forzati, tanto era leffetto che mi faceva quella penisola». È così che si inizia a

programmare l’evasione dalla caserma:

Erano già due giorni che ci si trovava rinchiusi, non si poteva più resistere, la fulgida nostra

gioventù di diciott’anni appena scoccati, non ci permetteva un simile trattamento, e allora

incominciarono le drammatiche fughe accompagnate da diabolici piani e da coronato

successo. Ancora oggi mentre le rammento non posso fare a meno di ridere, ma ridere alle

spalle del militarismo, che con tutti i suoi ordini e tutte le sue sentinelle non erano e non

furono capaci di sventare le nostre drammatiche evasioni.

Le parole di Sacchetti sono significative di un forte sentimento

antinterventista e dell’altrettanto profonda soddisfazione nel beffare le

regole della disciplina militare. Insieme a un’altra decina di soldati, il giovane

tenta la fuga aggrappandosi alla spranga di ferro trasversale dei treni merci

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che passano nei dintorni dei capannoni, lasciandosi poi trasportare per circa

150 metri prima di lanciarsi su un rialzo di terra. Alcuni altri ragazzi a bordo

di una piccola imbarcazione vedono Sacchetti e i suoi commilitoni, capiscono

le loro intenzioni e decidono di aiutarli, ma mentre si dirigono a riva vengono

individuati da una sentinella. I soldati fingono una ritirata. La sentinella torna

dietro la costruzione da cui era spuntata e a quel punto «i bravi monelli

avevano già approdato sulla nostra riva», racconta Sacchetti. Saliti a bordo

della barchetta, i giovani soldati remano con le mani fino alla sponda opposta.

Elargita una mancia agli improvvisati traghettatori, i soldati si avviano verso

il centro della città, dove trascorrono una allegra giornata in compagnia. La

“seconda evasione” – episodio che occupa il quarto paragrafo delle memorie

di Sacchetti – avviene dopo soli 2 giorni dalla prima. Il gruppo dei fuggiaschi

si divide in piccole bande di 3 o 4 persone ciascuno. Con Sacchetti ci sono

Rota, Pelliccioli e Pesenti. Convinto un giovane in barca a dare loro un

passaggio fino all’altra sponda del canale, laddove si trova «l’agognata

libertà», i 4 soldati costeggiano il mare lungo la strada del porto, dove sono

ancorate numerose navi da guerra che producono una certa suggestione in

Sacchetti. Quando hanno quasi raggiunto il centro della città, entrano in un

negozio di manifatture e comprano un «colletto» ciascuno perché i vestiti che

avevano indosso erano assai sporchi. Sacchetti acquista anche del filo per

rammendare i bottoni della giacca che gli si sono staccati. Salgono a bordo

dell’imbarcadero S. Chiara e ammirando la città approdano al Lido. Vagano

senza metà finché, stanchi, sostano in un caffè di lusso, ordinano da bere e

scrivono «un mucchio di cartoline». Poi s’incamminano alla volta

dell’imbarcadero, ma la fame inizia a mordere e così si fermano in Piazza San

Marco, scelgono un «restaurant di 2a classe» e consumano un buon pasto

accompagnato da ottimo Chianti. Nel buio di Venezia, oscurata per rendere

più difficili le ricognizioni degli aerei nemici, i giovani soldati non sanno

trovare la via per tornare ai capannoni marittimi. Si avvicinano dunque ad

alcuni «gentiluomini» muniti di lanternino per chiedere informazioni, ma

ricevono soltanto indifferenza e sospetto. Si rifugiano dunque in un cinema.

Quando ne escono, alle 22.30, hanno bisogno di un posto per dormire e un

uomo si offre di accompagnarli fino a una vicina trattoria. I giovani,

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soddisfatti, dormono il sonno di chi sa di avere scampato una giornata di

fatiche e vessazioni. La mattina successiva rientrano alla base e trovano i

coscritti ordinati in rango. Il tenente li rimprovera ferocemente per la loro

fuga, ma Sacchetti e i suoi compagni non fanno altro che accogliere «quel

rimprovero con un sorrisetto e con un’alzatura di spalle», proponendosi di

tagliare la corda una terza volta.

Il racconto della vestizione, che occupa il capitolo centrale delle memorie di

Sacchetti, assume i connotati di un vero e proprio sketch tragicomico.

Condotti al deposito del 71° Reggimento Fanteria, la sera del 21 marzo 1917 i

giovani soldati abbandonano i loro abiti borghesi e vestono per la prima volta

la divisa militare. I pantaloni di Sacchetti sono corti e stretti; la giubba ha

maniche troppo lunghe e collo sproporzionato. La divisa, riflette il fante del

1898, era più adatta «a un Raischevich1» che a lui: «insomma tutto sommato

assomigliavo da acconciato apposta per un carnevale tanto mi rendeva buffo

e ridicolo quella divisa, solo il berretto trovai che mi andava bene». Le

camicie di tela che gli vengono consegnate sono

macchiate di sangue, segno evidente che erano già state portate al fronte, in prima linea, e

perciò abituate al pidocchiume, agli asfalti, alle granate e ad altri esplosivi consimili. Feci

giuramento che non le avrei mai portate, e così feci, le tenni per ben due mesi e mezzo in

fondo allo zaino, adoperando sempre le due di flanella. Quando poi partii pel fronte le versai

ricevendone in cambio due nuove di trinca.

Le genti che affollano Piazza San Marco, dove i soldati sono costretti a

transitare, ridono alle spalle di Sacchetti e dei suoi commilitoni. Rientrati ai

capannoni, scambiano i pezzi della divisa tra loro, cercando di limitare così i

difetti di misura. A quel punto, riferisce Sacchetti, per quella giornata non «ci

fu più nessuna seccatura, e siamo liberi di farci i nostri porcacci comodi». Si

noti come la cerimonia di vestizione sia tutt’altro che una solenne adesione ai

valori della patria e della sua difesa. È forse in ragione di questo scarso

spirito di appartenenza che 2 giorni dopo i giovani soldati mettono in scena

la terza, mirabolante fuga. Il «trombettiero», un mutilato alla mano sinistra in

1 I fratelli Giovanni, Enrico Ruggero e Massimo Roberto Raicevich, di cui Sacchetti riporta erroneamente il cognome, erano celebri campioni di lotta greco-romana. Il fisico statuario di Giovanni gli valse parti cinematografiche nella serie di film Maciste.

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attesa di riforma, si fa carico di accompagnarli sino all’uscita centrale della

caserma, dove riferisce ai tenenti e alle guardie che ha l’incarico di portare i

soldati fino al deposito. Imboccato il viale, i soldati svoltano in una calle e si

sparpagliano. Con Sacchetti rimangono Grippa, Pesenti e lo stesso

trombettiere. Raggiunto il bel Lido, mangiano in una trattoria e tornano in

città, dove vagano insieme a quanti incontrano sul loro cammino. È solo alle

21 che rientrano ai capannoni.

Presto, tuttavia, le occasioni di divertissement si concludono. La compagnia di

Sacchetti, la 16ma, viene inviata a Tarcento, in provincia di Udine, meta

raggiunta dopo una lunga marcia e una nottata trascorsa «alla bellemeglio».

La «noiosissima vita» di Tarcento dura un mese e consiste nella mattutina

adunata per l’istruzione principale; nel rancio; nella nuova istruzione

pomeridiana o, in alternativa, nella marcia o ancora nell’istruzione interna.

Una volta a settimana c’è l’esercitazione di tiro e la domenica pulizia del

locale, pulizia personale e Santa Messa. Poi Sacchetti e i suoi compagni sono

comandati di accamparsi presso la Piazza d’Armi di Tarcento e vengono

trasferiti a quella che il soldato definisce sarcasticamente «compagnia aglievi

maiali (caporali)» perché composta da «tutti ragazzi svelti e diremo anche

intelligenti e pieni di buona volonta». Nella nuova compagnia

si mena una vita da cani, alla mattina sveglia mezzora prima delle altre Compagnie e

dovendo dare buon esempio alle marcie dobbiamo portare lo zaino mentre le altre

Compagnie vanno con la sola mantellina arrotolata. Tutte le mattine mezz’ora di corsa con lo

zaino sulle spalle, gli altri Reparti rientrano nell’accampamento al passo mentre noi altri

invece sempre di corsa, il tutto perché la compagnia aglievi ciucci deve essere sempre

speciale dalle altre.

Incaricati di svolgere compiti «assai cretini», gli allievi caporali hanno morale

basso e un forte desiderio di essere inviati altrove. La maggior parte del

denaro Sacchetti la spende in sigarette e lavanderia; poi lettere, cartoline,

francobolli – fondamentali per mantenere il contatto con l’esterno – e

qualche spicciolo per i «piaceri, che del resto, erano tanto pochi!».

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Il 27 maggio 1917 la situazione cambia: 2000 militari devono partire per il

fronte per rinforzare i reggimenti. 50 di questi 2000 soldati vengono

sorteggiati tra gli allievi caporali e la fortuna non arride a Sacchetti:

Tutti i miei compagni si dimostrarono dispiacenti, ma non si poteva far nulla, fummo tutti

vestiti a nuovo, ci diedero tutto il corredo con i rispettivi viveri di riserva e i 32 caricatori

facenti parti anch’essi dell’equipaggiamento del militare, tanto che lo zaino completamente

affardellato e in pieno assetto di guerra pesava la bellezza di 41 kg senza poi calcolare le

giberne e il fucile.

Avvisate le sorelle con opportuna cartolina postale, Sacchetti parte per il

fronte l’1 giugno 1917. Nell’ingenuità di chi non sa a cosa sta andando

incontro, il diciottenne percepisce ugualmente un vago e tremendo presagio

di morte:

Fu una giornata memorabile, mai scorderò quella data, al momento della partenza, quei

pochi che rimanevano salutavano con le lagrime agli occhi i compagni partenti, ed era forse

l’ultimo saluto quello che ci si scambiava!? […] Sulla soglia un ufficiale che ci accompagnava,

mi fermò e facendomi una carezza sul volto esclamò: poveri ragazzi! Io che proprio non

pensavo minimamente a quello che era la situazione ne a quello che fossero i pericoli della

guerra, degnai il detto ufficiale di uno sguardo di compatimento, tirai diritto per il mio

destino.

Eppure, allo stesso tempo, la spensieratezza della gioventù caratterizza il

viaggio:

Durante il viaggio, affacciati ai finestrini si contemplava l’ubertosa e distesa campagna

friulana, i contadini vecchi, donne e bambini al nostro passaggio ci salutavano con simpatia e

con sventolii di fazzoletti sino a che il lungo convoglio non fosse distante dalla loro vista,

anche loro capivano che eravamo diretti alle prime linee, la ove il prode soldato combatteva

e moriva per la sua Italia, per la sua patria. Ma noi, appena diciottenni, non si pensava a

quello, la nostra esuberanza giovanile non ci permetteva simili posate riflessioni, pareva un

convoglio che trasportava un pellegrinaggio in gita di piacere tanta era l’allegria e la

spensieratezza che regnava.

Il racconto di Sacchetti si conclude così, con l’arrivo a Cervignano del Friuli. Lì

l’ex-allievo caporale si toglie le mostrine del 71° Fanteria per indossare

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quelle verde-gialle del 113° Reggimento Fanteria. Inizia a questo punto una

rapida ascesa delle gerarchie militari da parte del soldato. Il suo ruolo

matricolare certifica infatti la promozione a caporale il 31 maggio 1917 e

quella a caporale maggiore il 15 agosto dello stesso anno. A settembre viene

trasferito nel Battaglione complementare “Brigata Mantova” ed è solo il 4

novembre 1918 che può finalmente abbandonare la zona di guerra. 4 giorni

dopo è ricoverato in un ospedale da campo e il 6 dicembre 1918 l’ospedale

militare di Cuneo gli concede una licenza per convalescenza della durata di

30 giorni. Rientrato al deposito del 79° Reggimento Fanteria all’inizio del

1919, Sacchetti ottiene – insieme con la dichiarazione di buona condotta – il

foglio di congedo illimitato esattamente un anno dopo.

La seconda fase della carriera militare di Alberto Sacchetti, scevra da fughe

spericolate e sberleffi nei confronti dei superiori, è al contrario connotata

dalla fedeltà e dall’adesione ai valori della patria e della guerra, nonché

dall’esperienza di volontario nelle milizie legionarie fiumane, di cui fa parte

dal 13 settembre 1919 al 20 dicembre del 1920 sotto il comando delle

Truppe Brigate Slesia. L’esperienza al fronte deve aver segnato

profondamente la vicenda umana e ideale del soldato. Di fatto, tanto convinta

è la sua disaffezione nei confronti delle gerarchie militari e della guerra nelle

sue memorie, tanto più è intenso il coinvolgimento che dimostra

successivamente nell’impresa fiumana guidata dal poeta-vate Gabriele

D’Annunzio. Testimonianza di questo rinnovato sentimento nazionalista è lo

scritto I nefasti della Santa Entrada, redatto dallo stesso caporale Sacchetti il

3 ottobre 1919. Altrettanto significativa della direzione ideale intrapresa da

Sacchetti è la sua partecipazione come volontario alle imprese coloniali in

Africa nella seconda metà degli anni Trenta, attestata dal suo sbarco a Gibuti

nel gennaio 1937 con la Divisione Tevere e dall’assegnazione della licenza

coloniale ordinaria del 5 maggio 1939.

La traiettoria biografica di Sacchetti si rivela in questo senso la cartina di

tornasole di un’Italia che esce dal primo conflitto mondiale priva delle

coordinate concettuali che ne avevano fin lì contraddistinto la storia unitaria.

Il fronte forgia una comunità separata di uomini che vivono con sempre

maggiore forza il mito della violenza e della nazione, consegnandosi

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irrimediabilmente all’imminente avvento del fascismo, apoteosi e morte delle

contraddizioni che anche Sacchetti esprime nei suoi scritti. Giovane spaurito

e libertario prima, propugnatore delle più aggressive idee patriottiche e

guerresche poi, Sacchetti – come tanti – è un soldato la cui storia certifica la

perdita dell’innocenza dell’Italia liberale e la devastante ipoteca morale e

civile che la guerra ha posto sul futuro di più di una generazione.

Storia di Eugenio Adolfo Bertacchi

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Eugenio Adolfo Bertacchi

Data di nascita: 23 marzo 1888

Luogo di nascita: Bergamo

Luogo di residenza: Bergamo

Professione: pittore decoratore

Statura: 1,69

Capelli: castani

Occhi: castani

Fondi di riferimento: Giuliana Bertacchi, “Il sole saliva radioso e la fame

saliva anchessa”. Il maggio 1915 del bersagliere Eugenio Bertacchi, in “Studi e

ricerche di storia contemporanea”, n. 35 (Giugno 1991), pp. 5-28; foglio

matricolare e ruolo matricolare del maresciallo Eugenio Bertacchi. Il saggio

di Giuliana Bertacchi è costruito attorno al materiale diaristico redatto da

Eugenio Bertacchi e conservato presso il ricco archivio privato del figlio

Bruno, nonché – in copia – presso l’Istituto Bergamasco per la Storia della

Resistenza e dell’Età Contemporanea. Si vedano anche le informazioni

contenute in Mario Pelliccioli (a cura di), Bergamo negli anni della prima

guerra mondiale: archivi e documenti, Ex Filtia n. 4, Quaderni della Sezione

archivi storici della Biblioteca Civica ‘A. Mai’ di Bergamo – Supplem. al n. 4

1992 di «Bergomum. Bollettino della Civica Biblioteca», pp. 49-56.

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Eugenio Adolfo Bertacchi nasce a Bergamo nel 1888. Figlio di un artigiano

falegname-ebanista, frequenta la Scuola d’arte “Fantoni” e s’appassiona di

letteratura, costruendosi una ampia cultura da autodidatta. Svolge il servizio

di leva a Bologna, nel corpo dei Bersaglieri, e partecipa alla guerra di Libia

con il grado di Sergente Maggiore. Durante la Prima Guerra Mondiale,

Bertacchi è impegnato presso la 7a Compagnia, 7° Reggimento, 10°

Battaglione Bersaglieri. Le memorie del bersagliere, probabilmente redatte

attorno alla metà degli anni Venti, danno conto proprio del momento della

chiamata alle armi e del periodo che si conclude con il 6 giugno 1915.

Sebbene le informazioni che se ne possono ricavare coprano un periodo assai

limitato della vita del soldato, è possibile trarne indicazioni preziose riguardo

la traiettoria umana di chi ha saputo, in tempo di guerra, mantenere intatto

uno sguardo ironico e scanzonato, testimonianza profonda connessione

sentimentale con l’ambiente circostante e con i commilitoni. Di fatto, insieme

con le sofferenze e la fatica, la guerra di Bertacchi è fatta di un’appassionata

capacità di cogliere e ammirare le bellezze della natura, di una istintiva

propensione al cameratismo conviviale (a cui si alternano tuttavia riflessivi

momenti di solitudine) e di una irriducibile rettitudine morale, un dato che –

a prescindere dalle ardue condizioni di vita cui è stato costretto – impregna

insieme al bisogno di libertà e di autonomia intellettuale il resoconto del

soldato. A tutti gli effetti, il diario di Bertacchi è, prima ancora che un

reportage preciso e rigoroso, una sorta di racconto picaresco in cui si

intrecciano storia e modalità narrative vicine al romanzo. Ne deriva una

smitizzazione dell’esperienza bellica, colta non nell’eroismo delle grandi

azioni militari, ma nella capacità di preservare – in un contesto

psicologicamente e fisicamente probante – uno sguardo critico nei confronti

delle gerarchie e del mondo in generale, nonché un solido sistema di valori.

Di certo la Prima Guerra Mondiale è stata il teatro di pesanti vessazioni per

tutti i soldati che vi hanno preso parte. Nell’evocare la marcia della sua

Compagnia dal paese di Gargnano a Tignale, Bertacchi scrive:

E che tirata da Gargnano a Tignale! Sempre in salita, non più abituato allo zaino con un paio

di scarpacce strette dure, che ad ogni passo mi provocavano dolori atroci tanto che ad un

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certo punto ho dovuto mettermi quelle da riposo… e con quei sassi. E non dico niente del

sole!»

In alcuni casi le difficoltà dei trasferimenti zaino in spalla vengono acuite

dalle avverse condizioni atmosferiche, come sul Monte Tombea, dove «non ci

rallegrò mai una spera di sole; acqua e nebbia quando non era nevischio»2.

Così, morso dalla fame e dalla sete, il Caporale Maggiore Eugenio Bertacchi,

presto assegnato al posto di comando del 4° plotone della Compagnia, si

avventura spesso in «baracchette». Amante del buon vino e delle belle donne

(non certo di quelle «vecchie cispose», come recita un passaggio del suo

diario), già durante il viaggio verso il Garda si rende protagonista insieme ai

compagni di una «sbornia generale, tanto che non ricordo dove ho dormito».

Allo steso modo, quando a Tignale intravvede un’osteria, ci si infila e «al

diavolo lo spirito bersaglieresco!». Altresì, il 20 maggio 1915, quando viene

incaricato di ritirare la posta a Tignale, si precipita al paese

con la segreta speranza di fare una buona indigestione perché il magro regime del patrio

Governo non mi garbava troppo. Difatti non mancai alla parola. M’impinzai di ogni cosa e

riempii il tascapane di ogni ben di Dio.

Estremamente significativo delle abilità scrittorie di Bertacchi, del suo spirito

ironico e del suo carattere birbantesco è poi il racconto dell’incontro con una

ragazza:

Sull’imbrunire mi trovai non so come a leggero contatto con una robusta montanina la quale

aveva da pochi giorni il marito richiamato negli alpini e sembrava che non fosse

estremamente dolente perché si lasciava pizzicare anche in certi posti che secondo il rito

apostolico – Romano dovrebbero essere riservati al marito. In questi scherzi passai un paio

d’ore, tanto che quando decisi d’andarmene la ritirata era suonata da un pezzo.

Il Caporale Maggiore al comando del 4° Plotone della 7a Compagnia

Bersaglieri è dunque un uomo dedito ai piaceri della vita e poco propenso a

lasciarsi coinvolgere nelle cose di guerra. Ciò non toglie che Bertacchi

giudichi il conflitto una «necessità» e che arrivi a questionare animatamente,

2 Con «spera di sole», espressione dialettale, Bertacchi indica un debole raggio di sole».

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facendosi anche dei nemici, con i propri compagni in merito all’opportunità

dell’intervento. Inoltre, quando le Compagnie vengono incaricate di spingersi

oltre confine e la guerra è ormai iniziata, il bersagliere prova dentro di sé «un

certo non so che» e arriva a sviluppare riflessioni di ispirazione

marcatamente patriottica:

sarei stato capace di qualunque eroismo. Ero arrivato al punto di vedermi senza il più piccolo

rammarico steso al suolo e ravvolto nel tricolore ma questo dopo un’epica lotta, ove il mio

nome ne sarebbe uscito fulgido, grande, e pensando a questo stringevo nervosamente il

fucile e scattavo in avanti.

A fare da contraltare a questo improvviso entusiasmo da parte del soldato

intervengono però i silenzi dell’ambiente circostante e una natura

incontaminata e pacificata:

Ed invece niente: nessun rumore turbava la maestosità dell’alpestre panorama, salvo il trillo

di qualche uccelletto che saltellava di ramo in ramo, infischiandosene del tumulto del mio

animo.

La meraviglia provata di fronte alle bellezze della natura è un elemento

ricorrente nel racconto di Bertacchi. L’amore per i paesaggi silenziosi e lievi

assume un ruolo di dignitosa opposizione rispetto alla grettezza, al rumore e

alle contraddizioni della guerra. All’alba del 12 maggio 1915, a bordo di un

piroscafo con direzione Gargnano, Bertacchi – «seduto sull’estrema prora con

le gambe penzoloni nel vuoto» – ammira estatico le «magnifiche rive del lago

di Garda». Analogamente, poco meno di un mese dopo, guarda «con tanto

d’occhi lo spettacolo veramente superbo» dei monti trentini. Il soldato

stabilisce addirittura un rapporto quasi simbiotico con la natura, tant’è vero

che di ritorno da una escursione (accompagnata nuovamente da qualche

bicchiere di vino) perde il resto della Compagnia e si ritrova a dormire da

solo all’addiaccio, ma senza provare «il minimo timore». Al contrario,

Bertacchi avverte «un senso di sicurezza» che difficilmente gli capita di

sentire quando «inquadrato con poche o forti masse». Nonostante questi suoi

momenti di sereno isolamento, il bersagliere non è certo uomo scontroso o

solitario. Al Bertacchi piace la compagnia e più volte dà mostra della propria

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generosità nei confronti dei commilitoni. Emblematico di questo

atteggiamento è l’episodio che risale alla metà di maggio, quando alla

partenza per Tignale – quasi al verde – il soldato bergamasco regala

ugualmente allo zappatore Sentinelli «un “cavourino” d’argento perché,

povero diavolo, non aveva più un soldo»3. A questa generosità si affiancano

spesso elementi di straordinaria onestà morale e di orgoglio personale. Per

esempio, quando il Sergente furiere Salvatore Gullotta gli propone il posto di

comandante delle cucine di compagnia – posto che gli garantirebbe una

grado di sicurezza molto più alto rispetto alla condizione di soldato di prima

linea –, Bertacchi rifiuta perché si sente svilito nel suo ruolo di combattente e

di uomo. Lascia il posto all’amico Caporale Maggiore Mazzola, in parte stanco

e in parte impietosito dal suo continuo «piagnisteo» sulla lontananza dagli

affetti. Ancora, Bertacchi si impunta per pagare al collega Osio, che porta

spesso con sé vettovaglie di vario genere, la sua parte di vino pur essendo

quasi totalmente privo di denaro:

Mi ricordo anche che Osio non voleva che pagassi il mio litro – e l’avevo guadagnato anche –

ma io duro sborsai il suo prezzo, 80 cent. mi pare. Erano meno di inezie ma ci tenevo come ci

tengo di non accettare niente da nessuno!

A questo episodio si accompagna la rivendicazione della propria

indipendenza. Indipendenza non solo economica, ma anche intellettuale.

Quando infatti, sui monti del Trentino, si ritrova di fronte a una casupola

dove erano stati i gendarmi austriaci e vi legge le scritte «l’esercito

mussulmano libera i traditori» e, per chiarire il concetto, «Tagliano

farabutto!», il bersagliere si lascia andare a una riflessione che nulla ha a che

fare con l’amore per la patria e per l’esercito, ma che se mai si trasforma in

una critica feroce nei confronti dei militari che indugiano in saccheggi a

danno delle popolazioni civili:

La prima dicitura era certamente falsa, della seconda – con una mano sul cuore – si potrebbe

dire altrettanto? Le prime pattuglie che scendevano nei paesi della valle pagavano

puntualmente quello che prendevano, rispettavano la proprietà e non agivano affatto come 3 È con il nomignolo di «cavourino» che veniva identificata popolarmente la banconota da 2 lire in vigore nel Regno d’Italia.

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in un paese di conquista. Per questo la scarsa popolazione trattava queste pattuglie con

deferenza forse con una punta di timore, ma non importa questo era ingiustificato. Gli

abitanti spesso arrivavano al punto d’informarci delle mosse delle pattuglie avversarie. Ma

quando – costrette dagli austriaci – dovettero abbandonare ogni loro cosa, sperando di

trovare – al ritorno – se non intatto almeno una parte di quello che con tanto dolore avevano

dovuto abbandonare: diamine gli Italiani sono o non sono nostri Fratelli? Invece a paesi

occupati questi buoni fratelli si dettero ad un saccheggio sistematico per non dire teppistico

e stupido.

L’autonomia intellettuale di Bertacchi è il segno evidente di un

temperamento forte e difficilmente scalfibile dagli atroci fatti di guerra. Più

volte, in nome di principî che ritiene giusti, si scontra con i superiori: «ebbi a

dire con la ronda e con un sottotenente e non mi ritirai che dopo mezzanotte.

Continuavo a rendermi popolare…». Il suo foglio matricolare riporta che il «5

aprile 17 rispondeva con frasi scorrette ad un ordine dell’ufficiale di giornata

mandatogli per mezzo di un bersagliere». Il soldato bergamasco riferisce

inoltre che, non appena raggiunto il deposito di Brescia dopo il richiamo alle

armi, si trova di fronte a un Maresciallo che si rifiuta di pagare la trasferta a

lui e altri commilitoni arrivati in ritardo («Il 10 ero a Brescia mi presentai al

Dep. ma per un’ultima notte ho preferito conservare l’abito borghese e la

libertà). «Non senza una punta di presa per il naso», Bertacchi controbatte

alle «speciose ragioni» del Maresciallo e alla fine ottiene quanto gli spetta.

Simili prese di posizione gli costano molto: inserito tramite un compagno

nell’ambiente del Comando, Bertacchi spera di avere un posto come

scritturale, ma riceve il secco diniego dello stesso Maresciallo con cui aveva

precedentemente discusso. Di questi suoi superiori Bertacchi fornisce

divertenti ritratti macchiettistici . Lo spietato Comandante Del Noce «è uomo

in fama di severissimo e nevrastenico», mentre il Maresciallo Muliterni è un

«fanfarone» nullafacente e per questo soprannominato sarcasticamente dai

soldati «mulo-eterno».

Quello che Eugenio Bertacchi ha saputo applicare all’ambiente di guerra è

dunque uno sguardo peculiare e attento, quasi clinico. Per niente

sprovveduto, il bersagliere riflette sulla condizione mentale dei soldati

destinati al fronte, dimostrando come la guerra fosse un orizzonte che

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appariva lontano e che pure ha poi determinato la tragedia quotidiana della

morte, della prigionia, delle devianze psichiche:

volendo fare una riflessione potrei garantire che noi tutti partenti per il confine eravamo ben

lontani da credere che la guerra fosse imminente, si viveva piuttosto così, alla giornata, senza

approfondire troppo gli avvenimenti che del resto giungevano sino a noi di molto affievoliti.

Più che agli avvenimenti futuri si pensava ai disagi presenti […].

Devianze da cui il bersagliere bergamasco è rimasto ben lontano

aggrappandosi alla vita e ai suoi piaceri.

Il racconto di Bertacchi si ferma dunque al giugno del 1915, ma la sua vita da

militare prima e da uomo libero poi prosegue. Il 10 settembre 1918 riceve la

promozione a Maresciallo per essersi distinto nel corso di un’azione sul

campo nel corso dell’anno precedente:

Sottoufficiale addetto al Comando di Battaglione durante un attacco nemico restava

ripetutamente nella linea del furore allo scopo di attingere utili informazioni sulla situazione,

dato che il suo avversario aveva fatto mancare le linee telefoniche rendendo la sua azione,

nella quale dimostrò grande ardimento e perizia, molto giovevole al Comando di Battaglione

che lo aveva inviato sul posto il 1° Ottobre 1917.

Sopravvissuto alla prima guerra mondiale, durante il fascismo dimostra una

costante ostilità al regime, il che gli costa un periodo di prigionia. Pur non

facendo parte attivamente della Resistenza, conserva la sua onesta e

individualissima critica nel corso di tutto il ventennio. Nel dopoguerra

Bertacchi continua a vivere nella sua Bergamo fino al 1966, anno della sua

scomparsa.

Storia di Alfredo Valenti

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Alfredo Valenti

Data di nascita: 7 marzo 1888

Luogo di nascita: Alzano Maggiore

Luogo di residenza: Alzano Maggiore

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Professione: salumiere

Statura: 1,72

Capelli: castani

Occhi: castani

Fondi di riferimento: Archivio “Carte Ivana Pelliccioli” conservato presso

l’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea,

foglio matricolare e ruolo matricolare del soldato Alfredo Valenti conservati

presso l’Archivio di Stato di Bergamo. L’archivio “Carte Ivana Pelliccioli”

contiene le fotocopie di un quadernetto a quadretti di pp. 113 manoscritto

dal soldato tra il 30 agosto 1916 e il 2 gennaio 1917.

Alfredo Valenti, salumiere di Alzano Maggiore, viene chiamato alle armi il 29

aprile 1916, un mese dopo essere stato congedato dal servizio militare.

Assegnato al 3° Reggimento Artiglieria da montagna “Oneglia”, parte da

Bergamo alla volta di Udine il 30 agosto 1916. Dal finestrino del convoglio su

cui viaggia ammira i paesaggi:

durante il viaggio posso godere delle bellezze che la natura mi offre, giacché si vedono

un’infinità di vigneti sovraccarichi di uva, che servirà a formare il gradito nettare per tenere

allegre le truppe del nostro esercito.

Raggiunto il capoluogo friulano la mattina del 2 settembre, le truppe

proseguono verso Cormons, paese conteso tra Italia e Austria sul confine

sloveno. La meta è irraggiungibile a causa dei bombardamenti nemici e così

Valenti e i suoi commilitoni vengono fatti sostare presso il piccolo comune di

Medea, dove viene stabilito l’accampamento dei soldati. Medea è sotto

controllo austriaco e suscita la curiosità dei giovani italiani:

naturalmente trovandosi in un luogo nuovo e di più austriaco tutti si è curiosi di correre a

vedere. Il paesetto è discreto, si va in compagnia a bere un bicchiere di vino il quale è

pessimo e carissimo perché gli irredenti che quà trovansi hanno fissato di farsi signori

durante questa guerra, fanno veramente affaroni perchè non è che un brulichio di soldati al

paese.

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Il lavoro quotidiano consiste nel curare i muli e nel fare la guardia alle

munizioni recuperate nella città-fortezza di Palmanova. Il 4 settembre una

granata esplode a un centinaio di metri dall’accampamento, provocando

grande spavento. Ciò non impedisce ai soldati di garantirsi piacevoli momenti

di convivialità:

Alla sera si va sotto la tenda, ed abbiamo un fiasco di vino e n. 2 bottiglie di Barbera, il nostro

s. Tenente Muzzi di Milano che ci comandava quando eravamo a Bergamo, ma che ora era

traslocato al I° Scaglione della Batteria, avendo comunicazioni per Cap. Maggiore che con me

si trovavano, è venuto sotto la nostra tenda e lì allegramente passa un’ora con noi, è tanto

buono coi soldati che non si direbbe un Ufficiale.

La battaglia infuria, ma per Valenti la guerra sembra soltanto un’eco lontana,

tant’è vero che la vita al paese scorre tra attività lavorative ormai consuete e

più spensierati attimi di socializzazione, come nel caso della buona musica

militare suonata in piazza il 5 settembre. Il giorno dopo, la Colonna munizioni

di cui fa parte Valenti si reca a Romans sull’Isonzo e il 7 settembre si trova a

Cervignano del Friuli, dove ancora si occupa della cura dei muli e della

guardia alle armi. In questa prima fase della guerra di Valenti, le difficoltà

sono legate prevalentemente alle pessime condizioni di igiene in cui versano

gli estemporanei alloggi dove lui e i suoi compagni riposano. Ecco cosa scrive

in proposito l’8 settembre 1916:

durante il riposo, ognuno si fà premura di procurarsi delle assi per formare una branda alla

buona, tanto per alzarsi da terra perchè i topi girano la notte sopra al nostro corpo, come

facessero delle vere processioni.

Nel frattempo, gli scontri a fuoco non cessano e paiono se mai sempre più

vicini, ma a sollevare il morale del soldato arrivano le lettere di Rosetta, la

sua fidanzata:

il cannone si sente più rapido e tonante, si sta preparando una avanzata, rientro in Caserma,

e finalmente incomincio a ricevere la tanto sospirata corrispondenza dalla mia adorata

Rosetta e dalle mie sorelle, ciò in questi siti è un grande sollievo. […] Vado a coricarmi e

sogno costantemente la mia adorata Rosetta, il mio povero fratello Giovanni, caduto in

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questa guerra il 15 Luglio da prode sul Trentino, era S. Tenente del 61° Fant. alla sezione

Mitragliatrici; e la casa mia, il mio paese, le mie sorelle, tutti quanti mi sono cari.

Si tratta di un passaggio particolarmente interessante del diario di Valenti

perché permette di capire fino in fondo il bisogno di sentire vicini gli affetti

della casa e della famiglia in un contesto di sradicamento come quello del

fronte. Condizione, questa, comune a tutti i militari impegnati durante la

Prima guerra Mondiale.

Inoltre, le sensazioni di Valenti paiono viaggiare di pari passo con

l’andamento del meteo. Le giornate di pioggia sono quelle di maggiore

sofferenza, mentre quando il sole scalda la caserma di Romans, dove ormai

Valenti è stabilmente di stanza, tutto assume contorni meno drammatici:

il cielo incomincia a rasserenarsi, il mio cuore allora mi sembra che batta più regolare, corro

col pensiero al mio caro amore, alla casa, ai parenti miei e le due ore di servizio passano così

rapidamente.

L’11 settembre, il soldato è comandato di portare i colpi al reparto trainato di

stanza presso Sagrado. Durante la marcia, «il pericolo è molto»: sulle teste

degli artiglieri fischiano raffiche di proiettili ed è soltanto il giorno successivo

che si riescono a scaricare le armi. La strada del ritorno verso la caserma, per

lo meno fino alla zona del Carso, è lastricata di tiri di fucileria nemica, ma

Valenti e i suoi se la cavano senza danni. Il 13 settembre il soldato viene

assegnato a più tranquille mansioni: «tutto il giorno non faccio altro che

ramazzare il vasto cortile, perchè il soldato deve essere capace a far tutto,

dicono…». I giorni successivi Valenti si divide tra Palmanova, Sagrado e

Romans, spostando munizioni da un posto all’altro. Le 7 granate che cadono

su Cervignano il 16 settembre 1916 non fanno vittime, ma dimostrano che la

guerra vera è ormai lì a un passo. Quattro giorni dopo, in occasione

dell’anniversario dell’annessione di Roma al Regno d’Italia, Valenti pranza in

una osteria e si ferma in una chiesa nei paraggi per pregare:

Vado in un osteria a mangiare un boccone, tanto per festeggiare il giorno, dopo voglio fare

una visita alla chiesetta quì vicina e mi trattengo un po’ a pregare perchè mi si preservi dal

male, là vi è la chiesa gremita di soldati e tutti pregano con gran fervore, indi faccio una

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passeggiatina prima di entrare, e mi propongo di fare nelle sere libere sempre una visita alla

Chiesa.

Per i soldati al fronte la fede religiosa diventa una vera e propria àncora a cui

aggrapparsi per allontanare gli spettri della fatica e dei compagni caduti.

Intanto, il problema dell’igiene dei luoghi di alloggio non è risolto:

quando mi debbo coricare di notte mi viene la febbre, perchè i topi ora sono aumentati di

numero e si son resi grassi, entrando naturalmente nel tascapane di ciascuno di noi trova

sempre un buon bottino. E’ un piacere, mentre dormi ti ballano il Tango sopra la faccia, e

girano sul corpo comodamente.

Il 26 settembre, dopo una giornata di lavoro nelle scuderie, Valenti assiste in

piazza a un concerto dell’Aida, apprezzandone la qualità. L’occasione è

ulteriore motivo di rievocazione del contesto di provenienza, giacché – con

riferimento al celebre teatro bergamasco – il soldato scrive: «parmi d’essere

al Donizetti». Questi tentativi di mantenere impresso nella mente il ricordo di

casa, amplificati anche dall’incontro con un compaesano del 121° Reggimento

Fanteria, sono però destinati a fallire di fronte all’abitudine alle sempre più

frequenti scene di guerra e al sedimentarsi di una coscienza patriottica. A

questo proposito, Valenti racconta che il 1° di ottobre

alla libera uscita vado a visitare il cimitero del paese, all’entrata vi si trova un monumento

formato da un 305 il quale era caduto all’inizio della guerra gettato dal nemico, su

accampamenti di nostri soldati nei dintorni di Sagrado, ma rimase inesploso, si formò perciò

il monumento a tutti i caduti che in gran numero si trovano in quel cimitero, e dove si nota

una gran quantità di ufficiali di Fanteria caduti sul Carso.

Il 5 ottobre la colonna di Valenti porta 600 proiettili a Gradisca d’Isonzo e

due giorni dopo si viene a conoscenza che la Batteria «ha perso di già 7

uomini morti ed abbiamo 32 feriti. Si resta un poco scossi da tali perdite, ma

bisogna rassegnarsi, perchè ormai l’artiglieria da montagna fa la guerra di

trincea colla Fanteria». La notte del 10 ottobre è insonne per l’artigliere di

Alzano Maggiore: i bombardamenti sono infernali, «un rombo cupo da

Gorizia a Monfalcone», e il freddo punge nelle ossa. Quello stesso giorno,

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l’allontanamento di due aerei nemici intenzionati a bombardare i depositi di

munizioni a Palmanova e Cervignano, così come la cattura di numerosi

prigionieri da parte dell’esercito italiano, sembra produrre in Valenti vivo

compiacimento. Il 15 ottobre la Colonna munizioni viene sciolta e il giorno

successivo, poiché non si sente il tuono del cannone, ci si illude che la pace sia

imminente: «il cannone non si sente più tuonare, in paese c’è poco

movimento, si vede che stanno per trattare la pace!». In realtà, le attività dei

soldati si infittiscono. Il riposo post-rancio viene abolito e Valenti riceve con

rammarico questa notizia perché non gli è più possibile scrivere a casa con la

stessa frequenza di prima. Il 18 ottobre, però, si scopre che la Colonna

munizioni è stata in realtà ripristinata e il 25 dello stesso mese si trasferisce a

Gradisca d’Isonzo, un paese dalla vita serale piuttosto scialba, tanto che i

soldati rimangono in caserma e giocano a carte. I primi giorni del novembre

1916, Valenti si muove dunque tra la caserma, Villa Vicentina e Palmanova,

sempre recando con sé le munizioni da portare ai reparti impegnati in

trincea.

Intanto la violenza diventa una bestiale normalità, tanto che il 7 novembre –

riferisce l’artigliere – «si è fatto un gran ridere per una mezzora» perché

«abbiamo ucciso una lepre a sassate». L’eccezionalità del contesto bellico

provoca insomma gravi distorsioni di immaginario: la doccia, concessa il 12

novembre a tutti i militari, è motivo di grande soddisfazione per Valenti,

mentre un duello aereo può persino arrivare a essere «meraviglioso» alla

vista del soldato. Si allentano i legami con la quotidianità e gli affetti;

crescono, al contrario, i puerili furori guerreschi. Con il trasferimento a

Fratta, frazione di Romans d’Isonzo, Valenti inizia l’istruzione al pezzo. La

disciplina militare è più rigida in questo ambiente: «il nostro Capitano ha

retrocesso il Cap. Mag. Franzoni, perché il giorno prima appena ritornato dal

fronte dopo 3 mesi di trincea, erasi ubriacato». Siccome il 30 novembre è

prevista la partenza per la trincea, le sere precedenti Valenti i suoi compagni

riescono a festeggiare bevendo vino e mangiando polenta e uccelli. La

mattina del giorno fatidico ci si incammina verso Castagnevizza; la strada è

lunga più di 5 ore e il Carso tutt’attorno «è una vera rovina […] distrutto

figurati che non v’è una pianta in vegetazione tutto bruciato dal fuoco e dai

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gaz». Il giorno dopo esplode una granata e Valenti corre un grosso pericolo:

«un sasso levato dal colpo mi cade su d’una gamba che m’indolenzisce l’arto

un pochetino, però è andata bene». La vita di trincea è scandita dalle

numerose preghiere e, come il 22 dicembre 1916, da lavori quali la pulizia

dei pezzi, la sistemazione delle piazzole e la formazione di piccoli muri dietro

cui ripararsi. Il 25 dicembre «i pacchi Natalizi da Vienna» sono proiettili

shrapnel calibro 152 sparati dall’artiglieria, mentre il 29 dicembre la

presenza di merluzzo a pranzo suscita nuovamente l’illusione che la fine della

guerra sia nell’aria: «oggi pel pranzo ci hanno dato il merluzzo, si vede

proprio che la guerra sta per finire». Il racconto della vicenda di Alfredo

Valenti si conclude con l’inizio del 1917 e il rientro a Fratta dalla trincea. La

guerra, tuttavia, è lungi dal terminare e prima ancora di vedere firmati

l’armistizio e la pace, Valenti perderà la vita il 24 ottobre 1918, così come

certificato dall’atto di morte del 06 novembre dello stesso anno. Quel giorno

a nulla sono servite le ultime, disperate invocazioni a Dio del trentenne

artigliere bergamasco, strappato agli affetti e alla sua comunità.

Storia di Giuseppe Opreni

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Giuseppe Opreni

Data di nascita: 28 settembre 1893

Luogo di nascita: Bonate Sopra

Luogo di residenza: Bonate Sopra

Professione: contadino

Statura: 1,62

Capelli: castani

Occhi: grigi

Fondi di riferimento: Archivio “Carte Adriano Prezzati” conservato presso

l’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea

e foglio matricolare del caporale maggiore Giuseppe Opreni conservato

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presso l’Archivio di Stato di Bergamo. L’archivio “Carte Adriano Prezzati”

contiene il taccuino compilato da Giuseppe Opreni tra il 1918 e il 1919, così

come le memorie della sua partecipazione alla Prima guerra Mondiale,

redatte nel 1970.

Il soldato caporale maggiore zappatore Giuseppe Opreni, ancora

diciannovenne, inizia la sua esperienza nell’esercito nel gennaio del 1915 e

partecipa dunque ai fatti della Grande guerra. Il taccuino di memorie redatto

dal soldato tra il 1918 e il 1919, così come il racconto della sua vita al fronte

indirizzato a un non meglio precisato Padre Pierino e datato 1970, aiutano a

ricostruire le vicende di cui è stato protagonista tra il 1915 e il dicembre del

1918. Pure essendo nato nel 1893, Opreni viene richiamato alle armi il 13

gennaio 1915 insieme alla classe del 1895, poiché prima era stato esonerato

dal prestare servizio nell’esercito. Assegnato al 5° Reggimento Alpini, il

soldato narra anzitutto la formazione del Battaglione Stelvio di cui fa parte.

Le compagnie mobili 113ma e 89ma, che integravano il vecchio Battaglione

Tirano, si raggruppano presso l’omonimo paese in provincia di Sondrio e da lì

vengono indirizzate la prima ai Bagni Nuovi, presso Bormio, e la seconda a

Santa Caterina in Valfurva. Durante tutto il 1915 e fino al marzo del 1916 le

due compagnie «fanno bene il suo dovere»: la 113ma, guidata dal Comandante

Patriarca, operando in trincea sul Gavia, sui Ghiacciai dei Forni e su altri

impervi passi come quello dell’Ables; l’89ma, alla cui testa si trova il

Comandante De Giorgi, prestando servizio sulla frontiera svizzera.

Successivamente, inizia la discesa dalle alte vette verso Tirano, dove però i

soldati rimangono per soli 8 giorni prima di partire nuovamente dove il

«Destino» - più volte richiamato da Opreni nel corso dei suoi appunti – le ha

dirette. La meta stavolta è Monte Nero presso Caporetto, sul cui versante

sinistro il 5° Reggimento Alpini dà più volte il cambio ai colleghi dell’8° nella

difesa trincerata della zona. È lì che per 15 giorni Opreni e i suoi commilitoni

scampano «la vita in mezzo alle frane, freddo, fame e tormenta». È solo in

aprile che possono finalmente ridiscendere a valle. Alla 113ma e alla 89ma si

aggiunge a quel punto la 137ma compagnia del Comandante Santini, anch’essa

proveniente da Tirano. L’unione di queste 3 compagnie dà vita al Battaglione

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Stelvio, alla cui guida viene nominato il Comandante Signor Maggiore

Galbiati. Fino al maggio del 1916 il «glorioso Battaglione Stelvio» presta

servizio di copertura al 1° Battaglione Tirano, sulle Alpi Trentine, dandogli in

seguito il cambio e mantenendo la difesa della zona fino alla fine del gennaio

del 1917 tra «sacrifici, e dolori, e resistenza a tutto quel che è successo in

quei mesi». I 40 giorni di riposo trascorsi a Reana, nel Friuli, sono solo il

prodromo a un nuovo spostamento: il Battaglione viene mandato

sull’Altipiano dei Sette Comuni, meglio conosciuto come Altipiano di Asiago.

Ricomincia così la vita di trincea, conclusasi nel giugno del 1917, quando

infuria uno dei più massacranti episodi dell’intero scontro bellico: la battaglia

dell’Ortigara. Su questo monte al confine tra Veneto e Trentino, tra il rumore

delle mitraglie, Opreni riesce comunque a preservare la propria incolumità e

viene poi assegnato al servizio di guardia di trincea su posizioni collocate

proprio di fronte al monte Ortigara. Il Battaglione riceve dunque il cambio e

indietreggia, trascorrendo a valle 50 giorni fatti di lavori di linea. A metà

settembre del 1917, Opreni e gli altri tornano su posizioni montuose già

occupate in precedenza, dove danno il cambio al Battaglione Valtellina. A

metà ottobre il Battaglione Stelvio viene assegnato nuovamente a meno

pericolosi lavori di linea, ma presto arriva il momento di svolgere delicati

servizi di guardia o di reticolato presso la Cima Lozze. È soprattutto la 89ma

compagnia a doversi cimentare in queste imprese. Subito dopo, racconta

Opreni, «vennero poi i giorni brutti della ritirata ai primi novembre.

Lasciando tutte quelle magnifiche posizioni in mano al nemico, ci siamo poi

ritirati a formare una linea di difesa e di resistenza a destra del fiume Brenta

appena sopra Valstagna». Ma nel Comune vicentino il Battaglione rimane ben

poco perché il nemico avanza da tutte le posizioni e il pericolo è troppo alto.

Prende dunque il via l’«eroica» e dispendiosa difesa di Montefiore. Opreni

agogna un riposo che sembra non arrivare mai («le promesse erano assai

buone, ma i fatti invece era molto tristi»), ma alla fine di novembre lo

“Stelvio” può finalmente ritirarsi per un periodo a Bassano del Grappa, dove

giunge peraltro il rinforzo della classe 1899 recentemente richiamata alle

armi.

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Il racconto di Opreni non prosegue in modo lineare e dalle vicende del

Battaglione Stelvio si passa a narrare quelle della 52ma Divisione, alle cui

dipendenze è evidentemente passata a far parte la Compagnia del soldato di

Bonate Sopra. Nel maggio del 1918 la Divisione si compatta a Vicenza. Ne

fanno parte 4 gruppi di Alpini, comprese 4 batterie di artiglieria da montagna

e una compagnia del secondo genio zappatori. Tra maggio e giugno la

Compagnia viene inviata a Marostica per dare supporto alle azioni

sull’altipiano di Asiago. In questa circostanza, Opreni e i suoi compagni si

distinguono in abilità difensive. La loro linea arresta l’avanzata del nemico e

consente il mantenimento di importanti posizioni anche sul Grappa. A metà

settembre la 52ma è scomposta in due gruppi e chiamata in trincea. Per 15

lunghi giorni, esposti al fuoco nemico, i soldati della Divisione compiono

nuovamente il loro dovere «di eroi e resistenza a tutti i sacrifici della guerra».

Ritiratisi prima nei pressi di Marostica per un breve periodo di riposo,

vengono presto trasferiti a Bassano del Grappa, da dove arrivano «a poco a

poco senza saper nulla» sulle rive «del famoso Piave». La marcia dura 2

lunghe notti e alla vigilia dell’avanzata, riferisce Opreni, la Divisione è

provvista di tutto il necessario. Tuttavia, il 27 ottobre 1918, quando l’esercito

italiano tenta di oltrepassare il Piave, il bombardamento nemico è

«immenso» e la Divisione è costretta ad arrestarsi, riprendendo il cammino

soltanto la notte successiva, accompagnata dal «canto delle mitraglie». Il

pomeriggio del 28 ottobre le prime linee della 52ma vengono assaltate, ma la

Compagnia riesce comunque ad avanzare: conquista armi, cattura prigionieri

e oltrepassa numerosi paesi tra cui Valdobbiadene, praticamente raso al

suolo. L’avanzata prosegue il 31 ottobre, su per il monte Barbaria: «3 giorni

di sacrifici e di dolore, tanto per fame, freddo, stanchezza». Poi, improvviso,

«finalmente spuntava quel bel giorno, giorno 4 dell’armistiizio» e la

Divisione, dopo un ulteriore periodo trascorso in provincia di Belluno, può

lasciarsi alle spalle linee, gelo e trincee. Il 16 luglio 1918 Opreni viene

decorato con una croce al merito di guerra in virtù della determinazione del

Comando della 6a armata.

Per quanto si presenti per lo più come una cronaca degli spostamenti e delle

azioni del suo Battaglione, il diario di Giuseppe Opreni è rivelatore delle

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sensazioni e dei sentimenti che buona parte dei soldati hanno sperimentato

al fronte. Di fatto, al di là dei frequenti cenni al «Destino» come motore delle

azioni umane – elemento che fa parte della mitologia guerresca nella sua

funzione di evasione quasi esoterica dalla sconvolgente e crudele modernità

cui si assiste nel corso del conflitto armato –, colpisce la profonda umanità

che emerge dai ritratti dei suoi superiori abbozzati dal soldato. Il Generale

Brigadiere Pesana viene descritto come «uomo di cuore, e di fiducia e

amorevole verso i soldati»; analogamente, l’altro Generale Brigadiere (del

quale Opreni non riporta il nome) è «un cuore calmo, di sciensa e amorevole

verso di colui che avevano sotto i suoi comandi, e specialmente per i soldati».

In questa prospettiva è opportuno sottolineare che nelle testimonianze di

Opreni mancano riferimenti patriottici e che il più volte evocato «eroismo»

dei soldati non va ricercato tanto nelle loro doti militari o nell’onorevole

servizio reso all’Italia nella battaglia contro il nemico, quanto nella

umanissima capacità di sopravvivere a una guerra che «si faceva col freddo e

tormenta e valanghe». A riprova del suo sentimento probabilmente anti-

interventista e del suo desiderio di tornare alla normalità di un tempo

scandito da famiglia, lavoro e partecipazione alla vita della comunità, Opreni

apre il suo diario di guerra con un prologo dai toni marcatamente sarcastici

in cui riecheggia l’eco della battaglia dell’Ortigara. Paragonato alla festa

artigiana, lo scontro viene presentato come una «zona del divertimento»

dove «la paga e poca, e il divertimento e molto». Il menù di questa festa

surreale è composta da un «antipasto di pallottole», da un primo piatto di

«scheggie di granata» e poi ancora da «bistecche di bombe di aeroplano

incendiarie», mentre il ballo è diretto dalla «signorina mitragliatrice» e

dall’«onorevole reticolato». L’ironica lamentela finale per la sete, i pidocchi e

la fatica delle marcie in montagna è il più significativo epilogo per la storia di

un giovane come tanti: soldati per qualche anno, ma vittime per sempre della

Grande Guerra, luogo ideale in cui la modernità industriale e le sue

contraddizioni si sono manifestate duramente come mai era accaduto nella

storia.

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Storia di Filippo Animelli

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Filippo Animelli

Data di nascita: 17 gennaio 1895

Luogo di nascita: Ambivere

Luogo di residenza: Ambivere

Professione: giardiniere florovivaista

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento: Giampiero Valoti, “Non più nulla si calcolava la vita…”:

la memoria della Grande Guerra di Filippo Animelli, in “Studi e ricerche di

storia contemporanea”, n. 35 (Giugno 1991), pp. 28-46. Questo saggio è

costruito attorno al materiale diaristico redatto da Filippo Animelli e

conservato presso l’archivio “Carte Giampiero Valoti” dell’Istituto

Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Si

vedano anche le informazioni contenute in Mario Pelliccioli (a cura di),

Bergamo negli anni della prima guerra mondiale: archivi e documenti, Ex Filtia

n. 4, Quaderni della Sezione archivi storici della Biblioteca Civica ‘A. Mai’ di

Bergamo – Supplem. al n. 4 1992 di «Bergomum. Bollettino della Civica

Biblioteca», pp. 38-39.

Primo di 9 tra fratelli e sorelle, Filippo Animelli nasce ad Ambivere il 17

gennaio 1895. Il padre, Pietro, rientra a Bergamo dopo un periodo di

emigrazione lavorativa in Svizzera. Filippo – in ragione delle ristrettezze

economiche di una famiglia di origine contadina – può frequentare soltanto la

prima elementare e senza nemmeno concluderla. Garzone da un ciabattino

prima e manovale poi, si impiega stabilmente come giardiniere, occupazione

che mantiene anche dopo la partecipazione alla Prima Guerra Mondiale.

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Nel gennaio del 1915, il ventenne Filippo Animelli parte infatti per le armi.

Assegnato all’87° Reggimento di fanteria con stanza a Siena, durante le

esercitazioni si distingue per la mira straordinaria, caratteristica che gli vale

l’incarico di tiratore scelto. Il 16 maggio gli viene consegnata la divisa

militare e il 30 dello stesso mese si trova a Bassano, dove risiede per un paio

di mesi nell’attesa di essere inviato al fronte. La partenza avviene alla fine di

luglio: destinazione Monfalcone, dove infuria la battaglia dell’Isonzo e la

prima linea ha bisogno di forze fresche. È lì che «si sente il puzzo dei

cadaveri» e ha inizio «il sacrificio della trincea». Il violento attacco austriaco

dell’ottobre del 1915 trova impreparato l’esercito italiano. Animelli vede

davanti a sé alcuni compagni cadere e ne rimane profondamente scosso. La

sua compagnia ottiene così dieci giorni di riposo a San Canzian d’Isonzo. Nel

frattempo, però, si tiene la terza battaglia sul fiume e così il soldato viene

richiamato anzitempo in prima linea. I rinforzi non fruttano i risultati sperati

e l’esercito italiano continua a soccombere. L’autunno sull’Isonzo è

particolarmente piovoso, il che rende ulteriormente complicate le condizioni

di vita dei soldati. Tutti bramano ardentemente il riposo e la licenza, pensieri

che aiutano nei momenti di maggiore scoramento. Purtroppo, per Animelli la

licenza non arriva e nel gennaio 1916 è di nuovo in trincea. Scampato al

pericolo del contrattacco nemico avvenuto il 15 gennaio, il ventenne di

Ambivere può finalmente tornare a Bergamo per 20 piacevoli giorni.

Riconvocato successivamente sull’Isonzo, svolge svariati servizi operativi.

Nel maggio del 1916, Animelli è tra le truppe richiamate dal Carso ad Asiago

per ricacciare indietro gli austriaci dall’Altipiano. È in Trentino che il fante

bergamasco vive i momenti più intensamente drammatici della sua

esperienza di guerra. Il 19 giugno, svegliato nel cuore della notte, viene

comandato di partecipare a un assalto: «io e d’altri miei amici si calcolava che

al grido di Savoia occorreva fare come essere pazzi», riferisce in merito

Animelli. L’assalto alla baionetta è più che altro un massacro: Salvatore

Alatine, suo compagno di Perugia, viene ferito a una gamba. Animelli prova a

soccorrerlo nonostante l’incessante fuoco nemico, salvo poi darlo in custodia

a un altro commilitone che, tuttavia, tornando verso un avamposto cade

stremato per la ferita alla testa riportata in battaglia. Il bergamasco ha

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miracolosamente salva la vita: riparatosi in una buca nel terreno per ben 17

ore, si difende ponendo la vanghetta come scudo. I colpi di moschetto di un

cecchino austriaco che ne ha individuata la posizione fanno pensare al

soldato italiano di essere giunto alla fine dei suoi giorni, ma mentre dai

compagni si levano grida di aiuto e di dolore, Animelli non viene colpito. Ha

rischiato l’assideramento ed è dolorante pressoché ovunque. Ancora peggio è

però venire a conoscenza di una terribile verità: è lui l’unico sopravvissuto

della sua compagnia. Sull’Altipiano si susseguono ugualmente gli insensati

assalti italiani alle fortificazioni austriache. Gli esiti, senza il supporto

dell’artiglieria ancora in viaggio dal Carso, sono ovviamente negativi e le

perdite assai ingenti. Animelli viene dunque destinato a una sezione di

mitragliatrici. La guerra prosegue e non si risparmia l’uso di gas asfissianti e

bombarde. Il giovane bergamasco è esposto a queste esalazioni nocive e si

ammala. Ricoverato a Marostica e poi a Vicenza, non migliora. Trasferito a

Modena, un ufficiale medico lo cura con la giusta terapia e lo guarisce. La

licenza di 30 giorni per convalescenza è un sollievo per il soldato.

Il 5 febbraio 1917 Animelli torna in zona di guerra e più precisamente nella

trincea di Vallarsa, sul fronte trentino. Il rigido inverno mette a dura prova la

resistenza dei soldati. Dopo 20 lunghi giorni di trincea, Animelli riceve il

desiderato riposo. Tre mesi dopo, la brigata del mitragliere bergamasco deve

trasferirsi di nuovo sull’Isonzo, dove le gerarchie militari italiane hanno

ordinato l’ennesima offensiva. Animelli fa parte del reparto di rinforzo ai

soldati che assaltano il monte Santo e con coraggio si avventura fino

all’Isonzo per portare rifornimenti di pane e acqua ai compagni della trincea,

stremati dalla fame e dalla sete, nonché provati psicologicamente dalla

terribile distesa di cadaveri che li circonda. Gli 8 giorni di battaglia sono un

autentico «martirio». Animelli ottiene una licenza-premio di 20 giorni per

avere svolto il proprio dovere sul monte Santo. Il 15 giugno rientra a

Bergamo e nell’ottobre del 1917 si trova però nella conca di Plezzo, lì dove

prende le mosse l’attacco conclusosi con la clamorosa disfatta di Caporetto.

Impegnato sul monte Rombon, Animelli viene dispensato dai servizi pesanti

per motivi di salute e diventa telefonista della compagnia. Il 24 ottobre

l’annunciato attacco austro-tedesco diventa realtà: gas tossici prima e fuoco

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di distruzione poi fanno piazza pulita della difesa italiana. Smarrimento e

disordine regnano sovrani. Privi di un comando preciso, i soldati italiani sono

infatti disorientati. Animelli viene catturato come prigioniero di guerra. Se fin

lì il giovane bergamasco aveva subito se non con fiducia quanto meno con

rassegnazione le vicende della guerra, da Caporetto in poi sono la disillusione

e un senso di tradimento a impadronirsi delle sue emozioni.

I numerosi prigionieri di guerra, nell’ordine delle centinaia di migliaia,

iniziano una lunga e atroce marcia verso est. Giunto a Lubiana, Animelli

risponde ai motti di scherno degli austriaci che indicano agli italiani quanto

lontana sia Trieste: «va fa in culo te e chi vuole Trieste». Trasferito al campo

di concentramento di Dunaszerdahely, in Ungheria, il giovane bergamasco

conosce la fame. Più volte tenta evasioni momentanee per procacciarsi del

cibo supplementare in cambio di vestiti. Il giorno in cui, con un compagno,

tenta una vera e propria fuga, le guardie lo raggiungono e – probabilmente

mosse a compassione – gli risparmiano la vita limitandosi a percuoterlo con il

calcio dei fucili. Ma Animelli non si perde d’animo e il 24 dicembre 1917 ci

riprova: unendosi alla corvée degli ufficiali italiani che va a fare la spesa,

riesce a sfamarsi. Scoperto, viene interrogato in merito alla fuga di due

ufficiali italiani. Animelli si rifiuta di parlare e viene pesantemente picchiato.

Svenuto, viene ricondotto in cella, ma il giorno dopo prende ancora una gran

quantità di botte perché orgogliosamente accusa i gendarmi di appropriarsi

dei viveri destinati ai prigionieri. Le prospettive sono funeste, ma il soldato

italiano sopravvive alla guerra e alla prigionia, rientrando a Bergamo alla fine

del conflitto. Ripresa l’attività di florovivaista, si sposa nel 1926 con Maria

Caterina Boffelli, dalla quale ha tre figli.

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Storia di Pietro Bono Tagliaferri

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Pietro Bono Tagliaferri

Data di nascita:

Luogo di nascita:

Luogo di residenza: Pezzolo, frazione di Vilminore di Scalve

Professione:

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento: Diario di Pietro Bono Tagliaferri, redatto tra il

febbraio del 1917 e il maggio del 1920. Una fotocopia del diario è conservata

nell’archivio “Carte Agostino Morandi” presso l’Istituto Bergamasco per la

Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea. A causa di incongruenze tra

le rubriche e i ruoli matricolari conservati presso l’Archivio di Stato di

Bergamo, non è stato possibile reperire dati anagrafici più precisi sul soldato.

Residente a Pezzolo, frazione del Comune di Vilminore di Scalve (BG), Pietro

Bono Tagliaferri viene chiamato alle armi nel 1917. Privo di riferimenti

diretti a fatti d’armi, il suo diario è il resoconto delle peregrinazioni cui è

stato costretto tra il 1917 e il 1920, nonché una testimonianza viva delle

difficoltà ambientali e fisiche sperimentate dai soldati della Grande Guerra.

Tra il febbraio e il maggio del 1917 rimane presso la caserma di Bergamo.

Trasferito a Milano e rientrato poi nel capoluogo orobico, viene assegnato al

17° Reggimento Bersaglieri della caserma di Brescia. Presto passa a Fanteria

e si incorpora al 5° Reggimento Alpini di Edolo (BS). Il 27 giugno 1917 torna

fugacemente a Bergamo, presso la caserma Esperia, ma subito dopo gli viene

imposto di abbandonare la divisa di miliziano territoriale per indossare

definitivamente quella di alpino. Tra il 30 giugno e il 17 novembre 1917 si

sposta da una montagna all’altra, scalando il Mortirolo, costeggiando il lago

del Baitone e giungendo in vetta al Passo della Regina. «Per causa della

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famosa ritirata dalle Api Trentine fino al Piave», a partire dallo stesso 17

novembre passa tra le truppe mobilitate e il 18 dello stesso mese parte per

Varese. Il 20 novembre viene destinato al fronte veneto. Attraversate Brescia

e Verona, si ferma a Caprino Veronese sino al 25 novembre, quando giungono

nuovi ordini superiori: all’imbrunire di quel giorno parte dal «bel paesetto» e

il giorno dopo raggiunge Valstagna prima e San Gaetano poi, stavolta in

provincia di Vicenza. Lì viene integrato nella 24ma Compagnia del Battaglione

Valtellina. Resta a San Gaetano sino al 17 dicembre 1917, quando parte per il

Col Caprile. Arriva sino ai piedi del Colle Moschin, dove trascorre un’intera

nottata in mezzo alla neve. La mattina successiva riesce a procurarsi un

misero riparo in mezzo «alla neve ed alle roccie vive senza un piccolo

atresso» e li resta «fino la sera del 19 senza rancio, con una galetta e una

scatoletta di carne, in mezzo alla neve e sotto l’acqua». La sera del 19

dicembre 1917 torna a fondo valle e poi risale, fermandosi tra il Caprile e il

Moschin. È in queste zone che disimpegna compiti operativi fino al marzo del

1918. Di quell’esperienza racconta: «Passai tre mesi con una fame da lupo

senza poter comperare per 5 centesimi di alimento». Sceso dal Caprile,

attraversa il fiume Brenta e fa tappa nuovamente a San Gaetano la notte tra il

30 e il 31 marzo 1918. Si avvia dunque verso il Sasso Rosso, nelle Alpi Retiche

Meridionali. Cammina sotto la neve sulla roccia a picco e incontra un amico

che come lui proviene dalla Valle di Scalve, tale Lazzaroni del Comune di

Colere. È alla sua compagnia che il gruppo di cui fa parte Tagliaferri sta per

dare il cambio. Rimane in questa zona di guerra fino al 23 maggio 1918,

lavorando sotto il mirino puntato dei nemici, distanti non più di 3 metri:

«dico due o tre metri sempre migliorando le condizioni che nulla c’era di si

nascondere la testa, e a dire la verità era più prudente il nemico». La mattina

del 23 maggio scende verso fondo valle e riattraversa la provincia di Vicenza

passando per Valdistagna, Campese e altri paesi sino ad arrivare nei pressi di

Bassano del Grappa, da dove parte a bordo di un camion con direzione

Vicenza. Spedito a lavorare a Sanbonifacio, fa rientro a Vicenza e vi rimane

sino alla prima licenza, ottenuta a ridosso del giugno del 1918. A questo

proposito, Tagliaferri scrive:

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Anche là mi facevano lavorare da mattina a sera, fino che è arrivato quel’ giorno beato di

venire in licenza, e quasi lo anche finita. Insomma, la vita militare in tempo di guerra è assai

brutta.

La «continuazione del martirio», così come la definisce Tagliaferri ma senza

appellarsi alla retorica di santificazione della guerra che allignava negli

ambienti interventisti, comincia il 17 giugno 1918, quando – partito da

Boario, in provincia di Brescia – raggiunge una volta ancora Vicenza. Fatica a

trovare il suo Battaglione e marcia in solitario sia il 18 che il 19 giugno,

sostando una notte a Fontanelle, frazione del Comune di Conco. Proprio alle

Bocchette di Conco si ricongiunge con la sua Compagnia. È di stanza in questo

paese sino al 4 luglio. Poi viene il momento della trincea: sul Col del Rosso,

sull’altipiano di Asiago, dove rimane per quasi un mese. La notte del 27 luglio

la sua Compagnia ottiene il cambio e riscende verso la frazione di Santa

Caterina di Conco. Il 24 settembre 1918 torna alle Bocchette e gli viene

concessa una seconda licenza.

Il 10 ottobre 1918 raggiunge la sua Compagnia al Ponte d’Astico, sulla strada

per Bassano del Grappa. Dal 16 al 23 dello stesso mese è a Castiglione, sul

Brenta. Cammina una notte e una mattina per raggiungere la provincia di

Treviso. La notte del 27 ottobre è nuovamente in marcia verso il Piave.

Attraversa il fiume su piccoli ponticelli ancora in costruzione e «sempre

ribaltati in aria dalle ultime cannonate austriache». Il 29 ottobre inizia l’ardua

ascesa delle montagne circostanti il Comune di Valdobbiadene, portando un

pesante zaino in spalla e praticamente digiuno. Giunto alla vetta, può

finalmente ristorarsi, sebbene soltanto con mezza scatola di carne e una

galletta. Attraversa altre montagne di cui scrive di non ricordare il nome e

scende per il loro versante destro verso la valle. La mattina del 30 ottobre la

sua Compagnia deve attraversare il Piave dalla parte di Belluno, ma la

quantità d’acqua impedisce il transito. La mattina dopo la Compagnia si

sposta nel luogo in cui si trovava il vecchio ponte che l’esercito austriaco

aveva fatto saltare per impedire il passaggio agli italiani e da lì Tagliaferri e i

suoi commilitoni riescono a creare un primo varco in mezzo all’acqua. Il 3

novembre raggiungono la contrada di Menin, frazione di Cesiomaggiore,

sempre nel bellunese, e la mattina successiva, zaino in spalla, Tagliaferri si

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dirige verso le montagne retrostanti il Cadore. Fatta tappa a Toschian, altra

frazione di Cesiomaggiore, giunge «la chiara notizia che alle 4 pomeridiane

cessavano le ostilità, e che l’esercito austro-ungarico era sfasciato».

L’armistizio è firmato e la guerra conclusa. Non cessa, tuttavia, il lungo

percorso del soldato. Rimane a Cesiominore sino al 7 dicembre 1918. Poi

supera Feltre e Montebelluna, arrivando sopra Treviso, dove è di stanza sino

al 17 dello stesso mese. Superati Conegliano, Pordenone e altri paesi più

piccoli, trova dimora a Pagnacco, in provincia di Udine. È lì che resta sino al

26 gennaio 1919. Marcia altri sei giorni attraversando Udine, Cividale del

Friuli e Caporetto, fermandosi poi a Piedicolle. Torna «coi quadrupedi» a

Udine perché assegnato a lavori agricoli. Tra il febbraio e il marzo del 1919 si

sposta diverse volte, sempre in Friuli, e fa rientro a Pagnacco il 18 marzo. Gli

viene quindi richiesto di recarsi a Caporetto per portare foraggio alla località

di Conca di Plesso, dove si ferma sino al 25 aprile. Di nuovo a Pagnacco prima

e a Piedicolle poi, ottiene una terza licenza e torna nella sua Valle di Scalve.

Scaduta la licenza, Tagliaferri è a Udine il 19 giugno 1919. Tornato a

Pagnacco, riceve l’ordine – come del resto tutto il reparto distaccato – di

riannettersi al corpo. Attraversati Caporetto e Tolmino, viene aggregato alla

69ma Colonna Carreggio e si divide spesso tra Udine e Cividale «pel trasporto

delle vivande e viveri pel lo spaccio cooperativa della 52ma divisione che era

di stanza a Caporetto». Tornato al Battaglione, continua il lavoro di

rifornimento alla Compagnia. Il 13 ottobre 1919 arriva – ed è per Tagliaferri

motivo di grande sollievo – l’ordine di scendere dalla montagne innevate. Il

Battaglione Vicenza sostituisce il Battaglione Valtellina e il 25 ottobre 1919

Tagliaferri può iniziare una serie di viaggi in treno, talvolta oltre confine, che

lo conducono il 9 gennaio 1920 a Bergamo, da dove può facilmente

raggiungere Clusone prima e Pezzolo poi. In calce al suo diario, provato dalle

fatiche, dalla fame e dalla povertà della guerra, Tagliaferri scrive: «Beata la

borghesia e chi può goderla».

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Storia di Enrico Ondei

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Enrico Ondei

Data di nascita: 17 aprile 1887

Luogo di nascita: Credaro

Luogo di residenza: Credaro

Professione: muratore

Statura: 1,63

Capelli: castani

Occhi: grigi

Fondi di riferimento: Archivio “Carte Giacomina Ondei”, conservato presso

l’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea,

foglio matricolare e ruolo matricolare del soldato Enrico Ondei conservati

presso l’Archivio di Stato di Bergamo. Le “Carte Giacomina Ondei”

contengono, tra gli altri documenti, una copia della fitta corrispondenza che il

soldato ha intrattenuto con la moglie durante la Prima guerra Mondiale. Si

vedano anche le informazioni contenute in Mario Pelliccioli (a cura di),

Bergamo negli anni della prima guerra mondiale: archivi e documenti, Ex Filtia

n. 4, Quaderni della Sezione archivi storici della Biblioteca Civica ‘A. Mai’ di

Bergamo – Supplem. al n. 4 1992 di «Bergomum. Bollettino della Civica

Biblioteca», pp. 29-32.

L’esperienza di militare è durata lo spazio di un anno per il ventinovenne

bergamasco Enrico Ondei. Chiamato alle armi il 6 novembre 1915 e

assegnato al 25° Reggimento Fanteria, ha infatti perso la vita il 26 novembre

1916 sul Monte Mosciagh, nel corso di uno dei numerosi e sanguinosi

combattimenti dell’Altipiano di Asiago. La ferita all’addome procurata in

battaglia gli provocò un’inarrestabile emorragia che lo condusse alla morte.

La sua vita di soldato e di uomo è ripercorribile grazie alla corrispondenza

inviata alla moglie dalla zona di guerra e si contraddistingue per l’assoluta

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mancanza di eccezionalità. La storia di Ondei è la storia di molti uomini

impegnati nel corso della Prima guerra Mondiale. Non vi sono nelle sue

lettere cenni espliciti alle difficoltà della vita al fronte, né il soldato si lascia

andare a considerazioni sulle proprie emozioni. Le più immediate urgenze

che si riflettono nella sua scrittura riguardano il tentativo di proteggere gli

affetti. Anzitutto, il muratore di Credaro rassicura sistematicamente la moglie

circa le sue condizioni di salute e le fornisce indicazioni sulla gestione del

patrimonio familiare e dell’attività agricola. In secondo luogo, al fine di

assecondare il sempre più intenso desiderio di incontrarlo, cerca di

convincere la sua sposa che presto gli sarà possibile tornare in licenza,

mentre in realtà il desiderato permesso non arriva e l’ansia del distacco si fa

per la coppia progressivamente più forte. Infine, ed è questo un elemento di

fondamentale importanza poiché si tratta di uno dei più ricorrenti e

significativi topos della letteratura popolare prodotta dai soldati della Grande

Guerra, Enrico Ondei si appella con cristiana rassegnazione al potere divino,

certo che soltanto affidandosi al Dio in cui crede gli sarà possibile tornare a

casa. La fede religiosa, insieme con l’amore che prova per la moglie e la

piccola figlia, è la molla che alimenta la martirologica pazienza con cui si

sopportano e subiscono le intemperie atmosferiche, le durezze della vita

militare e i pericoli degli scontri a fuoco. Si giustifica così l’ossequiosa

obbedienza nei confronti dei superiori, l’incrollabile fiducia nelle loro parole

e la vana speranza di vedere firmato l’armistizio. Come per migliaia di suoi

compagni, non è dunque una consapevole e appassionata retorica patriottica

a orientare le giornate al fronte del fante Enrico Ondei. Se mai, l’unico,

semplice e incessante pensiero del giovane bergamasco è rivolto al proprio

luogo di provenienza, alla propria famiglia, a un disperato bisogno di pace e

libertà distante dalla fame, dal freddo e dallo stridente concerto della

mitragliatrice. È in questa apparente banalità che risiede uno dei più profondi

significati dell’esperienza di quanti – inconsapevolmente – furono sradicati

dalle proprie terre e mandati a morire in prima linea durante quella Grande

Guerra che per prima ha determinato l’ingresso dell’uomo moderno in una

società pienamente industriale, globale e spietata. La figura del martire che

qua e là emerge dagli scritti di Ondei diventerà, insieme al mito virile del

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soldato vittorioso, l’immagine-simbolo del conflitto nell’immediato

dopoguerra, sublimata nel milite ignoto, immarcescibile figura che tuttora

abita l’immaginario e la memoria collettiva del popolo italiano.

Storia di Alessandro Francesco Gottardo Quarenghi

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Alessandro Francesco Gottardo Quarenghi

Data di nascita: 3 maggio 1898

Luogo di nascita: Gandino

Luogo di residenza: Gandino prima, Endine Gaiano poi

Professione: prestinaio

Statura: 1,68

Capelli: castani

Occhi: cerulei

Fondi di riferimento: ruolo matricolare di Alessandro Francesco Gottardo

Quarenghi conservato presso l’Archivio di Stato di Bergamo.

Tra i soldati impegnati durante la Prima guerra Mondiale vi furono quanti

seppero resistere alle probanti fatiche fisiche e psicologiche del conflitto,

prodigandosi orgogliosamente in favore del proprio esercito. Qualcuno riuscì

persino a esibirsi in azioni al limite dell’eroismo: piccoli momenti di orgoglio

che a fronte di quanto perduto nel corso della guerra hanno fruttato

riconoscimenti ufficiali e decorazioni militari.

Una di queste storie è quella del prestinaio bergamasco Alessandro

Francesco Gottardo Quarenghi. Nativo di Gandino, il diciannovenne

Quarenghi abbandona le belle montagne della sua Valle Seriana nei primi

mesi del 1917. A marzo viene incorporato al deposito del 2° Reggimento

Fanteria e nel giro di qualche giorno si ritrova in zona di guerra. L’inflessibile

rigore e l’osservanza della disciplina militare gli valgono a giugno i gradi di

caporale e – poco dopo – quelli di caporale maggiore presso il 117°

Reggimento Fanteria. Nel maggio del 1918, impegnato sull’Altipiano di

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Asiago, dimostra sul campo di avere meritato queste promozioni: infatti,

come si può evincere dalla motivazione che giustifica l’assegnazione della

medaglia d’argento al valore militare, sulla Cima Cischietto il Quarenghi

con tre soli uomini, con lancio di bombe a mano ricacciò il nemico, che, per un varco già

esistente nel reticolato, era penetrato nella linea, e sotto intenso fuoco di fucileria, di pieno

giorno, riuscì a chiudere il varco, collocando il cavallo di frisia.

Insieme con la medaglia, a Quarenghi viene garantito un soprassoldo di 250

lire annue. Ottenuto il congedo illimitato nel dicembre del 1919, il giovane

rientra a Bergamo ed è restituito all’affetto dei suoi cari. Sul suo ruolo

matricolare si può leggere la dicitura «durante il tempo di guerra ha servito

con fedeltà ed onore ed ha tenuto buona condotta».

Storia di Attilio Pessina

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Attilio Pessina

Data di nascita: 10 aprile 1898

Luogo di nascita: Almenno San Salvatore

Luogo di residenza: Almenno San Salvatore

Professione: falegname

Statura: 1,80

Capelli: castani

Occhi: grigi

Fondi di riferimento: ruolo matricolare di Attilio Pessina conservato presso

l’Archivio di Stato di Bergamo.

La guerra non è mai soltanto quella delle grandi azioni eroiche, dei

combattimenti aerei o dei bombardamenti. E, con riferimento alla Prima

guerra Mondiale, lo scontro bellico non è stato soltanto il logorante confronto

tra eserciti disposti lungo chilometriche linee di trincea poste l’una di fronte

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all’altra. Dietro i reparti avanzati, nelle improvvisate caserme e negli

estemporanei accampamenti, si nasconde infatti la guerra di quei numerosi

soldati che si adoperano alacremente in lavori manuali a sostegno

dell’industriosa macchina bellica. Spesso costretti a condizioni di lavoro

precarie, soprattutto dal punto di vista delle misure di sicurezza adottate,

questi soldati-artigiani hanno l’occasione di trasporre nel contesto della

guerra le professioni in cui più sono abili, ma nello stesso tempo sono esposti

al rischio di gravi infortuni. Le mutilazioni di guerra, insomma, non sono

state prodotte sempre dalle granate o dai proiettili, ma talvolta anche da

comunissimi strumenti di lavoro.

Questa storia è la storia del falegname bergamasco Attilio Pessina. Dichiarato

soldato di seconda categoria in congedo illimitato nel gennaio del 1917, il

diciannovenne Pessina viene richiamato alle armi il mese successivo.

Assegnato al deposito del 2° Reggimento Artiglieri da montagna, viene

trattenuto alle armi anche nell’agosto del 1917 per ragioni di mobilitazione.

Ed è il 17 di questo stesso mese, mentre prosegue il suo vecchio mestiere di

falegname presso la caserma di Vicenza, che qualcosa va storto: la lama

piallatrice sfugge per un attimo alle mani sapienti del Pessina e gli provoca

profonde ferite da taglio. Il risultato è l’asportazione della terza falange del

medio e dell’anulare della mano sinistra. Altresì riporta ulteriori ferite

all’indice e al medio della stessa mano. Una mutilazione che ne limiterà per

sempre l’elasticità manuale e dunque l’attività di falegname. L’esercito gli

concede l’autorizzazione a fregiarsi di un distintivo d’onore per ferita

riportata in guerra, oltre che della medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia e

della medaglia interrelata della vittoria.

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Storia di Giuseppe Carlo Bonomelli

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Giuseppe Carlo Bonomelli

Data di nascita: 19 marzo 1898

Luogo di nascita: Bolgare

Luogo di residenza: Bolgare

Professione: contadino

Statura: 1,66

Capelli: castani

Occhi: castani

Fondi di riferimento: ruolo matricolare di Giuseppe Carlo Bonomelli

conservato presso l’Archivio di Stato di Bergamo.

Diversamente da quanto riportato da una storia ufficiale volta a consacrare

apologeticamente il fronte come lo scenario su cui si sono misurate per la

prima volta l’unità e la maturità di una giovane nazione, l’Italia viveva la

Grande Guerra in preda all’impreparazione militare del suo esercito e

dovendo sforzarsi di costruire una comunità di soldati devoti al culto della

patria e del Re. Questi stessi soldati, tuttavia, erano in molti casi operai e

contadini capaci magari di esprimersi soltanto nel loro dialetto. Di fatto, la

Prima guerra Mondiale è stata la tragedia di generazioni di giovani analfabeti

ignari dei fragili equilibri della diplomazia internazionale e dei radicali

cambiamenti che il conflitto avrebbe portato nella storia del Paese e

dell’umanità tutta. Di qui l’alto tasso di renitenza alla leva, di diserzione o

addirittura, nei casi più estremi, di autolesionismo. Insubordinazioni di

questo genere costavano care a chi se ne rendeva protagonista: processi

sommari, condanne al carcere militare o persino esecuzioni erano quasi

all’ordine del giorno tra le file dell’esercito tricolore. Per non incappare in

queste feroci pratiche repressive, numerosi soldati accusati di diserzione

rientravano poi nei ranghi dei rispettivi reggimenti, sacrificandosi per la

patria e scampando le galere o persino punizioni peggiori.

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È questo il caso del bergamasco Giuseppe Carlo Bonomelli, un uomo comune

che come tanti altri ha attraversato con la sua storia quegli anni di povertà,

paura e morte. Nato nel 1898 nel Comune di Bolgare, il Bonomelli fa parte

dell’ultima generazione di giovani inviati in trincea. Figlio di contadini e

analfabeta, è soldato di terza categoria dotato di congedo illimitato nel

gennaio del 1917. Pochi mesi dopo, a marzo, viene però richiamato alle armi

e aggregato al 5° Reggimento Alpini di Edolo, in provincia di Brescia. Subito

raggiunge la zona di guerra e nel luglio dello stesso anno viene trasferito

presso il reparto mitraglieri FIAT del suo Reggimento. L’assenza

ingiustificata da questo stesso reparto tra il 21 luglio e il 26 luglio 1917 gli

vale l’accusa di diserzione. Un mese dopo, il 27 agosto, viene condannato a 2

anni e 2 mesi di reclusione e al pagamento delle spese processuali. Tuttavia,

la sua carriera di militare non si chiude qui. Continua a prestare servizio tra i

mitraglieri fino al 4 gennaio 1919, quando a guerra ormai conclusa viene

spostato nell’8° Reggimento Artiglieria. Il congedo illimitato arriva soltanto a

ridosso del 1920. L’anno successivo, ottenuto l’attestato di fedeltà e onore

alla patria, viene amnistiato dal reato di diserzione e può finalmente tornare

alla sua professione di contadino.

Storia di Carlo Locatelli

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Carlo Locatelli

Data di nascita: 25 dicembre 1893

Luogo di nascita: Bergamo

Luogo di residenza: Bergamo

Professione: ragioniere

Statura:

Capelli:

Occhi:

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Fondi di riferimento: circolare compilata dalla famiglia e raccolta dalla

Commissione Onoranze ai Caduti in Guerra, ora conservata presso l’archivio

omonimo della biblioteca civica “Angelo Mai”. Alla circolare è accluso un

documento dattiloscritto, probabilmente redatto dalla famiglia stessa del

soldato, da cui sono state tratte le informazioni che seguono.

Carlo Locatelli nasce a Bergamo il 25 dicembre 1893. Amante della montagna

e delle sue bellezze naturalistiche, nonché abile sciatore, si diploma

ragioniere e trova impiego in un istituto bancario. Non appena viene a

conoscenza della dichiarazione di guerra dell’Italia, decide di arruolarsi come

volontario tra gli Alpini. Raggiunto il grado di Sottotenente di complemento,

viene assegnato alla 310ma Compagnia del Battaglione Cavento presso il 5°

Reggimento. Già nel 1915 si avventura dunque sulle Alpi Retiche Meridionali,

affrontando le asperità dell’Adamello e, soprattutto, dell’Ortler. È in questi

frangenti che la sua grande conoscenza dell’ambiente di montagna e dei suoi

segreti si fa preziosa. Sull’Ortler prende parte a numerose operazioni di

guerra, talvolta guidandole e spingendosi in territorio nemico alla testa di un

gruppo di sciatori al fine di effettuare ricognizioni o distruggere piccoli

avamposti. Particolarmente apprezzato per le sue doti tattiche, per la sua

indole serafica e per la capacità di animare i compagni con parole di acceso

carattere patriottico, spesso occupa le vette più alte conquistate dal nemico

per poi organizzarne la difesa. La sua profonda conoscenza della montagna

gli permette di sfuggire alle insidie delle valanghe e di assumere un ruolo

fondamentale nel preservare l’incolumità dei commilitoni. Nell’autunno del

1917 è impegnato nella ritirata di Caporetto, prima sul Tagliamento e il

Livenza, infine sul Piave. Successivamente opera come istruttore sciatore e

nella primavera del 1918 può finalmente tornare sul Passo del Tonale, la

montagna che lo vide ragazzo, sul cui versante destro partecipa alle azioni

dell’esercito. Il 26 maggio 1918, durante una di queste azioni, cade sotto i

colpi di una mitragliatrice e perde la vita.

Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti da Carlo Locatelli – encomi,

promozione per merito di guerra, croce di guerra italiana, medaglia d’argento

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inglese al valore sul campo di battaglia – spicca la medaglia d’argento al

valore militare, assegnata con la seguente motivazione:

Locatelli Carlo, da Bergamo, sottotenente complemento 5, reggimento alpini. – Benchè [sic!]

fatto segno al fuoco micidiale delle mitragliatrici nemiche, sprezzante di ogni pericolo ed alla

testa del proprio plotone, attaccava risolutamente la posizione avversaria, dando esempio di

spirito di sacrificio e di valore, finché cadeva mortalmente colpito, incitando ancora i suoi

uomini all’assalto. – Valle di Presena, 26 maggio 1918.

Il suo corpo fu sepolto presso il cimitero di Ponte di Legno, con una lapida

commemorativa che recita la seguente epigrafe:

S.Tenente Carlo Locatelli

5° Alpini Batt. Cavento

Comp. 310

Su la cima Presena

Cadeva combattendo da eroe

Nell’azione del 26 maggio 1918

R.I.P.

Storia di Mario Bertuzzi

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Mario Bertuzzi

Data di nascita: 23 febbraio 1897

Luogo di nascita: Bergamo

Luogo di residenza: Bergamo

Professione: studente

Statura:

Capelli:

Occhi:

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Fondi di riferimento: circolare compilata dalla famiglia e raccolta dalla

Commissione Onoranze ai Caduti in Guerra, ora conservata presso l’archivio

omonimo della biblioteca civica “Angelo Mai”. Alla circolare è accluso un

documento dattiloscritto tratto dall’Album a ricordo degli Studenti

Bergamaschi morti per la patria – 1915-1918 (p. 189).

Studente presso l’Accademia “Carrara” delle belle arti di Bergamo, si arruola

volontario allo scoppiare della guerra, stupendo quanti nella sua aria

annoiata avevano sempre intravisto un’indole poco propensa all’azione.

Assegnato dapprima al gruppi di volontari del 5° Reggimento Alpini,

Battaglione Cuneo, viene successivamente trasferito al reparto “Arditi”.

Raggiunta l’età di leva, si incorpora al 2° e poi al 1° Reggimento Alpini.

Trascorre la maggior parte del tempo di guerra in zone estremamente

pericolose e adoperandosi in compiti operativi. Sul Passo del Tonale rischia la

vita a più riprese e non solo a causa del fuoco nemico: sono le intemperie e le

valanghe a minacciarne l’incolumità, senza però intaccarne la salute. Mentre

la tormenta imperversa, Bertuzzi ripercorre la sua vita passata, pensa

nostalgicamente alla sua Bergamo e ai suoi compagni di scuola. Così, nelle

rare ore d’ozio, sfoga il suo talento artistico abbozzando su cartoline postali i

profili caricaturali del nemico e li invia ad amici e conoscenti. Le sue lettere

lasciano trasparire una ingenua inconsapevolezza o, più probabilmente, il

tentativo di allontanare da casa le preoccupazioni della guerra. Il fuoco delle

mitragliatrici, di fatto, fa soltanto da sfondo a episodi briosi o persino a

spensierate novelle da cui trapela il cameratismo tra soldati. In uno dei suoi

scritti, tuttavia, emerge anche un triste ricordo che – con il senno di poi –

assume il nefasto valore di un presagio: evocando la scomparsa di una

compagna di scuola, Bertuzzi si lascia andare a parole di sconforto. La morte

lo coglie di lì a poco nell’infuriare della battaglia, quando – a pochi giorni

dall’armistizio – cade dopo essere stato raggiunto in fronte da un proiettile. È

la notte tra il 30 e il 31 ottobre 1918, sullo Stelvio. Il suo Tenente di Battaglia

e il Reverendo Cappellano del suo Battaglione scrivono «essere egli stato

colpito a morte in un’ardita azione». L’unico resoconto che rimane sulla triste

circostanza sono le parole di un suo compagno di allora:

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Morì da eroe: lo raccolsi cadavere; aveva il fucile insanguinato fino all’alzo. Lo proposi per la

medaglia d’argento, piccola ricompensa pel suo grande valore, pel suo ultimo e grande dono.

Decorato con croce al merito di guerra con diploma datato 1 novembre 1918

dal Comando del 3° Corpo d’Armata, viene proposto per una medaglia

d’argento al valore militare che non è però mai giunta.

Storia di Angelo Luciano Pizzini

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Angelo Luciano Pizzini

Data di nascita: 19 luglio 1895

Luogo di nascita: Brembate Sopra

Luogo di residenza: Bergamo

Professione: studente in Legge

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento: circolare compilata dalla famiglia e raccolta dalla

Commissione Onoranze ai Caduti in Guerra, ora conservata presso l’archivio

omonimo della biblioteca civica “Angelo Mai”.

Studente presso la Regia Università di Torino, Angelo Luciano Pizzini si

arruola alla scuola militare di Modena, dove frequenta il corso per allievi

ufficiali. Non appena consegue il titolo di Sottotenente di Fanteria, viene

assegnato al 60° Reggimento Fucilieri ed è subito impegnato sul fronte

dolomitico. Il più importante fatto d’armi in cui è coinvolto è senza dubbio la

presa del Montucolo austriaco: si distingue in questa occasione per coraggio

e abilità militari. Lanciatosi nella trincea minata dal nemico, disinnesca la

miccia che l’avrebbe fatta esplodere, guidando così i compagni in questa

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difficile operazione. Pizzini subisce prepotentemente il fascino della guerra

aerea, innamorandosi dei velivoli e diventando presto pilota di apparecchi

Farman e Caproni. In poco tempo acquisisce competenze tali da meritare la

nomina di istruttore presso il Campo dell’Aviazione di Malpensa, dove è

stimato anche per le sue qualità di uomo dolce e cordiale. Nel giugno del

1918, durante l’offensiva dell’esercito italiano sul Piave, Pizzini partecipa con

il suo Caproni a ben diciotto bombardamenti aerei e riceve una croce di

guerra come riconoscimento per le sue doti. Ma il 16 agosto 1918, mentre

aleggia nel cielo di Conegliano per recare la posta ai soldati d’oltre Piave, il

suo aereo viene colpito e abbattuto da una granata nemica. Pizzini perde la

vita e – come da comunicazione degli stessi suoi nemici – viene sepolto con

gli onori militari nel cimitero di S. Lucia di Piave. Tra le numerose

manifestazioni di cordoglio ricevute dalla famiglia del caduto, c’è anche

quella dell’Onorevole Chiesa, commendatore generale per l’Aeronautica

Militare. Nella lettera indirizzata al padre del Pizzini, Chiesa scrive:

Nell’altissima forsa [corretto a mano: forza] dell’animo suo le sia di conforto l’ammirazione

pel caduto glorioso il cui nome sarà esempio e sprone alle maggiori fortune dell’aviazione

italiana: onore a lui.

Storia di Eugenio Bruni

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Eugenio Bruni

Data di nascita: 8 febbraio 1890

Luogo di nascita: Milazzo (CZ)

Luogo di residenza: Bergamo

Professione: ragioniere

Statura:

Capelli:

Occhi:

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Fondi di riferimento: circolare compilata dalla famiglia e raccolta dalla

Commissione Onoranze ai Caduti in Guerra, ora conservata presso l’archivio

omonimo della biblioteca civica “Angelo Mai”.

Calabrese, Eugenio Bruni si trasferisce a Bergamo in giovane età e cerca di

concretizzare il desiderio di percorrere la carriera militare. Studia con

assiduità per ottenere la nomina di Sottotenente di Complemento, carica che

gli viene conferita dalla Scuola di Milano. Quando la sua classe – 1890 – viene

congedata dal servizio militare, si iscrive e si diploma presso l’Istituto

Tecnico di Bergamo, acquisendo il titolo di ragioniere. La sua passione per la

carriera militare non viene però meno: frequenta la Scuola Militare di Parma

e consegue il grado di Sottotenente Effettivo. Alla dichiarazione di guerra

dell’Italia all’Austria, Bruni raggiunge i primi nuclei di frontiera con il suo

battaglione di fanteria (78° Reggimento). Le sue doti militari e morali ne

fanno un ufficiale esemplare: scrupoloso osservatore delle discipline militari,

mantiene la calma anche nel corso delle operazioni più rischiose,

distinguendosi altresì per le sue spiccate capacità di consigliere ed educatore.

Trasferito al 226° Reggimento Fanteria, è protagonista dell’offensiva italiana

sul Piave nel maggio del 1917, ma dopo quattro giorni di assalti senza tregua

perde la vita, così come era accaduto poco prima al fratello Luigi, suo

compagno di colonna. La sua figura di uomo e di soldato appare evidente

nelle parole che motivano l’assegnazione della medaglia d’argento in suo

onore:

Sempre primo nei cimenti più ardui guidava la Sua compagnia alla conquista di forti trincee

nemiche costantemente animato da sacro entusiasmo, dopo quattro giorni di lotta, riuniti i

superstiti del Battaglione, cooperava efficacemente al mantenimento delle posizioni

occupate – Hander [?] 23-25 maggio 1917 – aveva già perduto un fratello (Nicola) nell’

[illeggibile] maggio 1916 sul Trentino.

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Storia di Giovanni Mariani

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Eugenio Bruni

Data di nascita: 1 giugno 1892

Luogo di nascita: Bergamo

Luogo di residenza: Bergamo

Professione: ragioniere

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento: circolare compilata dalla famiglia e raccolta dalla

Commissione Onoranze ai Caduti in Guerra, ora conservata presso l’archivio

omonimo della biblioteca civica “Angelo Mai”.

Conseguita la licenza di ragioniere, Giovanni Mariani si iscrive al terzo corso

presso la Regia Scuola Superiore di Agraria di Milano. Allievo altresì del

primo corso Uffici della Scuola militare di Modena, acquisisce il grado di

Sottotenente e viene assegnato al 58° Reggimento Fanteria di Padova. Parte

per la guerra con la celebre Brigata Emilia, costituita dal 119° e dal 120°

Battaglione, ed è impegnato sul Monte Mrzli. Si tratta di un’asperità che

svetta lungo la valle dell’Isonzo, tra la Bainsizza e Caporetto, appena oltre

l’attuale frontiera tra Italia e Slovenia. Lì il Mariani svolge i suoi primi delicati

servizi di pattuglia. Dopo nove mesi dalla nomina di Sottotenente viene già

insignito del ruolo di Tenente Comandante di Compagnia. Successivamente,

si sposta a Gorizia, dove rimpolpa le file della difesa italiana ed è protagonista

della battaglia sul Monte San Marco e sulla contesa quota 126. Nel maggio del

1917 fa parte dell’offensiva che consente all’esercito tricolore di conquistare

il Monte Santo e il Monte Cucco. Con grande orgoglio personale, è in questa

occasione alfiere del suo Reggimento. Il 14 luglio 1917, ancora sulla quota

126 di Gorizia, respinge con la sua compagnia un assalto nemico rievocato

anche nelle pagine del Bollettino del Comando Supremo. In questa

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circostanza è l’unico ufficiale impegnato in battaglia e si guadagna così una

medaglia d’argento al valore militare con la motivazione che segue:

Comandante di un’importante posizione, dava energiche ed opportune disposizioni per

respingere un attacco nemico e rimaneva si un posto avanzato più minacciato finché il

tentativo avversario fu infranto.

La brillante azione gli vale anche una licenza premio, ultima visita alla

famiglia rievocata nelle sue ultime lettere. Modello di disciplina, la sua

Compagnia viene chiamata il 29 agosto 1917 ad appoggiare un assalto del

119° Battaglione Fanteria. È in questa circostanza che Mariani viene proposto

una volta ancora per la medaglia d’argento al valore militare, ma una

pallottola di mitragliatrice lo colpisce all’addome. L’8 settembre, dopo dieci

lunghi giorni di agonia, perde la vita a bordo dell’ambulanza chirurgica n°2.

Storia di Santo Bani

Nome e cognome: Santo Bani

Data di nascita: 5 maggio 1894

Luogo di nascita: Calcinate

Luogo di residenza: Calcinate

Professione: Contadino

Statura: 1,57

Capelli: castani

Occhi: castani

Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati

presso l’Archivio di Stato di Bergamo

Chiamato alle armi nel settembre del 1914, Santo Bani venne arruolato

nell’83° Reggimento Fanteria il 22 maggio del 1915.

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Un anno più tardi venne nominato caporale del medesimo reggimento e

quindi, nel gennaio del 1917, venne trasferito nel 237° Reggimento Fanteria

di Pistoia. Durante un combattimento avvenuto il 25 agosto del 1917 venne

ferito al gomito sinistro tanto seriamente da dover essere trasferito

all’ospedale militare di Caserta il 3 settembre successivo.

Rimase in convalescenza presso il deposito del 22° Reggimento Fanteria fino

al 17 ottobre, quando ottenne una licenza straordinaria di 30 giorni per

ulteriore convalescenza. Rientrerà presso il corpo militare alla fine dell’anno,

ma dovrà essere nuovamente mandato il licenza straordinaria con assegni in

attesa dell’espletamento degli atti medico legali compiuta per lesione

dipendente da causa di servizio. Verrà riconosciuto permanentemente inabile

al servizio militare e inviato in congedo assoluto il 16 settembre del 1918.

Storia di Pietro Fornoni

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Pietro Fornoni

Data di nascita: 27 novembre 1880

Luogo di nascita: Bergamo

Luogo di residenza: Bergamo

Professione: xxx

Statura: xxx

Capelli: xxx

Occhi: xxx

Fondi di riferimento: lettere conservate presso il Museo Storico

bergamasco.

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Nel giugno del 1915, Pietro Fornoni scriveva a Tiraboschi una pagina molto

intensa, con la quale riassiumeva i suoi primi giorni di vita al fronte e

descriveva in maniera molto articolata le azioni in cui si trovò coinvolto il suo

battaglione.

Il giorno 11 corrente si passò una notte d’agitazione e la notte verso la 1 ½ fu dato l’alarmi e

tutti in piedi alla svelta ci portammo al nostro posto, il 68 regg. Alle trincee, l’artiglieria fu

piazzata, e noi soldati terribili fummo schierati sullo stradale per Edolo. Dico che il nemico

aveva tentato di passare il passo di Monticelli; ma non vi riusci perché il proiettore che sta al

forte d’Aola ha visto le mosse e i soldati che lo […] hanno avvistato il comandante del forte

diede subito ordine di far fuoco e da quelle boche non ebbero un momento riposo per

parecchie ore usciva un fuoco terribile che mise un po’ di spavento a tutti; ma che fece il suo

effetto sui nemici i quali ci lasciarono quieti fino al giorno 26. Verso le 9 ½ del detto giorno

ha cominciato a cadere gli snhapel degli austriaci. Ben abbiamo fatto. Ne son caduti 23; ma

solo 6 raggiunsero la meta, cioe uno a 500 metri ancora lontano dove miravano. Pareva la

danza del diavolo. Questa e opera degli spioni che qui ne è piena l’aria tutti i momenti ne

arrestano. Il nemico mirava a distruggere una batteria di grosso calibro arrivata la notte

prima ma come dissi non arrivavano. Visto che non potevano distruggerli o perché i cannoni

non avevano la portata sufficiente o perché gli artiglieri valgano poco, fatto siè che tacquero

e più non si sentirono. Però appena terminato il fuoco nemico cominciò il nostro forte d’Aola

e laltra batteria posta sulla cima Bleis orientale a battere il forte nemico detto di Stino e il

passo di Monticelli. Non vi vollero 23 colpi per battere il nemico! I nostri artiglieri puntatori

sono precisi e con 7 colpi, 6 dei quali smantellarono il forte e proprio l’ultimo colpo fu così

preciso che cadde sul forte colpendo nel cuore (cioe la polveriera) almeno del grand fumo e

materiale che visto saltare in aria.

A questa descrizione Fornoni faceva seguire quella della sua giornata tipo:

La mia vita Militare e fin troppo quieta sarebbe proprio un peccato a lamentarsi però, però

meglio a casa a lavorare. Il mio lavoro ora che sono alla Sanita del 59 battaglione M.T. ( o

Terribile) consiste nel somministrare i medicinali ai malati o portarli all’infermeria colla

barella e niente più. Alla mattina alle 4 ½ mi alzo e subito alla S. Messa (che persi 2 volte

perché non ci fu) e poi vado a prendere il caffè all’albergo della compagnia (dietro a una

stalla) e alle 7 comincia la visita medica dove alle volte si rida anche un po’ e poi si va ai

distaccamenti delle nostre compagnie a visitare gli ammalati che funge da dottore il caporale

Sign. Pietro Carminati della farmacia Pandini. Quanto e buono con noi! Mentre le altre

compagnie lavorano a preporre le strade per passare le artiglierie, trincee, reticolati,

baracche, e montano le guardie; noi però lavoriamo a disinfettare le ferite che si producono e

a bendarle e anche a mandar giù ai poveri ammalati il saporitissimo Oglio di ricino.

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Nelle sue lunghe e dettagliate lettere emergevano la sua fiducia nel successo

dell’Italia e tutto il suo patriottismo, quel motore che motivava ogni suo

sforzo e rendeva tollerabile ogni sofferenza. Per esempio, dopo avere

descritto i momenti difficili vissuti a causa del freddo e del cattivo tempo che

in montagna attanagliavano i soldati anche in estate, Fornoni aggiungeva con

fierezza:

Ma l’Amor di Patria ci fa dimenticare tutto e si sopporta volentieri; e cosi potremo dire; la

patria ci ha chiamati e noi figli d’Italia forte e bella abbiamo cooperato anche a renderla

grande.

Nei mesi successivi continuò numerose lettere al Tiraboschi e, con alcune di

queste, chiedeva che gli venissero inviati gli oggetti di cui aveva bisogno.

Essendo un uomo molto religioso disponeva di un vademecum del cristiano

che, stando ad una lettera del settembre 1915, riscosse un certo successo tra i

suoi commilitoni:

Alcuni ufficiali e sottoufficiali hanno visto il mio vade Mecum del cristiano e tutti lo vogliono

leggere e ne tessono le lodi per le belle preghiere. Tutti lo vogliono, ed io come faccio per

accontentarli? Ed ecco che io faccio lo sfacciato a chiedere a lei anche soltanto un poco di

libretti Vade Mecum per accontentarli. Farà un gran bene e Dio glielo restituirà.

La corrispondenza si mantenne fitta per tutto il 1915, quando Fornoni spedì

gli auguri a Tiraboschi, sottolineando quanto dispiacere provasse nel non

potere essere a casa con la famiglia:

Speravo per le S. Feste di Natale di essere a casa a festeggiarle in seno alla mia famiglia ed in

mezzo ai cari compagni, invece a causa di certe vaccinazioni che dovremo subire non ci è

concesso. Pazienza e rassegnazione, cercherò il modo di poterle festeggiare il più bene

possibile qui in mezzo ai miei compagni d’armi. Non potendo di presenza augurarle le buone

feste ed il buon fine con un miglior principio a mezzo di questa cartolina con tutto il cuore le

auguro a Lei e alle Signorine e a tutti i compagni le buone feste.

A partire dal 1916, però, Fornoni ridusse progressivamente le sue lettere. Era

sempre più chiaro che la guerra sarebbe durata a lungo e la vita al fronte

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acquisiva per lui i caratteri di una strana normalità, facendo venire meno in

lui il bisogno di raccontare. Le lettere dettagliate dei primi tempi vennero

così sostituite da semplici saluti e auguri, accompagnati da qualche eventuale

comunicazione importante. Fornoni rimase al fronte per tutti e quattro gli

anni in cui durò la guerra, riuscendo a ottenere il grado di Caporale di Sanità

del 59° Battaglione della Prima Compagnia di Sanità.

Storia di vita di Elia Bertulessi

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Elia Quarto Giacomo Giovanni Bertulessi

Data di nascita: 20 novembre 1889

Luogo di nascita: Bergamo

Luogo di residenza: Bergamo

Professione: commesso

Statura: 1,67

Capelli: castani

Occhi: castani

Fondi di riferimento: scambio epistolare conservato nel Fondo Marco

Tiraboschi del Museo Storico di Bergamo; ruoli matricolari e fogli matricolari

conservati presso l’Archivio di Stato.

Il 25 agosto del 1916 il soldato Bertulessi scriveva a Mario Tiraboschi:

Dopo diverse tappe sono accampato su una bella collina in un paesotto vicino alla grande

città ora presa in aspettativa di andare in trincea. Godo una magnifica salute il morale e

alto… lo spettacolo del grande movimento è indescrivibile.

La modernità industriale irrompeva insomma nella sua vita in un modo così

sconvolgente da trovarlo privo delle parole necessarie per descrivere quanto

accadeva intorno a lui. Il via vai dei camion, delle auto, dei plotoni che

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contavano centinaia di soldati lasciavano il Bertulessi a bocca aperta,

dandogli la sensazione di assistere ad uno spettacolo, a qualcosa che avesse a

che fare con l’esibizione, l’intrattenimento e la fantasia, più che con la realtà.

Giunto al fronte da poche settimane, nel settembre del 1916 aveva visto

ancora poco e, certamente, non conosceva ancora la guerra nella sua

dimensione più drammatica. Anche per questo scriveva con toni pieni di una

speranza quasi euforica, cercando di tenere alta il morale a se stesso e al suo

intelocutore:

L’erba cattiva non muore mai ed io pure sono di quella specie. Dopo passato e poter tornare

alla mia occupazione con lena e volonta maggiore di prima per compiere il mio dovere

Con questa lettera al Tiraboschi, che era suo datore di lavoro, voleva certo

riconfermare la sua appartenenza a un mondo del quale asseriva con forza di

volere tornare a far parte, con più impegno e dedizione di prima.

Pochi giorni più tardi, però, Bertulessi si ferì accidentalmente. Inizialmente

chiese a due commilitoni di avvisare proprio il Tiraboschi, invitandolo però a

non comunicare nulla alla famiglia, per evitare inutili preoccupazioni. Fino a

quando, pochi giorni più tardi, fu nelle condizioni di scrivere

autonomamente:

non so se la lettera del mio compagno Gattoni che per mio incarico gli dava notizia della dis-

grazia toccatemi le sia pervenuta, ad ogni modo gli dò con questa maggiori particolari. Tutto

contento, dopo aver camminato tutta la notte in cerca del sospirato riposo, giuntovi

impiantai la tenda in quel terreno disegnato cioè vicino a un cimitero e mentre l’ultimavo un

compagno mio legava i fucili al palo di sostegno, disgraziatamente da uno di questi fucili

carichi, non messo in posizione di sicurezza partì un colpo ed io fui ferito alla mano sinistra.

Sulle prime non me ne fui nemmeno accorto non accusai nessun dolore, poi vedendo colare

copioso il sangue, a salti mi recai in cerca del posto di medicazione dal quale fui spedito per

la Via Crucis degli ospitali, che sin ora ne passai già 9. Sono a Udine in un magnifico ospitale,

trattamento buonissimo, bei lettini, ora per tanto mi appaiono belli i letti. La mia ferita credo

non sia grave la mia preucupazione è che precipiti troppo la guarigione o appena terminato

la medicazione e avuto la seconda inezione, e come mi hanno detto sono segnato per la

partenza.

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Per qualche tempo continuarono i trasferimenti da un ospedale all’altro,

lungo un percorso che le lettere spedite al suo datore di lavoro consentono di

ricostruire. Nel mese di ottobre Bertulessi si trovava ricoverato all’ospedale

di Tortona, in attesa di un esame batteriologico. La ferita sembrava guarire

bene e i ricoveri parevano avere la sola funzione di prevenire eventuali

infezioni e cancrene.

Tuttavia, secondo quanto il Bertulessi annunciava, avrebbe potuto durare

ancora qualche settimana, costringendolo a trascorrere altro tempo in

ospedale, in quella che continuava a definire la sua personale “via Crucis” tra

un istituto e un altro. In cuor suo, però, contava sul fatto che questi continui

trasferimenti potessero consentirgli a un certo punto di essere riavvicinato

alla sua città natale, consentendogli di vedere la famiglia.

Nella lettera datata 5 gennaio 1917, Bertulessi dichiarava infine di essere

effettivamente guarito e, con un tono molto vivace, aggiornava Tiraboschi

circa il suo ultimo trasferimento. In attesa che la sua mano si ristabilisse del

tutto era stato assegnato alla Caserma Caprara di Bologna, dove lavorava

come facchino:

La mattina entro alle 7 e sorto alle 5 lavorando tutto il giorno. Ciò mi importa poco, in cambio

ho fatto la quasi certezza di non tornare più lassù. Verso la metà di Gennaio probabilmente

ritornerò a casa ancora in licenza sarà questa licenza invernale, e sarà di 12 giorni, e se Ella

me lo permetterà verrò volentieri a negozio.

Tuttavia, la sua speranza di non essere più rispedito al fronte venne disattesa

e, nel mese di maggio, venne nuovamente spedito in zona dichiarata in stato

di guerra da dove Bertulessi scrisse al Tiraboschi una delle sue lettere più

intense e commoventi:

il cannone mi scuote e il continuo miagolare per ogni direzione dogni calibro il ronzio dei

velivoli il movimento febbrile dogni trasporto e dogni cosa mi sveglia e mi accorgo che fu

appena una piccola nostalgia. Se sapesse Sig. Marco quanto il suo paterno interessamento

verso me mi lega a Lei con un vincolo di riconoscenza e anche solo il momento che terminato

l’orrendo castigo ritornare vicino a Lei e prodigare con tutte le mie povere forze materiali

restate ma con tutte le morali intatte e lavorare per a grande Idea. Passai dei giorni terribili

sotto un bombardamento dei più terribili, patii la sete la fame sofferenze morali materiali

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indescrivibili e lassù sul Santo fu solo grazia di Dio che non restai con tanti miei compagni

scene che fui testimone che racconterò anche di qui 50 anni.

Il Bertulessi affrontava le difficoltà con grande coraggio, con pazienza e con

molta fede cristiana. Nelle sue lettere, infatti, riconduceva spesso alla grazia e

alla protezione divina la sua buona salute e la fiducia negli esiti positivi che

era convinto avrebbe avuto la guerra per lui. Alla Madonna affidava le sue

sofferenze e in lei cercava la forza di sopportare con la rassegnazione, che lui

considerava santa, la tragedia in cui si sentiva immerso. Anche per questo il

Tiraboschi manteneva viva la corrispondenza e chiedeva che gli venissero

spediti piccoli doni, i quali potevano contribuire a rafforzarlo, grazie alla

convinzione di essere dentro una disegno provvidenziale. Per esempio, come

risulta dai ringraziamenti che Bertulessi metteva in coda alle sue lettere, il

Tiraboschi gli inviò talvolta il bollettino parrocchiale, così da consentirgli di

informarsi su quel che accadeva in città, sognando di essere lì, al sicuro, a

casa propria. La speranza e la fede non offuscavano tuttavia la sua capacità di

riconoscere la portata della tragedia in corso, così come non creavano in lui

illusioni rispetto al futuro, tanto che ancora nell’agosto del diciotto scriveva:

dal canto mio sempre sto bene anche se anelo quel giorno di ritornare tra i miei cari tra le

persone care, ma temo sarà ancora lontano.

Storia di Mansueto Mora

Nome e cognome: Mansueto Mora

Data di nascita: 24 ottobre 1894

Luogo di nascita: Schilpario

Luogo di residenza: Schilpario

Professione: Muratore

Statura: 1,61

Capelli: castani

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Occhi: castani

Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati

presso l’Archivio di Stato di Bergamo.

Mansueto Mora venne arruolato dal distretto di Bergamo come soldato di

leva di prima categoria il 6 maggio del 1914. Come molti altri soldati, in

seguito venne rinviato in congedo illimitato provvisorio, in attesa del

congedamento del fratello Giovanni, classe 1892, anche lui arruolabile presso

il distretto di Bergamo.

Otto giorni più tardi Mora dovette presentarsi presso il distretto militare dal

quale dove si decise che sarebbe stato inviato in territorio dichiarato in stato

di guerra il 14 giugno del 1915, arruolato nel Battaglione Edolo, 5°

Reggimento Alpini.

Nei mesi successivi svolse regolarmente la sua funzione di soldato,

sopravvivendo alle battaglie e ai rigori che la guerra costringeva ad

affrontare, fino a quando,iIl 30 aprile del 1916, risultò disperso dopo la

battaglia di Passo Forgorida.

Riuscì a sopravvivere e ad uscire indenne anche da questa esperienza, tanto

che poche settimane più tardi rientrò. A quel punto, avendo dimostrato di

avere capacità di resistenza, buona salute e tenuta psicologica di fronte alle

avversità, si decise che potesse assumersi un ruolo di responsabilità e venne

nominato caporale e caporal maggiore.

Nell’aprile del 1918 risultava nuovamente prigioniero di guerra, incarcerato

in Austria. Rimase in quella condizione fino alla fine del conflitto ed ebbe la

possibilità di rientrare nel Regno d’Italia il 20 dicembre del 1919. Si presentò

a quel punto al suo distretto e, due giorni dopo, venne mandato in congedo

illimitato. L’esperienza bellica lasciò in Mora un segno profondo, favorendo la

sua politicizzazione a sostegno del fascismo che, nell’immediato dopoguerra

costruiva il proprio consenso facendo riferimento ai reduci della prima

guerra, cavalcando le loro insoddisfazioni, i loro rancori e la loro delusione.

Tanto che Mora, nel 1926 si arruolò nella 14° legione della Milizia Volontaria

per la Sicurezza Nazionale, anche in forza del certificato di buona condotta

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rilasciato dal sindaco del suo paese, il quale garantiva che il Mora “tenne

sempre buona condotta non avendo mai commesse per quanto consta, azioni

passibili colle leggi penali, correzionali e disciplinari non è rissoso, né dedito

al vino ed all’ozio e perciò non gli è scemata quella stima e considerazione di

cui meritatamente sempre godette fra i suoi conterranei”.

Storia di Marco Saverio (Severino) Rota

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Marco Saverio (Severino) Rota

Data di nascita: 29 giugno 1889

Luogo di nascita: Bergamo

Luogo di residenza: Bergamo (Fontana)

Professione: contadino

Statura: 1,61

Capelli: neri

Occhi: castani

Fondi di riferimento: scambio epistolare conservato nel Fondo Marco

Tiraboschi del Museo Storico di Bergamo; ruoli matricolari e fogli matricolari

conservati presso l’Archivio di Stato.

Nelle lettere di Severino Rota al Tiraboschi, le prime settimane al fronte

scorrevano scandite da continui riferimenti all’auspiccata fine del conflitto

oppure alle preoccupazioni materiali, come quelle per il cibo o per il clima

rigido.

Non sapendo se a ricevuto la mia lettera li scrivo di nuovo e col darli i miei ringrasiamenti di

quella cioccolata che mia mandato, di qui io non ò niente di nuovo da dirli e nemmeno di

combatte finora solo che si continua a far neracamenti per l’inverno questo si vede che suol

finir presto la guerra…

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Ancora:

Lei mia detti se mi ocorre qualche cosa per il freddo si li dice la verita e che mi occorerebbe

proprio qualche cosa a me mi sara molto gradevole mi occorerebbe proprio qualche cosa a

me mi sara molto gradevole mi occorerebbe paia di calze eduna mallia e una beretta per la

testa se lei crede di mandarmi qualche cosa a me mi sara molto gradevole di piu le dico che

avevo gia avertita la mia Moglie di prepararmi di riparare il freddo

Severino, inoltre, chiede continuamente informazioni sulla salute dei suoi

parenti e, in particolare, si mostra preoccupato per una malattia che aveva

colpito suo padre.

L’insofferenza nei confronti della guerra inizia però a manifestarsi molto

presto, tanto che, già nell’ottobre del 1915, a pochi mesi dal suo inizio gli pare

non finisca più:

[mi consolo] sperando in Dio di questo che faccia cessare questa trista guerra e che faccia

venire quella desiderata pace che e tanta desiderata da tutti molto di piu di noi poverii

soldati che mi tocca sofrir tanti dolori e patimenti di ogni sorte

aggiungeva nella lettera successiva

qui e gia cominciato a nevicareree fa un freddo teribile ne figuri lei dovendo rimanere qui

stinverno di che cosa ne sara di noi poveri Militari io gli dico la verita che non so piu cosa

pensare a vedere una cosa che non cia piu una fine sperando in dio avesse ancora

misericordia di noi si vede che vuole distruggere il mondo in questo senso un Fragello della

guerra non dico altro perche sono troppo dispiacente

e ancora:

o una cosa da dirgli se mi fa questo gran piacere e favore a premura un razoi e un penello da

barba ancora una volta per igeni personale perche qui ce la Cavaleria alle spalle sapra cosa e

la nostra Cavalleria i pidochi dunque mi fara questa gentilessa di farmi avere questo io

desiderio mi rivolgo a lei proprio per un bel razoi e sicuro e buono non guardare a denari che

dovera spendere sola di prendermi un buon razoi e cio che spedira sara sodisfato per messo

di mia Moglie

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I toni di Severino cambiano radicalmente a partire dal mese di novembre del

1915 quando viene coinvolto in operazioni di guerra. Per la prima volta non

mostra più solo sconforto ma anche una rabbia che lo porta ad attaccare

quelli che dal suo punto di vista sono i responsabili della guerra:

due parole della mia bella vita che passo qui Signor Padroneci vorebbe qui quei lazzaroni che

gridava viva la guerra ce li voria qua con noi a vedere coza mi tocca sofrire e patire non

sapendo per ché! E a subire tanti disaggi e Pativoli e sotto una pioggia di granate e fucilate e

sotto tutte le intemperie del mondo e un terribile freddo che continua ogni giorno a

aumentare non li dico altro perche sono troppo disperato a vedere coza mi tocca a Signor

Marco se cio ancora questa grassia di tornare a casa vora dire che ne parleremo più a lungo

di quello che mi acade! E di piu a vedere coza che non cia piu una finissione coza devo

sperare e poi niente se stessi qui in […] si aspetta che le nostre Artiglierie che bombardino le

posisione nemiche posisione cosi fortificate e quelli che ciavrea la grassia di andar su la ce

delle neve in cuantita a godere basta basta perche sapra che ce la censura seno chisa quante

ne avrei di dire.

La frequenza delle lettere spedite al Tiraboschi si riduce a partire dal 1916

quando in compenso aumenta la frequenza delle lettere polemiche:

atendo sue nuove io lio scritto anche unaltra cartolina ma si vede che sia andata persa e

questa spero che la ricevera e mi dara un suo riscontro che io lo gradisco cosi volentieri

vedendo che si ricorda ancora di un suo dipendente che e qui a fare una vita da Cane! Di

nuovo o niente di dire Solo che sono molto stanco di questa vita e di piu vedendo che non cia

più una fine mi dira qualche notissia se si parla di finirla perche qui non sisa piu niente con

questo chiudo questo mio misero…

Credendo che si ricorda ancora di me suo povero dipendente che sofre tanto il distacco da

tanti mesi che sofre gli errori della guerra e pel distacco di sua cara Famiglia e Moglie e Figli,

speriamo che abbia da finire questa immane Fragello con la vitorria Finale delle nostre armi

come i nostri compagni darmi an saputo i nostri nemici della piu cara Gorizia che i nostri

valori an saputo difenderli fino all’ora della Caduta, con sacrifici e spargimento di sangue:

dunque si spera nel seguimento di quei […] e di farla finita con vitoria nostra e le nostre

aleate che combattono con eroismo e valore e pei destini dei proppi diritti

La rabbia di Severino raggiunge il culmine alla fine del 1916, quando i suoi

toni raggiungono il massimo grado di esasperazione e di violenza, mostando

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tutta la sofferenza a cui si può giungere quando si vive quel grado di

precarietà esistenziale:

mi dovra scusare se non ho dato risposta subito ma il tempo non mi permeteva lei sapra coza

abiamo fatto in questi giorni io son sano ancora ma tanti de miei Compagni son andati alaltro

Mondo e tanti son feriti edio dovevo esser in questi anchio ma si vede che il mio destino

nonera questo questa la […] grassia adio e spero sempre in dio che mi conservi sempre cosi

anche andare avanti di questo non li posso dire altro vora dire che se ciavro la grassia di far

ritorno a casa ne palreremo piu a lungo di quello che o passato; ora siamo fermi e spero di

rimanere qui dove siamo al presente, pero sa cosa la guerra che si fa presto a voltar pagina

pero si spera sempre in bene; edio […] ancora in dio che avesse ad aver misericordia ancora

di noi poveri Militari e di far venire quella beata pace che da noi è tanto desiderata

Nel marzo del 1917 per severino la misura è colma.

La mia vita sempre la medesima ma ora la vedo andando peggiorando tutti i giorni di guerra

non pronuncio nemeno una parola altro li dico che se cascasse il mondo intiero vederia

volentieri cosi forse finirebbe anche la guerra basta cosi mi comprendera e vero?

Nonostante tutte le difficoltà, le privazioni e la rabbia, Severino sopravvive a

quatto anni di guerra. A guerra finita attende il congedo illimitato che però

tarda ad arrivare, aumentanto il suo grado di impazienza. Proprio per questo,

all’inizio del 1919, mentre è di stanza a Brescia, chiede a Tiraboschi di essere

aiutato ad accorciare i tempi.

Mi scusera se la disturbo con questa mia lettera la cuale io ci parlo se puo farmi cuesto

grande piacere siccome che lei a grande amicissia del Signor colonello Marrieni se non mi

sballio di pregarllo lei se potesse farmi avere la licensa Agricola cio fare comparire come che

e come lei che a molto bisogno di me per lavorare la sua campagna mancansa di mano

dopera, siccome che vedo tutti i giorni a partire con cueste license lo prego di cuore se lei

potesse far cuesta gentilessa e di far scrivere cui al comando del deposito del 7° Reggimento

Bersaglieri Bresia una dichiarassione fatta dal Signor Colonello con tale richiesta come gli o

detto, richiesta dal Bersagliere Rota Severino dalla 9 Compagnia Comprementare col

seguente motivo.

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Storia di Massimo Antonio Cremaschi

Nome e cognome: Massimo Antonio Cremaschi

Data di nascita: 13 maggio 1894

Luogo di nascita: Albano Sant’Alessandro

Luogo di residenza: Albano Sant’Alessandro

Professione: Cocchiere

Statura: 1,68

Capelli: castani

Occhi: castani

Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati

presso l’Archivio di Stato di Bergamo.

Riconosciuto soldato abile di prima categoria nella primavera del 1914,

Massimo Antonio Cremaschi venne chiamato alle armi e arruolato nel 6°

Reggimento Bersaglieri il 22 settembre dello stesso anno. Inviato in territorio

dichiarato in stato di guerra alla fine del 1915, venne presto denunciato al

Tribunale militare di guerra del 4° corpo d’armata per diserzione con

passaggio al nemico. In un primo tempo venne processato e condannato in

contumacia alla pena di morte per fucilazione nella schiena, previa

degradazione con sentenza del tribunale militare del 4° corpo d’armata in

data 8 aprile 1916. Si scoprirà in seguito al suo rientro, nel marzo del 1919,

che il Cremaschi era stato fatto prigioniero di guerra il 18 settembre del

1915, durante la battaglia di linea di Plezzo. Inviato al nel deposito del sesto

reggimento Bersaglieri di Bologna, viene ricoverato nel Manicomio di

Bergamo l’11 settembre del 1919 per manifestazioni di alienazione. Due

settimane più tardi sarà dimesso, dal medico responsabile che lo dichiarerà

guarito dai disturbi manifestati in precedenza (Procura delle Repubblica,

Dementi, 1919, Busta 1-200). Due giorni più tardi sarà fatto ricoverare dal

manicomio di Mombello di Milano, dove rimarrà fino al 28 aprile del 1920. Il

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giorno dopo la sua dimissione sarà trasferito presso le carceri militari di

Venezia. Il 18 maggio del 1920 il tribunale militare rinuncerà al

procedimento penale per inconsistenza di reato. Messo in libertà sarà

riportato al Deposito dei Bersaglieri di Bologna e quindi inviato in licenza

straordinaria con assegni in attesa dell’esito degli atti medico legali compiuti

per la sopraggiunta infermità provocata dagli anni di servizio militare. Nel

giugno del 1920 verrà inviato in congedo assoluto e gli sarà riconosciuta

un’indennità consistente in due anni di assegni.

Storia di Francesco Luigi Valenghi

Nome e cognome: Francesco Luigi Valenghi

Data di nascita: 19 giugno 1894

Luogo di nascita: Sovere

Luogo di residenza: Sovere

Professione: Contadino

Statura: 1,62

Capelli: castani

Occhi: castani

Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati

presso l’Archivio di Stato di Bergamo.

Francesco Valenghi, un contadino originario di Sovere, venne arruolato nel

22° Reggimento fanteria e partì per la guerra il 23 maggio del 1915. Durante

il combattimento di Zagara del 10 novembre dello stesso anno, l’esplosione di

una bomba a mano gli procurò una ferita al piede che inizialmente venne

sottovalutata. Solo due mesi più tardi, il 30 gennaio del 1916, la situazione si

fece tanto critica da motivarne il trasferimento presso l’ospedale territoriale

di Varzi dove restò fino alla metà di marzo. I tempi della sua ripresa erano

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così lenti che si decise di ricoverarlo all’ospedale territoriale di Bergamo,

dove la sua famiglia avrebbe potuto raggiungerlo più agilmente. La degenza

durò altre due settimane, al termine delle quali ottenne due mesi di licenza. Il

26 luglio Valenghi ritornò in territorio dichiarato in stato di guerra dove,

però, le sue condizioni di salute non consentirono un pieno reintegro nelle

prime linee del fronte, tanto che venne assegnato alla 59° Compagnia

presidiaria del suo reggimento. Solo nel febbraio del 1917, Valenghi riprese il

suo posto tra le prime linee di combattenti, in territorio dichiarato in stato di

guerra. Partecipò così alle campagne di guerra dei due anni successivi,

ottenendo non solo la dichiarazione di buona condotta, ma anche

l’autorizzazione a fregiarsi del distintivo d’onore per ferita di guerra.

Storia di Primo Giacomo Luigi Trapletti

Nome e cognome: Primo Giacomo Luigi Trapletti

Data di nascita: 2 ottobre 1893

Luogo di nascita: Brescia

Luogo di residenza: Lovere

Professione: Mandriano

Statura: 1,74

Capelli: castani

Occhi: castani

Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati

presso l’Archivio di Stato di Bergamo.

Il mandriano Giacomo Trapletti venne arruolato come soldato di prima

categoria dal distretto militare di Bergamo e quindi lasciato in congedo

illimitato nel maggio del 1914. Alla fine dell’anno venne assegnato al 2°

Reggimento artiglieria di montagna, mentre nel gennaio dell’anno successivo

si spese per procurare al fratello Giovanni il ritardo alla chiamata alle armi,

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come consentiva l’Art. 108 del Testo Unico della legge sul reclutamento. Un

paio di mesi più tardi il Segretariato generale del Ministero della Guerra

decise il suo trasferimento nel 3° Reggimento artiglieria di montagna. Il 22

maggio del 1915 Trapletti era già al fronte, in territorio dichiarato in stato di

guerra. Attraversò indenne i primi due anni del conflitto fino a quando, nel

novembre del 1917 si ammalò. Venne così trasferito in luogo più idoneo alla

somministrazione delle cure necessarie. Nel gennaio del 1919 ottenne un

esonero temporaneo dal servizio effettivo sotto le armi, al quale rinunciò per

essere inviato in congedo illimitato il 27 settembre del 1919. Come risulta

dalla dichiarazione che gli verrà rilasciata alla termine del conflitto, Trapletti

mantenne sempre una buona condotta, ricoprendo il suo incarico con fedeltà

e onore. Partecipò e uscì indenne da quattro anni di campagne di guerra

accumulando solo diciannove giorni di punizione, motivate da inadempienze

di poco conto, piccoli momenti di sfogo di un uomo che per il restò consacrò

gran parte della sua giovinezza sull’altare dell’evento più drammatico e

devastante che la storia umana avesse conosciuto fino a quel momento. In

un’occasione si appese alla coda di un mulo, mentre il battaglione procedeva

in salita. In un’altra finse di essere ammalato, per avere qualche giorno di

riposo. Infine, nella primavera del 1917 si allontanò dall’accampamento,

senza regolare permesso, forse alla ricerca di un’ora di libertà.

Storia di Luigi Foresti

Nome e cognome: Luigi Foresti

Data di nascita: 20 settembre 1894

Luogo di nascita: Brembate Sotto

Luogo di residenza: Brembate Sotto

Professione: Scalpellino

Statura: 1,65

Capelli: castani

Occhi: grigi

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Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati

presso l’Archivio di Stato di Bergamo.

Diverse generazioni di giovani furono costrette dalla guerra a un confronto

quotidiano con una realtà atroce, fatta di disperazione, morte, lontananza

della casa e dagli affetti. Per molti di loro, contadini e operai senza interesse

per le cose della politica e della nazione, poco di quel che accadeva poteva

essere realmente compreso, spiegato, tenuto sotto controllo. Alcuni di questi

giovani non resistevano alla paura, non sopportando l’idea di sacrificare la

vita e la possibilità di rivedere i propri cari sull’altare di una storia che non

sentivano come propria. La diserzione era una via di fuga come, per certi

versi, in forma più estrema, lo era la malattia mentale. Nelle carceri militari e

nei manicomi vennero così reclusi migliaia di questi giovani che non

potevano affrontare e superare le atrocità del conflitto, perché troppo deboli,

troppo sensibili o, semplicemente, troppo coscienti. La storia di Luigi Foresti

è una concreta testimonianza di come negli anni della Grande Guerra

esistessero legami di continuità tra la diserzione e la malattia mentale,

aderenze tra il carcere e il manicomio. Il Foresti venne arruolato nel 6°

Reggimento Bersaglieri nel maggio del 1915 e subito inviato in territorio

dichiarato in stato di guerra. Un anno più tardi, le sue competenze e la buona

condotta tenuta fino a quel momento spinsero i suoi superiori a sceglierlo

come caporale. In quel modo servì l’esercito per un anno intero, fino a

quando, alla fine di ottobre del 1916, tentò di separare la propria sorte da

quella dell’esercito italiano, cercando la fuga e scegliendo la via della

diserzione. Con l’accusa di diserzione aggravata dai gradi che portava, venne

tradotto alle carceri militari preventive dell’XI Corpo d’Armata dove, pochi

giorni più tardi, il Tribunale Militare di Guerra lo condannò a cinque anni di

reclusione, al pagamento delle spese del giudizio ed alla rimozione del grado.

Qualche mese più tardi venne reintegrato nell’esercito, come soldato

semplice, e rispedito al fronte. Riuscì a resistere altri due anni, sopravvivendo

alle campagne di guerra del 1917 e del 1918. Per due volte riportò in

combattimento ferite abbastanza profonde da richiedere periodi di ricovero

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presso l’ospedale da campo e qualche settimana di licenza, per

convalescenza. Al termine del conflitto, però, invece del congedo ottenne il

trasferimento all’ospedale neurologico di Bari. Il ricovero durò parecchi mesi,

a testimonianza della serietà della situazione in cui si era venuto a trovare.

Qualche mese più tardi, gli riconobbe la sopraggiunta infermità “per causa di

servizio”.

Storia di Pietro Mazzoleni

Nome e cognome: Pietro Mazzoleni

Data di nascita: 20 settembre 1898

Luogo di nascita: Bedulita

Luogo di residenza: Bedulita

Professione: Studente

Statura: 1,74

Capelli: castani

Occhi: castani

Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati

presso l’Archivio di Stato di Bergamo.

Subito dopo essere stato arruolato come soldato di prima categoria, lo

studente Pietro Mazzoleni venne mandato in congedo illimitato provvisorio,

nell’attesa che venissero aperti i corsi per allievi ufficiali a cui, dopo le

operazioni di reclutamento, si era ritenuto opportuno partecipasse. Quando

nell’aprile del 1917 si presentò presso la scuola qualcosa non andò come

previsto e Mazzoleni, in un primo tempo, non venne ammesso ai corsi. Giunse

così in territorio dichiarato in stato di guerra, come soldato semplice del 10°

Reggimento Fortezza, dove rimase per un mese soltanto. Il 15 maggio, infatti,

ripartì alla volta di un corso per allievi ufficiali, questa volta presso la scuola

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militare di Modena. Il corso si svolse regolarmente e, già nel mese di agosto,

Mazzoleni poté essere integrato prima nel Deposito dell’86° Reggimento

Fanteria di Belluno, come aspirante ufficiale di complemento, e poi nel 15°

Reggimento Fanteria di Milizia Mobile. Durante una delle prime battaglie che

si trovò a combattere, però, rimase sul campo, con una grave ferita alla

gamba destra. Dopo un breve ricovero presso il più vicino ospedale da

campo, Mazzoleni verrà trasferito nel meglio attrezzato Ospedale militare di

Alessandria e poi mandato il licenza straordinaria per convalescenza.

Rientrerà nell’esercito verso la fine del conflitto, dove continuò a prestare

servizio come sottotenente di complemento fino alla fine. Proprio per questo

l’esercito italiano lo autorizzò, già nel mese di agosto del 1918, a fregiarsi di

un Distintivo d’Onore per ferita di guerra, oltre che della medaglia a ricordo

della Guerra 1915-1918.

Storia di Luigi Buelli

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Luigi Buelli

Data di nascita: 20 novembre 1896

Luogo di nascita: Bergamo

Luogo di residenza: Bergamo

Professione: xxx

Statura: xxx

Capelli: xxx

Occhi: xxx

Fondi di riferimento: lettere conservate presso il Museo Storico

bergamasco.

Sotto questa gente mi sono abituato e ora la vita non mi pare più così dura come i primi

giorni. Le istruzioni cominciano ad essere con un po’ più regolarità e la noiosa scuola a piedi

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si fa solo pochi minuti al giorno. In questi giorni stiamo facendo istruzioni all’obice Campale

da 149 e al Moschetto. Queste istruzioni non sono faticose richiedono soltanto un po’ di

memoria e un po’ d’attenzione. In questa settimana per la prima volta devo montare di

guardia armata alla polveriera, spedo che per la prima non abbiano a fregarmi. A montare a

cavallo mi sono abbituato e di capitomboli ne faccio un po’ più di rafo. Per ora questa vita è

anche divertente con queste belle passeggiate che si fa lungo l’argine del Po’, e inoltre

quando si ritorna in Caserma si ha uno che pulisce il cavallo, ma questa bella vita ho paura

che presto termini perché dovremo andare a raggiungere a Bologna gli altri gruppi del

nostro Reggimento che si dovrà formare cioè il 3° Reg. Art. Campale Pesante.

Come queste poche righe evidenziano, i primi giorni al fronte di Luigi Buelli

furono spesi in addestramenti ed esercizi, che si tradussero presto in una

nuova quotidianità, per certi versi addirittura gradevole. Dopo un primo

periodo arruolato in un battaglione d’artiglieria, venno cambiato di ruole e

divenne carrettiere:

Da artigliere sono diventato carrettiere, ma pazienza, per salvare la pelle e migliore ancora

questo corpo. Sono partito da Piacenza Domenica e sono sttivato quassù a Romans ieri sera.

Nella quotidianità entrarono presto anche i rombi e i colpi dei cannoni che,

uditi costantemente presso il monte San Michele, vennero descritti in una

lettera come una strana e involuta musica:

Alla strana e involuta musica del S.Michele mi pare di essere abbituato, ma però quando mi

avvicino a questo i miei cavalli li faccio volare e nel ritornare all’accampamento non vedo

nemmeno la strada. qui sono quasi tutti i giorni aereoplani Austriaci che di frequente

lasciano cadere qualche […]. Le gambe le tengo sempre preparate a correre quando questi

bei uccelli volano su Romans.

Pochi giorni dopo verrà trasferito a Cormons dove la vita era più tranquilla, si

lavorava meno e, soprattutto, si era meno soggetti al tiro degli aerei militari

austriaci. Nonostante questo i pericoli erano molti e Luigi non si vergognava

di confessare la sua fragilità e le sue paure:

Per ora qui continuo bene e spero che mi abbia a durare un po’ così. Degli aereoplani qui ve

ne sono più pochi e non fanno mai nulla. La paura ne ò sempre specialmente quando per

servizio mi avvicino alle prima linea e quelle notti che ce bombardamenti oppure

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combattimenti. Ci sono ce’ miei compagni che dicono di non avere paura, ma penso che

quando si passa per qui paesi che non cè nemmeno un tesso di una casa e per quelle strade

che si vedono a scopiare granate a duecento metri e che vedono anche sopra le loro teste a

scopiare srapnel io credo che anche a loro gli verra in dosso una certa, non so cosa, che ci da

svegliare e se si può appena si scappa, certo però che ve ne sono molti come me e come ve ne

sono anche di quelli più paurosi.

Il 20 dicembre Luigi scriveva di essere riuscito a scampare all’esplosione di

una granata. Quella, infatti, scoppiò dietro un cumulo di terra che attutì il

colpo, salvando la vita di Luigi. Nella stessa lettera mostrava la sua

preoccupazione per le progressive riduzioni dei viveri a cui stavano

assistendo:

Spero presto di venire in licenza e allora le racconterò qualcosa di più. Anche qui ànno

diminuito tutti i viveri, capo primo la pagnotta, al Venerdì, ci d’anno il baccalà, e si immagina

come ora divento grasso.

Per tutto il 1917 restò di stanza nel Basso Isonzo dove le licenze

scarseggiavano poiché, secondo le informazioni di cui Luigi veniva in

possesso, si stava preparando una grande offensiva. Le incursioni aeree

austriache continuavano a rappresentare il suo problema principale, tuttavia

alla paura reagiva con la resistenza e il desiderio di compiere fino in fondo il

suo dovere:

Sui comunicati di Cadorna in questi giorni si leggeva “incursioni aeree su taluni località del

basso Isonzo” e in queste talune località mi trovo anchio e le dico la verità che la paura che ò

è molta e se qualche volta non mi amazza qualche bomba mi amazza qualche bozzo che

quando bombardano piovono come la grandine, incomma non ci lasciano mai tranquillo e le

corse che mi tocca fare giorno e notte sono una cosa incredibile; giorni fa venivano verso

sera e ora che la luna si alza tardi vengono a farci la sveglia, e qualche volta vendono nel più

bello che si dorme e allora scappo valorosamente in trincea.

Trovandosi sul Basso Isonzo, Luigi ebbe modo di assistere al collasso del

fronte nei giorni di Caporetto. Nella lettera di auguri spedita a fine anno al

Tiraboschi, ricordava quei terribili giorni e le loro conseguenze:

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In questi giorni che abbiamo dovuto ritirarsi sulle nostre nuove linee parecchie volte le

scrissi ma le posso assicurare che non le saranno giunte, perché seppi dalla mia famiglia che

per più di trenta giorni non ebbero mie notizie: io sono stato più di quaranta giorni senza

avere più notizie da nessuno e può immaginarsi in che anzia mi trovavo pure io. Dal 24

ottobre che mi trovavo in marcia sono venuto a fermarmi in questi giorni nella provincia di

Verona, a Zevio. Si figuri che dagli altipiani di Bainsizza din qui siam venuti sempre in marcia

facendo però parecchie tappe sui fiumi e canali d’acqua dove si lavorava facendo posti di

passaggio e ponti di barche: ora qui abbiamo fatto di nuovo i ponti. Senza che stia a

descrivere tutto quello che abbiamo dovuto soffrire in quel tempo perché spero che tutte

queste cose le avrà già apprese dai giornali fino dai primi giorni della ritirata, per parte mia

le dirò solamente che fame, freddo, sonno e acqua causa il cattivo tempo ne abbiamo sofferto

in quantità le dico che non trovando nulla da mangiare perché tutti si scappava abbiamo

mangiato molte volte per levarsi un po’ la fame polenta sola e senza sale e trovandola!

Nei mesi successivi Luigi ebbe vita più facile: le sue lettere a Tiraboschi si

fecero più sintetiche e, in genere, si limitava agli auguri ed ai saluti. In questo

modo superò la terribile prova a cui fu costretto a sottoporsi, conservando la

sua vita e la sua salute fino alla fine della guerra. Ottenne il congedo solo alla

fine del 1919.