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associazione culturale Larici – http://www.larici.it Voltaire Storia dell’impero di Russia sotto Pietro il Grande Histoire de l’empire de Russie sous Pierre le Grand 1759-1775 1 1 Cura e note: © associazione culturale Larici, 2012. L’opera era divisa in due libri: il primo (prefazione e prima parte) fu scritta nel 1759 e pubblicata dopo l’approvazione russa nel 1760; la seconda (seconda parte e appendici) è del 1763. L’intera opera uscì nel 1775 con la correzione di alcuni refusi e di qualche modifica di cui si rende conto nelle note. Nell’intero testo il titolo Storia dell’impero russo sotto Pietro il Grande è spesso abbreviato in Storia di Pietro il Grande. L’incisione, anonima, rappresenta lo zar mentre sorveglia la costruzione di Pietroburgo. 1

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Voltaire

Storia dell’impero di Russiasotto Pietro il GrandeHistoire de l’empire de Russie sous Pierre le Grand

1759-17751

1 Cura e note: © associazione culturale Larici, 2012. L’opera era divisa in due libri: il primo (prefazione e prima parte) fu scritta nel 1759 e pubblicata dopo l’approvazione russa nel 1760; la seconda (seconda parte e appendici) è del 1763. L’intera opera uscì nel 1775 con la correzione di alcuni refusi e di qualche modifica di cui si rende conto nelle note. Nell’intero testo il titolo Storia dell’impero russo sotto Pietro il Grande è spesso abbreviato in Storia di Pietro il Grande. L’incisione, anonima, rappresenta lo zar mentre sorveglia la costruzione di Pietroburgo.

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Prefazione storico-critica2

I

3Quando, verso l’inizio del nostro secolo, lo zar Pietro gettava le fondamenta di Pietroburgo o piuttosto del suo impero, nessuno ne prevedeva il successo. Nessuno allora avrebbe immaginato che un sovrano di Russia potesse possedere flotte vittoriose fino ai Dardanelli, sottomettere la Crimea, cacciare i Turchi da quattro grandi province, dominare sul mar Nero, fondare la corte più brillante d’Europa e fatto fiorire tutte le arti in mezzo alle guerre; se qualcuno avesse detto tutto ciò sarebbe passato solo per un visionario.

Ma ancor più visionario è lo scrittore che nel 1762 ha predetto, in non so quale Contratto sociale o insociale, che l’impero di Russia sarebbe caduto. Ecco le sue precise parole: «I Tatari, suoi sudditi o suoi vicini, diventeranno i suoi padroni e i nostri: ciò mi sembra inevitabile»4.

2 L’edizione del 1775, qui tradotta, presenta alcune variazioni rispetto alla prima (1760) nella distribuzione dei paragrafi. In origine, il secondo paragrafo faceva parte del primo, il terzo del secondo e così via fino all’ottavo paragrafo che era costituito da alcune frasi delle avvertenze messe all’inizio della seconda parte edita nel 1763.

3 La prima edizione del 1760 cominciava così:«Chi avrebbe mai pensato, nel 1700, che una corte magnifica e civile si sarebbe stabilita in fondo al golfo di Finlandia; che gli abitanti di Solikamsk, di Kazan’ e delle rive del Volga e dello Jaik sarebbero stati i più disciplinati tra i nostri eserciti; che avrebbero riportato delle vittorie in Germania dopo aver sconfitto Svedesi e Ottomani; che un impero di duemila leghe, a noi pressoché sconosciuto fino ad allora, avrebbe dominato in cinquant’anni; che la sua influenza si sarebbe estesa su tutte le nostre corti e che, nel 1759, il più zelante protettore delle lettere in Europa sarebbe stato un russo? Chi l’avesse detto sarebbe passato per il più utopistico degli uomini. Pietro il Grande, avendo ideato e preparato da solo tutta questa rivoluzione, che nessuno avrebbe mai potuto prevedere, è forse di tutti i principi quello i cui fatti meritano di essere trasmessi ai posteri.«La corte di Pietroburgo ha inviato allo storico incaricato di questo libro tutti i documenti autentici. In questa storia si afferma che tali memorie sono depositate nella biblioteca pubblica di Ginevra, città piuttosto frequentata e vicina alle terre dove lo storico risiede. Tuttavia, siccome tutte le istruzioni e l’intero diario dal Pietro il Grande non gli sono stati ancora trasmessi, egli ne ha trattenuto delle parti presso il suo archivio, che saranno mostrate a tutti i curiosi con la stessa facilità che incontrerebbero con i guardiani della biblioteca di Ginevra, ed esse saranno lì depositate quando il secondo volume sarà completato».

4 Fu Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) a scriverlo ne Le Contrat social, libro II, cap. 8, edito nel 1762. Vale la pena riportare il brano perché Voltaire lo confuta qui e nel Dizionario filosofico (1764): «I Russi non saranno mai un popolo veramente civilizzato perché lo sono stati troppo presto. Pietro aveva il genio imitativo, ma non aveva il vero genio, quello che crea e fa tutto dal nulla. Alcune delle cose che realizzò erano buone, ma la maggior parte erano intempestive. Ha visto che il suo popolo era barbaro, ma non si è

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È una strana mania quella di un monello che parla da maestro ai sovrani e predica infallibilmente la prossima caduta degli imperi dal fondo della botte dove sta e che crede appartenuta in altri tempi a Diogene. Gli straordinari progressi dell’imperatrice Caterina II e della nazione russa sono la prova che Pietro il Grande ha costruito su una base solida e duratura.

Tra tutti i legislatori egli è, dopo Maometto, quello il cui popolo si è maggiormente distinto dopo di lui. I Romolo e i Teseo non gli si avvicinano nemmeno. Una prova abbastanza significativa del fatto che la Russia deve tutto a Pietro il Grande è quanto accaduto durante la cerimonia del rendimento di grazie a Dio – celebrata secondo l’uso nella cattedrale di Pietroburgo – per la vittoria del conte di Orlov che bruciò l’intera flotta ottomana nel 1770.

Il predicatore, di nome Platon5 e degno del suo nome, a metà del discorso passò dal pulpito dove parlava al sepolcro di Pietro il Grande e, abbracciando la statua di questo fondatore, disse: «Sei tu che hai riportato questa vittoria, sei tu che hai costruito fra noi la prima nave, ecc.». Questo episodio che abbiamo riferito in altro luogo6 e che desterà l’ammirazione dei posteri più lontani è, come la condotta degli ufficiali russi, un esempio sublime.

Il conte Šuvalov7, ciambellano dell’imperatrice Elisabetta e forse l’uomo più dotto dell’impero, nel 1759 comunicò allo storico di Pietro i documenti autentici necessari e su questi ci si è esclusivamente basati.

II

Il pubblico dispone di qualche pretesa storia di Pietro il Grande: per lo più esse sono state scritte in base alle gazzette. Quella pubblicata ad Amsterdam in quattro volumi, sotto il nome del bojaro Nestesuranoy8, è uno

accorto che non era ancora maturo per la civiltà; l’ha voluto civilizzare quando si doveva solo agguerrirlo. Ha voluto farne senz’altro dei Tedeschi o degli Inglesi, mentre bisognava cominciare col farne dei Russi. Ha impedito per sempre ai suoi sudditi di diventare ciò che avrebbero potuto essere, persuadendoli che erano quello che non sono. È così che un precettore francese forma il suo allievo perché brilli un attimo durante l’infanzia e diventi in seguito una nullità. L’impero di Russia vorrà soggiogare l’Europa, ma sarà esso stesso soggiogato. I Tartari, suoi sudditi o suoi vicini, diventeranno i suoi padroni e i nostri: questa rivoluzione mi sembra inevitabile. Tutti i re dell’Europa lavorano di concerto per accelerarla».

5 Platon II Levšin (1737-1812), metropolita di Mosca dal 1737, membro del Santo Sinodo a Pietroburgo dal 1768 e vescovo di Tver’ dal 1770.

6 Nelle Questions sur l’Encyclopedie, alla voce “Eglise”, del 1771, Voltaire cita Platon ma non descrive l’episodio.

7 Sull’originale Shouvalof. Il mecenate Ivan Ivanovič Šuvalov (1727-1797) fu un favorito della zarina Elisabetta Petrovna. Fondò e diresse l’Università di Mosca e l’Accademia di Belle Arti di Pietroburgo. Voltaire e Šuvalov si scambiarono numerose lettere dal 1757 al 1762 e poi negli anni 1767, 1768, 1769, 1771 et 1773.

8 Mémoires du règne de Pierre le Grand, Empereur de Russie, père de la Patrie, etc., par le B. Iwan Nestesuranoy (1726), tradotte in italiano nel 1736. Nestesuranoy era lo pseudonimo (ricavato dall’anagramma) di Jean Rousset de Missy (1686-1762), scrittore di storia e di diritto, membro delle Accademie di Berlino e Pietroburgo.

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di questi falsi tipografici molto comuni. Tali sono anche le Memorie di Spagna, sotto il nome di don Juan di Colmenar9, la Storia di Luigi XIV scritta dal gesuita La Motte sulle presunte memorie di un ministro di Stato e attribuita a La Martinière10; tali sono la storia dell’imperatore Carlo VI, quella del principe Eugenio e tante altre.

È così che la nobile arte della stampa viene asservita al più spregevole dei commerci. Un libraio olandese ordina un libro come un artigiano fa fabbricare delle stoffe, e purtroppo si trovano scrittori forzati dalla necessità a vendere la propria fatica a questi mercanti come degli operai salariati. Di qui provengono tutti gli insipidi panegirici e i libelli diffamatori da cui il pubblico è sommerso; è una delle peggiori vergogne del nostro secolo.

Mai la storia ebbe più bisogno di prove autentiche che al giorno d’oggi, in cui si traffica così impudentemente con la menzogna. L’autore che offre al pubblico la Storia dell’impero di Russia sotto Pietro il Grande è lo stesso che trent’anni fa scrisse la Storia di Carlo XII sulla scorta delle memorie di vari personaggi pubblici, che avevano vissuto a lungo accanto al sovrano11. La presente storia è una conferma e un supplemento della prima.

Ci si ritiene obbligati, per rispetto verso il pubblico e verso la verità, di scoprire qui una testimonianza inoppugnabile, che mostrerà fino a che punto si debba prestar fede alla Storia di Carlo XII.

Non molto tempo fa il re di Polonia e duca di Lorena si faceva rileggere quest’opera a Commercy: egli rimase talmente colpito dall’esattezza di tanti fatti di cui era stato testimone e così indignato per l’ardire con cui furono contestati in certi libelli e giornali, che volle rafforzare col suggello della sua testimonianza il credito che merita lo storico e, non potendo scrivere personalmente, ordinò a uno dei suoi grandi ufficiali di redigere un atto autentico12.

9 Juan Alvarez Colmenar, Les Delices de l’Espagne et du Portugal, 1707.10 Antoine Augustin Bruzen de La Martinière, Histoire de la vie et du règne de Louis XIV, roi

de France et de Navarre, rédigée sur les mémoires de feu M. le comte de *** [La Hode], 1741. Dieci anni dopo Rousset de Mussy scrisse: «Il signor Beaumarchais dopo essere uscito di casa mia […] si mise con il signor de la Martiniere e il signor de la Hode […]. Insieme […] hanno composto una Storia di Luigi XIV che apparve sotto il nome di La Martiniere…». La Hode era lo pseudonimo che il gesuita Yves Joseph de La Motte (1680-1738) aveva cominciato a usare in Olanda intorno al 1732.

11 Voltaire pubblicò la Histoire de Charles XII (Storia di Carlo XII) nel 1731, sulla base di documenti e testimonianze oculari raccolti in Inghilterra. Le guerre di Carlo XII (1682-1718), re di Svezia dal 1697, contro la Russia sono esposte nel seguito.

12 È stampato nella prefazione della Storia di Carlo XII. (Nota dell’Autore) – Anche nella prima edizione della storia di Russia (1760) era riportata la lettera del conte di Tressan (1705-1783): «Noi, luogotenente generale degli eserciti del re, gran quartiermastro di Sua Maestà il re di Polonia… attestiamo che Sua Maestà il re di Polonia, dopo aver ascoltato la lettura della Storia di Carlo XII scritta dal signor di Voltaire (ultima edizione di Ginevra), dopo aver lodato lo stile… di questa storia e aver ammirato quei tratti… che caratterizzano tutte le opere di quest’illustre autore, ci ha fatto l’onore di dirci che era pronto a rilasciare un certificato al signor di Voltaire per attestare l’esattezza dei fatti contenuti in questa storia. Il principe ha aggiunto che il signor di Voltaire non ha tralasciato né trasposto nessun avvenimento, nessuna circostanza interessante; che tutto è vero; che tutto in questa storia occupa il giusto posto; che ha parlato della Polonia e di

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Tale atto, inviato all’autore, fu per lui una sorpresa tanto più gradita in quanto proveniente da un sovrano al corrente di tutti quegli avvenimenti quanto lo stesso Carlo XII, e che del resto in Europa è conosciuto tanto per il suo amore della verità che per la sua benevolenza.

Ci sono innumerevoli testimonianze altrettanto incontestabili sulla storia de Il secolo di Luigi XIV13, opera non meno veritiera e importante, colma di amore di patria, ma nella quale lo spirito patriottico nulla toglie alla verità e non ha mai né esagerato il bene né camuffato il male; opera che fu composta senza interesse, senza timore e senza speranza da un uomo che ha una condizione che lo mette in grado di non adulare alcuno.

Ne Il secolo di Luigi XIV ci sono poche citazioni, perché gli avvenimenti dei primi anni, conosciuti da tutti, non avevano bisogno che di essere messi in risalto, e degli ultimi è stato testimone l’autore. Al contrario, nella Storia dell’impero di Russia si citano sempre le fonti, e il primo di tali testimoni è proprio Pietro il Grande.

III

Non si sono spesi inutili sforzi, in questa Storia di Pietro il Grande, per ricercare l’origine della maggior parte dei popoli che compongono lo sterminato impero di Russia, dalla Kamčatka fino al mar Baltico. È una strana impresa voler provare con documenti autentici che un tempo gli Unni emigrarono in Siberia dal nord della Cina, e che i Cinesi a loro volta sono una colonia di Egizi. So che dei filosofi di gran merito14 hanno creduto di scorgere qualche rassomiglianza fra questi popoli, ma si è troppo abusato delle loro ipotesi e si è preteso mutare in certezza le loro congetture15.

Ecco per esempio come si fa oggi a dimostrare che gli Egizi sono i progenitori dei Cinesi. Un antico ha raccontato che l’egizio Sesostri si spinse fino al Gange; se andò verso il Gange, poteva andare anche in Cina, che è molto lontana dal Gange: dunque vi andò; ora la Cina era allora spopolata, quindi è evidente che Sesostri la popolò. Gli Egizi nelle loro feste accendevano delle candele; i Cinesi hanno delle lanterne, quindi non c’è dubbio che i Cinesi siano una colonia dell’Egitto. Gli Egizi, inoltre, hanno un

tutti gli eventi che vi si sono svolti, ecc., come se ne fosse stato testimone oculare. Attestiamo inoltre che il principe ci ha ordinato di scrivere seduta stante al signor di Voltaire per comunicargli ciò che avevamo udito e assicurarlo della sua stima e della sua amicizia… Commercy, 11 luglio 1759 – il conte di Tressan».

13 Opera di Voltaire scritta tra il 1735 e il 1739, poi rielaborata a Berlino nel 1750.14 Il riferimento è a Jean-Jacques D’Ortous (o Dortous) de Mairan (1678-1771), fisico,

matematico ed amico di Voltaire. Fu membro delle Accademie delle scienze di Parigi (dal 1718), di Londra, Edimburgo, Uppsala e San Pietroburgo.

15 Per i Cinesi, si allude all’opera Mémoire dans lequel on prouve, que les chinois sont une colonie égyptienne (1759) dell’orientalista Joseph de Guignes, come risulta dalla lettera del 9 agosto 1760 indirizzata a de Mairan, in cui Voltaire scrisse: «Sono stato obbligato in coscienza a ridere di lui, ma senza nominarlo, nella Prefazione alla storia di Pietro I. Si è stampata questa storia l’anno scorso, quando ho ricevuto questa burla del signor Guignes. Vi confesso che scoppiai a ridere…».

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grande fiume e anche i Cinesi ne hanno uno. Infine, è evidente che i primi re della Cina hanno portato i nomi degli antichi re egizi: infatti nel nome della famiglia Yu si possono ritrovare dei segni che, disposti in altro modo, formano la parola Menes. Perciò è incontestabile che l’imperatore Yu prese il nome da Menes re d’Egitto, e l’imperatore Ki è senza dubbio il re Atoës, cambiando la lettera k in a e la i in toës16.

Ma se un saggio di Tobol’sk17 o di Pechino avesse letto qualcuno dei nostri libri, potrebbe dimostrare in modo ben più convincente che noi discendiamo dai Troiani. Ecco come potrebbe procedere, e come stupirebbe i suoi connazionali con la profondità delle sue ricerche. I libri più antichi, egli direbbe, e più considerati nel piccolo Paese d’Occidente chiamato Francia sono i romanzi; essi erano scritti in una lingua pura, derivata dagli antichi Romani che non mentirono mai: ora, in più di venti di questi libri autentici si afferma che Francus, fondatore della monarchia dei Franchi, era figlio di Ettore18; da allora il nome Ettore si è sempre conservato nella nazione; e anzi nel nostro secolo, uno dei più grandi generali si chiamava Hector de Villars19.

Le nazioni vicine hanno unanimemente riconosciuto questa verità, tanto che uno dei più dotti italiani, l’Ariosto, ammette nell’Orlando furioso che i cavalieri di Carlomagno si battevano per il possesso dell’elmo di Ettore. Infine, una prova senza possibilità di replica consiste nel fatto che gli antichi Franchi, per perpetuare la memoria dei loro padri troiani, costruirono una nuova città di Troyes20 nella Champagne e questi novelli Troiani hanno conservato sempre una tale avversione per i Greci, loro nemici, che ancor oggi non si trovano quattro champenois21 disposti a imparare il greco. Nemmeno si sono mai voluti accogliere i gesuiti, probabilmente perché si è sentito dire che alcuni gesuiti, tempo addietro, spiegavano Omero ai giovani letterati.

Sicuramente queste argomentazioni farebbero un grande effetto a Pechino e a Tobol’sk; ma è anche vero che un altro studioso potrebbe demolire tutto questo edificio dimostrando che i Parigini discendono dai Greci, perché, direbbe, il primo presidente di un tribunale di Parigi si chiamava Achille de Harlay22. Achille deriva certamente dall’Achille greco, e Harlay deriva da Aristos cambiando istos in lai. Gli Champs-Elysées, che

16 Non risulta un faraone Atoës, forse si tratta di Athothis.17 Storica capitale della Siberia occidentale.18 Fu verso l’anno Mille che nacque la leggenda del principe troiano Francus (o Francion),

dapprima considerato figlio di Enea, poi figlio di Ettore e quindi nipote di Priamo, che sfuggì i Greci e fondò la Francia. Intorno al 1500 si diffuse anche la versione opposta, cioè che i Galli erano gli antenati dei Troiani.

19 Il nobile, accademico e ministro Claude Louis Hector de Villars (1653-1734) fu il quarto generale (dal XVI secolo) nominato “maresciallo generale di Francia”.

20 L’ipotesi sarebbe ovviamente costruita sulla grafia: Troia in francese è Troie. La città di Troyes (antica Augustobona) deve il nome al popolo dei Tricassi.

21 Abitanti della regione francese della Champagne.22 Il magistrato Achille de Harlay (1536-1616) fu nominato Primo presidente del Parlamento

di Parigi nel 1582 dal re Enrico III di Francia.

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sono ancor oggi alle porte della città, e il monte Olympe, che ancora si può vedere nei pressi di Mézières, sono monumenti contro i quali nulla può la più pervicace incredulità. D’altronde a Parigi sopravvivono tutte le usanze di Atene; si giudicano le tragedie e le commedie con leggerezza uguale a quella degli Ateniesi; si incoronano i generali d’armata nei teatri come ad Atene, e ultimamente il maresciallo di Sassonia ha ricevuto pubblicamente dalle mani di un’attrice una corona che non gli sarebbe stata conferita in una cattedrale23. I Parigini hanno delle Accademie derivate da quelle di Atene, una chiesa, una liturgia, delle parrocchie, delle diocesi, tutte invenzioni greche, tutte parole che vengono dal greco; le malattie dei Parigini sono greche: apoplessia, tisi, polmonite, cachessia, dissenteria, gelosia…

Bisogna confessare che questo sentimento bilancerebbe molto l’autorità del sapiente personaggio che ha appena dimostrato, che noi siano una colonia troiana. Queste due opinioni sarebbero ancora combattute da altri profondi studiosi dell’antichità: gli uni mostrerebbero che siamo Egiziani, visto che il culto di Iside attecchì nel villaggio di Issy sulla strada da Parigi a Versailles. Gli altri proverebbero che siamo Arabi. Come dimostrano le parole almanacco, alambicco, algebra, ammiraglio. Gli studiosi cinesi e siberiani sarebbero molto imbarazzati a decidere tra le due, e finirebbero per lasciarci così come stiamo.

Pare che ci si debba rassegnare a questa incertezza sulle origini di tutte le nazioni. Avviene con i popoli come con i casati: molti baroni tedeschi si fanno discendere in linea retta da Arminio e per Maometto fu composta una genealogia secondo cui egli discendeva da Abramo e da Agar.

Allo stesso modo la casata degli antichi zar di Russia proveniva da Bela re d’Ungheria, questo Bela da Attila, Attila da Turck, capostipite degli Unni, e Turck era figlio di Jafet. Suo fratello Russ aveva fondato il trono di Russia; un altro fratello di nome Camari si stabilì presso il Volga.

Tutti questi figli di Jafet erano, come si sa, nipoti di Noè, uomo sconosciuto a tutta la terra tranne che a un piccolo popolo rimasto a sua volta sconosciuto per lunghissimo tempo. I tre figli di questo Noè andarono presto a stabilirsi a mille leghe l’uno dall’altro, nel timore di doversi prestare aiuto, e fecero, probabilmente con le proprie sorelle, vari milioni di abitanti in pochi anni.

Più di un austero personaggio ha seguito esattamente queste filiazioni con la stessa sagacia con cui ha scoperto come i Giapponesi popolarono il Perù. Per lungo tempo la storia è stata scritta con questi criteri, che non

23 Nell’edizione del 1760, Voltaire spiegava il passo: «Era nel 1745, dopo la battaglia di Fontenoy, che il maresciallo [Maurizio] di Sassonia, assistendo dai palchi dell’Opéra a una rappresentazione dell’Armida, si vide offrire una corona d’alloro da M.lle Metz, che aveva il ruolo della Gloria».

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sono certo quelli del presidente di Thou24 e di Rapin de Thoyras25.

IV

Se bisogna essere assai cauti nei confronti degli storici che si rifanno alla torre di Babele e al diluvio, non meno dovremo diffidare di quelli che narrano per filo e per segno tutta la storia moderna, che entrano in tutti i segreti dei ministri e che forniscono con disinvoltura la relazione esatta di qualunque battaglia, mentre i generali avrebbero non poche difficoltà a renderne conto.

Dall’inizio del secolo scorso abbiamo avuto in Europa circa duecento grandi combattimenti, quasi tutti più cruenti delle battaglie di Arbela e Farsalo26, ma poiché solo pochi di tali eventi hanno avuto grandi conseguenze, essi sono perduti per la posterità. Se in tutto il mondo non ci fosse che un libro, i ragazzi ne saprebbero a memoria ogni riga, se ne conterebbe ogni sillaba; se non ci fosse stata che un’unica battaglia, si saprebbe il nome di ogni soldato e la sua genealogia verrebbe trasmessa ai posteri più lontani, ma nella lunga serie quasi ininterrotta di guerre sanguinose che si fanno i principi cristiani, gli antichi interessi, che sono tutti cambiati, sono soppiantati dai nuovi, e le battaglie di vent’anni fa vengono dimenticate per quelle che si combattono ai giorni nostri; allo stesso modo, a Parigi, le notizie di ieri sono eclissate da quelle di oggi che a loro volta lo saranno da quelle di domani, e quasi tutti gli avvenimenti precipitano gli uni con gli altri in un eterno oblio. È questa una riflessione che non si fa mai abbastanza: essa serve a consolarci delle disgrazie che ci succedono e dimostra la nullità delle cose umane. Per fissare l’attenzione degli uomini, non restano che le rivoluzioni memorabili, che hanno cambiato le leggi e i costumi dei grandi Stati, ed è come tale che merita di essere conosciuta la storia di Pietro il Grande.

Se ci siamo troppo dilungati su alcuni particolari di battaglie e di capitolazioni simili ad altre battaglie e ad altri assedi chiediamo venia al lettore filosofo: non abbiamo altra scusa se non quella che tali piccoli fatti, essendo legati ai grandi, procedono necessariamente al loro seguito.

Abbiamo confutato Nordberg27 nei luoghi che ci sono parsi più importanti,

24 Jacques Auguste de Thou (1553-1617) magistrato e storico, fu nominato nel 1595 Président à mortier, uno degli incarichi più importanti del sistema giudiziario francese durante l’Ancien Régime. Nel 1598 scrisse, in latino, Historiae sui temporis, sulla storia europea dal 1543 al 1607.

25 Paul Rapin de Thoyras (1661-1725) storico e calvinista francese migrato in Inghilterra, scrisse una Histoire d’Angleterre spesso citata da Voltaire come esempio di imparzialità.

26 La battaglia di Arbela avvenne nel 331 a.C. tra l’esercito di Alessandro Magno (vincitore) e quello di Dario III di Persia. La battaglia di Farsalo fu combattuta nel 48 a.C. tra l’esercito di Gaio Giulio Cesare (vincitore) e quello di Gneo Pompeo Magno.

27 Jöran Andersson Nordberg (1677-1744), biografo danese e cappellano di Carlo XII di Svezia dal 1707. Dopo la battaglia di Poltava (1709) fu imprigionato dai Russi e liberato nel 1715. La sua opera storica più nota è la biografia, più volte citata da Voltaire, intitolata Konung Carl XII: s historia (Storia di Carlo XII), pubblicata nel 1740 e tradotta

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e l’abbiamo lasciato sbagliare impunemente nelle piccole cose.

V

Abbiamo scritto la Storia di Pietro il Grande più corta e più densa di fatti che è stato possibile. Certe narrazioni di piccole province, di cittadine, di abbazie e perfino di monaci, sono in parecchi volumi in folio; le memorie di un abate28 che si ritirò per qualche anno in Spagna, dove non fece quasi nulla, occupano otto tomi: uno solo è bastato per la vita di Alessandro.

Può darsi che esistano ancora degli uomini-bambini, che preferiscono le favole dei vari Osiride, Bacco, Ercole e Teseo, consacrate dall’antichità, alla storia vera di un principe moderno, sia perché questi antichi nomi di Osiride e di Ercole suonano meglio di quello di Pietro, sia perché giganti e leoni atterrati piacciono a un’immaginazione debole più delle leggi e delle utili imprese. Tuttavia bisogna ammettere che la sconfitta del gigante di Epidauro, quella del ladro Sinnis e la lotta contro la scrofa di Crommione29 non valgono le imprese del vincitore di Carlo XII, del fondatore di Pietroburgo e del legislatore di un temibile impero.

È vero che gli antichi ci hanno insegnato a pensare, ma sarebbe veramente strano che si preferisse lo scita Anacarsi allo scita moderno che ha civilizzato tanti popoli, col pretesto che il primo era antico30.

In questa storia si narra la vita pubblica dello zar, che è stata utile, non la sua vita privata, sulla quale non ci sono che pochi aneddoti, peraltro piuttosto noti31. I segreti del suo gabinetto, del suo letto e della sua tavola, non possono e non debbono essere rivelati da uno straniero. Se qualcuno avesse potuto rilasciare memorie simili, questi sarebbe stato un uomo come il principe Menšikov32 o il generale Šeremetev33, che lo hanno visto a lungo nell’intimità; essi non l’hanno fatto, e oggi tutto quello che si basasse

in francese nel 1747 e in tedesco nel 1752.28 L’abate di Montgon. (Nota dell’Autore) – Charles-Alexandre de Montgon (1690-1770),

diplomatico e agente segreto di Filippo V di Spagna, pubblicò Mémoires de Monsieur l’abbé de Montgon nel 1750-1753 in otto tomi in dieci volumi.

29 Sono antichi miti greci, tutti e tre uccisi da Teseo.30 In questo punto nella prima edizione Voltaire scriveva: «Non si vede il motivo per cui il

legislatore della Russia debba cedere il passo a Licurgo e a Solone. Le leggi dell’uno, che raccomandavano l’amore per i ragazzi ai borghesi di Atene, e che li difendevano dagli schiavi; le leggi dell’altro, che ordinavano alle giovani di combattere a pugni tutte nude nella piazza pubblica, sono preferibili alle leggi di colui che ha formato uomini e donne alla fermezza, che ha creato la disciplina militare sulla terra e per mare e che ha aperto il suo Paese al progredire di tutte le arti?». Lo scita Anacarsi era un filosofo greco del VI secolo a.C., considerato uno dei Sette sapienti, che secondo Erodoto visse in Scizia, la regione compresa tra il Danubio e il Don.

31 Voltaire si era impegnato con Šuvalov, nel 1757, a sorvolare sulla vita privata dello zar.32 Principe Aleksandr Danilovič Menšikov (1672-1729), generale, collaboratore di Pietro e

uomo di governo anche sotto Caterina I. Dopo la morte della zarina, fu accusato di alto tradimento e omicidio e confinato con la famiglia in Siberia.

33 Sull’originale Sheremetof. Boris Petrovič Šeremetev (1652-1719), uomo politico e generale, fu ambasciatore sotto la reggente Sof’ja e in seguito diventò uno tra i più stretti collaboratori di Pietro I, accompagnandolo in tutte le battaglie.

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soltanto su pubbliche dicerie non meriterebbe alcun credito. Le menti sagge preferiscono vedere un grand’uomo lavorare venticinque anni per il bene di un vasto impero, piuttosto che apprendere in maniera molto incerta ciò che questo grand’uomo poteva avere in comune con il popolino del suo paese. Svetonio riferisce quanto di più segreto avevano i primi imperatori di Roma, ma aveva vissuto familiarmente con i dodici Cesari?34

VI

Quando non si tratta che di stile, di critica e di minuti interessi d’autore, bisogna lasciar abbaiare i piccoli libellisti: si renderebbe quasi altrettanto ridicolo chi perdesse il proprio tempo a rispondere loro o anche a leggerli; quando invece di tratta di fatti importanti, a volte bisogna che la verità s’abbassi a confondere perfino le menzogne degli uomini da poco: l’infamia di questi ultimi non deve impedire alla verità di farsi luce, allo stesso modo che la bassezza di un criminale della feccia del popolo non impedisce alla giustizia di intervenire contro di lui; è questa la duplice ragione per cui siamo stati costretti a ridurre al silenzio il colpevole ignorante che aveva corrotto la Storia del Secolo di Luigi XIV con note tanto assurde quanto calunniose, nelle quali oltraggiava brutalmente un ramo della casa di Francia, tutta la famiglia regnante di Austria e cento illustri famiglie d’Europa, le cui anticamere gli erano altrettanto sconosciute degli avvenimenti che osava falsificare35.

La deplorevole facilità con cui si pubblicano imposture e calunnie è un grave inconveniente inseparabile dalla nobile arte della stampa.

L’oratoriano36 Levassor e il gesuita La Motte, uno rifugiato in Inghilterra e l’altro in Olanda, scrivevano entrambi di storia per guadagnarsi il pane; il primo scelse come oggetto della sua satira il re di Francia Luigi XIII, il secondo prese a bersaglio Luigi XIV37.

La loro condizione di monaci apostati non era la più adatta a conciliar loro la fiducia pubblica; malgrado ciò è un vero piacere vedere con quale convinzione si proclamano entrambi depositari della verità: essi insistono senza posa sulla massima che bisogna avere il coraggio di dire tutto ciò che è vero; avrebbero dovuto aggiungere che tanto per cominciare bisogna

34 Gaio Svetonio Tranquillo, storico romano del I-II secolo, scrisse De vita Caesarum (La vita dei Cesari), in otto libri, in cui tratteggiò la biografia di dodici imperatori romani.

35 Voltaire si riferisce a Laurent Angliviel de La Beaumelle (1726-1773), che nel 1753 aveva pubblicato un’edizione de Le Siècle de Louis XIV corredata da note che confutavano alcune affermazioni di Voltaire. Gli fu attribuita anche un’anonima Lettre du czar Pierre à Voltaire, sur son histoire de Russie (1761), in cui Pietro, dall’oltretomba, rivolgeva alcune critiche a Voltaire senza risparmiare se stesso: «Ripetete mille volte che fui un grand’uomo: non me lo sarei mai aspettato. Non credo che la gente la pensi come voi. Al mio popolo ho dato solo quelle arti di cui avrei fatto bene a privarli se le avessero avute».

36 Sacerdote dell’Oratorio di Gesù e Maria Immacolata di Francia.37 Michel Le Vassor (o Levassor; 1646-1718) scrisse l’opera Histoire du règne de Louis XIII

(Amsterdam, circa 1700). Yves Joseph de La Motte (1680-1738) scrisse Histoire de la vie et du règne de Louis XIV (1740).

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esserne al corrente. La massima in bocca loro è la loro stessa condanna, ma la massima in sé merita un esame attento, perché è diventata la giustificazione di ogni satira.

Ogni verità pubblica, importante e utile deve essere detta, senza dubbio; ma se c’è qualche aneddoto odioso su un principe, se nell’intimità della sua casa ha ceduto, come tanti, a qualche debolezza umana nota forse soltanto a uno o due confidenti, chi vi ha autorizzato a rivelare al pubblico ciò che quei due confidenti non avrebbero dovuto rivelare ad alcuno? Ammettiamo pure che abbiate penetrato questo mistero, perché strappare il velo di cui ogni uomo ha il diritto di coprirsi nel segreto della propria casa? e per quale ragione rendere pubblico lo scandalo? Per solleticare la curiosità degli uomini, risponderete, per compiacere la loro malignità, per smerciare il libro che altrimenti non verrebbe letto. Dunque non siete altro che uno scrittore di satire, di libelli, un venditore di maldicenza, e non certo uno storico.

Se questa debolezza di un uomo pubblico, se questo vizio segreto che cercate di far conoscere, ha influito sui pubblici affari, se ha fatto perdere una battaglia, dissestato le finanze dello Stato, reso infelici i sudditi, voi dovete parlarne: il vostro dovere è di scoprire quel piccolo ingranaggio nascosto che ha prodotto grandi avvenimenti; tranne che in questo caso, voi dovete tacere.

«Che nessuna verità sia tenuta nascosta»: questa è una massima che ammette qualche eccezione. Ma eccone un’altra che non ne ammette alcuna: «Dite ai posteri soltanto ciò che è degno dei posteri».

VII

Oltre la menzogna nei fatti, c’è anche il falso nei ritratti. Questa smania di caricare un’opera storica di ritratti è cominciata in Francia con i romanzi. È Clelia38 che ha fatto diventare di moda questa mania. Agli albori del buon gusto39, Sarrasin scrisse la Storia della cospirazione di Wallenstein40, il quale non aveva mai cospirato, e nel tracciare il ritratto di Wallenstein, che non aveva mai visto, non manca di tradurre quasi tutto quello che Sallustio dice di Catilina, che Sallustio aveva visto molte volte. Questo significa scrivere la storia con bello spirito, e chi vuole ostentare troppo il proprio spirito, non riesce che a mostrarlo, il che è ben povera cosa.

Era giusto che il cardinale di Retz41 descrivesse i principali personaggi del

38 Clélie, histoire romaine, romanzo di Madeleine de Scudéry pubblicato in dieci volumi dal 1654 al 1660.

39 Ossia all’inizio del regno di Luigi XIV, il Re Sole.40 Sull’originale è Valstein. Jean-François Sarrasin (o Sarasin, 1604-1655), poeta

appartenente alla schiera dei “preziosi”, fu segretario del principe di Condé e scrisse La Conspiration de Wallenstein nel 1645.

41 Jean-François Paul de Gondi cardinale di Retz (1613-1679), storiografo e uomo politico. Nominato cardinale nel 1652 si scontrò con il cardinale Giulio Mazzarino che spinse il re Luigi XIV a farlo arrestare. Fuggito di prigione (1654) si rifugiò in Spagna e poi a Roma. Dopo la morte di Mazzarino (1661) rientrò nei favori di Luigi XIV, ricevette l’abbazia di Saint-Denis e fu incaricato di missioni diplomatiche. Del 1717 è un suo libro di memorie.

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suo tempo: li aveva frequentati tutti ed erano stati o suoi amici o suoi nemici; inoltre non li ha certo dipinti con i colori scialbi con cui Maimbourg42, nelle sue storie romanzate, tratteggia i principi dei tempi passati. Ma era Retz un pittore fedele? la passione, l’amore della singolarità non gli hanno guidato il pennello? Per esempio, doveva esprimersi così sulla regina, madre di Luigi XIV: «Aveva quel tipo di spirito che le serviva per non apparire sciocca agli occhi di chi non la conosceva; più arroganza che alterigia, più alterigia che grandezza, più apparenza che sostanza, più interesse per il denaro che liberalità, più liberalità che interesse, più interesse che disinteresse, più attaccamento che passione, più durezza che fierezza, più intenzione di pietà che pietà, più testardaggine che tenacia e più incapacità che tutto ciò che si è detto sopra»?

Bisogna ammettere che l’oscurità delle espressioni, la folla di antitesi e di comparativi e la caricatura di questo ritratto così indegno della storia non sono fatti per piacere agli intelletti solidi. Coloro che sono amanti della verità dubitano di quella del ritratto quando lo si paragona alla condotta della regina, e i cuori virtuosi sono altrettanto disgustati dall’asprezza e dall’ostilità usate dallo storico per parlare di una principessa che li ha colmati di benefici, essi si indignano nel vedere un arcivescovo che, come egli ammette, fa la guerra civile unicamente per il gusto di farla.

Se non ci si può fidare di ritratti come questi, tracciati da chi era in grado di fornire una rappresentazione esatta, come si potrà credere sulla parola a uno storico che pretende di conoscere a fondo un principe vissuto a seicento leghe43 da lui? In questo caso lo si dipinge attraverso le sue azioni, lasciando a chi l’ha frequentato a lungo di persona il compito di dire il resto.

Le arringhe sono un’altra specie di falso oratorio che gli storici si sono permessi in altri tempi. Si facevano dire agli eroi le cose che questi avrebbero potuto dire. Tale libertà era consentita soprattutto con un personaggio di un tempo lontano, ma oggi questi artifici non sono più tollerati: si esige molto di più, perché se si mettesse in bocca a un principe un discorso che questi non ha pronunciato, si guarderebbe allo storico soltanto come a un retore.

Una terza specie di falso, il più grossolano di tutti ma per lungo tempo il più seducente, è il meraviglioso: esso trionfa in tutte le storie antiche senza alcuna eccezione.

Si trova ancora qualche predizione nella Storia di Carlo XII di Nordberg, ma non se ne incontrano in nessuno dei nostri storici sensati che hanno scritto in questo secolo; segni, prodigi e apparizioni, sono lasciati alla favola. La storia aveva bisogno di essere illuminata dalla filosofia.

42 Louis Maimbourg (1610-1686), gesuita e storico. Per aver difeso pubblicamente Luigi XIV contro il papa Innocenzo X fu espulso dall’ordine. Fu uno scrittore prolifico di storia delle religioni e di lui Voltaire scrisse ne Le Siècle de Louis XIV «Ci sono delle sue storie che si leggono non senza piacere. Ciò che è singolare è che fu obbligato a lasciare i gesuiti per aver scritto in favore del clero francese».

43 La lega francese è pari a circa 4 km.

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VIII44

C’è un punto importante a proposito della dignità della corona. Olearius, che nel 1634 accompagnò alcuni inviati dello Holstein in Russia e in Persia45, riferisce nel libro III della sua storia che lo zar Ivan Vasil’evič46 aveva relegato in Siberia un ambasciatore dell’imperatore: è questo un fatto cui nessun altro storico, che io sappia, ha mai accennato, ma non è verosimile che l’imperatore tollerasse una violazione del diritto delle genti così insolita e offensiva.

Lo stesso Olearius scrive in un altro passo: «Partimmo il 13 febbraio 1634, in compagnia di un certo ambasciatore di Francia, che si chiamava Charles de Talleyrand, principe di Chalais, ecc. Luigi l’aveva inviato, assieme a Jacques Roussel, con un’ambasceria in Turchia e in Moscovia. Ma il suo collega gli rese pessimi servigi presso il patriarca, tanto che il granduca lo relegò in Siberia».

Nel terzo libro egli scrive che questo ambasciatore, principe di Chalais, e il citato Roussel, suo collega, che era un mercante, erano inviati di Enrico IV. È assai probabile che Enrico IV, morto nel 1610, non mandasse ambascerie in Moscovia nel 1634. Se Luigi XIII avesse mandato come ambasciatore un uomo che portava un nome illustre come quello dei Talleyrand, non gli avrebbe certo dato per collega un mercante; l’Europa sarebbe stata informata di questa ambasceria e l’insolito oltraggio fatto al re di Francia avrebbe destato uno scalpore ancor più grande47.

44 In origine, questo paragrafo era contenuto nella prefazione della seconda parte della Storia dell’impero di Russia (1763) ed era preceduto dal passo: «L’impero di Russia è ai nostri tempi così considerevole per l’Europa che Pietro, il suo vero fondatore, è diventato ancor più interessante. È lui che ha dato al Nord un nuovo volto; e, dopo di lui, la sua nazione è stata sul punto di cambiare le sorti della Germania e la sua influenza si è estesa sulla Francia e sulla Spagna, malgrado l’immensa distanza dei Paesi. La creazione di questo impero segna forse la più grande epoca per l’Europa, dopo la scoperta del nuovo mondo». Altri cambiamenti riguardano la correzione di alcuni refusi o sviste di poco conto.

45 Adam Olearius è il nome latino di Adam Ölschläger (o Oehlschlaeger; 1600-1671), che fu matematico e geografo alla corte di Federico III, duca di Holstein-Gottorp, e da lui inviato come segretario degli ambasciatori Philip Crusius e Otto Bruggemann sia a Mosca, nel 1634, che a Ispahan, Persia, nel 1636-1637. Sui viaggi scrisse Descrizione del viaggio in Moscovia e in Persia pubblicata nel 1647 e ampliata nel 1656. L’opera fu tradotta dal tedesco in francese nel 1656 e più volte ristampata; dalla biografia di Voltaire si sa che egli consultò l’edizione del 1727.

46 È Ivan IV il Terribile (1530-1584).47 L’equivoco tra Enrico IV e Luigi XIII nasce dalle traduzioni in francese dell’opera di

Olearius che su questo punto erano discordanti. Il 3 marzo 1635, Luigi XIII mandò effettivamente in Russia una richiesta di autorizzazione per Talleyrand, ma tale missiva fu pubblicata solo nel 1782. Charles de Talleyrand, marchese d’Exideuil (?-1645), giunse in Russia da Costantinopoli, verso il 1634, insieme a Jacques Roussel, un ugonotto francese al servizio degli Svedesi, e all’inviato del patriarca Cirillo Lukaris, l’archimandrita Philothéos, per presentare allo zar Michele III il progetto di porre sul trono di Polonia il luterano re di Svezia Gustavo Adolfo, in vista di un’ampia coalizione anti-cattolica che avrebbe unito l’Olanda, i principi protestanti, la Russia ortodossa e, possibilmente, la Turchia contro gli Asburgo. La missione non ottenne alcun risultato e, denunciato da Roussel, Talleyrand fu imprigionato a Galič e qualche anno dopo liberato.

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Avendo contestato questo fatto non credibile e vedendo che la favola di Olearius aveva trovato un certo credito, mi sono sentito in dovere di chiedere chiarimenti all’archivio degli Affari esteri di Francia48. Ecco l’origine della svista di Olearius.

Vi fu effettivamente un membro della famiglia dei Talleyrand, uomo molto amante dei viaggi, che si spinse fino in Turchia senza farne parola alla famiglia e senza farsi dare alcuna lettera di presentazione. Egli si imbatté in un mercante olandese, tale Roussel, rappresentante di una compagnia commerciale e non senza rapporti col ministero di Francia. Il marchese di Talleyrand si accompagnò a lui per andare a visitare la Persia; avendo litigato lungo la strada con il compagno di viaggio, Roussel lo calunniò presso il patriarca di Mosca. Lo si mandò effettivamente in Siberia, ma trovò il modo di avvertire la famiglia e, dopo tre anni, il segretario di Stato Desnoyers ottenne la sua libertà dalla corte di Mosca.

Ecco chiarito l’episodio, che non è degno di passare alla storia se non nella misura in cui mette in guardia contro la prodigiosa quantità di aneddoti di questo tipo riferiti dai viaggiatori.

Vi sono degli errori storici, ma vi sono anche dei falsi storici. L’episodio riferito da Olearius non è che un errore; ma quando si dice che uno zar dette ordine affinché fosse inchiodato il cappello sulla testa di un ambasciatore, dice il falso49. Che ci si sbagli sul numero e la forza delle navi di una flotta, che si attribuisca a una regione maggiore o minore estensione, questi non sono che errori, sviste perdonabili. Coloro che ripetono le antiche leggende, dentro le quali si sviluppa l’origine di tutte le nazioni, possono essere accusati di una debolezza comune a tutti gli scrittori dell’antichità: ciò non significa mentire, ma solo trascrivere dei racconti.

La disattenzione ci rende soggetti anche a svariati errori che non si possono definire falsi. Se nella nuova geografia di Hubner50 si legge che i confini dell’Europa si trovano nel punto il cui il fiume Ob si getta nel mar Nero e che l’Europa ha trenta milioni di abitanti, si tratta di errori di disattenzione che ogni lettore istruito è in grado di rettificare. Questa geografia presenta spesso città grandi, fortificate e popolose, che ormai sono soltanto borghi semideserti: di qui è facile accorgersi che il tempo ha mutato tutto: l’autore ha consultato scrittori antichi e ciò che era vero ai tempi loro, oggi non lo è più.

Inoltre, ci si può sbagliare facendo delle illazioni. Pietro il Grande abolì il patriarcato; Hubner aggiunge che si proclamò egli stesso patriarca. Degli aneddoti di presunta origine russa vanno ancora oltre e dicono che egli officiò in veste di pontefice: così da un fatto autentico si traggono conclusioni errate, cosa questa fin troppo comune51.

48 La lettera fu indirizzata a Étienne François de Choiseul (1719-1785), abile statista e diplomatico francese, amico personale di Voltaire.

49 L’episodio è attribuito allo zar Ivan IV e compare in una lettera del 1761 a Šuvarov.50 La Geografia Universale di Johann Hubner (1688-1731), geografo e storico tedesco, fu

tradotta in francese nel 1757.51 Qui Voltaire corregge se stesso: negli Aneddoti sullo zar Pietro il Grande del 1748

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Quello che ho definito falso storico è ancora più diffuso: si tratta di quello che l’adulazione, la maldicenza o l’amore smodato del meraviglioso spingono a inventare. Lo storico che, per piacere a una potente famiglia, loda un tiranno, è un vile; colui che vuole diffamare la memoria di un buon principe è un mostro, e il romanziere che spaccia per verità le proprie fantasie è disprezzabile. Chi un tempo faceva rispettare le favole da intere nazioni, oggi non sarebbe letto dall’ultimo degli uomini.

Ci sono dei critici più menzogneri ancora, che alterano dei passi o non ne afferrano il senso, che, ispirati dall’invidia, scrivono da ignoranti contro le opere utili: essi sono i serpenti che rodono la lima, bisogna lasciarli fare.

PARTE PRIMA

Premessa

Nei primi anni del nostro secolo l’uomo comune non conosceva nel Nord altri eroi all’infuori di Carlo XII. Il suo valore personale, molto più da soldato che da re, la fama delle sue vittorie e persino delle sue sfortune, saltavano agli occhi di coloro che notano facilmente i grandi eventi ma non si accorgono delle imprese utili e di lungo respiro. A quell’epoca gli stranieri dubitavano perfino che le iniziative dello zar Pietro I fossero destinate a durare: esse hanno resistito e si sono perfezionate sotto le imperatrici Anna ed Elisabetta52 e soprattutto sotto Caterina II, che ha portato tanto lontano la gloria della Russia. Quest’impero è oggi annoverato fra gli Stati più fiorenti e Pietro tra i massimi legislatori. Sebbene agli occhi dei saggi le sue imprese non avessero bisogno di riuscita, i successi hanno consolidato per sempre la sua gloria. Oggi si ritiene che Carlo XII avrebbe meritato di essere il primo soldato di Pietro il Grande53. Il primo non ha lasciato che rovine, il secondo fu un iniziatore in tutti i campi. Osai formulare press’a poco tale giudizio trent’anni fa, quando scrissi la storia di Carlo54. Le

(traduzione in italiano in www.larici.it) riportò che Pietro aveva svolto le funzioni di patriarca.

52 Nella prima edizione del 1760, Voltaire non cita l’imperatrice Anna.53 Voltaire parafrasa Montesquieu che, in Esprit des lois (l. X, cap. 18), aveva scritto di Carlo

XII: «Egli non era affatto Alessandro [Magno], ma sarebbe stato il miglior soldato di Alessandro».

54 All’inizio della Storia di Carlo XII, Voltaire scrisse: «Ci si sarebbe dunque ben guardati dall’aggiungere questa storia particolare di Carlo XII re di Svezia alla moltitudine che opprime il pubblico, se questo principe e il suo rivale Pietro Alekseevič, uomo molto più grande di lui, non fossero stati, a giudizio di tutti, i personaggi più singolari degli ultimi venti secoli».

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relazioni che mi vengono oggi inviate sulla Russia mi mettono in grado di far conoscere quest’impero, nel quale le popolazioni sono di origine molto antica e in cui le leggi, le usanze e le arti sono una creazione recente. La storia di Carlo XII era interessante, quella di Pietro I è istruttiva.

Capitolo I

DESCRIZIONE DELLA RUSSIA

L’impero di Russia è il più vasto del nostro emisfero; si estende da Occidente a Oriente per più di duemila leghe francesi, e da nord a sud, nel punto di massima larghezza, misura più di ottocento leghe. Confina con la Polonia e col mar Glaciale, arriva alla Svezia e alla Cina. La sua lunghezza, tra l’isola di Dagö55, situata a ovest della Livonia56, e gli estremi confini orientali comprende quasi 170 gradi, di conseguenza quando è mezzogiorno a occidente dell’impero, è quasi mezzanotte a oriente. La larghezza da nord a sud è di 3.600 verste, cioè 850 delle nostre leghe comuni57.

Nel secolo scorso conoscevamo così male i confini del Paese che nel 1689, allorché sapemmo che i Russi e i Cinesi erano in guerra, e che l’imperatore K’hang-hsi, da una parte, gli zar Ivan e Pietro dall’altra, per comporre la controversia, mandavano un’ambasceria a trecento leghe da Pechino, al confine tra i due imperi, dapprima prendemmo l’avvenimento per una favola58.

Il territorio oggi compreso sotto il nome di Russia o di Russie è più esteso di tutto il resto dell’Europa, più di quanto non sia mai stato l’impero romano o quello di Dario conquistato da Alessandro: infatti abbraccia più di un milione e centomila delle nostre leghe quadrate. L’impero romano e quello di Alessandro ne contavano solo 550.000 a testa e nessun regno europeo raggiunge la dodicesima parte di quello romano. Per rendere la Russia popolosa, fiorente e ricca di città come i nostri Paesi meridionali, occorreranno ancora vari secoli e vari imperatori come lo zar Pietro il Grande.

Un ambasciatore inglese, che nel 1733 risiedeva a Pietroburgo e che era stato a Madrid, disse nella sua relazione manoscritta che in Spagna, il Paese meno popoloso d’Europa, si contano quaranta persone per miglio quadrato59 e che in Russia ce ne sono soltanto cinque; vedremo nel secondo capitolo se

55 Hiiumaa (in svedese e tedesco: Dagö) è la seconda isola più grande dell’Estonia.56 Regione storica baltica estesa tra la Lettonia a sud e l’Estonia a nord, suddivisa tra i due

Paesi nel 1920.57 Una versta corrisponde a 1066,8 metri.58 K’hang-hsi (o Kangxi; 1654-1722) fu il terzo imperatore della dinastia Qing dal 1661.

Cinesi e Russi si scontrarono lungo il fiume Amur per tutto il decennio del 1650. Alla vittoria dei Cinesi ribatterono i Russi nel 1680, finché il trattato di Nerčinsk (1689) stabilì che il fiume Amur era cinese e lungo alcuni suoi affluenti fu segnato il confine.

59 Un miglio quadrato corrisponde a circa 259 ettari.

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su tale minimo aveva ragione. Nella Dîme, a torto attribuita al maresciallo di Vauban60, è detto che in Francia la media è di circa duecento abitanti per miglio quadrato. Queste valutazioni non sono mai esatte, ma solo utili per mostrare le enormi differenze di popolazione tra un Paese e l’altro.

Vorrei a questo punto rilevare che tra Pietroburgo e Pechino, sulla strada che le carovane potrebbero prendere attraverso la Tartaria indipendente61, passando per le pianure dei Calmucchi62 e per il grande deserto del Gobi, si trova sì e no una grande montagna; e si noti che tra Archangel’sk e Pietroburgo e tra Pietroburgo e i confini della Francia settentrionale, passando per Danzica, Amburgo e Amsterdam, non si incontra una sola collina di altezza rispettabile. Questa osservazione potrebbe far dubitare della verità di quel sistema secondo cui le montagne si sarebbero formate solo col movimento delle onde del mare, supponendo che tutte le attuali terre siano state mari per lunghissimo tempo. Come è mai possibile che le onde, le quali, secondo quest’ipotesi, avrebbero formato le Alpi, i Pirenei e il Tauro63, non abbiano formato qualche altura anche tra la Normandia e la Cina, lungo un’estensione tortuosa di tremila leghe? Considerata sotto questo aspetto, la geografia potrebbe illuminare la fisica o almeno farle sorgere dei dubbi.

Un tempo chiamavano la Russia col nome di Moscovia perché la città di Mosca, capitale dell’impero, era la residenza dei granduchi di Russia; oggi è prevalso l’antico nome di Russia.

Non è mio compito qui indagare perché i territori da Smolensk fino a Mosca e oltre siano stati chiamati Russia bianca, perché Hubner li chiami Russia nera, e per quale ragione la regione di Kiev debba essere la Russia rossa.

È anche possibile che lo scita Madyes64, il quale fece una scorreria in Asia all’incirca sette secoli prima della nostra era, abbia portato le sue armi in

60 La Dîme Royale (La Decima reale), trattato di economia pubblicato nel 1707, fu proprio scritto dal maresciallo di Vauban (Sébastien Le Prestre de Vauban; 1633-1707).

61 A fine Settecento, l’Asia settentrionale (ossia senza Turchia, Arabia, Persia, India e Cina) era divisa in Tartaria russa, a nord, Tartaria Cinese, a est, e Tartaria indipendente che, a Occidente, aveva come confine il fiume Dnepr. Secondo l’uso dell’epoca Tatari è sempre scritto Tartares (Tartari) facendo derivare il nome dal latino tartarus, “barbaro” che richiamava gli spaventosi Tartari della mitologia greca, e non da quello effettivo della tribù (Tatarlar), di conseguenza al loro territorio è stato dato il nome di “Tartaria”.

62 I Calmucchi abitavano la regione tra il mar d’Azov e il mar Caspio.63 Catena montuosa della Turchia.64 Sull’originale: Madiès. Erodoto racconta, nel I libro delle sue Storie, che nel 648 a.C. gli

Sciti guidati dal re Madyes e perseguitati dai Massageti sulle coste del Caspio, superarono il Volga e il Don e invasero la Media dove rimasero ventotto anni, poi furono costretti a rifugiarsi in Lidia e, dopo il 601, si stabilirono tra il Don e il Danubio, vivendo in pace con Greci e Tauri. Nel Dictionnaire philosophique (1764), Voltaire scrive alla voce “Histoire”: «Cet art [la scrittura] ne dut pas être moins inconnu au Scythe Oguskan, nommé Madiès par les Persans et par les Grecs, qui conquit une partie de l’Europe e de l’Asie si longtemps avant le règne de Cyrus». Oguz khan è una figura dai contorni leggendari che i Turchi considerano il loro padre e il conquistatore di tutto il mondo allora conosciuto. Nella letteratura del Sette-Ottocento non è infrequente trovare assimilati Madyes e Oguz khan.

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quelle contrade come fecero in seguito Gengis65 e Tamerlano66 e come probabilmente era avvenuto molto prima di Madyes. Non tutta l’antichità merita le nostre ricerche: quella dei Cinesi, degli Indiani, dei Persiani e degli Egiziani è attestata da monumenti illustri e interessanti. Tali monumenti ne presuppongono altri ancora più antichi; infatti devono passare molti secoli prima di poter anche solo inventare l’arte di tramandare il pensiero per mezzo di segni durevoli, e prima ancora occorrono molti secoli perché si costituisca un linguaggio regolare. Ma noi, nella nostra Europa oggi così civile, non possediamo siffatti monumenti; l’arte della scrittura fu per lungo tempo ignorata in tutto il Nord. Il patriarca Costantino che in Russia scrisse la storia della regione di Kiev67, ammette che in quel Paese la scrittura non era ancora in uso nel V secolo.

Lascio ad altri il compito di esaminare se gli Unni, gli Slavi e i Tatari condussero in passato famiglie nomadi e famelici verso le sorgenti del Boristene68.

Io mi propongo di mostrare quello che lo zar Pietro ha creato, piuttosto che tentare di penetrare invano l’antico caos. Bisogna ricordarsi sempre che nessuna famiglia sulla Terra conosce il proprio capostipite, e di conseguenza nessun popolo può sapere la sua prima origine.

Per designare gli abitanti di quel vasto impero, mi servo del termine di Russi. Quello di Roxolani69 che si dava loro un tempo sarebbe più altisonante, ma bisogna conformarsi all’uso della lingua in cui si scrive. Da qualche tempo le gazzette e altre relazioni adottano quello di Russiani, ma dato che quel parola ricorda troppo da vicino quella di Prussiani, resto fedele a quella di Russi che è stata data loro da quasi tutti i nostri scrittori; mi pare giusto che il popolo più grande della terra debba essere conosciuto con un termine che lo distingua senza possibilità di equivoco dalle altre nazioni70.

Innanzitutto occorre che il lettore si faccia sulla carta geografica un’idea precisa di questo impero attualmente diviso in sedici grandi governatorati, che saranno un giorno suddivisi, quando le regioni settentrionali e orientali

65 Gengis khan (o Genghiz khan), titolo onorifico di Tamugi’n (o Temucin; 1155?-1227), fondatore dell’impero mongolo, i cui confini andavano dall’oceano Pacifico al mar Caspio.

66 Tamerlano è in nome dato in Occidente a Timur Lang, ossia Timur lo zoppo, (1336-1405), che costruì un impero comprendente Persia, Iraq, Anatolia, Armenia, Georgia, parte della Siria e dell’India. Morì progettando la conquista della Cina.

67 È un errore di Voltaire: la Cronaca degli anni passati – la più antica cronaca russa che racconta la fondazione di Kiev e della Rus’ (traduzione in www.larici.it) – è per convenzione attribuita a Nestore, monaco del monastero delle Grotte di Kiev, che raccolse e ordinò i materiali. Fu poi fatta riscrivere nel 1116 dal principe Vladimir II Monomaco nel 1116. Col nome di Costantino furono due patriarchi di Costantinopoli (dal quale dipendeva la Russia): Costantino III (dal 1059 al 1063) e Costantino IV (dal 1154-1156).

68 Da Borysthenes, nome greco del fiume Dnepr.69 Anticamente i Roxolani erano una tribù sarmata che abitava tra i fiumi Danubio e Dnepr.70 Voltaire scrisse a Šuvalov: «La parola Russo è qualcosa di più fermo, di più nobile, di più

originale di Russiano, aggiungete che Russiano assomiglia troppo a un termine molto sgradevole nella nostra lingua, che è ruffiano, e la maggior parte delle nostre dame pronuncia la doppia ss come ff, è un equivoco indecente che bisogna evitare».

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avranno un maggior numero di abitanti.Ecco questi sedici governatorati, alcuni dei quali comprendono immense

province.

LIVONIA

La provincia che più si avvicina al nostro clima è la Livonia una delle più fertili del Nord. Nel XII secolo era pagana. Alcuni mercanti di Brema e di Lubecca vi commerciavano e alcuni religiosi crociati detti portaspada, che in seguito dovevano fondersi con l’Ordine Teutonico71, la conquistarono nel secolo XIII, all’epoca in cui il furore delle crociate armava i cristiani contro chiunque non praticasse la loro religione. Verso il 1514 Alberto, Margravio di Brandeburgo e Gran Maestro di quell’Ordine di conquistatori, si proclamò re della Livonia e della Prussia brandeburghese72. Da quel momento Russi e Polacchi si contesero quella provincia. Ben presto vi misero piede gli Svedesi; a lungo il Paese fu devastato da tutte queste potenze. Gustavo Adolfo re di Svezia lo conquistò73. Nel 1660 fu ceduto alla Svezia con la celebre pace di Oliva74 e finalmente lo zar Pietro lo tolse agli Svedesi, come si vedrà nel corso della presente storia75.

La Curlandia76, che è contigua alla Livonia, è tuttora vassalla della Polonia ma dipende strettamente dalla Russia. Sono questi i confini occidentali dell’impero con l’Europa cristiana.

GOVERNATORATI DI REVAL, PIETROBURGO E VYBORG

Più a nord si trovano i governatorati di Reval77 e dell’Estonia. Reval fu costruita dai Danesi nel XIII secolo. Gli Svedesi furono padroni dell’Estonia dal 1651, anno in cui il Paese si mise sotto la protezione della Svezia; anch’esso è una conquista di Pietro.

Al limite dell’Estonia si trova il golfo di Finlandia. A oriente di questo mare, alla foce della Neva e del lago Ladoga, si trova la città di Pietroburgo, la città più nuova e più bella dell’impero, costruita dallo zar Pietro malgrado tutti gli ostacoli che congiuravano contro la sua fondazione.

Essa sorge sul golfo di Kronštadt78, su nove bracci di fiume che dividono i vari quartieri; al centro della città, su un’isola formata dal ramo principale della Neva, sorge un castello; sette canali alimentati dai fiumi bagnano le

71 Il 12 maggio 1237.72 Non nel 1514 ma nel 1525.73 Nel 1629. La Livonia non fu conquistata in battaglia ma con un trattato di pace con il re

polacco Sigismondo III Vasa.74 Le paci di Oliva e, nello stesso anno, di Copenaghen conclusero la prima Guerra del Nord

(1655-1660) e sancirono l’egemonia svedese sul Baltico.75 Nel capitolo XIX della Parte prima.76 Regione storica compresa nell’attuale Lettonia, che confinava a ovest con la Livonia.77 Odierna Tallinn.78 Kronštadt è una città-fortezza e un porto sull’isola di Kotlin, nel golfo di Finlandia, costruiti

nel 1704 per difendere San Pietroburgo.

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mura di una residenza reale, quelle dell’ammiragliato, quelle del cantiere delle galere e quelle di numerose manifatture. Trentacinque grandi chiese costituiscono altrettanti ornamenti per la città; cinque di esse sono destinate agli stranieri, sia cattolici romani, sia luterani, sia riformati: sono cinque templi innalzati alla tolleranza e altrettanti esempi per le altre nazioni. Vi sono cinque residenze reali; quella vecchia, detta palazzo d’estate, che sorge sulla Neva, è fiancheggiata lungo il fiume da una grandiosa balaustrata di marmi pregiati. Il nuovo palazzo d’estate, vicino alla porta trionfale, è uno dei più begli esempi di architettura che esistano in Europa; gli edifici dell’ammiragliato, del corpo dei cadetti, dei collegi imperiali, dell’accademia delle scienze, della borsa, del deposito delle merci e di quello delle galere sono altrettanti mirabili monumenti. La sede della polizia, quella della farmacia pubblica, in cui tutti i vasi sono di porcellana, il magazzino di corte, la fonderia, l’arsenale, i ponti, i mercati, le piazze e le caserme per le guardie a piedi e a cavallo contribuiscono sia all’abbellimento della città che alla sua sicurezza. Essa conta attualmente 400.000 anime. Nei dintorni della città sono disseminate alcune ville che per la loro magnificenza stupiscono i viaggiatori: ce n’è una in cui gli zampilli delle fontane sono molto più alti di quelli di Versailles. Nel 1702 non c’era nulla: soltanto una palude impraticabile. Pietroburgo è considerata la capitale dell’Ingria, piccola provincia79 conquistata da Pietro I.

Vyborg, conquistata da lui, e la parte della Finlandia perduta e ceduta dalla Svezia nel 1742 formano un altro governatorato.

ARCHANGEL’SK

Più in alto, risalendo verso nord, si trova la provincia di Archangel’sk, regione del tutto sconosciuta alle nazioni meridionali dell’Europa. Essa prende il nome da San Michele arcangelo, sotto la cui protezione fu posta molto tempo dopo la conversione dei Russi al cristianesimo, che essi abbracciarono solo all’inizio del secolo XI. Solo verso la metà del secolo XVI le altre nazioni conobbero l’esistenza di questo Paese. Nel 1553 gli Inglesi cercavano un passaggio per le Indie orientali tra il mare del Nord e quelli orientali. Chancellor, capitano di una delle navi allestite per questa spedizione, scoprì il porto di Archangel’sk nel mar Bianco80. In quel deserto non c’era che un convento e una chiesetta dedicata all’arcangelo San Michele. Partendo da questo porto e risalendo la Dvina, gli Inglesi giunsero nell’interno e finalmente a Mosca. Essi monopolizzarono senza difficoltà il commercio della Russia che, dalla città di Novgorod, dove si svolgeva per via di terra, fu deviato verso quel porto di mare. È vero che esso è

79 L’Ingria si estendeva dalla Livonia al lago Ladoga.80 Nel 1553, Richard Chancellor, capitano del vascello “Edward Bonaventure” ed esploratore

inglese, era diretto in Cina, ma, persosi, capitò nel mar Bianco e scoprì il fiume Dvina e due anni dopo iniziò ufficialmente il traffico commerciale tra gli Inglesi (dal 1560 anche Olandesi e Scozzesi) e i Moscoviti dello zar Ivan IV il Terribile, risalendo il fiume. La città di Archangel’sk (talvolta tradotta con Arcangelo) fu fondata nel 1584.

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inaccessibile per sette mesi all’anno, ma nonostante ciò si dimostrò molto più utile delle fiere della grande Novgorod, la cui decadenza s’era iniziata con le guerre contro la Svezia. Gli Inglesi ottennero il privilegio di commerciarvi senza pagare alcun dazio; forse tutte le nazioni dovrebbero commerciare tra loro in questo modo. Ben presto essi divisero con gli Olandesi il commercio di Archangel’sk che rimase sconosciuto al resto del mondo.

Molto tempo prima, i Genovesi e i Veneziani avevano impiantato un commercio con i Russi attraverso la foce del Tanais81, dove avevano fondato una città chiamata Tana82; ma in seguito alla desolazione seminata da Tamerlano in quella parte del mondo, questo ramo del commercio italiano era andato distrutto; quello di Archangel’sk sopravvisse con gran vantaggio degli Inglesi e degli Olandesi fino al momento in cui Pietro il Grande dette alla sua nazione uno sbocco sul Baltico.

LAPPONIA RUSSA. GOVERNATORATO DI ARCHANGEL’SK

A occidente di Archangel’sk, compresa nello stesso governatorato, si trova la Lapponia russa, che costituisce la terza parte di questa regione; le altre due appartengono alla Svezia e alla Danimarca. È un Paese vastissimo che occupa all’incirca 8° di longitudine e che si estende in latitudine dal circolo polare al capo Nord. I popoli che lo abitano erano vagamente conosciuti dagli antichi come Trogloditi e Pigmei settentrionali, nomi che effettivamente si addicevano a uomini alti per lo più tre braccia83 e che abitavano nelle caverne. Sono rimasti come allora, di colorito olivastro, mentre le altre popolazioni settentrionali sono di pelle bianca, e quasi tutti di piccola statura, mentre i loro vicini e i popoli dell’Islanda al disotto del circolo polare sono di statura alta. Sembrano fatti apposta per il loro Paese montuoso: tarchiati, agili, robusti, duri di pelle per meglio resistere al freddo, hanno cosce e gambe agili e piedi piccoli per correre più leggeri in mezzo alle rocce di cui è ricoperta la loro terra. Nutrono per la patria un amore appassionato e sono gli unici a poterla amare, poiché non si adatterebbero a vivere altrove. Si è voluto sostenere sulla testimonianza di Olaus84 che questo popolo fosse originario della Finlandia, e che si fosse poi ritirato in Lapponia dove la sua statura sarebbe degenerata. Ma perché non

81 Nome greco del fiume Don.82 Anche la città si chiamava in greco Tanais, ma nelle traduzioni si suole diversificare i

nomi. Tana fu costruita nel VII secolo a.C.83 Il pigmeo era infatti un’unità di misura equivalente alla distanza tra il gomito e le punta

delle dita, ossia circa 46 cm., cosicché con Pigmeo si indica una persona alta meno di 1,50 m. I Lapponi hanno una statura poco superiore (ma inferiore a 1,60 m).

84 Olaus Magnus, nome latino di Olav Manson (in italiano Olao Magno; 1490-1557), geografo e arcivescovo svedese. Nel 1555 scrisse la Historia de gentibus septentrionalibus (Storia dei popoli settentrionali) in ventidue volumi, in cui oltre a dare tutte le informazioni geografiche e naturalistiche raccontava usi, costumi e credenze di Svedesi e Lapponi. L’opera fu tradotta nelle principali lingue europee e costituì a lungo il principale testo di riferimento sui popoli scandinavi.

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scegliere un territorio meno settentrionale, dove la vita fosse più facile? Perché i lineamenti del volto, l’aspetto, il colorito, tutto è completamente diverso dai presunti progenitori? Sarebbe altrettanto lecito dire che l’erba che cresce in Lapponia derivi da quella di Danimarca, e che i pesci che vivono soltanto nei loro laghi derivino dai pesci della Svezia. Tutto lascia supporre che i Lapponi siano indigeni esattamente come i loro animali che sono un prodotto della loro terra, e che la natura li abbia fatti gli uni per gli altri.

Coloro che abitano al confine con la Finlandia hanno adottato alcuni modi di dire dei loro vicini, come accade presso tutti i popoli. Tuttavia se due popoli danno agli oggetti d’uso e alle cose che vedono ogni giorno nomi completamente diversi, questo è un valido motivo per supporre con quasi assoluta certezza che un popolo non è colonia dell’altro. I Finlandesi chiamano l’orso karhu, i Lapponi muriet85; il sole in finlandese si chiama aurinko86, in lappone beiwe87: non c’è nessuna rassomiglianza. Gli abitanti della Finlandia e della Lapponia svedese adoravano in altri tempi un idolo chiamato Jumala; e sin dai tempi di Gustavo Adolfo, a cui devono il nome di luterani, chiamano Gesù Cristo figlio di Jumala88. Attualmente i Lapponi moscoviti sono membri della Chiesa greca, ma quelli che vivono allo stato nomade presso le montagne settentrionali del capo Nord si limitano ad adorare un Dio sotto vari aspetti grossolani, antica usanza comune a tutti i popoli nomadi.

Questa specie umana è poco numerosa e ha pochissime idee: è una fortuna che non ne abbiano di più, perché in tal caso avrebbero nuove esigenze che non potrebbero soddisfare. Vivono felici e senza malattie, non bevendo che acqua in un clima freddissimo, e arrivano a un’età molto avanzata. Viene loro attribuita l’usanza di pregare gli stranieri affinché vogliano concedere alle loro mogli e alle loro figlie l’onore di avvicinarle; quest’usanza deriva probabilmente dalla consapevolezza della superiorità che riconoscono agli stranieri e dal desiderio che servano a correggere i difetti della razza. Quest’usanza era diffusa anche presso il virtuoso popolo di Lacedemone89. Lo sposo chiedeva a un giovane di bell’aspetto che gli

85 Sull’originale karu e muriet. La parola “muriet” non si è trovata: in lingua svedese l’orso è björn , in norvegese è bjørn, in sami è bierdna, in russo è medved’. Resta comunque valido il ragionamento di Voltaire.

86 Sull’originale auringa.87 Sull’originale beve. Beiwe (o Beivve) è il nome della dea Sole e della fertilità ed è la

madre delle renne.88 Sull’originale Iumalac. Nelle antiche lingue nordiche, il termine jumala significava “dio” e

indicava un essere superiore non ben definito, poi fu chiamato Jumala il “dio del cielo” che dava la pioggia e il sole e infine il nome fu dato al Dio supremo che nel Medioevo, quando si diffuse il cristianesimo, indicò Dio Padre. Il passaggio al luteranesimo degli Svedesi avvenne nel 1526-1527, quando Gustavo I (1496-1560), re di Svezia dal 1523, ruppe con la Chiesa cattolica latina. Gustavo II Adolfo fu re di Svezia dal 1611 al 1632 ed è forse citato perché combatté contro Sigismondo III Vasa re polacco cattolico.

89 Altro nome della città greca di Sparta, mitologicamente fondata dal dio Lacedemone, figlio di Zeus e re della Laconia.

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desse dei bei bambini da poter adottare. La gelosia e le leggi impediscono agli altri uomini di concedere le proprie mogli, ma i Lapponi erano quasi privi di leggi e probabilmente non erano gelosi.

MOSCA

Risalendo la Dvina da nord a sud si arriva, nell’interno, a Mosca, capitale dell’impero. Prima degli ingrandimenti territoriali in direzione della Cina e della Persia, questa città fu lungamente al centro della nazione russa.

Situata a 55° e mezzo di latitudine, in una zona meno fredda e più fertile rispetto a quella di Pietroburgo, Mosca sorge al centro di una vasta e bella pianura, sulla Moscova90 e su altri due fiumicelli che sboccano con essa nell’Oka e vanno poi ad ingrossare il Volga. Nel XIII secolo questa città non era che un agglomerato di capanne, abitate da infelici oppressi dalla razza di Gengis khan.

Il Cremlino, che fu la residenza dei granduchi, è stato costruito solo nel XIV secolo91, tanto recenti sono le città in questa parte del mondo. Questo Cremlino, come molte chiese gotiche, fu costruito da architetti italiani in quello stile gotico che era diffuso allora in tutta l’Europa. Due chiese sono del celebre Aristotele da Bologna che fiorì nel XV secolo92, ma le case private erano semplici catapecchie di legno.

Il primo scrittore che ci fece conoscere Mosca è Olearius93, che nel 1633 accompagnò il duca di Holstein in un’ambasceria tanto vana nello sfarzo quanto inutile nello scopo. È naturale che un abitante dello Holstein restasse colpito dell’immensità di Mosca, dalle sue cinque cinte di mura, dal vasto quartiere degli zar e da una certa magnificenza asiatica che regnava a corte in quei tempi. In Germania a quell’epoca non c’era nulla di simile; nessuna città le si avvicinava sia pur lontanamente per vastità e popolazione.

Invece il conte di Carlisle, presso lo zar Alessio, nella sua relazione lamenta di non aver trovato a Mosca nessuna comodità, né alberghi lungo il cammino, né assistenza di nessun genere94. Il primo giudicava come un

90 Sull’originale è Moska con nota dell’Autore: «In russo Moskwa». Infatti, in russo, Mosca e Moscova hanno lo stesso nome: Moskvá. Voltaire aveva chiesto il permesso a Šuvalov di usare la grafia francese per i nomi mettendo in nota la loro pronuncia in russo.

91 Sull’originale è Kremelin con nota dell’Autore: «In russo Kreml». Il primo nucleo del Cremlino (kreml’ significa fortezza) risale al XII secolo. All’inizio del XIV secolo fu ampliato e circondato da palizzate di tronchi di quercia che nel 1367 furono sostituite da mura con torri di pietra bianca e al suo interno cominciarono a sorgere edifici e chiese.

92 Aristotele Fioravanti (1415-1486?) progettò solo la chiesa della Dormizione. Altri edifici furono realizzati dagli italiani Marco Ruffo e Pietro Antonio Solari.

93 Cfr. nota 45.94 Charles Howard, conte di Carlisle (1629-1685), maresciallo e, dal 1663, ambasciatore in

Russia, Svezia e Danimarca per conto del re Carlo II di Inghilterra. Il suo segretario, Guy Miege (1644-1718), scrisse con la supervisione di Carlisle la relazione del viaggio compiuto in quegli anni (A relation of three embassies from His Sacred Majestie Charles II, to the great Duke of Muscovie, the King of Sweden, and the King of Denmark: performed by the Right Hoble. the Earle of Carlisle in the years 1663 & 1664, Londra, 1669), in cui il popolo russo è descritto come ignorante, rozzo, con una religione poco

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tedesco del nord, il secondo come un inglese, e tutti e due per confronto. L’inglese si scandalizzò vedendo che quasi tutti i bojardi avevano come giaciglio delle assi o delle panche su cui si gettava una pelle o una coperta; così usavano anticamente tutti i popoli. Le case, quasi tutte di legno, non avevano mobili; quasi nessuna mensa aveva una tovaglia; le strade non erano lastricate, quasi nulla che fosse bello o comodo; pochissimi erano gli artigiani, e quei pochi lavoravano rozzamente e facevano solo gli oggetti indispensabili. Questa gente avrebbe rassomigliato agli Spartani se solo fosse stata sobria.

Nei giorni di cerimonia però la corte sembrava quella di un re di Persia. Il conte di Carlisle dice che sulle vesti dello zar e dei cortigiani non si vedevano che oro e pietre preziose. Queste vesti non erano state fabbricate nel Paese, tuttavia era evidente che si poteva rendere il popolo industrioso perché molto tempo prima, sotto il regno dello zar Boris Godunov, a Mosca era stata fusa la più grossa campana che ci sia in Europa95, e nella chiesa patriarcale si potevano ammirare degli ornamenti d’argento eseguiti con grande accuratezza. Questi lavori eseguiti sotto la guida dei Tedeschi e degli Italiani erano sforzi passeggeri, mentre ciò che rende prospera una nazione è l’impegno quotidiano e la moltitudine delle arti esercitate di continuo. A quell’epoca la Polonia e gli altri Paesi vicini alla Russia non erano più progrediti. Nel nord della Germania le arti manuali non erano più perfezionate, e nemmeno le belle arti vi furono più diffuse, almeno fino alla metà del XVII secolo.

Sebbene Mosca fosse allora ben lontana dall’eguagliare, per magnificenza e per arte, le nostre grandi città europee, tuttavia la sua circonferenza di ventimila passi, la parte chiamata quartiere cinese dove si potevano ammirare le curiosità della Cina, il vasto quartiere del Cremlino con il palazzo degli zar, qualche cupola dorata e alcune torri alte e strane, finalmente il numero degli abitanti che ammontava a quasi mezzo milione, tutto faceva di Mosca una delle città più considerevoli dell’universo.

Teodoro o Fëdor, fratello maggiore di Pietro il Grande96, diede a Mosca la prima sistemazione. Fece costruire parecchie grandi abitazioni di pietra anche se prive di qualunque architettura regolare. Incoraggiava i notabili della corte a costruire, anticipando il denaro e fornendo i materiali. A lui sono dovute le prime scuderie di bei cavalli e alcuni utili abbellimenti. Pietro, che pensò a tutto, mentre costruiva Pietroburgo non dimenticò Mosca: la

attraente e succubi della monarchia.95 Nel 1600 Boris Godunov (1551?-1605) – zar dal 1598, ma di fatto dalla morte di Ivan il

Terribile per l’incapacità del figlio di questi Fëdor – fece elevare il campanile detto di Ivan il Grande fino all’altezza di 81 metri (era di 60 m), rivestire la cupola d’oro e mettere le campane, di cui la storia non tramanda un’eccezionale grossezza. Invece, in un cortile del Cremlino si vede ancora oggi una grande campana (300 kg) che, secondo la leggenda, suonò per la morte del figlio di Ivan IV, lo zarevič Dmitrij (1591), e per questo Boris Godunov la “esiliò” in Siberia privandola del batacchio.

96 Fëdor III Alekseevič Romanov (1661-1682) era fratellastro di Pietro I, figlio di primo letto dello zar Alessio I, e salì al trono nel 1676. Fu il primo zar a cominciare un avvicinamento allo stile di vita occidentale.

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fece lastricare, la ornò e la abbellì di edifici e manifatture. Finalmente un ciambellano97 dell’imperatrice Elisabetta, figlia di Pietro, ha fondato alcuni anni orsono un’università: è la stessa persona che mi ha fornito tutte le notizie sulla scorta delle quali sto scrivendo. Egli sarebbe molto più adatto di me a scrivere questa storia, anche nella mia lingua; tutto ciò che mi ha scritto fa fede che, se ha lasciato a me la cura di quest’opera, lo ha fatto unicamente per modestia.

SMOLENSK

A occidente del ducato di Mosca è situato quello di Smolensk, che costituisce una parte dell’antica Sarmazia europea. I ducati della Moscovia e di Smolensk costituivano la Russia bianca propriamente detta. Smolensk, già appartenuta ai granduchi di Russia, fu conquistata all’inizio del XV secolo dal granduca di Lituania e ripresa cento anni dopo dagli antichi padroni.

Il re di Polonia Sigismondo III se ne impadronì nel 1611; lo zar Alessio, padre di Pietro, la riconquistò nel 1654 e da allora fece sempre parte dell’impero di Russia. Nell’elogio dello zar Pietro pronunciato a Parigi presso l’Accademia delle scienze98 è detto che prima di lui i Russi non avevano fatto alcuna conquista a occidente e a mezzogiorno: è chiaro che si tratta di un errore.

GOVERNATORATO DI NOVGOROD E DI KIEV O UCRAINA

La provincia di Novgorod è situata tra Pietroburgo e Smolensk. Si dice che proprio in questa regione gli antichi Slavi o Slavoni posero i loro primi insediamenti. Ma da dove provenivano questi Slavi la cui lingua si è diffusa nel nord dell’Europa? Sla significa capo, e schiavo vuol dire appartenente al capo. Tutto ciò che sappiamo di questi antichi Slavi è che furono dei conquistatori. Essi costruirono Novgorod la Grande, situata su un fiume navigabile sin dalla sorgente, che godette a lungo di un fiorente commercio e fu una potente alleata delle città anseatiche. Nel 1467 lo zar Ivan Vasil’evič la conquistò e la spogliò di tutte le ricchezze99 che contribuirono alla magnificenza della città di Mosca, fino a quel momento quasi sconosciuta.

A mezzogiorno della provincia di Smolensk si trova la provincia di Kiev, ossia la piccola Russia, Russia Rossa o Ucraina, attraversata dal Dnepr che i Greci chiamavano Boristene. La differenza tra i due nomi, uno difficile da pronunciare e l’altro melodioso, mostra, assieme a mille altre prove, la

97 Šuvalov. (Nota dell’Autore) – Cfr. nota 7.98 L’elogio di Pietro fu pronunciato da Fontenelle il 14 novembre 1725, durante una seduta

dell’Accademia delle Scienze (traduzione in www.larici.it).99 Sull’originale è Ivan Basiloviz con la nota di Voltaire: «In russo Iwan Wassiliewitsch». Ivan

III Vasil’evič (1440-1505), Gran principe di Mosca dal 1462, conquistò Novgorod nel 1471 dopo un serie di battaglie. Il 1467 è l’anno della peste che spopolò le città e i territori di Riga, Pskov, Novgorod, Tver’ e Mosca.

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rozzezza di tutte le antiche popolazioni nordiche e l’armonia della lingua greca. La capitale Kiev, anticamente Kisovia100, fu costruita dagli imperatori di Costantinopoli che ne fecero una colonia. Vi si possono ancora vedere delle iscrizioni greche vecchie di milleduecento anni: in questo Paese, dove gli uomini vissero tanti secoli senza innalzare mura, è la sola città che conservi vestigia dell’antichità. È qui che nell’XI secolo i granduchi di Russia fissarono la loro residenza, prima che i Tatari sottomettessero la Russia101.

Gli Ucraini, che prendono il nome di Cosacchi, sono una mescolanza di antichi Roxolani, di Sarmati e di Tatari uniti insieme. Questa regione faceva parte dell’antica Scizia. Roma e Costantinopoli, che hanno dominato su tante nazioni, non si possono neppur lontanamente paragonare all’Ucraina per la fertilità. Qui la natura fa del suo meglio per beneficare gli uomini, ma gli uomini non hanno assecondato la natura: vivono dei frutti che produce una terra tanto fertile quanto incolta, e ancor più di rapina, amano senza limiti un bene più prezioso di tutti gli altri, la libertà, eppure sono stati soggetti di volta in volta alla Polonia e alla Turchia. Finalmente, nel 1654, si sono dati in mano alla Russia, ma senza sottomettersi del tutto, e Pietro li ha sottomessi.

Le altre nazioni si dividono in città e borgate. L’Ucraina è suddivisa in dieci reggimenti, alla testa dei quali stava un capo eletto a maggioranza, chiamato etmano o hetman102. Questo capitano della nazione non esercitava il potere supremo. Oggi i sovrani di Russia mandano un nobile della corte perché funga da etmano; questi è un vero e proprio governatore di provincia, simile ai nostri governatori nelle regioni di quegli Stati in cui sopravvive ancora qualche privilegio.

Dapprima in questo Paese non c’erano che pagani e maomettani; quando furono sottomessi dalla Polonia, ricevettero il battesimo cristiano della Chiesa romana e da quando sono soggetti alla Russia, seguono la confessione cristiana della Chiesa greca.

Ne fanno parte i Cosacchi Zaporogi103 che sono all’incirca quello che erano per noi i filibustieri, cioè intrepidi briganti. Essi si distinguevano da tutti gli altri popoli perché non ammettevano mai donne nella loro tribù, come si vuole che le amazzoni non tollerassero uomini fra loro. Le donne necessarie

100 Questo nome compare per la prima volta in Voltaire e fu in seguito riportato in altri testi storici, ma la denominazione Kisovia (Kizovija) non esiste. Gli studiosi russi e ucraini propendono per un errore di trascrizione del nome datole in latino (Kiovia), nel XVI-XVII secolo, derivato dal nome in polacco del Palatinato (Województwo kijowskie).

101 Il Gran Principato di Kiev esistette dall’862 al 1246, ma nell’ultimo secolo si frazionò in staterelli solo nominalmente soggetti a Kiev. Nel 1169, il principe di Vladimir-Suzdal’, Andrej Bogoljubskij, conquistò e distrusse la città, ma non si installò sul trono kievano (che stava già perdendo prestigio) preferendo restare al potere a Vladimir e ponendo a Kiev suo fratello minore Gleb. Nel 1237 i Tatari attaccarono il territorio russo incendiando quattordici città, fra cui Mosca (fondata nel 1147), Vladimir e Rjazan’, e nel 1240 distrussero Kiev.

102 Sull’originale hetman o itman.103 Oppure Cosacchi di Zaporož’e, che vivevano lungo il basso corso del Don (Tanais) e il

Dnepr (Boristene).

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alla riproduzione vivevano in altre isole del fiume; non c’era il matrimonio, non esisteva la famiglia; essi ingaggiavano i figli maschi nella milizia, e lasciavano le figlie alle madri. Spesso il fratello aveva figli dalla sorella, il padre dalla figlia. Tra loro non c’erano altre leggi che le usanze create dal bisogno, tuttavia ebbero qualche prete di rito greco. Da qualche tempo è stata costruita sul Boristene la fortezza di Santa Elisabetta per tenerli a bada. Essi prestano servizio nell’esercito come truppe irregolari e guai a chi capita nelle loro mani.

GOVERNATORATI DI BELGOROD, VORONEŽ E NIŽNIJ-NOVGOROD

Risalendo a nord-est della provincia di Kiev, tra il Boristene e il Tanais, s’incontra il governatorato di Belgorod, che è grande come quello di Kiev. È una delle province più fertili della Russia, quella stessa che ha fornito alla Polonia una prodigiosa quantità di quel bestiame di grossa taglia noto sotto il nome di buoi ucraini. Queste due province sono protette dalle incursioni dei piccoli Tatari per mezzo di linee difensive che si estendono dal Boristene al Tanais, guarnite di fortini e postazioni.

Risalite ancora a nord, attraversate il Tanais ed entrerete nel governatorato di Voronež, che si estende fino alle sponde della Palude Meotide104. Presso la capitale che noi chiamiamo Voronež105, alla foce del fiume omonimo che si getta nel Tanais, Pietro il Grande fece costruire la prima flotta, impresa cui nessuno fino a quel momento aveva mai pensato in tutto quel vasto Stato. Poi trovate il governatorato di Nižnij-Novgorod, bagnato dal Volga, che produce cereali.

ASTRACHAN’

Da questa provincia entrate, a sud, nel regno di Astrachan’. Questo Paese comincia a 43° e mezzo di latitudine, allietato dal più dolce dei climi, e finisce verso i 50°, abbracciando all’incirca tanti gradi in longitudine che in latitudine. Delimitato da un lato dal mar Caspio, dall’altro dai monti della Circassia, si protende ancora al di là del mar Caspio, lungo il Caucaso. È bagnato dal grande fiume Volga, dallo Jaik106 e da parecchi altri fiumi tra i quali è possibile, stando a quanto afferma l’ingegnere inglese Perry107,

104 Antico nome del mar d’Azov.105 Sull’originale è Véronise con nota di Voltaire: «In russo si scrive e si pronuncia

Voronesteh».106 È il fiume Ural, conosciuto con il nome di Jaik fino al 1775.107 John Perry (1670-1733) fu un capitano della marina inglese fino al 1692, quando fu

incarcerato per aver perso una nave contro i corsari francesi. Graziato, nel 1698 accettò l’offerta dell’ambasciatore russo in Olanda e andò in Russia dove mise a frutto le sue competenze di ingegneria idraulica: progettò un canale tra il Volga e il Don per collegare i mari Caspio e Nero (lavoro interrotto dalla guerra tra Russia e Svezia) e due dighe sul fiume Voronež per il transito delle navi da guerra. Per motivi economici tornò in Inghilterra nel 1712 e quattro anni dopo pubblicò The State of Russia, under the Present Czar (Lo Stato della Russia, sotto il presente zar), tradotto in francese nel 1717.

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tracciare dei canali che, servendo da letto alle inondazioni, avrebbero la stessa funzione dei canali del Nilo e accrescerebbero la fertilità della terra. Ma a destra e a sinistra del Volga e dello Jaik, questo bel Paese era infestato, più che abitato, dai Tatari, che non hanno mai coltivato nulla e che hanno sempre vissuto sulla terra come stranieri.

L’ingegner Perry, assunto da Pietro il Grande in queste regioni, vi trovò vasti deserti coperti di pascoli, di cereali, di mandorli e di ciliegi. Pecore selvatiche ottime da mangiare pascolavano in quelle solitudini. Bisognava cominciare col domare e civilizzare gli uomini di quei Paesi per assecondare la natura che è stata vinta nella regione di Pietroburgo.

Questo reame di Astrachan’ è una parte dell’antico Capshak108 conquistato da Gengis khan e poi da Tamerlano: i domini di questi Tatari si estesero fino a Mosca. Nel secolo XVI lo zar Ivan IV, nipote di Ivan Vasil’evič e massimo dei conquistatori russi, liberò il suo Paese dal giogo tataro e nel 1554 aggiunse alle altre sue conquiste il regno di Astrachan’.

Astrachan’ è il limite tra l’Asia e l’Europa e può commerciare con l’una e con l’altra trasportando sul Volga le mercanzie portate attraverso il mar Caspio. Questo è un altro dei grandi progetti di Pietro il Grande, che è stato in parte eseguito. Un intero sobborgo di Astrachan’ è abitato da Indiani.

ORENBURG

A sud-est del regno di Astrachan’, si trova un piccolo paese di recente formazione, chiamato Orenburg: la città omonima è stata costruita nel 1734109 sulle rive del fiume Jaik. Questo paese è tutto accidentato a causa dei contrafforti del Caucaso. Fortini costruiti a distanze regolari difendono i valichi dei monti e i guadi dei fiumi che ne discendono. È in questa regione, prima disabitata, che oggi i Persiani vengono a depositare e a nascondere alla rapacità dei briganti i beni scampati alle guerre civili. La città di Orenburg è diventata il rifugio dei Persiani e delle loro ricchezze, e si è arricchita delle loro disgrazie; gli Indiani e gli abitanti della Grande Bukaria110 vengono a svolgervi i loro traffici; essa sta diventando il magazzino dell’Asia.

GOVERNATORATI DI KAZAN’ E DELLA GRANDE PERMIA

Al di là del Volga e dello Jaik, verso settentrione, si trova il reame di Kazan’ che, come Astrachan’, toccò in sorte a uno dei figli di Gengis khan e in seguito a un figlio di Tamerlano; successivamente fu conquistato

108 È probabilmente un errore di traduzione dei materiali ricevuti da Voltaire. Nell’VIII-X secolo la regione di Astrachan’ apparteneva al Khanato dei Chazary, o Chazaria, ma poi diventò un khanato autonomo chiamato, in tataro, di “Xacitarxan”. Quando, nel XVI secolo fu conquistato da Ivan il Terribile, il nome fu russificato in “Chadži-Tarchan” da cui, per variazioni fonetiche, deriva Astrachan’.

109 Orenburg fu costruita come fortezza avamposto durante la colonizzazione della Siberia.110 O Bukhara, corrispondente a una regione dell’odierno Uzbekistan.

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anch’esso da Ivan Vasil’evič. È ancor oggi abitato da molti Tatari maomettani. Questa grande contrada si estende fino alla Siberia; è voce comune che un tempo sia stata ricca e fiorente, e ancor oggi conserva qualche traccia di opulenza. Una provincia di questo reame, chiamata la Gran Permia e successivamente Solikam111, era il luogo ove confluivano le mercanzie della Persia e le pellicce della Tartaria. In Permia, si sono ritrovate molte monete del conio dei primi califfi e qualche idolo d’oro dei Tatari112; ma queste vestigia di antiche ricchezze sono state rinvenute in mezzo a territori poveri e deserti; non c’era più traccia alcuna di commercio: se rivolgimenti di questo genere sono accaduti nei Paesi più fertili, tanto più spesso e facilmente si verificheranno in un Paese inospitale.

Strahlenberg113, il celebre prigioniero svedese che mise così bene a frutto la sua disgrazia ed esaminò con tanta attenzione questo Paese tanto vasto, è stato il primo a far apparire verosimile un fatto cui non si era mai voluto prestar fede, concernente l’antico commercio in queste regioni. Plinio e Pomponio Mela riferiscono che, al tempo di Augusto, un re dei Suevi fece omaggio a Metello Celere di alcuni indiani gettati dal maltempo sulle coste vicine all’Elba. Come era mai possibile che abitanti dell’India navigassero sui mari della Germania? A tutti i moderni quest’avventura sembrò frutto di fantasia, soprattutto da quando il commercio del nostro emisfero è stato rivoluzionato dalla scoperta del Capo di Buona Speranza; ma nei tempi passati un indiano che trafficasse nei Paesi settentrionali dell’Occidente non era uno spettacolo più insolito di quanto non fosse un romano che andasse in India passando per l’Arabia. Gli indiani andavano in Persia, s’imbarcavano sul mar d’Ircania114, risalivano il Rha, ossia il Volga, arrivavano attraverso la Kama fino alla gran Permia e di lì potevano imbarcarsi sul mar del Nord o sul Baltico. Uomini intraprendenti ce ne sono stati in tutti i tempi. Gli abitanti di Tiro fecero viaggi ancor più sorprendenti.

Se, dopo aver scorso tutte queste provincie, soffermate lo sguardo sull’Oriente, i confini dell’Europa e dell’Asia si confondono ancora. Per questa vasta parte del mondo sarebbe occorso un nuovo nome. Gli antichi divisero l’universo allora conosciuto in Europa, Asia e Africa, ma non ne

111 La Grande Permia e il rajon Solikamskij (cioè provincia di Solikamsk, che era la città capoluogo) sono dal 2005 nel Territorio di Perm’ (Permskij kraj).

112 Memorie di Strahlenberg, confermate dalle mie relazioni russe. (Nota dell’Autore) – Cfr. nota successiva.

113 Il vero cognome di Philip Johan von Strahlenberg (che Voltaire scrive Strahlemberg o Stralemberg) era Tabbert (1676-1747) e fu un capitano militare svedese ma di origine tedesca. Imprigionato dai Russi nella battaglia di Poltava (1709), fu mandato in Siberia, a Tobol’sk, dove si dedicò agli studi linguistici, antropologici e geografici della zona. Pietro il Grande lo liberò nel 1721 e gli offrì la direzione del Catasto, ma egli preferì tornare a Stoccolma, dove nel 1730 pubblicò in tedesco il libro Das Nord – und Östliche Theil von Europa und Asia, in so weit solches das gantze Russische Reich mit Sibirien und der grossen Tatarey in sich begriffet, in cui allegò nuove mappe della Russia. L’opera fu tradotta in inglese nel 1738 (con titolo Russia, Siberia, and Great Tartary) e subito dopo in francese e spagnolo.

114 L’Ircania era la regione dell’antica Persia a sud del mar Caspio (odierno Mazandaran) e i Greci chiamavano mare d’Ircania, o mare ircano, il mar Caspio.

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avevano visto nemmeno la decima parte, e ciò fa sì che, passata la Palude Meotide, non si sa dove l’Europa finisca e cominci l’Asia. Tutti i territori al di là del monte Tauro erano designati col nome vago di Scizia e in seguito come Tartaria o Tataria. Forse sarebbe giusto chiamare artiche o nordiche tutte le terre che si estendono dal mar Baltico ai confini della Cina, come si dà il nome di terre australi a quella parte di mondo non meno vasta che è situata sotto il polo antartico e fa da contrappeso al globo.

GOVERNATORATI DI SIBERIA, DEI SAMOIEDI E DEGLI OSTIACHI

Verso oriente, al di là delle frontiere di Archangel’sk, Kazan’115 e Astrachan’, si estende la Siberia con le terre contigue fino al mar del Giappone; per mezzo del Caucaso tocca la parte meridionale della Russia; di lì alla Kamčatka misura all’incirca milleduecento leghe francesi, e dalla Tartaria settentrionale, che le serve da confine, fino al mar Glaciale, ne misura circa quattrocento, il che rappresenta il punto di minima larghezza dell’impero. Questa regione produce le migliori pellicce, cosa che valse a farla scoprire nel 1563. Non fu sotto lo zar Fëdor Ivanovič, ma sotto Ivan Vasil’evič, che un privato dei dintorni di Archangel’sk di nome Anika, agiato sia per la sua condizione sociale che per il paese, notò degli uomini di aspetto straordinario, abbigliati in una foggia fino a quel momento mai vista nel cantone, che si esprimevano in una lingua incomprensibile; essi discendevano ogni anno un fiume che si getta nella Dvina116 e venivano a portare al mercato delle martore e delle volpi nere che barattavano con chiodi e frammenti di vetro come i primi selvaggi d’America davano il loro oro agli Spagnoli. Anika li fece seguire dai propri figli e da alcuni servi fin nelle loro terre. Si trattava di Samoiedi, un popolo che sembra affine ai Lapponi ma che non è della stessa razza. Come i Lapponi, non conoscono l’uso del pane, come loro ricorrono all’aiuto di rangiferinae o renne che attaccano alle slitte. Vivono in caverne o in capanne in mezzo alla neve117, ma per il resto la natura ha messo tra questa specie di uomini e i Lapponi delle differenze molto marcate. Mi si assicura che la loro mascella superiore è più sporgente a livello del naso e che le orecchie sono più rialzate. Sia gli uomini che le donne hanno peli soltanto sulla testa; il capezzolo è nero come l’ebano. I Lapponi maschi e femmine non presentano nessuna di queste caratteristiche. Per mezzo di relazioni inviatemi da queste contrade così poco conosciute, sono stato avvertito che nella bella Storia naturale del

115 Sull’originale è Résan che farebbe pensare a Rjazan’, ma non è così. All’epoca di Voltaire le due città di Rjazan’ e Kazan’ erano spesso confuse, com’è evidente, per esempio, in Jacques Jubé, La religion, les mœurs, et les usages des moscovites, libro scritto intorno al 1730, certamente noto a Voltaire ma ritrovato recentemente. Voltaire infatti traccia un ipotetico confine che dal mar Bianco arriva alle sorgenti del fiume Volga e lo segue fino alla foce.

116 Relazioni inviatemi da Pietroburgo. (Nota dell’Autore)117 Relazioni inviatemi da Pietroburgo. (Nota dell’Autore)

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giardino del re118 è sfuggito un errore là dove, parlando delle molte stranezze che presenta la natura umana, si è confusa la specie dei Lapponi con quella dei Samoiedi. Le razze umane sono molto più numerose di quanto non si creda. Quella dei Samoiedi e quella degli Ottentotti119 sembrano gli opposti del nostro continente, e se ci si sofferma sulle mammelle nere delle donne dei Samoiedi e sul grembiule che la natura ha dato alle Ottentotte, che scende, dicono, fino a metà delle cosce, ci si farà un’idea della varietà della nostra specie animale, varietà ignorata nelle città, dove tutto è sconosciuto tranne quello che ci circonda.

La morale dei Samoiedi presenta singolarità altrettanto grandi che il loro fisico: essi non rendono alcun culto all’Essere supremo; in un sol punto si avvicinano al manicheismo120 o meglio all’antica religione dei Magi121, e cioè nel fatto che riconoscono un principio buono e uno cattivo. Il clima inclemente sotto cui abitano sembra giustificare in qualche modo questa credenza cosl antica presso tanti popoli e così naturale agli ignoranti e agli sfortunati.

Furto e assassinio sono sconosciuti tra loro; essendo le passioni quasi inesistenti, non esiste neppure l’ingiustizia. La loro lingua non dispone di termini per indicare il vizio e la virtù. La loro estrema semplicità non ha ancora permesso di elaborare nozioni astratte: la loro condotta è guidata unicamente dal sentimento, e questa potrebbe essere una prova incontestabile che l’uomo, quando non è accecato da funeste passioni, ama istintivamente la giustizia.

Si riuscì a convincere alcuni di questi selvaggi a lasciarsi condurre a Mosca: qui tutto li riempì di ammirazione. Nell’imperatore videro il loro dio e acconsentirono a fargli ogni anno l’offerta di due martore zibelline per abitante. Ben presto furono fondate alcune colonie al di là dell’Ob e dell’Irtyš122; furono costruite persino delle fortezze. Nel 1595 un cosacco fu inviato in quella regione e con pochi soldati e scarsa artiglieria la conquistò a nome degli zar, come Cortes aveva sottomesso il Messico123; tuttavia egli non conquistò che dei deserti.

Risalendo l’Ob, fu trovata una piccola abitazione alla confluenza del fiume

118 Georges-Louis Leclerc, più conosciuto come conte di Buffon (1707-1788), naturalista francese, pubblicò dal 1749 l’Histoire naturelle, générale et particulière, che l’occupò tutta la vita (36 volumi, di cui 8 postumi) e per la quale ottenne molti riconoscimenti. Le Jardin du roi (Giardino del re, oggi Jardin des Plantes) di Parigi era il luogo dove Buffon lavorò come intendente per cinquant’anni, facendolo diventare una delle più importanti istituzioni scientifiche del mondo.

119 I Samoiedi non sono una etnia ma un gruppo linguistico, mentre Lapponi (Sami) e Ottentotti (Khoikhoi), abitanti dell’Africa australe, sono gruppi etnici.

120 Religione dualista (Luce e Tenebre) fondata da Mani, vissuto in Persia dal 215 al 277.121 I Magi appartenevano a una tribù del popolo dei Medi (odierno Kurdistan) diventata casta

sacerdotale dedita al mantenimento della fiamma accesa davanti al dio del fuoco, in conformità alla dottrina di Zarathustra (o, nella forma greca, Zoroastro; VII-VI sec. a.C.).

122 Sull’originale Obi e Irtis con nota dell’Autore: «In russo Irtisch».123 Hernán Cortés (1485-1547) effettuò nel 1519-1520 la conquista del Messico, di cui l’anno

prima Juan de Grijalva aveva esplorato la penisola dello Yucatán.

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Irtyš col Tobol, e in quel luogo fu costruita Tobol’sk124, capitale della Siberia, che oggi è un’importante città. Chi crederebbe che questa contrada è stata per lungo tempo la sede di quegli stessi Unni che sotto Attila hanno devastato tutto fino a Roma, e che gli Unni provenivano dal nord della Cina? I Tatari Uzbeki succedettero agli Unni, e i Russi agli Uzbeki. Ci si è contesi queste contrade selvagge come ci si è sterminati per le più fertili. Un tempo la Siberia era più popolosa di quanto non sia oggi, soprattutto nella parte meridionale; lo si deduce dalle tombe e dalle rovine.

Tutta questa parte di mondo, più o meno dal sessantesimo grado fino alle montagne ricoperte di ghiacci eterni che circondano i mari settentrionali, non rassomiglia in nulla alle regioni della zona temperata: sulla terraferma non vi sono le stesse piante e gli stessi animali, né gli stessi pesci nei laghi e nei fiumi.

Lungo il fiume Ob, sotto la zona dei Samoiedi, è situata quella degli Ostiachi. Essi non hanno nulla in comune con i Samoiedi tranne il fatto di essere, come questi e come tutti gli uomini primitivi, dediti alla caccia, alla pesca e alla pastorizia; gli uni, non essendo riuniti in gruppi, non hanno religione; gli altri, che formano delle orde, hanno una sorta di culto; essi venerano l’oggetto più necessario. Si dice che adorino una pelle di montone perché nulla per loro è più indispensabile, di quell’animale; come gli antichi Egizi, che erano agricoltori, avevano scelto un bue, per adorare nell’emblema dell’animale la divinità che lo ha fatto nascere per l’uomo. Secondo certi autori gli Ostiachi adorano una pelle d’orso, visto che è più calda di quella di montone: può anche darsi che non adorino né l’una né l’altra.

Gli Ostiachi hanno anche altri idoli, l’origine e il culto dei quali non meritano più attenzione degli stessi adoratori. Verso il 1712 alcuni di loro sono stati convertiti al cristianesimo; questa gente è cristiana al modo dei nostri più rozzi contadini, senza rendersi conto di ciò che è. Secondo vari autori questo popolo è originario della Grande Permia; ma la Grande Permia è quasi disabitata: perché mai i suoi abitanti avrebbero dovuto stabilirsi in un luogo così lontano e così ingrato? Questi punti oscuri non valgono una ricerca. I popoli che non hanno coltivato le arti devono esser condannati a restare sconosciuti.

È soprattutto nel territorio degli Ostiachi e in quella dei Buriati e degli Jakuti loro vicini125 che si trova nella terra quell’avorio la cui origine è sempre rimasta un mistero: secondo alcuni si tratta di avorio fossile, secondo altri delle zanne di una specie estinta d’elefante126. Qual è quel Paese in cui non si trovano prodotti della natura che stupiscono e mettono in imbarazzo la filosofia?

124 Sull’originale Tobol con nota dell’Autore: «In russo Tobolskoy». La presenza di una capanna era un evidente segno di posizione favorevole per stanziarsi.

125 I Buriati erano (sono) stanziati tra il lago Bajkal e la Mongolia, mentre gli Jakuti li confinano a nord e si affacciano sul Mare Glaciale Artico.

126 Oggi si sa che sono zanne di mammut, ma anche i denti di tricheco sono di una sostanza molto simile all’avorio ed è impiegato per gli stessi usi.

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Molte montagne di queste regioni sono ricche di quell’amianto o lino incombustibile da cui si ricava sia un tipo di tela, sia una specie di carta.

A sud degli Ostiachi si trovano i Buriati, altro popolo non ancora convertito al cristianesimo. A est ci sono varie orde non del tutto sottomesse. Nessuno di questi popoli ha la benché minima idea del calendario. Essi contano per nevi, e non secondo il percorso apparente del sole: dato che ogni inverno nevica a lungo e regolarmente, essi dicono ho tante nevi come noi diciamo ho tanti anni.

Debbo qui riferire quello che racconta l’ufficiale svedese Strahlenberg che, preso prigioniero a Poltava, passò quindici anni in Siberia percorrendola in lungo e in largo. Egli dice che esistono ancora i resti di un antico popolo che ha la pelle screziata e maculata, e afferma di aver visto degli uomini di questa razza. Questo fatto mi è stato confermato da alcuni Russi nativi di Tobol’sk. Pare che la varietà delle specie umane sia molto diminuita; si trovano poche di queste strane razze, probabilmente sterminate dalle altre. Per esempio esistono pochissimi di quei Mori bianchi o albini uno dei quali fu presentato all’Accademia delle scienze di Parigi dove lo vidi anch’io127. Lo stesso accade con molti animali la cui specie è rarissima.

Quanto ai Borandiani di cui si parla spesso nella dotta Storia del giardino del re di Francia, le relazioni di cui dispongo dicono che questo popolo è completamente sconosciuto128.

Tutta la parte meridionale della regione è popolata da numerose orde di Tatari. Da questa Tartaria gli antichi Turchi si sparpagliarono per andare a sottomettere tutti i Paesi di cui sono oggi in possesso. I Calmucchi e i Mongoli sono quegli stessi Sciti che, sotto la guida di Madyes, si impadronirono dell’Asia settentrionale e sconfissero Cyaxares, re dei Medi129. Sono loro che sotto Gengis khan e i suoi figli si spinsero poi fino in Germania e che, sotto Tamerlano, fondarono l’impero del Mogol. Questi popoli offrono un esempio dei cambiamenti che si sono verificati in tutte le nazioni. Alcune delle loro orde, ben lungi dall’essere temibili, sono diventate vassalle della Russia.

Tale è un gruppo di Calmucchi che risiede tra la Siberia e il mar Caspio. È qui che fu ritrovata nel 1720 un’abitazione sotterranea di pietra, delle urne, delle lampade, degli orecchini, la statua equestre di un principe orientale che portava un diadema sulla testa, due donne in trono e un rotolo di manoscritti che Pietro il Grande fece pervenire all’Accademia delle iscrizioni di Parigi e che fu identificato come lingua tibetana; tutte singolari

127 Un albino fu presentato nel 1744 all’Accademia delle scienze di Parigi e Voltaire scrisse la Rélation concernant un maure blanc.

128 Alessandro David, ne L’arte de conoscere gli uomini: il piccolo Lavater e Dottor Gall, edito a Milano nel 1865, scrisse alle pp. 29-30: «i Borandiani sono anche più piccoli che i Lapponi; hanno l’iride dell’occhio del medesimo colore, ma il bianco d’un giallo più rossigno; la loro pelle è più olivastra e hanno le gambe grosse, mentre quelle dei Lapponi sono esili».

129 Cyaxares (o Hvakhshathra o italianizzato, Ciassarre), detto il Grande, regnò nel VI-VII secolo a.C. e portò la Media a essere uno degli Stati più vasti dell’Asia.

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testimonianze del fatto che le arti regnarono in questo Paese oggi barbaro, e altrettante prove a sostegno di quello che Pietro il Grande ha affermato più di una volta; e cioè che le arti hanno fatto il giro del mondo.

KAMČATKA

L’ultima provincia è la Kamčatka, la regione più orientale del continente.130 Il settentrione di questa provincia fornisce anch’essa pellicce pregiate; gli abitanti se ne ricoprivano durante l’inverno, e l’estate andavano nudi. Si ebbe la sorpresa di trovare nella parte meridionale degli uomini dalle lunghe barbe, mentre a settentrione, dalla regione dei Samoiedi fino alla foce del fiume Amour o Amur131, gli uomini non sono più barbuti di quanto lo siano gli Americani. È così che nell’impero di Russia si trovano più razze diverse, più singolarità e maggior varietà di costumi che in qualunque altro Paese della terra.

Apprendo da recenti informazioni che questo popolo selvaggio ha anch’esso i suoi teologi, i quali fanno discendere gli abitanti della penisola da una specie di essere superiore che chiamano Kutkh132. Le stesse fonti mi dicono che non gli è tributato alcun culto, che non è né amato né temuto.

Così avrebbero una mitologia mentre non hanno una religione. La cosa potrebbe essere vera, ma non è verosimile: il timore è un attributo naturale dell’uomo. Si vuole che nella loro assurdità essi distinguano cose permesse da cose proibite: è permesso appagare tutte le proprie passioni, è proibito affilare un coltello o un’ascia durante un viaggio e salvare un uomo che annega. Se per loro salvare la vita del prossimo è effettivamente un peccato, in questo differiscono da tutti gli uomini, che accorrono istintivamente in aiuto dei propri simili quando l’interesse o la passione non corrompono questa tendenza naturale. Sembra impossibile riuscire a fare un delitto di un’azione così comune e necessaria che non è nemmeno una virtù, a meno che non si ricorra ad una filosofia altrettanto falsa e superstiziosa, la quale predichi che non ci si deve opporre alla provvidenza e che un uomo destinato dal cielo a finire annegato non deve essere soccorso da un essere umano; ma i barbari sono ben lontani dall’avere una filosofia, sia pure falsa.

Malgrado ciò, corre voce che essi celebrino una gran festa, che nella loro lingua chiamano con una parola che significa purificazione; ma di che debbono purificarsi, se per loro tutto è lecito? e perché purificarsi se non hanno per il loro dio Kutkh né timore né amore? Le loro idee, come quelle di

130 Nell’edizione del 1760 in questo punto si leggeva la frase: «Gli abitanti erano assolutamente senza religione quando li si è scoperti.» Fu tolta per le informazioni sopraggiunte e inserite nei sette paragrafi seguenti, pubblicati a partire dall’edizione del 1768.

131 Amur non significa “Amore” come sembra insinuare Voltaire, ma “grande fiume”, dall’eveno Tamur.

132 Sull’originale Kouthou. Kutkh o, in russo, Kutch (o in altri dialetti Kutq, Kúykly, Kúrkil ecc.) è una divinità dall’aspetto di corvo, venerata nella Siberia orientale, particolarmente in Kamčatka e tra i Coriachi. Secondo le culture, Kutkh è il dio creatore o il suo aiutante o, ancora, uno spirito guardiano dai modi lascivi.

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tutti gli altri popoli presentano indubbiamente delle contraddizioni: le loro sono dovute a mancanza di intelligenza, le nostre a un eccesso di intelligenza; noi abbiamo molte più contraddizioni di loro perché abbiamo riflettuto di più.

Come hanno una specie di dio, così hanno anche dei demoni, e per finire si trovano tra loro degli stregoni, come ce ne sono sempre stati anche nelle nazioni più civili. Nella Kamčatka sono le vecchie a fare da streghe, come avveniva anche tra noi prima che la sana scienza naturale ci illuminasse. Dappertutto dunque il fatto di avere idee assurde fondate sulla curiosità e sulla debolezza è appannaggio dello spirito umano. In Kamčatka hanno anche dei profeti che interpretano i sogni, e non è molto che noi abbiamo smesso di averne.

Da quando la corte di Russia ha assoggettato questi popoli costruendo cinque fortezze nel loro territorio, è stata predicata tra loro la religione greca. Un gentiluomo russo assai colto mi ha detto che una delle obiezioni fondamentali fu la seguente: quel culto non si poteva celebrare per loro perché ai nostri misteri sono necessari il pane e il vino, mentre nel loro Paese non si può avere né pane né vino.

Questo popolo del resto non merita molte osservazioni: ne farò soltanto una, e cioè che se si considerano i tre quarti dell’America, tutta la parte meridionale dell’Africa, il nord della Lapponia fino ai mari del Giappone, si può constatare che la metà del genere umano non è più avanzata del popolo della Kamčatka.

Dapprima, nel 1701, un ufficiale cosacco andò via terra dalla Siberia alla Kamčatka per ordine di Pietro il quale dopo la sfortunata giornata di Narva133 estendeva ancora le sue cure a tutto il continente da un estremo all’altro. Poi nel 1725, poco prima che la morte lo sorprendesse nel mezzo dei suoi grandiosi progetti, egli inviò il capitano Bering, danese, con l’ordine esplicito di arrivare dal mar di Kamčatka alle Americhe se l’impresa era possibile. Al primo tentativo Bering non riuscì. L’imperatrice Anna lo inviò di nuovo nel 1733134. Il capitano di vascello Spengenberg associato a questo viaggio,

133 I Russi furono sconfitti dagli Svedesi nella battaglia di Narva (nella Livonia oggi estone) il 30 novembre 1700.

134 Il fiume Kamčatka e il bellicoso popolo dei Coriachi che abitava sulle sue rive furono scoperti nel 1639 dall’esploratore Ivan Jur’evič Moskvitin, il primo russo a raggiungere l’Oceano Pacifico (via terra). In seguito furono avviate altre spedizioni, via terra e via mare, tra cui quella del 1695 intrapresa dal cosacco Luka Morozko che esplorò il fiume Tigil e tornò dal suo capitano cosacco Vladimir Vasil’evič Atlasov con alcune scritte misteriose, probabilmente giapponesi. Nel 1697-1699 Atlasov esplorò quasi tutta la penisola della Kamčatka e costruì dei forti, poi fu ucciso dai suoi marinai ammutinati nel 1711. Nel 1720 la Kamčatka e le isole Curili furono mappate da Ivan Michajlovič Evreinov. L’esploratore danese Vitus Jonassen Bering (1681-1741) compì due spedizioni in Kamčatka: la prima ordinata da Pietro il Grande poco prima di morire, fu effettuata nel 1728 e Bering scoprì lo stretto che porta il suo nome. La seconda fu nel 1740, per ordine della zarina Anna Ivanovna (dopo che Vasilij Merlin aveva assoggettato i Coriachi) e Bering fondò la città di Petropavlosk-Kamčatskij. La prima descrizione dettagliata della Kamčatka fu pubblicata nel 1755 dal naturalista e geografo Stepan Petrovič Krašeninnikov.

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salpò per primo dalla Kamčatka ma non riuscì a mettersi in mare prima del 1739, tanto tempo era occorso per arrivare al porto di partenza, per costruirvi le navi, per attrezzarle e rifornirle del necessario. Spengenberg penetrò fino al Giappone settentrionale per un passaggio formato da una lunga fila di isole, e tornò indietro senza aver scoperto altre vie all’infuori di quella.

Nel 1741 Bering percorse quei mari accompagnato dall’astronomo Delisle de La Croyère135, di quella famiglia Delisle che ha fornito tanti valenti geografi; un altro capitano partiva per suo conto in esplorazione. Quest’ultimo e Bering toccarono le coste dell’America a nord della California. Dunque il passaggio tanto cercato attraverso i mari settentrionali era stato finalmente scoperto, ma su quelle coste deserte non fu possibile trovare alcuna assistenza. L’acqua dolce venne a mancare, una parte dell’equipaggio perì di scorbuto136; le coste settentrionali della California furono esplorate per cento miglia: furono avvistati dei canotti di cuoio su cui erano degli uomini simili ai canadesi. Tutto fu infruttuoso. Bering morì su un’isola cui dette il proprio nome. L’altro capitano, trovandosi più vicino alla California, fece scendere a terra dieci uomini dell’equipaggio: essi non fecero più ritorno. Il capitano, dopo averli aspettati invano, fu costretto a tornare nella Kamčatka; Delisle spirò nello scendere a terra. A simili disastri sono destinati quasi tutti i primi tentativi sui mari settentrionali. Ancora non si sa quale utilità si trarrà da queste scoperte così difficili e pericolose.

Abbiamo indicato tutto ciò che è compreso, in generale, nei domini della Russia dalla Finlandia al mar del Giappone. Tutte le grandi parti dell’impero sono state annesse in tempi diversi, come è avvenuto in tutti gli altri regni di questo mondo. Gli Sciti, gli Unni, i Massageti, gli Slavi, i Cimbri, i Goti, i Sarmati sono oggi sudditi degli zar; i Russi propriamente detti sono gli antichi Roxolani o Slavi.

Se riflettiamo bene, anche gli altri Stati di solito sono compositi. La Francia è un’accozzaglia di Goti, di Danesi detti Normanni, di Germani delle regioni settentrionali chiamati Borgognoni, di Franchi, di Alemanni, di alcuni Romani mescolati agli antichi Celti. A Roma e in Italia sono numerose le famiglie che discendono da popolazioni settentrionali, mentre non se ne conosce nessuna che discenda dagli antichi Romani. Il sommo pontefice è spesso un rampollo di un Lombardo, un Goto, un Teutone o un Cimbro. Gli Spagnoli sono una razza composta di Arabi, Cartaginesi, Ebrei, Tiri, Visigoti e Vandali, fusi con gli abitanti del Paese. Quando le nazioni si sono così mescolate, deve passare molto tempo prima che si civilizzino, o anche solo che formino una lingua: alcuni giungono più presto a darsi un ordinamento civile, altri più tardi. Le leggi e le arti si stabiliscono con tanta difficoltà, le

135 L’astronomo francese Louis Delisle de la Croyère (o De l’Isle, 1690-1741), figlio e fratello di storici e cartografi, partecipò alla seconda spedizione di Bering in Kamčatka, poi si imbarcò sulla nave “San Paolo” diretta in Alaska con l’esploratore Aleksej Il’ič Čirikov, ma morì durante il viaggio.

136 La morte per scorbuto è attribuita a tutti questi esploratori, da Bering a Delisle, ma nel 1991 sono stati esaminati i resti di Bering e non sono stati rinvenuti segni di scorbuto.

136

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rivoluzioni distruggono così spesso l’edificio cominciato, che se di qualcosa ci dobbiamo stupire, è del fatto che la maggioranza delle nazioni non viva alla maniera dei Tatari.

Capitolo II

CONTINUA LA DESCRIZIONE DELLA RUSSIA. POPOLAZIONE, FINANZE, ESERCITI, USANZE, RELIGIONE. CONDIZIONI DELLA RUSSIA PRIMA DI PIETRO IL GRANDE

Più un Paese è civilizzato, più è popoloso. Così la Cina e l’India sono i più popolosi fra gli imperi, perché, dopo tutte le rivoluzioni che hanno trasformato la faccia della Terra, i Cinesi e gli Indiani formarono le nazioni di più antica civiltà che si conoscano. Il loro governo conta più di quattromila anni di età, il che presuppone, come si è detto, prove e tentativi fatti nei secoli precedenti. I Russi sono arrivati tardi, ma avendo introdotto nel proprio Paese le arti già perfezionate, è accaduto che abbiano fatto più progressi in cinquant’anni che qualunque altra nazione, per proprio conto, in cinquecento. Il Paese non è popolato in proporzione alla sua grandezza, anzi ne è ben lontano, ma così com’è conta altrettanti sudditi che qualunque altro Stato cristiano.

Sulla scorta dei registri della capitazione137 e del censimento dei mercanti, artigiani e contadini di sesso maschile, posso assicurare che la Russia conta oggi almeno ventiquattro milioni di abitanti. Di questi ventiquattro milioni di uomini, la maggior parte sono schiavi, come in Polonia, in varie provincie della Germania e, un tempo, in quasi tutta l’Europa. In Russia e in Polonia la ricchezza di un gentiluomo o di un ecclesiastico non viene calcolata sulla base del reddito in denaro, ma dal numero degli schiavi.

Ecco i risultati di un censimento degli individui di sesso maschile soggetti alla capitazione svolto nel 1747.

Mercanti 198.000Operai 16.500Contadini compresi tra i mercanti e gli operai 1.950Contadini chiamati odonoski che contribuiscono al

mantenimento delle truppe430.220

Altri che non vi contribuiscono 26.080Operai di vari mestieri, di genitori ignoti 1.000Altri non inclusi nelle classi dei mestieri 4.700Contadini direttamente dipendenti dalla corona, circa 555.000Lavoratori nelle miniere della corona, sia cristiani che

pagani e maomettani64.000

Altri contadini della corona che lavorano nelle miniere e nelle fabbriche dei privati

24.200

Neoconvertiti alla religione greca 57.000Tatari e Ostiachi pagani 241.000

137 Imposta.

137

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Morsi, Tatari, Morduati e altri tanto Greci che Pagani impiegati per i lavori dell’ammiragliato

7.800

Tatari contribuenti, chiamati Tepteri e Bobilitz138, ecc. 28.900Servi di vari mercanti e altri privilegiati i quali, pur non

possedendo terre, possono tenere schiavi presso di sé9.100

Contadini delle terre destinate al mantenimento della corte 418.000Contadini delle terre appartenenti personalmente a Sua

Maestà, indipendentemente dal diritto della corona60.500

Contadini delle terre confiscate alla corona 13.600Servi dei gentiluomini 3.550.000Servi appartenenti all’assemblea del clero e che

provvedono al suo mantenimento37.500

Servi dei vescovi 116.400Servi dei conventi, molto ridotti da Pietro il Grande 721500Servi di cattedrali e chiese parrocchiali 23.700Contadini impiegati nei lavori dell’ammiragliato o altre

opere pubbliche, all’incirca4.000

Operai delle miniere e delle fabbriche private 16.000Contadini delle terre concesse ai principali artigiani 14500Operai delle miniere della corona 3.000Bastardi allevati dai preti 40Settari detti raskol’niki139 2.200Totale 6.646.390

Ecco dunque in cifra tonda 6.640.000 uomini che pagano la capitazione. In questo censimento sono contati vecchi e fanciulli, ma non le donne e le bambine e nemmeno i bambini nati tra l’elaborazione di un catasto e l’inizio del successivo. Triplicate solo il numero degli individui tassabili, includendovi le donne e le ragazze, e troverete all’incirca venti milioni di anime.

A questa cifra bisogna aggiungere la classe militare che ammonta a 350.000 uomini. Né la nobiltà di tutto l’impero, né il clero, che conta 200.000 membri, sono soggetti a questa capitazione; ne sono anche esenti tutti gli stranieri dell’impero, qualunque sia la loro professione e il Paese d’origine. Gli abitanti delle provincie conquistate, ossia la Livonia, l’Estonia, l’Ingria, la Carelia, parte della Finlandia, l’Ucraina, i Cosacchi del Tanais, i Calmucchi e altri Tatari, i Samoiedi, i Lapponi, gli Ostiachi e tutti i popoli idolatri della Siberia, Paese più vasto della Cina, non sono compresi nel censimento.

In base a questo calcolo è impossibile che la popolazione complessiva della Russia non ammontasse almeno a ventiquattro milioni di abitanti nel 1759, quando mi furono mandati da Pietroburgo questi appunti tratti dagli archivi dell’impero. Secondo tale calcolo vi sono otto abitanti per miglio quadrato. L’ambasciatore inglese di cui ho già parlato140 ne conta soltanto

138 Morsi, Morduati, Tepteri ecc. sono nomi di tribù.139 Raskol’niki (da raskol, scissione) era il nome dato a coloro che non vollero seguire le

riforme dei libri liturgici e dei costumi ecclesiastici volute nel 1654-1656 dal patriarca Nikon (al secolo Nikita Minin; 1605-1681; patriarca dal 1652 al 1658) e sostenute dallo zar Alessio, il quale dette avvio alla loro persecuzione. In Occidente sono chiamati “Vecchi Credenti” (starovery).

140 Carlisle, cfr. nota 94.

138

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cinque, ma senza dubbio non disponeva di relazioni fedeli come quelle che si è voluto fornirmi.

Fatte le debite proporzioni, il territorio della Russia è dunque esattamente cinque volte meno popolato della Spagna, ma il numero degli abitanti è all’incirca quattro volte superiore; esso ha press’a poco la stessa popolazione della Francia e della Prussia, ma, tenuto conto delle sue grandi dimensioni, il numero degli abitanti è trenta volte inferiore.

A proposito di questo censimento bisogna fare un’osservazione importante, e cioè che di 6.640.000 contribuenti, circa 900.000 risultano appartenenti al clero russo, senza contare il clero dei Paesi conquistati e quello dell’Ucraina e della Siberia.

Così, su sette contribuenti, uno apparteneva al clero, ma pur avendo questo settimo, esso è ben lontano dall’usufruire della settima parte degli introiti dello Stato, come avviene in tanti altri regni dove ha in mano almeno un settimo di tutte le ricchezze; infatti i contadini del clero pagano la capitazione al sovrano, e non bisogna trascurare le altre entrate della corona di Russia, di cui il clero non percepisce nulla.

Questo calcolo si discosta molto da quelli di tutti gli altri scrittori che hanno parlato della Russia: i ministri stranieri che hanno inviato dei rapporti ai loro sovrani sono caduti in errore. Bisogna consultare gli archivi dell’impero.

È verosimile che la Russia sia stata molto più popolosa di quanto non sia attualmente nei tempi in cui il vaiolo, venuto dal fondo dell’Arabia, e l’altro, venuto dall’America141, non avevano ancora devastato questi Paesi in cui hanno poi messo radici. Questi due flagelli che hanno spopolato il mondo più della guerra, sono dovuti l’uno a Maometto, l’altro a Cristoforo Colombo. La peste, originaria dell’Africa, raramente giungeva alle contrade settentrionali. E poiché, per finire, le popolazioni nordiche, dai Sarmati ai Tatari che vivono al di là della grande muraglia, dilagarono per il mondo con le loro scorrerie, questo antico vivaio di uomini dev’essere diminuito in modo rilevante.

In questo vastissimo Paese si contano all’incirca 7.400 monaci e 5.600 religiose, e ciò nonostante l’impegno con cui Pietro il Grande tentò di ridurne il numero. Era questa una preoccupazione in tutto degna di un legislatore in un Paese dove ciò che manca più di tutto il resto sono gli uomini. Queste 13.000 persone rinchiuse nei monasteri e perdute per lo Stato, disponevano, come il lettore avrà potuto osservare, di 720.000142 servi per coltivare le loro terre; evidentemente è troppo. A quest’abuso, così comune e così funesto per tanti Stati, solo l’imperatrice Caterina II ha posto rimedio. È lei che ha osato rivendicare i diritti della natura e della religione togliendo al clero e ai monaci ricchezze odiose: li ha sottomessi al tesoro pubblico e li ha costretti a essere utili mettendoli nell’impossibilità di essere

141 La sifilide, a lungo creduta portata in Europa dai marinai di Cristoforo Colombo.142 Nella prima edizione risultavano, per un errore di stampa, 70.000 servi. Come risulta dalla

tabella, il numero esatto era 721.500 che Voltaire arrotonda per semplicità.

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pericolosi143.Da un resoconto finanziario dell’impero del 1725 mi risulta che, contando

i tributi dei Tatari, tutte le imposte e i dazi in denaro, il totale ammontava a tredici milioni di rubli, il che rappresenta sessantacinque milioni in moneta francese, senza contare i tributi in natura. Questa modesta somma era allora sufficiente per mantenere 339.500 uomini, sia per terra che per mare. In seguito sia le entrate che le truppe sono aumentate144.

In Russia le usanze, la foggia del vestire e i costumi, si erano sempre avvicinati più a quelli dell’Asia che a quelli dell’Europa cristiana, così l’antica usanza di riscuotere dal popolo tributi in derrate, quella di sposare gli ambasciatori durante il viaggio e il soggiorno e quella di non presentarsi né in chiesa né davanti al trono con una spada, abitudine orientale diametralmente opposta alla nostra barbara e ridicola usanza di andare a parlare a Dio, ai re, agli amici e alle donne con una lunga arma offensiva che pende giù lungo le gambe. Nei giorni di cerimonia l’abito lungo sembrava più nobile dell’abito corto delle nazioni occidentali dell’Europa. Una tunica foderata di pelliccia, accompagnata nei giorni solenni da una lunga zimarra arricchita di pietre preziose, e quella specie di alti turbanti, che aumentano la statura, erano più imponenti delle parrucche e del giustacuore e più adatti al clima rigido; ma questo abbigliamento comune anticamente a tutti i popoli sembra meno adatto alla guerra e meno comodo per il lavoro. Quasi tutte le altre usanze erano rozze, ma non bisogna immaginare che i costumi fossero così barbari come li descrivono tanti scrittori. Albrecht Krantz145 parla di un ambasciatore italiano al quale uno zar fece inchiodare il cappello sulla testa perché costui non si scopriva nel rivolgergli la parola. Altri attribuivano l’episodio a un tataro, e per finire si è raccontata la stessa cosa di un ambasciatore francese.

Secondo Olearius, lo zar Michele Fëdorovič relegò in Siberia un marchese di Exideuil ambasciatore del re di Francia Enrico IV, ma è accertato che quel monarca non inviò mai un ambasciatore a Mosca146. Allo stesso modo i viaggiatori parlano del Paese di Borandia che non esiste, hanno trafficato con gli abitanti della Nuova Zembla che a malapena è abitata147, hanno

143 Nel 1764 Caterina II firmò il decreto di confisca delle proprietà fondiarie di chiese e monasteri, che diede allo Stato un notevole gettito di terre, ma causò la chiusura di molti monasteri e l’ovvio malcontento del clero.

144 Nelle edizioni ottocentesche si annota spesso che nel 1829 il reddito era di 400 milioni e i soldati erano più di un milione.

145 Albrecht Krantz (1448-1517) fu uno storico tedesco e teologo protestante che scrisse opere, pubblicate postume, ritenute eccezionalmente imparziali e precise: Wandalia del 1518, Saxonia (1520), Chronica regnorum aquilonarium, Daniæ Sueciæ Norvagiæ (1546), Metropolis (1548).

146 Cfr. Prefazione. (Nota dell’Autore) – Nella prima edizione, Voltaire aveva inserito nel testo: «E non c’è mai stato in Francia un marchese di Exideuil». La frase fu tolta perché Voltaire scoperse che il titolo apparteneva dal 1587 alla famiglia Talleyrand e il marchese d’Exideuil era Charles de Talleyrand (cfr. paragrafo VIII della Prefazione).

147 La Borandia era un territorio settentrionale di proprietà danese; la Nuova Zemlja (in Voltaire: Nuova Zembla) è un arcipelago situato oltre il Circolo Polare Artico, tra il mare di Barents e il mare di Kara.

140

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avuto lunghe conversazioni con alcuni Samoiedi, come se avessero potuto capirli. Se le enormi compilazioni di viaggi fossero sfrondate di tutto ciò che non è vero né utile, sia le opere che il pubblico ne guadagnerebbero.

Un punto di rassomiglianza tra il governo russo e quello turco è dato dalla milizia degli strel’cy148, che, come quella dei giannizzeri, giunse talvolta a disporre del trono e spesso turbò lo Stato più di quanto non lo appoggiasse. Questi strel’cy erano in numero di 40.000. Quelli dislocati in provincia vivevano di brigantaggio, quelli di Mosca vivevano come borghesi dediti ai traffici, non prestavano alcun servizio e ostentavano un’estrema insolenza. Per ristabilire l’ordine in Russia bisognava piegarli: nulla era necessario, né più pericoloso.

Nel secolo XVII, il reddito dello Stato era inferiore a cinque milioni di rubli (pari a circa venticinque milioni francesi). Quando Pietro giunse al trono, questa cifra era sufficiente per mantenersi nell’antica mediocrità, ma non era neppure un terzo di quanto sarebbe occorso per migliorare e imporsi alla considerazione dell’Europa. Tuttavia molte imposte erano pagate in natura secondo l’usanza turca, usanza molto meno gravosa per il popolo che quella di pagare i tributi in denaro.

TITOLO DI ZAR

Quanto al titolo di zar, è probabile che derivi dagli tzar o tchar del regno di Kazan’. Nel secolo XVI il sovrano di Russia Giovanni, ovvero Ivan Vasil’evič, dopo aver conquistato quel regno che era stato sottomesso da un suo antenato ma successivamente perduto, ne assunse il titolo, che rimase poi ai suoi successori. Prima di Ivan Vasil’evič i sovrani russi portavano il titolo di veliki knez149 (gran principe, gran signore, gran capo) che i popoli cristiani traducono con quello di granduca. Lo zar Michele Fëdorovič assunse per l’ambasciata dello Holstein i titoli di gran signore e gran knez, conservatore di tutte le Russie, principe di Vladimir, Mosca, Novgorod, ecc., zar di Kazan’, zar di Astrachan’, zar della Siberia. Questa denominazione di tzar era dunque il titolo dei principi orientali; quindi era più verosimile che derivasse dagli scià di Persia anziché dai cesari di Roma150, di cui probabilmente gli zar siberiani non avevano mai sentito parlare sulle rive dell’Ob.

Qualunque titolo non conta nulla se chi lo porta non è grande di per sé. Il nome di imperatore, che significava semplicemente generale dell’esercito, divenne il nome dei capi di Roma repubblicana: oggi è conferito ai sovrani di Russia più giustamente che a qualunque altro potentato, se si considera l’estensione e la potenza dei loro domini.

148 Sull’originale strélitz, tradotto talvolta in italiano con strelizi. Gli strel’cy erano unità militari, dotate di armi da fuoco, fondate da Ivan il Terribile verso il 1550 come guardia del corpo e abolite da Pietro il Grande nel 1698, in quanto spesso ribelli.

149 In russo, velikij significa “grande” e knez, o knjaz, principe o signore.150 Šuvalov fece notare a Voltaire che era più corretto scrivere, al posto di cesari di Roma,

imperatori di Costantinopoli, ma l’opinione non fu accettata.

141

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RELIGIONE

Sin dal secolo XI la religione di Stato fu sempre quella che, in contrapposizione a quella latina, viene chiamata greca151; i pagani e i maomettani erano più numerosi dei cristiani. La Siberia, fino alla Cina, era dedita all’idolatria e in più di una provincia si ignorava qualsiasi forma di religione. L’ingegner Perry e il barone di Strahlenberg, che hanno soggiornato così a lungo in Russia, dicono di aver trovato più buona fede e onestà tra i pagani che altrove. Non che fosse il paganesimo a renderli più virtuosi, tuttavia, conducendo vita pastorale lontano dalla società degli altri uomini, vivendo come ai tempi che si chiamano la prima età del mondo, non andando soggetti a grandi passioni, erano necessariamente migliori.

In Russia, come in tutti gli altri Paesi del Nord, il cristianesimo si diffuse solo molto tardi. Si vuole che ve l’abbia introdotto, sul finire del secolo X, una principessa chiamata Ol’ga152. Allo stesso modo Clotilde, nipote di un principe ariano, lo fece introdurre tra i Franchi; la moglie d’un certo Micislao, duca di Polonia, presso i Polacchi e la sorella dell’imperatore Enrico II presso gli Ungheresi. È destino delle donne di essere sensibili agli argomenti dei ministri della religione e di convincere gli altri uomini.

Si narra inoltre che questa principessa Ol’ga si fece battezzare a Costantinopoli: le fu imposto il nome di Elena e, non appena fu cristiana, l’imperatore Giovanni Zimisce non mancò d’innamorarsene. A quanto pare era vedova. Ella non volle saperne dell’imperatore. Nei primi tempi l’esempio della principessa Olha o Ol’ga non fece molti proseliti: il figlio di lei che regnò a lungo153, non la pensava affatto come sua madre. Invece suo nipote Vladimir154, che era figlio di una concubina e aveva assassinato il proprio fratello per salire al trono, aspirava all’alleanza dell’imperatore di Costantinopoli Basilio e l’ottenne a una sola condizione: che si sarebbe fatto battezzare. È a questo punto, nel 987155, che la religione greca cominciò a mettere realmente radici in Russia. Un patriarca di Costantinopoli che si chiamava Chrysoberges156 mandò un vescovo a battezzare Vladimir, per aggiungere al suo patriarcato quella parte del mondo157.

151 La data ufficiale della cristianizzazione della Rus’ è il 988, quindi nel X secolo come Voltaire dice in seguito.

152 Sull’originale Olha. Ol’ga (in russo) o Helga (in norreno) era una principessa varjaga, moglie di Igor’ di Kiev e, quindi, nuora di Rurik, il conquistatore di Novgorod. La vita e la conversione di Ol’ga (879-969) sono narrate nella Cronaca di Nestore (cfr. nota 67). È venerata santa sia dai cattolici che dagli ortodossi.

153 Si chiamava Sowastoslaw. (Nota dell’Autore) – Il nome era Svjatoslav, figlio di Igor’ e di Ol’ga, che regnò dal 963 al 972.

154 Voltaire usa Volodimer, cioè Volodimir che è Vladimir in ucraino. Anche la vita e la conversione di Vladimir sono narrate nella Cronaca di Nestore (cfr. nota 67).

155 Nel 988.156 Nicola II Chrysoberges (in italiano: Crisoberge), patriarca di Costantinopoli dal 984 al

996.157 Da un manoscritto privato titolato Du Gouvernement ecclésiastique de Russie (Il governo

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Vladimir portò dunque a compimento l’opera cominciata dalla nonna. Il primo metropolita o patriarca di Russia fu un greco. Fu allora che i Russi introdussero nella loro lingua un alfabeto ricavato in parte da quello greco; sarebbe stato un progresso se la base della loro lingua, che è quella slava, non fosse rimasta immutata, ad eccezione di alcuni termini concernenti la liturgia e la gerarchia158. Finalmente uno di questi patriarchi greci, di nome Geremia, che aveva un processo col divan159 ed era venuto a Mosca a domandare aiuto, rinunciò alle sue pretese sulla Chiesa russa e nel 1588 consacrò patriarca l’arcivescovo di Novgorod, chiamato Giobbe160.

Da quel momento la Chiesa russa fu indipendente come l’impero. Effettivamente era pericoloso, ridicolo e vergognoso che la Chiesa russa dipendesse da quella greca, schiava dei Turchi. Da quel momento in poi il patriarca fu consacrato dai vescovi russi e non dal patriarca di Costantinopoli. Nella Chiesa greca egli era, per grado gerarchico, dopo quello di Gerusalemme, ma fu in realtà il solo patriarca libero e potente, di conseguenza il solo effettivo. Quelli di Gerusalemme, di Costantinopoli, di Antiochia e di Alessandria, non sono che i capi mercenari e avviliti di una Chiesa schiava dei Turchi. Persino quelli di Antiochia e di Gerusalemme non sono più guardati come patriarchi e non godono maggior credito di quello che godono in Turchia i rabbini delle sinagoghe.

Pietro il Grande discendeva direttamente da un uomo che fu patriarca di tutte le Russie. Ben presto questi primitivi prelati vollero condividere l’autorità degli zar. Non bastava che una volta l’anno lo zar sfilasse a capo scoperto davanti al patriarca, conducendo il cavallo per la briglia161. Simili

ecclesiastico della Russia). (Nota dell’Autore)158 Nella prima edizione, in luogo di quest’ultima frase, c’era: «Il patriarca Photius [Fozio],

tanto celebre per la sua immensa cultura, per le sue dispute con la Chiesa romana e per le sue disgrazie, per aggiungere al suo patriarcato questa parte del mondo». Da una fonte russa Voltaire apprese che Fozio era contemporaneo di Ol’ga di Kiev, poi si accorse – e lo riferì a Šuvalov nella lettera dell’11 giugno 1761 – che non Fozio ma Polieucte battezzò Ol’ga e corresse l’errore nell’edizione del 1768. Fozio, patriarca di Costantinopoli nei periodi 858-867 e 877-886, aveva mandato un vescovo tra i Russi nell’867, sicuro di convertirli come già era accaduto con i Bulgari (863), e ne informò i vescovi d’Oriente con una lettera enciclica, ma il suo tentativo fallì. Fu però a quel tempo (e non sotto Vladimir) che i santi Cirillo e Metodio elaborarono l’alfabeto glagolitico (o antico slavo ecclesiastico, o cirillico).

159 Nel libro è sempre inteso come governo ottomano.160 Giobbe, o in russo Iob, diventò metropolita di Mosca nel 1586 e fu eletto patriarca di

Mosca e di tutte le Russie nel 1589, rimanendo in carica fino al 1605 quando fu rimosso. Nel racconto, Voltaire commette due errori: metropolita e patriarca non sono sinonimi (il metropolita corrisponde all’arcivescovo, il patriarca al papa) e Geremia non andò a Mosca per chiedere aiuto. Geremia II Tranos (1530?-1595) fu eletto patriarca di Costantinopoli nel 1572 e venne deposto dai Turchi nel 1579 perché avevano stabilito una durata all’ufficio, ma Geremia fu continuamente rieletto fino alla morte. Il viaggio a Mosca nel 1589 non fu per chiedere aiuto allo zar Boris Godunov, ma per aiutarlo a creare il patriarcato di Mosca cui Geremia era favorevole. In Russia il patriarcato fu abolito da Pietro il Grande e restaurato nel 1917 (ma restò vacante dal 1925 al 1943).

161 Il bisnonno paterno di Pietro era il patriarca russo Filarete Romanov (padre del primo zar Romanov, Michele I), ma i supervisori russi contestarono – inutilmente – a Voltaire questa

143

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manifestazioni esteriori di rispetto servono solo a inasprire la sete di potere. Questa smania di potenza provocò come sempre gravi disordini.

Il patriarca Nikon che i monaci tengono in conto di santo e che era in carica al tempo di Alessio, padre di Pietro il Grande, volle elevare la cattedra al disopra del trono: non soltanto egli usurpava il diritto di sedere in senato al fianco dello zar, ma affermava che non si potesse dichiarar guerra né concludere la pace senza la sua approvazione. L’autorità di cui godeva, sostenuta dalle ricchezze e dall’intrigo, dal clero e dal popolo, teneva il sovrano in una specie di subordinazione. Egli ebbe l’ardire di scomunicare alcuni senatori che si erano opposti ai suoi eccessi, e finalmente Alessio, che non si sentiva abbastanza forte da deporlo con la sua sola autorità, convocò un sinodo di vescovi. Accusato di aver accettato denaro dai Polacchi, fu deposto e relegato in un chiostro per il resto dei suoi giorni; i prelati elessero un altro patriarca162.

Sin dagli inizi del cristianesimo ci furono in Russia alcune sette, come ce ne sono anche negli altri Stati; spesso infatti le sette sono un prodotto dell’ignoranza come della presunta sapienza. Ma la Russia è l’unico grande Stato cristiano in cui la religione non abbia mai provocato guerre civili, sebbene abbia prodotto alcuni disordini.

La più antica è la setta dei Raskol’niki, che oggi conta circa duemila aderenti di sesso maschile, e che è menzionata nel censimento. Si diffuse sin dal secolo XII, a opera di alcuni zelanti che avevano una vaga conoscenza del Nuovo Testamento; costoro avevano e hanno ancor oggi la pretesa di tutti i settari, quella cioè di seguirlo alla lettera, accusando tutti gli altri cristiani di tiepidezza, non ammettendo che un prete il quale abbia bevuto dell’acquavite possa conferire il battesimo, affermando con Gesù Cristo che tra i fedeli non vi sono né primi né ultimi e soprattutto che un fedele può uccidersi per amore del Salvatore. Secondo loro è un peccato gravissimo dire tre volte alleluia, bisogna dirlo soltanto due e impartire la benedizione sempre e solo con tre dita. Per il resto, nessuna comunità è più austera e regolata nei costumi: vivono come i quaccheri, ma a differenza di questi ultimi non ammettono gli altri cristiani alle loro riunioni. Proprio per questo gli altri li hanno accusati di tutte le atrocità di cui i pagani

frase perché era sì vera ma faceva pensare che Pietro fosse diventato zar grazie a quella parentela. La citata cerimonia fu scritta da Voltaire anche negli Aneddoti sullo zar Pietro il Grande (cfr. nota 51): era la cosiddetta “processione dell’asino” (in russo, Choždenie na osljati) che si svolse a Mosca, nella Domenica delle Palme, per rievocare l’entrata di Gesù in Gerusalemme, dal 1558 al 1693, quando fu abolita da Pietro il Grande. In quel giorno, lo zar faceva, in segno di umiltà e rispetto verso la Chiesa ortodossa, da palafreniere al patriarca, tenendo per le briglie l’asino (più spesso un cavallo) su cui questi cavalcava.

162 Il patriarca Nikon (cfr. nota 139) non si accontentò di riformare i testi e gli apparati della Chiesa russa, causando il formarsi della setta dei Raskol’niki, di cui Voltaire accenna in seguito solo il lato esteriore del dissenso, ma si circondò di tale potere da far credere che volesse creare un patriarcato nazionale, in cui il potere politico e quello religioso si sarebbero fusi, oscurando di fatto quello zarista. Alessio interruppe le relazioni con Nikon e questi rinunciò spontaneamente al titolo di patriarca (1658). Solo nel 1667 si riuscì a nominare il nuovo patriarca: Iosaf II.

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accusavano i primi galilei, che questi a loro volta attribuivano agli gnostici e che i cattolici attribuivano ai protestanti. Furono spesso accusati di sgozzare un bambino, di berne il sangue e di congiungersi, nelle loro cerimonie segrete, senza distinzione di parentela, di età e neppure di sesso. Talvolta sono stati perseguitati: allora si sono barricati nelle loro borgate appiccando il fuoco alle case e gettandosi poi nelle fiamme. Pietro ha preso con loro l’unico atteggiamento che potesse ricondurli al dovere, quello di lasciarli vivere in pace.

Del resto, in un impero tanto grande ci sono solo ventiquattro sedi episcopali, e al tempo di Pietro non se ne contavano che ventidue: questo numero così ridotto è probabilmente uno dei fattori che conservarono la pace nella Chiesa russa. Questa Chiesa era d’altronde così arretrata che fu Fëdor, fratello di Pietro il Grande, a introdurvi il canto piano163.

Fëdor, e soprattutto Pietro, ammisero indifferentemente nell’esercito e nel consiglio fedeli di rito greco, latino, luterano e calvinista, lasciando a ciascuno la libertà di servire Dio secondo la propria coscienza purché lo Stato fosse servito a dovere. In questo impero di duemila leghe di lunghezza, non c’era una sola chiesa latina. Soltanto dopo che Pietro ebbe installato ad Astrachan’ delle nuove manifatture, ci furono circa sessanta famiglie cattoliche dirette dai cappuccini, ma quando i gesuiti vollero introdursi nel suo Stato, egli li cacciò con un editto dell’aprile 1718. Tollerava i cappuccini, che considerava monaci innocui, ma vedeva nei gesuiti dei pericolosi politicanti. Questi gesuiti si erano stabiliti in Russia nel 1685: furono espulsi quattro anni dopo; tornarono ancora e furono di nuovo cacciati164.

La Chiesa greca mena vanto perché vede estendersi il suo dominio su un impero di duemila leghe, mentre quella romana in Europa non ricopre nemmeno la metà di questo territorio. In ogni tempo i fedeli di rito greco hanno tenuto soprattutto a riaffermare la propria parità con quelli di rito latino e hanno sempre diffidato dello zelo della Chiesa di Roma che a loro sembrava ambizione, perché in effetti la Chiesa romana, rigorosamente confinata nel nostro emisfero, si proclama universale165 e ha voluto adeguarsi a questo grande titolo.

In Russia non ci sono mai stati quartieri ebrei come ce ne sono in tante città d’Europa, da Costantinopoli a Roma. Del loro commercio i Russi si sono sempre occupati personalmente o tramite le popolazioni residenti nel loro territorio. Di tutte le Chiese greche, la loro è l’unica che non veda le sinagoghe sorgere a fianco dei suoi templi.

163 Simile all’antico canto greco-bizantino, senza musica strumentale.164 In Russia furono presenti anche i domenicani. I monaci cattolici erano malvisti perché

dediti all’evangelizzazione, insistente e capillare (pratica pressoché sconosciuta agli ortodossi che non contemplano i missionari). I gesuiti furono poi accettati da Caterina II ma solo per l’istruzione ai giovani.

165 Come si sa, cattolico viene dal greco katholikos, che significa “universale”.

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SEGUITO DELLA DESCRIZIONE DELLE CONDIZIONI DELLA RUSSIAPRIMA DI PIETRO IL GRANDE

La Russia, che deve unicamente a Pietro il Grande la sua grande influenza negli affari europei, non ne aveva affatto da quando aveva abbracciato il cristianesimo. Prima la si vedeva svolgere sul mar Nero la funzione svolta dai Normanni sulle nostre coste oceaniche: armare, ai tempi di Eraclio166, 40.000 piccole imbarcazioni, presentarsi all’assedio di Costantinopoli e imporre un tributo ai cesari greci. Ma il gran knez Vladimir, assorbito dalla preoccupazione di introdurre il cristianesimo nel Paese e sfinito dalle lotte intestine di palazzo, indebolì ulteriormente il regno dividendolo tra i suoi figli. Quasi tutti caddero preda dei Tatari che asservirono la Russia per duecento anni. Ivan Vasil’evič167 la liberò e l’ingrandì; ma dopo di lui le guerre civili la portarono alla rovina.

Prima di Pietro il Grande, la Russia era ben lontana dall’essere altrettanto potente, ricca di terre coltivate, sudditi ed entrate che ai giorni nostri. Non aveva possedimenti in Finlandia, né in Livonia, e la Livonia vale da sola assai più di quanto non abbia valso per molto tempo tutta la Siberia. I Cosacchi non erano ancora sottomessi, la popolazione di Astrachan’ obbediva di malavoglia, il poco commercio che si faceva non era vantaggioso. Il mar Bianco, il Baltico, il Ponto Eusino168, il mar d’Azov e il mar Caspio erano perfettamente inutili a una nazione che non aveva nemmeno una nave e nella cui lingua mancava persino la parola che significa flotta. Se si fosse trattato solo di essere superiori ai Tatari e ai popoli del Nord fino alla Cina, la Russia godeva già di questo privilegio, ma quello che occorreva era mettersi al passo con le nazioni civilizzate e porsi in condizione di superarne un giorno più d’una. Una simile impresa pareva inattuabile, dato che non si disponeva di una sola nave sui mari, che sulla terraferma la disciplina militare era assolutamente sconosciuta, che le manifatture più semplici erano a malapena incoraggiate e l’agricoltura stessa, che è la base di tutto, era trascurata. Essa esige dal governo cure e incoraggiamenti; questo ha fatto sì che gli Inglesi trovassero nel grano un tesoro più prezioso delle loro lane.

Lo scarso sviluppo delle arti necessarie dimostra che non si aveva la più lontana idea delle belle arti, le quali diventano a loro volta necessarie quando si ha tutto il resto. Sarebbe stato possibile mandare qualche abitante del Paese a imparare all’estero, ma la differenza di lingua, di costumi e di religione costituiva un ostacolo, e persino una legge dello Stato e della religione, tanto venerabile quanto perniciosa, vietava ai Russi di recarsi all’estero, e sembrava condannarli a una perpetua ignoranza. Essi possedevano lo Stato più vasto del mondo, ma tutto era ancora da fare. Finalmente nacque Pietro e la Russia fu fatta.

Fortunatamente, fra tutti i grandi legislatori del mondo, Pietro è il solo di

166 Eraclio I di Bisanzio, imperatore bizantino dal 610 al 641.167 Ivan III detto il Grande (cfr. nota 99).168 Antico nome del mar Nero.

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cui si conosca bene la storia. A quella dei vari Romolo e Teseo, che fecero molto meno di lui, a quella dei fondatori di tutti gli altri Stati dotati di leggi, si intrecciano favole assurde. Noi abbiamo qui il vantaggio di scrivere delle verità che passerebbero per favole se non esistessero le prove.

Capitolo III

ANTENATI DI PIETRO IL GRANDE

La famiglia di Pietro sedeva sul trono dall’anno 1613169. Precedentemente la Russia aveva dovuto subire delle rivoluzioni che avevano ritardato ulteriormente le riforme e le arti. Questa è la sorte di tutte le società umane. Nessun regno ebbe a sopportare mai disordini più crudeli. Nel 1597 il tiranno Boris Godunov fece assassinare l’erede legittimo Dmitrij, che noi chiamiamo Demetrio, e usurpò l’impero170. Un giovane monaco prese il nome di Demetrio, si fece passare per il principe scampato agli assassini e valendosi dell’appoggio dei Polacchi e del potente partito che si forma sempre contro i tiranni, cacciò l’usurpatore, e usurpò a sua volta la corona. Appena salito al potere, suscitò il malcontento e la sua impostura fu smascherata: egli finì assassinato. Altri tre falsi Demetrio sorsero uno dopo l’altro. Questa serie d’imposture presupponeva un Paese completamente in preda all’anarchia. Meno l’uomo è civilizzato, più è facile trarlo in inganno. Si può giudicare a che punto queste frodi aggravavano la confusione e il disagio generale. I Polacchi, che avevano dato il segnale della rivolta mettendo sul trono il primo falso Demetrio, furono sul punto di prendere il potere in Russia. Gli Svedesi se ne divisero le spoglie dalla parte della Finlandia e accamparono anch’essi delle pretese al trono; lo Stato era minacciato di totale rovina.

Nel colmo di queste sventure, un’assemblea composta dei principali bojardi chiamò al trono nel 1613 un giovanetto di quindici anni171: non sembra davvero il sistema migliore per metter fine ai disordini. Questo giovanetto era Michele Romanov172, nonno dello zar Pietro, figlio dell’arcivescovo di Rostov, soprannominato Filarete, e di una religiosa; egli discendeva in linea femminile dagli antichi zar.

Bisogna sapere che quest’arcivescovo era un potente signore che il

169 I Romanov salirono al trono con Michele I (1596-1645).170 Che Boris Godunov (cfr. nota 95) abbia fatto assassinare Dmitrij Ivanovič (o Dmitrij di

Uglič; 1582-1591; canonizzato nel 1606) non è certo, ma le circostanze della sua morte non sono state mai chiarite. Godunov ambiva certamente al trono, di cui esercitava già i poteri essendo lo zar Fëdor mentalmente disabile. Dmitrij era figlio della quinta moglie di Ivan IV e quindi non sarebbe stato riconosciuto dalla Chiesa russa (che ammetteva solo tre mogli) come successore al trono nel caso il fratello maggiore fosse morto senza figli. Fëdor morì, senza eredi, sette anni dopo (1598).

171 Michele I aveva quasi diciassette anni.172 Sull’originale Romano, con nota di Voltaire: «I Russi scrivono Romanow. In francese non

esiste il W. Si può anche pronunciare Romanof.»

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tiranno Boris aveva costretto a farsi prete. Anche sua moglie Sheremeto173 fu costretta a prendere il velo, in ossequio a un’antica usanza dei tiranni occidentali cristiani e latini; i cristiani greci usavano invece cavare gli occhi. Il tiranno Demetrio concesse a Filarete l’arcivescovado di Rostov e lo inviò come ambasciatore in Polonia174. L’ambasciatore fu trattenuto in prigionia dai Polacchi che a quel tempo erano in guerra con i Russi; a tal punto il diritto delle genti era ignorato da tutti i popoli. Fu durante la sua detenzione che il giovane Romanov, figlio dell’arcivescovo, fu eletto zar. Suo padre fu barattato con dei prigionieri polacchi e il giovane zar creò suo padre patriarca; questo vecchio fu, sotto il nome del figlio, il sovrano effettivo.

Se un simile governo può sembrare strano agli stranieri, il matrimonio dello zar Michele Romanov lo sembrerà ancor di più.

Ormai dal 1490, nessun sovrano russo aveva più scelto la sua sposa in uno Stato straniero. Si direbbe che da quando sono venuti in possesso di Kazan’ e di Astrachan’, essi abbiano adottato quasi in tutto le usanze asiatiche, e principalmente quella di sposare soltanto le proprie suddite.

Ecco un particolare che richiama ancor più da vicino le antiche usanze asiatiche: per dare una sposa allo zar si facevano venire a corte dalle varie province le fanciulle più belle; la gran maestra di corte le ospitava presso di sé. Lo zar le vedeva o sotto falso nome o senza alcun travestimento. Il giorno delle nozze era fissato senza che fosse ancora stata resa nota la scelta; il giorno stabilito, veniva presentato un abito da sposa a quella su cui era caduta la scelta segreta; alle altre pretendenti si distribuivano altri abiti ed esse se ne tornavano a casa. Ci sono quattro esempi di simili matrimoni.

Fu in questo modo che Michele Romanov sposò Evdokija, figlia di un povero gentiluomo chiamato Strešnev175. Questi coltivava personalmente il proprio campo assieme ai servi quando alcuni ciambellani, incaricati dallo zar di recargli del doni, gli annunciarono che sua figlia sedeva sul trono. Ancora oggi in Russia il nome di questa principessa è ricordato con affetto. Tutto ciò differisce molto dalle nostre usanze, ma non per questo è meno rispettabile.

Occorre precisare che prima dell’elezione di Romanov una potente fazione aveva eletto il principe Ladislao, figlio di Sigismondo re di Polonia176, e le

173 La moglie di Filarete si chiamava Ksenja Ivanovna Šestova, ma in passato si credeva che il suo cognome fosse Šastunova.

174 Il primo falso Demetrio lo nominò arcivescovo nel 1605; il secondo falso Demetrio lo mandò ambasciatore in Polonia.

175 Nel 1624 Michele sposò in prime nozze Marija Vladimirovna Dolgorukova e dopo la morte di questa (1625) sposò nel 1627 Evdokija Luk’janovna Strešnëva (1608-1645) che gli dette dieci figli, di cui solo quattro superarono la maggiore età. Il padre di Evdokija, Luk’jan Stefanovič Strešnev (morto nel 1650) era un aristocratico di Meščovsk, città lituana fino al 1503, i cui abitanti erano “autorizzati” a servirsi del loro patrimonio e per ciò detti “poveri”.

176 Ladislao IV (1595-1648), figlio di Sigismondo III Vasa e di Anna d’Austria, re di Polonia dal 1632. Quando aveva quindici anni, il padre lo fece eleggere zar di Russia (1610) dai bojardi nel tentativo di conquistare la Russia e convertirla al cattolicesimo. Ladislao

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province contigue alla Svezia avevano offerto la corona a un fratello di Gustavo Adolfo. Così la Russia era venuta a trovarsi nella stessa situazione in cui si è vista così spesso la Polonia, Paese in cui il diritto di eleggere il monarca è stato il pretesto di varie guerre civili. Ma i Russi non fecero come i Polacchi, i quali stipulano un contratto con il re che hanno eletto. Sebbene avessero già sperimentato la tirannide, si sottomisero a un giovane senza nulla esigere da lui.

La Russia non era mai stata una monarchia elettiva, ma essendo venuta a mancare la discendenza maschile degli antichi sovrani ed essendo miseramente periti sei tra zar e pretendenti nei recenti disordini, si dovette ricorrere, come si è visto, all’elezione di un monarca: questa elezione provocò nuove guerre con la Polonia e la Svezia che si batterono per i propri pretesi diritti al trono di Russia. Questi diritti di governare una nazione suo malgrado non reggono mai molto tempo. I Polacchi da parte loro, dopo essersi spinti fino a Mosca e dopo alcuni di quei saccheggi cui si riducevano a quel tempo le spedizioni militari, conclusero una tregua di quattordici anni. Grazie a questa tregua restò alla Polonia il possesso del ducato di Smolensk, in cui nasce il Boristene. Anche gli Svedesi conclusero la pace; mantennero il possesso dell’Ingria togliendo alla Russia ogni sbocco sul mar Baltico, in modo che quell’impero restò più che mai privo di comunicazione con il resto dell’Europa.

Dopo questa pace, Michele Romanov regnò indisturbato, e non introdusse nel suo regno alcun cambiamento che perfezionasse o peggiorasse l’amministrazione. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1645, suo figlio Alessio Michajlovič, ossia figlio di Michele, che aveva sedici anni, regnò per diritto ereditario. Si può notare che lo zar era consacrato dal patriarca secondo alcuni riti di Costantinopoli, ma con la differenza che il patriarca di Russia sedeva sullo stesso palco dello zar e affettava sempre una parità che suonava offesa al potere supremo.

ALESSIO MICHAJLOVIČ, FIGLIO DI MICHELE Alessio si sposò come suo padre e scelse, tra le fanciulle che gli furono

presentate, quella che gli parve più amabile. Nel 1647 sposò una delle due figlie del bojardo Miloslavskij e successivamente, nel 1671, una Nariškin. Il suo favorito Morozov sposò l’altra177. A questo Morozov non si potrebbe dare titolo più appropriato che quello di visir; infatti nell’impero era un despota, e la sua potenza fomentò varie rivolte tra gli strel’cy e il popolo, come accade sovente a Costantinopoli.

rimase sul trono russo in balia dei bojardi finché questi non elessero Michele Romanov, ma mantenne il titolo di Granduca di Moscovia fino al 1634.

177 Alessio I (1629-1676), figlio di Michele I, sposò in prime nozze Marija Il’inična Miloslavskaja (1625-1669), che gli dette tredici figli, e in seconde nozze Natal’ja Kirillovna Naryškina (1651-1694), da cui ebbe tre figli il cui maggiore era Pietro il Grande. Boris Ivanovič Morozov (1590-1661) era stato il tutore di Alessio e ne divenne il più stretto collaboratore, oltreché cognato quando sposò Anna, sorella di Natal’ja.

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Il regno di Alessio fu turbato da sanguinose rivolte, da guerre sia intestine che esterne. Un capo dei Cosacchi del Tanais, chiamato Sten’ka Rasin, volle farsi re d’Astrachan’. A lungo egli seminò il terrore finché, vinto e catturato, subì l’estremo supplizio come tutti i suoi simili, per i quali non c’è altro che il trono o la forca178. Si dice che circa 12.000 dei suoi seguaci furono impiccati lungo la grande strada di Astrachan’. Questa parte del mondo era quella in cui gli uomini meno che altrove raffrenati dalle leggi, potevano esserlo unicamente dai supplizi, e questi atroci supplizi facevano nascere la servitù e la segreta passione della vendetta.

Alessio mosse guerra alla Polonia; la guerra fu fortunata, e si concluse con una pace che gli assicurò il possesso di Smolensk, di Kiev e dell’Ucraina; ma fu sfortunato con gli Svedesi e dalla parte della Svezia i confini dell’impero erano sempre molto sacrificati.

A quei tempi i Turchi erano più temibili: erano piombati sulla Polonia e minacciavano le province dello zar prossime alla Tartaria di Crimea, l’antico Chersoneso taurico. Nel 1761 si impadronirono dell’importante centro di Kaminieck179 e di tutti i territori dell’Ucraina dipendenti dalla Polonia. I Cosacchi dell’Ucraina, che non si erano mai piegati sotto un padrone, non sapevano allora se appartenevano alla Turchia, alla Polonia o alla Russia. Il sultano Maometto IV180, vincitore dei Polacchi cui aveva recentemente imposto un tributo, chiese, con tutto l’orgoglio di un ottomano e di un vincitore, che lo zar facesse evacuare tutti i suoi possedimenti in Ucraina e ricevette un rifiuto dato con pari fierezza. A quell’epoca si era incapaci di nascondere l’orgoglio sotto l’ossequio esteriore delle convenienze. Il sultano, nella sua lettera, trattava il sovrano di tutte le Russie alla stregua di un semplice ospodaro cristiano, e si attribuiva il titolo di gloriosissima maestà, re di tutto l’universo. Lo zar rispose «che non era da par suo sottomettersi a un cane di maomettano e che la sua scimitarra valeva la spada del Gran signore».

Alessio formulò allora un piano che sembrava preannunciare l’influenza che la Russia era destinata un giorno ad avere nell’Europa cristiana. Inviò ambasciatori al papa e a quasi tutti i grandi sovrani europei, tranne la Francia, alleata dei Turchi, per tentare di formare una lega contro la Porta ottomana. A Roma i suoi ambasciatori non riuscirono ad altro che a non baciare i piedi al papa e anche altrove riscossero solo inutili consensi perché le discordie tra i principi cristiani e le contese che ne nacquero li mettevano nell’impossibilità di unirsi contro il nemico della cristianità.

178 Sten’ka Razin (1630-1671) era un cosacco del Volga che nel 1661, per conto dei Cosacchi del Don (o Tanais), andò in missione tra i Calmucchi. Nel 1668-1669 combatté la Persia, poi si stabilì ad Astrachan’, continuando a sostenere l’uguaglianza di tutti e l’abolizione dei privilegi. Nel 1670-1671, con un esercito popolare, conquistò alcune città lungo il Volga, finché, tradito, fu consegnato alle autorità zariste e squartato pubblicamente.

179 Kam’janec’-Podil’s’kyj.180 Maometto IV (o Mehmed IV; 1642-1693), giunto sul trono nel 1648, lasciò di fatto il

potere al visir Mohamed Köprülü e al figlio di questi Ahmed. Nel 1687 fu deposto dall’esercito che pose sul trono suo fratello Solimano II.

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Gli Ottomani frattanto minacciavano di sottomettere la Polonia che ricusava di pagare il tributo. Lo zar Alessio l’aiutò dalla parte della Crimea, e il generale della corona Giovanni Sobieski181 lavò l’onta del suo Paese nel sangue dei Turchi182 con la celebre battaglia di Chotin che gli aprì la strada verso il trono. Alessio gli contese quel trono e propose di unire il suo vasto Stato alla Polonia, come gli Jagelloni vi avevano annesso la Lituania; tuttavia più la sua offerta era alta, meno venne accettata. Si dice che fosse degnissimo del nuovo regno per il modo in cui governava il suo. Fu lui il primo a far redigere un codice di leggi, sebbene imperfetto; introdusse manifatture di tela e di seta che per la verità non durarono, ma a lui andò il merito di averle create. Popolò le regioni deserte verso il Volga e la Kama con famiglie lituane, polacche e tatare catturate nel corso delle sue guerre. Prima di lui tutti i prigionieri diventavano schiavi di quelli cui toccavano in sorte: Alessio ne fece degli agricoltori; egli ristabilì per quanto poté la disciplina nel suo esercito, in breve era degno di essere il padre di Pietro il Grande. Tuttavia non ebbe il tempo di portare a compimento nessuna delle cose che aveva intrapreso: una morte prematura lo rapì all’età di quarantasei anni, all’inizio del 1677183 secondo il nostro calendario che è in anticipo di undici giorni rispetto a quello russo.

FËDOR ALEKSEVIČ

Dopo Alessio, tutto ripiombò nel caos. Egli lasciava dal primo matrimonio due principi e sei principesse. Fëdor, il maggiore, salì al trono all’età di quindici anni184; era un principe di costituzione debole e cagionevole ma dotato di meriti che nulla avevano a vedere con la debolezza del corpo. Suo padre Alessio lo aveva fatto riconoscere suo successore un anno prima. Allo stesso modo fecero i re di Francia da Ugo Capeto a Luigi il Giovane e tanti altri sovrani.

Il secondo figlio di Alessio era Ivan o Giovanni, ancor più maltrattato dalla natura di quanto non fosse suo fratello Fëdor, quasi privo della vista e della favella, come lui di salute malferma e spesso vittima di convulsioni. Delle sei figlie nate da questo primo matrimonio, la sola celebre in Europa fu la principessa Sof’ja185, che spiccava per le doti del suo spirito ma che disgraziatamente è ancor più famosa per il male che tentò di fare a Pietro il Grande.

Dalle seconde nozze con un’altra delle sue suddite, figlia del bojardo Nariškin, Alessio ebbe Pietro e la principessa Natal’ja. Pietro, nato il 30

181 Giovanni Sobieski (o Jan Sobieski; 1624-1696), di nobile famiglia polacca, fu eletto re di Polonia nel 1674, dopo la battaglia di Chotin che avvenne l’11 novembre 1673.

182 Nel 1674. (Nota dell’Autore)183 Morì l’anno prima: il 29 gennaio (8 febbraio) 1676.184 Nel 1677. (Nota dell’Autore) – Fëdor III (cfr. nota 96). Qui e nel seguito Voltaire parla di

figli viventi: Alessio ebbe cinque maschi e otto femmine con la prima moglie e un maschio e due femmine con la seconda (cfr. nota 177).

185 Sof’ja Alekseevna (1657-1704) diventò reggente della Russia dal 1682 al 1689.

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maggio 1762 e secondo il nuovo computo il 10 giugno186, aveva appena quattro anni e mezzo quando perse il padre. I figli di secondo letto non erano ben visti e nessuno si aspettava che egli dovesse un giorno salire al trono.

La tradizione della famiglia Romanov fu sempre quella di civilizzare lo Stato: tale era anche il carattere di Fëdor. Abbiamo già fatto notare, a proposito di Mosca, che egli incoraggiò i cittadini a costruire parecchie case di pietra. Egli ingrandì la capitale: a lui si devono alcuni regolamenti di ordine generale. Ma volendo riformare i bojardi, egli se li inimicò tutti. Del resto non era né abbastanza attivo né abbastanza perseverante da osare concepire un cambiamento generale. La guerra con i Turchi, o meglio contro i Tatari di Crimea, che continuava sempre con alterna fortuna, non consentiva a un principe di salute delicata di tentare quell’impresa grandiosa. Fëdor, come i suoi predecessori sposò una delle sue suddite, originaria delle frontiere della Polonia, e avendola perduta dopo un anno, prese per seconda moglie nel 1682 Marfa Mateovna, figlia del segretario Apraksin187. Dopo qualche mese si ammalò della malattia che doveva condurlo alla tomba, e non lasciò figli. Come gli zar prendevano moglie senza badare all’estrazione, così (almeno allora) potevano scegliersi un successore senza tenere conto della primogenitura. Sembrava che il rango di sposa del sovrano e quello di suo erede dovessero essere esclusivamente premio del merito; in ciò l’usanza di quest’impero era infinitamente superiore all’usanza degli Stati più civili.

Fëdor188 prima di spirare, vedendo che il fratello Ivan, troppo maltrattato dalla natura, non era in grado di regnare, nominò erede di Russia il secondo fratello Pietro, il quale non aveva che dieci anni ma già faceva nascere grandi speranze.

Se l’usanza di innalzare semplici suddite al rango di zarina era favorevole alle donne, ce n’era un’altra molto dura: raramente a quel tempo le figlie degli zar si sposavano e la maggior parte passava i giorni in un monastero.

La principessa Sof’ja, terza figlia di primo letto dello zar Alessio, principessa di spirito tanto superiore quanto pericoloso, vedendo che al fratello Fëdor non restava molto tempo da vivere, non scelse il convento, e trovandosi tra gli altri due fratelli impossibilitati a governare, uno per la sua incapacità, l’altro per la giovane età, concepì il progetto di mettersi a capo dell’impero: negli ultimi tempi della vita dello zar Fëdor volle rinnovare la parte sostenuta in altri tempi da Pulcheria presso l’imperatore Teodosio, suo

186 Pietro nacque il 30 maggio secondo il calendario giuliano, o il 9 giugno secondo il gregoriano.

187 Sull’originale Apraxin. Fëdor sposò in prime nozze, nel 1680, Agafija Semënovna Grušeckaja che morì di parto pochi giorni dopo la morte del bambino (1681), e nello stesso anno sposò Marfa Matveevna Apraksina, figlia di Fëdor Matveevič Apraksin (1661-1728) che in seguito aiutò Pietro il Grande a costruire la Marina militare e fu nominato grande ammiraglio.

188 Aprile 1682. (Nota dell’Autore)

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fratello189.

Capitolo IV

IVAN E PIETRO. TERRIBILE SEDIZIONE DELLA MILIZIA DEGLI STREL’CY

Fëdor era appena spirato190 che la chiamata al trono di un principe di dieci anni, l’esclusione del primogenito e gli intrighi della principessa Sof’ja scatenarono nel corpo degli strel’cy una delle rivolte più sanguinose. Né i giannizzeri né i pretoriani furono mai così spietati. Dapprima, due giorni dopo le esequie dello zar Fëdor, corrono in armi al Cremlino che, come è noto, è il palazzo degli zar a Mosca. Cominciano col lamentarsi di nove dei loro colonnelli che non erano stati abbastanza precisi nel pagarli. Il ministro è costretto a esonerare i colonnelli e a dare agli strel’cy il denaro che chiedono. Ma i soldati non sono soddisfatti; esigono che siano consegnati loro i nove ufficiali e li condannano a maggioranza al supplizio che è chiamato delle verghe; questo supplizio viene inflitto come segue. Il condannato è spogliato completamente, viene fatto sdraiare bocconi e due carnefici lo colpiscono sulla schiena con delle verghe fino a che il giudice non dica: «Basta». I colonnelli così trattati dai soldati furono costretti per giunta a ringraziarli, secondo l’usanza orientale dei criminali, i quali, dopo esser stati puniti, baciano la mano ai giudici; essi aggiunsero ai loro ringraziamenti una somma in denaro, cosa che non si usava fare.

Mentre gli strel’cy cominciavano a farsi temere in questo modo, la principessa Sof’ja, che li aizzava segretamente per condurli di delitto in delitto, convocò in sua presenza un’assemblea cui partecipavano le principesse di sangue, i generali d’armata, i bojardi, il patriarca, i vescovi e persino i principali mercanti. Ella sostenne che quell’impero di cui segretamente sperava di tenere le redini spettava al principe Ivan per diritto di primogenitura e per i suoi meriti. Al termine dell’assemblea fa promettere agli strel’cy un aumento di paga e dei doni. I suoi emissari cercano soprattutto di aizzare la soldatesca contro la famiglia dei Nariškin e in particolare contro i due Nariškin fratelli della giovane vedova dello zar e madre di Pietro I. Qualcuno dà a intendere agli strel’cy che uno dei fratelli, di nome Ivan, ha indossato la veste dello zar, si è posto sul trono e ha tentato di strangolare il principe Ivan; aggiunge che un malcapitato medico olandese chiamato Daniel Vangad ha avvelenato lo zar Fëdor. Infine Sof’ja fa consegnare nelle loro mani una lista di quaranta nobili che vengono definiti nemici loro e dello Stato e che essi devono massacrare. Non si vide mai nulla di più simile alle proscrizioni di Silla e dei triumviri di Roma.

189 Teodosio II (401-450), incoronato nel 408 imperatore d’Oriente, fu messo da parte dalla sorella maggiore Pulcheria che, dopo esser stata reggente, assunse nel 414 il titolo di Augusta ed esercitò il potere.

190 Tratto interamente dalle relazioni inviatemi da Mosca e Pietroburgo. (Nota dell’Autore)

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Cristiano II le aveva rinnovate in Danimarca e in Svezia191. Questo dimostra che simili atrocità sono di tutti i Paesi in epoche di disordine e di anarchia.

Dapprima sono gettati dalla finestra gli knez Dolgorukij e Malfeu192: gli strel’cy li ricevono sulla punta delle picche, li spogliano e li trascinano sulla piazza grande; subito dopo entrano nel palazzo, dove trovano uno zio dello zar Pietro, Afanasij Nariškin, fratello della giovane zarina; questi viene massacrato allo stesso modo. Forzano poi le porte di una chiesa vicina dove si erano rifugiati tre proscritti, li trascinano via dall’altare, li spogliano e li finiscono a pugnalate.

Erano tanto accecati dal furore che, vedendo passare un giovane signore della famiglia Saltikov193 che amavano e che non si trovava sulla lista dei proscritti, alcuni di loro, scambiando quel giovane per Ivan Nariškin che stavano cercando, lo uccidono seduta stante. Un particolare rivelatore dei costumi del tempo è il seguente: riconosciuto il proprio errore, essi portarono il corpo del giovane Saltikov al padre perché gli desse sepoltura, e quel padre sventurato, lungi dall’azzardare proteste, li ricompensò per avergli riportato il corpo sanguinante del figlio. Sua moglie, le figlie e la sposa del morto, in lacrime, gli rinfacciarono la sua debolezza. «Aspettiamo il giorno della vendetta», rispose loro il vecchio.

Alcuni strel’cy udirono queste parole: infuriati rientrano nella camera, trascinano il padre per i capelli e gli tagliano la gola sulla soglia di casa. Altri strel’cy cercano dappertutto il medico olandese Vangad; si imbattono nel figlio, gli chiedono dove sia suo padre; il giovane risponde tremando che non lo sa e a questa risposta ha la gola tagliata. Trovano un altro medico tedesco: «Sei un medico – gli dicono – e anche se non hai avvelenato il nostro signore Fëdor, ne hai certo avvelenati altri: meriti la morte» e lo uccidono.

Finalmente trovano l’olandese che cercavano: si era travestito da mendicante. Egli viene trascinato davanti al palazzo: le principesse che avevano caro quel poveretto e che riponevano fiducia in lui chiedono la sua grazia agli strel’cy, assicurando che è un bravissimo medico e che ha curato molto bene il loro fratello Fëdor. Gli strel’cy rispondono che non solo merita la morte come medico, ma anche come stregone, e che hanno trovato in casa sua un grosso rospo disseccato e una pelle di serpente. Aggiungono poi che le principesse devono consegnare a tutti i costi il giovane Ivan Nariškin che stanno cercando invano da due giorni, che certamente egli si nasconde nel palazzo, che vi appiccheranno il fuoco se non verrà loro consegnata la vittima. La sorella di Ivan Nariškin e le altre principesse, spaventate, si recano al rifugio dove egli si nasconde. Il patriarca lo

191 Cristiano II di Danimarca (1481-1559), già re di Danimarca e Norvegia, nel 1520 fu eletto re di Svezia e la sera stessa fece massacrare tutti gli oppositori.

192 Dolgorukij era il nome di una casata principesca cu apparteneva la madre di Sof’ja. Malfeu [di cui Voltaire annota «O Matheoff: è il Mathieu (Matteo) nella nostra lingua»] è Artamon Sergeevič Matveev (1625-1682) che era stato capo del governo sotto lo zar Alessio.

193 Sull’originale Soltikov. I Saltikov erano nobili russi discesi nel XV secolo da un ramo dei Morozov.

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confessa, gli amministra il viatico e l’estrema unzione, poi brandisce un’immagine della Vergine che passava per miracolosa, prende per mano il giovane e s’avanza verso gli strel’cy mostrando l’immagine della Vergine. Le principesse in lacrime attorniano il giovane Nariškin, si prosternano davanti ai soldati, li scongiurano in nome della Vergine di accordare la vita al loro congiunto, ma i soldati lo strappano dalle mani delle principesse e lo trascinano ai piedi della scalea assieme a Vangad. Poi formano tra loro una specie di tribunale e mettono alla tortura Nariškin e il medico. Uno dei loro, che sapeva scrivere, redige un verbale: i due malcapitati sono condannati a essere fatti a pezzi. Si tratta di un supplizio usato in Cina e in Tartaria per i parricidi: è chiamato il supplizio dei duemila pezzi. Dopo aver fatto subire questo trattamento a Nariškin e a Vangad, ne espongono la testa, i piedi e le mani sulle punte di ferro di una cancellata.

Mentre danno sfogo al loro furore sotto gli occhi delle principesse, altri soldati massacravano chiunque fosse inviso a loro o sospetto a Sof’ja.

Al termine di questa atroce esecuzione furono proclamati sovrani i due principi Ivan e Pietro194; al loro fianco fu messa la principessa Sof’ja in qualità di reggente. La principessa allora approvò tutti i loro delitti e li ricompensò, confiscò i beni dei proscritti e li dette agli assassini. Permise perfino che innalzassero un monumento, sul quale furono incisi i nomi di quelli che erano stati massacrati, come traditori della patria; da ultimo dette loro delle lettere patenti con le quali li ringraziava del loro zelo e della loro fedeltà.

Capitolo V

REGNO DELLA PRINCIPESSA SOF’JASingolare controversia religiosa. Cospirazione

Ecco per quali vie la principessa Sof’ja195 salì di fatto sul trono di Russia pur senza essere proclamata zarina, ed ecco i primi esempi che ebbe sotto gli occhi Pietro I. A Sof’ja furono tributati tutti gli onori di una sovrana; la sua effigie sulle monete, la sua firma su tutti i documenti, il primo posto nel consiglio e soprattutto il supremo potere. Ella era dotata di grande ingegno, componeva persino versi nella sua lingua, sapeva scrivere e parlare bene; un aspetto piacente metteva ancor più in risalto tante doti: solo l’ambizione le offuscava.

Ella dette moglie al fratello Ivan secondo il costume di cui si sono visti tanti esempi. Una giovane Saltikov, della famiglia di quello stesso Saltikov che era stato assassinato dagli strel’cy, fu scelta nel cuore della Siberia dove suo padre era comandante di una fortezza, per essere presentata allo zar Ivan a Mosca. La sua bellezza trionfò sugli intrighi di tutte le rivali. Ivan la

194 Giugno 1682. (Nota dell’Autore)195 Interamente tratto delle relazioni inviatemi da Pietroburgo. (Nota dell’Autore)

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sposò nel 1684196. A ogni matrimonio di zar sembra di leggere la storia di Assuero o di Teodosio II.

Nel pieno dei festeggiamenti per il matrimonio, gli strel’cy provocarono una nuova sollevazione, e il pretesto, chi lo avrebbe mai detto, era la religione, il dogma. Se fossero stati soltanto dei soldati, non si sarebbero trasformati in controversisti; ma erano borghesi di Mosca. Dal cuore delle Indie fino alle estreme contrade dell’Europa, chiunque abbia o si arroghi il diritto di parlare autorevolmente al popolo può fondare una setta, cosa alla quale si è potuto assistere in ogni tempo, soprattutto da quando l’insana passione del dogma è diventata l’arma degli audaci e il giogo degli imbecilli.

Già si era avuta in Russia qualche sedizione, al tempo in cui si disputava se la benedizione dovesse darsi con tre dita o con due. A Mosca un certo Avvakum, arciprete197, si era messo a spacciare dogmi sullo Spirito Santo, (che, stando al Vangelo, deve illuminare tutti i fedeli), sull’uguaglianza dei primi cristiani, su queste parole del Cristo: «non vi sarà né primo né ultimo». Parecchi cittadini e strel’cy abbracciarono le idee di Avvakum: il partito si rafforzò, un certo Raspop198 ne divenne il capo199. I membri della setta finirono per entrare nella cattedrale dove il patriarca e il clero stavano officiando: cacciarono a sassate lui e i suoi e si misero devotamente al loro posto per ricevere lo Spirito Santo. Essi chiamavano il patriarca lupo rapace nell’ovile, titolo di cui tutte le sette si sono gratificate a vicenda con la massima liberalità. Qualcuno corse ad avvertire dei disordini la principessa Sof’ja e i giovani zar; si fa dire agli altri strel’cy, sostenitori della giusta causa, che gli zar e la Chiesa erano in pericolo. Il partito degli strel’cy e dei borghesi che tenevano per il patriarca venne alle mani con la fazione degli avvakumisti, ma la carneficina fu sospesa appena si parlò di convocare un concilio. Detto fatto un concilio si riunì in una sala del palazzo; la convocazione non presentava alcuna difficoltà: si fecero venire tutti i preti che fu possibile trovare. Il patriarca e un vescovo sostennero la disputa contro Raspop e al secondo sillogismo cominciarono a volare delle sassate. Il concilio finì per mozzare il capo a Raspop e ad alcuni dei suoi fedeli seguaci che furono giustiziati unicamente dietro ordine dei tre sovrani, Sof’ja, Ivan e Pietro.

In quei tempi di disordini ci fu un knez, Chovanskij, il quale, avendo contribuito a porre sul trono la principessa Sof’ja200, voleva, come

196 La sposa era Praskov’ja Fëdorovna Saltykova (1664-1723) ed ebbe cinque figlie da Ivan V.197 Avvakum Petrovič (1620?-1682), protopope, o arcidiacono, entrò in conflitto con il

patriarca Nikon in seguito alle riforme liturgiche (cfr. nota 139), dando inizio allo scisma (raskol’) dei “Vecchi Credenti”. Da allora cominciarono contro Avvakum le persecuzioni: fu esiliato, degradato, scomunicato e infine arso vivo. Delle sue opere, importante è l’autobiografia (La vita del protopope Avvakum scritta da lui medesimo, 1672-75).

198 Raspop non è un nome: indica un prete scomunicato. Si voleva indicare Pustosvjat (bigotto), soprannome dato dai detrattori a Nikita Konstantinovič Dobrynin. Dopo la Rivolta di Mosca (1682; cfr. nota 200) fu tradito dagli strel’cy e decapitato.

199 16 luglio 1682. (Nota dell’Autore)200 Ivan Andreevič Chovanskij era un bojardo diventato capo degli strel’cy dopo l’uccisione di

Michail Dolgorukov e di fatto ministro della guerra. Nello stesso anno (1682) capeggiò la

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ricompensa dei suoi servigi, dividere con lei il potere. Non è difficile immaginare che Sof’ja si rivelò un’ingrata. Allora scelse la via della devozione e dei raspopisti perseguitati e sollevò nuovamente nel nome di Dio una parte degli strel’cy e del popolo. La sua cospirazione fu più seria dell’infatuazione di Raspop. Un ambizioso ipocrita va sempre più lontano di un semplice fanatico. Chovanskij aspirava nientemeno che all’impero; e per non aver più nulla da temere decise di massacrare sia i due zar, che Sof’ja, le principesse, tutti quelli che avevano qualche rapporto con la famiglia dello zar. Gli zar e le principesse furono costretti a rifugiarsi nel monastero della Trinità, a dodici leghe da Mosca. Era a un tempo convento, palazzo e fortezza, come Montecassino, Corbie, Fulda, Kempten201 e tanti altri appartenenti ai cristiani di rito latino. Questo monastero della Trinità appartiene ai monaci basiliani202; è circondato da larghi fossati e da spalti in mattoni difesi da una nutrita artiglieria. Le campagne circostanti appartenevano ai monaci per un raggio di quattro miglia. La famiglia reale era al sicuro più grazie alla forza che alla santità del luogo. Di lì Sof’ja avviò negoziati con il ribelle, lo ingannò, lo attirò a metà del cammino, e gli fece tagliare la testa: lo stesso trattamento subirono un suo figlio e trentasette strel’cy che lo accompagnavano203.

A tale notizia il corpo degli strel’cy si appresta a marciare in armi sul convento della Trinità, minacciando un completo sterminio: la famiglia reale si asserraglia, i bojardi armano i propri vassalli, tutti i gentiluomini accorrono: era l’inizio di una sanguinosa guerra civile. Il patriarca placò un poco gli strel’cy; le truppe che da ogni parte confluivano su di loro li spaventarono; alfine passarono dal furore al timore e dal timore alla più cieca sottomissione, cambiamento abituale alle moltitudini. Si misero una corda al collo 3.700 dei loro, seguiti dalle donne e dai bambini, e in questo stato marciarono alla volta del convento della Trinità che tre giorni prima volevano ridurre in cenere. Quei disgraziati si presentarono davanti al monastero portando due a due un ceppo e una scure e si prosternarono a terra in attesa del supplizio: furono perdonati. Se ne tornarono a Mosca benedicendo i loro signori e pronti, senza rendersene conto, a ripetere gli

dimostrazione dei Vecchi Credenti (detta Rivolta di Mosca o Chovanščina), costringendo il patriarca Ioachim ad accettare un dibattito pubblico. La sua arroganza suscitò malcontento e corse voce che volesse assassinare la famiglia dello zar; per questo fu condannato a morte insieme a suo figlio. Storici moderni ritengono che lui fosse innocente e che Sof’ja si fosse inventata la cospirazione per liberarsene.

201 Montecassino, abbazia laziale fondata nel VI secolo da San Benedetto. Corbie, a 15 Km da Amiens, fondata del VII secolo. Vi fu rinchiuso Desiderio. Fulda, nell’Assia, abbazia benedettina dell’VIII secolo. Kempten, nella Baviera sud-occidentale, monastero benedettino fondato in epoca carolingia.

202 Monaci che si ispirano alla regola dettata da san Basilio il Grande (IV secolo). Al tempo di Voltaire erano detti “basiliani” tutti i monaci che seguivano il rito greco o bizantino. Il citato monastero della Trinità, il preferito dagli zar, è quello fondato da san Sergij di Radonež nel XIV secolo a circa 70 km da Mosca, che nel tempo diventò, oltre a uno dei più importanti centri religiosi ortodossi, una vera e propria città fortificata che resistette più volte agli assedi dei Polacchi nel XVI-XVII secolo.

203 1652. (Nota dell’Autore)

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stessi attentati alla prima occasione.Dopo questi sussulti lo Stato ritrovò un’apparente tranquillità; Sof’ja

continuò a detenere la suprema autorità abbandonando Ivan alla propria incapacità e tenendo Pietro sotto tutela. Per accrescere la sua potenza la divise col principe Vasilij Golicyn204 che nominò generalissimo, amministratore dello Stato e guardasigilli: uomo superiore da tutti i punti di vista a ogni altro che si trovasse allora in quella corte turbolenta. Raffinato nelle maniere, munifico, capace di concepire solo disegni grandiosi, più istruito di ogni altro russo, perché aveva ricevuto un’educazione migliore, egli conosceva persino il latino, quasi totalmente ignorato in Russia; era dotato di una mente attiva e laboriosa, di doti superiori al suo secolo, e sarebbe stato in grado di trasformare la Russia, se ne avesse avuto il tempo e il potere come ne aveva l’intenzione. Questo è l’elogio che di lui fa La Neuville, a quei tempi inviato di Polonia in Russia205, e gli elogi degli stranieri sono i meno sospetti.

Questo ministro tenne a bada il corpo degli strel’cy distribuendo i più turbolenti in vari reggimenti di stanza in Ucraina, a Kazan’ e in Siberia. Sotto la sua amministrazione la Polonia, da tempo rivale della Russia, rinunciò nel 1686 a ogni pretesa sulle grandi province di Smolensk e dell’Ucraina. È lui il primo che nel 1687 fece inviare un’ambasceria in Francia, Paese che da vent’anni era all’apice della gloria per le conquiste e le nuove istituzioni di Luigi XIV, per la magnificenza e soprattutto per il progresso delle arti senza le quali non vi può essere che grandezza, ma mai autentica gloria. La Francia non aveva ancora mai avuto rapporti con la Russia, che era sconosciuta, e l’Accademia delle iscrizioni celebrò quella ambasceria con una medaglia come se fosse venuta dalle Indie; ma malgrado la medaglia, l’ambasciatore Dolgorukij206 fallì il suo scopo: anzi ebbe a subire gravi affronti a causa della condotta dei suoi domestici. Sarebbe stato meglio passar sopra alle loro mancanze, ma la corte di Luigi XIV non poteva prevedere allora che un giorno la Russia e la Francia avrebbero contato tra i propri vantaggi quello di essere unite da una salda alleanza.

A quel tempo lo Stato era tranquillo all’interno, sempre limitato verso la Svezia ma esteso dalla parte della Polonia, sua nuova alleata, in perpetuo

204 Sull’originale Gallitzin o Galitzin. Vasilij Vasil’evič Golicyn (1643-1714), favorito di Sof’ja, era uomo molto colto e simpatizzante della cultura polacca. In seguito al fallimento di due spedizioni in Crimea (1687 e 1689) e all’ascesa al trono di Pietro fu esiliato nel Nord della Russia.

205 Foy de la Neuville è lo pseudonimo di un ignoto francese che facendosi passare per un diplomatico polacco compì un viaggio ufficiale in Russia nel 1689 e scrisse Relation curieuse, et nouvelle de Moscovie. Contenant, l’état présent de cet Empire. Les expéditions des Moscovites en Crimée, en 1689. Les causes des dernières Révolutions. Leurs Mœurs, & leur Religion. Le Récit d’un Voyage de Spatarus, par terre à la Chine, pubblicato nel 1698. Si suppone che egli fosse certamente conosciuto alla corte russa, ma che il libro sia stato costruito raccogliendo materiale già edito e inventando molti episodi.

206 Jakov Fëdorovič Dolgorukij (1659-1720) fu uno stretto collaboratore di Pietro I, che lo mandò come ambasciatore anche in Francia e a Roma.

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allarme verso la Tartaria di Crimea e in contrasto con la Cina per le frontiere.

La cosa più intollerabile per l’impero, e che dimostrava come esso non fosse ancora riuscito a darsi un’amministrazione forte e regolare, era il fatto che il khan dei Tatari di Crimea pretendeva un tributo annuo di 60.000 rubli, come la Turchia aveva fatto con la Polonia.

La Tartaria di Crimea è quello stesso Chersoneso taurico celebre nell’antichità per il commercio dei Greci e ancor più per le loro leggende, regione fertile e sempre barbara, detta Crimea dal nome dei primi khan i quali, prima della conquista dei figli di Gengis, avevano il titolo di krim. È per riscattarsi e vendicare l’onta di un simile tributo che il primo ministro Golicyn si recò personalmente in Crimea a capo di un numeroso esercito207. Questi eserciti erano molto diversi da quelli che mantiene attualmente il governo: non esisteva disciplina e neppure un reggimento armato in piena regola, non c’erano uniformi, nulla di regolare; è vero che le truppe erano indurite dalle fatiche e dai disagi, ma c’era una profusione di bagagli quale non si vede neppure nei nostri accampamenti, nei quali pure regna il lusso. Questo numero prodigioso di carriaggi carichi di viveri e munizioni in un Paese devastato e disabitato fu fatale all’impresa di Crimea. Ci si ritrovò in lande vastissime e deserte lungo il fiume Samara, e senza magazzini. Golicyn fece in quel deserto una cosa che, credo, non era mai stata fatta altrove: impiegò 30.000 uomini per costruire sulla Samara una città che servisse di deposito per la campagna successiva; fu cominciata quello stesso anno e ultimata in tre mesi, l’anno seguente. Era tutta di legno, è vero, con due edifici di mattoni e spalti di terra, ma era munita di artiglieria e in grado di difendersi.

È la sola cosa degna di nota fatta nel corso di quella disastrosa spedizione. Frattanto Sof’ja regnava, Ivan di zar non aveva che il nome; Pietro, che aveva diciassette anni, aveva già il coraggio di esserlo. L’inviato di Polonia La Neuville, che risiedeva allora a Mosca ed è testimone oculare degli avvenimenti, afferma quanto segue: Sof’ja e Golicyn ottennero dal nuovo capo degli strel’cy che si impegnasse a sacrificare loro il giovane zar; almeno pare che seicento di questi strel’cy dovessero impadronirsi della sua persona. Le relazioni segrete affidatemi dalla corte di Russia affermano che era stata decisa la soppressione di Pietro I: il colpo stava per essere sferrato e la Russia sarebbe stata privata per sempre della nuova vita che ricevette in seguito. Ancora una volta lo zar fu costretto a cercare scampo nel monastero della Trinità, rifugio abituale della corte minacciata dalla soldatesca. Là egli convoca i bojardi del suo partito, raccoglie delle truppe, incarica alcuni di parlare ai capi degli strel’cy, chiama presso di sé dei tedeschi da tempo stabilitisi a Mosca e tutti fedeli a lui che già favoriva gli stranieri208. Sof’ja e Ivan, rimasti a Mosca, scongiurarono gli strel’cy di

207 Nel 1687 e 1688. (Nota dell’Autore)208 Voltaire non ne accenna, ma all’epoca correva voce che fosse stato Pietro I a eccitare la

rivolta per detronizzare la sorellastra, forse perché spiegava meglio la rapidità dell’azione.

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restare loro fedeli, ma la causa di Pietro che denuncia un attentato ordito contro la sua persona e contro sua madre prevale su quella di una principessa e di uno zar il cui solo aspetto bastava ad allontanare i cuori. Tutti i complici furono puniti con quella severità alla quale il Paese era a quei tempi altrettanto avvezzo che agli attentati. Alcuni furono decapitati dopo aver patito il supplizio del knut209 o delle verghe. Così perì il capo degli strel’cy; alcuni sospetti ebbero tagliata la lingua. Il principe Golicyn, che aveva un parente vicino allo zar Pietro, ebbe salva la vita, ma spogliato di tutti i suoi beni, che erano immensi, e fu relegato sulla strada di Archangel’sk. La Neuville, testimone di tutta la catastrofe, racconta che la sentenza fu pronunciata in questi termini: «Ti si ordina, da parte del clementissimo zar, di recarti a Karga, città sotto il Polo, e di restarvi per il resto dei tuoi giorni. L’estrema bontà di Sua Maestà ti accorda tre soldi al giorno». Non c’è alcuna città sotto il polo. Karga è situata a 62° di latitudine, soltanto 6° e mezzo a nord di Mosca. Chi avesse pronunciato questa sentenza sarebbe stato un pessimo geografo: si presume che La Neuville sia stato indotto in errore da un rapporto inesatto210.

Infine la principessa Sof’ja211 fu ricondotta nel suo monastero di Mosca dopo aver regnato per un periodo abbastanza lungo: tale cambiamento era un supplizio sufficiente.

Da questo momento regnò Pietro. Il fratello Ivan non ebbe altra parte nel governo che quella di vedere il proprio nome sugli atti pubblici; visse da semplice privato e morì nel 1696.

Capitolo VI

REGNO DI PIETRO IInizio della grande riforma

Pietro il Grande aveva corporatura alta, agile e ben fatta, volto nobile, occhi vivaci, una costituzione robusta, atta a tutti gli esercizi e a tutte le fatiche; il suo giudizio era retto, cosa che è alla base di ogni vero talento; a questa rettitudine univa un’irrequietezza che lo portava a tutto intraprendere e a tutto fare. La sua educazione era ben lungi dall’essere degna del suo genio: l’interesse della principessa Sof’ja era stato più che altro quello di lasciarlo nell’ignoranza e di abbandonarlo in preda a quegli eccessi che la giovinezza, l’ozio, i costumi e il suo rango rendevano fin

209 Specie di frusta con strisce di cuoio ruvido e arrotolato terminanti con ganci o punte metalliche.

210 Non vi fu errore: Vasilij Golycin fu esiliato prima in Siberia (dove si trova Karga) e poi ad Archangel’sk. Egli ebbe salva la vita grazie alle suppliche del suo parente Boris Alekseevič Golycin (1651-1714) che per quasi vent’anni era stato tutore di Pietro I e in seguito lo accompagnò nelle campagne militari, diventò comandante e governatore di Kazan’ e di Astrachan’ e poi fu deposto ed esiliato perché appoggiò gli strel’cy.

211 Nel 1689. (Nota dell’Autore)

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troppo leciti. Pure si era sposato recentemente212 e aveva preso in moglie, come tutti gli altri zar, una sua suddita, figlia del colonnello Lopuchin213, ma data la sua giovane età e dato che per un lungo periodo non aveva avuto altre prerogative del trono che quella di indulgere al piacere, i seri vincoli matrimoniali non furono sufficienti a tenerlo a freno. I piaceri della tavola cui si abbandonava in compagnia di alcuni stranieri attirati a Mosca dal ministro Golicyn, non lasciavano sperare che sarebbe diventato un riformatore. Pure, nonostante i cattivi esempi e finanche dei piaceri, si dedicava all’arte militare e al governo: già si doveva riconoscere in lui il germe di un grand’uomo.

Ancor meno ci si aspettava che un principe, il quale se doveva attraversare un ruscello era preso da uno spavento istintivo che arrivava fino al sudore freddo e alle convulsioni, sarebbe diventato un giorno il migliore uomo di mare del settentrione. Cominciò col domare la natura gettandosi in acqua malgrado l’orrore che aveva per quest’elemento; anzi l’avversione giunse a trasformarsi in predilezione.

L’ignoranza nella quale era cresciuto lo faceva arrossire. Da solo e quasi senza guida imparò il tedesco e l’olandese abbastanza da esprimersi e da scrivere in modo intelligibile in queste due lingue. I Tedeschi e gli Olandesi erano per lui i popoli più civili, dato che gli uni esercitavano già a Mosca alcune delle arti che voleva far sorgere nell’impero e gli altri primeggiavano nella marina che egli considerava la più necessaria delle arti.

Tali erano le sue disposizioni, malgrado le inclinazioni della giovinezza. Tuttavia aveva ancora da temere varie fazioni, da frenare la turbolenza degli strel’cy, da sostenere una guerra pressoché ininterrotta contro i Tatari di Crimea. Nel 1689 questa guerra si era conclusa con una tregua che fu di breve durata.

In questo intervallo Pietro si rafforzò nel progetto di introdurre le arti nella sua patria.

Già suo padre Alessio aveva avuto la stessa intenzione, ma né la fortuna né il tempo lo avevano favorito; egli trasmise al figlio questo suo genio ma più perfezionato, più vigoroso, più tenace nelle avversità.

Alessio aveva fatto venire dall’Olanda, con grande spesa, il costruttore Bothler214, capitano di una nave con carpentieri e marinari, i quali costruirono sul Volga una grande fregata e uno yacht che discesero il corso del fiume fino ad Astrachan’: avrebbero dovuto servire, assieme ad altre navi da costruire in un secondo tempo, a trafficare vantaggiosamente con la Persia attraverso il mar Caspio. Fu allora che divampò la rivolta di Sten’ka Rasin. Il ribelle fece distruggere le due navi che sarebbe stato suo interesse conservare e massacrò il capitano; il resto dell’equipaggio scampò in Persia

212 Nel giugno 1689. (Nota dell’Autore)213 Sull’originale Lapuchin (come da pronuncia). Evdokija Fëdorovna Lopuchina (1669-1731)

era figlia di Fëdor Abramovič Lopuchin, che da procuratore alla corte dello zar Alessio I diventò colonnello e capo degli strel’cy e, dopo il matrimonio della figlia (1689), fu elevato al rango di bojardo. Il matrimonio tra Evdokija e Pietro finì ufficialmente nel 1698.

214 Relazioni di Mosca e Pietroburgo. (Nota dell’Autore)

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e di lì raggiunse i territori della Compagnia olandese delle Indie. Un mastro carpentiere, buon costruttore, si fermò in Russia e rimase a lungo in incognito.

Un giorno Pietro passeggiando a Izmailovo, una delle ville del nonno215, scorse, tra altre rarità, una piccola scialuppa inglese rimasta nel più completo abbandono: egli chiese al tedesco Timmerman, suo maestro di matematica216, perché quella piccola imbarcazione fosse costruita in modo diverso da quelle che aveva visto sulla Moscova. Timmerman rispose che era concepita per andare a vela e a remi. Il giovane principe voleva provarla seduta stante, ma prima bisognava ripararla e attrezzarla di nuovo; fu rintracciato quello stesso costruttore Brandt che si era ritirato a Mosca217; egli riattò la scialuppa e la fece navigare sul fiume Jauza che bagna i sobborghi della città.

Pietro fece trasportare la sua scialuppa su un grande lago nei pressi del monastero della Trinità; fece costruire da Brandt due fregate e tre yacht di cui fu lui stesso il pilota. Finalmente molto tempo dopo, nel 1694, si recò ad Archangel’sk e, avendo fatto costruire in quel porto una piccola nave dallo stesso Brandt, salpò sul mar Glaciale che nessun sovrano aveva visto prima di lui. Era scortato da una nave da guerra olandese comandata dal capitano Jolson e aveva al suo seguito tutte le imbarcazioni mercantili ancorate ad Archangel’sk. Già cominciava a impratichirsi nella manovra e, malgrado la premura che mettevano i cortigiani nell’imitare il loro signore, era il solo ad impararla.

Formare delle truppe di terra fedeli e disciplinate non era meno difficile che avere una flotta. I suoi primi tentativi di marina su un lago, prima del viaggio di Archangel’sk, furono presi per semplici passatempi di gioventù di un uomo di genio, e anche i primi tentativi di formare delle truppe parvero solo un gioco. Si era durante la reggenza di Sof’ja e, se a qualcuno fosse balenato il sospetto che quel gioco era una cosa seria, avrebbe potuto essergli fatale.

Lo zar concesse la sua fiducia a uno straniero: si tratta del celebre Le Fort218, di antica e nobile famiglia piemontese trapiantata da quasi due

215 A nord di Mosca, ora inglobata nella città.216 Franz Fëdorovič Timmerman (1644-1702), ingegnere navale olandese (non tedesco), fu

uno dei tutori di Pietro che in seguito gli affidò la costruzione di grandi navi, sia militari che mercantili. Fu l’organizzatore dei due viaggi dello zar in Europa, particolarmente dell’apprendistato di Pietro ad Amsterdam, dove Timmerman possedeva un cantiere (tuttora esistente) dal quale, nel tempo, salparono circa 150 navi per la Russia.

217 Sull’originale Brant. L’olandese Carsten (Karšten) Brandt (?-1693), maestro falegname, lavorò alla costruzione della prima nave militare sul Volga, chiamata Orël (Aquila), che fu bruciata da Sten’ka Rasin. Brandt si rifugiò a Mosca dove conobbe il principe Timmerman, che nel 1688 lo chiamò per riparare la piccola imbarcazione inglese (detta “Botik”, diminutivo russo dell’inglese boat, barca, che misurava all’incirca 6x2 metri) trovata dallo zar. Brandt costruì altre navi e insegnò a Pietro i rudimenti pratici sia della costruzione delle navi che della lingua olandese.

218 Il ginevrino François Jacques Le Fort (in russo Franz Jakovlevič Lefort; 1655/56-1699) iniziò la carriera militare in Francia, poi andò in Olanda e in Russia, dove Fëdor III Alekseevič lo nominò capitano. Si distinse nelle guerre contro i Tatari (1676-1688) e da

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secoli a Ginevra, dove aveva ricoperto cariche principali. Il giovane Le Fort era stato destinato al commercio, l’unica cosa che abbia reso importante quella città, famosa in altri tempi soltanto per la controversia religiosa.

Il suo genio, che lo portava a più alte imprese, lo spinse ad abbandonare la casa paterna all’età di soli quattordici anni: di lì passò in Olanda, servì per qualche tempo come volontario e rimase ferito all’assedio di Grave sulla Mosa, città abbastanza forte che il principe di Orange, futuro re d’Inghilterra, ritolse a Luigi XIV nel 1764. Poi, cercando di farsi strada dovunque lo guidasse la speranza, si imbarcò nel 1675 con un colonnello tedesco di nome Forsten219 che aveva ottenuto dallo zar Alessio, padre di Pietro, l’incarico di arruolare un certo numero di soldati nei Paesi Bassi e di condurli al porto di Archangel’sk. Quando alfine giunsero a destinazione dopo aver affrontato tutte le insidie del mare, lo zar Alessio non era più, il governo era cambiato, la Russia era sconvolta e in preda al disordine; a lungo il governatore di Archangel’sk lasciò Forsten, Le Fort e tutta la truppa nella più completa indigenza e minacciò di relegarli nel fondo della Siberia: ognuno cercò scampo come poté. Le Fort, privo anche del necessario, si recò a Mosca e si presentò al residente di Danimarca, un certo de Horn, il quale lo assunse come suo segretario. Presso di lui Le Fort imparò il russo e dopo qualche tempo trovò il modo di essere presentato allo zar Pietro. Ivan, il maggiore, non faceva al caso suo; Pietro mostrò di apprezzarlo e cominciò con l’affidargli una compagnia di fanteria. Le Fort era quasi digiuno del servizio militare, non era un sapiente, non aveva approfondito nessuna delle arti, ma molto aveva visto e con la dote di saper vedere; aveva in comune con lo zar il fatto di dovere tutto al proprio genio; d’altra parte sapeva l’olandese e il tedesco, lingue che lo zar Pietro stava imparando come quelle di due nazioni che avrebbero potuto essere utili ai suoi piani. Tutto lo rendeva gradito a Pietro: divenne suo intimo. I piaceri furono l’occasione del suo favore, i suoi talenti lo consolidarono: egli fu il confidente del progetto più rischioso che uno zar potesse concepire, quello di mettersi in grado di cacciare un giorno senza alcun rischio la barbara e turbolenta milizia degli strel’cy. Il gran sultano o padisha Osman, per aver voluto riformare i giannizzeri aveva pagato con la sua vita220. Pietro, malgrado la giovane età, fu più accorto di Osman. Cominciò con il costituire, nella residenza di campagna di Preobraženskoe, una compagnia di cinquanta servitori scelti tra i più giovani. Alcuni figli di bojardi furono prescelti come ufficiali, ma, per insegnare a questi bojardi una disciplina che essi ignoravano, li fece passare attraverso tutti i gradi militari e dette lui stesso l’esempio prestando servizio nella compagnia dapprima come tamburino, poi come soldato semplice,

quel momento fu inseparabile collaboratore di Pietro, che nel tempo lo nominò generale e ammiraglio, seguendolo in tutte le guerre. Al suo nome è intitolato un quartiere di Mosca.

219 Sull’originale Verstin.220 Osman II (1604-1622) diventò sultano a quattordici anni dimostrandosi subito deciso e

coraggioso, oltreché essere molto colto. Al tempo del trattato di pace con la Confederazione Polacco-Lituana (1621) voluto dai giannizzeri, si accorse del loro strapotere e chiuse i loro ritrovi. I giannizzeri si rivoltarono e uccisero Osman.

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quindi come sergente e come luogotenente. Nulla era più insolito né più utile: i Russi avevano sempre fatto la guerra come noi la facevamo ai tempi dell’ordinamento feudale, allorché dei signori senza esperienza portavano all’assalto dei vassalli indisciplinati e armati alla meglio: metodo barbaro, che poteva andare contro eserciti dello stesso tipo, ma era insufficiente contro le truppe regolari.

Questa compagnia costituita personalmente da Pietro divenne ben presto numerosa e doveva poi diventare il reggimento delle guardie Preobraženskij. Un’altra compagnia costituita sull’esempio di quella diventò l’altro reggimento delle guardie Semënovski.

Già si poteva contare su un reggimento di 5.000 uomini costituito dal generale scozzese Gordon221 e composto quasi interamente di stranieri. Le Fort, che aveva portato le armi per poco tempo ma era abile in tutto, si addossò l’incarico di arruolare un reggimento di 12.000 uomini e vi riuscì; sotto di lui furono posti cinque colonnelli: si trovò improvvisamente a essere il generale di questa piccola armata costituita in realtà sia contro gli strel’cy che contro i nemici dello Stato.

Una cosa è importante notare222, per smentire l’errore temerario di quanti pretendono che la revoca dell’editto di Nantes e le sue conseguenze siano costate pochi uomini alla Francia223: questo esercito chiamato reggimento era composto per un terzo di fuorusciti francesi. Le Fort fece esercitare la sua nuova truppa come se non avesse mai fatto altro in vita sua.

Pietro volle vedere una di quelle immagini della guerra, una di quelle esercitazioni di cui incominciava ad affermarsi l’usanza anche in tempo di pace. Fu costruita una fortezza; una parte delle nuove truppe aveva il compito di difenderla e l’altra di attaccarla. La differenza fra questo e gli altri campi fu che, invece di dare l’illusione del combattimento224, fu dato un combattimento vero e proprio, nel corso del quale ci furono dei morti e molti feriti. Le Fort, che comandava l’assalto, riportò una ferita considerevole, Questi giochi cruenti avevano la funzione di agguerrire le truppe, eppure furono necessarie lunghe cure e perfino grossi rovesci per riuscirvi. Lo zar alternava questi ludi guerreschi alle cure che dedicava alla marina; come aveva fatto Le Fort generale di terraferma senza che avesse mai comandato, allo stesso modo lo fece ammiraglio senza che avesse mai condotto una nave, ma lo riteneva degno dell’una e dell’altra cosa. È anche

221 Patrick Leopold Gordon (1635-1699), generale e ammiraglio russo di origini scozzesi. Prestò servizio militare presso i Prussiani, poi nel 1661 si arruolò sotto lo zar Alessio I. Le sue imprese in Inghiterra e in Crimea, l’appoggio a Pietro contro Sof’ja e il suo successo ad Azov meritarono la fiducia incondizionata di Pietro che lo elesse suo sostituto a Mosca durante il suo primo viaggio all’estero.

222 Manoscritto del generale Le Fort. (Nota dell’Autore)223 L’editto di Nantes fu promulgato nel 1598 da Enrico IV di Francia per pacificare i rapporti

fra cattolici e ugonotti, garantendo a questi ultimi la libertà di culto ovunque tranne a Parigi e nelle residenze reali e dava loro in pegno un centinaio di piazzeforti. Fu revocato da Luigi XIV con l’editto di Fontainebleau (1685), che provocò l’espulsione di oltre 300.000 ugonotti.

224 Manoscritto del generale Le Fort. (Nota dell’Autore)

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vero che quell’ammiraglio non aveva una flotta, e che quel generale aveva per esercito il proprio reggimento.

Si venivano via via correggendo i grandi abusi della classe militare e l’insubordinazione dei bojardi, che portavano all’esercito i propri contadini: era proprio il sistema dei Franchi, degli Unni, dei Goti e dei Vandali, popoli che vinsero l’impero romano nella sua decadenza, ma sarebbero stati sterminati se avessero dovuto affrontare le antiche legioni romane ben disciplinate o eserciti come quelli dei nostri tempi.

Ben presto quello dell’ammiraglio Le Fort non fu più soltanto un vano titolo: egli fece costruire dagli Olandesi e dai Veneziani delle lunghe barche e finanche due navi con circa trenta pezzi di artiglieria, alla confluenza del Voronež e del Tanais: queste navi potevano ridiscendere il fiume e tenere a bada i Tatari di Crimea. Le ostilità con quei popoli si ripetevano ogni giorno. Nel 1689, lo zar poteva scegliere se far guerra alla Turchia, alla Svezia o alla Cina. Bisogna prima di tutto vedere quali erano i suoi rapporti con la Cina e quale fu il primo trattato di pace fatto dai Cinesi.

Capitolo VII

CONGRESSO E TRATTATO CON I CINESI225

Innanzitutto bisogna farsi un’idea di come erano i confini tra l’impero cinese e l’impero russo. Quando si esce dalla Siberia propriamente detta e ci si lascia alle spalle, verso sud, innumerevoli orde di Tatari, Calmucchi bianchi, Calmucchi neri, Mongoli maomettani, Mongoli detti idolatri, si avanza verso il 130° di longitudine e i 52° di latitudine, lungo il fiume Amour o Amur. A nord di questo fiume c’è una grande catena montuosa che si estende al di là del circolo polare fino al mar Glaciale. Questo fiume che scorre per cinquecento leghe nella Siberia e nella Tartaria cinese va a perdersi dopo infiniti meandri nel mar di Kamčatka. Dicono che nel punto dove sbocca in mare si peschi di tanto in tanto un pesce mostruoso che è molto più grosso dell’ippopotamo del Nilo e ha la mascella di un avorio più duro e più perfetto. Si vuole che quest’avorio fosse un tempo oggetto ai commercio, che fosse trasportato attraverso la Siberia e che questa sia la ragione per cui spesso nelle campagne se ne trovano ancora sepolti dei pezzi. È questo quell’avorio fossile di cui abbiamo già parlato226, ma si vuole

225 Tratto dalle relazioni inviate dalla Cina, da quelle di Pietroburgo e dalle lettere riportate nella storia della Cina compilata da du Halde. (Nota dell’Autore) – Il gesuita Jean-Baptiste Du Halde (o Duhalde; 1674-1743) era considerato, nel XVIII secolo, uno dei sinologi più preparati e influenti anche se non sapeva il cinese e non era mai stato in Cina. Scrisse Lettres édifiantes et curieuses, écrites des Missions étrangères, par quelques missionnaires de la Compagnie de Jésus (34 voll., 1711-1743) e Description géographique, historique, chronologique, politique et physique de l’empire de la Chine et de la Tartarie chinoise (1736), quest’ultima scritta sotto forma di enciclopedia basandosi su una trentina di opere già pubblicate.

226 Avorio di mammut e trichechi, cfr. capitolo I e nota 126.

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che anticamente in Siberia ci fossero gli elefanti e che i Tatari, vincitori degli Indiani, ne avessero portati in Siberia parecchi esemplari, le cui ossa si sarebbero conservate nella terra.

Questo fiume Amur è chiamato dai Tatari mancesi227 fiume Nero e dai Cinesi fiume del Dragone.

È228 in queste plaghe per tanto tempo inesplorate che la Cina e la Russia disputavano per i confini dei rispettivi imperi. La Russia possedeva alcune fortezze verso il fiume Amur, a trecento leghe dalla Grande Muraglia. Più volte tra i Russi e i Cinesi divamparono le ostilità a causa di queste fortezze. Finalmente i due Stati compresero meglio i propri interessi: l’imperatore K’hang-hsi preferì la pace e il commercio ad un’inutile guerra. Egli inviò sette ambasciatori a Nipchou, uno di quei fortini229. Questi ambasciatori portavano con sé circa diecimila uomini, compresa la scorta. Era il fasto asiatico; ma la cosa importante è che negli annali dell’impero non c’erano altri esempi di un’ambasceria presso altre potenze. Un altro fatto unico era il seguente: dalla fondazione dell’impero i Cinesi non avevano mai concluso un trattato di pace. Due volte sottomessi dai Tatari che li attaccarono e li vinsero, essi non avevano mai mosso guerra a nessun popolo a eccezione di poche orde presto soggiogate o abbandonate a se stesse senza alcun trattato. Così questa nazione, tanto celebre per la morale, ignorava quello che da noi si chiamava diritto delle genti, cioè qualche incerta regola della guerra e della pace, i privilegi dei ministri, le formule dei trattati e gli obblighi che ne conseguono, le dispute sulle questioni di precedenza o sul punto d’onore.

In che lingua, del resto, i Cinesi avrebbero potuto negoziare con i Russi nel mezzo dei deserti? Due gesuiti, uno portoghese chiamato Pereira, l’altro francese chiamato Gerbillon, partiti da Pechino con gli ambasciatori cinesi, appianarono per loro ogni nuova difficoltà e furono gli autentici mediatori. Essi trattarono in latino con un tedesco dell’ambasceria russa che conosceva quella lingua. A capo dell’ambasceria russa era Golovin, governatore della Siberia230: questi ostentò una pompa ancora più grande di quella dei Cinesi e con questo sistema dette un’alta opinione del suo impero a coloro che si erano creduti i soli potenti della Terra. I due gesuiti fissarono il confine dei due regni: esso fu posto sul fiume Kerbechi, vicino alla località dove si svolgevano i negoziati. La parte meridionale restò ai Cinesi, quella settentrionale ai Russi231. Questi ultimi non persero che una piccola fortezza

227 Coloro che parlavano il manciù, ossia della Mongolia.228 Relazioni dei gesuiti Pereira e Gerbillon. (Nota dell’Autore) – I gesuiti Tomas Pereira,

portoghese, e Jean-François Gerbillon, francese, erano missionari in Cina e furono gli interpreti ai negoziati tra Cina e Russia nel 1689.

229 Nipchou era il nome latino dato alla città di Nerčinsk, dove fu firmato il trattato tra Russia e Cina nel 1689.

230 Fëdor Alekseevič Golovin (1650-1706) fu ministro degli Affari esteri e primo cancelliere della Russia imperiale. Fu incaricato dalla reggente Sof’ja di difendere la fortezza di Albazin, sul fiume Amur, che fu persa col trattato di Nerčinsk (1689). In seguito fu uno stretto collaboratore di Pietro I.

231 I confini furono definiti dagli affluenti dell’Amur presso le sue sorgenti (Argun, Šilka,

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che risultò costruita al di là del confine: fu giurata una pace eterna, e dopo qualche contestazione i Russi e i Cinesi la giurarono232 in nome dello stesso Dio, nei seguenti termini: «Se qualcuno avrà mai il segreto pensiero di riaccendere il fuoco della guerra, noi preghiamo il Signore sovrano di tutte le cose, che conosce i cuori, di punire i traditori con morte improvvisa».

Questa formula, comune ai Cinesi e ai cristiani, può rivelare due cose importanti: primo, che il governo cinese non è né ateo né idolatra come è stato spesso accusato con accuse contraddittorie; secondo che tutti i popoli che ossequiano la ragione riconoscono in realtà lo stesso Dio, nonostante tutte le aberrazioni di quella stessa ragione quando è mal guidata. Il trattato fu redatto in latino e in due esemplari233. Gli ambasciatori russi firmarono per primi la copia che rimaneva loro; anche i Cinesi firmarono la loro per primi, secondo l’usanza delle nazioni europee quando trattano da corona a corona. Fu rispettata anche un’altra usanza delle nazioni asiatiche e delle prime epoche del mondo conosciuto; il trattato fu inciso su due grossi massi che furono collocati in modo da servire come pietre di confine ai due imperi234. Tre anni dopo lo zar inviò il danese Ilbrand Ide235 e il commercio così creatosi sopravvisse vantaggiosamente fino alla rottura tra Russia e Cina del 1722; ma dopo tale interruzione è ripreso con rinnovato slancio.

Capitolo VIII

SPEDIZIONE VERSO LA PALUDE MEOTIDE. CONQUISTA DI AZOV.LO ZAR INVIA ALCUNI GIOVANI A ISTRUIRSI ALL’ESTERO

Non fu altrettanto facile fare la pace con i Turchi, anzi pareva giunto il momento d’innalzarsi sulle loro rovine. Venezia, già fiaccata da loro, cominciava a risollevarsi. Quello stesso Morosini236 che aveva restituito Candia ai Turchi, toglieva loro il Peloponneso e meritava con quella conquista il nome di Peloponnesiaco, onorificenza che ricordava i tempi di Roma repubblicana. L’imperatore di Germania Leopoldo riportava qualche successo contro l’impero turco in Ungheria, e i Polacchi riuscivano se non altro a rintuzzare le scorrerie dei Tatari di Crimea.

Pietro approfittò di queste circostanze per rendere più agguerrite le sue truppe e per ottenere, se possibile, la sovranità sul mar Nero. Il generale Gordon discese il corso del Tanais alla volta di Azov col suo grande

Cherlen ecc.).232 8 settembre 1689 (nuovo calendario). Relazione dalla Cina. (Nota dell’Autore)233 La lingua principale fu il latino, ma il trattato fu redatto in cinque lingue: latino, russo,

mancese, cinese, mongolo. Storici moderni hanno evidenziato che il trattato poteva essere dichiarato nullo in quanto le copie non avevano testo uguale.

234 Questi totem non furono eretti.235 Evert Ysbrandts Ides (1658-1705?), di origini danesi, fu inviato come ambasciatore in

Cina: partì in slitta da Mosca il 14 marzo 1692 e arrivò in Cina il Primo gennaio 1695. In vita pubblicò una nuova carta dell’impero russo; postumi uscirono due libri sul viaggio.

236 Francesco Morosini (1619-1694) conquistò il Peloponneso nel 1683-1688.

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reggimento di 5.000 uomini. Il generale Le Fort con il suo di 12.000, un corpo di strel’cy agli ordini di Šeremetev e Šein237, che era di origine prussiana, un corpo di cosacchi, una nutrita artiglieria, tutto fu predisposto per quella spedizione238.

All’inizio dell’estate 1695, questo grande esercito avanza agli ordini del maresciallo Šeremetev alla volta di Azov, alla foce del Tanais e alla estremità della Palude Meotide, l’odierno mare di Sivah239. Lo zar era nell’esercito, ma in qualità di volontario poiché prima di comandare voleva fare un lungo tirocinio. Durante la marcia furono prese d’assalto due torri costruite dai Turchi sulle due sponde del fiume.

L’impresa era difficile e la postazione, abbastanza ben fortificata, era difesa da una numerosa guarnigione. Delle imbarcazioni allungate costruite dai Veneziani, simili ai caicchi turchi, e due piccole navi da guerra olandesi provenienti dal Voronež non furono pronte in tempo e non riuscirono ad entrare nel mar d’Azov. Ogni inizio presenta sempre qualche ostacolo. I Russi non avevano ancora mai fatto un assedio regolare. Nei primi tempi il tentativo non ebbe esito felice.

Un certo Jacob, nativo di Danzica, manovrava l’artiglieria agli ordini del generale Šein; infatti i più importanti artiglieri, ingegneri e piloti erano tutti stranieri. Questo Jacob fu condannato al supplizio delle verghe dal suo generale, il prussiano Šein. A quel tempo si credeva che questo rigore rafforzasse la disciplina. I Russi vi si assoggettavano, malgrado la loro tendenza alle sedizioni, e dopo quelle punizioni servivano come al solito. Il cittadino di Danzica la pensava diversamente e volle vendicarsi: inchiodò il cannone240, si rifugiò ad Azov, abbracciò la religione musulmana e difese validamente la piazzaforte. Quest’esempio dimostra che l’umanità adottata oggi in Russia è preferibile all’antica crudeltà, e tiene meglio legati al dovere uomini cui un’educazione indovinata ha inculcato il senso dell’onore. A quei tempi con il popolino era necessario il massimo rigore, ma da quando i costumi sono cambiati, l’imperatrice Elisabetta ha compiuto con la clemenza l’opera cominciata dal padre con le leggi. Anzi quest’indulgenza è stata spinta a un punto mai raggiunto nella storia di tutti gli altri popoli. Ella promise che nessuno, durante il suo regno, sarebbe stato condannato alla pena capitale e ha mantenuto la promessa. È la prima sovrana ad aver rispettato così la vita degli uomini. I malfattori sono stati condannati ai

237 Per Šeremetev (che Voltaire scrive Sheremeto con nota: «Sheremetow, o Sheremetof, o secondo un’altra ortografia Czcremetoff») cfr. nota 33. Aleksej Semënovič Šein (sull’originale Shein; 1662-1700), nominato bojaro dalla reggente Sof’ja, partecipò come comandante a tutte le campagne militari dal 1680 (Tobol’sk, Kursk, Crimea, Azov, ancora Crimea) e partecipò a spegnere la rivolta degli strel’cy del 1698. Pietro lo nominò generalissimo, ma perse ogni titolo per non aver ammesso i legami degli strel’cy con Sof’ja.

238 Nel 1694. (Nota dell’Autore)239 Più propriamente la Palude Meotide era il mar d’Azov, mentre il mare di Sivah, o Putrido,

era il nome dato alla sua laguna sabbiosa posta a occidente.240 “Inchiodare il cannone” significa rendere inutilizzabile l’artiglieria danneggiandone o

asportandone un pezzo. Anticamente bastava conficcare un chiodo nel focone.

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lavori nelle miniere e nelle opere pubbliche, e la loro punizione è diventata utile allo Stato, istituzione tanto saggia quanto umana. In tutti gli altri Paesi i criminali si sanno soltanto uccidere con grande messinscena, senza che questo abbia mai impedito i delitti. Forse il timore della morte fa poca impressione ai malvagi, che in maggioranza sono fannulloni, in confronto al timore di una punizione e di un lavoro faticoso che si rinnovano tutti i giorni.

Per tornare all’assedio di Azov, difesa ormai dallo stesso uomo che aveva diretto gli assalti, fu tentato invano un attacco e dopo gravi perdite si fu costretti a levare l’assedio.

La costanza in ogni cosa costituiva il centro del carattere di Pietro. Nella primavera del 1696 condusse davanti ad Azov un’esercito ancor più considerevole. Lo zar Ivan, suo fratello, era morto da poco. Anche se l’autorità di Pietro non era mai stata intralciata da Ivan, che di zar aveva soltanto il nome, tuttavia lo era stata almeno in parte dalla necessità di salvare le apparenze. Le spese della corte di Ivan, dopo la sua morte, confluivano nel mantenimento dell’esercito: ciò rappresentava un aiuto per un Stato che a quel tempo non disponeva delle imponenti entrate di oggi. Pietro scrisse all’imperatore Leopoldo, agli Stati generali e all’elettore di Brandeburgo, perché gli fornissero ingegneri, artiglieri e marinai. Assoldò bande di Calmucchi, la cui cavalleria è molto utile contro quella dei Tatari di Crimea.

Il successo più lusinghiero per lo zar fu quello della sua piccola flotta, finalmente completa e ben guidata241. Essa sconfisse i caicchi turchi mandati da Costantinopoli e ne catturò alcuni. L’assedio fu condotto regolarmente per trincee, ma con metodi non proprio simili ai nostri: le trincee erano tre volte più profonde e avevano come parapetti degli spalti elevati. Finalmente gli assediati capitolarono il 28 luglio (nuovo calendario)242 senza gli onori militari e senza prendere con sé armi né munizioni: furono inoltre costretti a consegnare agli assedianti il disertore Jacob.

Fortificando Azov, cingendola di fortezze, scavando un porto capace di accogliere le navi più grandi, lo zar volle anzitutto rendersi padrone dello stretto di Caffa, ossia di quel Bosforo Cimmerio che apre l’ingresso al Ponto Eusino243, luogo celebre in passato per le apparecchiature belliche di Mitridate. Egli lasciò davanti ad Azov244 trentadue caicchi armati e fece tutti i preparativi per allestire, a danno dei Turchi, una flotta composta di nove vascelli che portavano da trenta a cinquanta pezzi di artiglieria. Egli pretese che i principali nobili e i più ricchi mercanti contribuissero agli armamenti; inoltre, ritenendo che i beni del clero dovessero servire alla causa comune, costrinse il patriarca, i vescovi e gli archimandriti a sostenerlo col loro denaro in questo nuovo sforzo che faceva per l’onore della patria e per il

241 La storia dice che Pietro usò 29 galee e 13.000 chiatte (alcune trasportate via terra da Archangel’sk) per chiudere la foce del Don e per combattere.

242 Nel 1696. (Nota dell’Autore)243 Bosforo Cimmerio era il nome dato allo stretto di Kerč che separa il mar Nero (o Ponto

Eusino) dal mare d’Azov (Palude Meotide).244 Relazione di Le Fort. (Nota dell’Autore)

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bene della cristianità. Fece costruire dai Cosacchi quelle imbarcazioni leggere alle quali sono avvezzi e che possono costeggiare senza difficoltà la Crimea. La Turchia avrebbe dovuto allarmarsi di tanti preparativi bellici, i primi mai intrapresi sulla Palude Meotide. Il progetto era di scacciare definitivamente i Tatari e i Turchi dalla Crimea e in seguito di stabilire un commercio attivo, agevole e libero con la Persia attraverso la Georgia. È lo stesso commercio che anticamente i Greci avevano svolto nella Colchide e in quel Chersoneso taurico che lo zar sembrava destinato ad assoggettare.

Vincitore dei Turchi e dei Tatari, egli volle che il suo popolo si abituasse alla gloria come era avvezzo alle fatiche. Fece entrare l’esercito in Mosca sotto arcate trionfali, in mezzo ai fuochi d’artificio e a tutto quello che poteva rendere più splendidi i festeggiamenti. Per primi venivano i soldati che avevano combattuto i Turchi sui caicchi veneziani e che formavano una milizia a parte. In questa cerimonia il maresciallo Šeremetev, i generali Gordon e Šein, l’ammiraglio Le Fort e gli altri ufficiali precedevano il sovrano, il quale affermava di non ricoprire ancora una carica importante nell’esercito e con questo esempio voleva far capire ai nobili che per godere i gradi militari bisogna meritarli.

Questo trionfo sembrava derivare per qualche verso da quelli dei Romani antichi, e li ricordava soprattutto in questo: a Roma, i trionfatori esponevano i vinti allo sguardo del popolo e talvolta li mandavano a morte; anche i prigionieri presi in questa spedizione seguivano l’esercito, e quel tale Jacob che aveva tradito era portato su un carro dove era stata drizzata una forca, alla quale poi fu appeso dopo aver subito il supplizio della ruota.

In quell’occasione fu coniata in Russia la prima medaglia. È notevole la dicitura russa: «Pietro I, imperatore di Moscovia, sempre augusto». Sul rovescio è rappresentata Azov con queste parole: «Vincitore per le fiamme e le acque».

Ciò che affliggeva Pietro, pure nel trionfo, era il fatto di vedere le sue navi e le sue galere del mar d’Azov costruite unicamente da mano straniera. Inoltre desiderava un porto sul mar Baltico quanto quello sul Ponto Eusino.

Nel marzo 1697 inviò in Italia sessanta giovani russi del reggimento di Le Fort; la maggioranza andò a Venezia, alcuni a Livorno, per apprendere l’arte della marina e la costruzione delle galere: altri quaranta245 ne fece partire alla volta dell’Olanda perché s’impratichissero nella costruzione e nella manovra delle grandi navi; altri ancora furono inviati in Germania perché prestassero servizio nelle truppe di terra e si assuefacessero alla disciplina tedesca. Da ultimo decise di lasciare per qualche anno la sua patria per imparare a governarla meglio. Non poteva resistere all’ardente desiderio di istruirsi con i suoi propri occhi e perfino con le sue stesse mani nelle arti marinare e in tutte quelle che voleva trapiantare in patria. Si riprometteva di viaggiare in incognito in Danimarca, nel Brandeburgo, in Olanda, a Venezia e a Roma. Solo la Francia e la Spagna non entravano nei suoi piani, la Spagna perché quelle arti che cercava vi erano allora neglette, la Francia

245 Manoscritti del generale Le Fort. (Nota dell’Autore)

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perché vi regnavano forse con troppo fasto, e l’alterigia di Luigi XIV che aveva urtato tante potenze mal si addiceva alla semplicità con cui egli intendeva fare questi viaggi. Per di più era già in rapporto con quasi tutte le potenze presso le quali doveva recarsi ad eccezione della Francia e di Roma. Ricordava ancora con un certo disappunto la poca considerazione mostrata da Luigi XIV per l’ambasceria del 1687, che aveva riportato più celebrità che successo, e per finire, inclinava già dalla parte di Augusto, elettore di Sassonia246, al quale il principe di Conti contendeva la corona di Polonia247.

Capitolo IX

VIAGGI DI PIETRO IL GRANDE

Presa la decisione di visitare tanti Stati e tante corti da semplice privato, si mise egli stesso al seguito di tre ambasciatori, come si era messo248 al seguito dei generali nel suo ingresso trionfale in Mosca.

249I tre ambasciatori erano: il generale Le Fort, il bojardo Alessio Golovin, commissario generale della guerra e governatore della Siberia, quello stesso che aveva firmato il trattato di pace perpetua con i plenipotenziari della Cina sulle frontiere di quell’impero, e Voznicyn, diak o segretario di Stato che era stato a lungo impiegato presso le corti straniere250. Quattro primi segretari, dodici gentiluomini e due paggi per ogni ambasciatore, una compagnia di cinquanta guardie con i rispettivi ufficiali, tutti del reggimento Preobraženskij, componevano il grosso del seguito di quest’ambasceria: in tutto duecento persone, e lo zar, riservando per il proprio servizio personale solo un valletto, un domestico e un nano, si confondeva nella folla. Era una cosa inaudita nella storia del mondo che un sovrano di venticinque anni abbandonasse il proprio regno per meglio governarlo. La vittoria sui Tatari e sui Turchi, il lustro dell’entrata trionfale a Mosca, le numerose truppe straniere che lo servivano fedelmente, la morte di suo fratello Ivan, la clausura della principessa Sof’ja e più ancora il rispetto universale di cui godeva la sua persona dovevano garantirgli la tranquillità dello Stato

246 Augusto elettore di Sassonia (1670-1733) soprannominato il Forte, fu eletto re di Polonia nel 1696. Partecipò a fianco della Russia e della Danimarca alla guerra nordica, fu sconfitto da Carlo XII e deposto a favore di Stanislao Leszczyński.

247 A Francesco Luigi di Borbone-Conti (1664-1709), distintosi per le imprese militari, il re di Francia Luigi XIV offrì, nel 1697, il trono di Polonia, vacante da un anno per la morte di Giovanni Sobieski (cfr. nota 181), assicurandogli l’elezione. Tuttavia, quando il principe di Conti arrivò in Polonia si era già insediato Augusto il Forte ed egli ritornò a Parigi. Nel capitolo IX Voltaire lo chiama “Armando”, ma è un errore: Armando era il padre di Francesco Luigi e morì di vaiolo nel 1666.

248 Nel 1697. (Nota dell’Autore)249 Relazioni di Pietroburgo e di Le Fort. (Nota dell’Autore)250 Sull’originale Vonitsin. Di Prokopij Bogdanovič Voznicyn si sa soltanto che partecipò alla

Grande Ambasciata del 1697-1698 (qui raccontata da Voltaire) e al trattato di pace del 1698-1699 tra Turchia e Russia.

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durante la sua assenza. Affidò la reggenza al bojardo Strešnev251 e allo knez Romodanovskij252 i quali negli affari importanti avrebbero dovuto deliberare insieme ad altri bojardi.

Le truppe raccolte dal generale Gordon rimasero a Mosca per garantire la tranquillità della capitale. Gli strel’cy, che avrebbero potuto turbarla, furono distribuiti sulle frontiere della Crimea per mantenere il possesso di Azov e rintuzzare le incursioni dei Tatari. Avendo in tal modo provveduto a tutto253, si abbandonò alla sua passione per i viaggi e per l’istruzione.

Poiché questo viaggio fornì l’occasione o il pretesto alla sanguinosa guerra che ostacolò per tanto tempo tutti i grandi progetti dello zar e finì per assecondarli, a quella guerra che sbalzò dal trono Augusto re di Polonia, che dette la corona a Stanislao e gliela ritolse, a quella stessa guerra che per nove anni fece di Carlo XII di Svezia il più grande dei conquistatori e per altri nove il più miserabile dei re, a questo punto è necessario, per meglio addentrarci nei particolari degli avvenimenti, fare un quadro della situazione europea del tempo.

In Turchia regnava il sultano Mustafà II254. La sua fiacca amministrazione non tentava grandi sforzi né contro Leopoldo255, imperatore di Germania, i cui eserciti avevano riportato dei successi in Ungheria, né contro lo zar che da poco gli aveva tolto Azov e minacciava il Ponto Eusino, né tanto meno contro Venezia che si era finalmente impadronita di tutto il Peloponneso.

Giovanni Sobieski, re di Polonia, che avrà gloria imperitura per la vittoria di Chotin e per la liberazione di Vienna, era morto il 17 giugno 1696; la sua corona era contesa tra Augusto, elettore di Sassonia, che la ottenne, e Armando, principe di Conti, al quale toccò soltanto l’onore di essere eletto.

La Svezia aveva perso Carlo XI256, ma lo rimpiangeva ben poco. Carlo XI era stato il primo sovrano veramente assoluto di quel Paese e il padre di un re che lo fu ancor di più e col quale il dispotismo si esaurì. Egli lasciava sul trono un figlio quindicenne, Carlo XII. Apparentemente la congiuntura era

251 Sull’originale Strechnev. Tichon Nikotič Strešnev (1644-1719) statista e confidente di Pietro I di cui fu insegnante. Nel 1709 fu nominato governatore di Mosca e due anni dopo senatore e fu tra quelli che firmarono la condanna a morte dello zarevič Alessio.

252 Sull’originale Romadonoski. Il knez (o knjaz’, principe) Fëdor Jur’evič Romodanovskij (1640-1717), figlio illegittimo di Alessio I, fu uno statista che lo zar chiamava “principe cesare” o “principe sovrano” per la capacità dimostrate. Con Gordon, sostituì Pietro nelle operazioni militari durante la Grande Ambasciata e poi nelle campagne di Azov.

253 Sembra che nello stesso periodo avesse sventato una ribellione e mandato a morte per squartamento i cospiratori.

254 Mustafa II (1664-1703) salì al trono nel 1695 e fu deposto nel 1703 da una sollevazione militare.

255 Leopoldo I d’Austria (1640-1705), imperatore del Sacro Romano Impero dal 1658, re d’Ungheria dal 1655 e di Boemia dal 1656. Conclusa nel 1664 la prima guerra contro i Turchi con una pace poco favorevole, reagì energicamente al malcontento delle nobiltà ungheresi e croate. Respinse un nuovo attacco dei Turchi nel 1683, espandendo i domini austriaci verso est, mentre verso ovest contrastò l’espansionismo di Luigi XIV di Francia.

256 Nell’aprile 1697. (Nota dell’Autore) – Carlo XI (1655-1697), re di Svezia dal 1660 (ma di fatto al compimento della maggiore età), introdusse la monarchia assoluta sul modello francese, riorganizzò l’esercito e promulgò un nuovo codice di leggi.

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propizia ai progetti dallo zar; egli poteva ingrandirsi sul golfo di Finlandia e verso la Livonia. Non gli bastava minacciare i Turchi sul mar Nero; le basi sulla Palude Meotide e verso il mar Caspio erano inadeguate ai suoi piani di marina, di commercio e di potenza; la gloria stessa, cui aspirava ardentemente ogni riformatore, non si trovava né in Persia né in Turchia, ma nella nostra parte dell’Europa, dove si consacrano i grandi talenti in tutti i campi. Per finire, Pietro non voleva introdurre nel suo Stato né i costumi persiani né tanto meno quelli turchi, ma i nostri.

La Germania, che era in guerra contemporaneamente con la Turchia e con la Francia avendo per alleata la Spagna, l’Inghilterra e l’Olanda contro il solo Luigi XIV, era pronta a concludere la pace e i plenipotenziari erano già riuniti nel castello di Ryswick, nei pressi dell’Aia257.

Tale era la situazione quando Pietro e la sua ambasceria, nell’aprile 1697, si misero in viaggio alla volta della grande Novgorod. Di lì attraversarono l’Estonia e la Livonia, province un tempo contese tra Russi, Svedesi e Polacchi e finalmente acquistate dalla Svezia con la forza delle armi.

La fertilità della Livonia e la posizione di Riga, sua capitale, avrebbero potuto far gola allo zar: lo colse, se non altro, la curiosità di visitare le fortificazioni delle cittadelle. Il conte di Dahlberg, governatore di Riga258, se ne adombrò, gli rifiutò questa soddisfazione e parve mostrare pochi riguardi per l’ambasceria259. Questa condotta non contribuì certo a raffreddare nel cuore dello zar le sue eventuali mire di venire un giorno in possesso di quelle provincie.

Dalla Livonia passarono nella Prussia brandeburghese, che in parte è stata abitata dagli antichi Vandali; la Prussia polacca era stata inclusa nella Sarmazia europea. La Prussia brandeburghese era un Paese povero, ma il suo elettore, che assunse in seguito il titolo di re, ostentava una magnificenza insolita e disastrosa. Egli si piccò di ricevere l’ambasceria nella sua città di Königsberg con sfarzo regale. Ci si scambiò da una parte e dall’altra i doni più magnifici. Il contrasto tra l’abbigliamento francese sfoggiato dalla corte di Berlino e le lunghe vesti asiatiche dei Russi, con i copricapi ricamati di perle e pietre preziose e le scimitarre che pendevano dalle cinture, produceva un curioso effetto. Lo zar era vestito alla tedesca. Un principe originario della Georgia che era con lui, vestito alla moda persiana, ostentava un’altra sorta di magnificenza: si tratta di quello stesso principe che fu preso prigioniero alla giornata di Narva e morì in Svezia260.

Pietro disdegnava tutto quel fasto: ci sarebbe stato da augurarsi che avesse disdegnato in egual misura i piaceri della tavola, nei quali la

257 Il trattato di Ryswick fu firmato nel settembre-ottobre 1697 e concluse la guerra fra la Francia e la Lega di Augusta. Vi parteciparono i rappresentanti di Francia, Impero, Olanda, Spagna, Inghilterra, Svezia, Ducato di Savoia, e dei principali Stati tedeschi.

258 Lo svedese Erik Jönsson conte di Dahlberg (1625-1703) era governatore di Riga dal 1696, ma la sua fama era legata alla costruzione di fortezze, su cui scrisse vari volumi.

259 Si racconta che lo zar, temendo per la vita, salì su una barca per raggiungere la Curlandia, a rischio di venire investito dai banchi di ghiaccio che galleggiavano sulla Dvina.

260 Alessandro di Imereti, cfr. cap. XI della Parte prima.

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Germania del tempo riponeva tutta la sua gloria261. Fu durante uno di questi banchetti troppo in voga allora, altrettanto dannosi alla salute che ai costumi, che egli sguainò la spada contro il suo favorito Le Fort, ma poi mostrò per questo trasporto di collera passeggera un rimpianto pari a quello manifestato da Alessandro per l’uccisione di Clito262. Chiese perdono a Le Fort, dicendo che voleva riformare la sua nazione e non era ancora riuscito a riformare se stesso. Il generale Le Fort, nel suo manoscritto, loda l’indole profonda dello zar ancor più di quanto non deplori quell’eccesso di collera.

L’ambasceria passa per la Pomerania e per Berlino; una parte prende la via di Magdeburgo e un’altra quella di Amburgo, città già potente grazie all’imponente commercio ma non ancora opulenta e accogliente come doveva diventare in seguito. Questa piega verso Minden, percorre la Vestfalia e finalmente, passando per Clèves, giunge ad Amsterdam.

Lo zar entrò in città quindici giorni prima dell’ambasceria; dapprima prese alloggio nel palazzo della Compagnia delle Indie, ma dopo poco si scelse un piccolo alloggio nei cantieri dell’ammiragliato. Indossò l’abito dei piloti e in quei panni si recò al villaggio di Zaandam263, dove si costruivano molte più navi di quanto non si faccia oggigiorno. Questo villaggio è altrettanto grande, popoloso e ricco di molte fiorenti città, ma è più lindo. Lo zar rimase ammirato davanti all’ordine, alla precisione dei lavori, alla prodigiosa celerità con cui si costruiva un vascello e lo si muniva di tutte le attrezzature, davanti all’incredibile quantità di magazzini e di macchinari che rendono il lavoro più facile e sicuro. Lo zar cominciò con l’acquistare una barca alla quale fece con le sue mani un albero snodato; successivamente lavorò a tutte le fasi della costruzione di una nave, conducendo la vita degli artigiani di Zaandam, vestendosi e nutrendosi come loro, lavorando nelle fucine, nelle fabbriche di cordami e nei mulini che circondano in numero incredibile il villaggio, nei quali si segano l’abete e la quercia, si estrae l’olio, si fabbrica la carta e si trafilano i metalli duttili. Si fece iscrivere tra i carpentieri col nome di Pietro Michajlov. Tutti lo chiamavano mastro Pietro (Peterbas) e gli operai, in un primo momento perplessi di aver come compagno di lavoro un sovrano, si abituarono a trattarlo con familiarità.

Mentre maneggiava l’ascia e il compasso a Zaandam, gli fu confermata la notizia della scissione della Polonia e della duplice elezione dell’elettore Augusto e del principe di Conti. Subito il carpentiere di Zaandam promise mille uomini al re Augusto. Dalla sua officina egli impartiva ordini all’esercito di Ucraina riunito contro i Turchi.

Le sue truppe agli ordini del generale Šein e del principe Dolgorukij

261 Relazioni manoscritte di Le Fort. (Nota dell’Autore)262 Clito detto il Nero (IV secolo a.C.) era un ufficiale macedone che salvò la vita ad

Alessandro Magno e fu da questi ucciso durante un alterco. In una lettera a Šuvalov, Voltaire scrisse che non avrebbe taciuto questo atto barbaro, ma nella frase successiva ne attenuò i contorni.

263 Sull’originale Sardam. Sardam (o Czardam) era il nome dato alla fortezza di Zaandam in onore di Pietro I.

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avevano riportato, nei pressi di Azov, un successo sui Tatari264 e persino su un corpo di giannizzeri che il sultano Mustafa aveva mandato loro incontro265. Quanto allo zar, perseverava nell’istruirsi in varie arti e faceva la spola tra Zaandam e Amsterdam per far pratica presso il celebre studioso di antica anatomia Ruysch266; egli eseguiva delle operazioni chirurgiche che, in caso di bisogno, potevano renderlo utile ai suoi ufficiali e a se stesso. Apprendeva la fisica naturale presso il borgomastro Witsen267, cittadino esemplare quant’altri mai per il suo patriottismo e per l’uso che fece delle sue immense ricchezze, che prodigava da vero cittadino del mondo, inviando a sue spese degli uomini abili a cercare quanto vi era di più raro in ogni parte del mondo e noleggiando navi a sue spese per scoprire nuove terre.

Peterbas sospese i suoi lavori solo per recarsi a Utrecht e all’Aia a incontrare in forma privata Guglielmo, re d’Inghilterra e statholder delle Province Unite268. Solo il generale Le Fort assistette all’incontro tra i due monarchi. In seguito Pietro presenziò alla cerimonia dell’ingresso dei suoi ambasciatori e all’udienza: a nome suo, offrirono ai deputati delle varie nazioni seicento martore zibelline scelte; le nazioni da parte loro, oltre al dono consueto fatto a ognuno di una catena e di una medaglia d’oro, donarono tre magnifiche carrozze269. Essi ricevettero per primi la visita di tutti gli ambasciatori plenipotenziari presenti al congresso di Ryswick, tranne quella dei Francesi, ai quali non avevano notificato il proprio arrivo non soltanto perché lo zar si era schierato dalla parte del re Augusto contro il principe di Conti, ma anche perché il re Guglielmo, di cui egli coltivava l’amicizia, non voleva la pace con la Francia.

Di ritorno ad Amsterdam, Pietro riprese le primitive occupazioni e finì con le sue mani un vascello da sessanta cannoni che aveva cominciato e che fece partire per Archangel’sk, visto che non possedeva allora altri porti sui mari dell’Oceano. Non solo faceva assumere al suo servizio dei fuorusciti francesi, degli svizzeri, dei prussiani, ma inviava a Mosca artigiani di ogni tipo e faceva partire solo quelli che aveva visti all’opera e con i propri occhi.

264 Nel luglio 1696. (Nota dell’Autore)265 Nell’agosto 1697.266 Frederik Ruysch (1638-1731) incontrò Pietro I nel 1697, gli dette lezioni di botanica e di

anatomia umana e, nel 1717, durante la seconda visita di Pietro, gli vendette l’intero suo archivio di preparati anatomici per 30.000 fiorini, che, caricato su due navi, raggiunse Pietroburgo l’anno successivo. La fama di Ruysch, oltre che ai cataloghi botanici e anatomici, è dovuta alla sua tecnica di imbalsamazione, per la quale usava un liquido a base di alcol iniettato nelle arterie.

267 Sull’originale Visten. Nicolaas Witsen (1641-1717) fu borgomastro di Amsterdam dal 1682 al 1706, cartografo, fisico ed esperto di ingegneria navale. Era anche amministratore della Compagnia Olandese delle Indie Orientali e facilitò l’esperienza dello zar. Scrisse libri sulle navi olandesi del XVII secolo e il libro sulla Russia Noord en Oost Tartarye.

268 Guglielmo III d’Orange (1650-1702) fu nominato statolder (luogotenente) d’Olanda nel 1672 e fu incoronato re d’Inghilterra, d’Irlanda e di Scozia nel 1689 assieme a Maria II Stuart che aveva sposato nel 1677. Concesse la libertà religiosa a tutti i protestanti.

269 Lo scopo di Pietro era di ottenere sessanta vascelli e cento galere per combattere gli Ottomani, ma gli vennero rifiutati.

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Poche sono le arti e i mestieri che non giunse a possedere fin nelle minime sfumature: soprattutto si dilettava a correggere le carte dei geografi i quali, a quel tempo, segnavano a casaccio la posizione dei fiumi e delle città del suo Stato che non era molto conosciuto. Si è conservata la carta sulla quale egli tracciò la comunicazione tra il mar Caspio e il mar Nero, che già aveva progettato e di cui aveva affidato l’esecuzione a un ingegnere prussiano di nome Brakel. L’unione di quei due mari presentava minori difficoltà di quella tra l’Oceano e il Mediterraneo attuata in Francia, ma l’idea di unire il mar d’Azov e il mar Caspio a quel tempo sgomentava l’immaginazione. Dotare il suo Paese di nuove istituzioni gli pareva tanto più opportuno quanto più i suoi successi giustificavano nuove speranze.

Le sue truppe riportarono una vittoria contro i Tatari nelle immediate vicinanze di Azov270 e qualche mese dopo prendevano anche la città di Or o Orkapi, che noi chiamiamo Perekop271. Questo successo gli valse una maggior considerazione da parte di quanti biasimavano un sovrano che aveva lasciato il suo Stato per esercitare vari mestieri ad Amsterdam. Essi poterono constatare che gli affari del monarca non risentivano negativamente dei lavori del filosofo viaggiatore e artigiano.

Ad Amsterdam egli continuò a esercitare le consuete occupazioni di costruttore di navi, di ingegnere, di geografo e di fisico pratico fino alla metà del gennaio del 1698, quindi partì per l’Inghilterra sempre al seguito della sua ambasceria.

Il re Guglielmo gli mandò incontro il proprio yacht e due navi da guerra. Il suo modo di vivere fu lo stesso che si era imposto ad Amsterdam e a Zaandam. Egli prese alloggio nei pressi del grande cantiere di Deptford272 e non pensò ad altro che a imparare. I costruttori olandesi gli avevano insegnato solo il metodo e la pratica, in Inghilterra imparò a conoscere più a fondo l’arte: in quel Paese infatti le navi si costruivano secondo proporzioni matematiche. Egli si perfezionò in questa scienza e ben presto fu in grado di darne lezioni. Lavorò secondo il metodo inglese a costruire una nave che risultò uno dei migliori velieri del mare. La sua attenzione fu attratta dall’arte dell’orologiaio, che a Londra era già molto perfezionata: giunse a possederne alla perfezione tutta la teoria. Il capitano e ingegnere Perry, che lo seguì da Londra in Russia, dice che non c’è un solo mestiere, dalla fonditura dei cannoni fino alla filatura delle corde, che lo zar non abbia attentamente osservato e al quale non abbia posto mano ogni volta che si trovava in un cantiere.

Per coltivare la sua amicizia, parve opportuno che assumesse degli operai come aveva fatto in Olanda; oltre agli artigiani, egli ebbe qualcosa che non era facile trovare ad Amsterdam: dei matematici. Lo scozzese Fergusson273,

270 11 agosto 1697. (Nota dell’Autore)271 Città della Crimea. Perekop ha, in slavo, lo stesso significato del tataro “O Qapi”, ossia

passaggio scavato, trincea.272 Località presso Londra sulla sponda sud del Tamigi.273 Si tratta di Henry Fargwarson (?-1739) che in Russia era chiamato Andrej Danilovič

Farvarson, ma il cognome era tradotto anche in Farhvarson, Farkeson, Ferguson,

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valente geometra, si mise al suo servizio; è lui che in Russia introdusse la matematica negli uffici delle finanze, dove prima era adottato esclusivamente il metodo tataro consistente nel contare con palline infilate su un filo di ottone. Questo metodo sostituiva la scrittura, ma era complicato e induceva facilmente in errore perché, una volta fatto il calcolo, è impossibile controllare gli eventuali sbagli. Le cifre arabe di cui noi ci serviamo ci sono giunte soltanto nel secolo IX grazie agli Arabi, mentre l’impero di Russia le ha conosciute soltanto mille anni dopo: è la sorte di tutte le arti, che hanno fatto lentamente il giro del mondo. Due giovani della scuola di matematica accompagnarono Pietro: furono questi gli inizi della scuola di marina che Pietro fondò in seguito. Con Fergusson egli osservava e calcolava le eclissi. L’ingegner Perry, sebbene sia rimasto assai malcontento per non esser stato ricompensato a sufficienza, riconosce che Pietro aveva imparato l’astronomia e conosceva a fondo i moti dei corpi celesti e perfino le leggi di gravitazione che li governano. Questa forza così incontestabile ma che, prima del grande Newton, era così sconosciuta, questa forza secondo la quale tutti i pianeti pesano gli uni sugli altri e sono mantenuti nelle rispettive orbite, era già familiare a un sovrano di Russia mentre altrove ci si pasceva di chimerici turbini e nella patria di Galileo degli ignoranti imponevano ad altri ignoranti di credere la terra immobile.

Perry partì per suo conto per andar a lavorare al collegamento dei fiumi, ai ponti, alle chiuse. Il progetto dello zar era di far comunicare l’Oceano, il mar Caspio e il mar Nero per mezzo di canali.

Non dobbiamo dimenticare che alcuni commercianti inglesi, a capo dei quali si pose l’ammiraglio e marchese di Carmarthen274, gli diedero 15.000 sterline in cambio del permesso di vendere il tabacco in Russia. Il patriarca, con malintesa severità, aveva messo al bando questo genere di commercio; la Chiesa russa infatti proibiva il tabacco come un peccato. Pietro, che era più accorto e che, fra gli altri cambiamenti, meditava anche la riforma della Chiesa, introdusse nei suoi Stati quel commercio.

Prima che Pietro lasciasse l’Inghilterra, il re Guglielmo gli fece offrire lo spettacolo più degno di tanto ospite: una battaglia navale. Nessuno immaginava allora che lo zar ne avrebbe un giorno combattute di autentiche contro gli Svedesi e che avrebbe ottenute varie vittorie sul mar Baltico. Infine Guglielmo gli fece omaggio della nave sulla quale soleva recarsi in Olanda, chiamata Royal Transport, nave tanto ben costruita quanto

Fulkerson, Ferkelson e altri. Matematico, astronomo ed esperto di scienze marine, fu professore di matematica presso l’Università di Aberdeen (Scozia) fino al 1698, quando incontrò Pietro I. Nel gennaio 1701 contribuì all’apertura a Mosca della Scuola superiore di Scienze matematiche e di navigazione, nella Torre Sucharev, dove insegnò navigazione, navigazione astronomica, geodesia, matematica. Nel 1712 fu incaricato di realizzare la strada da Mosca a San Pietroburgo e da qui a Novgorod. Nel 1716 si trasferì a San Pietroburgo presso la nuova Accademia navale. Scrisse trattati (in latino) e curò diverse traduzioni in russo di libri scientifici.

274 Thomas Osborne, conte di Danby, marchese di Carmarthen e duca di Leeds (1631-1712), vice-ammiraglio della Marina inglese, ricoprì ruoli governativi in politica interna ed estera.

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magnifica. Sul finire del maggio 1698, Pietro fece ritorno in Olanda su questa nave. Portava con sé tre capitani di vascello da guerra, 25 comandanti di navi chiamati anch’essi capitani, 40 luogotenenti, 30 piloti, 30 chirurghi, 250 cannonieri, più di 300 artigiani. Questa colonia di uomini abili in tutti i campi fu trasferita dall’Olanda ad Archangel’sk sul Royal Transport, e di lì fu distribuita nei luoghi dove era necessaria la sua opera. Quelli ingaggiati ad Amsterdam presero la strada di Narva controllata dalla Svezia.

Mentre faceva così trapiantare le arti dall’Inghilterra e dall’Olanda nel suo Paese, gli ufficiali che aveva inviato a Roma e in Italia assumevano anche alcuni artisti. Il generale Šeremetev, che era a capo dell’ambasceria d’Italia, andava da Roma a Napoli, a Venezia, a Malta; quanto allo zar, proseguì per Vienna con gli altri ambasciatori. Dopo le flotte inglesi e i cantieri olandesi, gli restava da vedere la disciplina militare tedesca. Inoltre, la politica aveva nel suo viaggio un’importanza pari all’istruzione. L’imperatore era l’alleato naturale dello zar contro i Turchi. Pietro incontrò Leopoldo in incognito. I due monarchi si intrattennero stando in piedi per evitare le complicazioni del cerimoniale.

Durante il suo soggiorno a Vienna non accadde nulla di rilevante tranne l’antica festa dell’oste e dell’ostessa che Leopoldo riesumò per lui e che era caduta in disuso durante il suo regno. Tale festa che si chiama Wirtschaft275 si celebra in questo modo: l’imperatore è l’oste, l’imperatrice l’ostessa, il re di Roma276, gli arciduchi e le arciduchesse sono di solito gli aiutanti e ricevono nella locanda tutte le nazioni abbigliate secondo la foggia più antica del loro Paese. Gli invitati alla festa estraggono a sorte dei biglietti: su ognuno è scritto il nome della nazione e della condizione che si dovranno rappresentare. All’uno capita un biglietto di mandarino cinese, all’altro di mirza tataro, di satrapo persiano o di senatore romano. Una principessa estrae un biglietto di giardiniera o di lattaia; un principe è contadino o soldato. Si organizzano delle danze appropriate a tutti i caratteri. L’oste, l’ostessa e i familiari servono a tavola. Tale è l’antico regolamento277, ma in quell’occasione il re di Roma Giuseppe e la contessa di Traun rappresentavano gli antichi Egizi, mentre l’arciduca Carlo e la contessa di Wallenstein i Fiamminghi dei tempi di Carlo V. L’arciduchessa Maria Elisabetta e il conte di Traun erano vestiti da Tatari, l’arciduchessa Marianna e il principe Massimiliano di Hannover rappresentavano i contadini dell’Olanda settentrionale. Pietro si vestì da contadino di Frisia: non gli fu rivolta la parola che in questa qualità e tutti gli parlavano del grande zar di Russia. Sono particolari irrilevanti, ma ciò che si riferisce agli antichi costumi può, sotto certi aspetti, meritare che se ne parli.

Pietro si accingeva a partire da Vienna per andare a completare la sua istruzione a Venezia allorché gli giunse notizia di una rivolta che gettava lo

275 Sull’originale wurtchafft.276 Il titolo di Re di Roma spettava all’erede presuntivo al trono.277 Manoscritti di Pietroburgo e di Le Fort. (Nota dell’Autore)

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scompiglio nel suo Paese.

Capitolo X

CONGIURA PUNITA. SOPPRESSIONE DEGLI STREL’CY. MUTAMENTI NEI COSTUMIDELLO STATO E DELLA CHIESA

Partendo, lo zar aveva provveduto a tutto, perfino ai mezzi per reprimere una ribellione. Causa di questa rivolta furono quelle stesse cose utili e grandi che egli stava facendo per il suo Paese.

Dei vecchi bojardi, ai quali erano care le antiche usanze, e dei preti, ai quali quelle nuove sembravano sacrileghe, dettero il segnale della rivolta. L’antico partito della principessa Sof’ja rialzò il capo. Si dice che una delle sue sorelle, rinchiusa con lei nel monastero, contribuì non poco a riscaldare gli animi: da tutte le parti si prospettavano i grandi pericoli insiti nel fatto che degli stranieri venissero a civilizzare la nazione278. Infine, chi lo crederebbe, il permesso di vendere tabacco nel regno, accordato dallo zar a onta del clero, fu uno dei grandi argomenti dei sediziosi. La superstizione, che è dappertutto un flagello così funesto e così caro ai popoli, si trasmise dal popolo russo agli strel’cy disseminati sulle frontiere della Lituania; essi si raccolsero e marciarono su Mosca con l’intenzione di mettere sul trono Sof’ja e di precludere il ritorno a uno zar che aveva violato le usanze osando istruirsi in terra straniera. Le truppe al comando di Šein e Gordon, più disciplinate, li sconfissero a quindici leghe da Mosca, ma questa superiorità di un generale straniero sull’antica milizia nella quale militavano numerosi borghesi moscoviti irritò ancor di più la nazione.

Per soffocare i disordini, lo zar parte in segreto da Vienna, passa per la Polonia e si incontra in incognito con il re Augusto col quale già stava prendendo accordi per ingrandirsi dalla parte del Baltico. Finalmente giunge a Mosca279 e la sua presenza coglie tutti di sorpresa; egli ricompensa le truppe che hanno vinto gli strel’cy: le prigioni rigurgitavano di quei disgraziati. Se grande era stato il delitto, altrettanto grande fu la punizione. I capi, parecchi ufficiali e alcuni preti, furono condannati a morte280, alcuni subirono il supplizio della ruota, due donne furono sepolte vive. Duemila strel’cy281 furono impiccati attorno alle mura della città, altri perirono tra i supplizi; i corpi restarono per due giorni esposti sulle strade maestre e soprattutto attorno al monastero dove risiedevano le principesse Sof’ja e Evdokija. Furono erette delle colonne su cui furono incisi il delitto e la punizione. Molti, che avevano moglie e figli a Mosca, furono sparpagliati con le famiglie in Siberia, nel regno di Astrachan’, nel paese di Azov: in questo

278 Manoscritti di Le Fort. (Nota dell’Autore)279 Settembre 1698. (Nota dell’Autore)280 Relazioni del capitano e ingegnere Perry, che fu in Russia al servizio di Pietro il Grande.

Manoscritti di Le Fort. (Nota dell’Autore)281 Manoscritti di Le Fort. (Nota dell’Autore)

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modo la loro punizione fu almeno di qualche utilità allo Stato; essi servirono a dissodare e popolare delle terre che mancavano di abitanti e di colture.

Se lo zar non avesse sentito la necessità di dare un esempio terribile, avrebbe forse adibito alle opere pubbliche una parte degli strel’cy che invece fece giustiziare e che, in questo modo, furono perduti per lui e per lo Stato: infatti la vita umana doveva essere considerata preziosa, soprattutto in un Paese la cui popolazione richiedeva tutte le cure di un legislatore. Tuttavia egli ritenne opportuno sbalordire e sottomettere una volta per tutte lo spirito della nazione con il numero e la messinscena dei supplizi. L’intero corpo degli strel’cy, che nessuno dei predecessori avrebbe osato neppure ridurre, fu abolito per sempre e ne fu cancellato il nome. Questo grande cambiamento si compì senza incontrare la minima resistenza perché era stato preparato. In quello stesso secolo, come abbiamo già ricordato, Osman, sultano dei Turchi, fu deposto ed ebbe tagliata la gola solo per aver lasciato sospettare ai giannizzeri che voleva ridurne il numero282. Pietro, avendo meglio preso le sue misure, fu più fortunato. Di tutta quella grande milizia degli strel’cy non rimasero che pochi e deboli reggimenti ormai inoffensivi i quali, malgrado tutto, conservando ancora l’antico carattere, si ribellarono ad Astrachan’ nel 1705 e furono in breve domati.

Quanto grande era stata la severità dimostrata da Pietro in quest’affare di Stato, altrettanto grande fu l’umanità che mostrò quando, qualche tempo dopo, perse il suo favorito Le Fort che morì prematuramente all’età di quarantasei anni283: volle che fosse onorato con esequie quali si sogliono tributare ai grandi sovrani. Lo zar in persona assistette ai funerali con una picca in mano, sfilando dopo i capitani secondo il grado di luogotenente che aveva ricoperto nel grande reggimento del generale, insegnando così ai nobili il rispetto del merito e della carica militare.

Dopo la morte di Le Fort, ci si rese conto che i cambiamenti progettati nello Stato non provenivano da lui, ma dallo zar. Le conversazioni avute con Le Fort lo avevano confermato nei suoi piani, ma li aveva concepiti tutti da sé e li attuò senza di lui.

Dopo aver soppresso gli strel’cy, costituì dei reggimenti regolari sul modello di quelli tedeschi: ebbero divise corte e uniformi, invece delle scomode giubbe di cui erano vestiti prima, e gli esercizi furono più regolari.

Le guardie Preobraženskij esistevano già: il nome derivava da quella primitiva compagnia di cinquanta uomini che lo zar, ancora giovane, aveva organizzato nel ritiro di Preobraženskoe al tempo in cui sua sorella Sof’ja teneva le redini dello Stato; anche l’altro reggimento di guardie era già costituito.

Come lui stesso era passato per gli infimi gradi militari, così volle che i figli dei suoi bojardi e dei suoi knez, prima di fare gli ufficiali, cominciassero con l’essere soldati. Altri ne mise sulla flotta a Voronež e ad Azov, e dovettero fare il tirocinio di marinai. Nessuno osava rispondere con un

282 Cfr. nota 220.283 12 marzo 1699 del calendario gregoriano. (Nota dell’Autore)

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rifiuto a un sovrano che aveva dato l’esempio. Inglesi e Olandesi lavoravano alla messa a punto della flotta, alla costruzione di chiuse, all’apertura di nuovi cantieri dove fosse possibile carenare le navi in secco, e a riprendere la grandiosa opera della congiunzione del Volga col Tanais abbandonata dal prussiano Brakel. Quel momento segnò l’inizio della riforma del consiglio di Stato, delle finanze, della Chiesa e della società stessa.

Le finanze erano amministrate all’incirca come in Turchia. Ogni bojardo pagava per le sue terre una somma convenuta che riscuoteva dai servi della gleba; lo zar assunse come esattori dei borghesi e dei borgomastri, i quali non erano abbastanza potenti da arrogarsi il diritto di versare al tesoro pubblico solo quanto piacesse a loro. Questa nuova amministrazione delle finanze fu quella che costò più fatica; si dovettero provare diversi sistemi prima di trovare quello definitivo.

La riforma della Chiesa, universalmente ritenuta difficile e pericolosa, non fu tale per lo zar. Qualche volta i patriarchi avevano combattuto l’autorità del trono come gli strel’cy: Nikon con audacia, Ioakim284, uno dei successori di Nikon destreggiandosi abilmente. I vescovi si erano arrogati il diritto della spada, quello cioè di condannare alle pene corporali e a quella capitale, diritto contrario allo spirito della religione e al governo: quest’annosa usurpazione fu revocata. Essendo morto, sul finire del secolo, il patriarca Adrian285, Pietro dichiarò che non ce ne sarebbero stati altri. La carica fu completamente abolita e le grandi ricchezze destinate al patriarcato vennero immesse nelle pubbliche finanze, che ne avevano bisogno. Anche se lo zar non si proclamò capo della Chiesa russa, come fece il sovrano di Gran Bretagna nei confronti di quella anglicana, in pratica ne fu il capo assoluto, dato che i sinodi non osavano trasgredire gli ordini di un sovrano dispotico né tanto meno discutere con un principe più illuminato di loro.

Basta gettare uno sguardo sul preambolo dell’editto dei regolamenti ecclesiastici promulgato nel 1721286, per constatare che egli agiva da legislatore e da padrone: «Ci sentiremmo colpevoli di ingratitudine verso l’Altissimo se, dopo aver riformato l’ordine militare e quello civile, trascurassimo l’ordine spirituale, ecc. Per queste ragioni, seguendo l’esempio dei più antichi sovrani celebri per la loro pietà, ci siamo assunti la cura di dare buone leggi al clero». È vero che egli istituì un sinodo per far rispettare le sue leggi ecclesiastiche, ma i membri del sinodo dovevano inaugurare il loro ministero con un giuramento di cui egli stesso aveva scritto e firmato la formula: era un giuramento di obbedienza redatto in questi termini: «Giuro di essere fedele e obbediente servitore e suddito del mio sovrano vero e naturale e degli augusti successori che gli piacerà di designare in virtù del potere incontestabile che egli ne ha. Riconosco che

284 Ioakim (1621-1690) fu il nono patriarca di Mosca e di tutte le Russie dal 1674 (Nikon fu il sesto). Viene ricordato per essere stato uno strenuo oppositore dei Vecchi Credenti.

285 Adrian (1637-1700) fu il successore di Ioakim al patriarcato. Rigido conservatore, fu contrario a tutte le riforme di Pietro il Grande.

286 Il Regolamento spirituale pubblicato da Pietro I fu scritto con il teologo ucraino Feofan Prokopovič (1681-1736), arcivescovo di Pskov.

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egli è il giudice supremo di questo collegio spirituale; giuro nel nome di Dio, che vede tutto, che intendo e interpreto questo giuramento secondo tutta la forza e il senso che queste parole presentano a chi le legge o le ascolta». Questo giuramento è ancora più forte di quello di supremazia degli Inglesi. È vero che il monarca russo non era uno dei padri sinodali, ma dettava legge; non toccava il turibolo, ma guidava la mano che lo portava.

Mentre attendeva a quest’opera grandiosa, gli parve che nel suo Stato, che aveva bisogno di essere popolato, il celibato ecclesiastico fosse contro la natura e contro l’interesse pubblico. Secondo l’antica usanza della Chiesa russa, i preti secolari sono tenuti a sposarsi almeno una volta, anzi vi sono costretti e in passato quando perdevano la moglie cessavano di essere preti. Ma quella moltitudine di giovani e di giovanette che, stando in un chiostro, fanno voto di essere inutili e di vivere a spese altrui, gli parve dannosa: egli decretò che si potesse entrare nel chiostro soltanto a cinquant’anni, vale a dire in un’età in cui una simile tentazione non prende quasi mai, e proibì che vi fosse ammesso, qualunque fosse la sua età, un uomo che ricopriva un pubblico impiego.

Questa legge è stata abolita dopo di lui, allorché si è ritenuto di dover usare più condiscendenza verso i monasteri; la carica di patriarca invece non fu mai ristabilita perché le imponenti entrate del patriarcato erano state utilizzate per il pagamento delle truppe.

In un primo momento questi cambiamenti suscitarono qualche malcontento: un prete scrisse che Pietro era l’Anticristo perché non voleva che ci fosse il patriarca, e l’arte della stampa che lo zar incoraggiava servì a far stampare qualche libello contro di lui. In seguito però un altro prete replicò che il principe non poteva essere l’Anticristo perché nel suo nome non figurava il numero 666 ed egli non aveva il segno della bestia287. Ben presto le lamentele furono messe a tacere288. In realtà, Pietro dette alla Chiesa molto più di quanto non le togliesse: infatti rese gradatamente il clero più disciplinato e più colto. Fondò a Mosca tre collegi dove si insegnavano le lingue, e coloro che erano destinati al sacerdozio avevano l’obbligo di studiarvi.

Una delle riforme più necessarie era l’abolizione o almeno l’attenuazione delle quattro grandi quaresime, antica schiavitù della Chiesa greca tanto dannosa a chi lavorava nei pubblici impieghi, e soprattutto ai soldati, quanto lo era stata l’antica superstizione ebrea di non combattere nel giorno di sabato. Dunque lo zar dispensò almeno l’esercito e gli operai da quei digiuni, durante i quali del resto, se era proibito mangiare, c’era però l’abitudine di ubriacarsi. Ugualmente li dispensò dall’astinenza nei giorni di magro: i cappellani militari e di marina furono costretti a dare l’esempio e lo dettero di buon grado.

Il calendario era una questione importante. Anticamente in tutti i Paesi

287 Cfr. Apocalisse 13.288 Nella Storia di Carlo XII è detto che l’autore del libello patì il supplizio della ruota mentre

quello della confutazione fu nominato vescovo.

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della Terra l’anno era regolato dai capi religiosi, non soltanto a causa delle feste ma anche perché, nei tempi passati, solo i preti conoscevano l’astronomia. I Russi facevano cominciare l’anno il primo settembre; lo zar ordinò che a partire da quel momento l’anno sarebbe cominciato il Primo gennaio come nella nostra Europa. Il cambiamento fu fissato per l’anno 1700, all’inizio del secolo, che Pietro fece celebrare con un giubileo e con solenni cerimonie. Il popolino ammirava lo zar che aveva cambiato il corso del sole. Alcuni ostinati, convinti che Dio avesse creato il mondo a settembre, continuarono secondo il vecchio sistema, ma esso cambiò negli uffici, nelle cancellerie e ben presto in tutto l’impero. Pietro non adottò il calendario gregoriano che non era riconosciuto dai matematici inglesi, ma che prima o poi dovrà essere introdotto in tutti i Paesi289.

Dal V secolo, epoca in cui avevano imparato l’uso dei caratteri, i Russi scrivevano su rotoli di corteccia, poi di pergamena e successivamente di carta. Lo zar fu costretto a promulgare un editto nel quale ordinava che si scrivesse soltanto alla nostra maniera.

Le riforme si estesero a tutto. Prima i matrimoni si celebravano come in Turchia e in Persia, dove si conosce colei che si prende in moglie solo quando il contratto è stato firmato e non ci si può tirare più indietro. Tale usanza è ammissibile presso i popoli che praticano la poligamia e usano rinchiudere le donne, ma non è adatta per quei Paesi in cui ci si limita a una moglie e il divorzio non è frequente.

Lo zar volle avvezzare la sua nazione agli usi e ai costumi di quelle che aveva percorso nei suoi viaggi e da cui aveva fatto venire tutti i maestri che stavano ora istruendo la sua.

Era bene che i Russi non vestissero diversamente da quelli che insegnavano loro le arti: infatti l’odio contro gli stranieri è anche troppo connaturato all’uomo e troppo alimentato dalla differenza del vestire. L’abito da cerimonia di quei tempi, che aveva qualcosa di quello polacco, di quello tataro e dell’antico costume ungherese, era, come si disse, nobilissimo, ma l’abito del popolino e dei borghesi rassomigliava a quelle casacche pieghettate alla vita che ancor oggi si danno a certi poveri in alcuni dei nostri ospedali. In generale, la veste lunga era l’abito adottato in passato da tutti i popoli: è un indumento che richiede meno cure e meno abilità; per la stessa ragione ci si lasciava crescere la barba. Lo zar non ebbe nessuna difficoltà a introdurre a corte l’abito che usa dalle nostre parti e l’abitudine di radersi, ma per il popolo fu più difficile. Fu necessario imporre una tassa sulle vesti lunghe e sulle barbe; si appendevano modelli di giustacuore alle porte delle città, si tagliavano vesti e barbe a chi rifiutava di pagare. Tutte queste cose venivano eseguite allegramente, e fu proprio quest’allegria che scongiurò le ribellioni.

289 Il 15 dicembre 1699 Pietro il Grande decretò l’abolizione del calendario bizantino che contava gli anni dalla creazione del mondo (dal 7208 al 1700) e l’inizio dell’anno dal 1° gennaio anziché il 1° settembre secondo il calendario giuliano. Il calendario gregoriano fu adottato in Russia nel 1918, ma non dalla Chiesa.

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È stato impegno costante dei legislatori quello di rendere gli uomini socievoli, ma per esserlo non basta trovarsi riuniti in una città: occorre frequentarsi civilmente; questi rapporti addolciscono dovunque le amarezze della vita. Lo zar introdusse l’uso delle riunioni, in italiano ridotti290, parola che i gazzettieri hanno tradotto impropriamente col termine redoute. A queste riunioni fece invitare le dame e le loro figlie vestite alla moda delle nazioni meridionali dell’Europa; giunse a stabilire le norme di queste piccole feste di società. Così tutte le cose, persino le buone maniere dei suoi sudditi, furono opera sua e del tempo.

Affinché queste innovazioni fossero più apprezzate, abolì la parola golut, schiavo, di cui i Russi si servivano quando volevano291 parlare allo zar e per presentare le suppliche, e ordinò che si usasse il termine rab292, che significa suddito. Questo cambiamento, che nulla toglieva all’obbedienza, doveva favorire l’affetto. Ogni mese portava nuove iniziative o nuovi cambiamenti. La previdenza di Pietro si spinse fino a far collocare, sulla strada da Voronež a Mosca, dei paletti dipinti che fungevano da colonne miliari poste di versta in versta, cioè alla distanza di 750 passi, e ogni venti verste fece costruire una specie di caravanserraglio.

Mentre andava così rivolgendo le sue cure al popolo, ai mercanti e ai viaggiatori, volle introdurre a corte un certo fasto: odiava lo sfarzo per la sua persona, ma lo credeva necessario agli altri. Egli istituì l’ordine di Sant’Andrea293 a somiglianza di quelli di cui pullulano tutte le corti d’Europa. Golovin, successore di Le Fort nella dignità di grande ammiraglio, fu il primo cavaliere di quest’ordine. L’onore di esservi ammessi fu considerato una grande ricompensa. È un invito a essere rispettato dal popolo che si porta sulla persona: questo segno d’onore non costa nulla al sovrano e lusinga l’amor proprio dei sudditi senza renderli potenti.

Tante utili innovazioni erano accolte con entusiasmo dalla parte più sana della popolazione, e le lamentele di quanti restavano fedeli alle vecchie abitudini erano soffocate dalle acclamazioni degli uomini ragionevoli.

Mentre Pietro gettava le basi di quest’opera all’interno del regno, una tregua vantaggiosa con l’impero turco gli consentiva di estendere le sue frontiere in un’altra direzione. Mustafa II, che nel 1697 era stato vinto dal principe Eugenio294 nella battaglia di Zenta, che aveva perduto la Morea conquistata dai Veneziani ed era impotente a difendere Azov, fu costretto a concludere la pace con tutti i vincitori: fu stipulata a Carlowitz295 tra

290 In italiano nel testo.291 Nelle prime due edizioni “volevano” era sostituito da “potevano”.292 Sull’originale raad.293 10 settembre 1698, sempre secondo il nuovo calendario. (Nota dell’Autore)294 Il principe Eugenio Francesco di Savoia (1663-1736), generale sabaudo, è considerato

uno dei migliori strateghi del suo tempo. Dopo la deposizione di Augusto il Forte, Pietro il Grande lo propose per l’elezione al trono di Polonia, ma Leopoldo si oppose per non suscitare l’ostilità degli Svedesi.

295 26 gennaio 1699. (Nota dell’Autore)

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Petrovaradin e Slankamen, località rese celebri dalle sue sconfitte296. Temesvar fu il confine tra i possedimenti tedeschi e quelli ottomani, Kamienieck fu restituita ai Polacchi, la Morea e alcune città della Dalmazia, conquistate dai Veneziani, rimasero per qualche tempo in mano loro, Pietro I restò padrone di Azov e di alcuni fortini costruiti nei dintorni. Ormai non era più possibile allo zar ingrandirsi dalla parte dei Turchi le cui forze, prima divise e ora riunite, sarebbero piombate su di lui. I suoi progetti marinari erano troppo grandiosi per la Palude Meotide. Gli insediamenti sul mar Caspio non comportavano una flotta da guerra; egli rivolse dunque i suoi piani verso il mar Baltico, senza però abbandonare la marina del Tanais e del Volga.

Capitolo XI

GUERRA CONTRO LA SVEZIA. BATTAGLIA DI NARVA

Un nuovo teatro di avvenimenti si apriva in quei tempi verso le frontiere della Svezia. Una delle cause prime di tutti i rivolgimenti che si verificarono dall’Ingria fino a Dresda e che desolarono tanti Stati per diciotto anni, fu l’abuso del potere supremo da parte di Carlo XI re di Svezia e padre di Carlo XII297. È questo un fatto che non ripeteremo mai abbastanza e che interessa tutti i troni e tutti i popoli. Gran parte della Livonia e tutta l’Estonia erano state cedute dalla Polonia al re di Svezia Carlo XI, che succedette a Carlo X esattamente durante il trattato di Oliva; secondo l’usanza esse furono cedute con la riserva che ne sarebbero stati rispettati tutti i privilegi. Carlo XI non li rispettò molto. Nel 1692 Johann Reinhold Patkul, gentiluomo livone298, venne a Stoccolma a capo di sei deputati della provincia per deporre ai piedi del trono le sue rispettose ed energiche lamentele299. Per tutta risposta i sei deputati furono gettati in carcere e Patkul fu condannato

296 Sull’originale Petervaradin e Salankemen. Entrambe sono città dell’attuale Serbia, come Carlowitz, in cui furono i combattimenti del 1691.

297 Nella Storia di Carlo XII Voltaire fa ricadere la responsabilità della guerra non su Carlo XI, morto da tre anni, ma su Pietro: «[lo zar] aveva recentemente pubblicato un manifesto che avrebbe fatto meglio a sopprimere. Come giustificazione della guerra adduceva il fatto che quando era passato in incognito per Riga non lo avevano accolto con sufficienti onori, e che ai suoi ambasciatori avevano venduto dei viveri troppo cari. Erano questi i torti per cui devastava l’Ingria con 80.000 uomini».

298 Johann Reinhold von Patkul (1660-1707), uomo politico che animò la resistenza della nobiltà della Livonia contro Carlo XI e fu condannato a morte (1694), ma si rifugiò all’estero, si accordò con Augusto II di Sassonia e partecipò alla conclusione delle alleanze fra Danimarca, Sassonia e Russia. Entrato al servizio di Pietro I, durante la guerra nordica comandò un corpo in Sassonia, ma nel 1707 Augusto II, costretto alla pace, lo consegnò a Carlo XII di Svezia, che lo fece giustiziare.

299 Nordberg, cappellano e confessore di Carlo XII, scrive nella sua storia: «che egli fu tanto insolente da lamentarsi delle vessazioni e fu condannato a perdere l’onore e la vita». Questo è parlare da prete legato al dispotismo. Avrebbe dovuto sapere che non si può privare dell’onore un cittadino che fa il proprio dovere. (Nota dell’Autore)

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a perdere l’onore e la vita. Egli non perse né l’uno né l’altra: riuscì a fuggire e rimase per qualche tempo nel cantone di Vaud, in Svizzera. In seguito, quando seppe che Augusto, elettore di Sassonia, al suo avvento al trono aveva promesso di riscattare le province strappate alla corona, si precipitò a Dresda per prospettare la facilità di riprendere la Livonia e far pagare a un re di diciassette anni le conquiste dei suoi avi.

Intanto lo zar Pietro pensava ad annettersi l’Ingria e la Cardia, province appartenute in passato alla Russia. Gli Svedesi se ne erano impadroniti per diritto di guerra ai tempi del falso Demetrio, e le avevano conservate in virtù di trattati. Una nuova guerra e nuovi trattati potevano darle alla Russia. Patkul da Dresda passò a Mosca e, eccitando due sovrani alla sua personale vendetta, cementò la loro unione e accelerò i preparativi per conquistare tutte le regioni a oriente e a mezzogiorno della Finlandia.

Proprio in quel tempo il nuovo re di Danimarca Federico IV stringeva alleanza con lo zar e con il re di Polonia contro il giovane Carlo, che sembrava destinato a soccombere. Patkul ebbe la soddisfazione di assediare gli Svedesi a Riga, capitale della Livonia, e di portare avanti l’assedio in qualità di generale maggiore.

(Settembre) Lo zar fece marciare alla volta dell’Ingria circa 60.000 uomini. È vero però che in questo grande esercito solo 12.000 erano i soldati ben agguerriti e addestrati personalmente da lui, come i due reggimenti di guardie e alcuni altri: il resto era formato da truppe armate alla meglio: c’erano dei Cosacchi e dei Tartari Circassi; in compenso portava con sé 145 cannoni. Egli strinse d’assedio Narva, piccola città dell’Ingria dotata di un comodo porto; tutto lasciava prevedere che il forte sarebbe capitolato entro poco tempo.

Tutta l’Europa sa come Carlo XII, che non aveva ancora diciotto anni compiuti, attaccò tutti i suoi nemici uno dopo l’altro, discese in Danimarca, concluse la guerra di Danimarca in meno di sei settimane, inviò soccorsi a Riga e fece togliere l’assedio, marciò alla volta dei Russi davanti a Narva in mezzo ai ghiacci nel mese di novembre.

Lo zar, che contava sulla presa della città, era andato a Novgorod300, portando con sé il favorito Menšikov, che era allora luogotenente nella compagnia dei bombardieri del reggimento Preobraženskij e divenne in seguito feldmaresciallo e principe301, uomo la cui singolare fortuna merita che se ne parli altrove più ampiamente.

Pietro aveva affidato l’esercito e le istruzioni per l’assedio al principe di Croÿ, originario della Fiandra, passato da poco al suo servizio302. Il principe

300 18 novembre 1700. (Nota dell’Autore)301 Aleksandr Danilovič Menšikov (1672-1729) fu statista e generale, ma soprattutto amico di

Pietro I fin dall’infanzia. Combatté tutte le campagne contro gli Svedesi, vincendoli a Mardefeld (1705-1707). Morto Pietro, riuscì a mettere sul trono la vedova Caterina I e, di fatto, governò la Russia fino al 1727 quando fu arrestato per corruzione e malversazione ed esiliato in Siberia.

302 Cfr. la Storia di Carlo XII. (Nota dell’Autore) – Sull’originale Croï. Charles Eugène de Croÿ (1651-1702) fu maresciallo dell’impero austriaco contro i Turchi e, dal 1697, comandante

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Dolgorukij fungeva da commissario dell’esercito. La gelosia fra i due capi e l’assenza dello zar furono in parte la causa dell’inaudita disfatta di Narva. Carlo XII, sbarcato con le sue truppe a Pernau, in Livonia, nel mese di ottobre, avanza verso settentrione alla volta di Reval e sconfigge in quel settore un corpo avanzato di Russi. Poi continua la marcia e ne sconfigge un altro. I fuggiaschi fanno ritorno al campo di Narva e vi seminano il panico. Nel frattempo si era già al mese di novembre. Narva, benché mal assediata, era prossima alla resa. A quel tempo il giovane re di Svezia aveva con sé meno di 9.000 uomini; inoltre, ai 145 cannoni che guarnivano le trincee russe poteva opporre soltanto dieci pezzi di artiglieria. Tutte le relazioni del tempo e tutti gli storici senza eccezione fanno ammontare a 80.000 combattenti l’esercito schierato davanti a Narva. Le relazioni che mi sono state fatte pervenire dicono quale 60.000, quale 40.000 uomini: comunque è certo un fatto: Carlo ne aveva meno di 9.000 e questa giornata è una dimostrazione che spesso le grandi vittorie, dalla battaglia di Arbela303 in poi, sono state riportate dalla parte che aveva l’inferiorità numerica.

Carlo non esitò un istante ad attaccare, con le poche truppe che aveva, un esercito di tanto superiore; approfittando di un vento violento e di una tempesta di neve che il vento spingeva contro i Russi, piombò nelle loro trincee304 con l’appoggio di alcuni cannoni opportunamente piazzati. I Russi, nel mezzo di quella tormenta di neve che li sferzava in pieno viso, fulminati da invisibili cannoni e ben lontani dal sospettare il numero ridotto degli avversari, non ebbero il tempo di riaversi.

Il duca di Croÿ volle impartire ordini, il principe Dolgorukij si rifiutò di accettarli. Gli ufficiali russi si ribellarono a quelli tedeschi e massacrarono il segretario del duca, colonnello Lyon, e parecchi altri. Tutti abbandonano il proprio posto; il tumulto, la confusione e il panico dilagano per tutto l’esercito. A questo punto alle truppe svedesi non restava che uccidere gli uomini che fuggivano. Gli uni corrono a gettarsi nel fiume Narva: furono moltissimi i soldati che vi annegarono; gli altri gettano le armi e si inginocchiano davanti agli Svedesi. Il duca di Croÿ, il generale Allard e gli ufficiali tedeschi, i quali temevano più i Russi sollevati contro di loro che non gli Svedesi, andarono ad arrendersi al conte Stenbock305; il re di Svezia, rimasto padrone di tutta l’artiglieria, vede ai propri piedi 30.000 vinti che gettano le armi e sfilano davanti a lui a capo scoperto. Il knez Dolgorukij e tutti gli altri generali moscoviti si arresero come quelli tedeschi, e solo dopo essersi arresi seppero di essere stati vinti da 8.000 uomini. Si trovava tra i

dell’impero russo a Narva contro gli Svedesi. La sua morte avvenne nelle prigioni di Tallinn e, poiché nessuno pagò i funerali, il suo corpo abbandonato si mummificò in una cappella ed ebbe sepoltura solo nel 1897.

303 La battaglia di Arbela (cfr. nota 26) fu vinta nel 331 a.C. da Alessandro Magno con 30.000 soldati, contro Dario III al comando di 200.000 soldati.

304 30 novembre. (Nota dell’Autore)305 Sull’originale Steinbock. Magnus Stenbock (1665-1717) fu colonnello svedese durante la

battaglia di Narva e nel 1712 fu nominato feldmaresciallo, ma lo stesso anno perse una battaglia contro i Danesi che lo misero in prigione dove morì.

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prigionieri il figlio del re di Georgia, che fu inviato a Stoccolma; si chiamava Mitelleski, czarovitz, ossia figlio di zar; questa è una prova ulteriore che il titolo di zar o tzar non deriva dai cesari romani306.

Dalla parte di Carlo XII, in questa battaglia ci furono soltanto 1.200 morti307. Nel diario dello zar che mi è stato inviato da Pietroburgo è detto che, contando i soldati periti all’assedio di Narva, durante la battaglia o annegati nella fuga, le perdite furono di soli 6.000 uomini308. Dunque in questa giornata l’indisciplina e il panico furono decisivi. I prigionieri di guerra erano quattro volte più numerosi dei vincitori e, se dobbiamo prestar fede a Nordberg309 il conte Piper310, che in seguito cadde prigioniero dei Russi, rinfacciò loro che in quella battaglia il numero dei prigionieri era stato otto volte superiore a quello dell’esercito svedese. Se ciò fosse vero gli Svedesi avrebbero fatto 72.000 prigionieri. Da ciò si può dedurre quanto sia difficile sapere i particolari. Ciò che è incontestabile e insolito è il fatto che il re di Svezia concesse a una metà dei soldati russi di andarsene disarmati e all’altra metà di ripassare il fiume con tutte le armi311. Questa strana fiducia rese allo zar delle truppe che, quando finalmente furono addestrate, divennero temibili.

Carlo ebbe tutti i vantaggi della vittoria: depositi immensi, navi da trasporto cariche di provviste, fortini evacuati o conquistati, tutto il Paese a discrezione degli Svedesi: ecco i frutti della vittoria. Narva era liberata, i

306 La frase è confusa e contiene inesattezze, perché Voltaire riassume (malamente) un suo passo nella Storia di Carlo XII (libro II): «Tra i prigionieri catturati nella battaglia di Narva […] era il figlio maggiore ed erede del re Georgia, lo si chiamava czarafis Artfchelou [Alessandro di Imereti]; questo titolo di czarafis significa principe, o il figlio dello zar, presso tutti i Tartari così come in Moscovia; perché la parola czar o tzar significava re presso gli antichi Sciti, da cui provengono tutti questi popoli, non venendo affatto dai Cesari di Roma, così a lungo sconosciuti a questi barbari. Suo padre Mittelleski [Archil di Imereti], lo czar e signore della parte più bella del Paese che si trova tra le montagne di Ararat e le estremità orientali del mar Nero, era stato cacciato dal suo regno dai suoi stessi sudditi nel 1688, e aveva scelto di gettarsi tra le braccia dell’imperatore di Moscovia, piuttosto che ricorrere a quello dei Turchi. Il figlio del re, diciannovenne, volle seguire Pietro il Grande nella sua spedizione contro gli Svedesi, e fu catturato in battaglia da alcuni soldati finlandesi che l’aveva già spogliato e stavano per ucciderlo. Il conte Renschild [Ehrensköld] lo strappò dalle loro mani, gli dette un mantello e lo presentò al suo padrone: Carlo lo mandò a Stoccolma, dove questo sfortunato principe morì pochi anni dopo». Alessandro di Imereti fu liberato nel 1710, ma, malato, morì quasi subito a Riga (3 febbraio 1711); Archil, suo padre, morì a Mosca nel 1713.

307 I morti svedesi furono 677 e i feriti 1200 su un totale di 10.610 uomini.308 Su un totale di 32.000 soldati.309 Pag. 439, tomo I, ed. in 4°, L’Aia. (Nota dell’Autore)310 Il conte Carl Piper (1647-1716) era stato segretario di Stato di Carlo XI, prima di esserlo

per suo figlio Carlo XII. Durante la prima parte della Grande Guerra del Nord aveva svolto le funzioni di Primo ministro, poi fu sollevato dall’incarico perché in disaccordo su quasi tutte le imprese militari di Carlo XII. Fu fatto prigioniero a Poltava (1709).

311 Stando al cappellano Nordberg, subito dopo la battaglia di Narva, il Gran Turco scrisse una lettera di felicitazioni al re di Svezia in questi termini: «Il sultano bassà per grazia di Dio, al re Carlo XII, ecc.». La lettera è datata dall’era della creazione del mondo. (Nota dell’Autore) – Bassà, o basha, è un’antica variante di pascià.

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Russi superstiti non ardivano mostrarsi, tutta la regione fino a Pskov312 gli si apriva davanti: il re di Svezia, vincitore in meno di un anno dei sovrani di Danimarca, Polonia e Russia, fu guardato come il primo uomo d’Europa a un’età in cui gli altri non osano ancora aspirare alla reputazione. Ma Pietro, il cui carattere era dotato di una costanza incrollabile, non desistette da uno solo dei suoi progetti.

In occasione della sconfitta, un vescovo russo scrisse una preghiera313 indirizzata a San Nicola che fu recitata in tutta la Russia. In questo scritto, che rivela lo spirito dei tempi e lo stato di ignoranza da cui Pietro ha sollevato il suo Paese, si legge che i forsennati e spaventevoli svedesi erano tutti stregoni, e vi si lamenta di essere stati abbandonati da San Nicola. Oggigiorno un vescovo russo non scriverebbe cose simili e, senza far torto a San Nicola, in breve ci si rese conto che era Pietro quello a cui conveniva rivolgersi.

Capitolo XII

RIPRESA DOPO LA BATTAGLIA DI NARVA. DISASTRO INTERAMENTE RIPARATO. CONQUISTA DI PIETRO NEI DINTORNI STESSI DI NARVA. SUO OPERATO NELL’IMPERO. COLEI CHE DOVEVA DIVENTARE IN SEGUITO IMPERATRICE È PRESA NEL SACCO DI UNA

CITTÀ. SUCCESSI DI PIETRO, SUO TRIONFO A MOSCA314

Lo zar, che aveva lasciato il suo esercito davanti a Narva verso la fine di novembre del 1700 per prendere accordi col re di Polonia, apprese la vittoria degli Svedesi durante il viaggio. La sua costanza era incrollabile quanto il valore di Carlo XII era intrepido e tenace. Egli rinviò i colloqui con Augusto per recare pronto rimedio ai rovesci occorsigli. Le truppe disperse si raccolsero nella grande Novgorod e di lì a Pskov, sul lago Peipus.

Dopo un simile scacco, era già molto tenersi sulla difensiva. «So bene – egli diceva – che gli Svedesi saranno ancora per molto superiori, ma alla

312 Sull’originale Pleskou (da Pleskau: nome della città di Pskov in tedesco).313 È stampata nella maggior parte dei giornali e documenti del tempo, ed è riportata nella

Storia di Carlo XII. (Nota dell’Autore) – La preghiera è: «O tu che sei il nostro perpetuo consolatore in tutte le avversità grande San Nicola infinitamente potente, con quale peccato ti abbiamo offeso nei sacrifici, nelle genuflessioni, nelle riverenze e nei rendimenti di grazie per averci così abbandonati? Avevamo implorato il suo aiuto contro i tremendi, orgogliosi, rabbiosi, spaventosi e indomiti distruttori quando essi, come leoni e orsi che abbiano perduto i piccoli, ci attaccarono, atterrirono, ferirono e uccisero a migliaia, noi, tuo popolo. Tutto questo non può esser avvenuto senza qualche sortilegio e incantesimo perciò ti imploriamo o grande San Nicola, di essere il nostro campione e il nostro portabandiera, di liberarci da quell’orda di stregoni e cacciarli lontano dalle nostre frontiere con la ricompensa che meritano» (cap. II). Per i commentari russi la preghiera, di cui non esistono testimonianze contemporanee agli avvenimenti, è probabilmente un falso. La si trova nella Histoire de Suède sous le règne de Charles XII (1720) di Limiers, che cita come sua fonte una History of the wars of Charles XII uscita anonima nel 1715. Limiers fu la probabile fonte di Voltaire.

314 Interamente tratto, come i seguenti, dal diario di Pietro il Grande fattomi pervenire da Pietroburgo. (Nota dell’Autore)

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fine ci insegneranno a vincerli».Dopo aver provveduto alle necessità più urgenti e dopo aver ordinato di

fare dovunque leva di soldati, Pietro corre a Mosca a far fondere dei cannoni. Aveva perso davanti a Narva tutti quelli che aveva, il bronzo scarseggiava: egli prese le campane delle chiese e dei monasteri. Se questo particolare non denotava superstizione, non denotava neppure empietà. Dunque si fanno con le campane 100 grossi cannoni, 143 pezzi di artiglieria da campagna per palle da tre a sei libbre, dei mortai, degli obici; lo zar li fa confluire a Pskov. Negli altri Paesi, il capo impartisce degli ordini che vengono eseguiti, ma allora lo zar era costretto a fare tutto personalmente. Mentre porta avanti in fretta questi preparativi, negozia col re di Danimarca che si impegna a fornirgli tre reggimenti a piedi e tre a cavallo, impegno al quale quel sovrano non osò tener fede.

Appena firmato il trattato, Pietro vola di nuovo verso il teatro della guerra; raggiunge il re Augusto a Biržai315, alla frontiera tra la Curlandia e la Lituania316. Bisognava confermare quel principe nella risoluzione di sostenere la guerra contro Carlo XII e indurre la Dieta polacca a impegnarsi nella guerra317 Come tutti sanno, il re di Polonia è soltanto il capo di una repubblica. Lo zar aveva il vantaggio di essere obbedito in qualsiasi momento, ma un re di Polonia, un re d’Inghilterra e oggi un re di Svezia318 debbono sempre patteggiare con i sudditi. Patkul e i Polacchi che parteggiavano per il re assistettero ai colloqui. Pietro promise dei sussidi e 20.000 soldati. La Livonia sarebbe stata restituita alla Polonia qualora la Dieta avesse voluto unirsi al suo re e aiutarlo a riconquistare quella provincia, ma nella Dieta il timore prevalse sulle offerte dello zar. I Polacchi temevano a un tempo la supremazia dei Sassoni e quella dei Russi e ancor più temevano Carlo XII. Così la maggioranza risolse di non servire il proprio re e di non combattere.

Quelli che tenevano per il re di Polonia si sollevarono contro la parte contraria; in breve, il fatto che Augusto avesse voluto rendere alla Polonia una grande provincia fruttò a quel regno una guerra civile.

Pertanto Pietro trovò nel re Augusto solo un mediocre alleato e nelle truppe sassoni solo un debole sostegno. Il timore che ispirava dovunque Carlo XII era tale che Pietro si ridusse a confidare solo nelle proprie forze.

Dopo essersi precipitato da Mosca in Curlandia per un abboccamento con Augusto, vola di nuovo319 dalla Curlandia a Mosca per sollecitare il

315 Sull’originale Birzen.316 27 febbraio 1701. (Nota dell’Autore)317 La Dieta polacca, una rappresentanza di nobili con potere legislativo, approvò nel 1652

una mozione in cui si stabiliva che anche un solo voto contrario bastava a bloccare una deliberazione. Ciò ebbe conseguenze paradossali per l’epoca, come l’impossibilità di costituire un esercito stabile.

318 Adolfo Federico, re di Svezia dal 1751, non aveva poteri assoluti che erano in mano a un Parlamento diviso in fazioni. Anche nel 1759 (l’«oggi» di Voltaire) cercò di instaurare l’assolutismo ma senza riuscirvi.

319 1° marzo. (Nota dell’Autore)

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mantenimento delle promesse. Ed effettivamente fa avanzare il principe Repnin320 con 4.000 uomini alla volta di Riga sulla rive della Dvina, dove si erano trincerati i Sassoni.

Il terrore generale aumentò ancora in luglio quando Carlo, passata la Dvina321 nonostante i Sassoni accampati in posizione vantaggiosa sulla riva opposta, riportò completa vittoria, quando, senza indugiare un istante, sottomise la Curlandia e lo si vide avanzare in Lituania, quando il sovrano vittorioso incoraggiò la fazione polacca contraria ad Augusto.

Ciò non impedì a Pietro di perseguire tutti i suoi progetti. Il generale Patkul, che era stato l’animatore degli incontri di Biržai e che era passato al suo servizio, gli procurava ufficiali tedeschi, addestrava le truppe e sostituiva il generale Le Fort; egli portava a compimento ciò che l’altro aveva cominciato. Lo zar forniva cavalli di ricambio a tutti gli ufficiali e persino ai soldati tedeschi, livoni o polacchi che si arruolavano nel suo esercito; egli si occupava fin nei particolari del loro armamento, del vestiario e del sostentamento.

Ai confini tra la Livonia e l’Estonia, a occidente della provincia di Novgorod, si trova il grande lago Peipus, che riceve dalla Livonia meridionale il fiume Velikaja e dal quale defluisce a settentrione il fiume Narova che bagna gli spalti di Narva: nei pressi di questa città gli Svedesi avevano riportato la loro celebre vittoria. Questo lago ha una lunghezza di trenta delle nostre leghe comuni, la larghezza varia da dodici a quindici leghe322: era indispensabile mantenervi una flotta allo scopo di impedire le aggressioni delle navi svedesi alla provincia di Novgorod. Per avere accesso alle loro coste ma soprattutto per formare dei marinai, Pietro, durante tutto il 1701, fece costruire sul lago cento mezze galere da cinquanta uomini circa ciascuna; altre imbarcazioni furono messe in assetto di guerra sul lago Ladoga. Lo zar diresse personalmente tutti i lavori e fece esercitare alla manovra i nuovi marinai. Quelli che nel 1697 erano stati impiegati sulla Palude Meotide furono utilizzati allora nei pressi dei Baltico. Spesso egli tralasciava questi compiti per recarsi a Mosca e in tutte le altre province a consolidare le innovazioni già introdotte e farne di nuove.

I principi che hanno dedicato gli ozi del tempo di pace alla costruzione di opere pubbliche sono divenuti famosi; ma nel fatto che Pietro, dopo il rovescio di Narva, pensasse a congiungere il mar Baltico, il mar Caspio e il Ponto Eusino per mezzo di canali, c’è più autentica gloria che in una battaglia vinta. Fu nel 1702 che egli cominciò a scavare quel profondo canale che va dal Tanais al Volga. Altri canali avrebbero dovuto mettere in comunicazione il Tanais con la Dvina, le cui acque il mar Baltico riceve a Riga. Tuttavia questo secondo progetto era ancora molto lontano dall’aver piena realizzazione perché Pietro era ben lungi dall’avere Riga in suo potere.

320 Il principe Anikita Ivanovič Repnin (1668-1726) fu nominato generale da Pietro I dopo la campagna di Azov e in seguito governatore di Riga.

321 Luglio. (Nota dell’Autore)322 Il lago copre una superficie di 3.555 kmq e ha una profondità media di 7 m.

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Carlo devastava la Polonia, Pietro faceva venire a Mosca dalla Polonia e dalla Sassonia pastori e greggi per avere delle lane con le quali fabbricare buone stoffe; egli faceva aprire manifatture di lino e di carta, per ordine suo si facevano venire operai abili a lavorare il ferro e l’ottone, armaioli e fonditori; i giacimenti della Siberia erano sfruttati. Egli pensava ad arricchire il suo Stato e a difenderlo.

Carlo proseguiva la serie delle sue vittorie e lasciava verso i territori dello zar truppe a suo parere sufficienti a conservare tutti i possedimenti della Svezia. Il piano era già stato concertato: detronizzare il re Augusto e successivamente ricacciare lo zar fino a Mosca con l’armata vittoriosa.

Quell’anno vi furono alcune scaramucce tra Russi e Svedesi. Non sempre questi ultimi ebbero la meglio, ma persino negli scontri in cui essi riportavano la vittoria, i Russi divenivano via via più agguerriti. Finalmente, a un anno dalla battaglia di Narva, lo zar disponeva già di truppe tanto ben addestrate da vincere uno dei migliori generali di Carlo.

Pietro si trovava a Pskov e di lì inviava in varie direzioni numerose truppe ad attaccare gli Svedesi. A sconfiggerli non fu uno straniero, ma un russo. Nei pressi di Derpt323, sulle frontiere della Livonia324, il generale Šeremetev325 tolse vari quartieri al generale Slipenbak326 grazie a un’abile manovra e in un secondo tempo sconfisse il generale in persona. Per la prima volta furono conquistate delle bandiere svedesi in numero di quattro, e per quei tempi era molto.

Qualche tempo dopo i laghi Peipus e Ladoga furono teatro di scontri navali; qui gli Svedesi avevano lo stesso vantaggio che sulla terraferma, cioè quello della disciplina e di una lunga esperienza. Malgrado ciò i Russi, sulle loro mezze galere, si batterono talvolta con successo: in uno scontro generale sul lago Peipus il feldmaresciallo Šeremetev catturò una fregata svedese327.

Attraverso il lago Peipus lo zar teneva sotto una continua minaccia la Livonia e l’Estonia; spesso le galere vi sbarcavano vari reggimenti: se il successo non arrideva, tornavano a imbarcarsi, se invece vincevano si manteneva il vantaggio. Due volte gli Svedesi furono battuti328 nei quartieri presso Derpt mentre altrove vincevano dappertutto.

In tutte queste azioni, i Russi avevano sempre la superiorità numerica: è questo il motivo per cui Carlo XII, che altrove combatteva con tanto successo, non si preoccupò mai delle vittorie dello zar; avrebbe dovuto invece considerare che questo gran numero di soldati si agguerriva ogni giorno di più e che avrebbe potuto diventare temibile per se stesso.

Mentre la guerra divampa per terra e per mare329 verso la Livonia, l’Ingria

323 Odierna città di Tartu, in Estonia.324 11 gennaio 1702. (Nota dell’Autore)325 Cfr. nota 33.326 Forse Christoffel Graf von Schlippenbach (1654-1713), generale di cavalleria.327 Maggio. (Nota dell’Autore)328 Giugno e luglio. (Nota dell’Autore)329 Luglio. (Nota dell’Autore)

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e l’Estonia, lo zar viene a sapere che una flotta svedese è stata destinata a distruggere Archangel’sk. Egli marcia a quella volta: tutti stupiscono nel saperlo sulle rive del mar Glaciale mentre lo si credeva a Mosca. Lo zar mette tutto in assetto di difesa, previene l’incursione, traccia di sua mano il progetto di una cittadella chiamata Nuova Dvina, posa la prima pietra, torna a Mosca e di lì verso il teatro della guerra.

Carlo avanza in Polonia, i Russi avanzano nell’Ingria e nella Livonia. Il maresciallo Šeremetev si fa incontro agli Svedesi comandati da Slipenbak, dà battaglia presso il fiumicello Embach330 e vince: prende sedici bandiere e venti cannoni. Nordberg pone questo scontro al primo dicembre 1701, il diario di Pietro il Grande lo colloca al 19 luglio 1702.

Egli avanza e pretende contributi da tutti: conquista la piccola cittadina di Marienburg331 ai confini dell’Ingria e della Livonia. Molte città del Nord portano questo nome, ma questa, sebbene non esista più, è la più famosa di tutte per l’avventura occorsa all’imperatrice Caterina.

Sebbene questa cittadina si fosse arresa a discrezione, gli Svedesi, non si sa se inavvertitamente o a bella posta, appiccarono il fuoco ai magazzini. I Russi irritati distrussero la città e presero prigionieri tutti gli abitanti che trovarono. C’era tra questi una giovane livone cresciuta presso il ministro luterano del luogo, che si chiamava Glück. Ella si trovò tra i prigionieri, ed è la stessa persona che divenne la sovrana di quelli che l’avevano catturata e che governò i Russi col nome di imperatrice Caterina332.

Già in passato si erano viste sul trono delle semplici borghesi: in Russia e in tutti i reami dell’Asia non c’è nulla di più comune che i matrimoni tra i sovrani e le loro suddite. Ma che una straniera presa tra le rovine di una città saccheggiata sia diventata la sovrana assoluta dell’impero in cui fu condotta prigioniera, ecco un fatto che la fortuna e il merito hanno fatto vedere solo in quest’occasione negli annali di questo mondo.

Quanto avvenne in seguito in Ingria non smentì tale successo: la flotta di mezze galere russe del lago Ladoga costrinse quella svedese a ritirarsi a Vyborg, a un’estremità di quel gran lago: di lì poterono assistere, all’altra estremità, all’assedio della fortezza di Noteburg che lo zar fece intraprendere dal generale Šeremetev. Era un’impresa molto più importante di quanto non si supponesse, poiché poteva aprire la comunicazione col mar Baltico, meta costante dei progetti di Pietro.

Noteburg era una poderosa fortezza costruita su un’isola del lago Ladoga che, dominando il lago, conferiva al suo possessore il controllo del corso della Neva che sbocca nel mare. Fu tenuta sotto il tiro delle armi da fuoco notte e giorno dal 18 settembre al 12 ottobre. Finalmente i Russi andarono

330 Nome tedesco dell’Emajõgi.331 6 agosto. (Nota dell’Autore)332 Nel 1702, a Marienburg (che Voltaire scrive Mariembourg, è oggi Aluksne, in Lettonia), fu

arrestata Marta (vero nome di Caterina I; 1683-1727) dall’allora maresciallo Boris Šeremetev che la scelse come amante per un breve periodo dopo il quale la cedette al principe Aleksandr Menšikov. Pietro la sposò in seconde nozze nel 1712 e nel 1714 la fece incoronare solennemente.

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all’assalto per tre brecce. La guarnigione svedese era ridotta a cento soldati non in condizione di difendersi, tuttavia, cosa incredibile, essi si difesero e ottennero sulla breccia stessa una onorevole capitolazione. Inoltre il colonnello Slipenbak, che comandava la piazzaforte, non volle arrendersi333 che a una sola condizione: che gli fosse permesso di far venire dalla fortezza più vicina due ufficiali svedesi per esaminare le brecce e per render conto al re suo signore che ottantatré combattenti, quanti allora ne restavano, e 156 feriti o malati si erano arresi a un intero esercito solo quando era impossibile combattere ancora e mantenere le posizioni. Basta quest’episodio a mostrare con quali nemici lo zar avesse a che fare e quanto necessari fossero stati per lui gli sforzi compiuti e la disciplina militare.

Egli distribuì medaglie d’oro agli ufficiali e ricompensò tutti i soldati, ma ne fece anche punire alcuni che durante un assalto si erano dati alla fuga: i compagni sputarono loro sul volto e poi li finirono con gli archibugi per unire l’onta al supplizio.

Noteburg fu ricostruita, il suo nome fu mutato in Schlusselburg334, città della chiave, perché questa fortezza è la chiave dell’Ingria e della Finlandia. Il primo governatore fu quello stesso Menšikov che era diventato un ottimo ufficiale e che, essendosi distinto durante l’assedio, meritò quest’onore. Il suo esempio incoraggiava chiunque avesse qualche merito pur non essendo di nobili natali.

Dopo questa campagna del 1702, lo zar volle che Šeremetev e tutti gli ufficiali che si erano distinti facessero un ingresso trionfale a Mosca. Tutti i prigionieri fatti in questa campagna marciarono al seguito dei vincitori335; davanti a loro erano portati vessilli e insegne degli Svedesi con la bandiera della fregata catturata sul lago Peipus. Pietro lavorò personalmente ai preparativi della festa, così come aveva partecipato alle imprese che vi si celebravano.

Queste solenni cerimonie erano destinate a ispirare l’emulazione: senza di questo sarebbero state vane. Carlo le disprezzava, e dopo la giornata di Narva disprezzava il nemico, i suoi sforzi e i suoi trionfi.

Capitolo XIII

RIFORMA A MOSCA. NUOVI SUCCESSI. FONDAZIONE DI PIETROBURGO.PIETRO CONQUISTA NARVA…

Il breve soggiorno dello zar a Mosca agli inizi dell’inverno 1703 fu consacrato a mandare a esecuzione tutte le nuove disposizioni e a far progredire la popolazione civile e quella militare: perfino i divertimenti furono consacrati allo scopo di far apprezzare il nuovo genere di vita che

333 16 ottobre. (Nota dell’Autore)334 Nome tedesco di Šlissel’burg.335 17 dicembre. (Nota dell’Autore)

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egli stava introducendo tra i suoi sudditi. Con questa intenzione fece invitare dame e bojardi alle nozze di uno dei suoi buffoni e pretese che tutti si presentassero vestiti secondo l’antica moda. Fu servito un pasto simile a quelli che si facevano nel XVI secolo336. Un’antica superstizione vietava che si accendesse il fuoco in un giorno di nozze, anche durante il freddo più rigido: il giorno della festa quest’abitudine fu scrupolosamente osservata. In passato i Russi non bevevano vino, ma idromele e acquavite: quel giorno lo zar non permise altre bevande; invano ci si lamentava, egli rispondeva scherzosamente: «I nostri avi usavano fare così, le antiche usanze sono sempre le migliori». Questa battuta contribuì molto a far ravvedere quelli che preferivano sempre il passato al presente o, se non altro, servì a screditare le loro mormorazioni: ancor oggi ci sono delle nazioni che avrebbero bisogno di un simile esempio.

Un’iniziativa più utile fu quella di una tipografia in caratteri russi e latini per la quale tutti i macchinari erano stati fatti venire dall’Olanda e in cui si cominciarono a stampare le traduzioni russe di alcune opere riguardanti la morale e le arti. Fergusson fondò delle scuole di geometria, di astronomia e di navigazione337.

Non meno necessaria si rivelò la fondazione di un grande ospedale, non di quegli ospedali che incoraggiano i fannulloni e perpetuano la miseria, ma un ospedale simile a quelli che lo zar aveva visto ad Amsterdam, in cui si fanno lavorare vecchi e bambini e chiunque vi sia ricoverato si rende utile.

Egli fondò parecchie manifatture e, appena ebbe dato il primo impulso a tutte le arti che faceva nascere a Mosca, si precipitò a Voronež e fece impostare due navi da ottanta cannoni con lunghe casse a tenuta stagna sotto l’ossatura della chiglia per sollevare lo scafo e farlo passare senza pericolo al disopra delle lagune e dei banchi di sabbia che si incontrano nei pressi di Azov, invenzione quasi simile a quella di cui ci si serve in Olanda per passare il Pampus338.

Avendo predisposto l’impresa contro i Turchi, vola di nuovo339 contro gli Svedesi e va a visitare le navi che faceva costruire nei cantieri di Olonec, tra il lago Ladoga e l’Onega. In questa città egli aveva delle fabbriche di armi: tutto qui parlava di guerra mentre a Mosca faceva prosperare le arti della pace. Una sorgente di acqua minerale che fu scoperta in seguito a Olonec ne accrebbe la celebrità. Da Olonec si recò a fortificare Schlusselburg.

336 Tratto dal diario di Pietro il Grande. (Nota dell’Autore)337 Pietro I aveva emanato un ukase (editto) il 24 febbraio 1708 affinché fosse trasportata

dall’Olanda in Russia una tipografia slavone, ma l’invio fu fermato a Danzica da Carlo XII (che l’impiegò per stampare falsi ordini alle frontiere). L’impresa fu possibile nel 1711 e a Pietroburgo si cominciarono a stampare prima gli ukase imperiali e, dopo qualche tempo, i libri. Per Fergusson, cfr. nota 273.

338 Si tratta del camello, o cammello, inventato ad Amsterdam nel 1688 da Meeuwis Meindertsz Bakker. È un sistema di galleggiamento formato da due serbatoi esterni – uno per fianco, opportunamente sagomati e agganciati allo scafo – che, svuotati dell’acqua contenuta, si alzano sulla superficie, sollevando la nave, permettendole così di superare i bassi fondali.

339 30 marzo 1703. (Nota dell’Autore)

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Si è già detto che aveva voluto passare per tutti i gradi militari: era luogotenente dei bombardieri sotto il principe Menšikov prima che quel favorito fosse stato eletto governatore di Schlusselburg. Allora prese i gradi di capitano e prestò servizio sotto il maresciallo Šeremetev.

Nei pressi del lago Ladoga e vicino alla Neva c’era un’importante fortezza chiamata Niantz o Nya340. Per consolidare le conquiste e facilitare l’esecuzione dei suoi progetti, occorreva conquistarla. Si dovette assediarla dalla parte di terra e impedire che le giungessero soccorsi per via d’acqua. Lo zar si assunse personalmente il compito di condurre delle barche cariche di soldati e di impedire l’accesso ai convogli svedesi. Šeremetev prese il comando delle trincee: la cittadella si arrese341. Due navi svedesi abbordarono troppo tardi per portarle soccorso: lo zar le attaccò con le sue barche e le catturò. Il suo diario racconta che per ricompensa di quest’atto «il capitano dei bombardieri342 fu creato cavaliere dell’ordine di Sant’Andrea dall’ammiraglio Golovin, primo cavaliere dell’ordine».

Dopo la presa della fortezza di Nya egli risolse alfine di costruire la sua città di Pietroburgo alla foce della Neva, sul golfo di Finlandia.

Le sorti del re Augusto precipitavano: le ripetute vittorie degli Svedesi in Polonia avevano fatto imbaldanzire il partito avverso e perfino i suoi amici l’avevano costretto a rimandare allo zar circa 20.000 russi che rafforzavano il suo esercito. Pensavano che questo sacrificio avrebbe tolto agli scontenti il pretesto di passare dalla parte del re di Svezia, ma i nemici si disarmano solo con la forza mentre la debolezza li incoraggia. Quei 20.000 uomini addestrati da Patkul furono utili nella Livonia e nell’Ingria, mentre Augusto perdeva i suoi possedimenti. Questi rinforzi e soprattutto il possesso di Nya permisero allo zar di fondare la nuova capitale.

Fu dunque su quel terreno deserto e acquitrinoso, comunicante con la terraferma per una sola via, che egli gettò343 le prime fondamenta di Pietroburgo, a 60° di latitudine e 44° e mezzo di longitudine. Le prime pietre della fondazione furono le rovine di alcuni bastioni di Nya. Dapprima fu innalzato un piccolo forte in una delle isole che si trovano oggi al centro della città. Gli Svedesi non si curavano di quelle costruzioni sorte in mezzo a una palude dove le grandi navi non potevano attraccare, ma ben presto videro estendersi le fortificazioni, sorgere una città e alfine l’isolotto di Kronštadt, che fronteggia la città, diventare nel 1704 una fortezza imprendibile sotto i cui cannoni si possono riparare le flotte più numerose.

Queste opere che sembrano richiedere tempi di pace, venivano eseguite in tempo di guerra e, da Mosca, da Astrachan’, da Kazan’, dall’Ucraina, operai di ogni genere venivano a lavorare alla nuova città. Gli ostacoli posti dalla natura del terreno che occorreva rassodare e innalzare, la lontananza dei soccorsi, le difficoltà impreviste che sorgevano a ogni passo in ogni

340 Quasi sicuramente Naz’ja.341 12 maggio. (Nota dell’Autore)342 Cioè lo stesso Pietro.343 27 maggio 1703, giorno della Pentecoste, fondazione di Pietroburgo. (Nota dell’Autore) –

Il 27 maggio corrispondeva al 16 maggio del calendario giuliano.

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genere di lavoro e per finire le malattie epidemiche che portarono via un numero incredibile di operai, nulla valse a scoraggiare il fondatore: egli ebbe la sua città nel giro di cinque anni. Non era che un gruppo di capanne con due edifici in mattoni, il tutto circondato da spalti, ma per il momento era tutto ciò che occorreva: il tempo e la costanza hanno fatto il resto. Pietroburgo non era sorta ancora da cinque mesi che una nave olandese vi andò a trafficare344; il capitano ebbe delle gratificazioni e gli Olandesi fecero presto a imparare la strada di Pietroburgo.

Mentre dirige questa colonia, Pietro la rende ogni giorno più sicura mediante la conquista dei forti vicini. Un colonnello svedese chiamato Croniort345 si era attestato sul fiume Sestra e minacciava la città nascente. Pietro si affretta ad andargli incontro346 con i suoi due reggimenti di guardie, lo batte e lo costringe a ripassare il fiume. Avendo provveduto alla sicurezza della sua città, si reca ad Olonec a ordinare la costruzione di parecchie piccole navi, e ritorna a Pietroburgo347 su una fregata che ha fatto costruire assieme a sei navi da trasporto, in attesa che siano pronte le altre.

In quello stesso periodo continua a tendere la mano al re di Polonia: gli invia348 12.000 soldati di fanteria e un sussidio di 300.000 rubli che equivalgono a più di un milione e mezzo dei nostri franchi. Già abbiamo detto che le sue entrate ammontavano soltanto a circa cinque milioni di rubli: le spese per le flotte, per l’esercito e per tutte le nuove opere dovevano essere un peso gravoso. Quasi contemporaneamente aveva fortificato Novgorod, Pskov, Smolensk, Azov, Archangel’sk, e stava fondando una capitale. Eppure gli restava ancora di che aiutare l’alleato con uomini e denaro. Secondo quanto riferisce l’olandese Cornelis de Bruyn349, che viaggiava a quei tempi attraverso la Russia e col quale Pietro si intrattenne, come faceva con tutti gli stranieri, lo zar gli disse di aver ancora nei suoi forzieri una rimanenza di 300.000 rubli dopo aver provveduto a tutte le spese della guerra. Per mettere al sicuro la nascente città di Pietroburgo, egli si reca di persona a scandagliare la profondità del mare, stabilisce il punto dove innalzare il forte di Kronštadt, ne fa un modellino in legno e lascia a Menšikov l’incarico di far eseguire il lavoro secondo il suo modello. Di lì va a passare l’inverno a Mosca350 per consolidare sensibilmente tutti i cambiamenti che ha introdotto nelle leggi, nei costumi e nelle usanze. Egli disciplina le finanze e vi mette nuovo ordine, sollecita l’esecuzione delle

344 Novembre. (Nota dell’Autore)345 Nel libro di Alexander Gordon di Auchintouli (1669–1752; generale di Pietro I fino al 1711

e genero di Patrick Gordon, cfr. nota 221), The history of Peter the Great, Emperor of Russia, pubblicato nel 1755, il nome è Cronsort. ed è indicato come maggiore generale.

346 9 luglio. (Nota dell’Autore)347 Settembre. (Nota dell’Autore)348 Novembre. (Nota dell’Autore)349 Cornelis de Bruijn o Bruyn (1652-1726/27), pittore e scrittore olandese, compì due lunghi

viaggi, nel secondo dei quali (1701-1708) attraversò la Russia da Archandel’sk al mar Caspio. Su questo viaggio pubblicò il libro Viaggio in Moscovia, Persia e Indie Occidentali nel 1711, subito tradotto in francese e in inglese.

350 5 novembre. (Nota dell’Autore)

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opere iniziate sul Voronež, ad Azov, in un porto che faceva costruire sulla Palude Meotide sotto la fortezza di Taganrog351.

La Porta352 allarmata gli spedì353 un ambasciatore per protestare contro tutti quei preparativi: egli rispose che nel suo Stato era il padrone come il Gran signore nel suo, e che rendere rispettabile la Russia sul Ponto Eusino non significava violare la pace.

Tornato a Pietroburgo354, trovò la nuova cittadella di Kronštadt fondata in mezzo al mare e finita: la rifornì di artiglieria. Per affermarsi nell’Ingria e rimediare completamente al rovescio subito davanti a Narva, era necessario prendere finalmente quella città. Mentre fa i preparativi dell’assedio, una piccola flotta di brigantini svedesi fa la sua comparsa sul lago Peipus per contrastare i suoi piani. Le galere russe le si fanno incontro e la catturano tutta: portava novantotto cannoni. Allora355 si stringe d’assedio Narva per terra e per mare; la cosa più interessante è che contemporaneamente viene assediata la città di Derpt in Estonia.

A Derpt, cosa incredibile, c’era un’università. Era stata fondata da Gustavo Adolfo, e non era servita a rendere più celebre la città. Derpt è famosa soltanto per il periodo dei due assedi. Pietro fa ininterrottamente la spola dall’uno all’altro per sollecitare gli attacchi e dirigere tutte le operazioni. Il generale svedese Slipenbak si trovava a Derpt con circa 2.500 uomini.

Gli assediati aspettavano il momento in cui avrebbe portato soccorso alla fortezza. Pietro immaginò uno stratagemma di guerra che non è abbastanza sfruttato. Egli fa distribuire a due reggimenti di fanteria e a uno di cavalleria uniformi, stendardi e bandiere svedesi. I presunti Svedesi attaccano le trincee. I Russi fingono di darsi alla fuga; la guarnigione, tratta in inganno dalle apparenze, tenta una sortita356: a questo punto i finti assaltori e gli assaliti si riuniscono e piombano sulla guarnigione: metà è sterminata e l’altra metà rientra in città. Poco dopo arriva effettivamente Slipenbak con i soccorsi ed è completamente sconfitto. Finalmente Derpt è costretta a capitolare357, nel momento in cui Pietro stava per dare l’assalto generale.

Un rovescio abbastanza importante che lo zar subisce nello stesso tempo sulla strada della nuova città di Pietroburgo non gli impedisce di continuare la costruzione della sua città né di sollecitare l’assedio di Narva.

Come si è detto, aveva inviato truppe e denaro al re Augusto che era sul punto di essere detronizzato; i due aiuti furono egualmente inutili. I Russi, uniti ai Lituani del partito di Augusto, furono completamente sconfitti in

351 Sull’originale Taganroc.352 Costantinopoli.353 Gennaio 1704. (Nota dell’Autore)354 30 marzo. (Nota dell’Autore)355 Aprile. (Nota dell’Autore)356 27 giugno. (Nota dell’Autore)357 23 luglio. (Nota dell’Autore)

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Curlandia358 dal generale svedese Levenhaupt359. Se i vincitori avessero concentrato i loro sforzi sulla Livonia, l’Estonia e l’Ingria, avrebbero potuto rendere vani tutti gli sforzi dello zar e fargli perdere il frutto delle sue grandi imprese. Pietro minava ogni giorno di più gli avamposti della Svezia, e Carlo non faceva abbastanza per impedirglielo: egli perseguiva una gloria meno utile e più brillante.

Sin dal 12 luglio 1704, nel campo d’elezione chiamato Kolo, nei pressi di Varsavia, un semplice colonnello svedese a capo di un distaccamento aveva fatto eleggere dalla nobiltà polacca un nuovo re.

Ad onta di tutte le minacce e le scomuniche del pontefice, un primate del regno e vari vescovi si assoggettarono alla volontà di un principe luterano: tutto soccombeva alla forza. Nessuno ignora come fu fatta l’elezione di Stanislao Leszczyński, e come Carlo XII lo fece riconoscere in gran parte della Polonia360.

Pietro non abbandonò il re detronizzato, ma raddoppiò gli aiuti via via che le sue disgrazie aumentavano e mentre il nemico faceva dei re, egli batteva separatamente i generali svedesi in Estonia e nell’Ingria, correva all’assedio di Narva e predisponeva gli assalti. C’erano tre bastioni celebri se non altro per il nome: erano chiamati Vittoria, Onore e Gloria. Lo zar li espugnò tutti con la spada in pugno. Gli assediati entrano nella città, la saccheggiano e vi esercitano tutte quelle crudeltà che erano anche troppo frequenti tra Russi e Svedesi.

Pietro dette allora un esempio destinato a cattivargli i cuori dei nuovi sudditi361: egli corre da ogni parte per fermare il saccheggio e il massacro, strappa le donne dalle mani dei suoi soldati e, avendo ucciso due di quei forsennati che non obbedivano ai suoi ordini, entra nel municipio dove i cittadini si accalcavano per rifugiarsi e qui, posando sulla tavola la spada lorda di sangue: «Non del sangue dei cittadini – dice – è tinta questa spada, ma del sangue dei miei soldati che ho versato per salvarvi la vita».

Capitolo XIV362

TUTTA L’INGRIA RIMANE IN MANO A PIETRO IL GRANDE MENTRE CARLO XII TRIONFA SU TUTTI GLI ALTRI FRONTI. ASCESA DI MENŠIKOV. PIETROBURGO AL SICURO. PROGETTI

358 31 luglio. (Nota dell’Autore)359 Il generale svedese Adam Ludwig Levenhaupt (o Lewenhaupt; (1659–1719) vinse i Russi

nel luglio 1705 a Gemauerthof (ma fu una vittoria simbolica perché in agosto la Curlandia fu riconquistata). In seguito fu sconfitto dai Russi nelle battaglie di Lesnaja (1708) e di Poltava (1709), dove fu fatto prigioniero e tenuto a Mosca fino alla morte.

360 Dopo la disfatta subita da Augusto II, Stanislao Leszczyński (1677-1766), nobile polacco, riuscì a firmare la pace con Carlo XII, il quale appoggiò la sua candidatura a re di Polonia proposta dalla Francia (Stanislao era suocero di Luigi XV). La Dieta di Varsavia nominò re Stanislao il 12 luglio 1704.

361 20 agosto. (Nota dell’Autore)362 I capitoli precedenti e tutti i successivi sono stati tratti dal diario di Pietro il Grande e dalle

relazioni inviatemi da Pietroburgo, confrontate con tutte le altre. (Nota dell’Autore)

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SEMPRE REALIZZATI MALGRADO LE VITTORIE DI CARLO

Padrone di tutta l’Ingria, Pietro ne affidò il governo a Menšikov e gli conferì il titolo di principe e il grado di generale maggiore. Altrove, l’orgoglio e i pregiudizi avrebbero potuto trovar da ridire che un garzone pasticciere363 diventasse generale, governatore e principe, ma Pietro aveva da tempo abituato i suoi sudditi a non stupirsi se vedevano accordare tutto al merito e nulla alla sola nobiltà, Menšikov, tratto dalla sua primitiva condizione sin dall’infanzia grazie ad un caso fortunato che lo aveva fatto entrare nella casa dello zar, aveva imparato varie lingue, era diventato esperto nel commercio e nelle armi e avendo cominciato col rendersi bene accetto al suo signore, seppe poi rendersi necessario.

Egli sollecitava i lavori di Pietroburgo; già si stavano costruendo parecchie case di pietra e mattoni, un arsenale e dei magazzini; erano completate le fortificazioni, mentre i palazzi vennero soltanto in seguito.

Pietro si era appena insediato a Narva che già offriva nuovi soccorsi al deposto re di Polonia: oltre ai 12.000 uomini già inviati, gli promise ancora delle truppe ed effettivamente fece partire364 per le frontiere della Lituania il generale Repnin con 6.000 uomini di fanteria e 6.000 di cavalleria. Non perdeva di vista un solo istante la colonia di Pietroburgo: la città stava sorgendo, la marina aumentava; nei cantieri di Olonec si costruivano vascelli e fregate: egli vi si recò per farli terminare e li portò a Pietroburgo365.

Ognuno dei suoi ritorni a Mosca era contrassegnato da un’entrata trionfale: quell’anno vi tornò366 nello stesso modo e ripartì soltanto per andare a far varare la prima nave da ottanta cannoni di cui aveva stabilito le dimensioni l’anno precedente sul Voronež.

Non appena fu possibile dare inizio alla campagna in Polonia367, si trasferì presso l’esercito che aveva inviato sulle frontiere della Lituania in soccorso di Augusto, ma mentre aiutava così l’alleato, una flotta svedese avanzava per distruggere Pietroburgo e Kronštadt appena costruite. Era formata da ventidue vascelli che portavano da 54 a 64 cannoni ciascuno, sei fregate, due galeotte da bombe e due brulotti368. Le truppe da trasporto sbarcarono nell’isolotto di Kotlin. Un colonnello russo di nome Tolbuchin, fatto sdraiare il suo reggimento ventre a terra durante lo sbarco degli Svedesi sulla riva369, lo fece alzare in piedi all’improvviso, e il fuoco fu così nutrito e così diretto che gli Svedesi furono ricacciati e costretti a ritirarsi sulle navi,

363 Pasticciere era, sembra, il padre di Menšikov.364 19 agosto 1704. (Nota dell’Autore)365 11 ottobre. (Nota dell’Autore)366 30 dicembre. (Nota dell’Autore)367 Maggio 1705. (Nota dell’Autore)368 Il brulotto è una barca di piccole dimensioni, caricata con esplosivo o materiali

infiammabili, che veniva diretta sulle navi nemiche per incendiarle o farle esplodere.369 17 giugno. (Nota dell’Autore) – Sull’originale il colonnello russo è Tolboguin, ma è Fedot

Semënovič Tolbuchin, al quale fu dedicato, dalla metà del Settecento, il faro di Kotlin a nord-ovest di Kronštadt.

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abbandonando i morti e lasciando 300 prigionieri.Ma la flotta restava sempre nei paraggi e minacciava Pietroburgo. Essi

tentarono un altro sbarco e ancora una volta furono respinti. Delle truppe di terraferma avanzavano da Vyborg agli ordini del generale svedese Maydell370 e marciavano alla volta di Schlusselburg: era la più grande azione che Carlo XII avesse mai tentato contro gli Stati conquistati o creati da Pietro. Gli Svedesi furono ricacciati da ogni parte371 e Pietroburgo restò tranquilla.

Pietro da parte sua avanzava verso la Curlandia e voleva penetrare fino a Riga. Il suo piano era di prendere la Livonia mentre Carlo XII finiva di sottomettere la Polonia al nuovo re che le aveva dato. Lo zar era ancora a Vilna372, in Lituania, e il maresciallo Šeremetev si andava avvicinando a Mitau373, capitale della Curlandia, quando trovò il generale Levenhaupt, già celebre per più di una vittoria. Fu data battaglia campale in una località chiamata Gemavershof o Gemavers374.

In casi come questi, in cui contano soprattutto l’esperienza e la disciplina, gli Svedesi, sebbene numericamente inferiori, avevano sempre la meglio. I Russi furono completamente sconfitti e tutta la loro artiglieria fu presa375. Pietro, dopo tre battaglie perdute in questo modo, rimediava regolarmente alle perdite e ne ricavava persino dei vantaggi.

Dopo la giornata di Gemavers egli marcia in forze alla volta della Curlandia, arriva di fronte a Mitau, si impossessa della città, assedia la cittadella e vi penetra dopo averla costretta alla capitolazione376.

A quei tempi le truppe russe godevano fama di consacrare ogni successo col saccheggio, usanza fin troppo antica di tutte le nazioni. In occasione della presa di Narva, Pietro aveva a tal punto trasformato quest’usanza che nel castello di Mitau i soldati russi incaricati di montare la guardia ai sotterranei dove erano inumati i granduchi di Curlandia, vedendo che le salme erano stare tratte fuori dai rispettivi sepolcri e spogliate degli ornamenti, si rifiutarono di prenderle in consegna e pretesero che si facesse prima venire un colonnello svedese a ispezionare le condizioni del luogo. Infatti ne venne uno e rilasciò loro un certificato nel quale riconosceva che autori del danno erano stati gli Svedesi.

La voce della disfatta totale dello zar alla giornata di Gemavers, che corse per tutto l’impero, gli fece ancora più torto della battaglia vera e propria. Un gruppo superstite di strel’cy di guarnigione ad Astrachan’ a questa falsa notizia trovò l’ardire di ribellarsi; essi trucidarono il governatore della città, e lo zar fu costretto a inviare il maresciallo Šeremetev con alcune truppe per sottometterli e punirli.

370 Sull’originale Meidel. Georg Johan Maydell (1648-1710) era maggiore generale della cavalleria svedese.

371 25 giugno. (Nota dell’Autore)372 O Vilnius.373 Sull’originale Mittau. È il nome tedesco di Jelgava, in Lettonia. 374 È Gemauerthof. La battaglia fu combattuta il 15/26 luglio 1705.375 28 luglio. (Nota dell’Autore)376 14 settembre. (Nota dell’Autore)

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Tutto cospirava contro di lui. La fortuna e il valore di Carlo XII, i rovesci di Augusto, la forzata neutralità della Danimarca, le ribellioni degli ex-strel’cy, le mormorazioni di un popolo che della riforma sentiva allora solo i disagi e non l’utilità, il malcontento dei grandi sottoposti alla disciplina militare, il dissesto delle finanze, nulla scoraggiò Pietro un solo istante; egli soffocò la rivolta e dopo aver messo al sicuro l’Ingria ed essersi assicurato il possesso della cittadella di Mitau, a onta del vincitore Levenhaupt che non aveva truppe a sufficienza per opporglisi, attraversò liberamente la Samogizia e la Lituania.

Egli divideva con Carlo XII la gloria di dominare in Polonia. Avanzò fino a Tykocin. Colà incontrò il re Augusto per la seconda volta, lo consolò della sua sfortuna, gli promise di vendicarlo, gli fece dono di alcuni vessilli strappati da Menšikov ad alcune bande del rivale; poi si recarono a Grodno, capitale della Lituania, dove rimasero fino al 14 dicembre. Partendo377, Pietro gli lasciò del denaro e un esercito e, dopo aver sostenuto una difficilissima campagna, andò a passare una parte dell’inverno a Mosca, come era sua abitudine, per favorire lo sviluppo delle arti e delle leggi.

Capitolo XV

MENTRE PIETRO MANTIENE LE CONQUISTE E CIVILIZZA IL REGNO, IL SUO NEMICO CARLO XII VINCE ALCUNE BATTAGLIE, DOMINA IN POLONIA E IN SASSONIA. AUGUSTO, MALGRADO UNA VITTORIA DEI RUSSI, SI SOTTOMETTE AL VOLERE DI CARLO XII. EGLI

RINUNCIA ALLA CORONA E CONSEGNA PATKUL, AMBASCIATORE DELLO ZAR; UCCISIONE DI PATKUL CONDANNATO AL SUPPLIZIO DELLA RUOTA

Pietro era appena arrivato a Mosca quando seppe che Carlo XII, vittorioso su tutti i fronti, avanzava alla volta di Grodno per affrontare il suo esercito. Il re Augusto era stato costretto a fuggire da Grodno e si ritirava precipitosamente verso la Sassonia con quattro reggimenti di dragoni russi: in questo modo egli indeboliva l’esercito del protettore e lo demoralizzava con la propria ritirata. Lo zar trovò tutte le strade che portavano a Grodno controllate dagli Svedesi e l’esercito disperso.

Mentre con estrema difficoltà riuniva le sue forze in Lituania, il celebre Schulenburg, ultima risorsa di Augusto, che doveva in seguito coprirsi di gloria difendendo Corfù contro i Turchi378, avanzava alla volta della grande Polonia con circa 12.000 Sassoni e 6.000 Russi presi dalle truppe che lo zar aveva affidato allo sfortunato principe. Schulenburg nutriva fondate speranze di risollevare le sorti di Augusto. Egli sapeva che in quel momento Carlo XII era occupato verso la Lituania: non c’erano che 10.000 Svedesi

377 30 dicembre 1705. (Nota dell’Autore)378 Johann Mathias conte di Schulenburg (o Schulenberg; 1661-1747), che durante la guerra

nordica era con i Sassoni contro Carlo XII perdendo a Klissow e Wschowa (o Fraustadt), passò al servizio di Venezia nel 1715 e l’anno seguente si distinse alla presa di Corfù.

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all’incirca, agli ordini del generale Rehnskiöld379, che potessero contrastargli il cammino. Egli avanzava dunque fiducioso verso le frontiere della Slesia, che funge da varco tra la Sassonia e l’alta Polonia. Quando fu nei pressi del borgo di Fraustadt, sulle frontiere polacche, si incontrò col maresciallo Rehnskiöld che veniva a dar battaglia.

Per quanto io cerchi di non riferire quello che ho già detto nella Storia di Carlo XII, a questo punto sono costretto a ripetere che nell’esercito sassone c’era un reggimento francese il quale, essendo stato fatto prigioniero in blocco alla famosa battaglia di Hochstadt380, era stato costretto a prestare servizio nell’esercito sassone. Le mie relazioni dicono che gli era stata affidata la sorveglianza dell’artiglieria e aggiungono che questi Francesi, abbagliati dalla gloria di Carlo XII e scontenti del servizio in Sassonia, non appena furono in vista del nemico381 gettarono le armi e chiesero di passare agli Svedesi, con i quali prestarono effettivamente servizio fino al termine della guerra. Fu quello l’inizio e il segnale di una completa disfatta. Si salvarono meno di tre battaglioni russi, e per giunta i soldati scampati erano feriti; tutti gli altri furono uccisi senza che si desse quartiere a nessuno. Il cappellano Nordberg pretendeva che in quella battaglia la parola d’ordine degli Svedesi fosse «nel nome di Dio» e quella dei Russi «massacrate tutti»; in realtà furono gli Svedesi a massacrare tutti nel nome di Dio. Lo zar stesso assicura in uno dei suoi manifesti382 che molti prigionieri russi, cosacchi e calmucchi furono uccisi tre giorni dopo la battaglia. Le truppe irregolari dei due eserciti avevano abituato i generali a simili crudeltà, neppure ai tempi dei barbari ne furono commesse di peggiori. Il re Stanislao mi ha fatto l’onore di dirmi che durante una di quelle battaglie così frequenti in Polonia, uno degli ufficiali russi, dopo la disfatta del corpo ai suoi ordini, andò a mettersi sotto la sua protezione, e che il generale svedese Stenbock lo freddò tra le sue braccia con un colpo di pistola.

Ecco dunque quattro battaglie perdute dai Russi contro gli Svedesi, senza contare le altre vittorie di Carlo XII in Polonia. Le truppe dello zar, che si trovavano a Grodno, correvano il rischio di subire un rovescio ancora più grave e di essere accerchiate da tutte le parti: fortunatamente egli riuscì a raccoglierle e persino ad aumentarle; occorreva provvedere a un tempo alla sicurezza dell’esercito e a quella delle conquiste nell’Ingria. Egli fece avanzare l’armata, agli ordini del principe Menšikov, verso oriente e di lì verso mezzogiorno fino a Kiev.

Durante la sua marcia383, lo zar si reca a Schlusselburg, a Narva, alla colonia di Pietroburgo, dovunque prende misure di sicurezza e dalle rive del mar Baltico corre a quelle del Boristene per tornare in Polonia attraverso la

379 Carl Gustav Rehnskiöld (1651-1722) era consigliere e secondo generale dopo re Carlo XII. Dopo la vittoria a Fraustadt, fu sconfitto a Poltava e imprigionato dai Russi fino al 1718.

380 Presso Hochstadt, in Baviera, Eugenio di Savoia e il duca di Marlborough sconfissero Francesi e Bavaresi togliendo alla Francia la Germania meridionale (13 agosto 1704).

381 6 febbraio. (Nota dell’Autore)382 Manifesto dello zar in Ucraina del 1709. (Nota dell’Autore)383 Agosto. (Nota dell’Autore)

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provincia di Kiev, sempre cercando di rendere inutili quelle vittorie di Carlo XII che non era riuscito a impedire; anzi preparava già una nuova conquista, quella di Vyborg sul golfo di Finlandia, capitale della Carelia. La cinse d’assedio384, ma stavolta la città resistette alle sue armi, i soccorsi giunsero al momento opportuno ed egli tolse l’assedio. Il suo rivale Carlo XII vincendo le battaglie non faceva nessuna conquista effettiva; in quel momento egli braccava il re Augusto in Sassonia, ma si preoccupava più di umiliare il principe e di schiacciarlo sotto il peso della sua gloria e della sua potenza, che di riprendere l’Ingria a un nemico vinto che gliel’aveva tolta.

Carlo seminava il terrore nell’alta Polonia, in Slesia, e in Sassonia: i familiari del re Augusto, la madre, la moglie, il figlio e le principali famiglie del Paese si rifugiavano nel cuore dell’impero. Augusto implorava la pace: egli preferiva rimettersi a discrezione del vincitore che nelle braccia del protettore. Stava conducendo i negoziati per un trattato che lo privava della corona di Polonia e lo copriva di vergogna. Questo trattato era segreto; occorreva tenere all’oscuro i generali dello zar, con i quali egli era come rifugiato in Polonia mentre Carlo XII dettava legge a Lipsia e regnava in tutto il suo elettorato. Era già stato firmato385 dai suoi plenipotenziari il fatale trattato in virtù del quale rinunciava alla corona di Polonia, prometteva di non assumere mai il titolo di re di quel Paese, riconosceva Stanislao, rinunciava all’alleanza con lo zar, suo benefattore, e per colmo d’umiliazione si impegnava a consegnare nelle mani di Carlo XII l’ambasciatore dello zar, Johann Reinhold Patkul, generale dell’esercito russo, che combatteva in sua difesa. Qualche tempo prima aveva fatto arrestare Patkul sulla base di falsi sospetti e in spregio al diritto delle genti, e contro quello stesso diritto delle genti lo consegnava al nemico. Era preferibile morire con le armi in pugno piuttosto che sottoscrivere un simile trattato: non solo egli perdeva la corona e la gloria, ma rischiava la sua stessa libertà poiché in quel momento si trovava in Posnania386, in potere del principe Menšikov, e i pochi Sassoni che aveva allora con sé ricevevano il soldo dalle casse dei Russi.

In quel settore il principe Menšikov aveva di fronte un esercito svedese con dei rinforzi polacchi del partito del nuovo re Stanislao, agli ordini del generale Meyerfeldt387. Ignorando che Augusto era allora in trattative col nemico, gli propose di attaccarlo. Augusto non osò rifiutare: la battaglia fu combattuta nei pressi di Kalish388, nello stesso palatinato del re Stanislao, e fu la prima battaglia campale vinta dai Russi contro gli Svedesi. Al principe Menšikov andò la gloria: i nemici ebbero 4.000 morti e 2.598 prigionieri.

È difficile capire come Augusto, dopo questa vittoria, abbia potuto

384 Ottobre. (Nota dell’Autore)385 14 settembre. (Nota dell’Autore)386 Provincia orientale della Prussia.387 Johan August Meijerfeldt (1664-1749) partecipò a tutte le campagne di Carlo XII,

compresa quella – da lui osteggiata – di Poltava. Fedele al re, lo seguì nell’esilio di Bender e nel 1713 fu nominato governatore generale della Pomerania svedese.

388 19 ottobre. (Nota dell’Autore)

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ratificare un trattato che gliene toglieva tutti i vantaggi, ma Carlo era in Sassonia ed era onnipotente; tale era il terrore ispirato dal suo nome, così scarso affidamento si faceva sui successi da parte russa, il partito polacco avverso ad Augusto era così forte e per finire Augusto era così mal consigliato che sottoscrisse quel funesto trattato. E non si limitò a questo. Non contento, scrisse al suo inviato Finkstein389 una lettera ancor più penosa del trattato stesso, nella quale si scusava della sua vittoria «assicurando che la battaglia si era fatta suo malgrado, che i Russi e i Polacchi del suo partito ve lo avevano costretto, che con quell’intento egli aveva preso delle misure per abbandonare Menšikov, che Meyerfeldt cogliendo l’occasione avrebbe potuto sconfiggerlo, che prometteva di restituire tutti i prigionieri svedesi e di rompere con i Russi, e finalmente che avrebbe dato al re di Svezia giusta soddisfazione per aver osato sconfiggere le sue truppe.

Tutto ciò è inaudito, inconcepibile, eppure è la pura verità. Se si pensa che malgrado questa debolezza Augusto era uno dei più valorosi principi d’Europa, si vede che è solo la forza d’animo quella che fa perdere o conservare gli Stati, che li innalza o li fa decadere.

Due episodi portarono al culmine la sfortuna del re di Polonia ed elettore di Sassonia e l’abuso che Carlo XII faceva della propria fortuna: il primo fu una lettera di congratulazioni che Augusto, costretto da Carlo, scrisse al nuovo re Stanislao390. Il secondo fu atroce: allo stesso Augusto fu imposto di consegnare Patkul, che era ambasciatore e generale dello zar. L’Europa sa fin troppo bene che in seguito, nel settembre 1707, quel ministro fu suppliziato vivo sulla ruota a Kazimierz391. Il cappellano Nordberg ammette che tutti gli ordini per quell’esecuzione furono scritti da Carlo di suo pugno.

Non c’è giureconsulto in Europa, non c’è nessuno, nemmeno tra gli schiavi, che non senta tutto l’orrore di questa barbara ingiustizia. La colpa più grave di quell’infelice era di aver fatto presente con il massimo rispetto i diritti della propria patria in qualità di capo di sei gentiluomini livoni che rappresentavano tutto lo Stato. Condannato per aver adempiuto il primo dei doveri, quello di servire il proprio Paese secondo le leggi, quest’iniqua sentenza l’aveva messo nel pieno diritto naturale che ogni uomo ha di scegliersi una patria. Divenuto ambasciatore di uno dei più grandi monarchi del mondo, la sua persona era sacra. Il diritto del più forte violò in lui il diritto naturale e quello delle nazioni. Un tempo il lustro della gloria nascondeva simili crudeltà, oggi ne è offuscato.

389 Quasi sicuramente Albrecht Konrad von Finck Reinhold Finckenstein (1660-1735), feldmaresciallo e statista prussiano.

390 La lettera è riportata nella Storia di Carlo XII (libro III): «Mio Signore e Fratello. Come io devo avere del riguardo alle preghiere del Re di Svezia, così io non posso trattenermi di felicitare Vostra Maestà per il suo arrivo alla Corona; benché forse il Trattato vantaggioso, che il Re di Svezia ha concluso per Vostra Maestà, m’avesse dovuto dispensare da questo commerzio: tuttavia io felicito Vostra Maestà; pregando Iddio per i vostri Sudditi vi sieno più fedeli di quello, che sono stati a me. AUGUSTO RE. Lipsia 8. Aprile 1707.»

391 Patkul fu sottoposto alla tortura della ruota e alla successiva decapitazione il 10 ottobre 1707 (calendario gregoriano) nel borgo di Kazimierz Biskupi (che Voltaire scrive “Casimir”). Alcune ricostruzioni russe parlano di squartamento anziché decapitazione.

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Capitolo XVI

Si VUOLE ELEGGERE UN TERZO RE DI POLONIA. CARLO XII PARTE DALLA SASSONIA CON UN FIORENTE ESERCITO E ATTRAVERSA LA POLONIA DA VINCITORE. CRUDELTÀ E

CONDOTTA DELLO ZAR. SUCCESSI DI CARLO XII CHE FINALMENTE AVANZA VERSO LA RUSSIA.

Ad Altranstädt, nei pressi di Lipsia, Carlo XII coglieva il frutto dei suoi successi. I principi protestanti dell’impero germanico venivano in folla a rendergli omaggio e a mettersi sotto la sua protezione. Quasi tutte le potenze gli inviavano ambascerie. L’imperatore Giuseppe I392 esaudiva tutti i suoi desideri. Pietro allora, vedendo che il re Augusto aveva rinunciato alla sua protezione e che una parte della Polonia riconosceva Stanislao, prestò ascolto alle proposte di Yolkova miranti a far eleggere un terzo re393.

In una Dieta tenuta a Lublino furono proposti diversi principi palatini: allora si mise in lizza il principe Rákóczi394. Era quello stesso principe Rákóczi che in gioventù era stato lungamente prigioniero dell’imperatore Leopoldo e che in seguito, riconquistata la libertà, gli aveva conteso il trono di Ungheria. I negoziati arrivarono molto avanti e poco mancò che non si vedessero sul trono di Polonia tre sovrani nello stesso tempo. Dopo l’insuccesso del principe Rákóczi, Pietro volle mettere sul trono il gran generale della repubblica Siniavski395, uomo potente, accreditato, capo di un terzo partito che non riconosceva né il deposto Augusto né Stanislao eletto da un partito avverso.

Nel mezzo di questi disordini, come sempre, si parlò di pace. Buzenval, incaricato di Francia in Sassonia, si intromise per riconciliare lo zar e il re di Svezia. A quel tempo la corte di Francia pensava che Carlo, non avendo più da combattere né Russi né Polacchi, avrebbe rivolto le armi contro l’imperatore Giuseppe di cui era scontento e al quale durante il soggiorno in Sassonia aveva imposto dure condizioni; ma Carlo rispose che avrebbe trattato la pace con lo zar a Mosca. È in quell’occasione che lo zar disse: «Il mio fratello Carlo vuol fare l’Alessandro, ma non sarò io il suo Dario».

Frattanto, mentre il re che Carlo XII aveva dato ai Polacchi era a malapena riconosciuto e Carlo arricchiva il suo esercito con le spoglie dei

392 Giuseppe I d’Asburgo (1678-1711), figlio di Leopoldo I, strinse con Carlo XII l’accordo di Altranstädt (1706) in virtù del quale Augusto II rinunciava alla Polonia e alla Lituania e si ritirava dall’alleanza contro la Svezia.

393 Gennaio 1707. (Nota dell’Autore) – La frase compare identica nella Storia di Carlo XII, ma nessun commentario identifica “Yolkova”.

394 Sull’originale Ragotski. Il principe ungherese Ferenc Rákóczi (1676-1735) fu fino alla maggiore età sotto la tutela legale del re d’Austria, Leopoldo I, cosa che gli sviluppò l’odio verso gli Asburgo. Alleatosi coi Francesi, nel 1700 fu imprigionato a Vienna, poi, dal 1703 al 1711, come principe di Transilvania, guidò la ribellione nazionale ungherese contro gli Asburgo. Sconfitto si rifugiò a Costantinopoli.

395 Adam Nicolaus Siniavski, conte polacco e voivoda di Belsk.

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Sassoni, i Russi erano ancora in Polonia, anzi nella stessa Varsavia.Finalmente Carlo XII partì396 dal quartiere di Altranstädt alla testa di un

esercito di 45.000 uomini cui pareva che il nemico non sarebbe mai stato in grado di resistere, dato che con 8.000 lo stesso Carlo l’aveva sconfitto davanti a Narva.

Fu nel passare sotto le mura di Dresda che egli andò397 a fare al re Augusto quella strana visita che, a detta di Nordberg, desterà l’ammirazione dei posteri e che se non altro desterà un certo stupore. Mettersi nelle mani di un principe a cui aveva tolto il regno, significava rischiare molto. Carlo ripassò per la Slesia e rientrò in Polonia.

Quel Paese era interamente devastato dalla guerra, lacerato dalle fazioni e in preda a tutte le calamità. Carlo avanzava attraverso la Masovia398, scegliendo la strada meno praticabile. Seimila contadini deputarono un vegliardo della loro gente; quest’uomo, di aspetto straordinario, tutto vestito di bianco e armato di due carabine, parlò a Carlo e, poiché non si capiva bene quello che diceva, si risolse di ucciderlo sotto gli occhi del principe nel bel mezzo della sua allocuzione. I contadini esasperati si ritirarono e presero le armi. Tutti quelli che fu possibile trovare furono catturati: li costrinsero a impiccarsi l’un l’altro e all’ultimo era imposto di passarsi da solo la corda al collo e di essere il boia di se stesso. Tutte le abitazioni furono ridotte in cenere. È il cappellano Nordberg ad attestare questo fatto di cui fu testimone: non si può negargli fede, né reprimere un fremito di orrore.

Carlo arriva a poche leghe da Grodno in Lituania399; gli viene riferito che lo zar in persona si trova in città con un certo contingente di truppe: senza pensarci due volte, Carlo prende con sé solo 800 guardie e corre a Grodno. Un ufficiale tedesco, certo Mulfels400, che comandava un corpo di truppe alle porte della città, vedendo Carlo XII non dubita un istante che sia seguito dal suo esercito e invece di contendergli il passo glielo cede. L’allarme si diffonde per tutta la città, tutti credono che l’esercito svedese sia entrato: i pochi russi che vorrebbero opporre resistenza sono fatti a pezzi dalla guardia svedese. Tutti gli ufficiali sono concordi nel riferire allo zar che un esercito vittorioso si impadronisce di tutte le postazioni della città. Pietro si ritira al di là dei baluardi e Carlo mette trenta uomini a guardia della porta dalla quale lo zar è appena uscito.

Nella confusione generale alcuni gesuiti, il cui convento, essendo l’edificio più bello della città, era stato requisito per alloggiarvi il re di Svezia, raggiungono nottetempo lo zar e lo informano questa volta della verità. Seduta stante Pietro rientra in città e forza la guarnigione svedese: si combatte per le strade e nelle piazze, ma già sopraggiunge l’esercito del re. Alla fine lo zar si vide costretto a desistere, lasciando la città in mano al

396 22 agosto. (Nota dell’Autore)397 27 agosto. (Nota dell’Autore)398 Regione polacca in cui è Varsavia.399 6 febbraio 1708. (Nota dell’Autore)400 Forse Mühlfeld.

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vincitore che faceva tremare la Polonia.Carlo aveva rafforzato le truppe in Livonia e in Finlandia. Da quella parte

Pietro aveva tutto da temere per le sue conquiste come, dalla parte della Lituania, per i suoi antichi possedimenti e per la stessa Mosca. Bisognava dunque fortificarsi in tutte quelle zone così distanti le une dalle altre. Piegando verso Oriente attraverso la Lituania, nel cuore di una stagione rigida, in regioni paludose e infestate da malattie contagiose che la fame e la miseria avevano diffuso ovunque da Varsavia a Minsk, Carlo non poteva avanzare rapidamente. Pietro appostò le sue truppe in quartieri posti ai guadi dei fiumi, assegnò truppe alle postazioni importanti, fece quanto era in suo potere perché la marcia del nemico fosse contrastata a ogni passo, poi corse401 a predisporre tutto a Pietroburgo.

Carlo, vincitore dei Polacchi, non toglieva loro nulla; Pietro, facendo buon uso della nuova marina, calando in Finlandia e prendendo Borgo che rase al suolo402, facendo lauto bottino sui nemici, acquistava utili vantaggi.

Carlo, trattenuto a lungo in Lituania da continue piogge, avanzò finalmente sul fiumicello detto Beresina, a poche leghe dal Boristene. La sua attività non si arrestava davanti a nulla: gettò un ponte sotto gli occhi dei Russi, sconfisse il distaccamento che difendeva il passaggio e giunse a Holowczyn403 sul fiume Vabis. Qui lo zar aveva appostato un ragguardevole contingente destinato a fermare l’impeto di Carlo. Il piccolo fiume Vabis404 non è che un rigagnolo in tempo di secca ma allora era un torrente impetuoso, ingrossato dalle piogge. Al di là si estendeva un acquitrino e oltre l’acquitrino i Russi avevano scavato una trincea di un quarto di lega difesa da un largo fossato e coperta da un parapetto guarnito di artiglieria. Nove reggimenti di cavalleria e undici di artiglieria erano disposti su quella linea in posizione vantaggiosa. Il passaggio del fiume sembrava impossibile.

Gli Svedesi, secondo l’uso di guerra, approntarono dei pontoni per passare e piazzarono delle batterie di cannone per coprire la marcia, ma Carlo non aspettò che i pontoni fossero pronti: la sua impazienza di combattere non tollerava il minimo ritardo. Il maresciallo di Schwerin, che servì a lungo sotto i suoi ordini, mi ha confermato più di una volta questo episodio: un giorno di azione, Carlo ebbe a dire ai suoi generali, intenti a stabilire i dettagli delle sue disposizioni: «Quando la finirete con queste bagattelle?» quindi si avanzò per primo alla testa della sua guardia; è quello che fece anche in questa memorabile giornata.

Egli si slancia verso il fiume seguito dal reggimento delle guardie. Quella calca rompeva l’impeto della corrente, ma si era nell’acqua fino alle spalle ed era impossibile servirsi delle armi. Per poco che l’artiglieria del parapetto fosse stata ben diretta e che i battaglioni avessero fatto fuoco al momento giusto, non un solo svedese ne sarebbe uscito vivo.

401 8 aprile. (Nota dell’Autore)402 21 maggio. (Nota dell’Autore)403 Sull’originale Hollosin. In russo è Golovčin, oggi in Belarus’. La battaglia tra Russi e

Svedesi, raccontata nel seguito, si combatté il 3/14 luglio 1708.404 In russo Bibitsch. (Nota dell’Autore)

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Dopo aver attraversato il fiume405 il re passò ancora la palude a piedi. Appena l’esercito ebbe superato quegli ostacoli sotto gli occhi dei Russi, si schierò in ordine di battaglia: sette volte furono attaccate le postazioni e i Russi cedettero soltanto alla settima. Persero soltanto dodici pezzi da campagna e ventiquattro mortai a granate, come ammettono persino alcuni storici svedesi.

Era dunque evidente che lo zar era riuscito a formare truppe agguerrite e questa vittoria di Holowczyn, pur coprendo di gloria Carlo XII, avrebbe dovuto fargli sentire tutti i pericoli cui andava incontro addentrandosi in regioni così remote: si sarebbe potuto marciare solo a gruppi separati, di bosco in bosco, di palude in palude, e a ogni passo si sarebbe dovuto combattere. Ma gli Svedesi, abituati a spazzare tutto davanti a sé, non si preoccuparono né del pericolo né dei disagi.

Capitolo XVII

CARLO XII PASSA IL BORISTENE E SI INOLTRA NELL’UCRAINA, MA FA MALE I SUOI CALCOLI: UNO DEI SUOI ESERCITI È SCONFITTO DA PIETRO IL GRANDE: LE MUNIZIONI

SONO PERDUTE. EGLI AVANZA IN UN DESERTO. EPISODI ACCADUTI IN UCRAINA

Finalmente Carlo giunse alle rive del Boristene, presso una piccola città chiamata Mogilëv406. In quel luogo fatale si doveva sapere se intendeva dirigere i suoi passi a oriente, verso Mosca, o a mezzogiorno verso l’Ucraina. L’esercito, i nemici, gli amici, tutti si aspettavano che avrebbe marciato sulla capitale. Qualunque strada prendesse, Pietro lo seguiva sin da Smolensk con un forte esercito: nessuno si aspettava che prendesse la via dell’Ucraina. Questa strana decisione gli fu suggerita da Mazepa, etmano dei Cosacchi407; era questi un vecchio di settant’anni il quale, non avendo figli, sembrava non dover pensare ad altro che a finire in pace i suoi giorni: inoltre avrebbe dovuto essere unito da legami di riconoscenza allo zar, cui doveva la carica; tuttavia, sia che effettivamente avesse da lamentarsi del suo sovrano, sia che la gloria di Carlo XII lo avesse abbagliato, sia che cercasse di rendersi indipendente, fatto sta che aveva tradito il proprio benefattore ed era passato segretamente al re di Svezia, illudendosi di sollevare dietro di sé tutta la popolazione.

Carlo non dubitava che quando le sue truppe vittoriose fossero state appoggiate da un popolo così bellicoso, avrebbe trionfato su tutto l’impero russo. Da Mazepa avrebbe ricevuto i viveri, le munizioni, l’artiglieria che gli

405 25 luglio. (Nota dell’Autore)406 Sull’originale Mohilo con nota di Voltaire: «In russo Mogilew».407 Ivan Stepanovič Mazepa-Kolendinskyj (1645-1709), diventato etmano dell’esercito dei

Cosacchi ucraini nel 1687, concepì il progetto di creare uno Stato ucraino indipendente dalla Russia. Nel 1706 entrò in trattative segrete con Stanislao Leszczyński e con Carlo XII e nel 1708 passò apertamente dalla loro parte. Dopo la battaglia di Poltava seguì Carlo XII in Turchia dove morì due mesi dopo.

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fossero occorsi; a quest’imponente soccorso si doveva aggiungere un esercito forte di 16-18.000 uomini, che giungeva dalla Livonia agli ordini del generale Levenhaupt portando con sé una quantità prodigiosa di provvigioni belliche e alimentari. Carlo non si curava di sapere se lo zar aveva la possibilità di piombare su quell’esercito privandolo di un soccorso tanto necessario. Non si informava se Mazepa era in grado di mantenere tutte le sue promesse, né se quel cosacco aveva credito sufficiente per far cambiare un’intera popolazione che non accetta pareri che da se stessa e per finire, nemmeno se, in caso di insuccesso, restavano al suo esercito risorse sufficienti. Se Mazepa si fosse rivelato infido o impotente, contava sul suo valore e sulla sua buona stella. L’esercito svedese avanzava dunque al di là del Boristene alla volta della Desna: proprio tra questi due fiumi si aspettava Mazepa. La strada era difficile e le truppe russe che manovravano nella zona rendevano rischiosa la marcia.

Menšikov, a capo di alcuni reggimenti di cavalleria e di dragoni, attaccò408 l’avanguardia del re, vi seminò lo scompiglio e uccise molti svedesi. Le sue perdite furono ancora più numerose ma egli non si perse d’animo. Carlo, accorso sul campo di battaglia, respinse i Russi solo a fatica, rischiando a lungo la vita e combattendo contro alcuni dragoni che lo avevano accerchiato. Frattanto Mazepa non arrivava, i viveri cominciavano a scarseggiare, i soldati svedesi, vedendo che il re condivideva i loro pericoli, le loro fatiche e i loro disagi, non si lasciavano demoralizzare, ma pur ammirandolo, lo disapprovavano e mormoravano.

L’ordine di mettersi in marcia con l’esercito e di portare d’urgenza le munizioni che il re aveva inviato a Levenhaupt, era stato recapitato con dodici giorni di ritardo; in simili circostanze quel tempo era lungo. Finalmente Levenhaupt si era messo in marcia; Pietro lasciò che attraversasse il Boristene e quando l’esercito fu chiuso tra il fiume e i suoi piccoli affluenti, passò il fiume dopo di lui e l’attaccò con le sue unità ravvicinate che incalzavano quasi a scaglioni. La battaglia fu combattuta tra il Boristene e il Sož409.

Il principe Menšikov tornava indietro con quello stesso corpo di cavalleria che si era misurato con Carlo XII; lo seguiva il generale Baur410, mentre Pietro, da parte sua, conduceva le truppe scelte del suo esercito. Gli Svedesi credettero di trovarsi di fronte a 40.000 combattenti e così si continuò a credere per molto tempo sulla base della loro versione. Apprendo dalle mie nuove relazioni che Pietro in quella giornata aveva soltanto 20.000 uomini, numero non di molto superiore a quello del nemico. L’attività dello zar, la sua pazienza, la sua tenacia e quella delle truppe galvanizzate dalla sua presenza decisero della sorte non soltanto di quella ma di tre giornate

408 11 settembre 1708. (Nota dell’Autore)409 Sull’originale Sossa con nota di Voltaire: «In russo Socza».410 Sull’originale Bauer. Rudolf (Rodion) Frederik Baur (1667-1718), generale di cavalleria e

consigliere militare dello zar Pietro I. Iniziò la carriera militare nel ducato di Meclemburgo, poi in Prussia e infine, dal 1700, in Russia agli ordini del generale Boris Šeremetev, con il quale combatté in tutte le battaglie contro gli Svedesi.

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consecutive, nel corso delle quali si combatté a più riprese.Fu dapprima attaccata l’avanguardia dell’esercito svedese nei pressi del

villaggio di Lesnaja che ha dato il nome alla battaglia. Questo primo urto fu cruento senza essere decisivo. Levenhaupt si ritirò in un bosco e salvò i bagagli411; l’indomani bisognò stanare gli Svedesi dal bosco: il combattimento fu più sanguinoso e più fortunato; è in quell’occasione che lo zar, vedendo le sue truppe in disordine, gridò che si tirasse sui fuggiaschi e su lui stesso se si ritirava. Gli Svedesi furono ricacciati ma non messi in rotta.

Finalmente giunse un rinforzo di 4.000 dragoni; per la terza volta i Russi piombarono sugli Svedesi, che si ritirarono in un borgo chiamato Propojsk412; qui furono attaccati di nuovo, marciarono alla volta della Desna e furono inseguiti. Non furono mai battuti completamente ma persero più di 8.000 uomini, 17 cannoni, 44 bandiere; lo zar prese prigionieri 46 ufficiali e quasi 900 soldati; tutto l’enorme convoglio destinato a Carlo restò nelle mani del vincitore.

Era la prima volta che lo zar vinceva personalmente, in battaglia campale, coloro che si erano segnalati con tante vittorie sulle truppe. Stava rendendo grazie a Dio per la vittoria quando seppe che il generale Apraksin aveva colto413 un successo in Ingria, a poche leghe da Narva. Era in realtà un successo meno considerevole della vittoria di Lesnaja, ma quel concorso di eventi favorevoli risollevava le sue speranze e il morale dell’esercito.

Carlo XII seppe tutte queste funeste notizie mentre si trovava in Ucraina, pronto a passare la Desna. Finalmente Mazepa arrivò. Doveva portargli 20.000 uomini e provvigioni immense, ma arrivò soltanto con due reggimenti, e sembrava più un fuggiasco che viene a implorare soccorso che un principe che viene a offrirne. Il cosacco si era effettivamente messo in marcia con 15-16.000 dei suoi, ai quali aveva cominciato col dire che andavano ad affrontare il re di Svezia, che avrebbero avuto la gloria di fermare la marcia di quell’eroe, che lo zar avrebbe serbato loro eterna riconoscenza di quel servigio.

A poche miglia dalla Desna svelò alfine il suo progetto, ma quella buona gente ne fu inorridita e si rifiutò di tradire un monarca, di cui non aveva da lamentarsi, per uno svedese che veniva armato nella loro terra e che, una volta partito, non avrebbe più potuto difenderli lasciandoli così a discrezione dei Russi risentiti e dei Polacchi, loro passati padroni e tuttora loro nemici. Essi se ne tornarono alle loro case e avvertirono lo zar della defezione del capo; con Mazepa rimasero soltanto due reggimenti circa, i cui ufficiali erano mercenari414.

Mazepa era ancora padrone di alcune piazzeforti dell’Ucraina e soprattutto di Baturin, sua residenza, che veniva considerata la capitale dei Cosacchi:

411 7 ottobre. (Nota dell’Autore)412 Sull’originale Prospock.413 17 settembre. (Nota dell’Autore)414 Nella Storia di Carlo XII, Voltaire dice invece che furono sorpresi e vinti dai Moscoviti e

solo quei due reggimenti riuscirono a fuggire.

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questa città è situata in vicinanza di alcuni boschi in riva alla Desna, ma è molto lontana dal campo di battaglia dove Pietro aveva vinto Levenhaupt. In quella zona c’era sempre qualche reggimento russo. Il principe Menšikov rimase tagliato dall’esercito dello zar e lo raggiunse facendo un largo giro. Carlo non poteva controllare tutti i passaggi, anzi non li conosceva nemmeno: aveva tralasciato di impadronirsi dell’importante postazione di Starodub, che porta direttamente a Baturin attraverso sette o otto leghe di foresta attraversate dalla Desna. I nemici avevano sempre su di lui il vantaggio di conoscere la regione. Menšikov passò senza difficoltà col principe Golicyn415, e giunse con lui davanti a Baturin416. La città fu presa quasi senza colpo ferire, saccheggiata e ridotta in cenere: furono presi un magazzino destinato al re di Svezia e i tesori di Mazepa. I Cosacchi elessero un altro etmano, Skoropadskij, che fu approvato dallo zar417. Questi volle che un’imponente messinscena facesse sentire al popolo la gravità del tradimento: l’arcivescovo di Kiev assieme ad altri due, scomunicò pubblicamente Mazepa: egli fu impiccato in effigie418 e alcuni dei suoi compagni perirono sulla ruota.

Nel frattempo Carlo XII che capeggiava 25-27.000 Svedesi e che inoltre aveva raccolto i resti dell’esercito di Levenhaupt e un rinforzo di due o tremila uomini portatigli da Mazepa, accarezzando ancora la speranza di far dichiarare in suo favore tutta l’Ucraina, passò la Desna lontano da Baturin e vicino al Boristene419, nonostante che le truppe dello zar lo circondassero da tutte le parti, alcune incalzando la sua avanguardia, altre sparpagliandosi al di là del fiume e contrastandogli il passo.

Egli avanzava, ma in un deserto, e non trovava che villaggi distrutti e bruciati. Fin dal mese di dicembre, il freddo si fece sentire con un rigore così eccezionale che, durante una delle marce, quasi duemila uomini caddero morti sotto i suoi occhi: le truppe dello zar soffrivano meno perché trovavano più facilmente soccorso, mentre quelle di Carlo, che non avevano quasi di che coprirsi, erano più esposte ai rigori della stagione.

In questo miserevole stato il conte Piper, cancelliere di Svezia, che dette sempre buoni consigli al suo signore, lo scongiurò di fermarsi e di passare almeno il periodo più rigido dell’inverno in una cittadina dell’Ucraina chiamata Romny, dove avrebbe potuto fortificarsi e fare qualche provvista con l’aiuto di Mazepa. Carlo rispose che non era uomo da chiudersi in una città. Piper allora lo scongiurò di ripassare la Desna e il Boristene e di

415 Sull’originale Galitzin. Dmitrij Michajlovič Golycin (1665-1737), cugino di Vasilij (cfr. nota 204), era già stato inviato nel 1704 in Polonia contro Carlo XII. Conservatore, contrario al matrimonio di Pietro con una plebea e alle sue riforme, alla morte dello zar tentò di contrastare l’autocrazia, ma fu vinto da Menšikov. Tornò in auge sotto il breve regno di Pietro II, poi nel 1736 fu condannato all’ergastolo per le sue idee antimonarchiche.

416 14 novembre. (Nota dell’Autore) – Sull’originale Barhurin. 417 Ivan Il’ič Skoropadskij (1646-1722) fu eletto etmano dei Cosacchi ucraini nel 1708.418 22 novembre [1708]. (Nota dell’Autore) – Ossia simbolicamente. Mazepa spirò di morte

naturale il 22 settembre 1709 a Bender dov’era prigioniero dei Turchi con Carlo XII.419 15 novembre. (Nota dell’Autore)

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tornare in Polonia; colà avrebbe potuto dare alle sue truppe i quartieri di cui avevano bisogno, valersi della cavalleria leggera dei Polacchi, che gli era assolutamente necessaria, e frenare il partito di Augusto che cominciava a risollevare il capo. Carlo replicò che ciò equivaleva a una fuga davanti allo zar, che la stagione sarebbe diventata più propizia, che era necessario sottomettere l’Ucraina e marciare su Mosca420.

L’armata russa e quella svedese rimasero qualche settimana nell’inazione, tanto forte fu il freddo nel mese di gennaio 1709, ma appena i soldati furono in grado di usare le armi, Carlo attaccò tutte le piccole postazioni che trovò sul suo passaggio. Occorreva inviare spedizioni in tutte le direzioni in cerca di viveri, ossia a rubare le provviste dei contadini in un raggio di venti leghe. Pietro, senza affrettarsi, sorvegliava le sue mosse e lasciava che si estenuasse.

È impossibile per il lettore seguire la marcia degli Svedesi in quelle regioni: molti dei fiumi che passarono non sono segnati sulle carte; non si creda che i geografi conoscano questo Paese come conosciamo l’Italia, la Francia e la Germania; di tutte le arti, la geografia è quella che avrebbe ancora maggiormente bisogno di essere perfezionata, ma fino a oggi l’ambizione si è più preoccupata di devastare la terra che di descriverla.

Ci basti sapere che finalmente, nel mese di febbraio, Carlo attraversò tutta l’Ucraina bruciando ovunque i villaggi o trovandoli già bruciati dai Russi. Egli avanzò verso sud-est fino agli aridi deserti delimitati da montagne che separano i Tartari Nogai dai Cosacchi del Tanais; a oriente di queste montagne si trovano gli altari di Alessandro. Egli si trovava dunque oltre l’Ucraina, sulla strada che i Tartari percorrono per recarsi in Russia: colà giunto, fu costretto a tornare sui suoi passi per trovare da vivere: gli abitanti si nascondevano nelle tane con gli animali e talvolta disputavano il cibo ai soldati che venivano a prenderlo. I contadini che fu possibile catturare furono messi a morte: dicono che questo sia un diritto di guerra. Debbo trascrivere a questo punto alcune righe del cappellano Nordberg421: «Per mostrare fino a che punto il re amasse la giustizia – egli scrive – includiamo il biglietto scritto di suo pugno al colonnello Hielmen: “Signor colonnello, mi compiaccio che siano stati presi i contadini che rapirono uno svedese; quando saranno stati convinti del loro delitto, saranno puniti come richiede il caso, facendoli morire”. Carlo, e più sotto Budis».

Sono questi i sentimenti di giustizia e di umanità del confessore di un re. Ma se i contadini dell’Ucraina avessero potuto far impiccare quei contadini ostrogoti irreggimentati che si credevano in diritto di venire da tanto lungi a rapir loro il cibo delle donne e dei bambini, i confessori e i cappellani di quegli stessi Ucraini non li avrebbero forse benedetti per aver fatto giustizia?

Da tempo Mazepa era in trattative con gli Zaporogi che abitano sulle due

420 Ciò è ammesso dal cappellano Nordberg, tomo II, pag. 263. (Nota dell’Autore)421 Tomo II, pag. 279. (Nota dell’Autore)

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sponde del Boristene e in parte sulle isole del fiume422. Proprio di quest’ultima parte si compone quel popolo senza donne né bambini che vive di rapina accumulando le provviste nelle isole durante l’inverno e andando a venderle a primavera nella cittadina di Poltava. Gli altri abitano in borghi a destra e a sinistra del fiume. Tutti insieme scelgono uno speciale etmano, che è subordinato a quello dell’Ucraina. Quello che capeggiava gli Zaporogi andò a trovare Mazepa: questi due barbari ebbero un colloquio, durante il quale ognuno fece tenere davanti a sé una coda di cavallo e una mazza.

Per far capire che uomini fossero questo capo degli Zaporogi e tutto il suo popolo, non mi pare indegno della storia riferire in che modo venne concluso il trattato. Mazepa offrì all’etmano degli Zaporogi e ai principali ufficiali un lauto pasto servito in vasellame d’argento: quando i capi furono ebbri di acquavite, giurarono sul vangelo, a tavola, di fornire uomini e viveri a Carlo XII, dopo di che portarono via il vasellame e tutti i mobili. Il maestro di palazzo corse loro dietro protestando che una simile condotta non si conciliava con il vangelo sul quale avevano prestato giuramento. I servitori di Mazepa tentarono di riprendere il vasellame, gli Zaporogi fecero assembramento e andarono in gruppo da Mazepa a lamentare l’affronto inaudito fatto a simili galantuomini, chiedendo che fosse loro consegnato il maggiordomo per punirlo secondo la legge; questi fu dato nelle loro mani e gli Zaporogi, secondo la legge, si gettarono dall’uno all’altro quel pover’uomo come si colpisce un pallone, dopodiché gli fu immerso un pugnale nel cuore.

Ecco chi erano i nuovi alleati che Carlo XII fu costretto ad accettare; con essi compose un reggimento di duemila uomini, il resto marciò a gruppi separati contro i Cosacchi e i Calmucchi dello zar disseminati in quella zona.

La cittadina di Poltava dove trafficano questi Zaporogi, traboccava di provviste e avrebbe potuto servire a Carlo da piazza d’armi: essa è situata sul fiume Vorskla, abbastanza vicino a una catena di montagne che la dominano a Nord. Dal lato orientale si trova un vasto deserto, quello occidentale è più fertile e popoloso. Quindici grandi leghe a valle, la Vorskla va a sboccare nel Boristene. Attraverso i valichi che servono di passaggio ai Tatari, si può andare da Poltava verso il nord e raggiungere la strada di Mosca. Questa strada è difficile e le precauzioni dello zar l’avevano resa quasi impraticabile, ma nulla pareva impossibile a Carlo, il quale contava ancora di prendere la via di Mosca dopo essersi impadronito di Poltava; egli strinse dunque d’assedio la città agli inizi di maggio.

Capitolo XVIII

BATTAGLIA DI POLTAVA

Qui l’aspettava Pietro. Egli aveva disposto le sue unità in modo che

422 Cfr. capitolo I. (Nota dell’Autore)

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potessero congiungersi e marciare tutte insieme alla volta degli assedianti. Aveva visitato tutte le regioni attorno all’Ucraina: il ducato di Severia, in cui scorre la Desna resa celebre dalla sua vittoria e dove quel fiume è già profondo, il paese di Bolcho, nel quale si trova la sorgente dell’Oka, i deserti e le montagne che portano alla Palude Meotide. Da ultimo si trovava nei pressi di Azov e quivi faceva dragare il porto, costruire navi, fortificare la cittadella di Taganrog e in tal modo utilizzava a vantaggio del suo Stato l’intervallo tra la battaglia di Desna e quella di Poltava.

Appena sa che la città è cinta d’assedio, raccoglie le sue unità. La cavalleria, i dragoni, la fanteria, i Cosacchi, i Calmucchi convergono da cento parti diverse; il suo esercito non manca di nulla: cannoni, pezzi da campagna, munizioni di ogni tipo, viveri, medicamenti. Era questo un altro vantaggio che aveva acquistato sul rivale.

Il 15 giugno 1709 giunge in vista di Poltava con un esercito di circa 60.000 combattenti. Il fiume Vorskla lo separava da Carlo; gli assedianti erano a nord-ovest, i russi a sud-est.

Pietro risale il fiume a monte della città, getta i ponti, fa passare l’esercito423 e fa scavare una lunga trincea che fronteggia l’esercito nemico: essa viene cominciata e finita in una sola notte. Carlo allora poté giudicare se l’uomo che egli disprezzava e che contava di detronizzare a Mosca conosceva o no l’arte della guerra. Ultimato questo schieramento, Pietro piazzò la cavalleria tra due boschi e la coprì con numerose postazioni di artiglieria. Prese così tutte le misure, va in ricognizione del campo degli assedianti per elaborare un piano di attacco.

Da questa battaglia dipendevano le sorti della Russia, della Polonia, della Svezia e di due monarchi su cui si appuntavano gli occhi dell’Europa. Quasi tutte le nazioni che seguivano attentamente questi grandi interessi non sapevano dove si trovassero i due principi né quale fosse la loro situazione, ma dopo aver visto Carlo XII lasciare la Sassonia vittorioso alla testa del più formidabile esercito e dopo averlo visto incalzare il nemico senza dargli requie, nessuno dubitava che lo avrebbe schiacciato, che dopo aver dettato legge in Polonia, in Germania e in Danimarca, avrebbe dettato le condizioni della pace dal Cremlino di Mosca e che infine, dopo aver fatto un re di Polonia, avrebbe fatto uno zar. Ho visto le lettere di più di un ministro che confermavano le rispettive corti in quella che era la convinzione generale.

I due rivali non correvano lo stesso rischio. Se Carlo avesse perduto una vita che aveva rischiato tante volte, ci sarebbe stato un eroe in meno. Le province dell’Ucraina, le frontiere della Lituania e della Russia, avrebbero visto cessare le devastazioni; la Polonia avrebbe tranquillamente riaccolto il legittimo re che già si era riconciliato con lo zar, suo benefattore.

Per finire, la Svezia, impoverita di uomini e di denaro, avrebbe potuto trovare dei motivi di consolazione. Ma se fosse perito lo zar, imprese grandissime, utili a tutto il genere umano, sarebbero state sepolte con lui e il più vasto impero della terra sarebbe ripiombato nel caos da cui era stato

423 3 luglio. (Nota dell’Autore)

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tratto.A più riprese vari corpi svedesi e russi erano venuti alle mani sotto le

mura della città. Durante uno di questi scontri424 Carlo era stato ferito da un colpo di carabina che gli aveva fracassato le ossa del piede: egli si sottopose a varie dolorose operazioni che sopportò con l’abituale coraggio e fu costretto qualche giorno a letto. In quelle condizioni seppe che Pietro doveva attaccarlo; le sue idee di gloria non gli consentirono di aspettarlo nelle trincee: ne usci facendosi portare su una barella. Come ammette anche il diario di Pietro il Grande, gli Svedesi andarono con tale indomabile ardore all’attacco delle fortificazioni munite di cannoni che proteggevano la cavalleria che, malgrado il fuoco ininterrotto, presero due postazioni. È stato scritto che la fanteria svedese, padrona di due postazioni, credette di aver battaglia vinta e gridò vittoria. Il cappellano Nordberg che si trovava lontano dal teatro del combattimento, presso i bagagli (e cioè dove doveva stare), sostiene che è una calunnia. Tuttavia, che gli Svedesi abbiano o no gridato vittoria, quello che è certo è che non la ottennero. Il fuoco delle altre postazioni non rallentò, i Russi resistettero dovunque con fermezza pari all’ardore con cui erano attaccati. Non fecero nessuna mossa irregolare. Lo zar schierò l’esercito in battaglia fuori delle trincee con ordine e tempestività.

La battaglia divenne generale. Pietro ricopriva nell’esercito il grado di generale maggiore; il generale Baur comandava l’ala destra, Menšikov la sinistra, Šeremetev il centro. L’azione durò due ore. Carlo, con la pistola in pugno, andava di fila in fila sulla sua barella portato dalle guardie del corpo. Un colpo di cannone uccise uno degli uomini che lo portavano e mandò in pezzi la barella. Carlo allora si fece portare sulle picche; infatti, checché ne dica Nordberg, è difficile che in un’azione così violenta si sia trovata su due piedi un’altra barella. Pietro ricevette parecchi colpi nelle vesti e sul cappello: durante tutta l’azione i due sovrani furono continuamente sulla linea del fuoco. Finalmente dopo due ore di battaglia gli Svedesi furono respinti su tutta la linea: la confusione si diffuse fra loro e Carlo XII fu costretto a fuggire davanti a colui che aveva tanto disprezzato. Quello stesso eroe che non aveva potuto montare a cavallo durante la battaglia vi fu issato per la fuga: la necessità gli rese un poco di forze. Corse soffrendo atroci dolori, resi ancor più cocenti da quelle di essere stato irrimediabilmente sconfitto. I Russi contarono sul campo di battaglia 9.224 svedesi uccisi: nel corso dell’azione presero dai due ai tremila prigionieri, soprattutto nella cavalleria.

Carlo XII fuggiva a precipizio con circa 14.000 combattenti ma con pochissima artiglieria da campagna; pochi erano anche i viveri, le munizioni e la polvere. Marciò verso sud alla volta del Boristene, tra i fiumi Vorskla e Sož425, nel paese degli Zaporogi. In quella zona, al di là del Boristene si estendono i grandi deserti che portano alle frontiere della Turchia. Nordberg

424 27 giugno. (Nota dell’Autore)425 Sull’originale Sol, con nota di Voltaire: «O Psol».

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afferma che i vincitori non osarono inseguire Carlo; malgrado ciò ammette che mentre il re passava il Boristene il principe Menšikov si presentò sulle alture con diecimila uomini di cavalleria e una ragguardevole artiglieria.

Quattordicimila Svedesi si dettero prigionieri di guerra426 a quei diecimila Russi; Levenhaupt, che li comandava, sottoscrisse la fatale capitolazione in virtù della quale consegnava allo zar quegli Zaporogi che, avendo combattuto per il suo re, si trovavano presso l’esercito in fuga. I prigionieri più importanti fatti in battaglia e con la capitolazione furono il conte Piper, primo ministro, con due segretari di Stato e due di gabinetto, il feldmaresciallo Rehnskiöld, i generali Levenhaupt, Slipenbak, Rosen, Stackelberg, Kreutz e Hamilton, tre aiutanti di campo generali, l’uditore generale dell’esercito, cinquantanove ufficiali dello Stato maggiore, cinque colonnelli tra cui si trovava un principe di Würtemberg, 16.942 soldati o ufficiali subalterni. In breve, contando anche i domestici del re e altre persone al seguito dell’esercito, rimasero in potere del vincitore 18.746 uomini. Questa cifra, aggiunta ai 9.224 morti in battaglia e ai duemila uomini circa che passarono il Boristene al seguito del re, prova che in realtà durante quella giornata memorabile c’erano ai suoi ordini 27.000 combattenti427.

Carlo XII era partito dalla Sassonia con 45.000 combattenti, mentre Levenhaupt ne aveva portati dalla Livonia più di 16.000; di tutto questo prospero esercito non rimaneva nulla e della ricca artiglieria perduta durante le marce o sprofondata nelle paludi non erano rimasti che diciotto cannoni di ghisa, due obici e dodici mortai. È con questo debole armamento che Carlo aveva intrapreso l’assedio di Poltava e che aveva attaccato un esercito dotato di una formidabile artiglieria. Perciò è stato accusato di aver dimostrato più coraggio che prudenza da quando aveva lasciato la Germania. Da parte russa furono uccisi solo cinquantadue ufficiali e 1.293 soldati: è questa una prova che lo schieramento era migliore di quello di Carlo e il tiro infinitamente superiore.

Un ministro inviato alla corte dello zar afferma nelle sue memorie che Pietro, venuto a conoscenza del progetto di Carlo XII di ritirarsi tra i Turchi, gli scrisse per scongiurarlo di non prendere tale estrema risoluzione e di mettersi piuttosto fra le sue mani che fra quelle del nemico naturale di tutti i principi cristiani. Gli dava la sua parola d’onore che non lo avrebbe trattenuto in prigionia e che avrebbe risolto le controversie esistenti tra loro con una pace ragionevole. La lettera fu recapitata da una staffetta fino al fiume Bug che divide i deserti dell’Ucraina dalle terre del Gran Signore. Questi arrivò quando Carlo era già in Turchia e riportò la lettera al suo

426 12 luglio. (Nota dell’Autore)427 Sono uscite a Amsterdam nel 1730 le Memorie di Pietro il Grande del sedicente boiardo

Ivan Nestesuranoy. In queste Memorie è detto che il re di Svezia, prima di passare il Boristene, inviò un ufficiale generale allo zar con offerte di pace. I quattro tomi di queste Memorie sono un tessuto di menzogne e assurdità di questo tipo, oppure una compilazione di gazzette. (Nota dell’Autore)

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signore. Il ministro aggiunge di aver saputo questo episodio428 dallo stesso uomo a cui fu affidata la lettera. Questo aneddoto non è del tutto inverosimile ma non figura né sul diario di Pietro il Grande né in alcuno dei rapporti affidatimi. La cosa più importante di questa battaglia è che, di tutte quelle che insanguinarono mai la terra, è la sola che invece di seminare solo distruzione ha contribuito alla felicità del genere umano, poiché ha dato allo zar la possibilità di civilizzare una vasta parte del mondo.

Dagli inizi del secolo all’anno in cui scrivo si sono combattute in Europa più di duecento battaglie campali. Le vittorie più illustri e cruente non hanno avuto altro frutto che la conquista di qualche piccola provincia, ceduta in seguito per via di trattati e ripresa con altre battaglie. Spesso si sono affrontati eserciti di centomila uomini, ma gli sforzi più grandi hanno portato solo a piccoli ed effimeri successi: si sono ottenuti i minimi risultati col massimo sforzo. Nelle nostre moderne nazioni non si è dato alcun esempio di una guerra che abbia compensato con un po’ di bene il male che ha fatto, ma il risultato della giornata di Poltava è stato la felicità del regno più grande del mondo429.

Capitolo XIX

ANCORA SULLA VITIORIA DI POLTAVA. CARLO XII SI RIFUGIA PRESSO I TURCHI. AUGUSTO, DEPOSTO DA LUI, TORNA NEL SUO REGNO. CONQUISTE DI PIETRO IL GRANDE

Frattanto venivano presentati al vincitore tutti i prigionieri più ragguardevoli: lo zar fece restituire loro le spade e li invitò alla sua tavola. È risaputo che, brindando alla loro salute, disse: «Brindo alla salute dei miei maestri nell’arte della guerra». Ben presto tuttavia la maggior parte di quei maestri o per lo meno tutti gli ufficiali subalterni e tutti i soldati semplici furono relegati in Siberia. Tra Russi e Svedesi non esisteva nessuna convenzione per lo scambio dei prigionieri: lo zar l’aveva proposta prima dell’assedio di Poltava, ma Carlo aveva rifiutato e gli Svedesi furono fino all’ultimo le vittime della sua indomabile fierezza430.

A quella stessa fierezza, sempre inopportuna, vanno imputate tutte le traversie del principe in Turchia e le sue disavventure più degne di un eroe dell’Ariosto che di un sovrano avveduto. Infatti appena giunto nei pressi di Bender, gli fu consigliato di scrivere al gran visir secondo l’usanza, ma ciò parve al sovrano un abbassarsi troppo. Una tale ostinazione lo guastò successivamente con tutti i ministri della Porta: egli era incapace di

428 Questo episodio si trova anche in una lettera stampata all’inizio degli Aneddoti di Russia. (Nota dell’Autore) – Cfr. nota 51.

429 Perry (cfr. nota 107) scrisse che, senza la vittoria di Poltava, Pietro avrebbe perso il trono perché «tutto era maturo per la ribellione, anche nella capitale».

430 Nella Storia di Carlo XII (libro IV), Voltaire scrisse che «al contrario del re [di Svezia] che aveva rimandato i prigionieri moscoviti che non temeva, lo zar trattenne gli Svedesi catturati a Poltava».

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adattarsi ai luoghi e alle situazioni431.Al primo sentore della battaglia di Poltava ci fu un fermento generale

negli animi e negli affari di Polonia, di Sassonia, di Svezia e di Slesia. All’epoca in cui ancora dettava legge, Carlo aveva preteso dall’imperatore di Germania Giuseppe I che fossero tolte ai cattolici cinquecento chiese a favore degli Slesiani della confessione di Asburgo; appena i cattolici seppero della disgrazia di Carlo ripresero la maggior parte dei templi luterani. I Sassoni pensarono soltanto a vendicarsi delle estorsioni di un vincitore che, dicevano, era costato loro ventitré milioni di scudi. Il loro elettore, re di Polonia, protestò seduta stante432 contro l’abdicazione che gli era stata estorta e, rientrato nelle buone grazie dello zar, si affrettò a risalire sul trono di Polonia. La Svezia costernata credette a lungo che il re fosse morto, il senato nell’incertezza non poteva prendere alcuna decisione.

Pietro prese immediatamente quella di approfittare della vittoria; fa partire il maresciallo Šeremetev con un esercito alla volta della Livonia sulle cui frontiere quel generale si era distinto tante volte. Il principe Menšikov fu prontamente inviato con una numerosa cavalleria per appoggiare le truppe lasciate in Polonia, per incoraggiare tutta la nobiltà del partito di Augusto, per cacciare il contendente al quale ormai si guardava soltanto come a un ribelle e per disperdere le poche truppe svedesi condotte dal generale svedese Krassow433 che rimanevano ancora.

Ben presto lo stesso Pietro si mette in cammino: attraverso la regione di Kiev, i palatinati di Chelm e dell’alta Volinia, giunge a Lublino e si consulta col generale della Lituania; successivamente passa in rassegna le truppe della Corona che prestano giuramento di fedeltà al re Augusto434, di lì si reca a Varsavia; finalmente a Thorn assapora il più alto di tutti i trionfi, quello di ricevere435 i ringraziamenti di un re cui restituiva il regno. Quivi egli conclude, assieme ai re di Polonia, di Danimarca, e di Prussia, un trattato contro la Svezia. Già si progettava di ritoglierle tutte le conquiste di Gustavo Adolfo. Pietro riesumava le antiche pretese degli zar sulla Livonia, l’Ingria e la Carelia e su un parte della Finlandia; la Danimarca rivendicava la Scania, il re di Prussia la Pomerania.

Così lo sfortunato valore di Carlo faceva vacillare tutto l’edificio innalzato dal valore fortunato di Gustavo Adolfo. La nobiltà polacca veniva in folla a confermare al re il proprio giuramento o a chiedergli perdono per averlo

431 La Motraye nella sua relazione di viaggio riporta una lettera di Carlo XII al gran visir, ma la lettera è falsa come la maggior parte dei racconti di quel viaggiatore mercenario; lo stesso Nordberg ammette che il re di Svezia non acconsentì mai a scrivere al gran visir. (Nota dell’Autore) – Aubry de La Motraye (o La Mottraye; 1674-1743) scrisse nel 1727 Voyages du Sr. A. de la Motraye, en Europe, Asie & Afrique; où l’on trouve une grande varieté de recherches geographiques, historiques & politiques.

432 8 agosto. (Nota dell’Autore)433 Sull’originale Crassau. Lo svedese Ernst Detlof von Krassow (1660?-1714) iniziò la

carriera militare in Olanda; nel 1699 entrò nell’esercito svedese e combatté nelle guerre del Nord diventando maggiore generale nel 1706 e tenente generale nel 1713.

434 18 settembre. (Nota dell’Autore)435 7 ottobre. (Nota dell’Autore)

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abbandonato: quasi tutti riconoscevano Pietro come loro protettore.Alle armi dello zar, a quei trattati, a quell’improvviso rivolgimento,

Stanislao non aveva da opporre altro che la propria rassegnazione: fece circolare uno scritto noto come Universale, nel quale afferma che se la nazione lo esige è pronto a rinunciare alla corona.

Dopo aver tutto concertato col re di Polonia e ratificato un trattato con la Danimarca, Pietro parte seduta stante per concludere i negoziati col re di Prussia. Allora i sovrani non usavano recarsi di persona a fare l’ufficio degli ambasciatori: fu Pietro a introdurre quest’usanza nuova e poco diffusa. L’elettore di Brandeburgo, primo re di Prussia436, andò ad abboccarsi con lo zar a Marienwerder, cittadina della Pomerania occidentale che era stata costruita dai Cavalieri teutonici e poi inglobata nei confini della Russia quando questa si era trasformata in regno. Il regno era piccolo e povero, ma il re, nei suoi viaggi, ostentava la pompa più sfarzosa; già al suo primo passaggio, quando Pietro aveva lasciato l’impero per andare all’estero a istruirsi, l’aveva accolto con l’abituale magnificenza; con uno splendore ancora più grande accolse il vincitore di Carlo XII. In un primo momento Pietro concluse col re di Prussia un trattato soltanto difensivo437, che tuttavia finì di rovinare le sorti della Svezia.

Non un solo istante è sprecato: Pietro, conclusi rapidamente i negoziati che altrove sono dovunque così lunghi, va a raggiungere l’esercito davanti a Riga, capitale della Livonia. Dapprima bombarda la piazzaforte438, appicca personalmente il fuoco alle prime tre bombe, poi ordina il blocco e, certo che Riga non può sfuggirgli, si reca a sorvegliare i lavori della sua città di Pietroburgo, la costruzione delle case, la flotta: egli imposta con le sue stesse mani lo scafo di un vascello439 da cinquantaquattro cannoni e finalmente parte per Mosca. Fu per lui un diversivo lavorare ai preparativi del trionfo che offrì come uno spettacolo alla capitale: progettò tutta la festa e lavorò personalmente a predisporre ogni cosa.

L’anno 1710 fu inaugurato440 con questa solennità che allora era necessaria al popolo, cui ispirava sentimenti di grandezza tanto più graditi a chi aveva temuto di veder entrare da vincitori nelle proprie mura quegli stessi uomini su cui si celebrava il trionfo. Si videro passare sotto sette magnifici archi di trionfo l’artiglieria dei vinti, le insegne, gli stendardi, la barella del re, i soldati, gli ufficiali, i generali e i ministri prigionieri, tutti a piedi, al suono delle campane, delle trombe, di cento bocche di cannone e delle acclamazioni di una moltitudine innumerevole che si facevano sentire

436 Antico possesso dell’Ordine Teutonico, la Prussia divenne nel 1525 un ducato laico, ereditario, vassallo della Polonia. Il vassallaggio fu sciolto nel 1660 da Federico Guglielmo, creatore del formidabile esercito prussiano. Il figlio Federico III elettore di Brandeburgo (1657-1713) che gli successe nel 1688, ottenne dall’imperatore il riconoscimento della dignità reale e fu incoronato a Königsherg, nel 1701, col nome di Federico I di Prussia.

437 20 ottobre. (Nota dell’Autore)438 21 novembre. (Nota dell’Autore)439 3 dicembre. (Nota dell’Autore)440 1° gennaio. (Nota dell’Autore)

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quando il cannone taceva. Chiudevano la marcia i vincitori a cavallo, con i generali in testa e Pietro al suo posto di generale maggiore. A ogni arco di trionfo si trovavano le deputazioni dei diversi ordini dello Stato, e all’ultimo un gruppo scelto di giovani figli di bojardi, vestiti secondo la foggia romana, che offrirono allori al monarca vittorioso.

A questa festa pubblica fece seguito una cerimonia non meno ricca di soddisfazioni. Nel 1708 era accaduta una disavventura tanto più sgradevole in quanto Pietro era allora perseguitato dalla sfortuna. Matveev441, suo ambasciatore a Londra presso la regina Anna, dopo essersi congedato, fu arrestato a viva forza da due ufficiali di giustizia a nome di alcuni mercanti inglesi e condotto presso un giudice di pace come garanzia dei loro crediti. I commercianti inglesi pretendevano che le leggi del commercio dovessero prevalere sui privilegi del ministro: l’ambasciatore dello zar e tutti i pubblici ministri che presero le sue parti, sostenevano che la loro persona doveva essere comunque inviolabile. Lo zar, con delle lettere alla regina Anna, chiese energicamente giustizia; ella non poteva fargliela perché le leggi inglesi permettevano ai mercanti di perseguire i debitori e nessuna legge esentava i pubblici ministri da tale procedura. L’assassinio di Patkul, ambasciatore dello zar, avvenuto l’anno prima per ordine di Carlo XII, incoraggiava il popolo inglese a non rispettare un’istituzione così crudelmente profanata: gli altri ministri presenti a Londra in quel periodo furono costretti a rispondere di quello dello zar, e finalmente tutto ciò che la regina pare fare in suo favore fu di convincere il parlamento a varare un atto in virtù del quale non sarebbe stato più permesso per il futuro di far arrestare un ministro per debiti; tuttavia, dopo la battaglia di Poltava, bisognò dare una soddisfazione più consistente. La regina gli fece pubbliche scuse tramite una solenne ambasceria. Il signore di Widworth, prescelto per tale cerimonia442, apri l’arringa con queste parole: Altissimo e potentissimo imperatore. Disse che coloro che avevano osato arrestare il suo ambasciatore erano stati gettati in prigione e dichiarati infami. Non era vero niente, ma bastava dirlo; inoltre il titolo di imperatore che la regina non gli dava prima della battaglia di Poltava era una prova della considerazione che egli godeva in Europa. Questo titolo gli era già dato comunemente in Olanda, e non soltanto da coloro che lo avevano visto lavorare al proprio fianco nei cantieri di Zaandam e che si interessavano in modo speciale alla sua gloria. Tutti i notabili dello Stato infatti gareggiavano nel dargli il titolo di imperatore e celebravano la sua vittoria con festeggiamenti in presenza del ministro di Svezia.

L’universale considerazione che si era guadagnata con la vittoria, egli la accresceva non perdendo un solo istante per metterla a frutto. Prima fu

441 Sull’originale Matéof. Andrej Artamonovič Matveev (1666-1728) era il figlio di Artamon Matveev (cfr. nota 192) ucciso dagli strel’cy. Fu ambasciatore e plenipotenziario in Francia, Gran Bretagna, Olanda e Austria. Nel 1716 fu richiamato a San Pietroburgo per entrare nel consiglio privato di Pietro I e, poi, di Caterina I.

442 16 febbraio. (Nota dell’Autore) – Riguardo al seguito, la straordinaria accoglienza fu dettata dagli interessi politici e mercantili.

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assediata Elbing, città anseatica della Prussia reale situata in Polonia, dove gli Svedesi mantenevano ancora una guarnigione. I Russi vanno all’assalto443, entrano in città e la guarnigione si dà prigioniera di guerra. Questa fortezza era uno dei grandi depositi di Carlo XII: vi furono trovati 83 cannoni di bronzo e 157 mortai. Subito dopo Pietro si reca prontamente da Mosca a Pietroburgo: appena arrivato444, s’imbarca ai piedi della nuova fortezza di Kronštadt, costeggia la Carelia e malgrado una violenta tempesta conduce la flotta davanti a Vyborg in Finlandia, capitale della Carelia. Nel frattempo le truppe di terraferma avanzavano sugli stagni gelati: la città è presa d’assalto, il blocco contro la capitale della Livonia viene rafforzato. Vyborg si arrende poco dopo445 che è stata praticata una breccia, una guarnigione composta di circa 4.000 uomini capitola senza ottenere gli onori di guerra e viene presa prigioniera malgrado la capitolazione. Pietro lamentava parecchie infrazioni da parte degli Svedesi: promise di rimettere in libertà le truppe dopo che gli Svedesi avessero dato soddisfazione alle sue richieste; a questo proposito si dovettero chiedere istruzioni al re di Svezia, inflessibile come sempre, e quei soldati che Carlo avrebbe potuto liberare, restarono prigionieri. Allo stesso modo nel 1695 Guglielmo III principe di Orange e re d’Inghilterra aveva preso prigioniero il maresciallo de Boufflers malgrado la capitolazione di Namur446. Si contano numerosi esempi di simili violazioni, ma ci sarebbe da augurarsi che non ne avvenissero più.

Dopo la presa della capitale, l’assedio di Riga divenne ben presto un assedio regolare condotto con alacrità: si era costretti a rompere il ghiaccio del fiume Dvina che bagna a nord le mura della città. Il contagio che desolava da qualche tempo la regione dilagò nell’esercito assediante e rapì 9.000 uomini, ciononostante l’assedio non fu rallentato: esso fu lungo e la guarnigione ottenne gli onori militari, ma nella capitolazione447 venne stipulato che tutti gli ufficiali e soldati livoni sarebbero rimasti al servizio della Russia in quanto sudditi di un Paese che ne era stato smembrato e che era stato usurpato dagli antenati di Carlo XII. I privilegi che il padre di questi aveva tolto ai Livoni furono loro restituiti e tutti gli ufficiali entrarono al servizio dello zar: era la più nobile vendetta che questi potesse prendersi per l’uccisione del livone Patkul, suo ambasciatore, condannato per aver difeso quegli stessi privilegi. La guarnigione era composta di circa 5.000 uomini. Poco dopo fu presa la cittadella di Peenmünder448 e si trovarono, tra la città e il forte, più di 800 bocche da fuoco.

Per essere padrone incontrastato della Carelia, gli mancava la potente

443 11 marzo. (Nota dell’Autore)444 2 aprile. (Nota dell’Autore)445 23 giugno. (Nota dell’Autore)446 Louis-François de Boufflers (1644-1711), maresciallo di Francia dal 1693. Nel 1695 fu

responsabile della difesa di Namur assediata da Guglielmo d’Orange, ma dovette ritirarsi a Vauban e arrendersi dopo due mesi di combattimenti.

447 15 luglio. (Nota dell’Autore)448 Sull’originale Pennamunde.

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città di Kexholm449 sul lago Ladoga, che sorgeva su di un’isola e passava per imprendibile; essa fu bombardata qualche tempo dopo450 e ben presto si arrese451. L’isola di Ösel, nel mare che bagna a nord la Livonia, fu sottomessa con pari rapidità.

Dalla parte dell’Estonia, provincia della Livonia, verso nord e sul golfo di Finlandia, si trovano le città di Pernov e Reval; prese quelle, la conquista della Livonia poteva dirsi compiuta. Pernov si arrese dopo un assedio di pochi giorni452 e Reval capitolò453 senza che venisse sparato contro la città un solo colpo di cannone, ma gli assediati trovarono il modo di sfuggire al vincitore nel momento stesso in cui si dichiaravano prigionieri di guerra: alcuni vascelli svedesi accostarono alla rada durante la notte, la guarnigione si imbarcò assieme alla maggior parte dei civili, e gli assedianti, entrando in città, ebbero la sorpresa di trovarla deserta. Quando Carlo XII trionfava a Narva, certo non immaginava che un giorno le sue truppe avrebbero dovuto ricorrere a simili stratagemmi di guerra.

In Polonia Stanislao, vedendo il suo partito disperso, si era rifugiato nella Pomerania, rimasta in mano di Carlo XII: Augusto regnava ed era difficile stabilire se avesse avuto più gloria Carlo nel deporlo o Pietro nel rimetterlo sul trono.

Gli Stati del re di Svezia erano ancor più disgraziati di lui: quell’epidemia che aveva devastato tutta la Livonia, passò in Svezia e mieté tremila vittime nella sola città di Stoccolma454, devastando province già troppo impoverite di abitanti, dato che la maggior parte, per dieci anni continui, aveva lasciato il Paese per andare a morire al seguito del suo signore.

La sua cattiva stella lo perseguitava in Pomerania. Le sue truppe di Polonia si erano qui ritirate in numero di diecimila combattenti; lo zar, il re di Danimarca, quello di Prussia, l’elettore di Hannover e il duca di Holstein si unirono tutti insieme per ridurre all’impotenza quest’esercito e per costringere alla neutralità il suo capo, generale Krassow. La reggenza di Stoccolma, priva di notizie del suo re, fu ben lieta, nel colmo del contagio che infuriava in città, di sottoscrivere quella neutralità che sembrava dovesse almeno tenere lontani gli orrori della guerra da una delle province. L’imperatore di Germania favorì questo insolito trattato: fu stipulato che l’esercito svedese di stanza in Pomerania non avrebbe potuto muoversi per andare a difendere altrove il suo re; nell’impero di Germania fu persino deciso di arruolare un esercito per far rispettare questa convenzione che non aveva precedenti: in realtà l’imperatore, che era allora in guerra con la Francia, sperava di far entrare al suo servizio l’esercito svedese. Tutti questi negoziati furono condotti mentre Pietro conquistava la Livonia, l’Estonia e la

449 Odierna Korela.450 19 settembre. (Nota dell’Autore)451 23 settembre. (Nota dell’Autore)452 25 agosto. (Nota dell’Autore)453 10 settembre. (Nota dell’Autore)454 Nel 1711 si diffuse a Stoccolma – che contava circa 50.000 abitanti – un’epidemia di

peste che arrivò a 1200 decessi al giorno.

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Carelia.Carlo XII, che frattanto metteva in moto tutte le influenze possibili tra

Bender e la Porta ottomana per indurre il divan a dichiarare guerra allo zar, accolse questa notizia come uno dei colpi più funesti inflittigli dalla sua cattiva stella; gli era intollerabile che il suo senato di Stoccolma avesse legato le mani al suo esercito: in quell’occasione scrisse al senato che avrebbe mandato a governarlo uno dei suoi stivali.

Intanto i Danesi preparavano l’invasione della Svezia. Tutte le nazioni europee erano in guerra: la Spagna, il Portogallo, l’Italia, la Francia, la Germania, l’Olanda e l’Inghilterra combattevano ancora per la successione del re di Spagna Carlo II, mentre tutto il Nord era in armi contro Carlo XII. Mancava solo una contesa con la Porta ottomana perché non ci fosse più in Europa un solo villaggio al sicuro dalle devastazioni. Questo dissidio scoppiò quando Pietro era all’apice della gloria, e proprio perché vi era giunto.

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PARTE SECONDA

Capitolo I

CAMPAGNA DEL PRUT

Il sultano Ahmed III455, dichiarò guerra a Pietro I, ma non a causa del re di Svezia: naturalmente lo fece per il proprio interesse. Il khan dei Tatari di Crimea vedeva con occhio preoccupato un vicino divenuto così potente. La Porta si era risentita delle navi sulla Palude Meotide e sul mar Nero, della fortificazione di Azov, del porto di Taganrog che già era famoso, insomma di tutti quei grandi successi e dell’ambizione che i successi non mancarono mai di incoraggiare.

Non è né vero né verosimile che la Porta ottomana abbia mosso guerra allo zar verso la Palude Meotide col pretesto che un vascello svedese aveva catturato nel Baltico un’imbarcazione e che in essa si era trovata una lettera di un ministro di cui non si è mai fatto il nome. Nordberg ha scritto che la

455 Sull’originale Achmet. Ahmed III (1673-1736), sultano dell’impero ottomano dal 1703 al 1730, quando fu deposto dal nipote Mahmud I (1696-1754).

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lettera conteneva un piano per la conquista dell’impero turco, che la lettera fu recapitata a Carlo XII in Turchia, che Carlo la fece pervenire al divan e che sulla scorta di questa lettera fu dichiarata la guerra. Questa storia presenta abbastanza evidenti le caratteristiche della favola. Fu il khan dei Tatari, che si preoccupava ancor più di Costantinopoli per la vicinanza di Azov, a ottenere con le sue pressioni che si aprissero le ostilità456.

La Livonia non era ancora interamente sottomessa allo zar quando Ahmed III, sin dall’agosto, risolse di dichiarar guerra. A malapena poteva aver notizia della capitolazione di Riga. La proposta di risarcire in danaro i danni materiali subiti dal re di Svezia a Poltava sarebbe stata di tutte le idee la più ridicola, se quella di demolire Pietroburgo non lo fosse stata ancora di più. C’era stato molto di romanzesco nella condotta di Carlo a Bender, ma quella del divan, se avesse avanzato simili richieste, sarebbe stata ancora più romanzesca.

Il khan dei Tatari, che fu il maggior promotore di questa guerra, andò a incontrare Carlo nel suo rifugio457. Essi erano accomunati dagli stessi interessi, perché Azov fa da frontiera alla piccola Tartaria. Quelli che erano stati maggiormente danneggiati dagli ingrandimenti dello zar erano Carlo e il khan di Crimea; ma il khan non aveva alcuna autorità sulle truppe del Gran Signore: egli era come i principi feudatari di Germania, che hanno servito l’impero con le loro truppe, obbedendo al generale dell’imperatore tedesco.

La prima mossa del divan fu quella di far arrestare458 nelle strade di Costantinopoli Tolstoj, ambasciatore dello zar459, con trenta dei suoi domestici, e di rinchiuderlo nel castello delle Sette Torri460. Questa barbara usanza, di cui arrossirebbe perfino un selvaggio, deriva dal fatto che i Turchi hanno sempre dei ministri stranieri residenti in permanenza nel loro Paese ma non inviano mai ambasciatori ordinari. Essi considerano gli ambasciatori dei principi cristiani come semplici consoli mercantili e, dato che del resto non disprezzano meno i cristiani che gli ebrei, si degnano di osservare con

456 Ciò che riporta Nordberg sulle pretese del Gran signore è falso e puerile: egli dice che il sultano Ahmed inviò allo zar le condizioni alle quali avrebbe accordato la pace prima di iniziare la guerra. Le condizioni erano, secondo il confessore di Carlo XII, di rinunciare alla sua alleanza con il re Augusto, di ristabilire Stanislao, di rendere la Livonia a Carlo, di risarcire il principe in contanti di quello che gli aveva tolto a Poltava e di demolire Pietroburgo. Questo documento fu redatto da un certo Brazey, affamato autore di un foglio intitolato Mémoires satiriques, historiques et amusants. Norberg prese da questa fonte. Sembra persino che questo confessore non fosse affatto il confidente di Carlo XII. (Nota dell’Autore) – Per Nordberg, cfr. nota 27. “Brazey” è l’abate Jean Nicolas Moreau de Brasey che pubblicò il libro Memoires politiques: amusans et satiriques nel 1735.

457 Novembre 1710. (Nota dell’Autore)458 29 novembre 1710. (Nota dell’Autore)459 Il conte Pëtr Andreevič Tolstoj (1645-1729) fu consigliere di Pietro il Grande e

ambasciatore in Italia (1697-1699) e a Costantinopoli (1701-1714), poi seguì lo zar nel viaggio in Europa (1716-1717) e nel 1726 fu nominato capo del Consiglio Supremo Segreto. Morto lo zar fu esiliato nel monastero delle Solovki sul mar Bianco.

460 “Sette Torri” (Yedikule) era il nome di una fortezza accanto alla Porta d’Oro di Costantinopoli, usata come prigione per i prigionieri politici fino al 1831.

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loro il diritto delle genti solo quando vi sono costretti; almeno fino a oggi hanno insistito in questo feroce orgoglio.

Il celebre visir Ahmed Koprülü, che espugnò Candia sotto Maometto IV461, aveva trattato il figlio di un ambasciatore di Francia in modo oltraggioso e dopo aver spinto la sua brutalità fino alle percosse, l’aveva gettato in prigione senza che Luigi XIV, pur così fiero, avesse dato altri segni di risentimento oltre a quello di inviare un altro ministro alla Porta. I sovrani cristiani, che sul punto d’onore sono tra loro suscettibilissimi, tanto da includerlo nel diritto pubblico, sembrano dimenticarsene con i Turchi.

Nessun sovrano fu mai offeso nella persona dei suoi ministri come lo zar di Russia. Nel giro di pochi anni vide il suo ambasciatore a Londra imprigionato per debiti, il suo plenipotenziario in Polonia e Sassonia suppliziato sulla ruota per ordine del re di Svezia, il suo ministro presso la Porta ottomana arrestato e messo in prigione a Costantinopoli come un malfattore.

La regina d’Inghilterra gli diede soddisfazione per l’oltraggio di Londra nel modo che si è visto, l’atroce affronto subito nella persona di Patkul fu lavato nel sangue degli Svedesi alla battaglia di Poltava, ma la fortuna lasciò impunita questa violazione del diritto delle genti compiuta dai Turchi.

Lo zar fu costretto ad abbandonare il teatro della guerra in Occidente462 per andare a guerreggiare sulle frontiere della Turchia. Dapprima fa avanzare verso la Moldavia463 dieci reggimenti di stanza in Polonia. Dà l’ordine al maresciallo Šeremetev di partire dalla Livonia col suo corpo d’armata, quindi, lasciando al principe Menšikov la direzione degli affari di Pietroburgo, si reca a Mosca a dare tutte le disposizioni per la campagna che si deve iniziare.

Viene insediato un senato di reggenza464, i reggimenti di guardie si mettono in marcia, lo zar ordina ai giovani nobili di andare a imparare sotto la sua guida il mestiere delle armi, sistemando alcuni in qualità di cadetti e altri di ufficiali subalterni. L’ammiraglio Apraksin raggiunge Azov con le funzioni di comandante per terra e per mare. Prese tutte queste misure, ordina da Mosca che si riconosca una nuovo zarina: era la stessa persona fatta prigioniera di guerra a Marienburg nel 1702465. Nel 1696 Pietro aveva ripudiato Evdokija Lopuchina466 sua sposa, che gli aveva dato due figli467. Le leggi della sua Chiesa consentono il divorzio, ma anche se l’avessero proibito egli avrebbe fatto una legge per renderlo lecito.

La giovane prigioniera di Marienburg, cui era stato imposto il nome di Caterina, era superiore al suo sesso e alla sventura che l’aveva colpita.

461 Sull’originale Achmet Couprougli e Mahomet IV; cfr. nota 180.462 Gennaio 1711. (Nota dell’Autore)463 È ben strano che tanti scrittori confondano la Valacchia con la Moldavia. (Nota dell’Autore)464 18 gennaio 1711. (Nota dell’Autore)465 Cfr. nota 332.466 Sull’originale Eudoxia Lapoukin con nota di Voltaire: «Ou Lapouchin». – Cfr. nota 213.467 I figli furono tre: Alessio nel 1690, Alessandro nel 1692 (morto l’anno dopo) e Paolo nel

1693 (morto lo stesso anno).

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Grazie al suo buon carattere seppe rendersi così gradita che lo zar volle averla con sé: ella lo accompagnò nei suoi spostamenti e nei suoi gravosi lavori, dividendo con lui le fatiche, alleviandogli le pene con il suo spirito gaio e la sua compiacenza, ignorando del tutto quell’apparato di lussi e di mollezze di cui altrove le donne hanno fatto un bisogno reale. Ciò che rese ancor più singolare il suo favore, fu il fatto che non fu mai invidiata né osteggiata e che non fece vittime. Spesso placò la collera dello zar e lo rese più grande rendendolo più clemente. Infine si rese così necessaria che nel 1707 egli la sposò segretamente. Già aveva avuto da lei due figlie, e l’anno seguente ebbe una principessa che in seguito doveva sposare il duca di Holstein468. Il matrimonio segreto di Pietro e Caterina fu reso pubblico lo stesso giorno469 in cui lo zar470 partì con lei per andare a tentare la fortuna contro l’impero ottomano471. Tutte le disposizioni prese sembravano promettere un esito felice. L’etmano dei Cosacchi doveva tenere a bada i Tatari che già dal mese di febbraio devastavano l’Ucraina; l’esercito russo avanzava alla volta del Dnestr; un altro battaglione agli ordini del principe Golicyn avanzava attraverso la Polonia. All’inizio tutto andò per il meglio: infatti Golicyn, preso contatto nei pressi di Kiev con un forte contingente di Tatari a cui si erano uniti dei Cosacchi, dei Polacchi del partito di Stanislao e persino alcuni Svedesi, li sbaragliò completamente e ne uccise cinquemila. Questi Tatari avevano già fatto diecimila schiavi nella piana circostante. I Tatari usano da tempo immemorabile portarsi dietro più corde che scimitarre, e con queste corde legano gli sventurati che capitano loro a tiro. Tutti i prigionieri furono rimessi in libertà e i rapitori passati per le armi. Se l’esercito fosse stato riunito, avrebbe contato complessivamente 60.000 uomini. Avrebbe dovuto aumentare ancora grazie alle truppe del re di Polonia. Il 3 giugno questo principe che doveva tutto allo zar si recò a fargli visita a Jarosłav sul fiume San472, promettendogli imponenti aiuti. La guerra contro i Turchi fu dichiarata in nome dei due sovrani, ma la Dieta di Polonia non ratificò quanto Augusto aveva promesso: essa non volle la rottura con i Turchi. Era destino dello zar avere nel re Augusto un alleato che non poteva mai aiutarlo. Analoghe speranze ripose nella Moldavia e nella Valacchia e fu ugualmente disilluso.

La Moldavia e la Valacchia dovevano scuotersi di dosso il giogo turco. Queste regioni sono quelle degli antichi Daci che riunitisi ai Gepidi minacciarono a lungo l’impero romano. Traiano li sottomise, Costantino I li convertì al cristianesimo. La Dacia divenne una provincia dell’impero d’Oriente; ma poco dopo quegli stessi popoli dovevano contribuire alla caduta di quello d’Occidente prestando servizio sotto i vari Odoacre e Teodorico.

468 Anna Petrovna Romanova (1708-1728) era la figlia maggiore di pietro e Caterina. Nel 1725 sposò Carlo Federico di Holstein-Gottorp (1700-1739).

469 17 marzo 1711. (Nota dell’Autore)470 Diario di Pietro il Grande. (Nota dell’Autore)471 7 marzo 1711.472 In Polonia, nella regione dei Carpazi.

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Successivamente queste contrade rimasero a far parte dell’impero d’Oriente e dopo la presa di Costantinopoli da parte turca furono governate e tiranneggiate da principi locali. Da ultimo sono state interamente sottomesse dal padisha o imperatore turco, che ne conferisce l’investitura. L’ospodaro o voivoda, scelto dalla Porta per governare queste province, è sempre un cristiano greco. Con questa scelta i Turchi danno prova di tolleranza, mentre da noi, declamatori ignoranti li accusano di fanatismo. Il principe scelto dalla Porta è tributario o meglio appaltatore: essa conferisce tale carica a chi fa l’offerta più alta e i doni più ricchi al visir, proprio come conferisce il patriarcato greco di Costantinopoli. Qualche volta ottiene la carica un dragomanno, cioè un portavoce del divan. Raramente la Moldavia e la Valacchia sono riunite sotto lo stesso voivoda: la Porta tiene divise queste due province per maggior sicurezza. Dimitrie Cantemir473 aveva ottenuto la Moldavia. Si faceva discendere questo Cantemir da Tamerlano perché il nome di Tamerlano era Timur, questo Timur era un khan tataro, e si diceva che la famiglia Cantemir derivasse dal nome di Timur-Khan.

Bassaraba de Brancovan474 era stato investito della Valacchia. Questo Bassaraba non trovò un esperto di genealogie capace di farlo discendere da un conquistatore tartaro. Cantemir credette giunto il momento di sottrarsi al dominio turco e rendersi indipendente grazie alla protezione dello zar. Egli fu per Pietro ciò che Mazepa era stato per Carlo. In un primo momento indusse perfino l’ospodaro di Valacchia, Bassaraba, a entrare nel complotto di cui sperava di godere tutti i frutti. Egli progettava di rendersi padrone delle due province. Il vescovo di Gerusalemme, che si trovava allora in Valacchia, fu l’animatore della congiura. Cantemir promise allo zar viveri e truppe, come Mazepa aveva fatto col re di Svezia, e mantenne la promessa allo stesso modo.

Il generale Šeremetev avanzò fino a Iaşi, capitale della Moldavia, per presenziare all’attuazione di quei vasti progetti e favorirli. Cantemir gli si fece incontro ed ebbe accoglienze principesche, ma il suo solo atto da principe fu quello di pubblicare un manifesto contro l’impero turco. L’ospodaro di Valacchia, che smascherò ben presto i suoi ambiziosi progetti,

473 Sull’originale Démétrius Cantemir. Dimitrie Cantemir (o in russo Dmitrii Konstantinovič Kantemir (1673–1723), letterato, etnografo e geografo moldavo, nonché comandante dell’esercito ottomano. Nel marzo aprile 1693 e tra il 1710 e il 1711 fu voivoda della Moldavia. Scrisse in latino Descriptio Moldaviae (Descrizione della Moldavia) e l’opera enciclopedica Incrementa atque decrementa aulae othomanicae (Ascesa e declino dell’impero ottomano) nel 1714-1716. Era il padre di Antioch Dmitrievič Kantemir, famoso scrittore russo.

474 Bassaraba de Brancovan è il nome di una dinastia valacca. Voltaire si riferisce a Constantin Brâncoveanu (1654-1714), principe di Valacchia tra il 1688 e il 1714. All’inizio egli provò a tessere delle alleanze anti-ottomane con gli Asburgo e con Pietro il Grande, da cui ricevette dei regali, ma la loro alleanza col principe della Moldavia, storico nemico della Valacchia, compromise tutto. Quando alcuni suoi bojari si rifugiarono presso i Russi, tornò ad appoggiarsi agli Ottomani e restituì i doni a Pietro. La cosa si seppe e Brâncoveanu fu deposto (1714), imprigionato a Costantinopoli e decapitato assieme ai suoi figli. La Chiesa ortodossa rumena li ha dichiarati santi martiri nel 1992 ritenendo che furono giustiziati perché non vollero convertirsi all’Islam.

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disertò il suo partito e rientrò nella legittimità. Il vescovo di Gerusalemme che giustamente temeva per la propria vita fuggì a nascondersi; la popolazione moldava e valacca restò fedele alla Porta ottomana, e coloro che avrebbero dovuto rifornire di viveri l’esercito russo andarono a consegnarli a quello turco.

Già il visir Baltaci Mehmet475 aveva attraversato il Danubio alla testa di centomila uomini e avanzava alla volta di Iaşi lungo il corso del Prut, già Hierasus, che si getta nel Danubio e che segna all’incirca la demarcazione fra la Moldavia e la Bessarabia. Egli inviò il conte Poniatowski, gentiluomo legato alle fortune del re di Svezia476, affinché pregasse il sovrano di venire a fargli visita e a passare in rivista il suo esercito. Carlo non poté risolversi a questo: pretendeva che il gran visir gli facesse visita per primo nel suo rifugio di Bender: la fierezza fu più forte dell’interesse. Quando Poniatowski fu di ritorno al campo turco e scusò il rifiuto di Carlo XII, il visir disse al khan dei Tatari: «Ero sicuro che quell’orgoglioso pagano si sarebbe comportato così». Questa fierezza reciproca, che sempre allontana i potenti, non valse certo a migliorare la posizione del re di Svezia; d’altronde doveva accorgersi ben presto che i Turchi agivano per sé, non per lui.

Mentre l’esercito ottomano passava il Danubio, lo zar avanzava lungo le frontiere della Polonia per andare a disimpegnare il maresciallo Šeremetev il quale, trovandosi a sud di Iaşi, sulle rive del Prut, correva il pericolo di essere in breve circondato da centomila turchi e da un esercito tataro. Prima di attraversare il Boristene, Pietro esitava a esporre Caterina a un pericolo che si faceva di giorno in giorno più grave, ma Caterina vide in questa preoccupazione dello zar un affronto al proprio amore e al proprio coraggio e fece tali pressioni che lo zar non poté fare a meno di lei. L’esercito era felice di vederla cavalcare alla testa della schiera. Raramente ella si serviva della carrozza. Si dovette avanzare al di là del Boristene attraverso vari deserti, attraversare il Bug e poi il Tiras, oggi Dnestr, dopo di che si incontrava ancora un altro deserto prima di giungere sulle rive del Prut. Ella incoraggiava l’esercito, vi portava la gaiezza, faceva giungere il suo aiuto agli ufficiali malati ed estendeva le sue cure fino ai soldati.

Finalmente giunsero a Iaşi477, dove si dovevano installare dei magazzini. L’ospodaro di Valacchia Bassaraba, che si era riavvicinato agli interessi della Porta ma fingeva di fare quelli dello zar, gli offrì la pace, sebbene il gran visir non gliene avesse dato l’incarico. Fu fiutato il tranello e ci si limitò a

475 Sull’originale Baltagi Méhémet. Baltaci Mehmet Pasha (1662-1712) Baltaci significa “dipendente del palazzo” del sultano e gli rimase come epiteto. Fu Gran visir per due volte, la prima durò fino al 1706, la seconda dal 1710 al 1711. Durante quest’ultimo ricevette Carlo XII a Bender dopo la battaglia di Poltava (1709) e l’anno seguente dichiarò guerra ai Russi. Pur avendo circondato Pietro il Grande accettò la richiesta di pace (Trattato del Prut). Accusato di aver riscosso una tangente da Caterina I fu esiliato sulle isole greche.

476 Il conte Stanisław Poniatowski (1676-1762) fu un generale polacco che, essendo contrario all’elezione di Augusto il Forte (cfr. note 246 e 247), passò nell’esercito svedese contro la Polonia. Infine, nel 1722 fu nominato da Augusto II Gran tesoriere della Lituana.

477 4 luglio 1711. (Nota dell’Autore)

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chiedergli dei viveri che non poteva né voleva fornire. Era difficile farli venire dalla Polonia; i rifornimenti promessi da Cantemir, che questi sperava invano di ottenere dalla Valacchia, non potevano giungere: la situazione diventava critica. A tutti questi contrattempi venne ad aggiungersi un grave flagello: nugoli di cavallette ricoprirono le campagne, le spogliarono e le infettarono: spesso durante le marce, sotto un sole che bruciava, in mezzo ad aridi deserti, l’acqua mancava: si dovette farla portare dall’esercito dentro le botti.

Per una singolare fatalità, Pietro, nel corso di questa marcia, si trovava a tiro di Carlo XII: infatti Bender dista soltanto venticinque leghe comuni dalla località dove l’esercito russo era accampato nei pressi di Iaşi. Manipoli di Cosacchi si spinsero fino al rifugio di Carlo, ma gruppi di Tatari di Crimea che manovravano in quella zona misero il re di Svezia al sicuro dalle sorprese. Nel suo campo egli attendeva, impaziente e fiducioso, l’esito della guerra.

Appena Pietro ebbe costituito alcuni depositi, si affrettò ad avanzare sulla riva destra del Prut. La mossa decisiva era quella di impedire ai Turchi, attestati sotto di lui sulla sponda sinistra, di attraversare il fiume e di venirgli incontro. Questa manovra avrebbe dovuto renderlo padrone della Moldavia e della Valacchia: egli spedì il generale Janus478 con l’avanguardia a contrastare il passo ai Turchi. Ma il generale giunse soltanto nel preciso momento in cui essi stavano attraversando il fiume su dei pontoni; egli ripiegò e la sua fanteria fu inseguita fino a che lo zar in persona venne a disimpegnarla.

Ben presto dunque l’esercito del visir si fece incontro a quello dello zar costeggiando il fiume. I due eserciti erano molto diversi: quello turco, con dei rinforzi tatari, si aggirava, si dice, sui 250.000 uomini, quello russo era allora di soli 37.000 combattenti. Un contingente considerevole agli ordini del generale Rönne479 si trovava al di là delle montagne della Moldavia sul fiume Siret, ma i Turchi tagliarono la comunicazione.

Lo zar cominciava a mancare di viveri e le sue truppe, accampate non lontano dal fiume, potevano a malapena procurarsi l’acqua. Erano sotto il tiro di una nutrita artiglieria, piazzata dal gran visir sulla riva sinistra del fiume con un reggimento che faceva continuamente fuoco sui Russi. A giudicare da questo racconto molto particolareggiato e molto fedele, si direbbe che il visir Baltaci Mehmet, ben lungi dall’essere l’imbecille che è stato descritto dagli Svedesi, si fosse regolato con molta intelligenza. Attraversare il Prut sotto gli occhi del nemico costringendolo a indietreggiare, inseguirlo, tagliare d’un tratto la comunicazione tra l’esercito

478 Jahnus (Janus) von Eberstädt, generale di cavalleria.479 Sull’originale Renne. Karl von Ewald Rönne (1663-1716), di origine estone, militò negli

eserciti svedese 1675-1685), danese (1686-1697), sassone (1697-1702) e russo (dal 1702) sotto il quale arrivò al grado di generale. Sotto Pietro I, partecipò a tutte le campagne del Nord e in Ucraina. Ferito a Poltava, dovette cedere il comando del suo reggimento al generale Baur, ma per il suo valore fu promosso generale di cavalleria. Durante la battaglia del Prut conquistò la fortezza di Brăila.

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dello zar e un suo squadrone di cavalleria, accerchiare quest’esercito senza lasciargli via di scampo, tagliargli l’acqua e i viveri, tenerlo sotto il tiro delle batterie di cannoni che lo minacciano dalla riva opposta, tutto ciò non può essere l’opera di un uomo inattivo e imprevidente.

Pietro allora venne a trovarsi in una situazione ancora più critica di quella di Carlo XII a Poltava: come lui era circondato da un esercito più numeroso, ancor più di lui era provato dalla carestia, come lui aveva fatto affidamento sulle promesse di un principe non abbastanza potente da mantenerle; scelse dunque la soluzione della ritirata, e tentò di andarsi a scegliere una posizione vantaggiosa indietreggiando verso Iaşi.

Tolse il campo durante la notte480, ma si è appena messo in marcia che i Turchi, all’alba, piombano sulla sua retroguardia. Il reggimento di guardie Preobraženskij ne sostenne a lungo l’urto. L’esercito si schierò, si trincerò dietro i carri e i bagagli. Lo stesso giorno481 tutto l’esercito turco attaccò i Russi ancora una volta. Checché se ne sia detto, la prova che potevano difendersi è data dal fatto che si difesero a lungo e uccisero molti nemici senza esser messi in rotta.

Nell’esercito ottomano c’erano due ufficiali del re di Svezia con alcuni cosacchi del partito di Carlo XII: uno era il conte Poniatowski, l’altro il conte di Sparre482. Le mie relazioni dicono che questi due ufficiali consigliarono al gran visir di non dar battaglia, di tagliare al nemico l’acqua e i viveri e di costringerlo ad arrendersi o a morire. Secondo altre relazioni essi avrebbero invece incitato il visir a distruggere con la spada un esercito sfinito e stremato che già soccombeva alla carestia. La prima idea parrebbe più circospetta, la seconda più conforme al carattere di ufficiali formatisi alla scuola di Carlo XII483.

Di fatto il gran visir all’alba piombò sulla retroguardia. Questa retroguardia era in disordine: al principio i Turchi si trovarono di fronte solo una linea di 400 uomini, ma i Russi si disposero rapidamente in ordine di battaglia. A un generale tedesco di nome Allart484 andò la gloria di aver dato

480 20 luglio 1711. (Nota dell’Autore)481 21 luglio 1711. (Nota dell’Autore)482 Per l’esercito svedese, Axel Sparre (1652-1728) partecipò a tutte le battaglie ricoprendo

via via ruoli più responsabili. Voltaire lo cita anche nella Storia di Carlo XII a proposito di un’azione nel 1697 con Carl Piper ma ciò non è confermato dai fatti. Sparre invase l’Ucraina insieme al re svedese fino a Poltava e fu esiliato con lui a Bender. Qui diventò consigliere dei Turchi contro al Russia e tornò in Svezia con Carlo XII.

483 Al contrario, nella Storia di Carlo XII (libro V), Voltaire scrisse: «Poniatowski consiglia al gran visir di affamare l’esercito moscovita, che, mancando di tutto, sarebbe obbligato, in capo a un giorno, ad arrendersi con il suo imperatore».

484 Sull’originale Alard. Ljudvig Nikolaj von Allart (o Gallard; 1659-1727), di origini sassoni, era un ingegnere militare che fu al servizio di Pietro I anche come generale dal 1700. Prigioniero degli Svedesi a Narva e rilasciato nel 1706, fu nominato ambasciatore in Russia di Augusto II e quando dopo pochi mesi questi fu deposto restò in Russia, partecipando a numerose operazioni contro gli Svedesi e supervisionando la costruzione di alcuni impianti strategici. Si distinse sia nella battaglia di Poltava (perciò decorato) che in quella del Prut (dove rimase ferito). Nel 1711 si dimise dagli incarichi per divergenze con Menšikov e rientrò in servizio nel 1721, dopo il trattato di Neustadt/Nystad, ma si ritirò

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disposizioni così tempestive e così vantaggiose che i Russi resistettero per tre ore all’esercito ottomano senza perdere terreno.

La disciplina cui lo zar aveva abituato le proprie truppe lo ripagò delle sue fatiche. A Narva si erano visti 60.000 uomini travolti da 8.000 perché erano indisciplinati; qui si vide una retroguardia di circa 8.000 Russi sostenere l’urto di 150.000 Turchi, uccidere 7.000 dei loro uomini e costringerli a indietreggiare.

Dopo questo pesante scontro i due eserciti si accamparono per la notte, ma l’esercito russo restava sempre accerchiato, privo di rifornimenti e persino di acqua. Si trovava vicino alle rive del Prut ma non poteva accostarsi al fiume: infatti bastava che dei soldati si arrischiassero ad andare ad attingere acqua perché un drappello di Turchi appostato sull’altra sponda facesse piovere su di loro il piombo e il ferro di una nutrita artiglieria caricata a cartucce. Da parte sua l’esercito turco che aveva attaccato i Russi continuava a fulminarli con i suoi cannoni.

Era probabile che alla lunga i Russi fossero perduti senza scampo, a causa della posizione, della sproporzione numerica e della carestia. Le scaramucce continuavano sempre: la cavalleria dello zar, quasi tutta appiedata, non era più di nessuna utilità a meno che non combattesse a piedi; la situazione sembrava disperata. È sufficiente avere sotto gli occhi la mappa esatta degli accampamenti dello zar e dell’esercito ottomano per rendersi conto che la situazione era rischiosa quant’altre mai, che la ritirata era impossibile, che bisognava o riportare completa vittoria o perire fino all’ultimo oppure essere schiavi dei Turchi.

Tutte le relazioni e le memorie dei tempo sono unanimi nell’affermare che lo zar, incerto se l’indomani avrebbe o no tentato le sorti di una nuova battaglia, se avrebbe esposto la sua sposa, l’esercito, l’impero e il risultato di tante fatiche a una rovina che pareva inevitabile, si ritirò nella sua tenda vinto dal dolore e agitato dalle convulsioni che talvolta lo coglievano e che l’angoscia non faceva che aggravare. Solo, in preda a tante crudeli inquietudini, non volendo che nessuno lo vedesse in quello stato, proibì a chiunque di entrare nella tenda. Allora si vide che fortuna fosse stata per lui l’aver permesso alla sua sposa di seguirlo. Caterina, malgrado il divieto, entrò.

Una donna che aveva sfidato la morte in tanti scontri, esposta al fuoco dell’artiglieria turca come chiunque altro, aveva il diritto di parlare. Ella convinse lo sposo a tentare la via del negoziato.

È usanza immemorabile in tutto l’Oriente che, quando si chiede udienza a un sovrano o a un suo rappresentante, non ci si presenti mai senza doni. Caterina radunò i pochi gioielli che aveva portato seco in quel viaggio guerriero da cui ogni lusso e ogni magnificenza erano banditi; ai gioielli aggiunse due pellicce di volpe nera; il denaro contante che poté mettere

poco dopo. Scrisse la prima parte di una storia di Pietro I (rimasta manoscritta) e La descrizione dettagliata dell’assedio della città di Narva.

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insieme fu destinato al kiaia485. Scelse personalmente un ufficiale intelligente che avrebbe dovuto, con due servitori, recapitare i doni al gran visir e in seguito rimettere al kiaia, in sicurezza, il dono a lui destinato. A quest’ufficiale fu affidata una missiva del maresciallo Šeremetev a Baltaci Mehmet. Le memorie di Pietro confermano la notizia della lettera, ma non dicono nulla sui particolari che escogitò Caterina: tutto l’episodio è confermato a sufficienza dalla dichiarazione che lo stesso Pietro rilasciò nel 1725, allorché fece incoronare Caterina imperatrice: «Ci è stata, egli dice, di grande aiuto in tutti i pericoli e particolarmente in occasione della battaglia del Prut, dove il nostro esercito era ridotto a 22.000 uomini». Se è vero che in quell’occasione lo zar aveva ormai solo 22.000 combattenti che minacciavano di soccombere al ferro o alla fame, il servizio reso da Caterina fu pari ai benefici di cui lo sposo l’aveva colmata. Apprendiamo dal diario manoscritto di Pietro il Grande486 che il giorno stesso della grande battaglia, 20 luglio, c’erano 31.554 uomini di fanteria e 6.692 di cavalleria, quasi tutti appiedati: in quella battaglia avrebbe dunque perduto 16.246 combattenti. Le altre relazioni affermano che le perdite dei Turchi furono di gran lunga più considerevoli delle sue, e che siccome questi andavano all’assalto accalcandosi alla rinfusa, nessuno dei colpi tirati su di loro andò a vuoto. Se è così, la giornata del Prut tra il 20 e il 21 luglio fu una delle più sanguinose cui si sia assistito da vari secoli a questa parte.

O bisogna supporre che Pietro il Grande si è ingannato quando, nell’incoronare l’imperatrice, le esprimeva la sua riconoscenza «per aver salvato il suo esercito ridotto a 22.000 combattenti», o accusare di falso il suo diario dal quale risulta che il giorno della battaglia l’esercito del Prut, indipendentemente dallo squadrone accampato sul Sireth, «ammontava a 31.554 uomini di fanteria e 6.692 di cavalleria». Sulla base di questi calcoli la battaglia sarebbe stata ancor più terribile di quanto non abbiano riferito sinora gli storici e tutte le relazioni pro e contro. Sicuramente a questo punto c’è un malinteso, cosa comunissima nelle relazioni di guerra appena si comincia a entrare nei dettagli. Il sistema più sicuro è quello di attenersi sempre all’evento principale, la vittoria o la sconfitta: è difficile che si sappia con precisione quanto l’una e l’altra siano costate.

Per quanto esiguo fosse il numero cui era ridotto l’esercito russo, ci si illudeva che una resistenza così intrepida e tenace si sarebbe imposta al rispetto del gran visir, che si sarebbe conclusa la pace a condizioni onorevoli per la Porta ottomana e che questo trattato, mettendo il visir in buona luce presso il suo signore, non sarebbe stato troppo umiliante per l’impero di Russia. A quanto pare, il gran merito di Caterina fu proprio quello di aver intravisto tale possibilità in un momento in cui i generali non sembravano prevedere altro che un’inevitabile rovina.

Nordberg, nella sua Storia di Carlo XII, cita una lettera dello zar nella quale egli si esprime in questi termini: «Se, contro ogni mia intenzione, ho

485 Rappresentante del principe.486 Pagina 177 del diario di Pietro il Grande. (Nota dell’Autore)

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avuto la sfortuna di dispiacere a Sua Altezza, sono pronto a riparare a tutte le cagioni di lamentela che ella può avere contro di me. Vi scongiuro, nobilissimo generale, di impedire che sia sparso altro sangue, e vi supplico di far cessare all’istante il fuoco eccessivo della vostra artiglieria. Ricevete l’ostaggio che vi invio».

Questa lettera ha tutte le apparenze della falsità, come del resto la maggior parte dei documenti citati a casaccio da Nordberg: essa porta la data dell’11 luglio, secondo il nuovo calendario, e non si scrisse a Baltaci Mehmet che il 21. Inoltre non fu lo zar a scrivere, bensì il maresciallo Šeremetev. Nella lettera non furono impiegate espressioni come «lo zar ha avuto la sfortuna di dispiacere a Sua Altezza», termini convenienti soltanto a un suddito che domanda perdono al suo signore, e non vi si fa alcun cenno a ostaggi perché non se ne mandarono; inoltre la lettera fu recapitata da un ufficiale, mentre l’artiglieria fulminava da ambo le parti. Šeremetev, nella sua lettera, si limitava a ricordare al visir alcune offerte di pace avanzate dalla Porta all’inizio della campagna tramite i ministri d’Inghilterra e di Olanda, allorché il divan domandava la cessione della cittadella e del porto di Taganrog, vere cause della guerra.

Varie ore passarono prima che giungesse una risposta dal gran visir. Si temeva che il latore fosse stato ucciso dal cannone o trattenuto dai Turchi. Fu spedito un secondo corriere487 con un duplicato, e fu tenuto un consiglio di guerra alla presenza di Caterina. Dieci ufficiali generali firmarono il seguente verbale: «Se il nemico non vuole accettare le condizioni offertegli o se esige che deponiamo le armi e ci arrendiamo a discrezione, tutti i generali e i ministri all’unanimità sono risoluti ad aprirsi la strada attraverso le schiere nemiche».

In seguito a questa decisione, i bagagli dell’esercito furono circondati con delle trincee e si avanzò fino a cento passi dall’esercito turco: fu a questo punto che il visir fece finalmente proclamare una tregua d’armi.

Tutto il partito svedese nelle sue memorie ha dato del vile e dell’infame a questo visir che si è lasciato corrompere. Allo stesso modo molti scrittori hanno accusato il conte Piper di aver accettato denaro dal duca di Marlborough per convincere il re di Svezia a continuare la guerra contro lo zar, e un ministro di Francia fu incolpato di aver concluso dietro compenso il trattato di Siviglia. Accuse del genere devono essere avanzate solo su prove lampanti. È estremamente raro che dei primi ministri si abbassino a viltà tanto infamanti, che prima o poi si vengono a risapere o a opera di chi ha sborsato il denaro o dai registri che attestano il fatto. Un ministro è sempre un uomo che sta sulla ribalta europea, l’onore è alla base del suo credito; egli è sempre ricco abbastanza da non aver bisogno di essere un traditore.

Quella di viceré dell’impero ottomano è una carica così importante, i profitti in tempo di guerra sono così ingenti, nelle tende di Baltaci Mehmet regnava tale abbondanza e magnificenza, nell’esercito dello zar vi era tale semplicità e soprattutto tale penuria che il gran visir era più in condizione di

487 21 luglio 1711. (Nota dell’Autore)

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dare che di prendere. La piccola attenzione di una donna che invia delle pellicce e qualche anello come usa in tutte le corti, anzi in tutte le Porte dell’Oriente, non poteva esser considerata corruzione. La condotta franca e aperta di Baltaci Mehmet sembra confondere le accuse di cui si sono macchiati tanti scritti concernenti quest’affare. Il vice-cancelliere Šafirov488 si recò alla sua tenda in pompa magna, tutto vi svolse alla luce del sole e non poteva svolgersi altrimenti. I negoziati veri e propri furono avviati alla presenza di un uomo legato al re di Svezia e domestico del conte Poniatowski, ufficiale di Carlo XII, il quale all’inizio servì da interprete; gli articoli furono redatti pubblicamente, a opera del primo segretario del visirato, tale Ömer Efendi489. Lo stesso conte Poniatowski era presente. Il dono destinato al kiaia fu offerto pubblicamente nel corso di una cerimonia, tutto si svolse secondo l’usanza orientale, furono scambiati doni da ambo le parti: nulla che assomigli all’aria di un tradimento. Ciò che convinse il visir a concludere è il fatto che proprio allora il corpo d’armata stanziato sul Siret, in Moldavia, agli ordini del generale Rönne, aveva attraversato tre fiumi e in quel momento si trovava sul Danubio, dove Rönne aveva espugnato la città e il castello di Brăila difesi da una nutrita guarnigione agli ordini di un pascià. Lo zar disponeva di un altro contingente che stava avanzando dalle frontiere della Polonia. Per giunta è probabile che il visir non fosse al corrente della carestia che travagliava i Russi. Di solito non si comunica al nemico il computo dei viveri e delle munizioni, anzi, proprio quando si soffre di più, davanti a lui ci si vanta di nuotare nell’abbondanza. Tra Russi e Turchi non esistono disertori: le differenze nel vestire, nella religione e nel linguaggio non lo consentono. Essi non conoscono, come noi, la diserzione; perciò il gran visir non conosceva con esattezza le deplorevoli condizioni in cui si trovava l’esercito di Pietro.

Baltaci, che non amava la guerra e che pure l’aveva saputa fare, pensò che la sua spedizione poteva dirsi riuscita se egli consegnava nelle mani del gran signore le città e i porti per i quali combatteva, se, dalle sponde del Danubio, ricacciava in Russia l’esercito vittorioso del generale Rönne, se chiudeva per sempre la strada del Bosforo Cimmerio, della Palude Meotide e del mar Nero a un sovrano intraprendente, e se, per finire, non esponeva questi vantaggi assicurati ai rischi di una nuova battaglia nella quale, dopo tutto, la disperazione poteva vincere sulla forza. Il giorno avanti aveva visto i suoi giannizzeri respinti, e c’era più di un esempio di vittorie riportate dai pochi contro i molti. Tali furono le sue ragioni, ma né gli ufficiali di Carlo presenti presso il suo esercito né il khan dei Tatari le approvarono:

488 Sull’originale Schaffirof. Il barone Pëtr Pavlovič Šafirov (1670-1739) fu uno statista tra i più abili sotto Pietro il Grande. Iniziò la carriera come traduttore e interprete, poi mostrando doti diplomatiche non comuni fu eletto vice-cancelliere e fu lui a concludere con i Turchi la pace del Prut (1711) e il trattato di Adrianopoli (1713). Nel 1718 fu nominato vicepresidente del ministero degli Affari esteri e senatore, ma accusato di peculato, nel 1723 fu condannato all’esilio in Siberia, da cui fu liberato alla morte di Pietro. Scrisse una vita dello zar e un trattato sulle guerre intraprese contro Carlo XII.

489 Sull’originale Hummer Effendi. Effendi, o efendi, era il titolo indicante il segretario capo.

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l’interesse dei Tatari era quello di poter esercitare liberamente il saccheggio sulle frontiere russe e polacche, l’interesse di Carlo XII era di vendicarsi dello zar. Il generale e primo ministro dell’impero ottomano, al contrario, non era animato né dalla vendetta privata di un principe cristiano, né dal miraggio del bottino che allettava i Tatari. Appena ci si fu accordati su una tregua d’armi, i Russi comprarono dai Turchi i viveri di cui mancavano. Gli articoli di questa pace non furono redatti nel modo riferito dal viaggiatore La Motraye e che Nordberg riprende da lui490. Il visir, fra le condizioni che pose, voleva innanzi tutto che lo zar si impegnasse a non intromettersi più negli interessi della Polonia, ed è questo il punto su cui insisteva Poniatowski, ma in fondo era negli interessi dell’impero turco che la Polonia restasse divisa e impotente: pertanto questo punto si ridusse a ritirare le truppe russe dalle frontiere. Il khan dei Tatari pretendeva un tributo di 40.000 zecchini: questo articolo fu dibattuto a lungo e non passò.

Il visir domandò ripetutamente che gli si consegnasse Cantemir come il re di Svezia si era fatto consegnare Patkul. Cantemir si trovava nell’esatta posizione in cui si era trovato Mazepa. Lo zar aveva fatto a Mazepa il processo penale e l’aveva fatto giustiziare in effigie; i Turchi non si comportarono così: presso di loro sia il processo in contumacia che le sentenze pubbliche sono sconosciuti. Queste condanne affisse e le esecuzioni in effigie sono tanto meno in uso presso di loro in quanto la loro legge proibisce la rappresentazione della figura umana, di qualunque genere essa sia. Invano essi insistettero per ottenere l’estradizione di Cantemir. Pietro scrisse al vice cancelliere Šafirov queste precise parole: «Lascerò piuttosto ai Turchi tutto il territorio che si estende fino a Kursk491: mi resterà sempre la speranza di riconquistarlo. Ma la perdita della mia parola è irreparabile e io non posso violarla. Non abbiamo che l’onore che sia veramente nostro: rinunciarvi significa cessare di essere monarca».

Finalmente il trattato fu concluso e firmato presso il villaggio chiamato Falksen492, sulle rive del Prut. Nel trattato fu convenuto che Azov e il suo territorio sarebbero stati restituiti con le munizioni e l’artiglieria di cui era fornito nel 1696, prima che lo zar lo conquistasse; che il porto di Taganrog, sul mar di Sivah493 sarebbe stato demolito come quello di Samara sul fiume omonimo e altre piccole cittadelle. Per finire fu aggiunta una clausola concernente il re di Svezia, e persino da questa clausola appariva chiaramente il risentimento del visir contro di lui. Fu stipulato che lo zar non avrebbe importunato questo principe se egli faceva ritorno nel suo Stato, e che d’altronde lo zar e lui potevano fare la pace quando ne avessero avuto voglia.

L’insolita formula di questa clausola rivela chiaramente che Baltaci Mehmet non aveva dimenticato l’alterigia di Carlo XII, anzi chi può dire se

490 Cfr. nota 431.491 Sull’originale Cursk.492 O in polacco Falczi.493 Sull’originale Zabache.

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non fu proprio quell’alterigia a far propendere Mehmet verso la pace? La rovina dello zar equivaleva alla grandezza di Carlo e non è del cuore umano rendere potenti coloro che ci disprezzano. Finalmente questo principe, che non aveva acconsentito a recarsi presso l’esercito del visir quando avrebbe dovuto usargli dei riguardi, vi si precipitò quando stava per essere compiuta l’opera che gli toglieva ogni speranza. Il visir non gli andò incontro e si limitò a inviargli due pascià; si incontrò con Carlo soltanto a qualche distanza dalla sua tenda.

La conversazione, come è noto, consistette solo in rimproveri. A vari storici è parso che la risposta del visir al re allorché questi gli rimproverò che, pur potendo prendere prigioniero lo zar, non lo aveva fatto, fosse una risposta da imbecille. «Se avessi preso lo zar – egli disse – chi avrebbe governato il suo impero?» Eppure non è difficile accorgersi che era la risposta di un uomo indispettito e le parole che aggiunse: «Non è bene che tutti i re escano di casa loro» rivelano la sua intenzione di umiliare l’ospite di Bender.

Dal suo viaggio, Carlo non trasse altro vantaggio che quello di strappare la veste del gran visir con lo sperone degli stivali. Il visir, che avrebbe potuto farlo pentire di questo, finse di non accorgersene, e in questo fu molto superiore a Carlo. Se qualcosa nella vita brillante e tumultuosa di questo monarca poteva fargli sentire quanto può la fortuna umiliare la grandezza era proprio il fatto che a Poltava un pasticciere aveva fatto deporre le armi a tutto il suo esercito494 e che al Prut un taglialegna aveva deciso le sorti sue e dello zar. Infatti il visir Baltaci Mehmet era stato il taglialegna del serraglio, come risulta dal suo nome495, e ben lungi dall’arrossirne egli se ne faceva un vanto. A tal punto i costumi orientali sono diversi dai nostri.

In un primo momento il sultano e tutta Costantinopoli furono molto soddisfatti dell’operato del visir: furono indetti pubblici festeggiamenti che durarono una intera settimana, il kiaia di Mehmet che aveva recapitato il trattato al divan fu innalzato seduta stante alla dignità di büyük imrahor cioè gran cavaliere496: non è certo il trattamento che si riserva a coloro da cui ci si ritiene mal serviti.

Si direbbe che Nordberg non conoscesse a fondo il governo ottomano: infatti dice che «il gran signore badava a non irritare il suo visir» e che Baltaci Mehmet era un uomo da temere. È spesso accaduto che i giannizzeri fossero un pericolo per i sultani ma non si è mai dato l’esempio di un visir che non sia stato sacrificato senza difficoltà per ordine del suo signore, e Mehmet non aveva i mezzi per sostenersi da solo. Per giunta affermare nella stessa pagina che i giannizzeri erano risentiti contro Mehmet e che il sultano paventava la sua potenza, significa contraddirsi.

494 Cfr. nota 363.495 Cfr. nota 475.496 Sull’originale Buyuk Imraur. Büyük significa “grande” e imrahor è il massimo responsabile

dell’addestramento dei cavalli ed è quindi persona molto importante in tempo di guerra.

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Il re di Svezia si ridusse all’espediente di intrigare alla corte ottomana. Si vide un re, che aveva creati altri, adoperarsi per far presentare al sultano suppliche e petizioni che venivano respinte. Carlo ricorse a tutti gli intrighi come un suddito che voglia mettere in cattiva luce un ministro presso il suo signore. Così si comportò nei confronti del visir Mehmet e di tutti i suoi successori. Ora si rivolgeva alla Sultan Valide497 per mezzo di un’ebrea, ora ricorreva a un eunuco; ci fu persino un uomo che, confondendosi fra le guardie del gran signore, si finse pazzo per attirare la sua attenzione e consegnargli una supplica da parte del re498. Di tutte queste manovre Carlo dapprima non raccolse altro frutto che la mortificazione di vedersi togliere l’appannaggio, cioè la somma che la generosità della Porta gli elargiva ogni giorno e che ammontava a 500 lire francesi. Invece dell’appannaggio il gran visir gli fece recapitare un ordine sotto forma di consiglio di lasciare la Turchia.

Carlo si ostinò più che mai a rimanere, sempre sperando di poter un giorno far ritorno in Polonia e nell’impero russo con un esercito ottomano. Tutti sanno quale fu alla fine, nel 1714, il risultato della sua inflessibile audacia, come egli affrontò un reggimento di giannizzeri, di spahi499 e di Tatari con i suoi segretari, camerieri, cuochi e stallieri, come fu prigioniero in quello stesso Paese dove aveva goduto della più generosa ospitalità, come tornò in seguito al suo Paese travestito da corriere dopo essere rimasto in Turchia cinque anni. Se c’è una logica nella sua condotta, bisogna riconoscere che questa logica non è quella degli altri mortali.

Capitolo II

SEGUITO DELLA QUESTIONE DEL PRUT

Può essere utile a questo punto ricordare un episodio già raccontato nella Storia di Carlo XII. Durante la tregua d’armi che precedette il trattato del Prut avvenne che due tatari si imbattessero in due ufficiali italiani dell’esercito dello zar: essi li catturarono e andarono a venderli a un ufficiale dei giannizzeri. Il visir punì questo attentato contro il diritto pubblico con la morte dei due tatari. Come conciliare tanta sensibilità e tanto rigore con la violazione del diritto delle genti perpetrata nella persona dell’ambasciatore Tolstoj, il quale fu arrestato dallo stesso visir nelle strade di Costantinopoli? Le contraddizioni nella condotta degli uomini hanno sempre un movente. Baltaci Mehmet era maldisposto contro il khan dei Tatari, che non intendeva sentir parlare di pace, e volle fargli sentire chi era il padrone.

Firmata la pace, lo zar si ritirò per la via di Iaşi fin sulla frontiera; lo

497 Sultan Valide, ossia “madre del sultano” era il titolo che portava la madre di un sultano regnante nell’impero ottomano.

498 Dalla Storia di Carlo XII si sa che l’uomo fintosi pazzo era Villelongue, un gentiluomo francese diventato colonnello del re di Svezia.

499 Gli spahi erano truppe scelte della cavalleria ottomana.

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scortava un reggimento di 8.000 turchi inviato dal visir non solo per controllare la marcia dell’esercito russo ma anche per impedire che fosse importunato da gruppi dispersi di tatari.

Dapprima Pietro si attenne al trattato, facendo demolire le fortezze di Samara e di Kam’janec’500, ma la resa di Azov e la demolizione di Taganrog comportavano maggiori difficoltà. Stando ai termini del trattato, bisognava distinguere l’artiglieria e le munizioni di Azov che appartenevano ai Turchi da quelle che lo zar vi aveva portate dopo aver conquistato la fortezza. Il governatore portò per le lunghe il negoziato e la Porta giustamente se ne risentì. Il sultano era impaziente di avere in consegna le chiavi di Azov: il visir gliele prometteva, il governatore continuava a rimandare. Questo costò a Baltaci Mehmet il favore dello zar e la carica; il khan dei Tatari e gli altri suoi nemici ebbero il sopravvento: fu coinvolto nella disgrazia di vari pascià, ma il gran signore che conosceva la sua fedeltà non lo privò né dei beni né della vita. Egli fu inviato a Mitilene501, dove ricoperse la carica di comandante. La semplice deposizione, la conservazione dei suoi beni e soprattutto il comando di Mitilene, smentiscono in modo inoppugnabile tutti gli argomenti che Nordberg adduce per provare che il visir era stato comprato dai denari dello zar.

Nordberg dice che il bostanci basha502 che venne a ritirargli la bolla del comando e a notificargli l’arresto, lo dichiarò «traditore, ribelle al suo signore, venduto ai nemici per denaro e colpevole di non aver vegliato sugli interessi del re di Svezia». Innanzitutto questo tipo di dichiarazione non è usato affatto in Turchia: gli ordini del sultano vengono recapitati in segreto ed eseguiti in silenzio. In secondo luogo se il visir fosse stato dichiarato traditore, ribelle e venduto, tali delitti sarebbero stati puniti con la morte in un Paese dove non vengono mai perdonati. Per finire, se egli fosse stato punito per non aver sufficientemente tutelato gli interessi di Carlo XII, è evidente che il sovrano avrebbe goduto presso la Porta ottomana di un potere effettivo tale da far tremare gli altri ministri. In tal caso essi avrebbero dovuto implorare il suo favore e prevenire i suoi desideri: al contrario, Yusuf pascià, successore di Baltaci Mehmet nella carica di visir503 a proposito della condotta del principe la pensava apertamente come il suo predecessore e, ben lungi dal rendergli dei servigi, non pensò che a disfarsi di un ospite pericoloso. Quando Poniatowski, confidente e amico di Carlo XII, andò a congratularsi con quel visir per la sua nuova carica, egli rispose: «Pagano, ti avverto: al primo intrigo che vorrai tramare, ti farò gettare in mare con una pietra al collo».

Questo complimento che lo stesso Poniatowski riferisce nelle memorie stese dietro mia richiesta, non lascia adito a dubbi sulla scarsa influenza di

500 Sull’originale Kamienska.501 Novembre 1711. (Nota dell’Autore)502 Sull’originale bostangi bachi. Letteralmente significa capo giardiniere, cioè chi guidava un

corpo di 5.000 giardinieri addetti sia al mantenimento dei giardini imperiali, sia alle funzioni di sorveglianti, ispettori doganali e all’occorrenza anche boia.

503 Sull’originale Jussuf pacha. Ağa Yusuf Paşa III restò in carica solo un anno (1711-1712).

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cui Carlo XII godeva alla Porta. Tutto ciò che Nordberg riferisce sugli affari di Turchia sembra provenire da un uomo tendenzioso e male informato. Tutto ciò che egli afferma senza averne alcuna prova a proposito della presunta corruzione di un gran visir, cioè di un uomo che disponeva di più di sessanta milioni all’anno senza doverne rendere conto a nessuno, deve essere relegato tra gli errori imputabili allo spirito di parte e al falso politico. Ho ancora fra le mani la lettera che il conte Poniatowski scrisse al re Stanislao immediatamente dopo la pace del Prut: egli rimprovera a Baltaci Mehmet la sua freddezza verso il re di Svezia, la sua poca simpatia per la guerra e la sua condiscendenza, ma si guarda bene dall’accusarlo di corruzione: conosce troppo bene la carica di gran visir per pensare che lo zar potesse mettere un prezzo al tradimento del viceré dell’impero ottomano.

Šafirov e Šeremetev, trattenuti in ostaggio a Costantinopoli, non ebbero certo il trattamento che sarebbe stato loro riservato se sul loro capo fosse pesata l’accusa di aver comperato la pace e di aver ingannato il sultano d’accordo con il visir. Essi rimasero in città, a piede libero, scortati da due compagnie di giannizzeri.

L’ambasciatore Tolstoj fu liberato dalle Sette Torri immediatamente dopo la pace del Prut, e i ministri dell’Inghilterra e dell’Olanda si adoperarono presso il nuovo visir per l’esecuzione degli articoli.

Azov era stata appena restituita ai Turchi, le fortezze stipulate nel Trattato venivano demolite. Sebbene la Porta ottomana non sia solita intromettersi nelle questioni fra i principi cristiani, era tuttavia lusingata al vedersi arbitro tra la Russia, la Polonia e il re di Svezia. Essa avrebbe preteso che lo zar ritirasse le truppe dalla Polonia e liberasse la Turchia da una vicinanza così pericolosa, inoltre auspicava che Carlo facesse ritorno nel suo Stato affinché i principi cristiani fossero perennemente divisi, ma non ebbe mai l’intenzione di fornirgli un esercito. I Tatari volevano sempre la guerra, come un artigiano vuole esercitare una professione redditizia. I giannizzeri la desideravano anch’essi, ma più per odio contro i cristiani, per fierezza, per amore della licenza, che per altri motivi. Eppure i negoziati dei ministri inglesi e olandesi prevalsero contro il partito opposto. La pace del Prut fu confermata, ma nel nuovo trattato venne aggiunta la clausola che lo zar entro tre mesi avrebbe ritirato dalla Polonia tutte le sue truppe, e che l’imperatore di Turchia avrebbe licenziato immediatamente Carlo XII.

Si giudichi da questo nuovo trattato se il re di Svezia aveva veramente tutto il potere che si è detto presso la Porta. Era evidente che il nuovo visir Yusuf pascià lo sacrificava come il suo predecessore Baltaci Mehmet. Per giustificare questo nuovo affronto, non è rimasta ai suoi storici altra risorsa che quella di accusare Yusuf di essersi lasciato corrompere come il suo predecessore. Simili imputazioni tante volte rinnovate fanno pensare più agli schiamazzi di una cabala impotente che alla testimonianza della storia. Lo spirito di parte, quando, costretto ad ammettere i fatti, ne altera le circostanze e moventi; così purtroppo avviene che tutte le storie contemporanee giungono falsificate alla posterità, la quale non potrà più

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sceverare la verità dalla menzogna.

Capitolo III

MATRIMONIO DELLO ZAREVIČ E SOLENNE PROCLAMAZIONE DEL MATRIMONIOTRA PIETRO E CATERINA, CHE RICONOSCE SUO FRATELLO

La sfortunata campagna del Prut fu più funesta allo zar di quanto non lo fosse stata la battaglia di Narva. Dopo Narva infatti egli aveva saputo trarre partito dalla sua stessa sconfitta, rimediare a tutte le perdite e togliere l’Ingria a Carlo XII. Invece, una volta perduti i porti e le fortezze sulla Palude Meotide in virtù del trattato di Falksen con il sultano, egli fu costretto a rinunciare all’egemonia sul mar Nero. Gli restava ancora un campo d’azione abbastanza vasto: tutte le sue istituzioni in Russia da perfezionare, le conquiste ai danni della Svezia da estendere, la posizione del re Augusto in Polonia da consolidare e i buoni rapporti con gli alleati da mantenere. Gli strapazzi avevano compromesso la sua salute: dovette recarsi alle acque di Carlsbad504 in Boemia; ma mentre faceva la cura delle acque, faceva contemporaneamente attaccare la Pomerania, Stralsund era stretta da un blocco e cinque piccole città furono conquistate.

La Pomerania è la provincia più settentrionale della Germania: confina a oriente con la Prussia e la Polonia, a occidente col Brandeburgo, a sud con il Meclemburgo e a nord con il mar Baltico: fu soggetta quasi ogni secolo a nuovi padroni. Gustavo Adolfo se ne impadronì nella famosa guerra dei Trent’anni, e finalmente, con il trattato di Vestfalia505 fu ceduta agli Svedesi a eccezione del vescovado di Kammin e di qualche piccola fortezza situata nella Pomerania ulteriore506. Tutta quella provincia spettava di diritto all’elettore di Brandeburgo in virtù dei patti di famiglia stretti con i duchi di Pomerania. La casata di questi duchi si era estinta nel 1637 di conseguenza, secondo le leggi dell’impero, la casa di Brandeburgo aveva diritti inoppugnabili su quella provincia, ma con il trattato di Osnabrück507 la necessità che è la prima delle leggi prevalse sui patti di famiglia e da allora quasi tutta la Pomerania era andata a premiare il valore svedese.

Lo zar vagheggiava di spogliare la corona di Svezia di tutti i suoi possedimenti in Germania: per attuare questo piano bisognava allearsi con gli elettori di Brandeburgo e di Hannover e con la Danimarca. Pietro stese tutti gli articoli del trattato che progettava di stringere con quelle potenze e tutto il piano delle operazioni necessarie per conquistare la Pomerania.

In quello stesso periodo, egli celebrò a Torgau il matrimonio508 tra suo

504 O Karlsbad, o Karlovy Vary, ossia “terme di Carlo”, dal nome dell’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo IV che fondò la città nel 1370.

505 Nel 1648.506 Ossia la Pomerania orientale.507 Uno dei tre trattati firmati con la pace di Vestfalia.508 25 ottobre 1711. (Nota dell’Autore)

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figlio Alessio e la principessa di Wolfenbüttel, sorella dell’imperatrice di Germania e sposa di Carlo VI, matrimonio che doveva in seguito rivelarsi così funesto e costare la vita ai due sposi.

Lo zarevič era nato dal primo matrimonio di Pietro con Evdokija Lopuchina, celebrato come si è detto nel 1689. All’epoca di questi fatti, la zarina era confinata in un convento a Suzdal’. Suo figlio Alessio Petrovič, nato il 1° marzo 1690 aveva allora 22 anni509. Questo principe non era ancora noto in Europa. Un ministro di cui si sono stampate delle memorie sulla corte di Russia510 in una lettera indirizzata al suo signore e datata 25 agosto 1711, dice che «il principe era alto e ben fatto, che rassomigliava molto al padre, che aveva buon cuore, che era molto pio, che aveva letto cinque volte le Sacre Scritture, che prediligeva la lettura delle antiche storie greche. Il ministro gli riconosceva lo spirito aperto e pronto e dice che questo principe conosceva la matematica, si intendeva di guerra, di navigazione, di scienza e di idraulica, sapeva il tedesco e stava imparando il francese, ma che suo padre non gli aveva mai permesso di fare quello che da noi si chiama servizio militare».

Questo ritratto è ben diverso da quello che di lì a qualche tempo lo zar in persona tracciò di questo figlio sfortunato: si vedrà con quanto dolore il padre gli rinfaccia tutti i difetti contrari alle buone qualità che ammira in lui il ministro.

Spetta alla posterità pronunciarsi fra uno straniero, il quale può giudicare alla leggera il carattere di Alessio o volerlo adulare, e un padre il quale ha creduto di dover sacrificare i sentimenti naturali al bene del suo impero. Se il ministro conosceva la mente di Alessio come conobbe il suo aspetto esteriore, la sua testimonianza vale poco; egli dice infatti che il principe era alto e ben fatto mentre dalle relazioni che ho ricevuto da Pietroburgo risulta che non era né l’una né l’altra cosa.

La sua matrigna Caterina non assistette al matrimonio: infatti, sebbene fosse considerata la zarina, tale qualità non le era ufficialmente riconosciuta e il titolo di altezza che le veniva dato alla corte dello zar la poneva in una posizione troppo ambigua perché ella potesse firmare il contratto e perché il cerimoniale tedesco le accordasse un rango conveniente alla sua dignità di sposa dello zar. Caterina si trovava allora a Thorn, nella Prussia polacca511. Dapprima lo zar inviò i due sposi novelli a Wolfenbüttel512, e ben presto ricondusse la zarina a Pietroburgo con quella rapidità e semplicità di apparato cui uniformava tutti i suoi viaggi.

509 Alessio nacque il 18 febbraio secondo il calendario giuliano che secondo il gregoriano corrisponderebbe al 1° marzo, ma in Russia viene indicato come 28 febbraio. Il matrimonio con la principessa Carlotta Cristina di Braunschweig-Wolfenbüttel, cognata dell’imperatore Carlo VI del Sacro Romano Impero, avvenne il 17 ottobre 1711, quindi Alessio aveva 21 anni.

510 Friedrich Christian Weber, Mémoires pour servir à l’histoire de l’Empire Russien sous le regne de Pierre le Grand, 1725.

511 Thorn è il nome tedesco di Torun, ora in Polonia.512 9 gennaio 1712. (Nota dell’Autore)

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Celebrato il matrimonio di suo figlio, il suo fu reso pubblico con grande solennità e celebrato a Pietroburgo513. La cerimonia fu tanto augusta quanto è possibile renderla in un paese creato da poco e in un tempo di dissesti finanziari causati dalla guerra sostenuta contro i Turchi e da quella che si stava ancora combattendo contro il re di Svezia. Lo zar predispose da solo il programma dei festeggiamenti e vi lavorò di persona secondo la sua abitudine. Così Caterina fu pubblicamente riconosciuta zarina come premio di aver salvato lo sposo e l’esercito.

Le acclamazioni con cui quel matrimonio fu accolto a Pietroburgo erano sincere; è vero che il plauso dei sudditi alle azioni di un principe assoluto è sempre sospetto, ma fu confermato da tutte le menti sagge dell’Europa, che videro di buon occhio quei due eventi quasi contemporanei: da una parte l’erede di quella vasta monarchia, la cui unica gloria era la nascita, unito in matrimonio a una principessa; dall’altra un conquistatore e un legislatore che divideva pubblicamente il letto e il trono con una sconosciuta fatta prigioniera a Marienburg che contava unicamente sui suoi meriti. Questa stessa approvazione è divenuta più generale via via che gli spiriti venivano illuminati dalla sana filosofia che ha fatto tanti progressi negli ultimi quarant’anni. Sublime e prudente filosofia, che ci insegna a rispettare solo esteriormente ogni forma di grandezza e di potenza, riservando il vero rispetto al talento e ai benefici.

È mio dovere riferire fedelmente ciò che trovo, a proposito di questo matrimonio, nei dispacci del conte di Bassewitz514 che fu consigliere aulico a Vienna e per lungo tempo ministro dello Holstein presso la corte di Russia. Fu questi un uomo di grandi meriti, di rara dirittura e candore, che ha lasciate in Germania delle memorie preziose. Ecco quello che ci dice nelle sue lettere: «Non solo la zarina era stata necessaria alla gloria di Pietro, ma lo era anche alla sua conservazione in vita. Disgraziatamente questo principe andava soggetto a dolorose convulsioni, che si credeva fossero la conseguenza di un veleno propinatogli in gioventù. Soltanto Caterina conosceva il segreto di alleviare i suoi dolori con delle cure penose e delle minuziose precauzioni che solo lei era in grado di fornire: ella si era interamente votata al mantenimento di una salute altrettanto preziosa allo Stato che a lei stessa. Così lo zar, non potendo vivere senza di lei, la fece compagna del letto e del trono». Mi limito a trascrivere le sue parole.

La fortuna, che in questa parte di mondo aveva prodotto tanti eventi straordinari ai nostri occhi e che aveva innalzato la imperatrice Caterina dall’avvilimento e dalla sventura fino al culmine dell’esaltazione, qualche anno dopo la celebrazione solenne del suo matrimonio doveva renderle ancora un singolare servigio.

Ecco quanto leggo nel curioso manoscritto di un uomo che si trovava

513 19 febbraio 1712. (Nota dell’Autore)514 Henning Friedrich Graf von Bassewitz (1680-1749) fu presidente del consiglio del ducato

di Schleswig-Holstein. Dopo la morte fu pubblicato il suo libro Memorie di conte di Bassewitz utili a illustrare alcuni degli eventi del regno di Pietro il Grande, in cui è riportata la rete di relazioni tessuta al tempo della Grande Guerra del Nord.

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allora al servizio dello zar e che parla da testimone: «A un inviato del re Augusto, che se ne ritornava a Dresda attraverso la

Curlandia, capitò di sentire in un’osteria i discorsi di un uomo che sembrava in miseria e al quale veniva riservata l’accoglienza offensiva che fin troppo spesso la sua condizione ispira agli altri uomini. Lo sconosciuto, indispettito, disse che non sarebbe stato trattato così se gli riusciva di essere presentato allo zar, e che forse disponeva presso la sua corte di protezioni più potenti di quanto non si supponesse.

«L’inviato del re Augusto, al cui orecchio giunsero questi discorsi, fu spinto dalla curiosità a interrogare quell’uomo, e sulla base delle vaghe risposte che ne ebbe, avendolo osservato con più attenzione credette di ravvisare nei suoi lineamenti una certa rassomiglianza con l’imperatrice. Giunto a Dresda, non poté trattenersi dallo scriverne a uno dei suoi amici di Pietroburgo. La lettera cadde nelle mani dello zar che dette disposizioni al principe Repnin, governatore di Riga, affinché cercasse di rintracciare l’uomo di cui si parlava nella lettera. Il principe Repnin fece partire per Mitau un messo di fiducia e l’uomo fu rintracciato: si chiamava Karl Skavronskij515 ed era figlio di un gentiluomo lituano morto durante le guerre di Polonia, il quale aveva lasciato due figli ancora in fasce, un maschio e una femmina. Sia l’uno che l’altra non ricevettero alcuna educazione, tranne quella che ci dà la natura nell’abbandono generale di ogni cosa. Skavronskij, che era stato diviso dalla sorella sin dalla più tenera età, sapeva soltanto che ella era stata presa a Marienburg nel 1704 e la credeva ancora presso il principe Menšikov, dove immaginava che avesse fatto una certa fortuna.

«Il principe Repnin, dietro ordine esplicito dello zar, fece condurre Skavronskij a Riga con il pretesto di certi delitti di cui era accusato. Fu fatta contro di lui una specie di istruttoria e quindi fu inviato a Riga sotto buona scorta, con l’ordine di trattarlo bene durante il viaggio.

«Giunto a Pietroburgo fu condotto in casa di un maggiordomo dello zar chiamato Šeplev516. Questo maggiordomo, istruito della parte che doveva recitare, cavò da quell’uomo molte notizie sulla sua condizione e finalmente gli disse che l’accusa intentata contro di lui a Riga era molto grave, ma che avrebbe ottenuto giustizia. Avrebbe dovuto, gli disse, presentare una supplica a Sua Maestà; tale supplica sarebbe stata redatta in suo nome e si sarebbe fatto in modo che fosse lui stesso a presentarla.

«L’indomani lo zar si recò a pranzare in casa di Šeplev. Gli fu presentato Skavronskij: il principe gli fece molte domande e il candore delle sue risposte lo convinse che si trattava proprio del fratello della zarina. Tutti e due durante la loro infanzia erano stati in Livonia. Tutte le risposte che Skavronskij diede alle domande dello zar, corrispondevano a ciò che la moglie gli aveva raccontato a proposito della sua nascita e delle prime sventure della sua vita.

«L’indomani lo zar, ormai certo della verità, propose alla sua sposa di

515 Sull’originale Charles Scavronsky.516 Sull’originale Shepleff.

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pranzare con lui in casa di quello stesso Šeplev; alzatisi da tavola, fece venire l’uomo che aveva interrogato il giorno avanti. Questi comparve vestito degli stessi abiti che aveva portato durante il viaggio, poiché lo zar non volle che si mostrasse con un aspetto diverso da quello al quale l’aveva avvezzato la sua cattiva stella».

Egli lo interrogò nuovamente alla presenza di sua moglie. Il manoscritto riferisce che alla fine gli rivolse queste precise parole: «Quest’uomo è tuo fratello; animo, Karl, bacia la mano all’imperatrice e abbraccia tua sorella».

L’autore della relazione aggiunge che l’imperatrice svenne e che, quando tornò in sé, lo zar le disse: «Ma è semplicissimo: questo gentiluomo è mio cognato; se ha delle capacità, ne caveremo qualche cosa, se non ne ha, non ne caveremo nulla».

A mio avviso, un tale discorso rivela una grandezza pari alla sua semplicità; tanta grandezza mi sembra fuori del comune. L’autore riferisce che Skavronskij restò a lungo in casa di Šeplev, che gli fu assegnata una rispettabile pensione e che visse molto ritirato. Egli si ferma qui con il racconto di questo episodio, che servì unicamente a scoprire le origini di Caterina. Apprendiamo da altra fonte che questo gentiluomo fu fatto conte, che sposò una fanciulla di nobili natali e che ebbe due figlie, le quali presero marito fra i primi gentiluomini di Russia517. Lascio alle poche persone in grado di appurare questi particolari il compito di distinguere ciò che c’è di vero in questa avventura e ciò che può esservi stato aggiunto. L’autore del manoscritto non sembra aver raccontato questi fatti con l’intenzione di rifilare ai suoi lettori storie mirabolanti: infatti la sua relazione non era destinata alla pubblicazione. Egli scrive a un amico con semplicità cose cui afferma di aver assistito. È possibile che si sbagli su qualche circostanza, ma la sostanza sembra vera: infatti, se quel gentiluomo avesse saputo di essere il fratello di una persona così potente, non avrebbe certo aspettato tanti anni a farsi riconoscere. Questo riconoscimento, per quanto possa parere strano, è meno straordinario dell’ascesa di Caterina: l’uno e l’altro sono sorprendenti testimonianze del destino e varranno a farci sospendere il giudizio allorché prendiamo per favole tanti avvenimenti dell’antichità i quali forse contrastano con l’ordine naturale delle cose meno di tutta la storia dell’imperatrice.

Le feste indette da Pietro per il proprio matrimonio e per quello di suo figlio non furono di quei divertimenti passeggeri che danno fondo alle finanze e di cui resta a malapena il ricordo. Egli completò la fonditura dei cannoni e le costruzioni dell’ammiragliato; le grandi strade furono perfezionate; furono costruiti nuovi vascelli; furono scavati dei canali;

517 Karl Skavronskij ebbe sei figli. La prima figlia, Anna Karlovna Skavronskaja (1722-1775), sposò nel 1742 Michail Illarionovič Voroncov, cugino della zarina Elisabetta, che li tenne a corte in ruoli di primo piano (nel 1760 Anna fu insignita della gran croce dell’Ordine di Santa Caterina e Voroncov fu cancelliere e diplomatico di Elisabetta, Pietro III e Caterina II). Il secondo figlio di Karl, Martin, sposò Marija Nikolaevna Stroganova della famiglia principesca degli Stroganov di Mosca. Degli altri figli, Ivan e Anton rimasero celibi, Ekaterina sposò Nikolaj Korf e Sof’ja il lituano Pëtr Ivanovič Sapega.

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inoltre lo zar fece completare la Borsa e i magazzini, e il commercio marittimo di Pietroburgo cominciò a prosperare. Egli ordinò che il senato di Mosca fosse trasferito a Pietroburgo; l’ordine fu eseguito nell’aprile 1712. Grazie a ciò, la nuova città divenne come la capitale dell’impero. Molti prigionieri svedesi furono impiegati all’abbellimento della città la cui fondazione era frutto della loro sconfitta.

Capitolo IV

PRESA DI STETTINO. SPEDIZIONE IN FINLANDIA. AVVENIMENTI DEL 1712

Vedendo il successo arridergli nella sua casa, nel governo, nelle guerre contro Carlo XII, nei negoziati con tutti i sovrani che miravano a cacciare gli Svedesi dal continente e rinchiuderli per sempre nella penisola scandinava, Pietro rivolgeva tutti i suoi progetti alle coste occidentali del Nord-Europa e dimenticava la Palude Meotide e il mar Nero. Le chiavi di Azov, lungamente negate al pascià che avrebbe dovuto entrare in quel fortino a nome del gran signore, erano state finalmente consegnate: nonostante tutti gli sforzi di Carlo XII, nonostante tutti gli intrighi dei suoi partigiani presso la corte ottomana, nonostante persino varie avvisaglie di una nuova guerra, tra la Russia e la Turchia regnava la pace.

Carlo XII si ostinava sempre a rimanere a Bender facendo dipendere tutta la sua fortuna e le sue speranze dai capricci del gran visir, mentre lo zar teneva sotto la sua minaccia tutte le sue province, sollevava contro di lui la Danimarca e l’Hannover, era pronto a far dichiarare la Prussia e tentava di scuotere la Polonia e la Sassonia.

Della stessa irriducibile fierezza che Carlo metteva nelle relazioni con la Porta, da cui dipendeva, egli faceva uso anche contro i suoi nemici lontani, riuniti per perderlo. Dal fondo del suo rifugio nei deserti della Bessarabia, lanciava la sua sfida allo zar, al re di Polonia, al re di Danimarca, al re di Prussia, all’elettore di Hannover che poco dopo doveva salire sul trono d’Inghilterra e all’imperatore di Germania che aveva tanto offeso quando attraversava la Slesia da trionfatore. L’imperatore si vendicava abbandonandolo alla sua cattiva stella e negando ogni protezione ai possedimenti svedesi in Germania.

Gli sarebbe stato facile sciogliere la lega che si andava formando contro di lui. Bastava che cedesse Stettino al primo re di Prussia, Federico, elettore di Brandeburgo, che avanzava legittime pretese su quella porzione della Pomerania. Ma a quel tempo egli non considerava la Prussia una grande potenza: né Carlo né nessun altro avrebbe potuto prevedere che il piccolo regno di Prussia, quasi disabitato, e l’elettorato di Brandeburgo sarebbero diventati così temibili. Egli non volle acconsentire ad alcun accomodamento e, risoluto a spezzarsi piuttosto che piegarsi, diede ordine di resistere su tutti i fronti, per mare e per terra. Il suo Stato aveva quasi esaurito le scorte di uomini e di denaro, tuttavia fu obbedito: il senato di Stoccolma

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allestì una flotta con tredici vascelli di linea, furono armate delle truppe, ogni abitante si trasformò in soldato. Parve che il coraggio e la fierezza di Carlo XII animassero fino all’ultimo dei suoi sudditi, sfortunati quasi quanto il loro signore.

È difficile credere che Carlo avesse un piano di condotta prestabilito. Disponeva ancora in Polonia di un partito che, con l’aiuto dei Tatari di Crimea, poteva devastare quello sfortunato Paese ma non rimettere sul trono il re Stanislao. La sua speranza di indurre la Porta ottomana a sostenere quel partito e di convincere il divan, affinché inviasse in suo soccorso 200.000 uomini con il pretesto che lo zar in Polonia appoggiava il suo alleato Augusto, era una speranza chimerica.

A Bender egli aspettava l’esito di tutti quei vani intrighi e intanto Russi, Danesi e Sassoni erano in Pomerania. Pietro in questa spedizione condusse seco la sua sposa518. Già il re di Danimarca si era impadronito di Stade, città marinara del ducato di Brema; gli eserciti russo, sassone e danese erano davanti a Stralsund.

Fu allora519 che il re Stanislao, vedendo le pietose condizioni di tante province, ogni possibilità di risalire sul trono di Polonia preclusa e la generale confusione dovuta all’ostinata assenza di Carlo XII, convocò i generali svedesi che difendevano la Pomerania con un esercito di 10-11.000 uomini, sola e ultima risorsa della Svezia in quella provincia. Egli propose loro un accomodamento con il re Augusto e si offrì di esserne la vittima. Rivolse loro la parola in francese: ecco le esatte parole di cui si servì e che lasciò loro in uno scritto che fu firmato da nove ufficiali generali, tra i quali si trovava un Patkul, cugino germano di quello sfortunato Patkul che Carlo XII aveva fatto perire sulla ruota: «Fino a questo momento sono stato lo strumento della gloria dell’esercito svedese ma non aspiro a essere la causa funesta della sua rovina. Io dichiaro di sacrificare la mia corona520 e i miei propri interessi alla conservazione della sacra persona del re, poiché non vedo umanamente altro mezzo per trarlo dal luogo in cui si trova».

Rilasciata tale dichiarazione, si preparò a partire per la Turchia con la speranza di piegare l’ostinazione del suo benefattore e di toccargli il cuore con questo sacrificio. La sua cattiva stella lo fece arrivare in Bessarabia521 nel preciso momento in cui Carlo, dopo la promessa fatta al sultano di abbandonare il suo rifugio, dopo aver ricevuto il denaro e la scorta necessari per il ritorno, essendosi ostinato a rimanere e a sfidare i Turchi e i Tatari, affrontava un intero esercito col solo aiuto dei suoi domestici in quello sfortunato scontro di Bender in cui i Turchi, che pure avrebbero potuto facilmente ucciderlo, si contentarono di prenderlo prigioniero. Stanislao, sopraggiunto in quella strana congiuntura, fu egli stesso tratto in arresto.

518 Settembre 1712. (Nota dell’Autore)519 Ottobre 1712. (Nota dell’Autore)520 Si è creduto di dover lasciare la dichiarazione del re Stanislao quale egli la rilasciò, parola

per parola. Ci sono degli errori di lingua: «Je me déclare de sacrifier» non è francese: ma ciò rende il documento ancora più autentico e non meno rispettabile. (Nota dell’Autore)

521 Regione storica tra i fiumi Prut e Dnestr.

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Così due re cristiani si trovano contemporaneamente prigionieri in Turchia.In quei tempi in cui l’intera Europa era sconvolta e la Francia portava a

termine contro una parte dell’Europa una guerra non meno funesta per mettere sul trono di Spagna il nipote Luigi XIV, l’Inghilterra concluse la pace con la Francia e la vittoria che il maresciallo di Villars colse a Denain in Fiandra salvò il regno dagli altri suoi nemici522. Ormai da un secolo la Francia era alleata della Svezia, ed era importante che l’alleata non fosse privata dei suoi possessi in Germania. Carlo, che era troppo lontano, ancora non sapeva a Bender ciò che accadeva in Francia.

La reggenza di Stoccolma si arrischiò a chiedere denaro a una Francia sfinita, in un momento in cui Luigi XIV non aveva nemmeno di che pagare i suoi domestici. Essa fece partire un certo conte di Sparre con l’incarico di questo negoziato destinato a fallire. Sparre giunse a Versailles e fece presente al marchese di Torcy523 l’impossibilità in cui si trovava di pagare il piccolo esercito svedese che restava a Carlo XII in Pomerania. Tale esercito era sul punto di disperdersi per la mancanza di denaro e il solo alleato della Francia stava per perdere delle province la cui conservazione era indispensabile all’equilibrio generale; è vero che Carlo XII, nelle sue vittorie, aveva trascurato veramente troppo il re di Francia, ma la generosità di Luigi XIV era pari alle sventure di Carlo. Il ministro francese dimostrò a quello svedese che ci si trovava nell’impotenza di aiutare il suo sovrano; Sparre disperava ormai del successo.

Un privato cittadino di Parigi fece ciò che Sparre non sperava ormai di ottenere. C’era a Parigi un banchiere di nome Samuel Bernard, che aveva accumulato una fortuna prodigiosa sia con le rimesse della corte in terra straniera, sia con altre iniziative524. Era un uomo inebriato di una specie di gloria che raramente si incontra nella sua professione: amava appassionatamente tutto ciò che è brillante e sapeva che presto o tardi il ministero di Francia rendeva a usura ciò che si arrischiava per lui. Sparre andò a pranzare da lui, lo adulò e alla fine del pranzo il banchiere fece consegnare al conte di Sparre 600.000 lire. Dopo di ciò si recò dal ministro, marchese di Torcy, e gli disse: «Ho dato 200.000 scudi alla Svezia a nome vostro; me li farete restituire quando vi sarà possibile».

Il conte Stenbock525, generale dell’esercito di Carlo, non sperava in tale soccorso: vedeva le sue truppe sul punto di ammutinarsi e, non avendo da dar loro niente altro che promesse, vedeva addensarsi attorno a sé la tempesta e temeva di trovarsi alla fine circondato da tre eserciti: quello

522 La battaglia di Denain fu combattuta il 24 luglio 1712 durante la guerra di successione spagnola e fu vinta dal maresciallo Claude Louis Hector de Villars (1653-1734) con l’esercito franco-olandese del principe Eugenio di Savoia.

523 Jean-Baptiste Colvert, detto marchese di Torcy (1618-1684), politico ed economista sotto Luigi XIV, controllava l’amministrazione centrale e la politica interna francese.

524 Samuel Bernard (1651-1739) fu un finanziere francese che fece fortuna dapprima col commercio di stoffe, poi con la tratta degli schiavi neri e l’importazione di merci e infine con i prestiti allo Stato.

525 Cfr. nota 305.

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russo, quello sassone e quello danese. Egli chiese un armistizio: prevedeva infatti che Stanislao avrebbe finito per abdicare, che avrebbe piegato l’altezzoso Carlo XII, che bisognava se non altro guadagnare tempo e salvare le truppe con i negoziati. Inviò dunque un corriere a Bender per far presente al re il miserevole stato delle sue finanze, dei suoi affari e delle sue truppe e per comunicargli che si vedeva costretto a quell’armistizio: poteva già dirsi fortunato se lo otteneva. Il corriere non era ancora partito da tre giorni e neppure Stanislao era ancora partito, che Stenbock ricevette i 200.000 scudi del banchiere di Parigi. Per quei tempi e in un Paese devastato, quella cifra rappresentava un favoloso tesoro. Forte di questo aiuto, con il quale si rimediava a tutto, si trovò alla testa di 12.000 uomini e rinunciando a ogni tregua d’armi non pensò più che a combattere.

Era quello stesso Stenbock che nel 1710, dopo la sconfitta di Poltava, aveva vendicato la Svezia sui Danesi con un scorreria nella Scania526: aveva marciato contro di loro con un semplice milizia che invece di bandoliere aveva degli spaghi e aveva riportato completa vittoria. Come tutti gli altri generali di Carlo, era intrepido e instancabile, ma il suo valore era offuscato dalla ferocia. È lui che, dopo uno scontro con i Russi, avendo dato ordine che si sopprimessero tutti i prigionieri, vide un ufficiale polacco del partito dello zar gettarsi alla staffa di Stanislao mentre il principe lo abbracciava per salvargli la vita. Stenbock lo freddò con un colpo di pistola fra le braccia del principe, come è riferito nella vita di Carlo XII527. Il re Stanislao ebbe a dire a chi scrive che avrebbe rotto la testa a Stenbock se non lo avessero trattenuto il rispetto e la riconoscenza per il re di Svezia.

Il generale Stenbock avanzò dunque528 sulla strada di Wismar contro le forze riunite dei Russi, dei Sassoni e dei Danesi. Si trovò di fronte l’esercito sassone e quello danese che precedevano i Russi, i quali distavano tre leghe. Lo zar manda tre corrieri uno dopo l’altro al re di Danimarca per scongiurarlo di aspettare e metterlo in guardia sul pericolo che correva se avesse combattuto gli Svedesi senza avere la superiorità numerica. Il re di Danimarca non volle condividere l’onore di una vittoria che riteneva assicurata: avanzò contro gli Svedesi e li attaccò nei pressi di una località chiamata Wandsbek529. In questa giornata si vide ancora una volta l’odio naturale che correva fra Danesi e Svedesi. Gli ufficiali delle due nazioni si accanivano gli uni contro gli altri e cadevano crivellati di colpi.

Stenbock strappò la vittoria prima che i Russi potessero arrivare a portata del campo di battaglia. Qualche giorno dopo gli giunse la risposta del re suo signore che rigettava ogni idea di armistizio: il re diceva che avrebbe perdonato quella iniziativa disonorante solo nel caso che fosse stata riparata e che, forti o deboli, bisognava vincere o morire. Stenbock aveva già prevenuto quest’ordine con la sua vittoria.

526 Provincia storica della Svezia.527 Non nella Storia di Carlo XII, ma nel capitolo XV della Parte prima di questo volume. 528 9 dicembre 1712. (Nota dell’Autore)529 Sull’originale Gadebesk o, in un’altra edizione, Gadebush. Ora è un quartiere di Amburgo.

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Questa vittoria, tuttavia, fu simile a quella che aveva consolato il re Augusto allorché, nel pieno delle sue sventure, vinse la battaglia di Kalish contro gli Svedesi che trionfavano da ogni parte. La vittoria di Kalish non fece che aggravare le sventure di Augusto; quanto a quella di Wandsbek, servì solo a ritardare la rovina di Stenbock e del suo esercito.

Il re di Svezia alla notizia della vittoria di Stenbock credette che le sue sorti si fossero risollevate; giunse a illudersi che avrebbe fatto intervenire l’impero ottomano che minacciava lo zar di una nuova guerra e con questa speranza ordinò al generale Stenbock di recarsi in Polonia, credendo sempre a ogni minimo successo che stessero per tornare i tempi di Narva, quelli in cui dettava legge. Queste idee furono ben presto smentite dall’affare di Bender e dalla sua prigionia presso i Turchi.

L’unico vantaggio della vittoria di Wandsbek fu quello di andare a ridurre in cenere, durante la notte, la cittadina di Altona, popolata di commercianti e di artigiani, città indifesa che non avendo prese le armi non doveva essere sacrificata. Altona fu interamente distrutta: molti abitanti perirono tra le fiamme; altri, scampati nudi all’incendio, vecchi, donne e bambini, perirono di freddo e di sfinimento alle porte di Amburgo530. Spesso molte migliaia di uomini subirono un’analoga sorte per la rivalità di due soli. Stenbock non ricavò che questo atroce vantaggio. Dopo la vittoria, Russi, Danesi, e Sassoni lo perseguitarono con tale accanimento che si vide costretto a chiedere asilo per sé e per il suo esercito nella fortezza di Tönning, nello Holstein.

La regione dello Holstein era allora tra le più devastate del Nord e il suo sovrano uno dei principi più sfortunati. Egli era nipote di Carlo XII; fu a causa di suo padre, cognato del re, che Carlo aveva portato le sue armi fin dentro Copenaghen, prima della battaglia di Narva. Fu a causa sua che egli concluse il trattato di Travendahl531, in virtù del quale i duchi di Holstein erano rientrati in possesso dei loro diritti.

Questo Paese è in parte la culla dei Cimbri e di quegli antichi Normanni che conquistarono la Neustria in Francia, l’intera Inghilterra, Napoli e la Sicilia. Nessuno al giorno d’oggi è meno in grado di fare delle conquiste di quanto sia questa porzione dell’antico Chersoneso cimbrico. Lo compongono due piccoli ducati, lo Schleswig, che appartiene in comune al ducato di Danimarca e al duca, e il Gottorp che appartiene al solo duca di Holstein. Lo Schleswig è un principato sovrano, lo Holstein è membro dell’impero austriaco detto anche Sacro Romano Impero.

Il re di Danimarca e il duca di Holstein-Gottorp appartengono alla stessa casata, ma il duca, nipote di Carlo XII e suo erede presunto, aveva ereditato sin dalla nascita una inimicizia per il re di Danimarca che lo aveva oppresso durante l’infanzia. Un fratello di suo padre, vescovo di Lubecca e amministratore delle terre di questo sfortunato pupillo, veniva a trovarsi tra

530 Nella sua storia, il cappellano confessore Nordberg dice che il generale Stenbock non incendiò la città perché non aveva carri per trasportare i mobili. (Nota dell’Autore)

531 Il trattato di Travendahl fu concluso il 18 agosto 1700 fra Svezia e Danimarca.

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l’esercito svedese che non osava aiutare e gli eserciti russo, sassone e danese che lo tenevano sotto la loro minaccia. Eppure bisognava sforzarsi di salvare le truppe di Carlo XII senza offendere il re di Danimarca, che era divenuto padrone del Paese e lo dissanguava.

Il vescovo amministratore dello Holstein, era completamente in balia del famoso barone di Görtz532, uomo abile e intraprendente quant’altri mai, spirito aperto e fertile di risorse cui nulla sembrava troppo ardito o troppo difficile, uomo tanto insinuante nei negoziati quanto audace nei progetti, dotato della facoltà di piacere e di persuadere, che soleva trascinare gli spiriti con l’impeto del suo genio dopo averli conquistati con la dolcezza della parola. Lo stesso ascendente egli doveva poi avere su Carlo XII, che lo anteponeva al vescovo amministratore dello Holstein. È noto che pagò con la testa l’onore che gli toccò, cioè quello di guidare il sovrano più inflessibile e più ostinato che sia mai salito su un trono.

A Usum, Görtz533 ebbe un incontro segreto534 con Stenbock e promise a questi che gli avrebbe consegnato la fortezza di Tönning senza compromettere il vescovo amministratore, suo signore, e nello stesso tempo fece assicurare al re di Danimarca che non sarebbe stata consegnata. È così che si conducono quasi tutti i negoziati, poiché gli affari di Stato sono di natura diversa da quelli privati e l’onore dei ministri si fonda unicamente sul successo, mentre quello dei privati consiste nel rispetto della parola data.

Stenbock si presentò davanti a Tönning: il comandante della città ricusò di aprirgli le porte; così il re di Danimarca è messo nell’impossibilità di lamentarsi del vescovo amministratore. Tuttavia Görtz fa impartire in nome del duca minorenne, l’ordine che l’esercito svedese sia fatto entrare in Tönning. Il segretario del Gabinetto, che si chiamava Stambke535, firma a nome del duca di Holstein; con questo sistema Görtz non compromette altri che un fanciullo il quale non aveva ancora l’autorità di impartire ordini, rende un servizio al re di Svezia presso il quale voleva farsi valere e contemporaneamente al vescovo suo signore che sembrava non voler acconsentire all’ingresso dell’esercito svedese. Il comandante di Tönning, guadagnato senza fatica, aprì la città agli Svedesi; quanto a Görtz, egli si giustificò come poté davanti al re di Danimarca protestando che tutto era stato fatto suo malgrado.

L’esercito svedese536, rifugiato in parte nella città e in parte sotto la protezione dei suoi cannoni, non fu per questo al sicuro: il generale

532 Noi lo pronunciamo Gueurts. (Nota dell’Autore) – Georg Heinrich barone di Görtz (1668-1719). Dapprima, durante la guerra nordica, nel 1698 fu al servizio del duca di Gottorp e, in seguito, di Carlo XII di Svezia di cui divenne ministro delle finanze (1715). Tentò, inutilmente, di concludere una pace separata con la Russia (1718). Dopo la morte del re svedese fu decapitato.

533 Memorie segrete di Bassewitz. (Nota dell’Autore)534 21 gennaio 1713. (Nota dell’Autore)535 Sull’originale Stamke. Andrea Ernst barone di Stambke fu prima segretario di Görtz all’Aia

e poi ambasciatore dello Holstein in Russia.536 Memorie di Stenbock. (Nota dell’Autore)

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Stenbock fu costretto a darsi prigioniero di guerra con 11.000 uomini, allo stesso modo dei quasi 16.000 che si erano arresi dopo Poltava.

Fu stipulato che Stenbock, i suoi ufficiali e i suoi soldati potessero esser riscattati o barattati; il riscatto di Stenbock fu fissato a 8.000 scudi dell’impero, ben povera somma che tuttavia non fu possibile trovare: Stenbock restò prigioniero a Copenaghen fino alla morte.

Gli stati dello Holstein restarono a discrezione di un vincitore inasprito. Il giovane duca fu oggetto della vendetta del re di Danimarca, come prezzo dell’abuso del suo nome perpetrato da Görtz: le sventure di Carlo XII ricadevano su tutta la sua famiglia.

Görtz, che vedeva sfumare i suoi progetti, ma si preoccupava sempre di avere una parte importante in questa confusione, tornò alla sua vecchia idea di instaurare la neutralità tra i possedimenti svedesi in Germania.

Il re di Danimarca stava per entrare in Tönning. Giorgio elettore di Hannover537, aspirava ai ducati di Brema e di Verden e alla città di Stade. Il nuovo re di Prussia Federico Guglielmo aveva delle mire su Stettino538. Pietro I si preparava a impadronirsi della Finlandia. Tutti gli Stati di Carlo XII, tranne la Svezia, erano come spoglie che gli altri cercavano di dividersi: come conciliare tanti interessi con la neutralità? Görtz allacciò negoziati contemporaneamente con tutti i principi interessati alla spartizione: giorno e notte faceva la spola da una provincia all’altra; convinse il governatore di Brema e Verden a lasciare in sequestro i suoi due ducati all’elettore di Sassonia perché i Danesi non se ne appropriassero; a furia di insistere ottenne dal re di Prussia che si occupasse, unitamente allo Holstein, del sequestro di Stettino e Wismar: grazie a ciò il re di Danimarca avrebbe lasciato in pace lo Holstein e non sarebbe entrato a Tönning. Certo, mettere le sue città nelle mani di chi avrebbe potuto conservarle per sempre significava rendere a Carlo XII uno strano servizio, ma Görtz, dando loro queste città come in ostaggio, li costringeva alla neutralità almeno per qualche tempo. Egli sperava che, in un secondo tempo, avrebbe potuto far dichiarare lo Hannover e il Brandeburgo in favore della Svezia; metteva al corrente dei suoi progetti il re di Polonia, il cui Paese stremato aveva bisogno di pace, e per finire voleva rendersi indispensabile a tutti i principi. Dei beni di Carlo XII, egli disponeva come un tutore il quale sacrifica una parte delle sostanze del suo pupillo rovinato per salvare il resto, un pupillo incapace di badare da solo ai suoi affari. Tutto ciò senza un incarico, senz’altra garanzia della sua condotta all’infuori dei pieni poteri conferitegli dal vescovo di Lubecca, che a sua volta non era stato affatto autorizzato da Carlo XII.

Ecco chi è stato questo Görtz fino a oggi quasi sconosciuto. Si sono visti

537 Georg Ludwig von Hannover, asceso al trono col nome di Giorgio I di Gran Bretagna (1660-1727) fu elettore di Hannover dal 1698 al 1727, re della Gran Bretagna (col nome di Giorgio I) dal 1714.

538 Federico Guglielmo I di Hohenzollern (1688-1740) fu re di Prussia dal 1713. Ottenne Stettino e parte della Pomerania col trattato di Stoccolma (1720).

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dei primi ministri di grandi nazioni Oxenstierna, Richelieu o Alberoni539 mettere in subbuglio una parte dell’Europa, ma che il consigliere privato di un vescovo di Lubecca abbia fatto altrettanto senza essere riconosciuto da nessuno era una cosa inaudita.

In un primo momento gli arrise il successo: concluse con il re di Prussia un trattato540 in virtù del quale quel sovrano si impegnava, trattenendo Stettino in ostaggio, a conservare a Carlo XII il resto della Pomerania. In virtù di questo trattato Görtz fece proporre al governatore della Pomerania (Meijerfeldt)541 di restituire la città di Stettino al re di Prussia per favorire la pace, credendo che lo svedese governatore di Stettino si sarebbe dimostrato docile come il governatore holsteiniano di Tönning, ma gli ufficiali di Carlo XII non avevano l’abitudine di obbedire a siffatti ordini. Meijerfeldt rispose che sarebbero entrati a Stettino solo passando sul suo cadavere e sulle macerie. Poi informò il suo signore della strana proposta che gli era stata fatta. Il corriere trovò Carlo XII che, dopo l’avventura di Bender, era prigioniero a Demirtaş542. Nessuno allora sapeva se Carlo sarebbe rimasto prigioniero dei Turchi per il resto dei suoi giorni o se sarebbe stato relegato in qualche isola dell’arcipelago o dell’Asia. Dalla sua prigionia, Carlo mandò a Meijerfeldt un messaggio simile a quello che aveva mandato a Stenbock, ossia che bisognava morire piuttosto che cedere al nemico e gli dava ordine di essere inflessibile come era lui stesso.

Görtz, vedendo che il governatore di Stettino rischiava di mandare all’aria i suoi piani e non voleva sentire parlare né di neutralità né di sequestro, si mise in testa di far sequestrare non solo Stettino ma anche la città di Stralsund. Egli trovò una via segreta per concludere con il re di Polonia ed elettore di Sassonia543 lo stesso trattato che aveva fatto per Stettino con l’elettore di Brandeburgo. Vedeva chiaramente che gli Svedesi, trovandosi senza denaro e senza esercito, erano impotenti a conservare quella città mentre il loro re era prigioniero in Turchia. Egli contava su questi sequestri per allontanare il flagello della guerra da tutto il Nord. Infine la stessa Danimarca si prestava ai negoziati di Görtz. Egli seppe conquistare completamente il cuore del principe Menšikov, generale e favorito dello zar, e gli fece credere che sarebbe stato possibile cedere lo Holstein al suo signore. Fece balenare allo zar l’idea di aprire un canale dallo Holstein fino al mar Baltico, impresa così conforme ai gusti di quel fondatore e

539 Axel Oxenstierna (1583-1654) consigliere di Gustavo II Adolfo, fu membro del consiglio di reggenza eletto alla sua morte e conservò il cancellierato sotto Cristina e Carlo X Gustavo. Il cardinale Richelieu (Armand-Jean du Plessis; 1585-1642) fu uno dei più grandi uomini di Stato francesi, ministro di Luigi XIII. Il cardinale italiano Giulio Alberoni (1664-1752) svolse vari incarichi in Francia e in Spagna, tra cui, dal 1717 al 1719, quello di Primo ministro in Spagna alla corte di Filippo V di Borbone.

540 Giugno 1713. (Nota dell’Autore)541 Sull’originale Mayerfeld. Johan August Meijerfeldt, detto il Vecchio (1664-1749), generale

svedese, diventò vicegovernatore della Pomerania svedese nel 1711 e governatore nel 1713 succedendo a Jürgen Mellin.

542 Nell’odierna Turchia asiatica, presso il mar di Marmara.543 Giugno 1713. (Nota dell’Autore)

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soprattutto che avrebbe acquistato nuovo potere accettando di essere uno dei principi dell’impero ed entrando in possesso del diritto di suffragio presso la Dieta di Ratisbona, diritto che sarebbe stato sempre sostenuto dal diritto delle armi.

È impossibile piegarsi in più modi, prendere più aspetti differenti, recitare più parti diverse di quanto non fece questo volontario negoziatore. Giunse a persuadere il principe Menšikov a distruggere quella stessa città di Stettino che era sua intenzione salvare e a bombardarla per costringere i comandante Meijerfeldt a darla in sequestro. Così ardiva offendere il re di Svezia al quale voleva rendere un servigio e nelle cui grazie doveva entrare anche troppo, per sua sfortuna.

Quando il re di Prussia vide che un esercito russo bombardava Stettino, temette che questa città fosse perduta per lui e restasse in mano ai Russi: era qui che Görtz l’aspettava. Il principe Menšikov mancava di denaro: gli fece prestar dal re di Prussia 400.000 scudi e poi fece recapitare un messaggio al governatore della città. «Che cosa preferite – gli fu detto – vedere Stettino in cenere sotto il dominio russo o affidarla al re di Prussia che la restituirà al re vostro Signore?» Alla fine il comandante si lasciò convincere e si arrese. Menšikov entrò in città, e dietro versamento di 400.000 scudi la consegnò con tutto il territorio nelle mani del re di Prussia, il quale permise a due battaglioni dello Holstein di entrarvi pro-forma, ma non restituì mai questa parte della Pomerania.

Da quel momento il secondo re di Prussia, che succedeva a un sovrano inetto e prodigo, gettò le fondamenta della grandezza cui il suo Paese doveva giungere in seguito grazie alla disciplina militare e all’economia.

Il barone di Görtz, che aveva messo in atto tanti espedienti non riuscì a ottenere che i Danesi perdonassero alla provincia dello Holstein né che rinunciassero all’idea di impadronirsi di Tönning. Egli fallì quello che sembrava essere il suo scopo principale, ma riuscì in tutto il resto e soprattutto riuscì a diventare un personaggio importante nel Nord, ciò che in realtà era il suo vero scopo.

Già l’elettore di Hannover s’era assicurato il possesso di Brema e Verden, tolte a Carlo XII; i Sassoni erano davanti alla sua città di Vismar; Stettino era in mano al re di Prussia544, i Russi stavano per assediare Stralsund assieme ai Sassoni, mentre questi ultimi avevano già messo piede nell’isola di Rügen. In mezzo a tanti negoziati, mentre altrove si disputava sulla neutralità e sulle spartizioni, lo zar aveva invaso la Finlandia. Dopo aver piazzato personalmente l’artiglieria davanti a Stralsund affidando il resto agli alleati e al principe Menšikov, nel mese di maggio si era inoltrato nel Baltico su una nave da cinquanta cannoni che lui stesso aveva fatto costruire a Pietroburgo. Egli fece rotta verso la Finlandia seguito da 92 galere e 110 semigalere su cui erano imbarcati 16.000 soldati.

Lo sbarco avvenne a Helsinki545, che si trova al sessantunesimo grado,

544 Settembre 1713. (Nota dell’Autore)545 22 maggio 1713 del nuovo calendario. (Nota dell’Autore) – Sull’originale la città è detta

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nella parte più meridionale di questa fredda e sterile regione.Malgrado tutte le difficoltà, lo sbarco riuscì. Si simulò un attacco in un

punto e si sbarcò in un altro; le truppe posero piede a terra e la città fu conquistata. Lo zar si rese padrone di Borgo, di Åbo546 ed ebbe in mano tutta la costa. Pareva ormai che agli Svedesi non restasse più scampo: infatti proprio allora l’esercito svedese comandato da Stenbock si dava prigioniero di guerra.

Come si è visto, tutti questi disastri di Carlo XII furono seguiti dalla perdita di Brema, Verden, Stettino e di una parte della Pomerania. Per finire, il re Stanislao e lo stesso Carlo erano prigionieri in Turchia. Malgrado ciò egli non aveva ancora abbandonato l’idea di tornare in Polonia a capo di un esercito ottomano, di rimettere sul trono Stanislao e di far tremare tutti i suoi nemici.

Capitolo V

SUCCESSI DI PIETRO IL GRANDE. CARLO XII FA RITORNO NEL SUO STATO

Seguendo il corso delle sue conquiste, Pietro perfezionava la sua marina, faceva venire 12.000 famiglie a Pietroburgo, teneva tutti i suoi alleati legati alla sua fortuna e alla sua persona, sebbene avessero tutti interessi diversi e punti di vista opposti. La sua flotta minacciava contemporaneamente tutte le coste svedesi sui golfi di Botnia e di Finlandia.

Uno dei suoi generali di terra, principe Golicyn, formato da lui come tutti gli altri, avanzava da Helsinki, dove era avvenuto lo sbarco dello zar, fino al cuore della terraferma verso il borgo di Tavastehus547. Era una fortezza che proteggeva la Botnia. La difendevano alcuni reggimenti svedesi, forti di 8.000 soldati. Si dovette dar battaglia: i Russi vinsero completamente548, dispersero l’esercito svedese e avanzarono fino a Vasa, rimanendo così padroni di un territorio di ottanta leghe.

Restava ancora agli Svedesi una flotta con la quale dominavano sul mare. Da tempo Pietro nutriva l’ambizione di mettere in mostra la marina da lui creata. Era partito da Pietroburgo e aveva riunito una flotta di 16 vascelli di linea e di 180 galere atte a manovrare tra gli scogli che circondano l’isola di Åland e le altre isole del Baltico non lontane dalle coste della Svezia; in quei paraggi incontrò la flotta svedese. Questa flotta era superiore alla sua quanto a grandi navi, ma inferiore per le galere e più adatta a combattere in mare aperto che in una zona irta di scogli. Questa superiorità lo zar la doveva al suo solo genio. Egli prestava servizio presso la sua flotta in qualità di contrammiraglio e riceveva ordini dall’ammiraglio Apraksin. Pietro

Elsinford (da Helsingfors, nome in svedese).546 Borgo è forse Borgà, Åbo è l’odierna Turku.547 Sull’originale Tavastus. Tavastehus è il nome svedese, Hämeenlinna quello finlandese.548 13 marzo 1714. (Nota dell’Autore)

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avrebbe voluto impadronirsi dell’isola di Åland che dista dalla Svezia soltanto dodici leghe. Bisognava passare sotto gli occhi della flotta svedese. Quest’ardita manovra fu eseguita. Le galere si aprirono la strada sotto il tiro del cannone nemico che non arrivava abbastanza lontano. Si entrò in Åland, e poiché la costa è quasi completamente disseminata di scogli, lo zar fece trasportare a braccia ottanta piccole galere attraverso una lingua di terra e le fece rimettere in mare nel golfo detto di Hangö549 dove si trovavano le sue grandi navi. Ehrensköld550, contrammiraglio degli Svedesi si illuse che sarebbe stato facile catturare o far colare a picco quelle ottanta galere; avanzò da quella parte per portarsi a tiro, ma fu accolto da un fuoco così nutrito che quasi tutti i soldati e i marinai caddero sotto i suoi occhi. Furono catturate le galere che aveva portato con sé e la nave su cui era imbarcato. Riuscito a fuggire in una scialuppa551, fu ferito; alla fine, costretto alla resa, fu portato sulla galera dove manovrava lo zar in persona. Il resto della flotta svedese fece ritorno in Svezia. Stoccolma fu costernata poiché sembrava direttamente minacciata.

Frattanto il colonnello Šuvalov Neushlof552 attaccava la sola fortezza che rimanesse ancora da prendere sulle coste occidentali della Finlandia, e la sottometteva allo zar malgrado una accanitissima resistenza.

La giornata di Åland fu la più gloriosa della vita di Pietro dopo quella di Poltava. Padrone della Finlandia, di cui affidò il governo al principe Golicyn, vincitore di tutte le forze navali della Svezia e più rispettato che mai dai suoi alleati, fece ritorno a Pietroburgo553 quando la stagione, divenuta troppo tempestosa, non gli consentì più di restare sui mari di Finlandia e di Botnia. La sua buona stella volle che mentre giungeva nella nuova capitale, la zarina desse alla luce una principessa, la quale morì l’anno seguente554. In onore della sua sposa istituì l’ordine di Santa Caterina e celebrò la nascita di sua figlia con un ingresso trionfale. Di tutti i festeggiamenti ai quali aveva avvezzato il suo popolo, questo gli era divenuto più caro di tutti gli altri. L’inizio della festa fu il seguente: furono condotte nel porto di Kronštadt nove galere svedesi, sette navi cariche di prigionieri e il vascello del contrammiraglio Ehrensköld.

Sulla nave ammiraglia della flotta russa erano caricati tutti i cannoni, le bandiere e le insegne prese durante la conquista della Finlandia. Tutte

549 Hangö in svedese e Hanko in finlandese.550 Sull’originale Erenschild. Nils Ehrensköld (1674-1728) fu responsabile delle navi da guerra

contro la Russia dal 1700. Fu ferito e fatto prigioniero nella battaglia di Åland, ma fu rilasciato da Pietro I. Tornato in patria, diventò ammiraglio e direttore del ministero della marina svedese.

551 8 agosto. (Nota dell’Autore)552 “Neushlof” non risulta né un nome, né un epiteto. Furono i fratelli Ivan Maksimovič

Šuvalov senior e junior (il primo morto nel 1736, il secondo nel 1741) a essere al servizio di Pietro I e poi di Elisabetta. In particolare, il maggiore dei fratelli compilò una mappa del mare e delle rive dei fiumi al confine tra Russia e Svezia e facilitò la conclusione del trattato di Neustadt/Nystad (1721).

553 15 settembre 1714. (Nota dell’Autore)554 Natal’ja nacque nel 1713 e morì nel 1715.

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queste spoglie furono portate a Pietroburgo, dove si entrò schierati in ordine di battaglia. Un arco di trionfo, che lo zar secondo la sua abitudine aveva disegnato personalmente, fu decorato degli emblemi di tutte queste vittorie: i vincitori passarono sotto l’arco trionfale, in testa marciava l’ammiraglio Apraksin, poi lo zar nella sua qualità di contrammiraglio, quindi tutti gli altri ufficiali secondo il grado. Furono presentati al viceré Romodanovskij555 il quale, in queste cerimonie, rappresentava il signore dell’impero. Questo vice-zar distribuì a tutti gli ufficiali medaglie d’oro, tutti i soldati e i marinari ricevettero medaglie d’argento. I prigionieri svedesi passarono sotto l’arco di trionfo e l’ammiraglio Ehrensköld seguiva immediatamente lo zar suo vincitore. Giunti al trono su cui sedeva il vice-zar, l’ammiraglio Apraksin gli presentò il contrammiraglio Pietro il quale, in ricompensa dei suoi servigi, domandò di essere creato vice-ammiraglio. Si passò ai voti e non è difficile immaginare che tutti i voti gli furono favorevoli.

Dopo questa cerimonia che colmava di gioia tutti quelli che vi assistevano e ispirava a tutti l’emulazione, l’amor di patria e l’amor della gloria, lo zar pronunciò questo discorso che merita di giungere alla più lontana posterità: «Fratelli, c’è fra voi qualcuno che vent’anni fa immaginava che avrebbe combattuto con me sul mar Baltico, in navi costruite dalle vostre stesse mani e che ci saremo insediati in quelle contrade conquistate dalle nostre fatiche dal nostro coraggio? … L’antica culla delle scienze si pone in Grecia; in seguito esse passarono in Italia e di lì si sparsero per tutta l’Europa. Adesso è il nostro turno, se vorrete assecondare i miei piani unendo lo studio all’obbedienza. Le arti circolano nel mondo, come il sangue nel corpo dell’uomo, e forse stabiliranno fra noi la loro sede per tornare poi in Grecia, loro antica patria. Oso sperare che noi faremo un giorno arrossire le nazioni più civili grazie alle nostre imprese e alla nostra solida gloria».

Ecco l’autentico sunto di questo discorso degno di un fondatore. Tutte le traduzioni ne hanno diminuito l’efficacia, ma il più grande merito di questa eloquente arringa è stato quello di essere pronunciato da un monarca vittorioso, fondatore e legislatore del proprio impero.

I vecchi bojardi ascoltarono questa arringa rimpiangendo le loro antiche usanze più che non ammirassero la gloria del loro signore, ma i giovani furono toccati fino alle lacrime.

Questo tempo si segnala anche per l’arrivo degli ambasciatori russi che tornarono da Costantinopoli con la conferma della pace con la Turchia556. Poco tempo prima era giunto da parte dello scià Husayn557 un ambasciatore persiano che aveva portato in dono allo zar un elefante e cinque leoni. Contemporaneamente egli ricevette un’ambasceria dal khan degli Uzbeki, Mehmet Bahadir558, che chiedeva la sua protezione contro gli altri Tatari.

555 Sull’originale Romanodowski, cfr. nota 252.556 15 dicembre 1714. (Nota dell’Autore)557 Sull’originale Hussein. Husayn regnò dal 1694 al 1722, quando fu destituito dai ribelli

afgani.558 Probabile discendente di Mohamed Köprülü (cfr. nota 180) in quanto molti Köprülü ebbero

il soprannome di Bahadir (o Bagatur, o altre varianti) che significa “il coraggioso” ed era

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Tutti, dal cuore dell’Asia e dell’Europa, rendevano omaggio alla sua gloria.La reggenza di Stoccolma, disperata per le miserevoli condizioni in cui si

trovavano i suoi affari e per l’assenza del re che trascurava le cure dello Stato, si era finalmente risolta a non consultarlo più e, subito dopo la vittoria navale dello zar, aveva chiesto al vincitore un passaporto per un ufficiale cui erano state affidate delle proposte di pace. Il passaporto fu rilasciato, ma proprio allora la principessa Ulrica Eleonora, sorella di Carlo XII559, ricevette la notizia che il re suo fratello si preparava finalmente a lasciare la Turchia e a tornare per difendersi. Nessuno allora osò più inviare allo zar il diplomatico segretamente nominato: ci si rassegnò alla cattiva sorte e si attese che Carlo XII si presentasse a porvi riparo.

Effettivamente, sul finire dell’ottobre 1714, dopo cinque anni e qualche mese di soggiorno in Turchia, Carlo partì. È noto che durante il viaggio mostrò la stessa stravaganza che distingueva tutte le sue azioni. Il 22 novembre 1714 giunse a Stralsund. Appena giunto, il barone di Görtz si recò a fargli visita: era stato lo strumento di una parte delle sue disgrazie ma seppe giustificarsi con tale abilità e fargli balenare tali speranze che conquistò la sua fiducia come aveva conquistato quella di tutti i ministri e di tutti i principi con i quali aveva trattato. Görtz gli fece sperare che avrebbe diviso gli alleati dello zar e che allora sarebbe stato possibile concludere una pace onorevole o almeno fare guerra ad armi pari. Da quel momento Görtz ebbe sull’anima di Carlo un ascendente assai più grande di quanto non avesse mai avuto il conte Piper.

La prima cosa che fece Carlo arrivato a Stralsund fu di chiedere denaro ai cittadini di Stoccolma. Il poco che avevano gli fu dato: nessuno sapeva rifiutare nulla a un principe che chiedeva unicamente per dare, che faceva una vita durissima come i soldati semplici e come loro rischiava la vita. Le sue sventure, la sua prigionia e il suo ritorno commuovevano tanto i sudditi che gli stranieri: non si poteva fare a meno di biasimarlo, né di ammirarlo, né di lamentarlo, né di aiutarlo. La sua gloria era di un tipo completamente diverso da quella di Pietro: non consisteva né nel favorire le arti, né nella legislazione, né nella politica, né nel commercio; era una gloria che non andava oltre la sua persona: il suo merito era un valore superiore al comune coraggio: difendeva il suo Stato con una grandezza d’animo pari a questo intrepido valore e ciò bastava perché le nazioni provassero rispetto per lui. Egli aveva più partigiani che alleati.

dato a un guerriero particolarmente valoroso. Dalla stessa parola turca deriva il russo bogatyr’, famoso eroe epico.

559 Ulrica Eleonora di Svezia (1688-1741) diventò regina regnante di Svezia dopo la morte di Carlo XII e, dal 1720, regina consorte (moglie di Federico I).

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Capitolo VI

CONDIZIONI DELL’EUROPA AL RITORNO DI CARLO XII. ASSEDIO DI STRALSUND ECC.

Quando finalmente, alla fine del 1714, Carlo XII fece ritorno in patria, trovò l’Europa cristiana in condizioni ben diverse da quelle in cui l’aveva lasciata. La regina Anna di Inghilterra era morta dopo aver concluso la pace con la Francia. Luigi XIV assicurava a suo nipote il trono di Spagna e costringeva Carlo VI imperatore di Germania e gli Olandesi a sottoscrivere una pace necessaria: così tutti gli affari dell’Europa meridionale presentavano un nuovo volto.

Quelli dell’Europa settentrionale erano ancor più cambiati. Pietro ne era diventato l’arbitro. L’elettore di Hannover, chiamato sul trono di Inghilterra, voleva estendere i suoi possedimenti in Germania a spese della Svezia, la quale aveva acquistato territori tedeschi unicamente grazie alle conquiste del grande Gustavo. Il re di Danimarca pretendeva di conquistare la Scania che era la migliore provincia della Svezia ed era appartenuta in passato ai Danesi. Il re di Prussia, erede dei duchi di Pomerania, pretendeva di rientrare in possesso almeno di una parte di quella provincia. D’altra parte la casata di Holstein, oppressa dal re di Danimarca, e il duca di Meclemburgo, in guerra quasi aperta con i suoi sudditi, imploravano la protezione di Pietro I. Il re di Polonia e elettore di Sassonia avrebbe voluto che la Curlandia fosse annessa alla Polonia. Così, dall’Elba fino al Baltico, Pietro era l’appoggio di tutti i sovrani come Carlo ne era stato il terrore.

Dopo il ritorno di Carlo si allacciarono molti negoziati, ma non si concluse niente. Egli si illuse che avrebbe potuto disporre di tante navi da guerra e di tanti armatori da non dover temere la nuova potenza marittima dello zar. Per quel che riguarda la guerra di terraferma, faceva affidamento sul proprio coraggio e Görtz, divenuto di punto in bianco suo primo ministro, lo convinse che avrebbe potuto far fronte alle spese con una moneta di rame cui fu attribuito un valore novantasei volte superiore a quello naturale, ciò che rappresenta un prodigio nella storia dei governi. Senonché, sin dall’aprile 1715, le navi di Pietro catturarono i primi armatori svedesi che presero il mare e un esercito russo avanzò in Pomerania.

Davanti a Stralsund, i Prussiani, i Danesi, e i Sassoni congiunsero le loro forze. Carlo XII si rese conto di essere tornato dalla sua prigione di Demirtaş e di Demotica, sul mar Nero560, unicamente per subire un assedio sulle sponde del mar Baltico.

Già si è visto nella sua storia con quale valore fiero e tranquillo egli affrontò a Stralsund tutti i suoi nemici riuniti. In questa sede ci limiteremo ad aggiungere soltanto un piccolo particolare, che pone in pieno risalto il suo carattere. Quasi tutti i suoi principali ufficiali erano stati uccisi o feriti durante l’assedio. Il colonnello barone di Reichel, dopo un lungo combattimento, si era gettato su una panca sfinito dalle veglie e dallo

560 Odierna Didymoteicho (o in turco Dimetoka) in Grecia, vicino ad Adrianopoli.

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strapazzo per concedersi un’ora di riposo. Proprio in quel momento fu chiamato per montare la guardia sugli spalti: egli vi si trascinò maledicendo la testardaggine del re e tutte quelle fatiche tanto insopportabili e tanto inutili. Il re che lo senti si precipitò verso di lui, e togliendosi il mantello che gli spiegò davanti, disse: «Caro Reichel, voi non ne potete più; io invece ho dormito un’ora e sono riposato: vado a montare la guardia al posto vostro. Dormite pure, quando sarà il momento vi sveglierò». Dopo queste parole, lo coprì suo malgrado, lo lasciò a dormire e andò a montare la guardia.

Durante l’assedio di Stralsund561 avvenne che il nuovo re di Inghilterra ed elettore di Hannover comperò dal re di Danimarca le province di Brema e di Verden unitamente alla città di Stade che i Danesi avevano strappato a Carlo XII. Tutto ciò costò al re Giorgio 800.000 scudi tedeschi. Mentre Carlo difendeva Stralsund palmo a palmo, si trafficava con i suoi Stati. Alfine, quando questa città non fu più che un cumulo di rovine, i suoi ufficiali lo obbligarono a uscirne562. Quando fu al sicuro, il suo generale Dücker563 consegnò quelle rovine al re di Prussia.

Dopo qualche tempo, essendosi Dücker presentato davanti a Carlo XII, il suo re lo rimproverò per aver capitolato davanti al nemico. «Tengo troppo alla vostra gloria – egli rispose – per farvi l’affronto di resistere in una città da cui vostra Maestà era uscita». Del resto questa città rimase in mano ai Prussiani soltanto fino al 1721, quando la restituirono per la Pace del Nord.

Durante l’assedio di Stralsund, Carlo ricevette un’altra umiliazione che sarebbe stata per lui ancor più penosa se il suo cuore fosse stato sensibile all’amicizia come lo era alla gloria. Il suo primo ministro conte Piper, uomo celebre in tutta l’Europa e sempre fedele al suo principe (checché ne abbiano detto tanti scrittori indiscreti sulla parola di uno solo e male informato), Piper, dicevamo, era la sua vittima sin dalla battaglia di Poltava. Siccome fra Russi e Svedesi non esisteva un accordo per il baratto dei prigionieri, era rimasto prigioniero a Mosca e, sebbene non fosse stato relegato in Siberia come tanti altri, pure era in una condizione deplorevole. A quel tempo le finanze dello zar non erano amministrate così fedelmente come avrebbero dovuto esserlo e tutte le sue nuove istituzioni esigevano spese alle quali egli faceva fronte a fatica. Egli doveva agli Olandesi una somma abbastanza considerevole per due delle loro navi mercantili bruciate sulle coste finlandesi. Lo zar pretendeva che toccasse agli Svedesi sborsare quella somma e volle convincere il conte Piper ad assumersi quel debito: lo fece venire da Mosca a Pietroburgo e gli promise la libertà a condizione che ottenesse dalla Svezia circa 60.000 scudi in lettere di cambio. Si dice che egli sborsò effettivamente quella somma sulla garanzia di sua moglie rimasta a Stoccolma, che questa non ebbe la possibilità né forse la volontà di rimborsarla e che il re di Svezia non mosse un dito per pagarla. Come che

561 Ottobre 1715. (Nota dell’Autore)562 Dicembre 1715. (Nota dell’Autore)563 Sull’originale Duker. Karl Gustav Dücker (1663-1732) fu feldmaresciallo svedese e

governatore della Livonia. Partecipò a tutte le guerre svedesi contro i Russi e i Danesi e dal 1715 contro i Norvegesi.

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sia, il conte Piper fu rinchiuso nella fortezza di Schlusselburg dove mori l’anno seguente all’età di settant’anni. La salma fu restituita al re di Svezia che gli fece tributare magnifiche esequie: triste e vana ricompensa di tante sventure e di una fine così miseranda.

Pietro era soddisfatto di aver ottenuto la Livonia, l’Estonia, la Carelia e l’Ingria, che considerava come province appartenenti al suo Stato, e di avervi aggiunto quasi l’intera Finlandia che gli serviva di garanzia nel caso che si fosse giunti alla pace. Nell’aprile di quello stesso anno aveva dato in moglie una figlia di suo fratello564 a Carlo Leopoldo duca di Meclemburgo, in modo che tutti i principi del Nord erano o suoi alleati o sue creature. In Polonia teneva a bada i nemici del re Augusto: uno dei suoi eserciti, che ammontava a circa 18.000 uomini, scioglieva senza sforzo tutte le confederazioni che rinascono così spesso in quella nazione, patria della libertà e dell’anarchia. I Turchi, finalmente rispettosi dei trattati, lasciavano piena libertà alla sua potenza e ai suoi progetti.

In queste floride condizioni, quasi ogni giorno segnava una nuova iniziativa in favore della marina, delle truppe, del commercio e delle leggi. Egli compose personalmente un codice militare per la fanteria.

Fondò a Pietroburgo un’Accademia di marina565. Lange, incaricato degli interessi commerciali, partì per la Cina attraverso la Siberia566. Per tutto l’impero, degli ingegneri rilevavano delle carte geografiche; si stava costruendo la villa di Petershof e contemporaneamente si realizzavano dei fortini sull’Irtyš, si impediva il brigantaggio dei popoli della Bukaria e dall’altra parte si tenevano a bada i Tatari del Kuban’.

Quando, quello stesso anno, la sua sposa Caterina gli dette un figlio ed ebbe un erede nel figlio del principe Alessio567, parve che avesse raggiunto il culmine della prosperità; ma il bambino nato dalla zarina fu ben presto rapito dalla morte e, come vedremo, la sorte di Alessio fu troppo funesta perché la nascita di un figlio di questo principe potesse essere considerata una fortuna.

Il parto della zarina interruppe la continua serie dei suoi viaggi con lo sposo per terra e per mare, ma appena rimessa lo accompagnò in nuove spedizioni.

564 Ekaterina Ivanovna Romanova (1692-1733) era la terza figlia di Ivan V, fratellastro di Pietro.

565 8 novembre 1715. (Nota dell’Autore)566 Lorenz Lange (1690?-1752) fu un ingegnere e un diplomatico svedese al servizio della

Russia dal 1712. Fu inviato a Pechino nel 1715 per promuovere i commerci e ritornò nel 1717. Il diario di questo viaggio fu pubblicato in tedesco da Friedrick Christian Weber in Das veränderte Russland, e tradotto in inglese (Journal of Travels Laurence Lange to China) nel 1723. Nel 1719-1722 Lange fu di nuovo in Cina per conto di Pietro I e successivamente vi ritornò nel 1727-1728 e nel 1736. Nel 1739 fu nominato governatore di Irkutsk.

567 Nel 1715 lo zar ebbe da Caterina un figlio di nome Pietro che morì nel 1719 e lo zarevič Alessio ebbe, dalla moglie Carlotta Cristina di Braunschweig-Wolfenbüttel, che morì di parto, il granduca Pietro, futuro zar Pietro II.

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Capitolo VII

PRESA DI VISMAR. NUOVI VIAGGI DELLO ZAR

In quel tempo Vismar era assediata da tutti gli alleati dello zar. Questa città, che spetterebbe naturalmente al duca di Meclemburgo, è situata sul mar Baltico a sette leghe da Lubecca e potrebbe minacciare il prospero commercio di quest’ultima. In passato era stata una delle più importanti città anseatiche, e i duchi di Meclemburgo vi esercitavano piuttosto il diritto di protezione che quello di sovranità. Era questo un altro di quei territori soggetti all’impero che erano rimasti in mano agli Svedesi con la pace di Vestfalia. Alla fine si giunse alla resa come era avvenuto a Stralsund. Gli alleati dello zar si affrettarono a impadronirsene prima che giungessero le sue truppe, ma Pietro comparve personalmente davanti alla città dopo la capitolazione avvenuta senza di lui e fece la guarnigione prigioniera di guerra. Egli fu indignato al vedere che i suoi alleati lasciavano al re di Danimarca una città che spettava invece al principe cui aveva dato in moglie la propria nipote: questo raffreddamento, di cui il ministro Görtz fu pronto ad approfittare, fu l’origine prima della pace che questi progettò di concludere tra lo zar e Carlo XII.

Da quel momento in poi, Görtz lasciò intendere allo zar che la Svezia era stata sufficientemente colpita, che non bisognava innalzare troppo la Danimarca e la Prussia. Lo zar entrava nel suo stesso ordine di idee: mentre Carlo XII aveva sempre fatto la guerra da guerriero, egli l’aveva sempre fatta da politico. Da quel momento agì tiepidamente contro la Svezia e Carlo XII, sfortunato ovunque nell’impero, decise con uno di quei colpi di testa disperati che solo il successo può giustificare, di portare la guerra in Norvegia.

Frattanto lo zar volle fare un secondo viaggio in Europa. Aveva fatto il primo da uomo che vuole istruirsi nelle arti; fece il secondo da principe che cerca di penetrare i segreti di tutte le corti. Condusse la sua sposa a Copenaghen, a Lubecca, a Schwerin, a Neustadt568. Nella cittadina di Auersberg si incontrò con il re di Polonia, di lì passarono ad Amburgo, a quella città di Altona che gli Svedesi avevano bruciato e che si stava ricostruendo. Disceso il corso dell’Elba fino a Stade, passarono per Brema dove il magistrato569 preparò un fuoco di artificio e una luminaria il cui tracciato scriveva in cento luoghi diversi queste parole: «Il nostro liberatore viene a trovarci». Finalmente rivide Amsterdam e la capanna di Zaandam dove, quasi diciotto anni prima, aveva appreso l’arte del costruttore di navi. Trovò questa capanna trasformata in una bella e comoda casa che rimane ancora e che viene chiamata la casa del principe.

Si immagini con quale adorazione lo accolse un popolo di commercianti e

568 Nome in tedesco di Nystad.569 17 dicembre 1716. (Nota dell’Autore)

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di marinai di cui era stato il compagno; nel vincitore di Poltava sembrava loro di vedere un discepolo che aveva introdotto nel suo Paese il commercio e la navigazione e che da loro aveva imparato a vincere le battaglie navali: lo consideravano come uno dei loro concittadini divenuto imperatore.

Nella vita, nei viaggi e nelle azioni di Pietro il Grande, come in quelle di Carlo XII, tutto sembrava diverso dai nostri costumi che forse sono un po’ troppo effeminati; questa è una delle ragioni per cui la storia di questi due uomini suscita in noi tanta curiosità.

La sposa dello zar era rimasta a Schwerin ammalata e la sua nuova gravidanza era molto avanzata; tuttavia, appena poté mettersi in viaggio, volle raggiungere lo zar in Olanda: le doglie la sorpresero a Vesel, dove partorì un principe570 che visse un solo giorno. Non è nelle nostre abitudini che una donna ammalata si metta in viaggio subito dopo il parto: la zarina giunse ad Amsterdam nel giro di dieci giorni. Volle visitare la capanna di Zaandam nella quale lo zar aveva lavorato con le sue mani. I sovrani andarono insieme in forma privata, senza seguito e con due soli domestici, a pranzare in casa di un ricco carpentiere di Zaandam, di nome Kalf, che era stato il primo a commerciare a Pietroburgo571. Suo figlio era appena tornato dalla Francia, dove Pietro voleva recarsi. Lui e la zarina ascoltarono con diletto l’avventura capitata a quel giovane che non riferirei se non servisse a far conoscere dei costumi completamente diversi dai nostri.

Il figlio del carpentiere Kalf era stato mandato dal padre a Parigi a imparare il francese e il padre aveva voluto che vivesse decorosamente. Egli dispose che il giovane deponesse l’abito semplicissimo che portano tutti i cittadini di Zaandam e che a Parigi facesse una vita più conveniente alla sua fortuna che all’educazione ricevuta: conosceva abbastanza suo figlio da prevedere che questo cambiamento non avrebbe corrotto la sua frugalità e il suo buon carattere.

In tutte le lingue del Nord, kalf significa vitello; a Parigi il viaggiatore si fece chiamare du Veau. Egli visse con una certa larghezza e si fece delle amicizie. Nulla di più comune a Parigi che si prodighi il titolo di marchese o di conte a chi non ha nemmeno l’ombra di un feudo ed è a malapena gentiluomo. Questa ridicola usanza è stata sempre tollerata dal governo affinché, essendo i ceti confusi e la nobiltà svilita, si fosse ormai al sicuro dalle guerre civili così frequenti per il passato. Risaliti e plebei, che avevano pagato a caro prezzo la carica, si sono arrogati il titolo di alto e potente signore. Per finire, il grado di marchese e di conte senza marca e senza contea non contano nulla in quel Paese, come del resto quelli di cavaliere senza ordine e di abate senza abbazia.

Gli amici e i domestici di Kalf lo chiamarono sempre conte du Veau: fu invitato a cenare in casa di principesse, andò a giocare dalla duchessa di Berry572, pochi stranieri furono festeggiati come lui. Un giovane marchese

570 14 gennaio 1717. (Nota dell’Autore) – Era il principe Paolo.571 Mynheer Kalf (o Calf) era il proprietario dell’arsenale in cui lavorò Pietro nel 1697.572 In Francia il titolo di Duca di Berry era dato ai membri giovani della famiglia reale

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che gli era stato compagno in tutti i suoi svaghi, promise di andare a fargli visita a Zaandam e mantenne la promessa. Trovò un cantiere di costruttori di navi e il giovane Kalf che, nei panni di un marinaio olandese, con l’ascia in pugno dirigeva i lavori di suo padre. Kalf accolse l’ospite con l’antica semplicità alla quale era ritornato e da cui non si discostò mai. I lettori saggi perdoneranno questa piccola digressione che è solo una condanna della vanità e un elogio dei buoni costumi.

Lo zar rimase in Olanda tre mesi. Durante il suo soggiorno avvennero cose più importanti dell’avventura di Kalf. Dopo le paci di Nimèga573, di Rysvick e d’Utrecht574, l’Aia aveva mantenuto la fama di centro dei negoziati europei. Questa cittadina o meglio questo villaggio, il più ridente di tutto il Nord, era abitato principalmente da ministri di tutte le corti e da viaggiatori che venivano a istruirsi a quella scuola. A quel tempo si stavano gettando in Europa le basi di un grande rivolgimento. Lo zar, informato delle prime avvisaglie della bufera, prolungò il suo soggiorno nei Paesi Bassi per essere in condizione di assistere contemporaneamente a quello che si tramava nel Mezzogiorno e nel Nord e per prepararsi alla decisione che avrebbe dovuto prendere.

Capitolo VIII

CONTINUANO I VIAGGI DI PIETRO IL GRANDE. COSPIRAZIONE DI GÖRTZ.ACCOGLIENZE A PIETRO IN FRANCIA

Egli sapeva quanto i suoi alleati fossero gelosi della sua potenza e quanto spesso sia più difficile trattare con gli amici che con i nemici.

Il Meclemburgo era una fra le cause principali di quella divisione quasi inevitabile fra principi vicini che si spartiscono delle conquiste. Pietro non aveva voluto che i Danesi tenessero per sé Vismar, e tanto meno che radessero al suolo le fortificazioni; ciononostante essi avevano fatto l’una e l’altra cosa.

Il duca di Meclemburgo, marito di sua nipote e che egli trattava come suo genero, era apertamente protetto da lui contro la nobiltà del Paese, mentre il re d’Inghilterra proteggeva i nobili. Per finire, cominciava a essere scontento del re di Polonia, o meglio del suo primo ministro conte Flemming575 che voleva scrollare il giogo di dipendenza imposto dai benefici e dalla forza.

francese.573 I trattati di Nimega (1678-1679) conclusero la guerra tra la Francia e una coalizione

europea (Austria, Brandeburgo, Danimarca, Spagna, Olanda) sorta a difendere i diritti dell’Olanda, il cui territorio era stato invaso nel 1672 dagli eserciti di Luigi XIV.

574 Il trattato di Rysvick, che proseguì quello di Nimega, fu stipulato nel 1697 e pose fine alla Guerra della Grande Alleanza. Il trattato di Utrecht concluse nel 1713 la guerra di successione spagnola.

575 Il conte Jakob Heinrich von Flemming (1667-1728) fu feldmaresciallo dal 1711. Guidò varie volte l’esercito sassone contro gli Svedesi, vincendoli.

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Le corti di Inghilterra, Polonia, Danimarca, Holstein, Meclemburgo e Brandeburgo erano agitate dagli intrighi e dalle cabale.

La maggior parte di questi intrighi era stata suscitata, tra la fine del 1716 e l’inizio del 1717, da Görtz, il quale, come dicono le memorie di Bassewitz, era stanco di non aver altri titoli che quello di consigliere dello Holstein e di non essere altro che un plenipotenziario segreto di Carlo XII, e si risolse quindi ad approfittarne per mettere l’Europa in fermento. Il suo progetto era di riavvicinare Carlo XII e lo zar non soltanto mettendo termine alla guerra ma facendone due alleati, di rimettere Stanislao sul trono di Polonia e di togliere al re di Inghilterra, Giorgio I, Brema, Verden e persino il trono d’Inghilterra allo scopo di metterlo nell’impossibilità di impadronirsi delle spoglie di Carlo.

C’era in quello stesso periodo un ministro dello stesso stampo il cui progetto era di mettere sossopra l’Inghilterra e la Francia: si tratta del cardinale Alberoni576, che allora spadroneggiava in Spagna più di quanto non facesse Görtz in Svezia, uomo tanto audace e intraprendente quanto lo era quest’ultimo, ma molto più potente perché era a capo di un regno più ricco e non pagava le sue creature con monete di rame.

Ben presto dalle sponde del Baltico Görtz allacciò rapporti con la corte di Madrid. Sia Alberoni che lui si accordarono con tutti i fuorusciti inglesi che parteggiavano per la famiglia Stuart. Görtz percorse tutte le nazioni dove sperava di suscitare nemici al re Giorgio: la Germania, l’Olanda, la Fiandra, la Lorena, e finalmente, sul finire del 1716, Parigi. Il cardinale Alberoni incominciò con l’inviargli nella stessa Parigi un milione di lire francesi per cominciare ad appiccare fuoco alle polveri, così si esprimeva l’Alberoni.

Görtz avrebbe voluto che Carlo XII cedesse molto a Pietro per riprendere ai nemici tutto il resto, e che fosse libero di fare una spedizione in Scozia mentre i partigiani degli Stuart si sarebbero dichiarati apertamente in Inghilterra, dopo essersi tante volte esposti inutilmente. Per attuare questi piani era necessario togliere al re regnante d’Inghilterra il suo principale appoggio e quest’appoggio era il reggente di Francia. Era straordinario vedere la Francia unirsi con un re di Inghilterra ai danni del nipote di Luigi XIV che la stessa Francia aveva posto sul trono di Spagna, contro tanti nemici riuniti, a costo dei suoi tesori e del suo sangue: ma tutto a quei tempi era uscito dalla sua via naturale e gli interessi del reggente non coincidevano con gli interessi del regno. Sin da allora Alberoni suscitò in Francia una congiura contro quello stesso reggente. Le basi di tutta questa vasta trama furono gettate quasi subito dopo aver messo a punto il piano. Görtz fu il primo a essere messo a parte di quel segreto: avrebbe dovuto recarsi in Italia travestito per abboccarsi con il pretendente nei pressi di Roma, di lì precipitarsi all’Aia, incontrarsi con lo zar e quindi tornare dal re di Svezia.

Colui che scrive questa storia è ben sicuro di quanto afferma poiché Görtz gli propose di accompagnarlo nei suoi viaggi e, sebbene allora giovanissimo

576 Cfr. nota 539.

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fu uno dei primi testimoni di gran parte di questi intrighi577.Alla fine del 1716 Görtz era tornato in Olanda munito di lettere di cambio

di Alberoni e di pieni poteri da parte di Carlo. È accertato che il partito del pretendente doveva dichiararsi mentre Carlo discendeva dalla Norvegia nella Scozia settentrionale. Questo principe, che non aveva saputo conservare i suoi possedimenti sul continente, stava per invadere e sconvolgere quelli di un altro: dalla prigionia di Demirtaş in Turchia e dalle ceneri di Stralsund lo si sarebbe visto incoronare a Londra il figlio di Giacomo II come aveva incoronato Stanislao a Varsavia.

Lo zar, che era al corrente di una parte dei tentativi di Görtz, ne aspettava gli sviluppi senza entrare in nessuno dei suoi piani e senza conoscerli tutti. Egli era amante di tutto ciò che è grande e straordinario almeno quanto Carlo XII, Görtz e Alberoni, ma lo era come può esserlo un fondatore di Stati, un legislatore e un vero politicante: forse Alberoni, Görtz e lo stesso Carlo erano più che altro uomini irrequieti che tentavano grandi avventure e non uomini profondi che prendevano le misure adeguate e forse, dopo tutto, è stato il loro insuccesso a farli accusare di temerità.

Quando Görtz giunse all’Aia, lo zar non lo incontrò: avrebbe urtato troppo la suscettibilità degli Stati generali, suoi amici, legati al re d’Inghilterra. I suoi ministri si incontrarono con Görtz solo segretamente, con la massima precauzione, con le istruzioni di ascoltare tutto e di dare delle speranze senza prendere alcun impegno e senza compromettere lo zar. Ciò nonostante, dal fatto che lo zar restava inattivo proprio nel momento in cui avrebbe potuto discendere in Scania con la sua flotta e quella di Danimarca, dal suo raffreddamento nei confronti degli alleati, dalle lamentele che trapelavano nelle loro corti e persino dal suo viaggio, era facile alle persone lungimiranti accorgersi che si preparava un gran cambiamento, il quale non avrebbe tardato molto a manifestarsi.

Nel gennaio 1717 un bastimento svedese che portava delle lettere in Olanda fu costretto dal maltempo a fare scalo in Norvegia e le lettere furono sequestrate. In quelle di Görtz e di alcuni ministri c’era di che aprire gli occhi sul rivolgimento che si veniva tramando. La corte danese comunicò le lettere a quella inglese. A Londra si arresta immediatamente il ministro svedese Gyllenborg578: si sequestrano le sue carte e vi si trova una parte della sua corrispondenza con i giacobiti.

Immediatamente il re Giorgio scrive in Olanda579 chiedendo che, in ossequio ai trattati che legano l’Inghilterra e gli Stati generali alla loro

577 Voltaire conobbe Görtz al castello di Châtillon, presso Parigi, dove abitava il banchiere Hoguière.

578 Il conte Carl Gyllenborg (1679-1746) fu uno statista svedese. Inviato a Londra come segretario di legazione sposò la giacobita Sara Wright. Nel 1715 fu nominato ministro plenipotenziario e due anni dopo fu imprigionato per cinque mesi a causa della sua partecipazione al complotto per ripristinare la Casa degli Stuart. Nel 1723 fu nominato consigliere di Stato e dal 1738 Primo ministro, poi fu cancelliere delle università di Lund (1728) e Upsala (1739). Pubblicò un libro sui fatti del 1717.

579 Febbraio 1717. (Nota dell’Autore)

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comune sicurezza, il barone di Görtz sia arrestato. Questo ministro, che si faceva dappertutto delle creature, fu avvertito dell’ordine. Partì immediatamente ed era già ad Arnheim, alla frontiera, quando, grazie allo zelo veramente insolito in quel Paese mostrato dalle guardie e dagli ufficiali che lo inseguivano, fu catturato, le sue carte furono sequestrate e la sua persona trattata con severità. Ancor più duramente fu trattato il suo segretario Stambke, quello stesso che nell’affare di Tönning aveva contraffatto la firma del duca di Holstein. Finalmente il conte di Gyllenborg, inviato svedese in Inghilterra, e il barone di Görtz, munito di lettere di plenipotenziario di Carlo XII, furono interrogati come semplici criminali uno a Londra e l’altro ad Arnheim. I ministri di tutti i sovrani gridarono alla violazione del diritto delle genti.

A questo diritto, più citato che conosciuto e di cui non sono mai stati stabiliti i limiti e l’estensione, furono portati in ogni tempo i più fieri colpi. Vari ministri sono stati cacciati dalle corti dove risiedevano e più di una volta furono arrestati, ma non era mai accaduto che dei ministri stranieri fossero interrogati come i sudditi del Paese. La corte di Londra e gli Stati, di fronte al pericolo che minacciava la casa di Hannover, passarono sopra a tutte le regole ma alla fine tale pericolo, una volta scoperto, cessava di essere un pericolo almeno nella presente congiuntura.

Bisogna che lo storico Nordberg sia stato veramente male informato, che abbia conosciuto male gli uomini e gli affari, che sia stato del tutto accecato dalla passione o se non altro abbia subito forti pressioni da parte della sua corte per tentare di dare a intendere che il re di Svezia non era compromesso a fondo in quel complotto.

L’affronto fatto ai suoi ministri lo rinsaldò nella risoluzione di tentare tutto per detronizzare il re di Inghilterra. Pure, una volta nella sua vita, fu costretto a ricorrere alla dissimulazione, a sconfessare i suoi ministri presso il reggente di Francia che gli elargiva un sussidio e presso gli Stati generali con cui teneva a mantenere buoni rapporti. Meno soddisfazioni egli diede al re Giorgio. Görtz e Gyllenborg furono tenuti prigionieri quasi sei mesi e la durata dell’affronto riconfermò in lui tutti i disegni di vendetta.

In mezzo a tanti allarmi e tante gelosie, Pietro non si comprometteva in nulla, lasciava tutto al tempo e aveva messo nel suo vasto Stato un ordine tale da non aver niente da temere né dall’interno né dall’esterno; egli risolse alfine di recarsi in Francia: non capiva la lingua del posto e questo gli faceva perdere il maggior frutto del suo viaggio, ma pensava che ci fosse molto da vedere e volle accertare da vicino in che termini si trovasse il reggente di Francia con l’Inghilterra, e quanto fosse solida la posizione di quel principe.

Pietro il Grande ebbe in Francia le accoglienze che gli erano dovute. Prima gli fu mandato incontro il maresciallo di Tessé580 con molti nobili, uno squadrone di guardie e le carrozze del re. Secondo il suo solito aveva viaggiato con tanta rapidità che era già a Gournay quando il suo seguito

580 René de Froulay de Tessé (1651-1725) fu nominato maresciallo di Francia nel 1703 e fu ambasciatore a Roma e in Spagna.

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entrava a Elbeuf. Lungo la strada gli furono tributati tutti i festeggiamenti che volle accettare. Dapprima fu ospitato al Louvre, dove gli era stato preparato l’appartamento grande, mentre altri appartamenti erano destinati al suo seguito, i principi Kurakin e Dolgorukij581, il vice cancelliere barone Šafirov e l’ambasciatore Tolstoj, lo stesso che aveva dovuto subire in Turchia tante violazioni del diritto delle genti. Tutto questo seguito doveva essere magnificamente alloggiato e servito, ma Pietro era venuto per vedere ciò che poteva riuscirgli utile e non per prestarsi a inutili cerimonie che mettevano in imbarazzo la sua semplicità e gli facevano perdere tempo prezioso; perciò quella sera stessa andò a prendere alloggio all’altro capo della città, presso il palazzo o residenza di Lesdiguières, di proprietà del maresciallo di Villeroi582 dove fu riverito e trattato come al Louvre. Il giorno dopo583 il reggente584 venne a fargli visita nel suo alloggio; l’indomani gli fu condotto il re ancora fanciullo, accompagnato dal maresciallo di Villeroi, che era il suo precettore come suo padre era stato il precettore di Luigi XIV. Fu abilmente risparmiato allo zar l’imbarazzo di restituire la visita subito dopo averla ricevuta: ci furono due giorni di intervallo; egli ricevette gli omaggi dell’amministrazione della città e la sera si recò a visitare il re. La reggia era parata in armi, il giovane principe fu condotto fino alla carrozza dello zar, Pietro, stupito e preoccupato per la folla che si accalcava intorno al monarca fanciullo, lo prese in braccio e ve lo tenne per qualche tempo585.

Alcuni ministri più raffinati che sensati hanno scritto che, poiché il maresciallo di Villeroi voleva che fosse lasciata al re di Francia la precedenza della mano e del passo, l’imperatore di Russia ricorse a quello stratagemma per eludere il cerimoniale sotto l’apparenza dell’affetto e della sensibilità. È un’idea completamente falsa: né la gentilezza francese né ciò che era dovuto a Pietro il Grande avrebbero mai consentito che gli onori che gli venivano tributati fossero trasformati in offese. Il cerimoniale consisteva nel fare per un grande sovrano e per un grand’uomo tutto ciò che lui stesso avrebbe desiderato se si fosse occupato di questi particolari. I viaggi degli imperatori Carlo IV, Sigismondo e Carlo V, furono ben lontani dal riscuotere una popolarità paragonabile a quella del soggiorno di Pietro il Grande. Quegli imperatori, infatti, vennero solo per interessi politici e non apparvero

581 Il principe Boris Ivanovič Kurakin (1676-1727) è considerato il padre della diplomazia russa e fu tra i più stretti collaboratori di Pietro I di cui era cognato (fratello della prima moglie Evdokija). Dal 1683 partecipò a tutte le campagne militari di Pietro, nel 1697 fu inviato in Italia ad apprendere la navigazione e nel 1707 iniziò la carriera diplomatica (Roma, Londra, Hannover, L’Aia, Parigi). Fu l’artefice di molti trattati di pace. Per Dolgorukij, cfr. nota 206.

582 François de Neufville, duca di Villeroi (1644-1730), amico fraterno di Luigi XIV fin dalla gioventù, combatté al suo fianco numerose volte. Nel 1693 fu nominato maresciallo di Francia. Fu in Italia contro l’esercito austriaco e nei Paesi Bassi contro gli Inglesi dove venne sconfitto e fu escluso dalla vita militare.

583 8 maggio 1717. (Nota dell’Autore)584 Filippo II d’Orléans (1674-1723) fu reggente di Francia durante la minorità di Luigi XV

(1715-1723).585 Luigi XV, nato a Versailles nel 1710, aveva allora sette anni.

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in un tempo in cui il progresso delle arti potesse fare del loro viaggio un’epoca memorabile. Ma quando Pietro si recò a pranzare presso il duca d’Antin nella sua residenza di Petit-Bourg a tre leghe da Parigi586 e quando tutt’a un tratto, alla fine del pranzo, vide collocare nel salone il suo ritratto appena dipinto, allora capì che i Francesi meglio di qualunque altro popolo al mondo erano in grado di ricevere un ospite così degno.

Ancor più sorpreso fu quando, recatosi ad assistere al conio delle medaglie in quella lunga galleria del Louvre in cui sono onorevolmente alloggiati tutti gli artisti del re, ed essendo caduta una delle medaglie che si stavano coniando, lo zar, che si era affrettato a raccoglierla, si vide effigiato su quella stessa medaglia con un motto sul rovescio, nell’atto di posare il piede al globo e con queste parole di Virgilio che tanto si addicevano a Pietro il Grande: vires acquirit eundo587, allusione tanto sottile quanto nobile e che conveniva sia ai suoi viaggi che alla sua gloria. Questa medaglia d’oro fu offerta a lui e a tutti quelli che lo accompagnavano. Se si recava a visitare gli artisti, si vedeva deporre ai piedi tutti i capolavori e supplicare affinché degnasse accettarli; se andava a visitare i telai dei Gobelins588, i tappeti della Savonnerie589, i laboratori degli scultori, dei pittori, degli orafi del re, dei fabbricanti di strumenti matematici, tutto ciò che sembrava meritare la sua approvazione gli veniva offerto a nome del re.

Pietro era esperto meccanico, artista e geometra. Si recò a visitare l’Accademia delle scienze, che in suo onore si adornò di quanto aveva di più raro; ma nulla era raro come lo stesso zar: egli corresse di sua mano parecchi errori di geografia nelle carte che erano state tracciate dei suoi Stati e soprattutto in quelle del mar Caspio. Per finire, accettò di divenire membro di quell’Accademia e da allora in poi intrecciò regolare corrispondenza a proposito di varie esperienze e scoperte con coloro di cui si degnava di essere il semplice confratello590 Bisogna risalire a Pitagora e ad Anacarsi per trovare viaggiatori di questa tempra, ma quelli non avevano lasciato certo un impero per istruirsi.

A questo punto non possiamo fare a meno di rimettere sotto gli occhi del lettore il trasporto da cui fu colto al cospetto della tomba del cardinal Richelieu591: poco sensibile alla bellezza di quel capolavoro di scultura, lo fu

586 Louis Antoine de Pardaillan de Gondrin, duca d’Antin (1665-1736) era sovrintendente delle costruzioni del re, particolarmente la reggia di Versailles, e risiedeva nel castello di Petit-Bourg a Évry-sur-Seine.

587 Dall’Eneide IV, 175: «acquista le forze camminando». La medaglia raffigurava la dea Fama, per cui il significato della scritta era che la fama (di Pietro) tanto più cresce, tanto più si diffonde.

588 La manifattura dei Gobelins è la famosa fabbrica di arazzi, istituita nel 1601 e tuttora attiva, nel XIII arrondissement di Parigi.

589 La manifattura La Savonnerie tesseva tappeti dal 1627 in un locale precedentemente adibito alla fabbricazione del sapone, da cui il nome. Nel 1826 si fuse coi Gobelins.

590 Pietro inviò soltanto, nel 1721, una carta del Caspio. Della visita ne scrisse Fontenelle in Éloge du czar Pierre Ier (traduzione in www.larici.it).

591 Armand-Jean du Plessis, duca di Richelieu (1585-1642), noto come Cardinale Richelieu, fu primo ministro del re Luigi XIII di Francia. La sua politica mirò a rafforzare il potere del re

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unicamente all’immagine di un ministro che si era reso tanto celebre in Europa e l’aveva messa in fermento, un ministro che aveva restituito alla Francia la gloria perduta dopo la morte di Enrico IV. Sappiamo che egli abbracciò la statua ed esclamò: «Grand’uomo! ti avrei dato la metà del mio Stato pur di imparare da te a governare l’altra metà». Finalmente, prima di partire, volle vedere quella celebre Madame de Maintenon592 che egli sapeva essere in realtà la vedova di Luigi XIV e che ormai era giunta al termine dei suoi giorni593. Questa specie di rassomiglianza fra il matrimonio di Luigi XIV e il suo lo incuriosiva. Tuttavia fra il re di Francia e lo zar c’era una differenza: mentre lo zar aveva sposato pubblicamente un’eroina, Luigi XIV aveva avuto in segreto nient’altro che una donna amabile. La zarina non aveva partecipato a questo viaggio: Pietro aveva troppo temuto i fastidi del cerimoniale e la curiosità di una corte poco adatta a capire i meriti di una donna che dalle sponde del Prut a quelle della Finlandia aveva affrontato la morte per terra e per mare a fianco del suo sposo.

Capitolo IX

RITORNO DELLO ZAR NEL SUO STATO. LA SUA POLITICA E LE SUE OCCUPAZIONI

L’iniziativa della Sorbona nei confronti dello zar, allorché egli si recò a visitare il mausoleo del cardinal Richelieu, merita un discorso a parte.

Alcuni dottori della Sorbona vollero avere la gloria di riunire la Chiesa greca a quella latina. Chi conosce l’antichità sa che il cristianesimo è giunto in Occidente per mezzo dei Greci dell’Asia, che esso è nato in Oriente, che i primi padri, i primi concili, la prima liturgia, i primi riti, tutto proviene dall’Oriente; anzi non c’è un solo termine per designare le dignità o gli uffici che non sia greco e che non attesti ancor oggi la fonte da cui tutto deriva. Dopo la divisione dell’impero romano, era inevitabile che prima o poi ci fossero due religioni come c’erano due imperi e che si assistesse fra i cristiani d’Oriente e d’Occidente allo stesso scisma che si verificò tra gli Osmanli e i Persiani.

È questo lo scisma che alcuni dottori dell’Università di Parigi credettero di poter sanare d’un colpo consegnando una supplica a Pietro il Grande. Il Papa Leone IX e i suoi successori non avevano potuto venirne a capo né con legati, né con concili e nemmeno col denaro. Questi dottori avrebbero dovuto sapere che Pietro il Grande, il quale governava la sua Chiesa, non era uomo da riconoscere l’autorità del pontefice: invano nelle loro relazioni

in Francia (a scapito dei nobili) e a fare della Francia la più grande potenza d’Europa. Il suo sepolcro, opera di François Girardon, è nella chiesa della Sorbona a Parigi.

592 La marchesa di Maintenon (1635-1719), nipote di Agrippa d’Aubigné e vedova di Scorron, fu incaricata dell’educazione dei figli che Luigi XIV aveva avuto da M.me de Montespan, sua favorita, e riuscì a conquistare il cuore del re che la sposò segretamente nel 1684.

593 Un resoconto della visita in Francia dello zar e del curioso incontro con la Maintenon è in Mémoires di Louis de Rouvroy duca di Saint-Simon (1788) nel tomo 14, cap. XVIII.

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ricordarono la libertà della Chiesa gallicana, che allo zar non interessava affatto; invano dissero che i papi debbono essere sottomessi ai concili e che il parere di un papa non è un articolo di fede594; con il loro scritto riuscirono soltanto a indisporre molto la corte pontificia senza rendersi graditi né all’imperatore né alla Chiesa russa.

In questo progetto di riunificazione c’erano degli aspetti politici che essi non afferravano e dei punti controversi che pretendevano di capire e che ogni partito spiega come gli fa comodo. Si trattava dello Spirito Santo che, secondo i latini, procede dal Padre e dal Figlio, che oggi, secondo i Greci, procede dal Padre per mezzo del Figlio, mentre per un lungo periodo ha proceduto soltanto dal Padre. Essi citavano sant’Epifanio, il quale scrive che «lo Spirito Santo non è fratello del Figlio né nipote del Padre»595.

Ma lo zar, partendo da Parigi, aveva affari ben più importanti che la verifica dei passaggi di Sant’Epifanio. Egli accolse benignamente la relazione dei dottori. Questi scrissero ad alcuni vescovi russi che risposero cortesemente, ma la maggioranza fu sdegnata davanti a quella proposta.

Fu proprio per dissipare il timore di tale riunione che lo zar, cacciati i gesuiti dal suo regno nel 1718, istituì qualche tempo dopo la festa comica del conclave.

C’era a corte un vecchio pazzo chiamato Sotov che gli aveva insegnato a leggere e che si illudeva di aver meritato per questo servigio le più alte cariche. Pietro, che talvolta alleviava le cure del governo con degli scherzi convenienti a un popolo non ancora interamente riformato, promise al suo maestro di scrittura di dargli una delle maggiori cariche di questo mondo: lo creò knez papa, con duemila rubli di appannaggio, e gli assegnò una casa a Pietroburgo, nel quartiere tartaro. Alcuni buffoni andarono a insediarlo con una cerimonia, quattro balbuzienti gli fecero un sermone, egli investì dei cardinali e sfilò in processione davanti a loro. Tutto il sacro collegio era ebbro di acquavite. Dopo la morte di questo Sotov, venne eletto papa un ufficiale di nome Buturlin. Mosca e Pietroburgo hanno visto ripetersi per ben tre volte questa cerimonia che sembrava un’innocua farsa ma in realtà rafforzava nel popolo l’avversione per una Chiesa che aspirava al potere supremo e il cui capo aveva lanciato il suo anatema su tanti re. Ridendo lo zar vendicava venti imperatori di Germania, dieci re di Francia e mille altri sovrani. È questo tutto il frutto che la Sorbona raccolse dall’idea poco opportuna di riunire la Chiesa greca e quella latina.

Il viaggio dello zar in Francia fu utile grazie ai rapporti allacciati con questo regno dedito al commercio e popolato di uomini industriosi, e non per la presunta riunione di due Chiese rivali, l’una delle quali manterrà sempre la sua antica indipendenza e l’altra la sua nuova superiorità.

594 Il dogma dell’infallibilità papale fu proclamato nel 1848 e non è riconosciuto dalla Chiesa ortodossa.

595 Si tratta del cosiddetto Filioque, espressione latina che significa “e dal Figlio”, che non compariva nel Credo messo a punto nei concili ecumenici di Nicea (325) e di Costantinopoli (381). Tale aggiunta, voluta dalla Chiesa di Roma, fu condannata come eretica dal patriarca di Costantinopoli e fu una delle ragioni del Grande Scisma (1054).

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Pietro ricondusse con sé vari artigiani francesi, come aveva fatto di ritorno dall’Inghilterra. Infatti tutte le nazioni che percorse si fecero un onore di favorirlo nel suo progetto di trasferire in una nuova patria tutte le arti e di contribuire a questa specie di creazione.

Sin d’allora aveva steso la minuta di un trattato di commercio con la Francia che consegnò nelle mani dei suoi ministri in Olanda appena vi fece ritorno. Tale trattato poté essere firmato dall’ambasciatore di Francia Châteauneuf596 solo il 15 agosto 1717 a L’Aia. Il trattato non concerneva soltanto il commercio ma riguardava la pace del Nord. Il re di Francia e l’elettore di Brandeburgo accettarono il titolo di mediatori che dava loro lo zar. In tal modo egli faceva sentire abbastanza chiaramente al re di Inghilterra che non era soddisfatto di lui e adempiva i voti di Görtz il quale, da quel momento, fece di tutto per riavvicinare Pietro e Carlo, per suscitare a Giorgio nuovi nemici e per tendere la mano al cardinale Alberoni da un capo all’altro dell’Europa. Allora il barone di Görtz si incontrò ufficialmente con i ministri dello zar a L’Aia. A loro dichiarò che aveva pieni poteri per concludere la pace con la Svezia.

Lo zar lasciava che Görtz preparasse tutte le batterie senza porvi mano, si teneva pronto a concludere la pace con il re di Svezia ma anche a continuare la guerra; inoltre manteneva sempre i rapporti con la Danimarca, la Polonia, la Prussia e apparentemente persino con l’elettore di Hannover.

È evidente che il suo solo piano preciso era quello di approfittare delle occasioni. Il suo scopo principale era quello di perfezionare tutte le nuove istituzioni. Sapeva che i negoziati, gli interessi dei principi, le loro alleanze, le loro amicizie, la loro diffidenza e le loro inimicizie sono soggetti quasi ogni anno a nuove vicissitudini e che spesso di tanti tentativi politici non rimane traccia. Spesso una sola fabbrica ben fatta giova a uno Stato più di venti trattati.

Raggiunta la sua sposa che lo aspettava in Olanda, Pietro continuò con lei il viaggio. Attraversata la Vestfalia giunsero a Berlino senza il minimo apparato. Il nuovo re di Prussia597 era nemico della vanità del cerimoniale e dello sfarzo almeno quanto il sovrano di Russia. Era uno spettacolo istruttivo, per l’etichetta viennese e spagnola, per il puntiglio598 italiano e per l’amore del lusso che trionfa in Francia, quello di vedere un re che non si serviva se non di poltrone di legno, che si vestiva sempre come un semplice soldato e che si era precluso tutte le delicatezze della tavola e tutte le comodità della vita.

La vita che conducevano lo zar e la zarina era altrettanto semplice e rude e se Carlo XII si fosse trovato con loro si sarebbero viste insieme quattro teste coronate circondate da meno fasto che un vescovo tedesco o un cardinale di Roma. Mai lusso e mollezza furono combattuti da così nobili

596 Pierre Antoine de Castagnères marchese di Châteauneuf (1644-1728) fu ambasciatore in Turchia, Portogallo e Olanda e fu consigliere di Stato dal 1719. Era il fratello maggiore dell’abate François de Châteauneuf che era stato padrino di Voltaire.

597 Federico Guglielmo I (1688-1740) incoronato re di Prussia il 25 febbraio 1713.598 In italiano nel testo.

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esempi.Bisogna riconoscere che uno qualsiasi dei nostri concittadini si sarebbe

guadagnato la nostra considerazione e passerebbe per un uomo fuori del comune se avesse fatto una volta nella sua vita, per curiosità, la quinta parte dei viaggi che Pietro fece per il bene del suo Stato. Da Berlino si reca a Danzica con la sua sposa. A Mitau offre la sua protezione alla duchessa di Curlandia, sua nipote, rimasta vedova; visita tutte le sue conquiste, proclama da Pietroburgo nuovi regolamenti, si reca a Mosca, fa ricostruire le case private cadute in rovina; di lì si trasferisce a Caricyn sul Volga599 per interrompere le scorrerie dei Tatari del Kuban’; costruisce linee di fortificazioni dal Volga al Tanais e fa costruire postazioni a distanze regolari tra un fiume e l’altro. Frattanto fa stampare il codice militare che lui stesso ha composto. Una camera di giustizia è insediata allo scopo di esaminare la condotta dei suoi ministri e di rimettere ordine nelle sue finanze: ad alcuni colpevoli egli perdona, altri ne punisce. Lo stesso principe Menšikov fu tra quelli che ebbero bisogno della sua clemenza, ma un giudizio più severo che si vide costretto a pronunciare contro il suo stesso figlio colmò di amarezza una vita tanto gloriosa.

Capitolo X

CONDANNA DEL PRINCIPE ALESSIO PETROVIČ

Nel 1689, all’età di diciassette anni, Pietro aveva sposato Evdokija Fëdorovna Lopuchina600, donna cresciuta con tutti i pregiudizi della sua gente e incapace di sollevarsi al disopra di essi come aveva fatto il suo sposo. Le più gravi opposizioni alle quali andò incontro allorché volle creare un impero ed educare gli uomini venivano proprio dalla sua sposa: ella era dominata dalla superstizione che così spesso si accompagna al suo sesso. Ogni utile novità le sembrava un sacrilegio e tutti gli stranieri, di cui lo zar si serviva per mandare a effetto i suoi vasti disegni, le apparivano dei corruttori.

Le lamentele cui si abbandonava in pubblico incoraggiavano i faziosi e i fautori delle antiche usanze. La sua condotta d’altronde non riparava certo a dei fatti così gravi. Alla fine, nel 1696, lo zar si vide costretto a ripudiarla e a rinchiuderla in un monastero a Suzdal’, dove le si fece prendere il velo con il nome di Elena601.

599 Sull’originale Czarisin. È la città di Volgograd che si chiamò Caricyn fino al 1925.600 Sull’originale è «Eudoxie-Théodore, ou Eudoxie Théodoruna Lapuchin», ma Fëdor

(Teodoro) era il nome del padre. Il nome avuto alla nascita era Praskov’ja Illarionovna poi mutato in Evdokija alla salita al trono. Il matrimonio significò per Pietro il passaggio alla maggiore età e il riconoscimento del trono.

601 Sulla condotta di Evdokija vi sono testimonianze scritte dei parenti. Il matrimonio di Pietro finì intorno al 1692 quando egli cominciò la relazione con Anna Mons che durò fino al 1704 e che Voltaire cita negli Aneddoti sullo zar Pietro il Grande (cfr nota 51) ma che qui

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Disgraziatamente il figlio che ella gli aveva dato nel 1690 nacque con il carattere della madre, carattere che fu rafforzato dalla prima educazione che gli venne impartita. Le mie relazioni dicono che quest’educazione fu affidata a dei superstiziosi che compromisero per sempre la sua intelligenza: parlava e scriveva il tedesco, sapeva disegnare, aveva qualche cognizione di matematica, ma queste stesse relazioni che mi sono state affidate assicurano che ciò che lo rovinò fu la lettura delle opere a carattere religioso. Il giovane Alessio credette di vedere in questi libri la condanna di tutto ciò che faceva suo padre. A capo dei malcontenti c’erano dei preti, ed egli si lasciò completamente dominare dai preti.

Essi cercavano di convincerlo che tutta la nazione inorridiva alle iniziative di Pietro, che le frequenti malattie dello zar non lasciavano sperare in una lunga vita, che suo figlio non poteva sperare di rendersi bene accetto alla nazione se non manifestando la sua avversione per le novità. Queste mormorazioni e questi consigli non costituivano apertamente una fazione, una cospirazione, ma pareva che tutto tendesse a questo scopo e gli animi erano accesi.

Il matrimonio di Pietro e Caterina celebrato nel 1707 e i figli che ella gli diede finirono di inasprire l’animo del giovane principe. Pietro tentò in tutti i modi di ricondurlo alla ragione, giunse a metterlo per un anno a capo della reggenza, lo fece viaggiare; inoltre, come si è detto, al termine della campagna del Prut, nel 1711, gli diede in moglie la principessa di Wolfenbüttel. Questo matrimonio fu molto infelice. Alessio che aveva ventidue anni si abbandonò a tutti gli eccessi della gioventù e a tutta la rozzezza degli antichi costumi che gli erano tanto cari. Questa vita sregolata lo abbrutì. La sua sposa trascurata, maltrattata, priva del necessario e di ogni consolazione, languì nel dolore e alla fine morì di crepacuore nel 1715, il 1° novembre602.

Ella lasciava al principe Alessio un figlio nato da poco; secondo la legge naturale questo figlio avrebbe dovuto essere un giorno l’erede dell’impero. Pietro prevedeva con dolore che dopo di lui il frutto di tutte le sue fatiche sarebbe stato distrutto da gente del suo stesso sangue. Dopo la morte della principessa, scrisse a suo figlio una lettera tanto patetica quanto

non ripete per non violare la promessa di non addentrarsi nella vita privata (cfr. note 7 e 31). Dopo la morte della madre di Pietro (1694) che aveva combinato il matrimonio, non fu più necessario salvare le apparenze, perciò la situazione interna al palazzo, dove i parenti di Evdokija coprivano alti incarichi di governo, divenne insostenibile. Pietro scoprì un loro complotto con gli strel’cy contro di lui e nel 1698 ordinò di rinchiudere Evdokija nel monastero dell’Intercessione di Suzdal’ (tradizionale luogo di esilio di regine) con le sue due sorelle ed esiliò il loro padre e i due fratelli lontano da Mosca. Evdokija fu tonsurata ma sei mesi dopo tornò allo stato laicale rimanendo a vivere nel monastero e qualche anno dopo ebbe una relazione con il militare Stepan Glebov, coscritto a Suzdal’, che per frequentarla si travestiva da monaco. Gli amanti furono scoperti nel 1718: Glebov fu torturato e condannato a morte, Evdokija fu esiliata nel monastero della Dormizione presso il lago Ladoga. Nel 1728, sotto lo zar Pietro II, ritornò a Mosca in monastero.

602 Secondo studi moderni, morì di peritonite dieci giorni dopo aver dato alla luce il futuro zar Pietro II.

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minacciosa, la quale terminava con queste parole: «Attenderò ancora qualche tempo per vedere se avete intenzione di correggervi, altrimenti, sappiatelo, vi priverò della successione come si recide un membro inutile. Non pensate che voglia intimorirvi e non contate sul titolo di mio unico figlio: infatti, se non risparmio la mia stessa vita per la mia patria e per il bene del mio popolo, come potrei risparmiare voi? Preferisco lasciare l’una e l’altro a uno straniero che lo merita piuttosto che a un mio figlio che se ne rende indegno».

Questa è la lettera di un padre ma ancor più di un legislatore. D’altronde ne risulta chiaramente che in Russia l’ordine della successione non era stabilito in modo irrevocabile da quelle leggi fondamentali che tolgono ai padri il diritto di diseredare i figli, come invece avviene in altri regni, e lo zar credeva che sua prima prerogativa fosse quella di disporre dell’impero che aveva fondato. Proprio allora l’imperatrice Caterina dette alla luce un principe che doveva morire nel 1719. Sia che a questa notizia Alessio si perdesse d’animo, sia per imprudenza, sia per i cattivi consigli, egli scrisse a suo padre che rinunciava alla corona e a ogni speranza di regnare. «Chiamo Dio a testimonio e giuro sull’anima mia che non avanzerò mai pretese alla successione. Metto nelle vostre mani i miei figli e non chiedo altro che il mantenimento finché sono in vita».

Suo padre gli scrisse una seconda volta: «Noto – gli dice – che nella vostra lettera parlate unicamente della successione, come se io avessi bisogno del vostro consenso. Vi ho rinfacciato il dolore provocatomi dalla vostra condotta per tanti anni e voi non ne parlate. Le esortazioni paterne non vi toccano. Ho deciso di scrivervi ancora un’ultima volta. Se non tenete nessun conto i miei ammonimenti mentre sono in vita, che cosa conteranno per voi quando sarò morto? Quand’anche in questo momento aveste l’intenzione di tener fede alle vostre promesse, quei barboni603 vi raggireranno a loro piacimento e vi costringeranno a violarle… È gente che conta soltanto su di voi. Non sentite riconoscenza alcuna per colui al quale dovete la vita. Lo assistete forse nel suo lavoro, ora che siete giunto a maturità? Non lo biasimate forse, non lo avversate qualunque cosa faccia per il bene del popolo? Ho buone ragioni per credere che, se mi sopravviverete, distruggerete la mia opera. Emendatevi, rendetevi degno della successione oppure fatevi frate. Rispondete o per iscritto o a viva voce, altrimenti procederò con voi come con un malfattore».

Era una lettera dura e non sarebbe stato difficile al principe rispondere che avrebbe cambiato vita; egli invece si limitò a rispondere a suo padre in quattro righe che voleva farsi frate.

Questa decisione non pareva naturale e sembra strano che lo zar abbia

603 Sia coloro che non approvavano le riforme di Pietro, sia i Raskol’niki (cfr. nota 139) ostentavano abiti e barbe di foggia antiquata. Nello specifico, si sa che Alessio frequentava persone ostili a Pietro, tra cui quattro principi Naryškin, cinque principi Vjazemskij, il segretario Evarlakov, l’arcivescovo Ilarion Krutickij e diversi protopopi, tra cui Jakov Ignat’ev che per dodici anni gli fu padre spirituale e alimentò il rancore verso Pietro.

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voluto mettersi in viaggio lasciando nel suo Stato un figlio tanto scontento e tanto ostinato. Perciò quello stesso viaggio è la prova che lo zar non credeva di dover temere una cospirazione da parte di suo figlio.

Prima di partire alla volta della Germania e della Francia andò a fargli visita; il principe che era malato, o fingeva di esserlo, lo accolse a letto e gli confermò con i più solenni giuramenti la sua intenzione di ritirarsi in un chiostro; lo zar gli dette sei mesi per decidere e partì con la sua sposa.

Appena giunto a Copenaghen seppe (come si poteva prevedere) che Alessio si circondava unicamente di malcontenti che incoraggiavano le sue lamentele, Gli scrisse che decidesse tra il convento e il trono e che, se voleva un giorno succedergli, doveva raggiungerlo a Copenaghen.

I confidenti del principe lo convinsero che sarebbe stato pericoloso per lui trovarsi, lontano da ogni consiglio, tra un padre irritato e una matrigna. Egli dunque finse di partire per Copenaghen per raggiungere suo padre, ma invece prese la strada di Vienna e andò a mettersi sotto la protezione dell’imperatore Carlo VI, suo cognato, contando di restarvi fino alla morte dello zar.

Press’a poco la stessa avventura era occorsa a Luigi XI allorché, ancora delfino, aveva abbandonato la corte di Carlo VII suo padre e si era ritirato presso il duca di Borgogna. Il delfino era assai più colpevole dello zarevič poiché si era sposato contro la volontà del padre, aveva arruolato delle truppe, si era ritirato presso un principe che era il nemico naturale di Carlo VII e non tornò mai alla sua corte malgrado le pressanti richieste di suo padre.

Alessio invece si era sposato solo per ordine del padre, non si era ribellato, non aveva arruolato truppe, non si ritirava presso un principe nemico e alla prima lettera che ricevette da suo padre tornò a gettarglisi ai piedi. Infatti appena Pietro seppe che suo figlio era stato a Vienna, che s’era rifugiato nel Tirolo e in seguito a Napoli, appartenente allora all’imperatore Carlo VI, inviò il capitano delle guardie Romanzov604 e il consigliere privato Tolstoj, latori di una lettera scritta di suo pugno e datata Spa, 21 luglio 1717. Trovarono il principe a Napoli, al castello di Sant’Elmo, e gli consegnarono la lettera che era così concepita: «…Vi scrivo per l’ultima volta, per dirvi che dovete eseguire la mia volontà che Tolstoj e Romanzov vi notificheranno da parte mia. Se mi obbedirete, vi assicuro e prometto a Dio di non punirvi, e se tornate vi amerò più che mai, ma se non lo farete, in qualità di padre, in virtù del potere ricevuto da Dio, scaglio su di voi la mia eterna maledizione e, in qualità di vostro sovrano, vi assicuro che saprò trovare il modo di punirvi, nella qual cosa spero che Dio mi assista e che prenda su di sé la mia giusta causa. Del resto tenete presente che non vi ho costretto in nulla. Chi mi costringeva a lasciarvi libero di scegliere la strada che avreste voluto prendere? Se avessi voluto obbligarvi, non avevo forse in mano il potere? Non avevo che da comandare e sarei stato obbedito».

604 Non Romanzov, ma Aleksandr Ivanovič Rumjancev (1680-1749), generale e stretto collaboratore di Pietro.

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Il viceré di Napoli non ebbe difficoltà a convincere Alessio a tornare da suo padre. Era questa una prova incontestabile del fatto che l’imperatore non voleva prendere con il giovane principe alcun impegno che potesse contrariare lo zar. Alessio aveva viaggiato con la sua amante Efrosina605 e tornò indietro con lei.

Lo si poteva considerare un giovane fuorviato dai cattivi consigli che era andato a Vienna e a Napoli invece di andare a Copenaghen. Se non avesse commesso altri sbagli che questo, comune a tanti altri giovani, sarebbe stato facile perdonarlo. Suo padre chiamava Dio a testimone che non soltanto lo avrebbe perdonato ma lo avrebbe avuto più caro che mai. Con queste assicurazioni Alessio partì. Tuttavia in base alle istruzioni dei due incaricati che lo riaccompagnarono e in base alla lettera stessa dello zar sembra che il padre abbia preteso dal figlio che questi denunciasse chi lo aveva consigliato e mandasse a effetto il suo giuramento di rinunciare alla successione.

Sembra difficile conciliare questa diseredazione con il giuramento fatto dallo zar nella sua lettera di amare il figlio più che mai. È possibile che il padre, combattuto tra l’amor paterno e la ragione di Stato, si limitasse ad amare un figlio rinchiuso nel chiostro; forse sperava ancora di ricondurlo al dovere facendogli sentire che cosa significa la perdita della corona. In circostanze così rare, difficili e penose, è facile supporre che né il cuore del padre né quello del figlio, egualmente agitati, fossero d’accordo neppure con se stessi.

Il 13 febbraio 1718 il principe arrivò a Mosca dove si trovava allora lo zar. Quel giorno stesso si getta ai piedi del padre e ha con lui un lunghissimo colloquio: immediatamente si sparge per la città la voce che padre e figlio si sono riconciliati, che tutto è dimenticato. Tuttavia l’indomani i reggimenti delle guardie sono chiamati in armi e si fa suonare la campana grande di Mosca. I bojardi e i consiglieri privati sono convocati al palazzo, mentre i vescovi, gli archimandriti e due preti di San Basilio che erano professori di teologia si riuniscono nella cattedrale. Alessio, senza spada e legato come un prigioniero, viene condotto al castello al cospetto del padre. Si prosterna davanti a lui e gli consegna piangendo uno scritto nel quale riconosce i suoi torti, si dichiara indegno di succedergli e chiede come unica grazia che gli venga accordata salva la vita.

Lo zar lo risollevò e lo condusse in una stanza dove gli rivolse parecchie domande. Gli disse che se nascondeva qualcosa riguardante la sua evasione ne andava della vita, dopodiché il principe fu ricondotto nella sala dove era riunito il consiglio; là si diede pubblica lettura alla dichiarazione dello zar che era già pronta.

In questo documento il padre rimprovera al figlio tutto ciò che via via abbiamo esposto, la sua poca premura nell’istruirsi, i suoi rapporti con i fautori delle antiche usanze, la sua pessima condotta con la moglie. «Egli ha

605 Efrosina Fëdorova (o Evfrosina, o Afrosina) conobbe Alessio nel 1714 o nel 1715, quando il principe era già sposato.

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violato – vi si legge – la fede coniugale, attaccandosi a una donna della più bassa estrazione mentre viveva ancora la sua sposa». È vero che anche Pietro aveva ripudiato la sua per una prigioniera, ma questa prigioniera era una donna di meriti superiori ed egli aveva giuste lamentele da muovere contro sua moglie che era una sua suddita. Alessio invece aveva trascurato la sua sposa per una sconosciuta che non aveva altro merito che la bellezza. Fin qui vediamo solo errori di gioventù che un padre deve correggere, ma può perdonare.

Gli si rimprovera inoltre di essere andato a Vienna a mettersi sotto la protezione dell’imperatore. Lo zar afferma che Alessio ha calunniato suo padre lasciando intendere all’imperatore Carlo VI che lo si perseguitava e lo si costringeva a rinunciare all’eredità e che, per finire, ha chiesto all’imperatore di essere difeso a mano armata.

A prima vista non è ben chiaro come l’imperatore avrebbe potuto dichiarar guerra allo zar per un motivo simile e come avrebbe potuto interporre tra il padre irritato e il figlio disubbidiente altro che i suoi buoni uffici. Pertanto Carlo VI si era limitato a dare asilo al principe e l’aveva rimandato indietro appena lo zar, scoperto il suo rifugio, lo aveva richiamato.

In questo terribile documento Pietro aggiunge che Alessio aveva fatto credere all’imperatore che se faceva ritorno in Russia la sua vita era in pericolo. Condannarlo a morte al suo ritorno, soprattutto dopo averlo assicurato del perdono, significava in un certo senso giustificare le lamentele di Alessio. Tuttavia vedremo quali motivi spinsero in seguito lo zar a emettere questa memorabile sentenza606. Per finire in questa grande assemblea si vide un sovrano assoluto fare l’avvocato accusatore contro il proprio figlio.

«Ecco – egli disse – in che modo nostro figlio è tornato; e sebbene con la sua evasione e le sue calunnie abbia meritato la morte, il nostro affetto di padre gli perdona i suoi delitti. Tuttavia, considerando la sua indegnità e la sua vita sregolata, non possiamo in coscienza lasciargli la successione al trono, poiché prevediamo anche troppo bene che dopo di noi la sua

606 Ufficialmente Voltaire tenta di giustificare lo zar, ma dalle sue lettere private traspare una certa perplessità: «La triste fine dello zarevič mi imbarazza alquanto. Non mi piace parlare contro la mia coscienza. La sentenza capitale mi è sempre parsa troppo severa… in molti Stati non sarebbe stato lecito comportarsi così… un figlio a mio avviso non è degno di morte per aver viaggiato per proprio conto mentre suo padre faceva lo stesso. Tenterò di cavarmela in questa situazione scabrosa facendo sì che nel cuore dello zar l’amor di patria prevalga sulle paterne viscere». (Lettera a Šuvalov, 22 novembre 1759). Né Voltaire poteva riferirsi a Ivan il Terribile, l’unico zar che uccise il figlio, perché come ha scritto lo storico russo Kiprijan N. Jaroš nel libro Parallelo psicologico. Ivan il Terribile e Pietro il Grande (1898): «Ivan uccise accidentalmente suo figlio, in uno scoppio d’ira e poi si disperò, si ammalò, volle rinunciare al trono e ritirarsi in monastero per espiare, perché la morte del figlio era la punizione di Dio per i suoi crimini passati, poi inviò diverse migliaia di rubli in Palestina per la commemorazione dell’anima di Ivan. Al contrario, Pietro si occupò del figlio per pochi anni, lo mise alla prova un paio di mesi e fu responsabile della sua morte in maniera deliberata e consapevole. Impose il suo volere e la sua rabbia al figlio per tutta la vita e non lo perdonò mai».

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condotta depravata offuscherebbe la gloria della nazione e provocherebbe la perdita di tanti Stati riconquistati dalle nostre armi. Compiangeremmo soprattutto i nostri sudditi se, con un tale successore, li rigettassimo in una condizione molto peggiore di quella da cui sono usciti.

«Pertanto, in grazia della patria potestà, in virtù della quale, secondo le leggi del nostro impero, ognuno dei nostri sudditi può diseredare un figlio a suo piacimento, nella nostra qualità di principe sovrano e in considerazione del bene del nostro Stato, priviamo nostro figlio Alessio del diritto di succederci al trono di Russia, a causa dei suoi delitti e della sua indegnità, anche se dopo di noi non sopravvivesse nessun membro della nostra famiglia.

«Inoltre costituiamo e dichiariamo successore al detto trono il nostro secondo figlio Pietro607, sebbene ancora in giovane età, non avendo altro erede in età superiore alla sua.

«Scagliamo sul suddetto figlio Alessio la nostra paterna maledizione se mai, in qualunque tempo, avanzi pretese alla suddetta successione o cerchi di procacciarsela.

«Esigiamo anche dai nostri fedeli sudditi della classe ecclesiastica, di quella secolare di qualunque altra classe e dall’intera nazione che, secondo questa costituzione e conformemente alla nostra volontà, riconoscano e considerino il suddetto Pietro, nostro figlio, da noi designato alla successione, come legittimo successore; esigiamo inoltre che, in conformità della presente costituzione, confermino il tutto con un giuramento davanti al santo altare, sui santi Vangeli e baciando la Croce.

«E tutti coloro che in futuro, in qualsiasi momento, si opporranno alla nostra volontà e oseranno considerare successore nostro figlio Alessio o prestargli aiuto per lo stesso scopo, siano dichiarati traditori nostri e della patria. Abbiamo disposto che la presente sia pubblicata dovunque, affinché nessuno pretenda di ignorarla. Fatto a Mosca, il 14 febbraio 1718. Firmato di nostro pugno e suggellato col nostro sigillo».

Si direbbe che tali atti siano stati predisposti o che siano stati preparati con la massima celerità: infatti il principe Alessio era ritornato il 13 e il suo diseredamento a vantaggio del figlio di Caterina avvenne il 14.

Da parte sua il principe sottoscrisse la rinuncia alla successione: «Riconosco – egli dice – questa esclusione come giusta; l’ho meritata con la mia indegnità e giuro davanti a Dio Onnipotente nella Trinità di sottomettermi in tutto alla volontà paterna, ecc.».

Firmati questi atti, lo zar si recò a piedi alla cattedrale; qui furono letti una seconda volta e tutti gli ecclesiastici apposero la loro approvazione e la loro firma in calce a un’altra copia. In molti Stati un simile atto non avrebbe alcun valore, ma in Russia, come presso gli antichi Romani, ogni padre aveva il diritto di privare il figlio della successione e questo diritto era più forte in un sovrano che in un suddito, soprattutto in un sovrano come

607 Si tratta di quello stesso figlio dell’imperatrice Caterina che morì il 15 aprile 1719. (Nota dell’Autore)

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Pietro.Tuttavia era da temere che un giorno le stesse persone che avevano

istigato il principe contro suo padre e gli avevano consigliato la fuga avrebbero tentato di annullare una rinuncia imposta con la forza e di restituire al figlio maggiore la corona che era stata trasmessa a un cadetto di secondo letto. In tal caso si poteva prevedere una guerra civile e l’inevitabile distruzione di tutto ciò che Pietro aveva fatto di grande e di utile. Bisognava decidere fra l’interesse di quasi diciotto milioni di uomini, quanti ne contava allora la Russia, e un solo uomo incapace di governarla. Era dunque importante smascherare i malintenzionati: ancora una volta lo zar minacciò di morte suo figlio se gli nascondeva qualche cosa. Di conseguenza il principe fu sottoposto a interrogatorio da suo padre e successivamente da alcuni commissari.

Una delle accuse che contribuirono alla sua condanna fu la lettera di un residente dell’imperatore di nome Beyer, scritta dopo la fuga del principe da Pietroburgo: da questa lettera risultava che nell’esercito russo di stanza nel Meclemburgo serpeggiava la rivolta, che molti ufficiali parlavano di inviare la nuova zarina Caterina e suo figlio nella prigione in cui si trovava la zarina ripudiata e di mettere Alessio sul trono appena fosse stato ritrovato. Effettivamente in quell’esercito dello zar era scoppiata una rivolta che fu in breve repressa. Questi discorsi inconcludenti non ebbero alcun seguito, Alessio non poteva averli incoraggiati: infatti uno straniero ne parlava come di una novità; il principe Alessio non era il destinatario della missiva e ne possedeva solo una copia inviatagli da Vienna.

Un capo di accusa più grave era costituito da una minuta scritta di suo pugno, di una lettera inviata da Vienna ai senatori e agli arcivescovi di Russia. I termini erano abbastanza forti: «I maltrattamenti continui che ho dovuto subire senza averli meritati m’hanno costretto alla fuga: poco è mancato che mi si rinchiudesse in un convento. Quelli che hanno rinchiuso mia madre mi avrebbero voluto trattare allo stesso modo; in questo momento mi trovo sotto la protezione di un grande principe e vi prego di non abbandonarmi». Le parole «in questo momento», che potevano apparire sediziose, erano cancellate, riscritte di sua mano e poi ancora una volta cancellate, ciò che rivelava un giovane sconvolto che cede al risentimento e allo stesso momento se ne pente. Di queste lettere non fu trovata che la minuta; esse non giunsero mai a destinazione e la corte viennese non le inoltrò, prova evidente che questa corte non voleva urtare quella russa e sostenere a mano armata il figlio contro il padre.

Il principe fu messo a confronto con parecchi testimoni: uno di costoro, di nome Afanas’ev608, sostenne di avergli sentito dire una volta: «Dirò una cosa ai vescovi che la ripeteranno ai curati, i curati ai parrocchiani e io sarò posto sul trono anche mio malgrado».

Persino la sua amante Efrosina depose contro di lui609. Non esisteva

608 Sull’originale Afanassief.609 La testimonianza di Efrosina contro Alessio è certa e fu confermata davanti allo zarevič, ma

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un’accusa precisa, nessun progetto coerente, nessun intrigo completo, nessuna cospirazione, nessuna associazione, tanto meno dei preparativi. Era un figlio di famiglia insoddisfatto e vizioso che si lamentava di suo padre, lo evitava e sperava la sua morte. Ma questo figlio di famiglia era l’erede del regno più vasto del nostro emisfero: nella sua situazione e nella sua posizione non esistono colpe lievi.

Accusato dalla sua amante, fu anche accusato a proposito dell’ex-zarina, sua madre, e di sua sorella Marija. Fu incolpato di essersi consultato con sua madre a proposito della fuga e di averne parlato alla principessa Marija. Un vescovo di Rostov, confidente di tutti e tre, fu tratto in arresto e depose che queste due principesse, prigioniere in un convento, avevano sperato in un rivolgimento che rendesse loro la libertà e con i loro consigli avevano istigato il principe alla fuga. Più il loro risentimento era naturale, più era pericoloso. Vedremo alla fine del capitolo chi fosse questo vescovo e quale fosse stata la sua condotta.

Dapprima Alessio negò molti fatti di questo tipo; così facendo si esponeva alla morte minacciatagli da suo padre nel caso che non avesse rilasciato una confessione sincera e completa.

Alla fine ammise di aver proferito alcuni dei discorsi poco rispettosi nei confronti del padre che gli venivano rimproverati e si scusò adducendo l’ira e l’ubriachezza.

Lo zar redasse di sua mano nuovi capi d’interrogatorio. Il quarto era così concepito: «Quando avete saputo dalla lettera di Beyer che c’era una rivolta nell’esercito del Meclemburgo, siete stato contento. Credo che aveste qualche progetto e che vi sareste dichiarato per i ribelli anche mentre ero in vita».

Ciò equivaleva a interrogare il principe sui suoi sentimenti più riposti. Si può confessarli a un padre che li corregge con i suoi consigli, ma è lecito nasconderli a un giudice che si pronuncia solo su fatti accertati. I sentimenti nascosti del cuore non vanno soggetti ai processi penali. Alessio avrebbe potuto facilmente negarli o dissimularli, nessuno lo costringeva ad aprire il suo animo; eppure rispose per iscritto: «Se i ribelli mi avessero chiamato durante la vostra vita, probabilmente sarei andato da loro purché fossero stati forti abbastanza».

È incredibile che abbia rilasciato spontaneamente questa risposta e altrettanto straordinario sarebbe, almeno secondo le abitudini europee, che

ne sono oscuri i motivi. Tante sono state le ipotesi; per esempio, da una lettera si sa che, quand’era in viaggio verso Vienna, Efrosina si accorse di essere incinta, ma del bambino non esiste altra traccia, poi si è supposto che fosse sotto minaccia di tortura oppure fosse stata corrotta (c’è un ordine di versamento a suo favore, ma non documenti che provino la riscossione). Secondo studi posteriori, le dichiarazioni di Efrosina non aggiungevano nulla a quanto era allora noto a tutti, eccetto forse l’esistenza della lettera di Alessio citata da Voltaire, ma la lettera, mai spedita, fu trovata a Vienna dopo la morte del principe. È possibile che Alessio avesse confermato questa circostanza sperando ancora di salvarsi con la reclusione in qualche monastero, perché non aveva possibilità di fuga: Pëtr Tolstoj aveva già corrotto gli Austriaci per un eventuale arresto e aveva intercettato una lettera di Alessio indirizzata al re di Svezia, nemico di Pietro, in cui gli chiedeva appoggio.

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lo si fosse condannato sulla base della confessione di un’idea che avrebbe potuto venirgli un giorno, in una circostanza che non si è verificata.

A questa insolita confessione dei suoi pensieri più riposti che non erano usciti dal profondo della sua anima, si aggiunsero delle prove che in più di un Paese non sono valide davanti al tribunale della giustizia umana. Il principe, affranto e fuori di sé, ricercava in se stesso, con l’ingenuità della paura, tutto ciò che potesse servire alla sua rovina. Alfine ammise che in confessione si era accusato davanti a Dio all’arciprete Jakov di aver desiderato la morte di suo padre, e che il confessore Jakov gli aveva risposto: «Dio vi perdonerà, noi gli auguriamo la stessa cosa».

Tutte le prove che si possono ricavare dalla confessione non sono ammesse dalle regole della nostra Chiesa: sono segreti fra il penitente e Dio. Anche la Chiesa greca, come quella latina, non crede che questa corrispondenza intima e sacra fra un peccatore e la divinità sia sottoposta alla giustizia umana, ma si trattava dello Stato e di un sovrano. Il prete Jakov, messo alla tortura, confermò le rivelazioni del principe. In quel processo si assisteva all’insolito spettacolo di un confessore accusato dal suo penitente e di un penitente accusato dalla propria amante. Si può ancora aggiungere alla singolarità di questo episodio il seguente fatto: l’arcivescovo di Kazan’610 era stato coinvolto nell’accusa perché in passato, nel primo bollore del risentimento che lo zar provava contro suo figlio, aveva pronunciato un sermone troppo favorevole al giovane zarevič; il principe, nel corso dell’interrogatorio, ammise di aver contato sul prelato, mentre, come vedremo tra breve, questo stesso arcivescovo di Kazan’ era a capo dei giudici ecclesiastici consultati dallo zar per il processo criminale.

Bisogna fare un’osservazione fondamentale a proposito di questo strano processo, assai mal digerito nella grossolana Storia di Pietro I scritta dal sedicente bojardo Nestesuranoy611; l’osservazione è la seguente.

Tra le altre risposte al primo interrogatorio di suo padre, Alessio ammette che quando si trovava a Vienna, dove non incontrò l’imperatore, si era rivolto al ciambellano conte di Schönborn612, il quale gli aveva detto: «L’imperatore non vi abbandonerà e quando sarà giunto il momento, dopo la morte di vostro padre, vi aiuterà a salire sul trono con le armi in pugno. Gli risposi – aggiunge l’accusato: – non aspiro a tanto, che l’imperatore mi accordi la sua protezione, non desidero altro». Questa deposizione è semplice, naturale, e ha tutte le apparenze della verità: infatti, chiedere truppe all’imperatore per tentare di detronizzare il proprio padre, sarebbe stato il colmo della follia, e nessuno avrebbe osato fare una proposta così assurda né al principe Eugenio né al consiglio né tanto meno all’imperatore. Questa deposizione risale al mese di febbraio: quattro mesi dopo, il 1° luglio, nel corso e verso la conclusione della procedura, nelle ultime risposte

610 Sull’originale Résan. Cfr. nota 115.611 Cfr. nota 8.612 Friedrich Karl Schönborn (1674-1746) vice-cancelliere dell’impero asburgico fino al 1734 e

vescovo di Bamberga e di Würzburg.

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per iscritto si fa dire allo zarevič quanto segue:«Non volendo imitare in nulla mio padre, cercavo di giungere alla

successione in qualunque modo tranne che in quello giusto. Volevo ottenerla con l’appoggio straniero e, qualora vi fossi riuscito e l’imperatore avesse attuato ciò che mi aveva promesso, cioè di procurarmi la corona di Russia anche a mano armata, non avrei tralasciato nulla per impossessarmi della successione. Per esempio, se l’imperatore avesse chiesto in cambio truppe del mio Paese per il suo servizio contro uno qualunque dei suoi nemici oppure grosse somme di denaro, avrei fatto tutto ciò che voleva e avrei elargito doni cospicui ai suoi ministri e ai suoi generali. Avrei mantenuto a mie spese le truppe ausiliarie che egli mi avesse dato per entrare in possesso della corona di Russia; in una parola nessun prezzo mi sarebbe parso troppo alto purché si adempisse la mia volontà».

Quest’ultima deposizione del principe è chiaramente estorta: si direbbe che egli faccia del suo meglio per farsi credere colpevole; ciò che egli dice è persino contrario alla verità su un punto capitale. Egli afferma che l’imperatore gli aveva promesso di procurargli la corona con le armi alla mano: ciò è falso. Il conte di Schönborn gli aveva lasciato sperare che un giorno, dopo la morte dello zar, l’imperatore lo avrebbe aiutato a rivendicare i diritti ereditari, ma l’imperatore non aveva promesso nulla. Per giunta, ciò non significava ribellarsi al proprio padre ma succedergli dopo la sua morte.

In quest’ultimo interrogatorio egli dice ciò che supponeva che avrebbe fatto nel caso avesse dovuto disputare l’eredità, eredità alla quale non aveva giuridicamente rinunciato prima del viaggio a Napoli e a Vienna. Vediamo dunque per la seconda volta che egli confessa non già ciò che ha fatto e che incorre nei rigori della legge, ma ciò che immagina di poter fare un giorno e che, di conseguenza, non sembra rientrare nella giurisdizione di nessun tribunale. Eccolo accusarsi per ben due volte dei segreti pensieri che ha potuto architettare per l’avvenire. Nel mondo intero non si era mai visto prima di allora un solo uomo giudicato e condannato sulla scorta delle vane idee che gli sono venute in mente e di cui non ha fatto parte a nessuno. Non c’è in Europa nessun tribunale nel quale si ascolti un uomo che si accusa di un pensiero delittuoso e si dice che persino Dio non li punisca se non quando sono accompagnati da una volontà ben precisa.

A queste considerazioni così naturali si potrà opporre che Alessio aveva dato a suo padre il diritto di punirlo con le sue reticenze a proposito di vari complici della fuga: la sua grazia infatti dipendeva dalla confessione generale ed egli la fece solo quand’era troppo tardi. Per giunta, dopo un tale scandalo, non sembrava umanamente possibile che Alessio perdonasse mai al fratello a favore del quale era stato diseredato. E, si disse, era meglio punire un colpevole che mettere a repentaglio tutto l’impero. Il rigore della giustizia si accordava con la ragione di Stato.

Le leggi e i costumi di una nazione non devono essere giudicati sul metro di quelli di un’altra: lo zar aveva il diritto fatale ma reale di punire con la morte suo figlio per la sua sola fuga. Nella sua dichiarazione ai giudici e ai vescovi, egli si esprime così:

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«Sebbene tutte le leggi umane e divine e soprattutto quelle russe che tra privati escludono ogni giurisdizione tra padre e figlio, ci conferiscano il potere sufficiente e assoluto che ci consente di giudicare nostro figlio sulla base dei suoi delitti secondo la nostra volontà e senza chiedere il parere di nessuno, malgrado tutto questo, poiché nessuno è chiaroveggente nei suoi propri affari come in quelli altrui, così come i medici, anche i più esperti, non si arrischiano a curare sé stessi quando sono ammalati, e ne chiamano altri, così, temendo di gravare la mia coscienza di qualche peccato, vi espongo la mia situazione e vi chiedo un rimedio: infatti paventerei la morte eterna se, ignaro forse della natura del mio male, volessi guarire da solo, soprattutto in considerazione del fatto che ho giurato sul giudizio di Dio e ho promesso per iscritto di perdonare a mio figlio qualora egli mi dica la verità e in seguito l’ho riconfermato a voce.

«Benché mio figlio abbia violato la sua promessa, tuttavia, per non discostarmi in nulla dai miei doveri, vi prego di riflettere su questo caso e di esaminarlo con la massima attenzione per vedere ciò che egli merita. Non adulatemi, non temete che se merita solo una lieve punizione e voi giudicate in questo senso, io ne sia contrariato: giuro per il gran Dio e per il suo giudizio che non avete assolutamente nulla da temere.

«Non vi preoccupi il fatto di dover giudicare il figlio del vostro sovrano, ma, senza riguardo alla persona, fate giustizia e non perdete la vostra anima e la mia. Infine fate che la nostra coscienza non debba rimproverarci nulla nel giorno terribile del Giudizio e che la nostra patria non abbia a soffrire».

Al clero lo zar rilasciò una dichiarazione quasi uguale: così tutto si svolse con la massima autenticità e Pietro in tutti i suoi provvedimenti, adottò una forma ufficiale che palesava la sua intima persuasione di essere nel giusto. Questo processo criminale dell’erede di un così grande impero durò dalla fine di febbraio al 5 luglio613. Il principe fu interrogato varie volte e rilasciò le confessioni che gli venivano richieste: abbiamo riferito solo quelle essenziali.

Il 1° luglio il clero rilasciò per iscritto il suo parere. In realtà lo zar non gli chiedeva che un parere e non una sentenza. L’inizio merita l’attenzione dell’Europa.

«Questo caso – dicono i vescovi e gli archimandriti – non è di competenza della giurisdizione ecclesiastica e il potere assoluto che regna nell’impero russo non è soggetto all’approvazione dei sudditi, anzi al sovrano compete l’autorità di agire secondo il suo beneplacito senza l’intervento dei suoi subordinati».

Dopo questo preambolo è citato il Levitico, in cui è detto che chi avrà maledetto suo padre o sua madre sarà punito con la morte614, e il Vangelo

613 Riassumendo: il 31 gennaio (11 febbraio) 1718 Alessio arrivò a Mosca, il 13/24 giugno si riunì il consiglio, formato da 126 senatori più prelati, ministri e altri dignitari, che emise la condanna a morte di Alessio il 24 giugno (5 luglio) 1718. Negli Aneddoti (cfr. nota 51) Voltaire dice che i giudici secolari erano 124, mentre più avanti nel testo diventano 144.

614 Lv 20,9.

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secondo San Matteo che cita questa severa legge del Levitico615. Dopo varie citazioni si conclude con queste parole veramente degne di nota:

«Se Sua Maestà vuole punire colui che è caduto secondo le sue azioni e conformemente alla gravità dei suoi delitti, ha davanti a sé gli esempi dell’Antico Testamento; se vuole usare misericordia, ha l’esempio dello stesso Gesù Cristo che accoglie il figliol prodigo quando ritorna pentito, che lascia libera la donna sorpresa in adulterio, la quale, secondo la legge, meritava la lapidazione, che preferisce la misericordia al sacrificio; ha l’esempio di David che vuole risparmiare Assalonne suo figlio e persecutore e che disse ai capitani che andavano ad affrontarlo: risparmiate mio figlio Assalonne; finanche il padre volle risparmiarlo, ma la giustizia divina non lo risparmiò. Il cuore dello zar è nelle mani di Dio: scelga il partito al quale lo indirizzerà la mano di Dio».

Questo parere porta la firma di otto vescovi, quattro archimandriti e due professori, e, come si è già detto, il metropolita di Kazan’, con cui il principe era stato in contatto, fu il primo a firmare.

Questo parere del clero fu immediatamente presentato allo zar. Non è difficile accorgersi che il clero voleva spingerlo alla clemenza, e forse nulla è più bello che questa contrapposizione fra la dolcezza di Gesù Cristo e il rigore della legge giudaica posto sotto gli occhi di un padre che processava il figlio.

Lo stesso giorno Alessio fu interrogato per l’ultima volta e mise per iscritto la sua ultima confessione: è questa la confessione in cui si accusa «di esser stato in gioventù un bigotto, di aver frequentato preti e monaci, di aver bevuto con loro, di aver preso da loro le impressioni che gli ispirarono orrore per i doveri della sua condizione e persino per la persona di suo padre».

Se egli rilasciò questa confessione di sua propria volontà, ciò dimostra che era all’oscuro del consiglio di clemenza appena rilasciato da quello stesso clero che egli accusava e ciò prova, in modo ancor più valido, quanto lo zar avesse trasformato le abitudini del clero del suo Paese il quale, dalla grossolanità e dall’ignoranza, era giunto in così poco tempo alla capacità di redigere uno scritto di cui i più illustri padri della Chiesa non avrebbero sconfessato né la saggezza né l’eloquenza.

È proprio in quest’ultima confessione che Alessio dichiara ciò che si è già riferito, cioè che egli voleva arrivare alla successione, «in qualunque modo tranne che in quello giusto».

Da quest’ultima confessione parrebbe che egli temesse di non essersi abbastanza compromesso, abbastanza confessato colpevole nelle precedenti e che, dando a se stesso i titoli di pessimo carattere e cattivo soggetto, immaginando ciò che avrebbe fatto se fosse stato il padrone, cercasse penosamente di giustificare la sentenza di morte che si stava per pronunciare contro di lui. Questa sentenza fu effettivamente pronunciata il 5 luglio. La si troverà per esteso alla fine dell’opera. Qui ci limiteremo a

615 Mt 15,4.

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rilevare che, come il parere del clero, essa comincia con la dichiarazione che un simile giudizio non spettò mai a dei sudditi ma solo al sovrano il cui potere dipende unicamente da Dio. Poi, dopo aver esposto tutti i capi d’accusa contro il principe, i giudici si esprimono così: «Che cosa pensare del suo piano di ribellione, tale che non ci fu mai al mondo l’uguale, unito a quello di un atroce doppio parricidio contro il sovrano, come padre della patria e padre secondo natura?».

Forse queste parole sono state mal tradotte dal processo criminale stampato per ordine dello zar; infatti ci sono state indubbiamente nel mondo ribellioni più grandi e non risulta dagli atti che lo zarevič avesse mai concepito il piano di uccidere suo padre. Forse il termine parricidio alludeva alla confessione che il principe aveva rilasciato secondo la quale si era un giorno confessato per aver augurato la morte a suo padre e al suo sovrano, ma il segreto riconoscimento, in confessione, di un pensiero segreto non costituisce un doppio parricidio.

Come che sia, fu condannato a morte all’unanimità senza che la sentenza contemplasse la scelta del supplizio. Di 144 giudici non ce ne fu uno solo che riuscisse anche solo a immaginare una pena più lieve della morte. Uno scritto inglese che in quei tempi fece molto scalpore riferisce che se quel processo fosse stato celebrato presso il Parlamento inglese, non uno dei 144 giudici avrebbe sentenziato una pena, sia pure la più lieve.

Ciò prova meglio di ogni altra cosa la differenza dei luoghi e dei tempi. Manlio616 avrebbe potuto essere condannato a morte dalle leggi inglesi per aver causato la morte di suo figlio, ma fu rispettato dagli austeri Romani. Le leggi d’Inghilterra non puniscono l’evasione di un principe di Galles che, in quanto Pari del regno, è padrone di andare dove vuole. Le leggi russe non permettono al figlio di un sovrano di uscire dalla patria contro il volere del padre. Un pensiero criminale senza conseguenze non può essere punito né in Francia né in Inghilterra, ma può esserlo in Russia. Una disubbidienza lunga, formale e reiterata, non è fra noi che una condotta scorretta che va corretta, ma nella persona dell’erede di un vasto impero che questa stessa disubbidienza avrebbe portato alla rovina era un delitto capitale. Per finire, lo zarevič era colpevole nei confronti di tutta la nazione di volerla ripiombare nelle tenebre da cui suo padre l’aveva tratta.

Tale era il potere riconosciuto dello zar che avrebbe potuto mandare a morte il proprio figlio colpevole di disubbidienza senza consultarsi con alcuno. Pure si rimise al parere di tutti i rappresentanti della nazione: così fu la nazione stessa a condannare il principe e Pietro ebbe tale fiducia nell’equità della propria condotta che, facendo stampare e tradurre il processo, si espose lui stesso al giudizio di tutti i popoli della terra.

La legge della storia non ci ha permesso di nulla mascherare, di nulla attenuare nel riferire questo tragico avvenimento. L’Europa non sapeva chi

616 Tito Manlio Torquato (IV secolo a.C.). La leggenda narra che, quand’era console durante la guerra latina, condannò a morte il figlio reo di essere uscito dai ranghi per affrontare un avversario.

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fosse più da compiangere, se il giovane principe accusato da suo padre e condannato a morte da quelli che avrebbero dovuto essere un giorno suoi sudditi o il padre che si credeva costretto a sacrificare suo figlio alla salvezza dell’impero.

In vari libri si è scritto che lo zar aveva fatto venire dalla Spagna il processo di Don Carlos condannato a morte da Filippo II, ma non è vero che si sia mai fatto un processo a Don Carlos. La condotta di Pietro differisce totalmente da quella di Filippo II. Lo spagnolo non rese mai pubblica la ragione per cui aveva fatto arrestare il proprio figlio né il modo in cui quel principe era morto617. A questo proposito scrisse al papa e all’imperatrice lettere assolutamente contraddittorie. Il principe Guglielmo d’Orange accusò pubblicamente Filippo di aver sacrificato il figlio e la moglie alla propria gelosia e di essere stato, più che un giudice severo, un marito geloso e crudele e un padre snaturato e parricida. Filippo si lasciò accusare e mantenne il silenzio. Pietro invece non fece nulla se non pubblicamente, dichiarò altamente di preferire la nazione a suo figlio, si rimise al giudice del clero e dei grandi e rese il mondo intero giudice degli uni, degli altri e di se stesso.

Un’altra cosa straordinaria in questa fatalità è che la zarina Caterina, odiata dallo zarevič e apertamente minacciata della sorte peggiore se mai questo principe fosse giunto al trono, non ebbe alcuna parte nella sua disgrazia e non fu accusata né sospettata da nessun ministro straniero residente a corte di aver fatto sia pure il minimo passo contro un figliastro da cui aveva tutto da temere. Veramente non risulta neppure che abbia interceduto per lui, ma tutte le memorie del tempo e soprattutto quelle del conte di Bassewitz sono unanimi nell’assicurare che ella lo commiserava per la sua disgrazia.

Ho sottomano le memorie di un pubblico ministro in cui trovo queste esatte parole: «Mi trovavo presente quando lo zar disse al duca di Holstein che Caterina l’aveva pregato affinché impedisse che fosse pronunciata la condanna dello zarevič. Contentatevi, ella mi disse, di fargli prendere il saio, poiché l’infamia di una sentenza capitale ricadrà su vostro nipote».

Lo zar non volle cedere alle preghiere della sposa. Gli pareva importante che la sentenza fosse pronunciata pubblicamente davanti al principe affinché, dopo questo atto solenne, non potesse mai tornare su una decisione cui egli stesso aveva dato il proprio consenso e che, dandogli la morte civile, lo avrebbe messo per sempre nell’impossibilità di aspirare alla corona.

Ciononostante, se dopo la morte di Pietro un potente partito si fosse levato in favore di Alessio, questa morte civile gli avrebbe forse impedito di regnare?

617 Don Carlos, principe delle Asturie ed erede del trono di Spagna, morì nel 1568, a 23 anni. Le notizie sul processo sono discordanti: alcuni affermano non sia mai esistito perché nessun atto fu scritto, altri che fu tenuto e presieduto dal cardinale e Grande Inquisitore Diego de Espinosa Arevalo, amico fraterno di Filippo II.

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La sentenza fu notificata al principe. Le stesse memorie, dicono che egli fu colto da convulsioni alle seguenti parole: «Le leggi divine e ecclesiastiche, civili e militari condannano a morte senza remissione coloro di cui sia manifesto l’attentato contro il proprio padre e il proprio sovrano». Le convulsioni, a quanto si dice, si trasformarono in apoplessia: si faticò a farlo ritornare in sé. Appena ebbe ripreso un poco i sensi, in quest’intervallo fra la vita e la morte, fece pregare suo padre che venisse a fargli visita. Lo zar venne, le lacrime sgorgarono dagli occhi del padre e del figlio infelice; il condannato chiese perdono, il padre perdonò pubblicamente. L’estrema unzione fu solennemente amministrata al malato agonizzante. L’indomani della funesta sentenza egli morì al cospetto di tutta la corte618. La salma fu portata dapprima nella cattedrale e deposta in un catafalco aperto. Quivi rimase quattro giorni esposta a tutti gli sguardi e infine fu inumata nella chiesa della cittadella accanto alla sposa. Lo zar e la zarina assistettero alla cerimonia.

A questo punto ci sentiamo assolutamente costretti a imitare la condotta dello zar, se così è lecito esprimersi, e cioè a sottomettere al giudizio del pubblico tutti i fatti che abbiamo appena finito di raccontare con la più scrupolosa fedeltà e non soltanto questi fatti, ma anche le voci che corsero e ciò che fu stampato su questo penoso argomento dagli autori più accreditati. Lamberti619 che di tutti è il più imparziale e il più esatto e che si è limitato a riportare i documenti originali e autentici concernenti gli affari europei, sembra a questo proposito discostarsi dall’imparzialità e dal discernimento che lo contraddistinguono. Egli si esprime in questi termini: «La zarina, temendo sempre per suo figlio, non ebbe pace finché non ebbe convinto lo zar a intentare un processo contro il figlio maggiore e a condannarlo a morte. Quello che è più strano è che lo zar, dopo avergli somministrato personalmente il knut, che è una tortura, gli tagliò personalmente la testa. La salma fu esposta al pubblico e la testa fu così ben adattata al corpo che non sembrava che ne fosse stata mai separata. Qualche tempo dopo accadde che il figlio della zarina venne a morire con grande dolore di questa ultima e dello zar. Questi, che aveva decapitato con le proprie mani il figlio maggiore, pensando di non avere più un successore, diventò di cattivo umore. Contemporaneamente gli giunse voce che la zarina aveva relazioni segrete e illegittime con il principe Menšikov. Questo fatto, aggiunto alla riflessione che per colpa della zarina egli aveva sacrificato personalmente il figlio maggiore, fece sì che meditasse di far tonsurare la zarina e farla rinchiudere in un convento come aveva fatto con

618 Alessio morì due giorni dopo la sentenza, il 26 giugno (7 luglio) 1718 nel bastione Trubeckoj della fortezza dei Ss. Pietro e Paolo.

619 Giovanni Gerolamo Arconati Lamberti fu un avventuriero e uno storico milanese del XVII secolo. Accusato di un attentato al patriarca di Alessandria (1672), si rifugiò in Svizzera dove visse pubblicando libelli anticattolici e servendo a un tempo, come spia segreta, due nazioni nemiche (Francia e Spagna) e per un certo periodo come segretario dell’inglese conte di Portland. Tra le sue opere è Mémoires pour servir à l’histoire du XVIII siècle (Memorie per servire alla storia del XVIII secolo), in 14 volumi, del 1724-1740.

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la prima moglie che ancora vi si trovava. Lo zar aveva l’abitudine di scrivere i suoi pensieri quotidiani su delle tavolette: egli vi aveva scritto il progetto che si è detto a proposito della zarina. Ella si era comprata la complicità dei paggi che entravano nella camera dello zar. Uno di costoro, che aveva l’abitudine di prendere le tavolette sotto la toletta per mostrarle alla zarina, prese quelle dove c’era il progetto dello zar. Appena la principessa l’ebbe scorsa, ne mise al corrente Menšikov e dopo uno o due giorni lo zar fu colto da una malattia sconosciuta e violenta che lo portò alla tomba. Questa malattia fu attribuita al veleno: infatti fu chiaro che se era così violenta e così improvvisa non poteva venire da altra causa che da quella, che pare abbastanza comune in Russia».

Queste accuse consegnate nelle Memorie di Lamberti, fecero il giro dell’Europa. Resta ancora un gran numero di libri e manoscritti che potrebbero trasmettere queste opinioni fino agli ultimi discendenti.

A questo punto ritengo mio dovere dire quello che giunse a mia conoscenza. Prima di tutto attesto che colui che riportò a Lamberti lo strano aneddoto che egli riferisce era in verità nato in Russia, ma la sua famiglia non era di quel Paese. Al tempo della catastrofe dello zarevič egli non risiedeva nell’impero, anzi ne mancava da vari anni. In passato lo conobbi: aveva incontrato Lamberti nella cittadina di Nyon dove questo scrittore si era ritirato e dove anch’io mi sono recato spesso. Questo stesso individuo mi ha confessato che aveva parlato a Lamberti soltanto di voci che correvano a quel tempo.

Si veda da questo esempio quanto in passato fosse facile a un solo uomo calunniare un altro nella memoria delle nazioni allorché, prima della stampa, le storie manoscritte, conservate nelle mani di pochi, non erano né esposte alla luce del sole, né contraddette dai contemporanei, né alla portata della critica universale come avviene al giorno d’oggi. Bastava una riga di Tacito, di Svetonio e persino degli autori di leggende per rendere un principe odioso al mondo intero e perpetuare la sua infamia di secolo in secolo.

Com’era possibile che lo zar avesse tagliato di sua mano la testa del figlio al quale fu somministrata l’estrema unzione al cospetto di tutta la corte? Era forse senza testa quando su quello stesso capo fu sparso l’olio santo? E quando si sarebbe potuto ricucire la testa al corpo? Il principe non fu lasciato un solo istante dalla lettura della sentenza fino alla morte.

L’aneddoto, secondo il quale suo padre ricorse al ferro, smentisce quello secondo il quale egli si servì del veleno. È vero che è rarissimo che un giovane soccomba all’improvviso sconvolgimento provocato dalla lettura di una sentenza di morte, soprattutto di una sentenza che si aspettava; ma infine i medici ammettono che la cosa è possibile620.

620 Nella lettera a Šuvalov del 9 novembre 1761 Voltaire scrisse: «Potete esser certo, signore, che nessuno in Europa crede lo zarevič morto di morte naturale. La gente alza le spalle quando sente dire che un principe di 23 anni è morto di un colpo apoplettico alla lettura di una sentenza che sperava non sarebbe stata eseguita». La versione della morte improvvisa risulta da un avviso ufficiale emesso da Pietro il Grande, ma esistono forti indizi sull’uccisione di Alessio. Voltaire stesso usa l’artificio di far raccontare ad altri gli

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Se lo zar avesse veramente avvelenato suo figlio come tanti altri scrittori hanno sostenuto, ciò avrebbe reso inutile tutto quello che aveva fatto durante quel fatale processo per convincere l’Europa del suo diritto a punirlo: tutti i motivi della condanna sarebbero diventati sospetti e lo zar si sarebbe condannato con le sue stesse mani. Se avesse voluto la morte di Alessio, avrebbe fatto eseguire la sentenza: non era forse lui il padrone assoluto? Un uomo prudente, un monarca cui si appuntano gli occhi della terra, si può risolvere a far vilmente avvelenare colui che potrebbe far perire mediante la spada della giustizia? Ci si diffama presso i posteri col titolo di avvelenatore e parricida quando è tanto facile conferirsi unicamente quello di giudice severo?621

Da tutto ciò che ho detto risulterebbe evidente che Pietro fu più re che padre, che egli sacrificò suo figlio agli interessi del fondatore e del legislatore e a quelli del suo Stato il quale senza questa malaugurata severità, sarebbe ricaduto nelle condizioni da cui l’aveva tratto. È evidente che egli non immolò suo figlio a una matrigna e al figlio maschio che ella gli aveva dato, poiché minacciò spesso di diseredarlo ancor prima che Caterina gli avesse dato quel figlio la cui debole infanzia era minacciata di prossima morte e che in realtà morì qualche tempo dopo. Se Pietro avesse fatto un grande scandalo unicamente per compiacere la sua sposa, sarebbe stato un debole, un insensato e un vile, e certamente non lo era. Prevedeva ciò che

eventi: delle parole di Lamberti, per esempio, smentisce la decapitazione di Alessio ma non le frustate col knut (25 colpi il 19/30 giugno e 15 colpi il 24 giugno/5 luglio) che furono in numero insufficiente a uccidere, ma abbastanza per ridurre allo stremo un uomo gracile e molto provato. Sessant’anni dopo Voltaire, Aleksandr Puškin scrisse in Storia di Pietro che il principe morì avvelenato, mentre una serie di lettere trovate tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento testimoniavano la morte per strangolamento, versione che gli storici sovietici assunsero come vera ma che fu poi contestata quando si scoperse che quelle lettere erano false.

621 Negli Aneddoti sullo zar Pietro il Grande (cfr. nota 51) Voltaire scrisse: «Quel che è certo è che il principe morì nel suo letto il giorno dopo la sentenza e che lo zar ospitava a Mosca una delle più belle speziali d’Europa». Circa vent’anni dopo la Storia di Voltaire, la vedova del capitano Peter Henry Bruce (1692-1757) pubblicò il libro di memorie del marito che era stato al servizio di varie nazioni, tra cui la Russia dal 1711 al 1724. In esse è raccontata la morte di Alessio: Bruce era negli appartamenti dello zarevič quando «il maresciallo Weyde uscì e mi ordinò di andare nel negozio di Mr. Bear, il farmacista, e di dirgli di fare quella pozione forte di cui lui sapeva perché il principe era molto malato. Quando riferii il messaggio a Mr. Bear, questi impallidì, si agitò, tremava e appariva in preda a una gran confusione. Sorpreso, gli chiesi quale fosse il problema, ma lui non riuscì a darmi risposta. Nel frattempo, lo stesso maresciallo entrò, anche lui confuso come il farmacista, dicendo di fare molto in fretta perché il principe era molto malato per un colpo apoplettico. Il farmacista consegnò una tazza d’argento con il coperchio, che il maresciallo portò personalmente negli appartamenti del principe, barcollando per tutta la strada come fosse ubriaco. Circa mezz’ora dopo, lo zar con tutti i suoi assistenti si ritirò con il volto molto triste e, appena usciti, il maresciallo mi ordinò di stare nell’appartamento del principe e di informarlo immediatamente in caso di qualsiasi cambiamento. Là c’erano, in attesa, due medici, due chirurghi e l’ufficiale di guardia. Mangiai quello che era stato apparecchiato per la cena del principe. Subito dopo i medici furono chiamati a entrare dal principe, che stava lottando in preda alle convulsioni e, dopo una penosa agonia, morì alle cinque pomeridiane» (in Memoirs, London 1782, libro VIII).

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ne sarebbe stato delle sue innovazioni e della sua nazione se dopo di lui si continuava il suo indirizzo. Tutte le sue imprese sono state perfezionate secondo le sue previsioni, la sua nazione è diventata celebre e rispettata in quell’Europa da cui era prima divisa, mentre se Alessio avesse regnato, tutto sarebbe stato perduto. Alla fine, quando si considera questa catastrofe, i cuori sensibili fremono e quelli severi approvano.

Questo grande e terribile evento è ancora così vivo nel ricordo degli uomini, e così spesso se ne parla con stupore, che è assolutamente necessario esaminare ciò che ne dissero gli scrittori contemporanei. Uno di quei famelici scrittori che prendono sfrontatamente il nome di storici, nel suo libro dedicato al conte di Bruhl622, primo ministro del re di Polonia, il cui nome può dare un certo peso a quanto egli afferma, si esprime come segue: «Tutta la Russia è convinta che lo zarevič perì unicamente per il veleno preparato di sua mano dalla matrigna». Quest’accusa è smentita dalla confessione che fece lo zar al duca di Holstein, secondo la quale la zarina Caterina gli aveva consigliato di rinchiudere in un chiostro il figlio condannato.

A proposito del veleno che l’imperatrice in seguito propinò persino a Pietro, suo sposo, questa leggenda si smentisce da sé semplicemente col racconto dell’episodio del paggio e delle tavolette. È mai possibile che a un uomo venga in mente di scrivere su una tavoletta: «Devo ricordarmi di far rinchiudere mia moglie?» Sono questi dei dettagli che si possano dimenticare e di cui si sia costretti a prender nota? Se Caterina avesse veramente avvelenato il marito e il figliastro, avrebbe commesso anche altri delitti. Ora, non solo non le si è mai rimproverato una crudeltà, ma fu conosciuta unicamente per la sua dolcezza e per la sua indulgenza.

Occorre a questo punto mostrare quale fu la causa prima della condotta di Alessio, della sua fuga, della sua morte e di quella dei suoi complici che perirono per mano del boia. Fu l’abuso della religione, furono i preti e i frati, e questa fonte di tanti mali è chiaramente indicata in alcune delle confessioni di Alessio che abbiamo riferito e soprattutto in questa espressione di cui lo zar Pietro si servì in una lettera a suo figlio: «Quelle lunghe barbe potranno rigirarvi a loro piacimento»623.

Ecco quasi parola per parola, come le memorie di un ambasciatore a Pietroburgo spiegano questa espressione:

«Parecchi ecclesiastici – egli dice – attaccati alla loro antica barbarie e ancor più al potere che perdevano man mano che la nazione si faceva più illuminata, languivano nell’attesa dell’avvento al trono di Alessio che prometteva loro di farli cadere di nuovo in questa barbarie tanto agognata. Di questo gruppo faceva parte Dosifej vescovo di Rostov624. Egli simulò una

622 Eléazar de Mauvillon (1712-1779) scrisse Histoire de Pierre Ier surnommé le grand, empereur de toutes les Russies, libro pubblicato nel 1742 e dedicato a Heinrich conte di Brühl (1700-1763), primo ministro del re Augusto III di Polonia.

623 Cfr. nota 603.624 Dosifej Glebov (al secolo Diomid) fu consacrato archimandrita del monastero di S. Eutimio

di Suzdal’ nel 1710 e l’anno successivo vescovo di Rostov. Fermamente contrario alle

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rivelazione da parte di san Demetrio. Questo santo gli era apparso e gli aveva assicurato a nome di Dio che a Pietro non restavano tre mesi da vivere, che Evdokija, rinchiusa nel convento di Suzdal’ e monaca con il nome di Elena, e con lei la principessa Marija, sorella del zar, dovevano salire sul trono e regnare assieme a suo figlio Alessio. Evdokija e Marija ebbero la debolezza di credere a questa impostura, anzi ne erano persuase al punto che Elena nel suo convento, smise l’abito monacale, riprese il nome di Evdokija, si fece dare della maestà e fece cancellare dalle pubbliche preghiere il nome della sua rivale Caterina; ormai si mostrava in pubblico soltanto rivestita dell’antico abito da cerimonia che portavano le zarine. La tesoriera del convento si dichiarò contraria a questa iniziativa. Evdokija rispose altezzosamente: “Pietro ha punito gli strel’cy che avevano oltraggiato sua madre; mio figlio Alessio punirà chiunque insulti la sua”. Essa fece rinchiudere la tesoriera nella sua cella. Un ufficiale, tale Stepan Glebov625, fu introdotto nel convento, Evdokija ne fece lo strumento dei suoi piani e lo legò a sé con dei benefici. Glebov diffuse la predizione di Dosifej nella cittadina di Suzdal’ e dintorni. Frattanto trascorsero i tre mesi. Evdokija rinfacciò al vescovo che lo zar era ancora in vita. “La colpa è dei peccati di mio padre,” rispose Dosifej; “egli si trova in Purgatorio e mi ha avvertito”. Subito Evdokija fa dire mille messe dei morti; Dosifej assicura che sono efficaci. In capo a un mese viene ad annunciarle che suo padre ha già la testa fuori del Purgatorio; un mese dopo il defunto sta dentro soltanto fino alla cintola; alla fine egli ha nel Purgatorio soltanto i piedi, e quando anche i piedi saranno liberati, che è la cosa più difficile, lo zar morrà senza fallo.

«La principessa Marija, convinta da Dosifej, gli si concesse a condizione che il padre del profeta uscisse immediatamente dal Purgatorio e che la predizione si avverasse e Glebov continuò la sua relazione con l’ex-zarina.

«Fu principalmente sulla scorta di queste predizioni che lo zarevič organizzò la propria fuga e si recò in terra straniera ad aspettare la morte di suo padre. Ben presto tutto ciò fu scoperto. Dosifej e Glebov furono arrestati; le lettere della principessa Marija a Dosifej e quelle di Elena a Glebov furono lette in pieno senato. La principessa Marija fu rinchiusa a Schlusselburg, l’ex-zarina fu trasferita in un altro convento nel quale fu tenuta prigioniera. Dosifej, Glebov e tutti i complici di questa cabala inutile e superstiziosa furono torturati come complici della fuga di Alessio. Il suo confessore, il suo tutore e il suo maresciallo di corte perirono tutti tra i supplizi».

Si vede dunque quale alto e funesto prezzo Pietro dovette pagare per la felicità procurata al suo popolo, quanti ostacoli palesi e segreti dovette

riforme di Pietro I, aderì alla setta dei Raskol’niki (o Vecchi Credenti) e partecipò al complotto per mettere sul trono Alessio (di cui aveva profetizzato l’ascesa come detto da Voltaire). Fu arrestato subito dopo il processo allo zarevič e giustiziato il 17 marzo 1718. Si racconta che fu torturato con la ruota e, quand’era morente, lo zar gli sputò in faccia. Il suo corpo fu gettato nel fuoco e la testa fissata su un palo.

625 Cfr. nota 601.

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sormontare nel corso di una guerra lunga e difficile, di nemici all’estero e di ribelli all’interno, mentre la metà della sua famiglia era aizzata contro di lui, la maggioranza dei preti ostinatamente contraria alle sue iniziative, quasi tutta la nazione da lungo tempo mal disposta contro la propria felicità di cui ancora non si rendeva conto. Pregiudizi da distruggere nei cervelli, malcontento da placare nei cuori. Bisognava che una nuova generazione, formata dalle sue premure, si convertisse alfine all’idea di gloria e di felicità che i suoi padri non avevano potuto sopportare.

Capitolo XI

LAVORI E INNOVAZIONI DEL 1718 E ANNI SUCCESSIVI

Durante questa terribile catastrofe fu chiaro che Pietro era il padre della sua patria e considerava la nazione come la propria famiglia. I supplizi, con cui era stato costretto a punire quella parte della nazione che voleva impedire all’altra di essere felice, erano sacrifici a nome del pubblico per una dolorosa necessità.

Fu nel 1718, epoca del diseredamento e della morte del suo figlio maggiore, che egli procurò ai suoi sudditi il maggior numero di vantaggi con la legislazione generale fino a quel momento sconosciuta, con le manifatture e le fabbriche di ogni genere create o perfezionate, con i nuovi sviluppi di un commercio che cominciava a diventare fiorente e con quei canali che univano fiumi, mari e popoli che la natura ha separato. Non sono di quegli eventi straordinari che affascinano il lettore comune, di quegli intrighi di corte che solleticano la malignità, di quei grandi rivolgimenti che interessano l’ordinaria curiosità degli uomini, ma sono i veri fattori della pubblica felicità, che le menti filosofiche amano considerare.

Ci fu dunque un luogotenente generale della polizia di tutto l’impero insediato a Pietroburgo a capo di un tribunale che svegliava al mantenimento dell’ordine da un estremo all’altro della Russia. Lo sfarzo nel vestire e i giochi d’azzardo, ancor più pericolosi del lusso, furono proibiti severamente. Furono create scuole di aritmetica, che nel 1716 erano state istituite in tutte le città dell’impero. Gli istituti per gli orfani e i trovatelli, già cominciati, furono finiti, dotati e popolati.

Aggiungeremo qui tutte le utili iniziative già precedentemente progettate e completate qualche anno dopo. Tutte le grandi città furono ripulite di quell’odiosa moltitudine di mendicanti che pretendono di esercitare come unico mestiere quello di importunare coloro che ne hanno uno e di trascinare una vita miserabile e vergognosa alle spalle degli altri uomini, abuso che altri Stati permettono anche troppo.

I ricchi furono costretti a costruire case regolari in Pietroburgo a seconda della loro fortuna. Un provvedimento eccellente fu quello di far venire gratis a Pietroburgo tutti i materiali per mezzo delle barche e dei carri che tornavano vuoti dalle province vicine.

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Pesi e misure furono stabiliti e resi uniformi, come le leggi. Tale uniformità, tanto e così inutilmente desiderata in Stati già da lungo tempo civilizzati, fu introdotta in Russia senza difficoltà e senza malcontento, mentre, a nostro avviso tutte queste utili iniziative sarebbero impossibili a realizzarsi tra noi. Fu imposto un prezzo alle derrate di prima necessità: i fanali che Luigi XIV era stato il primo a introdurre a Parigi, ignoti ancora persino a Roma, illuminavano nottetempo la città di Pietroburgo626. Le pompe contro gli incendi, le barriere nelle strade solidamente pavimentate, tutto ciò che concerne la sicurezza, la pulizia e l’ordine, le facilitazioni per il commercio interno, i privilegi concessi agli stranieri e la legislazione che impediva l’abuso di tali privilegi, tutto fece sì che Mosca e Pietroburgo prendessero un nuovo volto.

Furono migliorate più che mai le fabbriche d’armi e soprattutto quella fondata dallo zar a dieci miglia da Pietroburgo; egli ne era il primo intendente e sotto i suoi occhi lavoravano fino a mille operai. Egli andava a impartire gli ordini personalmente a tutti gli imprenditori di mulini per cereali, per polveri, per legna; ai direttori delle fabbriche di vele e cordami, di mattoni, di ardesia; alle manifatture di tela. Dalla Francia gli giunsero molti operai di ogni tipo: era il frutto del suo viaggio.

Egli creò un tribunale di commercio i cui membri erano per metà russi e per metà stranieri, affinché tutti i fabbricanti e tutti gli artisti godessero della stessa benevolenza. Un francese, con l’aiuto del principe Menšikov, fondò a Pietroburgo una manifattura di splendide vetrerie. Un altro fece eseguire degli arazzi di alta qualità sul modello di quelli dei Gobelins e ancor oggi questa manifattura viene molto favorita. Un terzo riuscì nelle filature d’oro e d’argento e lo zar dispose che sarebbero stati investiti in questa manifattura non più di 4.000 marchi l’anno, sia d’oro che d’argento, affinché il suo Stato non fosse troppo impoverito.

Egli concesse 30.000 rubli, cioè 150.000 lire francesi con tutto il materiale e gli strumenti necessari, a chiunque apriva una manifattura di panno e altre stoffe di lana. Questa utile liberalità gli consentì di vestire le sue truppe con panno fatto nel suo Paese, mentre in precedenza lo si faceva venire da Berlino e da altri Paesi stranieri.

A Mosca si fabbricavano tele belle come quelle d’Olanda e alla sua morte c’erano già a Mosca e a Jaroslavl’ quattordici fabbriche di tela di lino e di canapa.

In passato, allorché la seta si vendeva in Europa a peso d’oro, nessuno avrebbe potuto immaginare che un giorno al di là del lago Ladoga, in un clima freddissimo e in paludi sconosciute, sarebbe sorta una città opulenta e magnifica, nella quale la seta persiana sarebbe stata lavorata come a Ispahan. Pietro vi si provò e vi riuscì627. I giacimenti di ferro furono sfruttati

626 Nel 1718 Pietro il Grande approvò il progetto di illuminazione della nuova capitale e lo stesso anno davanti al Palazzo reale furono accesi i primi quattro lampioni.

627 Mentre la seta era lavorata principalmente in Ucraina, il lino prevaleva al Nord e per il suo colore bianco naturale e brillante era chiamato «la seta del Nord».

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meglio che mai. Si scoprirono alcune miniere d’oro e d’argento e fu creato un consiglio delle miniere per controllare se lo sfruttamento dava più profitto che spesa.

Per far prosperare tante manifatture, tante arti differenti e tante iniziative, non era sufficiente concedere delle patenti e nominare degli ispettori: bisognava che all’inizio lo zar vedesse tutto con i suoi occhi e lavorasse persino con le sue mani, come in passato lo si era visto costruire dei vascelli, equipaggiarli e guidarli. Quando si trattava di scavare dei canali in terreni acquitrinosi e quasi impraticabili, lo si vedeva a volte mettersi a capo dei lavoratori, scavare la terra e trasportarla lui stesso.

In quell’anno 1718 fece il progetto del canale e delle chiuse del Ladoga. Il problema era di far comunicare la Neva con un altro fiume navigabile per trasportare facilmente le mercanzie a Pietroburgo senza fare un largo giro per il lago Ladoga dove erano troppo frequenti le tempeste e che spesso era impraticabile alle barche628. Egli livellò personalmente il terreno: si conservano ancora gli strumenti di cui si servì per rompere la terra e trasportarla. Il suo esempio fu seguito da tutta la corte e accelerò un lavoro che veniva considerato irrealizzabile. L’opera fu compiuta dopo la sua morte: infatti nessuna delle sue imprese ritenuta possibile è stata abbandonata.

Il grande canale di Kronštadt, che si può prosciugare senza difficoltà e nel quale vengono carenati e riparati i vascelli da guerra, fu anch’esso cominciato nel periodo delle procedure penali contro suo figlio.

Quello stesso anno costruì la nuova città di Ladoga. Ben presto tracciò quel canale che unisce il mar Caspio con il golfo di Finlandia e con l’Oceano. Le barche che hanno risalito il Volga cominciano con l’entrare nel corso di questi due fiumi che Pietro mise in comunicazione: da questi fiumi, attraverso un altro canale, si passa sul lago di Il’men’, successivamente si entra nel canale di Ladoga, dove le mercanzie possono essere trasportate via mare in tutte le parti del mondo.

Impegnato in questi lavori che venivano eseguiti sotto i suoi occhi, Pietro estendeva le sue cure fino alla Kamčatka, all’estremità orientale del regno, e fece costruire due fortezze in quel Paese che era stato per tanto tempo ignorato dal resto del mondo. Nel frattempo degli ingegneri provenienti dalla sua Accademia di marina fondata nel 1715 percorrevano già tutto l’impero per rilevarne le carte esatte e per mettere sotto gli occhi di tutti gli uomini quella vasta distesa di terre che egli aveva civilizzato e arricchito.

628 Particolarmente nei mesi autunnali, sia i laghi Ladoga e Onega sono spazzati dai venti da ovest che possono provocare corte onde alte fino a 5 metri. La pericolosità per le navi era dovuta anche ai fondali sabbiosi e alla presenza di detriti alle foci dei fiumi.

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Capitolo XII

COMMERCIO

Prima di lui il commercio con l’estero languiva quasi del tutto: egli lo fece rivivere. È noto che il commercio ha mutato varie volte il suo percorso nel mondo. Prima di Tamerlano, la Russia meridionale era l’emporio della Grecia e persino delle Indie: i principali corrieri erano i Genovesi. Il Tanais e il Boristene trasportavano i prodotti dell’Asia. Ma allorché Tamerlano, sul finire del XIV secolo, conquistò il Chersoneso taurico, detto in seguito Crimea, e i Turchi si furono impadroniti di Azov, questo ramo del commercio mondiale fu distrutto. Pietro volle risuscitarlo impadronendosi di Azov. La sfortunata campagna del Prut gli aveva fatto perdere questa città e con essa ogni speranza di commerciare attraverso il Mar Nero: non gli restava che aprirsi la strada per un commercio non meno vasto attraverso il Caspio. Già nel XVI secolo e all’inizio del XVII, gli Inglesi, che avevano dato avvio al commercio di Archangel’sk, avevano tentato la via del mar Caspio, ma tutti questi tentativi erano stati vani.

Si è già detto che il padre di Pietro il Grande aveva fatto costruire da un olandese un vascello per andare a trafficare da Astrachan’ fin sulle coste della Persia: il vascello fu bruciato dal ribelle Sten’ka Rasin. Allora ogni speranza di commerciare direttamente con i Persiani sfumò. Gli Armeni, che sono i corrieri di questa parte dell’Asia, furono accolti in Astrachan’ da Pietro il Grande e si fu costretti a passare per le loro mani lasciando loro tutto il profitto del commercio; così avviene in India con i Baniani629; così si usa in Turchia e in molti altri stati cristiani con gli Ebrei. Infatti, coloro che hanno una sola risorsa diventano sempre molto abili nell’arte che è loro necessaria, e gli altri popoli diventano spontaneamente tributari di un’abilità di cui sono privi.

Pietro aveva già ovviato a questo inconveniente concludendo con l’imperatore di Persia un trattato in virtù del quale tutta la seta non assorbita dalle manifatture persiane sarebbe stata consegnata agli Armeni di Astrachan’ per essere da questi trasportata in Russia.

I torbidi sopraggiunti in Persia distrussero ben presto questo accordo. Vedremo in che modo lo scià o imperatore persiano Husayn, perseguitato dai ribelli, implorò l’appoggio di Pietro e come Pietro, dopo aver sostenuto guerre tanto dure contro i Turchi e gli Svedesi, andò a conquistare tre province della Persia: ma qui parliamo soltanto del commercio.

COMMERCIO CON LA CINA

Pareva che l’iniziativa di commerciare con la Cina dovesse essere la più vantaggiosa. Due immensi Stati confinanti, di cui ciascuno possiede ciò che manca all’altro, sembrano trovarsi tutti e due nella felice necessità di

629 Casta indiana di commercianti che regolava il traffico delle merci nell’Oceano Indiano.

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stringere un utile legame, soprattutto dopo la pace solennemente giurata tra l’impero russo e l’impero cinese nel 1619, secondo il nostro modo di contare il tempo.

Le prime basi di questo commercio erano state gettate fin dal 1653. A Tobol’sk si erano insediate delle compagnie di siberiani e delle famiglie di Bukari stabilitisi in Siberia. Queste carovane passavano per le pianure dei Calmucchi attraversavano successivamente i deserti fino alla Tartaria cinese e realizzavano considerevoli guadagni. Tuttavia i disordini sopraggiunti nel Paese dei Calmucchi e le controversie tra Russi e Cinesi per le questioni di frontiera mandarono all’aria quest’impresa.

Dopo la pace del 1689 era naturale che le due nazioni si accordassero su una località neutrale dove trasportare le mercanzie. I Siberiani, come del resto tutti gli altri popoli, avevano più bisogno dei Cinesi di quanto i Cinesi non ne avessero di loro, così fu chiesta all’imperatore di Cina l’autorizzazione di inviare delle carovane a Pechino, autorizzazione che fu ottenuta senza difficoltà all’inizio del nostro secolo.

È molto importante che l’imperatore K’hang-hsi avesse già permesso che si insediasse in un sobborgo di Pechino una chiesa russa servita da qualche prete siberiano, a carico dello stesso tesoro imperiale. K’hang-hsi aveva avuto l’indulgenza di costruire questa chiesa a vantaggio di parecchie famiglie della Siberia orientale, alcune delle quali erano state fatte prigioniere prima della pace del 1689, altre erano famiglie di profughi. Nessuna di queste famiglie aveva acconsentito a far ritorno in patria dopo la pace di Nipchou630: il clima di Pechino, la mitezza delle abitudini cinesi, la facilità di procurarsi con poco lavoro una vita comoda avevano fatto sì che si attaccassero tutte alla Cina. La loro piccola chiesa greca non metteva a repentaglio la tranquillità dell’impero come hanno fatto le chiese dei gesuiti. D’altronde, l’imperatore K’hang-hsi favoriva la libertà di coscienza: questa tolleranza fu sempre osservata in tutta l’Asia, come lo era stata in passato in tutto il mondo fino ai tempi dell’imperatore romano Teodosio I. Queste famiglie russe, essendosi in seguito mescolate alle famiglie cinesi, hanno abbandonato il cristianesimo, ma la chiesa rimane ancora.

Fu stabilito che le carovane di Siberia avrebbero potuto usufruire di questa chiesa quando fossero venute a portare a Pechino pellicce o altri articoli di commercio. Il viaggio, il soggiorno e il ritorno richiedevano tre anni. Il principe Gagarin, governatore di Siberia, fu per vent’anni a capo di questo commercio631. A volte le carovane erano molto numerose ed era

630 Cfr. nota 229.631 Il principe Matvej Petrovich Gagarin (1659?-1721) fu governatore di Nerčinsk (1693-95)

poi, sospettato di frode, fu mandato da Pietro I, nel 1701, a sorvegliare la costruzione del canale di collegamento tra i fiumi Volga e Don. Nel 1707 fu nominato comandante e destinato a rafforzare le difese di Mosca contro gli Svedesi e nel 1708, con l’introduzione delle province, fu nominato governatore della Siberia (incarico ufficializzato nel 1711) dove fece costruire la città di Tobol’sk. Con questi incarichi egli diventò uno degli uomini più ricchi del Paese, finché fu arrestato per abusi contro lo Stato, appropriazione di fondi pubblici, concussione, corruzione, minacce, furto di merce… Tutti i suoi beni furono

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difficile tenere a freno la gentaglia di cui erano in gran parte composte.Bisognava passare per le terre di un Lama, una specie di sovrano la cui

residenza si trova sul fiume Orkhon, e che viene chiamato il Koutoukas632: è un vicario del Dalai Lama resosi indipendente mutando in alcuni particolari la religione nazionale nella quale l’idea dominante è l’antica idea indiana della metempsicosi633. Questo prete si può paragonare ai vescovi luterani di Lubecca e di Osnabrück che hanno scrollato il giogo del vescovo di Roma. Il prelato tartaro fu offeso dalle carovane e lo furono anche i Cinesi. Il commercio fu nuovamente turbato da questa condotta scorretta e i Cinesi minacciarono di precludere alle carovane l’ingresso nel loro impero se non si metteva fine ai disordini. Il commercio con la Cina era a quel tempo molto vantaggioso per i Russi: essi portavano indietro oro, argento e pietre preziose. Il più grosso rubino che si conosca fu portato dalla Cina al principe Gagarin, passò quindi nelle mani di Menšikov e costituisce attualmente un ornamento della corona imperiale.

Le vessazioni del principe Gagarin nocquero molto al commercio che lo aveva arricchito e alla fine furono la sua rovina: egli fu messo in stato d’accusa davanti alla camera di giustizia istituita dallo zar e gli fu tagliata la testa un anno dopo la condanna dello zarevič e l’esecuzione di quasi tutti quelli che erano in rapporto con il principe.

Contemporaneamente l’imperatore K’hang-hsi, sentendo che le forze lo abbandonavano e avendo sperimentato che i matematici europei erano più sapienti di quelli cinesi, pensò che anche i medici europei valessero più dei suoi e fece pregare lo zar, tramite gli ambasciatori che tornavano da Pechino a Pietroburgo, di mandargli un medico. Si trovò a Pietroburgo un chirurgo inglese che si offrì di accettare l’incarico: egli partì con un nuovo ambasciatore e con Lorenz Lange che ci ha lasciato una descrizione del viaggio. L’ambasciata fu magnificamente ricevuta e ospitata. Il chirurgo inglese trovò l’imperatore in buona salute e si fece la fama di medico abilissimo. La carovana al seguito di questa ambasceria guadagnò molto, ma nuovi eccessi commessi da questa stessa carovana indisposero a tal punto i Cinesi che Lange, allora residente dello zar presso l’imperatore di Cina, fu licenziato e con lui furono licenziati tutti i commercianti russi.

L’imperatore K’hang-hsi morì, gli succedette suo figlio YungCheng634, che era saggio come suo padre ma più deciso – fu lo stesso che cacciò i gesuiti dall’impero come aveva fatto lo zar nel 1718 – e che concluse con Pietro un

confiscati; Gagarin fu torturato e impiccato e il suo corpo lasciato appeso per gli uccelli.632 Koutoukas potrebbe essere il nome e non un titolo, poiché nel 1777 l’imperatore Qianlong

(nipote di K’hang-hsi, cfr. nota 58) ordinò a Kutuku Fu (Huthok-thu in tibetano), alto Lama tibetano, un’immagine in seta del Buddha per scopi rituali.

633 Si tratta della dea Mais, preposta alla cura dei morti e alla loro purificazione mediante il trapasso in corpi via via migliori che Vishnu raccoglie poi nel numero degli eletti. Non è escluso però che Voltaire si riferisse alla più famosa dea Kali, le cui quattro braccia reggono strumenti di distruzione e purificazione in quanto considerata una dea che, dando la morte, porta a una nuova forma di vita.

634 È Yongzheng (1678-1735) che prima di salire al trono nel 1723 si chiamata Yinzhen, era il quarto figlio di K’hang-hsi.

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trattato in base al quale le carovane russe avrebbero commerciato unicamente sulle frontiere dei due imperi. Soltanto i corrieri spediti in nome del sovrano o della sovrana di Russia avevano il permesso di entrare a Pechino, dove venivano alloggiati in un vasto edificio che l’imperatore K’hang-hsi aveva assegnato in passato agli inviati della Corea. Da tempo non sono partiti né carovane né corrieri per la città di Pechino. Il commercio languisce ma è pronto a risorgere.

COMMERCI DI PIETROBURGO E DEGLI ALTRI PORTI EUROPEI

Già da allora si vedevano approdare nella nuova città imperiale più di duecento navi straniere all’anno. Questo commercio si è incrementato di giorno in giorno, e spesso ha fruttato alla corona più di cinque milioni (moneta francese). Era una cifra molto superiore all’interesse dei fondi che questa fondazione era costata. Quest’attività commerciale ridusse di molto quella di Archangel’sk ed è esattamente quello che il suo fondatore voleva, dato che Archangel’sk è troppo impraticabile, troppo lontana da tutte le nazioni, e anche perché un commercio che si svolge sotto gli occhi attenti di un sovrano è sempre più vantaggioso. Quello della Livonia rimase sempre allo stesso punto. In generale, la Russia ha commerciato con successo: ogni anno sono entrati nei suoi porti da mille a milleduecento navi, e Pietro ha saputo conciliare l’utilità con la gloria.

Capitolo XIII

LEGGI

Come tutti sanno, le buone leggi sono rare ma la loro esecuzione lo è ancora di più. Più uno Stato è vasto e comprende varie nazionalità, più è difficile riunirle sotto una stessa legislazione. Lo zar Pietro aveva fatto redigere un codice con titolo Uloženie635, che era stato anche stampato ma era ben lontano dall’essere sufficiente.

Nei suoi viaggi, Pietro aveva raccolto il materiale per ricostruire quel grande edificio che cedeva da tutte le parti: trasse degli insegnamenti dalla Danimarca, dalla Svezia, dall’Inghilterra, dalla Germania, dalla Francia, e da queste nazioni diverse prese quello che gli parve convenire alla sua.

Esisteva una corte di bojardi che giudicava in ultima istanza le questioni contenziose. A essa davano accesso il rango e la nascita, mentre avrebbe dovuto darlo la sapienza. Quella corte fu sciolta.

Egli creò un procuratore generale al quale affiancò quattro assessori in ognuno dei governatorati dell’impero. Questi funzionari ebbero l’incarico di vegliare sulla condotta dei giudici, le cui sentenze furono sottoposte al controllo di un senato istituito dallo zar. Ognuno dei giudici fu dotato di una

635 Sull’originale Oulogénie. Uloženie significa “codice” in russo.

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copia dell’Uloženie con le aggiunte e i cambiamenti necessari, in attesa che si potesse redigere un corpo completo di leggi.

Lo zar proibì a tutti i giudici, pena la morte, di accettare ciò che noi chiamiamo propine636. Da noi non sono rilevanti, ma sarebbe bene che non ce ne fossero affatto. Le maggiori spese della nostra giustizia sono rappresentate dal salario dei subalterni, dalla congerie delle scritture e soprattutto dalla gravosa usanza, invalsa nelle nostre procedure, di comporre righe di tre parole ognuna, sommergendo così sotto un enorme cumulo di carta la fortuna dei cittadini. Lo zar ebbe cura che fossero limitate le spese e fosse snellita la giustizia. Giudici e cancellieri riscuotevano un salario dall’erario pubblico e fu loro impossibile comprare le cariche.

Fu soprattutto nell’anno 1718, mentre celebrava solennemente il processo di suo figlio, che egli istituì queste regole. La maggior parte delle leggi che egli fissò erano ricavate da quelle svedesi, e lo zar non ebbe alcuna difficoltà ad ammettere nei tribunali i prigionieri svedesi che conoscevano la giurisprudenza del loro Paese e che, avendo imparato la lingua dell’impero, acconsentirono a rimanere in Russia.

Le cause dei privati furono dichiarate di competenza del governo della provincia e dei suoi assessori, successivamente ci si poteva appellare al senato, e se qualcuno, dopo la condanna del senato, si appellava allo zar in persona, veniva dichiarato degno di morte nel caso l’appello fosse ingiusto. Tuttavia, per moderare il rigore di questa legge, egli creò un maestro generale delle istanze con l’incarico di ricevere le petizioni di tutti coloro che avevano in pendenza, sia presso il senato che presso le corti inferiori, delle questioni a proposito delle quali la legge non si era ancora pronunciata.

Infine, nel 1722, lo zar completò il suo nuovo codice e proibì ai giudici, pena la morte, di allontanarsene sostituendo la loro privata opinione alla legge generale. Questa legge terribile fu affissa nei tribunali dell’impero, dove rimane tuttora.

Lo zar provvedeva a creare tutto. Persino la società era opera sua. Egli regolò il rango tra gli uomini a seconda del loro funzioni, dagli ammiragli e dai marescialli fino ai semplici portinsegna, senza alcun riguardo per i natali. Anzi teneva sempre presente, con lo scopo costante di insegnarlo alla nazione, che le benemerenze erano da preferirsi ai nobili natali. Anche per le donne fu stabilito il rango e chiunque in un’assemblea prendesse il posto che non gli spettava pagava un’ammenda.

Secondo una disposizione più utile, ogni soldato nominato ufficiale diventava anche gentiluomo e ogni bojardo incorso nei rigori della giustizia diventava plebeo.

Dopo la redazione di queste leggi e di questi regolamenti, avvenne che l’aumento del commercio, l’incremento di città e ricchezze, la popolazione dell’impero, le nuove iniziative, la creazione di nuove cariche ebbero come

636 Il termine francese è «épices», spezie. La propina, o sportula, era un compenso anticamente corrisposto ai giudici, poi fu elargito anche ai professionisti senza clienti o che compivano uffici non specificamente pagati.

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necessaria conseguenza una quantità di nuove questioni e di casi imprevisti che erano la conseguenza del successo stesso di Pietro nella riforma generale del suo Stato.

L’imperatrice Elisabetta completò il corpo di leggi cominciato dal padre e tali leggi risentono della dolcezza del suo regno.

Capitolo XIV

RELIGIONE

Nello stesso periodo Pietro si impegnava più che mai a riformare il clero. Aveva abolito il patriarcato, e quest’atto di autorità non era certo valso ad attirargli le simpatie del clero. Egli voleva che l’amministrazione imperiale fosse onnipotente e quella ecclesiastica rispettata e sottomessa. Il suo piano era di stabilire un consiglio ecclesiastico riunito in permanenza, dipendente dal sovrano, che non promulgasse per la Chiesa altre leggi se non quelle approvate dal signore di tutto lo Stato, cui anche la Chiesa fa parte. In quest’impresa fu coadiuvato da un arcivescovo di Novgorod chiamato Feofan Prokopovič637, ossia figlio di Procopio.

Questo prelato era un sapiente e un saggio. I viaggi compiuti in varie parti d’Europa lo avevano messo in guardia contro gli abusi che vi si commettono. Lo zar, che ne era stato anch’egli spettatore, aveva in qualunque iniziativa il grande vantaggio di poter liberamente scegliere l’utile evitando il rischioso. Nel 1718 e nel 1719 collaborò personalmente con l’arcivescovo. Fu insediato un sinodo permanente composto di dodici membri, vescovi o archimandriti, tutti designati dal sovrano. In seguito, il collegio salì fino a quattordici membri.

Le ragioni di questa istituzione furono esposte dallo zar in un discorso preliminare. Ecco, tra i suoi motivi, il più degno di nota e il più grande: «Che sotto l’amministrazione di un collegio ecclesiastico non sono da paventare i torbidi e le sollevazioni che potrebbero verificarsi sotto la guida di un unico capo ecclesiastico. Che inoltre il popolo, sempre incline a superstizione, vedendo da un lato il capo dello Stato e dall’altro il capo della Chiesa, potrebbe pensare che esistano effettivamente due poteri». A proposito di questo punto fondamentale egli cita le annose divisioni tra Stato e Chiesa che hanno insanguinato tanti regni.

Lo zar pensava e diceva pubblicamente che il principio dei due poteri fondato sull’allegoria delle due spade, che si trova negli Apostoli, è un’idea

637 Sull’originale «Théofane Procop, ou Procopvitz». Feofan Prokopovič (al secolo Elisij; 1681-1736) fu un celebre predicatore e teologo di origini ucraine che aiutò Pietro I nella sostituzione del patriarcato con il santo sinodo e a riformare l’istruzione ecclesiastica. Fu consacrato vescovo nel 1718, poi arcivescovo di Pskov nel 1720 e di Novgorod nel 1725. Con lo zar scrisse il Duchovnyj regljament (Regolamento spirituale, 1721) e in favore dell’autocrazia russa Pravda voli monaršej (La legge della volontà del monarca, 1722), ma lasciò anche scritti di poetica e retorica.

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assurda638. A questo tribunale lo zar conferì il potere di regolare tutta la disciplina

ecclesiastica, di esaminare i costumi e l’idoneità di coloro che il sovrano nomina alla carica episcopale, di giudicare in ultima istanza le cause religiose per le quali in passato ci si appellava al patriarca, di controllare gli introiti dei monasteri e la distribuzione delle elemosine.

Quest’assemblea ebbe il nome di santissimo sinodo, titolo che in origine spettava al patriarca. Lo zar in pratica istituì di nuovo la dignità patriarcale, ma divisa tra quattordici membri tutti dipendenti dal sovrano e che prestavano tutti il giuramento di obbedienza, giuramento che non prestava il patriarca. I membri di questo santo sinodo, riuniti, avevano grado pari a quello dei senatori e, come il senato, dipendevano dal sovrano.

La nuova amministrazione e il codice ecclesiastico entrarono in vigore ed ebbero forma definitiva solo quattro anni dopo, nel 1722. Pietro volle che il sinodo gli presentasse prima coloro che giudicava più degni della carica. L’imperatore sceglieva il vescovo e il sinodo lo consacrava. Spesso Pietro presiedeva l’assemblea639. Un giorno che bisognava proporre un vescovo, il sinodo fece notare che ancora non c’erano da presentare allo zar che degli ignoranti. «Ebbene, – disse questi, – non resta che scegliere il più galantuomo; varrà quanto un sapiente».

Si noti che nella Chiesa greca non esistono quelli che da noi si chiamano abati secolari. Il collarino da prete è noto unicamente come fonte di ridicolo, ma in virtù di un altro abuso, poiché è detto che tutto sia abuso a questo mondo, i prelati provengono dall’ordine monastico. I primi monaci non erano altro che dei laici, devoti gli uni, fanatici gli altri, che si ritiravano in solitudine. A un certo punto furono riuniti e dotati di una regola da San Basilio, pronunciarono dei voti, furono considerati come l’ultimo gradino della gerarchia, dal quale bisogna passare per ascendere alle alte cariche. Ciò fece sì che la Grecia e l’Asia pullulassero di monaci. La Russia ne era invasa: erano ricchi, potenti e, sebbene molto ignoranti, all’avvento di Pietro erano quasi gli unici che sapessero scrivere. Nei primi tempi, stupefatti e scandalizzati dalle innovazioni che Pietro introduceva in tutti i campi, ne avevano abusato. Nel 1703 lo zar si era visto costretto a proibire ai monaci l’uso dell’inchiostro e della penna: occorreva un permesso esplicito dell’archimandrita, che doveva rispondere di coloro ai quali lo concedeva.

638 Si allude ai versetti Lc 22,35-38 tuttora oggetto di discussioni teologiche: «[Cristo] Poi disse: “Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?”. Risposero: “Nulla”. Ed egli soggiunse: “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine”. Ed essi dissero: “Signore, ecco qui due spade”. Ma egli rispose “Basta!”» Alcuni interpretano le due spade degli apostoli come i due poteri, temporale e spirituale, della Chiesa, altri come le tavole della Legge ricevute da Mosè, altri ancora non accettano che in esse vi si veda un’allegoria.

639 È questa un’informazione non veritiera che Voltaire aveva dato negli Aneddoti sullo zar Pietro il Grande e che ha corretto nella Prefazione (cfr. testo e nota 51): Pietro non partecipò mai al sinodo, limitandosi a eleggere un suo rappresentante.

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Pietro volle che tale disposizione fosse mantenuta. Dapprima fissò che si potesse entrare nell’ordine monastico all’età di cinquant’anni; ma era troppo tardi, la vita umana è troppo corta, non c’era tempo di arrivare alla carica episcopale. Lo zar decise, assieme al suo sinodo, che sarebbe stato lecito farsi monaco passati i trent’anni, ma mai prima, e vietò ai militari e ai contadini di ritirarsi in un convento, tranne che nel caso di un ordine espresso dell’imperatore o del sinodo. In nessun caso un uomo sposato può essere accolto in un monastero, neppure dopo il divorzio, a meno che anche la sua sposa non prenda il velo con pieno consenso e che non ci siano figli. Chiunque sia al servizio dello Stato non può farsi monaco se non con esplicito permesso. Ogni monaco deve esercitare qualche mestiere con le proprie mani. Le religiose non debbono mai lasciare il monastero: sono tonsurate all’età di cinquant’anni come le diaconesse della Chiesa primitiva e se, prima di aver ricevuto la tonsura, vogliono sposarsi, non solo ne hanno il permesso ma vengono incoraggiate, regola mirabile in un Paese dove la popolazione è molto più necessaria dei monasteri.

Pietro volle che le sfortunate fanciulle che Dio ha fatto nascere per popolare lo Stato e che, per un malinteso senso di devozione, seppelliscono in un chiostro le generazioni di cui dovrebbero esser madri, fossero almeno di qualche utilità alla società che hanno tradito: ordinò che fossero tutte occupate in lavori manuali convenienti al loro sesso, L’imperatrice Caterina si assunse l’incarico di far venire delle operaie dal Brabante640 e dall’Olanda, le distribuì nei monasteri e ben presto vi si fecero dei lavori di cui si adornarono Caterina e le dame di corte.

Non c’è forse nulla al mondo che sia più saggio di tutte queste istituzioni, ma ciò che merita attenzione nei secoli è il regolamento che Pietro sostenne personalmente e presentò al sinodo nel 1724. Lo assistette in ciò Feofan Prokopovič. In questo scritto si fa una dotta esposizione dell’antica istituzione ecclesiastica: l’ozio monastico è combattuto con vigore, il lavoro non è soltanto raccomandato ma reso obbligatorio e la principale occupazione dev’essere quella di dedicarsi ai poveri. Vi si ordina che i soldati invalidi siano distribuiti nei monasteri, che ci siano dei religiosi incaricati di aver cura di loro, che i più robusti coltivino le terre di proprietà del convento. La stessa cosa ordina per i monasteri femminili: le più robuste debbono aver cura del giardino, le altre debbono assistere donne e fanciulle malate che sono portate nel monastero dalle zone circostanti. Lo zar si addentra fin nei minimi dettagli dei vari servizi: destina alcuni monasteri dell’uno e dell’altro sesso ad accogliere gli orfani e a educarli.

Chi legge questa ordinanza di Pietro il Grande del 31 gennaio 1724 ha l’impressione che sia stata composta a un tempo da un ministro di Stato e da un padre della Chiesa.

Quasi tutte le usanze della Chiesa russa differiscono dalle nostre. Tra noi, appena un uomo è suddiacono, gli è vietato il matrimonio ed è per lui un sacrilegio accrescere la popolazione della sua patria. In Russia, al contrario,

640 Regione storica dei Paesi Bassi, all’incirca corrispondente al Belgio.

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appena un uomo è ordinato suddiacono ha l’obbligo di prendere moglie; può diventare prete e arciprete, ma per diventare vescovo occorre essere vedovo o monaco.

Pietro proibì a tutti i curati di consacrare al servizio della Chiesa più d’uno dei loro figli, nel timore che una famiglia troppo numerosa tiranneggiasse la parrocchia: anzi fu permesso di usare non più di un figlio solo quando la parrocchia stessa lo richiedeva. È evidente che, sino nei minimi dettagli di queste ordinanze ecclesiastiche, tutto è destinato al bene dello Stato e vi si prendono tutte le misure possibili affinché i preti siano rispettati senza essere pericolosi e non siano né umiliati né potenti.

In un curioso memoriale redatto da un ufficiale molto amato da Pietro il Grande, trovo scritto che un giorno si stava leggendo al principe un capitolo de The Spectator inglese641 in cui si tracciava un parallelo tra lui e Luigi XIV: dopo averlo ascoltato lo zar disse: «Non credo di meritare la preferenza che mi viene accordata su quel monarca, ma ho la fortuna di essergli superiore in un punto essenziale: ho costretto il mio clero all’obbedienza e alla pace, mentre Luigi XIV si è lasciato sottomettere dal suo».

Un principe che trascorreva le sue giornate fra le fatiche della guerra e le notti a redigere tante leggi, a civilizzare un così vasto impero, a portare avanti tante immense fatiche nello spazio di duemila leghe, aveva bisogno di distrazioni. I divertimenti di quei tempi non potevano essere né così nobili né così raffinati come sono diventati in seguito. Non ci si deve stupire che Pietro si divertisse con la festa dei cardinali di cui abbiamo già parlato e con qualche altro svago dello stesso genere. Talora ne faceva le spese la Chiesa romana, per la quale egli aveva un’avversione comprensibile in un principe di rito greco che aspira a essere padrone nel suo Stato. Spettacoli analoghi egli dette a spese dei monaci della sua patria, ma solo di quelli antichi che voleva coprire di ridicolo mentre riformava quelli nuovi.

Si è già visto che prima della promulgazione delle leggi ecclesiastiche, aveva fatto papa uno dei suoi buffoni e aveva celebrato la festa del conclave. Questo buffone che rispondeva al nome di Šotov, aveva ottant’anni. Lo zar architettò di fargli sposare una vedova sua coetanea e di celebrare solennemente le nozze. Fece fare l’invito da quattro balbuzienti, dei vecchi decrepiti accompagnavano la sposa, quattro fra gli uomini più grassi della Russia fungevano da lacchè, l’orchestra aveva preso posto su un carro tirato da alcuni orsi che venivano pungolati con delle punte di ferro e che con i loro mugolii facevano un accompagnamento degno della musica che si suonava sul carro. Gli sposi furono benedetti nella cattedrale da un prete sordo e cieco cui avevano fatto inforcare un paio di occhiali. La processione, il matrimonio, il banchetto di nozze, la cerimonia con cui gli sposi furono svestiti per la notte e messi a letto, tutto era in armonia col tono buffonesco di quello svago.

641 Quotidiano inglese uscito dal marzo 1711 al dicembre 1712. Le sue ristampe, tradotte anche in francese con il titolo Spectateur anglais, circolarono per molti anni dopo la chiusura.

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Una festa come questa potrà sembrare molto strana, ma lo è più dei nostri passatempi di carnevale? Sono forse più belle da vedere cinquecento persone con maschere orribili sul volto e vestiti ridicoli sul corpo che saltellano tutta la notte in una sala senza scambiare parola?

Le nostre antiche feste quella dei pazzi, quella dell’asino, quella dell’abate dei becchi che si celebrava in chiesa, erano forse più dignitose? E dalle nostre commedie della Mère sotte642 traspare forse un genio superiore?

Capitolo XV

NEGOZIATI DI ÅLAND. MORTE DI CARLO XII. PACE DI NEUSTADT

Le grandiose imprese dello zar, la cura minuziosa dell’impero e l’infelice processo del principe Alessio non erano i soli affari che lo tenessero occupato: mentre badava alle questioni interne della nazione, bisognava premunirsi all’esterno. La guerra con la Svezia continuava sempre ma fiaccamente, rallentata dalla speranza di una prossima pace.

È opinione comune che nel 1717 il cardinale Alberoni, primo ministro di Filippo V re di Spagna, e il barone di Görtz, che ormai dominava Carlo XII, ambissero a mutare il volto dell’Europa avvicinando Pietro e Carlo, detronizzando Giorgio I re d’Inghilterra e rimettendo Stanislao sul trono di Polonia mentre l’Alberoni avrebbe conferito a Filippo, suo sovrano, la reggenza della Francia. Come abbiamo visto, Görtz aveva messo a parte dei suoi progetti lo zar in persona; quanto all’Alberoni, aveva intavolato negoziati col principe Kurakin, ambasciatore dello zar a Leida, tramite l’ambasciatore di Spagna Beretti Landi che era, come il cardinale stesso, un mantovano trapiantato in Spagna643.

Costoro erano stranieri che volevano sconvolgere tutto a vantaggio di sovrani di cui non erano nati sudditi, o meglio a proprio vantaggio. Carlo XII si lasciò tentare da tutte queste proposte mentre lo zar si limitò a esaminarle. Sin dal 1716 Pietro si era solo moderatamente impegnato contro la Svezia, più per costringerla a ottenere la pace mediante la cessione delle province conquistate che per schiacciarla definitivamente.

Grazie alla sua instancabile attività, il barone di Görtz aveva già ottenuto dallo zar che inviasse dei plenipotenziari nell’isola di Åland allo scopo di trattare la pace. Lo scozzese Bruce, gran maestro d’artiglieria in Russia644, e

642 Le jeu du Prince des Sots et Mère Sotte (La rappresentazione del Principe dei Matti e Mamma Matta) è un’opera teatrale satirica del poeta Pierre Gringore (1475?-1538?) in cui viene preso di mira papa Giulio II, avversario del re di Francia.

643 Sull’originale Baretti Landi. Lorenzo Verzuso Beretti Landi, marchese di Castelletto Scazzoso (1651-1725) era un diplomatico nato a Piacenza che diventò segretario di Stato e poi primo ministro dei Gonzaga di Mantova, per i quali fu a Venezia, in Polonia, in Germania e a Roma. Dal 1702 fu ministro plenipotenziario del re Filippo V di Spagna e per lui nel 1716 si recò in Olanda a firmare la pace dell’Aia (1720).

644 James Bruce (o, in russo, Jakov Vilinovič Brjus; 1669-1735) fu un feldmaresciallo russo, di lontane origini scozzesi e fratello di Robert Bruce, primo governatore militare di San

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il celebre Osterman645, che doveva essere poi a capo dei negoziati, giunsero alla conferenza nel periodo in cui lo zarevič veniva arrestato a Mosca. Görtz e Gyllenborg, rappresentanti di Carlo XII, si trovavano già alla conferenza ed erano entrambi impazienti di riavvicinare questo principe a Pietro e di vendicarsi del re d’Inghilterra. La cosa più strana è che esisteva una conferenza ma non un armistizio. La flotta dello zar continuava a incrociare lungo le coste del Svezia e faceva degli sbarchi: con queste ostilità lo zar intendeva affrettare la conclusione di una pace tanto necessaria alla Svezia e che doveva fruttare al suo vincitore tanta gloria.

Malgrado le piccole ostilità che ancora duravano, già erano manifesti tutti i segni della prossima pace. I preliminari erano quegli atti di generosità che sono più efficaci delle firme. Lo zar lasciò libero senza riscatto il maresciallo Rehnskiöld che aveva preso prigioniero personalmente, e il re di Svezia restituì nello stesso modo i generali Trubeckoj e Golovin prigionieri in Svezia sin dalla giornata di Narva.

I negoziati progredivano: nel nord Europa tutto stava per cambiare, Görtz proponeva allo zar l’annessione del Meclemburgo, Il duca Carlo che possedeva quel ducato aveva sposato una figlia dello zar Ivan, fratello maggiore di Pietro. La nobiltà del suo Paese s’era sollevata contro di lui. Pietro disponeva di un esercito nel Meclemburgo e prendeva le parti di quel principe, che considerava suo genero. Il re d’Inghilterra ed elettore di Hannover si dichiarava dalla parte dei nobili. Assicurare il Meclemburgo a Pietro, già padrone della Livonia e che sarebbe diventato il più potente elettore di Germania, era un altro modo di umiliare il re d’Inghilterra. Al duca di Meclemburgo veniva offerto in cambio il ducato di Curlandia e una parte della Prussia tolta alla Polonia, dove sarebbe tornato il re Stanislao. Brema e Verden sarebbero dovute spettare alla Svezia, ma l’unico modo di toglierle al re Giorgio I era la forza delle armi. Il progetto di Görtz era dunque che Pietro e Carlo, uniti non solo da una pace ma da un’alleanza offensiva, inviassero un esercito in Scozia. Carlo XII dopo la conquista della Norvegia avrebbe dovuto invadere personalmente la Gran Bretagna, dove si illudeva di eleggere un nuovo re dopo averne fatto uno in Polonia. Il cardinale Alberoni prometteva sussidi a Pietro e a Carlo. Il re Giorgio, cadendo, avrebbe trascinato probabilmente nella caduta il reggente di Francia suo alleato il quale, rimanendo senza appoggio, restava in balia

Pietroburgo. Partecipò alle campagne militari di Pietro contro gli Ottomani e contro gli Svedesi. Bruce era molto considerato anche come naturalista, astronomo (fu lui a fondare il primo osservatorio russo a Mosca nel 1702) e alchimista.

645 Heinrich Johann Friedrich Ostermann (in russo: Andrej Ivanovič Osterman; 1686-1747) fu un diplomatico russo di nascita tedesca che servì quattro zar (Pietro I, Caterina I, Pietro II, Anna). Diventato segretario dell’ammiraglio olandese Cornelis Kruse, emigrò in Russia e, grazie alle conoscenze delle lingue e all’abilità diplomatica, fu presto nominato da Pietro I intendente di Boris Šeremetev e poi segretario di Pëtr Šafirov, coi quali e con von Görtz concluse la pace del Prut (1711). Fu artefice della pace di Neustadt/Nystad (1721) e in seguito ebbe numerosi incarichi, sia in politica interna che in diplomazia, e rafforzò insieme al conte James Bruce e a Peter Lacy le fortificazioni costiere del nord della Russia. Coinvolto nel colpo di Stato di Elisabetta di Russa (1741) fu esiliato in Siberia.

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della Spagna vittoriosa e della Francia che si sarebbe sollevata.Alberoni e Görtz si credevano sul punto di sconvolgere l’Europa da un

capo all’altro. Una palla di colubrina sparata a caso dai bastioni di Fredrikshald646 in Norvegia, mandò all’aria tutti questi piani: Carlo XII fu ucciso647, la flotta spagnola fu sconfitta dagli Inglesi; la congiura suscitata in Francia fu scoperta e sventata; Alberoni fu cacciato dalla Spagna, Görtz fu decapitato a Stoccolma e di tutta la terribile congiura appena cominciata il solo potente superstite fu lo zar il quale, non essendosi compromesso con nessuno, dettò legge a tutti i vicini.

Dopo la morte di Carlo XII, in Svezia cambiò tutto. Egli era stato dispotico, sua sorella Ulrica fu eletta regina solo a condizione di rinunciare al dispotismo. Egli aveva progettato di unirsi con lo zar contro l’Inghilterra e i suoi alleati, il nuovo governo svedese si associò con questi alleati contro lo zar.

In realtà la conferenza di Åland non fu sciolta, ma la Svezia, alleata dell’Inghilterra, sperò che le flotte inglesi inviate nel Baltico le avrebbero procurato una pace più vantaggiosa. Le truppe dello Hannover invasero i domini del duca di Meclemburgo648, ma le truppe dello zar le ricacciarono.

Egli manteneva altre truppe in Polonia, teneva a bada nello stesso tempo i fautori di Augusto e quelli di Stanislao, e nei confronti della Svezia teneva pronta una flotta destinata a fare uno sbarco sulle coste o a costringere il governo svedese a non far languire la conferenza di Åland. Componevano questa flotta dodici grandi vascelli di linea, altri di secondo ordine, fregate e galere; lo zar era vice-ammiraglio e comandava sempre agli ordini dell’ammiraglio Apraksin.

Una squadra di quella flotta si segnalò una prima volta contro una squadra svedese e dopo un accanito combattimento catturò un vascello e due fregate. Pietro, che incoraggiava in tutti i modi la marina da lui creata, dette agli ufficiali della squadra 60.000 lire in denaro francese, medaglie d’oro e soprattutto onorificenze.

Proprio in quel tempo la flotta inglese al comando dell’ammiraglio Norris649 entrò nel mar Baltico per appoggiare gli Svedesi. Pietro riponeva tanta fiducia nella sua nuova marina che non si lasciò intimidire dagli Inglesi: tenne coraggiosamente il mare e mandò a chiedere all’ammiraglio inglese se veniva semplicemente come amico degli Svedesi o come nemico della Russia. L’ammiraglio rispose che non aveva ancora ricevuto un ordine preciso. Nonostante questa risposta ambigua, Pietro continuò a tenere il mare.

In effetti gli Inglesi erano venuti unicamente con l’intenzione di mostrarsi e mediante questa dimostrazione indurre lo zar ad accordare agli Svedesi

646 Odierna Halden.647 Il 30 novembre 1718.648 Febbraio 1719. (Nota dell’Autore)649 John Norris (1670?-1749) conosceva Pietro I dal 1715 quando pattugliava il mar Baltico

contro gli Svedesi e Pietro gli offrì il comando della marina russa, ma Norris rifiutò. Fu nominato ammiraglio della flotta inglese nel 1739.

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condizioni di pace accettabili. L’ammiraglio Norris andò a Copenaghen e i Russi fecero qualche scorreria in Svezia, nei dintorni di Stoccolma. Essi danneggiarono delle fucine dove si lavorava il rame, bruciarono quasi 15.000 case650 e fecero tali danni da far desiderare agli Svedesi che la pace fosse conclusa immediatamente.

La nuova regina di Svezia sollecitò effettivamente la ripresa dei negoziati; lo stesso Osterman fu inviato a Stoccolma. Per tutto il 1719 gli affari rimasero a questo punto.

L’anno seguente il principe di Hesse e consorte della regina di Svezia, che era salito al trono grazie alla rinuncia della sposa, inaugurò il regno con l’invio di un ministro a Pietroburgo per sollecitare questa pace tanto desiderata; tuttavia nel mezzo dei negoziati la guerra durava sempre.

La flotta inglese si unì a quella svedese, ma senza aprire ancora le ostilità, tra Russia e Inghilterra non c’era rottura dichiarata: l’ammiraglio Norris offriva la mediazione del suo signore, ma la offriva a mano armata e questo bastava a ostacolare i negoziati. Le coste svedesi e quelle delle nuove province russe sul mar Baltico sono situate in modo tale che quelle svedesi sono vulnerabili mentre quelle russe sono di difficile accesso. Ciò apparve chiaro allorché l’ammiraglio Norris, gettata la maschera, fece un altro sbarco unitamente agli Svedesi su un’isoletta dell’Estonia chiamata Nargö, appartenente allo zar. Essi bruciarono una capanna651, ma contemporaneamente i Russi, sbarcati nei dintorni di Vaga, bruciarono quaranta villaggi e più di mille case e provocarono danni incalcolabili in tutta la regione. Il principe Golicyn abbordò e catturò quattro fregate svedesi: pareva che l’ammiraglio inglese fosse venuto unicamente per constatare con i suoi stessi occhi fino a che punto lo zar avesse reso formidabile la propria marina. Norris si limitò quasi esclusivamente a mostrarsi su quello stesso specchio d’acqua sul quale le quattro fregate svedesi erano scortate trionfalmente fino al porto di Kronštadt che fronteggia Pietroburgo. Sembra che gli Inglesi abbiano fatto troppo per essere dei mediatori e troppo poco per essere dei nemici.

Infine652 il nuovo re di Svezia653 domandò una tregua d’armi e, non avendo ottenuto nulla fino a quel momento con la minaccia inglese, si servì della mediazione del duca d’Orléans e reggente di Francia654. Questo principe, alleato della Russia e della Svezia, ebbe l’onore della mediazione: inviò a Pietroburgo e di lì a Stoccolma il plenipotenziario Campredon655. Il congresso si riunì a Neustadt, cittadina della Finlandia, ma lo zar non volle

650 Luglio 1719. (Nota dell’Autore)651 Giugno 1720. (Nota dell’Autore) – Sull’originale l’isoletta è chiamata Narguen.652 Novembre 1720. (Nota dell’Autore)653 Federico I di Svezia (1676-1751) re dal 1720.654 Filippo II d’Orléans, cfr. nota 571.655 Febbraio 1721. (Nota dell’Autore) – Jacques de Campredon (1672-1749) fu il primo

rappresentante diplomatico francese in Russia. Dal 1693 fu a Copenaghen, L’Aia, Riga e Stoccolma (dal 1701), dal 1721 fu ministro plenipotenziario a San Pietroburgo e dal 1726 a Genova.

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acconsentire all’armistizio fino a che non si fu giunti al punto di concludere e di firmare. Egli aveva in Finlandia un esercito pronto a sottomettere il resto della provincia; le sue truppe tenevano la Svezia sotto una continua minaccia: bisognava che la pace fosse conclusa secondo il suo volere. Alla fine si sottoscrisse tutto ciò che volle: gli furono definitivamente cedute tutte le sue conquiste dalle frontiere della Curlandia fino all’estremità del golfo di Finlandia e oltre, lungo la regione di Kexholm e quella striscia della Finlandia stessa che si estende dai dintorni di Kexholm verso il nord; così egli restò padrone riconosciuto della Livonia, dell’Estonia, dell’Ingria, della Carelia, della regione di Vyborg e delle isole vicine che gli assicuravano anche il dominio sul mare, come le isole di Ösel, Dagö, Mön656 e molte altre. Il tutto formava una estensione di 300 leghe comuni di varia larghezza e costituiva un vasto regno, premio di vent’anni di fatiche.

Il 10 settembre 1721 questa pace di Neustadt fu firmata dal suo ministro Osterman e dal generale Bruce.

L’esultanza di Pietro fu tanto più grande in quanto, vedendosi liberato dalla necessità di mantenere un grande esercito verso la Svezia, libero da ogni inquietudine contro l’Inghilterra e i suoi vicini, si vedeva in grado di consacrarsi interamente alla riforma dell’impero già così bene avviata e di far fiorire in pace le arti e il commercio, introdotti con tanta fatica per opera sua.

Nel primo trasporto della felicità scrisse ai suoi plenipotenziari: «Avete redatto il trattato come se lo avessimo steso noi stessi e ve lo avessimo inviato per farlo firmare agli Svedesi; questo evento glorioso sarà sempre presente alla nostra mente».

Festeggiamenti di ogni tipo espressero la soddisfazione del popolo in tutto l’impero e soprattutto a Pietroburgo. La pompa trionfale ostentata dallo zar in tempo di guerra non si avvicinava neppure lontanamente ai pacifici festeggiamenti ai quali tutti i cittadini partecipavano con entusiasmo: questa pace era il più splendido dei suoi trionfi e, ancor più gradite di tutti i ricchi festeggiamenti, furono l’amnistia totale per tutti i colpevoli detenuti nelle prigioni e l’abolizione di tutte le imposte dovute al tesoro dello zar in tutto il territorio dell’impero fino al giorno della pubblicazione della pace. Caddero le catene di una moltitudine di infelici: i ladri pubblici, gli assassini, i criminali di lesa maestà furono i soli a esserne esclusi.

Fu in quell’occasione che il senato e il sinodo decretarono a Pietro i titoli di grande, imperatore e padre della patria. Il cancelliere Golovkin657 prese la parola nella cattedrale a nome di tutte le classi dello Stato; poi i senatori gridarono tre volte «Viva il nostro imperatore e nostro padre!» a queste acclamazioni fecero eco quelle del popolo. I ministri di Francia, Germania, Polonia, Danimarca e Olanda si congratularono con lui quel giorno stesso, gli

656 Ösel (Saaremaa) e Dagö (Hiiumaa) sono isole estoni, Mön è oggi danese.657 Il conte Gavriil Ivanovič Golovkin (1660-1734) fu ministro degli Affari esteri, gran

cancelliere imperiale dal 1709 (succedendo a Golovin, cfr. nota 227), presidente del Consiglio degli Affari esteri dal 1717 e sotto i regni di Pietro I, Caterina I, Pietro II e Anna.

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diedero i titoli che gli erano stati appena attribuiti e riconobbero imperatore colui che in Olanda, dopo la battaglia di Poltava, era già stato designato pubblicamente con quel titolo. I titoli di padre e di grande erano nomi gloriosi che nessuno in Europa poteva contestargli, quello di imperatore era solo un titolo onorifico concesso per tradizione all’imperatore di Germania come re titolare dei Romani. Tali appellativi richiedono tempo prima di essere formalmente accettati nelle cancellerie delle corti, dove l’etichetta è così diversa dalla gloria. Ben presto Pietro fu riconosciuto imperatore in tutta l’Europa salvo che in Polonia, sempre divisa dalle discordie, e presso il Papa, il cui appoggio è diventato del tutto superfluo da quando la corte di Roma ha perso il credito di cui godeva, via via che le nazioni si sono venute illuminando.

Capitolo XVI

CONQUISTE IN PERSIA

La posizione della Russia è tale che necessariamente essa ha degli interessi da salvaguardare con tutti i popoli che abitano verso il cinquantesimo grado di latitudine. Nei periodi di malgoverno, fu soggetta di volta in volta ai Tatari, agli Svedesi, ai Polacchi; sotto un governo forte e vigoroso, si impose al rispetto di tutte le nazioni. Pietro aveva inaugurato il suo regno con un vantaggioso trattato con la Cina. Egli aveva combattuto a un tempo gli Svedesi e i Turchi. Finì per condurre il suo esercito in Persia.

La Persia cominciava allora a ridursi nelle miserevoli condizioni in cui si trova tuttora. Ci si figuri la guerra dei Trent’anni in Germania, i tempi della Fronda, i tempi di San Bartolomeo, di Carlo VI e del re Giovanni in Francia, le guerre civili dell’Inghilterra, la lunga devastazione dell’intera Russia da parte dei Tatari, oppure questi stessi Tatari che invadono la Cina e ci si farà una pallida idea dei flagelli che desolarono la Persia.

Bastano un principe debole e trascurato e un suddito potente e intraprendente per gettare un intero regno in quest’abisso di sventure. Regnava allora lo scià o shah o sofi di Persia, Husayn, discendente dal grande scià Abbas. Egli si abbandonava alle mollezze; il suo primo ministro commise delle ingiustizie e del!e crudeltà che Husayn fu tanto debole da tollerare: ecco l’origine prima di quarant’anni di carneficina.

Come la Turchia, la Persia ha delle province governate in modo diverso: essa ha dei sudditi diretti, dei vassalli, dei principi tributari e persino delle popolazioni alle quali la corte corrispondeva un tributo chiamato pensione o sussidio. Tali erano, per esempio, i popoli del Daghestan che vivono sui contrafforti del Caucaso a ovest del mar Caspio. In passato, queste popolazioni facevano parte dell’antica Albania: infatti tutti i popoli hanno cambiato nome e confine. Questi popoli oggi si chiamano Lesghi: sono montanari più protetti che dominati dalla Persia: si pagava loro un sussidio affinché difendessero le frontiere.

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All’altra estremità dell’impero, verso le Indie, risiedeva il principe di Kandahar, il quale comandava le milizie degli Afgani. Questo principe era vassallo della Persia come gli ospodari di Moldavia e di Valacchia sono vassalli dell’impero turco. Tale vassallaggio non è ereditario, e somiglia perfettamente agli antichi feudi insediati in Europa da quelle razze di Tatari che rovesciarono l’impero romano. La milizia degli Afgani comandata dal principe di Kandahar era costituita da quegli stessi Albanesi delle rive del mar Caspio, vicini al Daghestan, che sono una mescolanza di Circassi e Georgiani, simili agli antichi Mamelucchi che sottomisero l’Egitto; il loro nome fu trasformato in quello di Afgani. Timur, che noi chiamiamo Tamerlano, aveva condotto in India quest’esercito che si era stabilito nella provincia di Kandahar appartenuta ora all’India, ora alla Persia. Fu a causa di questi Afgani e Lesghi che cominciò la rivoluzione.

Mir Wais ovvero Mirivitz658, intendente della provincia e unico responsabile della riscossione dei tributi, assassinò il principe di Kandahar, fece sollevare le truppe e rimase padrone del Kandahar fino alla sua morte sopraggiunta nel 1717. Suo fratello659 gli succedette senza spargimento di sangue, pagando un piccolo tributo alla Porta persiana. Il figlio di Mir Wais, però, nato con la stessa ambizione di suo padre, assassinò lo zio e volle divenire un conquistatore. Questo giovane si chiamava Mir Mahmud660, ma fu conosciuto in Europa con il nome di suo padre che aveva dato il segno della rivolta. Mahmud aggiunse ai suoi Afgani tutti i Ghebri che poté trovare: si tratta di antichi Persiani, dispersi in passato dal califfo Omar, sempre fedeli alla religione dei Magi che, al tempo del re Ciro, era così diffusa, e sempre segretamente avversi ai nuovi Persiani. Egli marciò alfine verso il cuore della Persia a capo di centomila soldati.

Contemporaneamente i Lesghi o Albanesi, ai quali le difficoltà del tempo non avevano permesso che si pagasse il sussidio, scesero in armi dalle loro montagne, cosicché l’incendio divampò dai due capi dell’impero fino alla capitale. I Lesghi devastarono tutta la regione che si estende lungo le coste occidentali del mar Caspio fino a Derbent, detta Porta di ferro661. Nella contrada che essi devastarono si trova la città di Shamchal662, a quindici leghe dal mare. Si vuole che sia l’antica dimora di Ciro cui i Greci dettero il nome di Kyropolis663: infatti la posizione e il nome di questo paese ci sono noti unicamente grazie ai Greci, e come i Persiani non ebbero mai un

658 Il khan Mir Wais Hotak (o Mir Vais Ghilzai, o Mirwais; 1673-1715) guidò una rivolta in Kandahan contro Gurgin Khan, prese il potere e sconfisse l’esercito persiano accorso a sedare la ribellione. Regnò fino alla morte (nel novembre 1715, non nel 1717 come detto da Voltaire) sulla regione del Grande Kandahar, corrispondente all’attuale Afghanistan sud-occidentale e a parte del Belucistan (Pakistan). Mir (da Amir) è un titolo che i Persiani riservavano ai discendenti di Maometto e a coloro che avevano incarichi elevati.

659 Abdul Aziz.660 Mahmud Hotaki (o Mahmud Ghilzai; 1697-1725?), scià di Persia dal 1722. 661 Derbent deriva dal nome persiano Darband che significa “Porta chiusa”, ma era nota agli

Arabi come Bāb al-abwāb (Porta delle porte) e ai Turchi come Demir kapu (Porta di ferro).662 Sull’originale Shamachie.663 Forse l’attuale Ura-Tjube in Tagikistan.

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principe chiamato Ciro, allo stesso modo non ebbero mai una città che si chiamasse Kyropolis. È così che gli Ebrei, i quali, appena insediati ad Alessandria ebbero la pretesa di scrivere, immaginarono una città chiamata Scytopolis, costruita, essi dicevano, dagli Sciti in vicinanza della Giudea, come se gli Sciti e gli antichi Giudei avessero potuto dare a una città un nome greco664.

Questa città di Shamchal era ricca. Gli Armeni, vicini a questa regione della Persia, vi svolgevano un fiorente commercio e Pietro vi aveva da poco insediato a sue spese una compagnia di mercanti russi che cominciava a diventare florida. I Lesghi assalirono la città di sorpresa, la saccheggiarono, sgozzarono tutti i Russi che trafficavano sotto la protezione dello scià Husayn, e derubarono i loro magazzini: i danni si fecero ammontare a quasi quattro milioni di rubli.

Pietro mandò a chiedere soddisfazione all’imperatore Husayn che combatteva ancora per la sua corona. Husayn non poté fargli giustizia e Mahmud non volle. Pietro decise di farsi giustizia da solo e di approfittare dei disordini in Persia.

Mir Mahmud continuava le sue conquiste in Persia. Il sofi, venuto a sapere che l’imperatore di Russia si preparava a entrare nel mar Caspio per vendicare l’uccisione dei suoi sudditi sgozzati a Shamchal, lo pregò segretamente, per mezzo di un armeno, di venire contemporaneamente in aiuto alla Persia.

Da molto tempo Pietro meditava il progetto di acquistare il predominio sul mar Caspio grazie alla potenza marinara e di dirottare attraverso il suo Stato il commercio della Persia e di una parte dell’India. Egli aveva fatto sondare la profondità del mare, esaminare le coste e tracciare delle carte esatte. Il 15 maggio 1722 partì dunque per la Persia. In questo viaggio, come negli altri, fu accompagnato dalla sua sposa. Ridiscesero il Volga fino alla città di Astrachan’. Di lì Pietro corse a far riattare i canali che dovevano unire il mar Caspio, il mar Baltico e il mar Bianco, opera che è stata in parte completata da suo nipote.

Mentre dirigeva questi lavori, la sua fanteria e le munizioni si trovavano già sul mar Caspio. Lo zar disponeva di 22.000 fanti, 9.000 dragoni e 15.000 cosacchi. Tremila marinai manovravano e potevano fungere da soldati negli sbarchi. La cavalleria si avviò per terra attraverso deserti in cui spesso manca l’acqua; dopo aver passato questi deserti bisogna superare le montagne del Caucaso, dove trecento uomini basterebbero a fermare un esercito, ma nello stato di anarchia in cui si trovava allora la Persia, si poteva tentare tutto.

Lo zar navigò per circa cento leghe a sud di Astrachan’ fino alla piccola città di Andrehof. Ci si stupirà di vedere il nome di Andrea sulle sponde del mar d’Ircania, ma alcuni Georgiani, che in passato erano una specie di cristiani, avevano costruito quella città, e i Persiani l’avevano fortificata: fu

664 Fu chiamata Scytopolis l’odierna città di Beit She’an, in Israele, quando durante il periodo ellenistico ebbe una popolazione di mercenari sciti.

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conquistata senza sforzo. Di là si avanzò, sempre per via di terra, nel Daghestan: si pubblicarono dei manifesti in persiano e in turco: era necessario non urtare la suscettibilità della Porta ottomana, che contava fra i suoi sudditi non soltanto i Circassi e i Georgiani, vicini di quel Paese, ma anche alcuni grandi vassalli che si erano messi da poco sotto la protezione della Turchia.

Ce n’era fra gli altri uno potentissimo chiamato Mahmud Hotaki665, che si faceva chiamare sultano e che osò attaccare le truppe dell’imperatore di Russia. Fu sconfitto completamente e la relazione riferisce che il suo Paese fu trasformato in un fuoco di gioia.

Ben presto Pietro giunse a Derbent666, che i Persiani e i Turchi chiamano Demir-kapu, ossia Porta di ferro: questa città è così chiamata perché dalla parte meridionale c’era effettivamente una porta di ferro. È una città lunga e stretta, che da una parte tocca un ripido contrafforte del Caucaso mentre dall’altra parte le sue mura sono bagnate dalle onde del mare che spesso, durante le mareggiate, le superano. Questi muri potevano passare per una delle meraviglie dell’antichità, alti quaranta piedi e larghi sei, fiancheggiati da torri quadrate a cinquanta piedi l’una dall’altra. Tutta quest’opera pareva in un sol pezzo: è costruita con arenaria e conchiglie schiacciate che hanno servito da malta: il tutto forma una massa più dura del marmo. Vi si può entrare dalla parte del mare, ma la città da parte di terra pare inespugnabile. Rimangono ancora i resti di un’antica muraglia simile a quella della Cina, costruita nella più remota antichità. Essa si estendeva dalle rive del mar Caspio a quelle del mar Nero ed era probabilmente un baluardo innalzato dagli antichi sovrani di Persia contro tutte le orde di barbari che abitano fra i due mari.

La tradizione persiana riferisce che la città di Derbent fu in parte riparata e fortificata da Alessandro. Arriano e Quinto Curzio667 dicono che Alessandro fece effettivamente ricostruire questa città; veramente pretendono che si trovasse sulle rive del Tanais, ma bisogna tener presente che i Greci, ai tempi loro, chiamavano Tanais il fiume Cyrus che scorre nei dintorni della città. Sarebbe contraddittorio che Alessandro avesse costruito la porta del Caspio su un fiume che sfocia nel Porto Eusino.

In passato c’erano tre o quattro porte caspie, in punti diversi, e verosimilmente costruite tutte con lo stesso scopo. Infatti tutti i popoli che abitano a occidente, a oriente, e a settentrione di questo mare, sono sempre stati dei barbari temibili per il resto del mondo ed è principalmente da lì che sono partite tutte quelle orde di conquistatori che hanno soggiogato l’Asia e l’Europa.

Mi sia consentito qui ricordare quanto gli autori si siano sempre dilettati a

665 Sull’originale è Mahmoud d’Utmich. Si tratta del già citato (cfr. nota 660) scià afgano Mahmud Hotaki (1697?-1725), che nel 1722 conquistò la Persia, ma ai confini perse alcune battaglie contro gli Ottomani e i Russi.

666 14 settembre 1722. (Nota dell’Autore)667 Lucio Flavio Arriano (I-II secolo a.C) fu uno storico greco antico e Quinto Curzio Rufo (II-

IV secolo d.C.) uno storico romano.

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ingannare gli uomini e quanto abbiano preferito una vana eloquenza alla verità. Quinto Curzio mette in bocca a non so quale scita un discorso ammirevole, colmo di moderazione e di filosofia, come se i Tatari di quella regione fossero stati tutti sapienti e Alessandro non fosse stato il generale eletto dai Greci contro il re di Persia, signore di una gran parte della Scizia meridionale e delle Indie. I rètori che hanno voluto imitare Quinto Curzio si sono sforzati di farci apparire questi selvaggi del Caucaso e del deserto, avidi di rapina e di strage, come gli uomini più giusti del mondo e hanno rappresentato Alessandro, vendicatore della Grecia e vincitore di colui che avrebbe voluto asservirla, come un brigante che correva il mondo senza motivo e senza giustizia. Non si pensa mai che questi Tatari non furono mai altro che distruttori e che Alessandro costruì delle città fin nel loro Paese; in questo io oserei paragonare Pietro il Grande ad Alessandro: altrettanto attivo, altrettanto amico delle arti utili, più preoccupato della legislazione, come lui egli volle cambiare il commercio del mondo e fondò o ricostruì tante città quante ne aveva fondate o ricostruite Alessandro.

All’approssimarsi dell’esercito russo il governatore di Derbent, sia che non si ritenesse in grado di difendersi, sia che preferisse la protezione dell’imperatore Pietro a quella del tiranno Mahmud, non volle sostenere l’assedio. Egli consegnò le chiavi d’argento della città e del castello: l’esercito entrò a Derbent senza spargimento di sangue e andò ad accamparsi sulla riva del mare.

L’usurpatore Mahmud, già padrone di una gran parte della Persia, invano volle prevenire lo zar e impedirgli di entrare a Derbent. Egli istigò i Tatari vicini, accorse personalmente ma Derbent si era già arresa.

Pietro allora non poté spingersi oltre con le conquiste. I bastimenti che portavano nuove provviste, reclute e cavalli erano andati perduti nei dintorni di Astrachan’, la stagione era già avanzata668. Egli tornò a Mosca669 e vi fece un ingresso trionfale: qui giunto, secondo la sua abitudine, rese conto della spedizione al vice zar Romodanovskij, continuando fino all’ultimo questa strana commedia la quale, stando a ciò che è detto nel suo elogio pronunciato a Parigi presso l’Accademia delle scienze670, avrebbe dovuto essere recitata davanti a tutti i monarchi della terra.

La Persia era tuttora divisa fra Husayn e l’usurpatore Mahmud: il primo cercava di guadagnarsi l’appoggio dell’imperatore di Russia, il secondo lo temeva come un vendicatore in grado di strappargli il frutto della sua ribellione. Mahmud fece il possibile per sollevare la Porta ottomana contro Pietro e inviò un’ambasciata a Costantinopoli; i principi del Daghestan posti sotto la protezione del Gran signore, spogliati dall’esercito russo, chiesero vendetta. Il divan temeva per la Georgia, che i Turchi annoveravano fra i loro possedimenti.

668 Più della metà dell’esercito morì di fame e di fatica e la flotta non aveva né bussole, né piloti.

669 Gennaio 1723. (Nota dell’Autore)670 Il relatore fu Fontenelle: cfr. nota 98.

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Il Gran signore fu sul punto di dichiarare guerra. La corti di Vienna e quella di Parigi glielo impedirono. L’imperatore di Germania notificò che, se i Turchi avessero attaccato la Russia, si sarebbe visto costretto a difenderla. Il marchese di Bonnac, ambasciatore di Francia a Costantinopoli671, fu abile nell’appoggiare con le sue argomentazioni le minacce dei Tedeschi: lasciò intendere che era nell’interesse stesso della Porta non tollerare che un ribelle usurpatore della Persia insegnasse a sbalzare dal trono i sovrani, e che l’imperatore russo aveva fatto unicamente quello che il Gran signore avrebbe dovuto fare.

Nel corso di questi delicati negoziati, il ribelle Mir Mahmud si era spinto fin sotto le porte di Derbent. Egli devastò la regione circostante affinché i Russi non avessero di che vivere. Quella parte dell’antica Ircania chiamata oggi Gilan fu saccheggiata, e i popoli disperati si misero spontaneamente sotto la protezione dei Russi che apparvero come loro liberatori.

Essi seguivano in ciò l’esempio dello stesso sofi. Quello sventurato monarca aveva inviato un ambasciatore a Pietro il Grande per implorare solennemente il suo aiuto. L’ambasciatore si era appena messo in cammino che il ribelle Mir Mahmud si era impadronito di Ispahan e della persona del sovrano.

Il figlio del sofi deposto, chiamato Tahmasp672, riuscì a sfuggire al tiranno e riunite delle truppe affrontò l’usurpatore. Non fu meno veemente di suo padre nel sollecitare Pietro il Grande affinché lo proteggesse, e mandò all’ambasciatore le stesse istruzioni inviate dallo scià Husayn.

Quest’ambasciatore persiano, chiamato Ismael Beg673 non era ancora arrivato e già la sua missione era riuscita. Sbarcando ad Astrachan’, seppe che il generale Matjuškin674 stava per partire con rinforzi per l’esercito del Daghestan. La città di Baku, che per i Persiani dà al mar Caspio il nome di mare di Baku, non era ancora stata conquistata. Egli consegnò al generale russo una lettera indirizzata agli abitanti, nella quale li esortava a nome del suo signore a sottomettersi all’imperatore di Russia. L’ambasciatore proseguì il cammino per Pietroburgo e il generale Matjuškin si recò a stringere d’assedio la città di Baku. L’imperatore giunse a corte675 insieme

671 Sull’originale Bonac. Jean-Louis d’Usson marchese di Bonnac (1672-1738) fu ambasciatore di Francia presso l’impero ottomano dal 1716 al 1724. Era già stato ambasciatore in Svezia, in Polonia, in Spagna e, dopo la Turchia, lo fu in Svizzera fino al 1733.

672 Sull’originale Thamaseb. Tahmasp II (?-1739) era figlio dello scià persiano Husayn (cfr. nota 547) e suo erede. Avendo il regno invaso dagli Afgani, chiese aiuto a Pietro il Grande, ma fu tradito da un suo generale, l’afsharide Nadir (che diventò scià nel 1736), e quindi deposto, imprigionato (1732) e più tardi ucciso.

673 Ismael Beg, ambasciatore per conto di Tahmasp II, firmò un trattato con Pietro I il 12/23 settembre 1723 che, come detto in seguito, stabiliva che la Russia avrebbe aiutato la Persia contro i ribelli afgani e contro i Turchi, in cambio delle città e dei territori di Derbent e Baku e delle province del Caspio di Gilan, di Mazandaran e di Astrabad (che tornarono alla Persia nel 1732).

674 Il generale Michajl Afanasevič Matjuškin (1676-1737) – cugino di secondo grado di Pietro il Grande – fu poi nominato governatore di Baku.

675 Agosto 1723. (Nota dell’Autore)

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alla notizia della presa della città.Questa città è situata accanto a Shamchal, dove erano stati sgozzati i

mercanti russi: non è ricca e popolata come Shamchal, ma è famosa per la nafta di cui rifornisce tutta la Persia. Nessun trattato fu mai concluso più in fretta di quello di Ismael Beg676. L’imperatore Pietro, per vendicare la morte dei suoi sudditi e per aiutare il sofi Tahmasp contro l’usurpatore, prometteva di avanzare in Persia con un esercito; il nuovo sofi da parte sua gli cedeva non soltanto le città di Baku e Derbent, ma le province di Gilan, di Mazandaran e di Astrabad677.

Come abbiamo già detto, il Gilan è l’Ircania meridionale, il Mazandaran che confina con esso è il Paese dei Mardi, Astrabad confina con il Mazanderan: erano queste le tre principali province degli antichi re Medi, cosicché Pietro, grazie ai suoi eserciti e ai trattati, si trovava a essere padrone del primo regno di Ciro.

Non sarà del tutto inutile dire che negli articoli di questa convenzione fu fissato il prezzo delle derrate che si dovevano fornire all’esercito. Un cammello doveva costare solo 60 franchi francesi (12 rubli); una libbra di pane non doveva arrivare a 15 denari, una libbra di carne di bue a circa 18; questi prezzi erano una prova lampante dell’abbondanza di autentici beni, che sono quelli della terra, e della mancanza di denaro, che è un bene convenzionale, che si riscontravano in questo Paese.

Tale era la miserevole sorte della Persia, che l’infelice sofi Tahmasp, errante nel suo regno e incalzato dal ribelle Mahmud, assassino di suo padre e dei suoi fratelli, si vedeva costretto a scongiurare a un tempo la Russia e la Turchia affinché accettassero di prendere una parte del suo regno per conservargli l’altra.

L’imperatore Pietro, il sultano Ahmed III e il sofi Tahmasp si accordarono dunque che la Russia avrebbe conservato le tre province di cui si è detto mentre alla Porta ottomana sarebbero andate Kasbin, Tabriz ed Erevan, oltre ai territori che la Porta stessa stava strappando all’usurpatore della Persia. Così quel bel regno era smembrato a un tempo dai Russi, dai Turchi e dagli stessi Persiani678.

Così l’imperatore Pietro regnò fino alla sua morte dal fondo del mar Baltico fin oltre i confini meridionali del mar Caspio. La Persia continuò a essere vittima di rivoluzioni e stragi. I Persiani, in passato ricchi e civili, caddero nella miseria e nella barbarie mentre la Russia dalla povertà e dalla rozzezza giungeva alla ricchezza e alla civiltà. Un solo uomo, che aveva un genio attivo e tenace, innalzò la sua patria; un solo uomo, che era debole e indolente, fece precipitare la sua.

Siamo ancora assai male informati sui particolari di tutte le calamità che hanno desolato la Persia per tanto tempo; si è affermato che l’infelice scià Husayn fu tanto vile da mettere con le sue stesse mani, la sua mitria

676 Settembre 1723. (Nota dell’Autore)677 Sull’originale rispettivamente Guilan, Mazanderan e Asterabath.678 Trattato di Costantinopoli del 12 giugno 1724.

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persiana, ciò che per noi è la corona, sulla testa dell’usurpatore Mahmud. Si dice che questo Mahmud in seguito divenne pazzo: così un imbecille e un pazzo decisero la sorte di tante migliaia di uomini. Si dice anche che Mahmud, in un accesso di follia, uccise di sua mano tutti i figli e i nipoti dello scia Husayn, che erano cento, e che fece recitare sul suo capo il Vangelo secondo San Giovanni per purificarsi e guarire. Queste favole persiane sono state raccontate dai nostri monaci e stampate a Parigi.

Quel tiranno che aveva assassinato il proprio zio fu alla fine assassinato a sua volta da suo nipote Ashraf679, il quale fu altrettanto crudele e tirannico di Mahmud.

Lo scià Tahmasp continuò a implorare l’aiuto della Russia: si tratta di quello stesso Tahmasp o Tamas che in seguito fu aiutato e rimesso sul trono dal celebre Kuli-khan, e successivamente detronizzato dallo stesso Kuli-khan680.

Queste rivoluzioni e le guerre vittoriose che la Russia dovette sostenere in seguito contro i Turchi, l’evacuazione delle tre province persiane, che costavano alla Russia molto più di quanto non rendessero, non sono avvenimenti che riguardano Pietro il Grande. Si verificarono soltanto vari anni dopo la sua morte: basti dire che egli concluse la sua carriera militare aggiungendo al suo impero tre province verso la Persia, dopo averne da poco aggiunte altre tre verso le frontiere della Svezia.

Capitolo XVII

INCORONAZIONE E CONSACRAZIONE DELL’IMPERATRICE CATERINA I.MORTE DI PIETRO IL GRANDE

Di ritorno dalla sua spedizione in Persia, Pietro si vide più che mai arbitro del Nord. Si proclamò protettore della famiglia di quello stesso Carlo XII di cui era stato rivale per diciotto anni.

Fece venire a corte il duca di Holstein, nipote del monarca, gli destinò in sposa la figlia maggiore681 e si preparò sin da allora a sostenere i propri diritti sul ducato di Schleswig-Holstein; anzi si impegnò persino in un

679 Sull’originale Eshreff. Il khan Ashraf Hotaki (?-1730) era cugino di Mahmud e fu scià dal 1725 al 1729 quando fu sconfitto da Nadir e ucciso poco dopo. Sulla morte di Mahmud non si sa con certezza se sia stato ucciso e se morì per cause naturali.

680 Tahmasp II era lo scià deposto (cfr. nota 672) dal suo subalterno Nadir, il quale, entrando al servizio di Tahmasp, aveva preso il nome di Tahmasp Kuli Khan, che significa “schiavo di Tahmasp”, e con questo nome vinse diverse battaglie contro gli Afgani. In seguito a una serie di lotte interne Nadir depose Tahmasp II (1732) e salì sul trono assieme al figlioletto di Abbas III che si chiamava anch’egli Tahmasp. La storia non dice più nulla di questo bambino, ma è certo che nel 1736 Nadir diventò unico scià (o shah) ponendo fine alla dinastia safavide.

681 Il primo incontro tra Anna Petrona Romanova (1708-1728) e Carlo Federico di Holstein-Gottorp (1700-1739) avvenne nel 1721, si fidanzarono nel 1724 e si sposarono nel 1725, pochi mesi dopo la morte di Pietro il Grande.

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trattato di alleanza che concluse con la Svezia682.Egli proseguiva i lavori cominciati per tutta l’estensione del suo Stato fino

alla Kamčatka e per meglio dirigere quei lavori fondò a Pietroburgo l’Accademia delle scienze683. Le arti fiorivano da ogni parte, le manifatture erano incoraggiate, la marina prosperava, l’esercito era ben mantenuto, le leggi osservate. Egli godeva in pace della sua gloria e volle dividerla in un modo nuovo con colei che, ponendo riparo al rovescio della campagna del Prut, aveva, come egli diceva, contribuito a quella stessa gloria.

Fu a Mosca che egli fece incoronare e consacrare sua moglie Caterina684, alla presenza della duchessa di Curlandia, figlia di suo fratello maggiore e del duca di Holstein che stava per diventare suo genero. La dichiarazione che pubblicò merita la nostra attenzione: vi si fa richiamo all’usanza di far coronare le spose adottata da parecchi re cristiani, vi si ricorda l’esempio degli imperatori Basilide, Giustiniano, Eraclio e Leone il Filosofo685. L’imperatore ricorda per esteso i servigi resi allo Stato da Caterina soprattutto nella guerra contro i Turchi allorché il suo esercito, ridotto a 22.000 uomini, ne aveva di fronte più di 200.000. Non è detto in questa ordinanza che l’imperatrice dovesse regnare dopo di lui, ma egli preparava a ciò gli animi per mezzo di questa cerimonia insolita nel suo Stato.

Un altro elemento che poteva forse far considerare Caterina destinata a succedere allo sposo è il fatto che egli stesso marciò a piedi davanti a lei, nel giorno dell’incoronazione, in qualità di capitano di una nuova compagnia che costituì col nome di cavalieri dell’imperatrice.

Giunti in chiesa, Pietro le posò sul capo la corona; ella tentò di abbracciargli le ginocchia ma lo zar glielo impedì e all’uscita dalla cattedrale fece portare davanti a lei lo scettro e il globo. La festa fu degna in tutto e per tutto di un imperatore. Nelle occasioni ufficiali, Pietro mostrava una magnificenza pari alla semplicità che adottava nella vita privata.

Avendo incoronato la sposa, si decise alfine a concedere la mano della figlia maggiore Anna Petrovna al duca di Holstein. Questa principessa aveva molti punti in comune con suo padre: era di statura imponente e di grande bellezza. Fu fidanzata al duca di Holstein686 senza grande pompa. Già Pietro sentiva declinare la sua salute e una pena familiare, che forse inasprì anche il male di cui doveva morire, rese gli ultimi tempi della sua vita poco convenienti allo sfarzo dei festeggiamenti.

Caterina aveva un giovane ciambellano687 di nome Moëns de la Croix, nato in Russia da famiglia fiamminga688. Egli era di nobile aspetto, sua

682 Febbraio 1724. (Nota dell’Autore)683 Febbraio 1724. (Nota dell’Autore)684 18 maggio 1724. (Nota dell’Autore)685 Si vedrà nell’ultimo documento allegato che gli imperatori erano Odenato, Giustino,

Eraclio e Leone Isaurico.686 24 novembre 1724. (Nota dell’Autore)687 Memorie del conte di Bassewitz. (Nota dell’Autore)688 Si tratta di Willem Mons (1688-1724), che nacque in Vestalia, studiò a Worms (Germania)

e poi si trasferì con i genitori e i fratelli (tra cui Anna Mons che fu l’amante di Pietro, cfr.

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sorella, Madame de Balk, era dama di compagnia dell’imperatrice; tutti e due comandavano nella sua casa. Furono accusati entrambi davanti all’imperatore, messi in prigione e processati per aver accettato dei doni. Fin dal 1714 era stato proibito a chiunque ricoprisse una carica pubblica di riceverne, sotto pena di infamia e di morte, e questo divieto era stato rinnovato varie volte.

Fratello e sorella furono convinti della loro colpa e tutti quelli che avevano comprato o ricompensato i loro servigi furono citati nella sentenza a eccezione del duca di Holstein e del suo ministro conte di Bassewitz: anzi è probabile che i doni fatti dal principe a coloro che avevano contribuito a far concludere il suo matrimonio non fossero considerati come un’azione criminosa.

Moëns fu condannato alla pena capitale689 e sua sorella, favorita dell’imperatrice, a ricevere undici colpi di knut. I due figli di questa dama, uno ciambellano e l’altro paggio, furono degradati e inviati nell’esercito di Persia in qualità di soldati semplici.

Questa severità, che è eccessiva per le nostre abitudini, era forse necessaria in un Paese in cui il rispetto delle leggi sembrava esigere un tremendo rigore. L’imperatrice chiese grazia per la sua dama di compagnia e lo sposo irritato gliela rifiutò. In un trasporto di collera, ruppe uno specchio veneziano e disse alla sposa: «Come vedi basta un colpo della mia mano per far tornare questo specchio alla polvere da cui proviene». Caterina lo guardò con una commovente espressione di dolore e rispose: «Ebbene, avete rotto ciò che faceva l’ornamento del vostro palazzo; credete che per questo sia diventato più bello?». Queste parole placarono l’imperatore, ma la sposa ottenne come unica grazia che la sua dama di compagnia ricevesse solo cinque colpi di knut anziché undici.

Non riferirei questo episodio se non fosse attestato da un ministro che ne fu testimone oculare e che, avendo fatto lui stesso dei doni al fratello e alla sorella, fu forse una delle cause principali della loro disgrazia. Proprio questa avventura ha incoraggiato chi giudica tutto con malignità a insinuare che Caterina abbreviò la vita di un marito che le ispirava più timore con le sue collere che riconoscenza con i suoi benefici.

Questi crudeli sospetti furono confermati dalla premura mostrata da Caterina nel richiamare la dama di compagnia immediatamente dopo la morte del suo sposo e nel concederle tutto il suo favore. È dovere di uno storico riferire queste pubbliche dicerie che corsero in ogni tempo e in ogni nazione alla morte dei principi rapiti da morte prematura, come se non bastasse la natura a ucciderci. Tuttavia lo stesso dovere ci impone di far

nota 601). A Mosca percorse la carriera militare e nel 1724 diventò ciambellano di Caterina, la quale aveva la sorella Matrëna (o Modesta) come dama di compagnia.

689 L’accusa di peculato e di abuso di fiducia fu formulata da Pëtr Tolstoj e la condanna a morte fu eseguita il 16 novembre 1724. Tuttavia non per questo fu in realtà decapitato Mons ma perché sospettato di essere l’amante della zarina, la quale fu portata da Pietro stesso a vedere l’esecuzione. Voltaire non poteva ovviamente dirlo per non infierire contro lo zar e per mantenere la promessa a Šuvalov (cfr. nota 31).

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vedere quanto queste dicerie fossero temerarie e ingiuste.C’è un’enorme differenza fra il risentimento passeggero che può

provocare un marito severo e l’estrema decisione di avvelenare uno sposo e un signore al quale si è debitori di tutto. I pericoli insiti in una tale impresa sarebbero stati grandi quanto il delitto. A quel tempo esisteva un potente partito contrario a Caterina e favorevole al figlio della sventurato zarevič. Tuttavia né questa fazione né altro membro della corte sospettò Caterina e le voci che corsero rappresentarono soltanto l’opinione di qualche straniero poco informato, il quale si abbandonò senza alcuna giustificazione al malaugurato piacere di sospettare di gravi delitti chi si ritiene interessato a commetterli. Questo stesso interesse era molto discutibile in Caterina: infatti non era sicuro che dovesse succedere al trono; era stata incoronata ma unicamente in qualità di consorte del sovrano e non come colei che è destinata a succedergli nel regno.

La dichiarazione di Pietro aveva voluto fare di quella solennità solo una cerimonia e non un’investitura al regno; richiamava l’esempio degli imperatori romani, che avevano fatto incoronare le proprie spose senza che nessuna giungesse mai a governare l’impero. Per finire, durante la malattia stessa di Pietro, più di uno credette che la principessa Anna Petrovna gli sarebbe succeduta unitamente al duca di Holstein suo consorte690, oppure che l’imperatore avrebbe designato come successore il nipote; così Caterina, ben lungi dall’aver interesse alla morte dell’imperatore, aveva bisogno che restasse in vita.

È accertato che Pietro soffriva da lungo tempo di un ascesso e di una ritenzione di urina che gli causavano atroci dolori691. Le acque minerali di Olonec e le altre alle quali ricorse furono solo inutili palliativi. Dopo l’inizio del 1724, lo si vide declinare sensibilmente. Le fatiche cui si sottoponeva senza tregua aggravarono il male e accelerarono la fine692. Ben presto le sue condizioni parvero disperate: sentiva dei bruciori terribili che gli provocavano un delirio quasi continuo. In un momento di requie concessogli dai suoi dolori, tentò di scrivere693, ma la sua mano tracciò soltanto dei caratteri illeggibili di cui si poté decifrare solo questa frase in russo: Date tutto a…

Gridò che fosse chiamata la principessa Anna Petrovna alla quale voleva dettare, ma quando comparve davanti al suo letto aveva già perso l’uso della parola e cadde in un’agonia che durò sedici ore. Per tre notti l’imperatrice Caterina non lasciò il suo capezzale; alla fine, il 28 gennaio, verso le quattro del mattino, lo zar spirò tra le sue braccia.

Il corpo fu trasportato nella sala grande del palazzo; lo seguivano tutta la

690 Quando morì Pietro, Anna non era ancora duchessa di Holstein (cfr. nota 681), ma l’anno prima lei e il futuro sposo avevano sottoscritto un contratto matrimoniale che escludeva esplicitamente per entrambi ogni diritto alla successione sul trono di Russia.

691 Due sono le voci riguardo la sua morte: quella ufficiale parla di nefrolitiasi aggravata da una uremia, quella ufficiosa di una malattia venerea.

692 Gennaio 1725. (Nota dell’Autore)693 Memorie manoscritte del conte di Bassewitz. (Nota dell’Autore)

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famiglia imperiale, il senato, tutte le persone più in vista e una marea di popolo. Fu esposto su un letto addobbato e tutti furono liberi di avvicinarlo e di baciargli la mano fino al giorno della sepoltura che fu fatta il 10/21 marzo 1725.

Si credette e si stampò che nel testamento avesse nominato erede dell’impero la consorte Caterina; in realtà non aveva fatto testamento o almeno non risultò mai694, negligenza strana in un legislatore e che dimostra come egli non avesse creduto mortale la sua malattia.

Al momento della morte, non si sapeva chi avrebbe occupato il trono: lasciava Pietro, suo nipote, nato dallo sventurato Alessio; lasciava la sua figlia maggiore, duchessa di Holstein. C’era un partito abbastanza potente favorevole al giovane Pietro. Il principe Menšikov, che era stato sempre legato all’imperatrice Caterina, prevenne tutti i partiti e tutti i progetti. Pietro era sul punto di spirare quando Menšikov fece entrare l’imperatrice in un salone dove erano già riuniti gli altri amici: il tesoro viene trasportato alla fortezza, ci si assicura la fedeltà delle guardie; il principe Menšikov riuscì a tirare dalla sua l’arcivescovo di Novgorod; Caterina assieme a loro e a un segretario particolare chiamato Makarov695, tenne una riunione segreta, cui assistette il ministro del duca di Holstein.

Uscendo da questa riunione, l’imperatrice tornò presso lo sposo morente che rese fra le sue braccia l’ultimo respiro. Subito i senatori e gli ufficiali generali accorsero alla reggia; l’imperatrice parlò a costoro, Menšikov rispose a loro nome; per formalità, la decisione non fu presa in presenza dell’imperatrice. L’arcivescovo di Pskov Feofan dichiarò che alla vigilia dell’incoronazione di Caterina, l’imperatore gli aveva confidato che la incoronava soltanto per farla regnare dopo di lui; tutta l’assemblea sottoscrisse la proclamazione e Caterina succedette allo sposo il giorno stesso della sua morte.

In Russia Pietro il Grande fu rimpianto da tutti coloro che aveva istruito, e ben presto la generazione successiva a quella dei fautori degli antichi costumi lo considerò un padre. Quando gli stranieri constatarono che tutte le sue innovazioni resistevano, ebbero per lui un’ammirazione costante e riconobbero che era stato ispirato da una straordinaria saggezza piuttosto che dal desiderio di fare cose strabilianti. L’Europa riconobbe che era stato amante della gloria, ma che l’aveva impiegata a fin di bene, che i suoi difetti non avevano mai oscurato le sue grandi qualità, che in lui, anche se l’uomo ebbe qualche macchia, il monarca fu sempre grande. In ogni cosa egli ha trionfato sulla natura: nei suoi sudditi, in se stesso, sulla terra e sulle acque, ma l’ha dominata per abbellirla. Le arti che trapiantò di sua mano in quelle

694 A questo proposito, si è ipotizzato che Caterina rimase sola tutto quel tempo con lo zar morente proprio per cercare il testamento: se non si fosse trovato sarebbe stata sicuramente lei l’erede al trono.

695 Sull’originale Macarof. Aleksej Vasil’evič Makarov (1674?-1740), segretario di gabinetto di Pietro I e, poi, capo del senato. Amministratore e consigliere fidato, seguì Pietro nei suoi viaggi. Contribuì all’elezione di Caterina I, ma dopo la sua morte fu falsamente accusato di corruzione e occultamento di documenti segreti e allontanato dalla corte.

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regioni, alcune delle quali erano allora selvagge, fruttificando hanno reso testimonianza del suo genio e hanno immortalato la sua memoria; oggi sembrano originarie di quegli stessi Paesi in cui le introdusse. Leggi, civiltà, politica, disciplina militare, marina, commercio, manifatture, scienze e belle arti, tutto si è perfezionato secondo le sue intenzioni, e per una singolarità mai vista prima di allora, furono quattro donne, salite successivamente al trono dopo di lui, a mantenere tutto quello che egli aveva compiuto e a perfezionare tutto quello che aveva intrapreso696.

Dopo la sua morte, il palazzo è andato soggetto a rivolgimenti, lo Stato mai. Lo splendore dell’impero si è accresciuto sotto Caterina I, ha trionfato sui Turchi e sugli Svedesi sotto Anna Petrovna, ha conquistato la Prussia e una parte della Pomerania sotto Elisabetta; ha goduto per la prima volta i frutti della pace e ha visto prosperare le arti sotto Caterina II. Spetta agli storici nazionali precisare in tutti i dettagli le istituzioni, le leggi, le guerre e le imprese di Pietro il Grande; celebrando tutti coloro che hanno coadiuvato il monarca nelle sue imprese politiche e guerriere, essi incoraggiano i propri compatrioti. A uno straniero, ammiratore disinteressato del merito, basta aver tentato di mostrare chi fu questo grand’uomo che imparò da Carlo XII a vincerlo, che per due volte abbandonò la patria per governarla meglio, che con le sue stesse mani lavorò a quasi tutte le arti necessarie per dare l’esempio al suo popolo e che fu il fondatore e il padre del suo impero.

I sovrani degli Stati da tempo civilizzati diranno a se stessi: «Se nel gelido clima dell’antica Scizia un uomo, con l’aiuto del suo solo genio, ha fatto cose così grandi, che dovremmo fare noi nei nostri regni in cui le opere accumulate da molti secoli ci hanno reso tutto facile?».

FINE DELLA STORIA DI RUSSIA

696 Volutamente Voltaire ignora Pietro II, che regnò dal 1727 al 1730, in quanto considerato dai suoi stessi contemporanei un incapace, arrogante e crudele. Egli lasciò la gestione e della politica estera a Osterman e di quella interna prima a Menšikov e poi a Dolgorukij, impedendo però di fatto il proseguimento delle opere di Pietro il Grande: per esempio, fece chiudere i cantieri navali.

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DOCUMENTI ORIGINALIsecondo le traduzioni fatte all’epoca per ordine di Pietro I

CONDANNA DI ALESSIO24 GIUGNO 1718697

Ai sensi dell’urgente ordinanza emanata da Sua Maestà lo zar, e sottoscritta di sua propria mano il 13 giugno scorso, per il giudizio dello zarevič Alessio Petrovič, sulle sue trasgressioni e i suoi crimini contro suo padre e suo signore, i sottoscritti, ministri, senatori, stati militare e civile, dopo essersi riuniti molte volte nella camera della reggenza del senato, a Pietroburgo; avendo ascoltato più volte la lettura che è stata fatta degli originali e degli estratti delle testimonianze che sono state rese contro di lui, così come delle lettere di esortazione di Sua Maestà lo zar allo zarevič, e delle risposte da lui date e scritte di sua mano, e degli altri atti riguardanti il processo, così come delle informazioni criminose e delle confessioni, e delle dichiarazioni dello zarevič, tanto scritte di sua mano che dette a voce al suo signore e padre, e dinanzi ai sottoscritti investiti dell’autorità di Sua Maestà lo zar agli effetti del presente giudizio: essi hanno dichiarato e riconosciuto che secondo le leggi dell’impero russo non era di loro spettanza, essendo sudditi naturali del sovrano dominio di Sua Maestà lo zar, giudicare un affare di questa natura, che, per la sua importanza, dipende unicamente dalla volontà assoluta del sovrano, il cui potere non dipende che da Dio solo e non è limitato da legge alcuna; si sottomettono tuttavia alla suddetta ordinanza di Sua Maestà lo zar loro sovrano, che dà loro questa libertà e, dopo mature riflessioni e in coscienza cristiana senza timore né adulazione e senza avere riguardo alla persona, non avendo dinanzi agli occhi che le leggi divine applicabili al caso presente, tanto dell’Antico che del Nuovo Testamento, le sacre scritture del Vangelo e degli apostoli, come pure i canoni e le costituzioni dei concili, l’autorità dei santi padri e dei dottori della Chiesa; prendendo anche visione delle considerazioni degli arcivescovi e del clero riuniti a Pietroburgo per ordine di Sua Maestà lo zar, che sono trascritte qui sopra; e conformandosi alle leggi di tutta la Russia, e in particolare alle costituzioni di questo impero, alle leggi militari e agli statuti che sono conformi alle leggi di molti altri Stati, soprattutto a quelli degli antichi imperatori romani e greci e di altri principi cristiani; i sottoscritti

697 Cfr. seconda parte, capitolo X. (Nota dell’autore) – 24 giugno (calendario giuliano) o 5 luglio (calendario gregoriano).

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essendo stati agli avvisi, hanno convenuto all’unanimità e senza discordia, e hanno pronunciato che lo zarevič Alessio Petrovič è degno di morte per i suddetti suoi crimini, e per le sue trasgressioni capitali contro suo padre e il suo sovrano, essendo figlio e suddito di Sua Maestà lo zar; in quanto, sebbene Sua Maestà lo zar avesse promesso allo zarevič, con la lettera inviatagli tramite il signor Tolstoj, consigliere privato, e il capitano Romanzov, datata a Spa il 10 luglio 1717, di perdonargli la sua fuga se ritornava di suo buon grado e volontariamente, così come lo zarevič stesso lo riconobbe ringraziando nella sua risposta a questa lettera, scritta a Napoli il 4 ottobre 1747, dove sottolineava che ringraziava Sua Maestà lo zar per il perdono che gli era accordato soltanto per la sua evasione volontaria: egli se ne rese indegno con le sue opposizioni alle volontà di suo padre, e con le sue altre trasgressioni che rinnovò e continuò, come è ampiamente esposto nel manifesto pubblicato da Sua Maestà lo zar il 3 febbraio del presente anno, e perché tra le altre cose non è ritornato di suo buon grado.

E sebbene Sua Maestà lo zar, all’arrivo dello zarevič a Mosca, con il suo scritto di confessione dei suoi crimini, dove ne chiedeva perdono, ebbe pietà di lui, come è naturale a un padre averne per i suoi figli; e sebbene all’udienza che gli diede nella sala del castello, lo stesso giorno 3 febbraio, gli promettesse il perdono di tutte le sue colpe, Sua Maestà lo zar gli fece nondimeno questa promessa soltanto alla esplicita condizione che espresse in presenza di tutti gli astanti, cioè: che lo zarevič dichiarasse, senza alcuna restrizione né riserva, tutto ciò che aveva commesso e tramato fino a quel giorno contro Sua Maestà lo zar, e rivelasse il nome di tutte le persone che gli diedero consigli, i suoi complici, e in generale di tutti coloro che seppero qualcosa delle sue intenzioni e delle sue trame; ma che, se nascondeva qualcuno o qualcosa, il perdono promesso sarebbe stato nullo e così revocato; cosa che lo zarevič intese allora e accettò, almeno in apparenza, con lacrime di riconoscenza, e promise con giuramento di dichiarare tutto senza riserva. In conferma di ciò egli baciò la santa Croce e le sacre Scritture nella chiesa cattedrale.

Sua Maestà lo zar gli confermò ancora la stessa cosa di sua propria mano l’indomani, negli articoli dell’interrogatorio sopra inseriti, che gli fece consegnare, all’inizio dei quali era scritto ciò che segue:

«Siccome avete ricevuto ieri il perdono, a condizione che dichiariate tutte le circostanze della vostra fuga e ciò che vi abbia relazione; ma che, se nasconderete qualcosa, sarete privato della vita; e siccome avete già esposto a voce alcune dichiarazioni, voi dovete, per una più ampia soddisfazione, e a vostra discolpa, metterle per iscritto secondo i punti segnati qui sotto…»

E, nella conclusione, era ancora scritto per mano di Sua Maestà lo zar nel settimo articolo:

«Dichiarate tutto ciò che ha relazione con questo affare, quand’anche ciò non fosse qui precisato, e ditelo lealmente come in una santa confessione; ma se voi nascondete o celate qualcosa che si scoprirà in seguito, non mi imputate di nulla: perché vi fu dichiarato ieri dinanzi a tutti che, in tal caso,

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il perdono che avete ricevuto sarebbe nullo e revocato».Ciononostante lo zarevič ha parlato nelle sue risposte e nelle sue

confessioni senza alcuna sincerità; egli ha celato e nascosto non soltanto molte persone, ma anche cose capitali, e le sue trasgressioni e in particolare i suoi disegni di ribellione contro suo padre e il suo signore, e le sue malvagie pratiche che egli tramò e mantenne a lungo per provare a usurpare il trono di suo padre, ancor lui vivente, con male arti e cattivi pretesti, fondando la sua speranza e i voti che faceva per la morte di suo padre e signore sulla dichiarazione, di cui si lusingava, del popolo minuto in suo favore.

Tutto ciò fu scoperto in seguito a informazioni criminose, dopo che rifiutò di dichiararlo lui stesso, come si vide sopra.

Così è evidente che per tutti questi portamenti dello zarevič, e per le dichiarazioni che egli diede per iscritto e a voce, e infine per quella del 22 giugno del corrente anno, che egli non volle affatto che la successione alla corona gli venisse dopo la morte di suo padre, nel modo in cui suo padre pensava di lasciargliela, secondo l’ordine dell’equità, e per le strade e i mezzi che da Dio sono prescritti; ma che egli l’ha desiderata e ha avuto intenzione di giungervi, anche vivente suo padre e suo signore, contro la volontà di Sua Maestà lo zar, e opponendosi a tutto ciò che suo padre voleva, e non soltanto con rivolte e sollevazioni di ribelli, che egli sperava, ma ancora per l’assistenza dell’imperatore, e con un esercito straniero, che si illudeva di avere a sua disposizione, anche a prezzo di rovesciare l’impero e di alienare tutto ciò che si sarebbe potuto domandargli per questa assistenza.

La relazione che si è appena fatta dimostra dunque che lo zarevič, nascondendo tutte queste perniciose intenzioni, e tenendo segrete molte persone che furono d’accordo con lui, come fece fino all’ultimo esame, e fino a che fu pienamente convinto di tutte le sue macchinazioni, ebbe in animo di riservarsi le risorse per l’avvenire, quando si fosse presentata l’occasione di riprendere i suoi disegni, e di condurre a termine l’esecuzione di tale orribile impresa contro suo padre e il suo signore, e contro tutto questo impero.

Egli si è reso con ciò indegno della clemenza e del perdono che gli fu promesso dal suo signore e padre; lo riconobbe anche lui stesso, tanto dinanzi a Sua Maestà lo zar che in presenza di tutti gli stati ecclesiastici e secolari, e pubblicamente dinanzi a tutta l’assemblea; e ha persino dichiarato a voce e per iscritto davanti ai giudici sottoscritti, stabiliti da Sua Maestà lo zar, che tutto quanto suddetto era vero e manifesto per gli effetti che se ne erano visti.

Così, poiché le suddette leggi divine ed ecclesiastiche, civili e militari, e particolarmente le ultime due, condannano a morte senza misericordia, non soltanto coloro i cui attentati contro il loro padre e signore siano stati manifestati da evidenze o provati da scritti, ma anche coloro i cui attentati non sono rimasti che piani di ribellione, o formati da semplici intenzioni di uccidere il loro sovrano o di usurpare l’impero; che cosa pensare di

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un’intenzione di ribellione, tale che non si è mai sentito parlare di cosa simile nel mondo, unita a quella orribile di un doppio parricidio contro il proprio sovrano? in primo luogo perché padre della patria, e ancora come suo padre secondo natura (un padre clementissimo, che fece allevare lo zarevič dalla culla in poi con cure più che paterne, con una tenerezza e una bontà che si sono manifestati in ogni incontro, un padre che ha procurato a formarlo per il governo, e a istruirlo con pene incredibili e applicazione instancabile nell’arte militare, per renderlo capace e degno della successione di un così grande impero); quanto più, per queste ragioni, un tale disegno ha meritato una condanna di morte?

È con un cuore afflitto e occhi colmi di lacrime che noi, come servitori e sudditi, pronunciamo questa sentenza, considerando che non ci spetta affatto, in tale qualità, entrare in un giudizio di così grande importanza, e particolarmente di pronunciare una decisiva sentenza contro il figlio del potententissimo e clementissimo zar nostro signore. Tuttavia essendo sua volontà che noi giudicassimo, dichiariamo con la presente la nostra vera opinione, e pronunciamo questa condanna con una coscienza così pura e così cristiana che crediamo di poterla sostenere dinanzi al terribile, giusto e imparziale giudizio del grande Dio.

Sottoponendo del resto questa sentenza che noi emettiamo, e questa condanna che facciamo, alla potenza sovrana, alla volontà e alla clemente revisione di Sua Maestà lo zar, nostro clementissimo monarca.

PACE DI NEUSTADT

IN NOME DELLA SANTISSIMA E INDIVISA TRINITÀ.Sia notorio ai presenti che, siccome si è levata già da molti anni una

guerra sanguinosa, lunga e costosa tra Sua Maestà il defunto re Carlo XII, di gloriosa memoria, re di Svezia, dei Goti e dei Vandali, ecc., i suoi successori al trono di Svezia, signora Ulrica, regina di Svezia, dei Goti e dei Vandali, ecc., e il regno di Svezia da una parte; e tra Sua Maestà lo zar Pietro I, imperatore di tutta la Russia, ecc., e l’impero di Russia dall’altra parte: le due parti hanno convenuto di cercare di porre fine a tali disordini e di conseguenza all’effusione di tanto sangue innocente; ed è piaciuto alla Divina Provvidenza disporre gli animi delle due parti a far riunire i loro ministri plenipotenziari per trattare e concludere una pace ferma, sincera e durevole, e un’amicizia eterna tra i due Stati, province e paesi, vascelli, sudditi e abitanti; cioè il signor Johan Lillienstedt698, consigliere di Sua Maestà il re di Svezia, del suo regno e della sua cancelleria, e il barone Otto

698 Sull’originale Jean Liliensted. Johan Paulinus Lillienstedt (o Liljenstedt; 1655-1732), conte e statista svedese. Prima della pace di Neustadt/Nystad aveva partecipato a numerose missioni diplomatiche, tra cui quella che portò alla pace di Åland.

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Reinhold Strömfelt699, intendente delle miniere di rame e dei feudi dei Dalderi per parte della suddetta Maestà e per parte di Sua Maestà lo zar, il conte James Bruce, suo aiutante generale di campo, presidente dei collegi dei minerali e delle manifatture, e cavaliere degli ordini di Sant’Andrea e dell’Aquila bianca, e Heinrich Johann Friedrich Ostermann, consigliere privato della cancelleria di Sua Maestà lo zar. I quali ministri plenipotenziari essendosi riuniti a Neustadt, hanno fatto il cambio dei loro poteri; e dopo aver implorato l’assistenza divina, hanno dato mano a questa importante e molto salutevole opera, e hanno concluso, con la grazia e la benedizione di Dio, la pace seguente tra la Corona di Svezia e Sua Maestà lo zar.

Art. I. Vi sarà d’ora innanzi, e per sempre, una pace inviolabile per terra e per mare, come pure un’unione sincera e un’amicizia indissolubile, tra Sua Maestà Federico I, re di Svezia, dei Goti e dei Vandali, i suoi successori alla Corona e al regno di Svezia, i suoi domini, province, paesi, città, vascelli, sudditi e abitanti, tanto nell’impero romano che fuori di detto impero, da una parte; e Sua Maestà Pietro I, imperatore di tutta la Russia, ecc., i suoi successori al trono di Russia, e tutti i suoi paesi, città, vascelli, sudditi e abitanti, dall’altra parte; in modo che in avvenire le due parti pacificate non commetteranno, né permetteranno che si commetta, alcuna ostilità, segretamente o pubblicamente, direttamente o indirettamente, per loro o per altri. Esse non daranno neppure alcun soccorso ai nemici di una delle due parti pacificate, sotto qualunque pretesto, e non faranno con loro alcuna alleanza che sia contraria a questa pace; ma conserveranno sempre tra loro un’amicizia sincera, e procureranno di mantenere l’onore, il vantaggio e la sicurezza reciproca; come pure di impedire, quanto sarà loro possibile, i danni e i disordini dei quali una delle due parti fosse minacciata da qualche altra potenza.

II. Vi è in più, da una parte e dall’altra, un perdono generale delle crudeltà commesse durante questa guerra, sia con le armi o per altre vie, in modo che non le si ricordi né si faccia vendetta alcuna; particolarmente nei confronti di tutte le persone di Stato, e dei sudditi di qualunque nazione siano che hanno preso servizio in una delle due parti durante la guerra, e che per questo passo si sono resi nemici della parte avversa, eccetto i Cosacchi russi che passarono al servizio del re di Svezia, e che Sua Maestà lo zar non ha voluto che fossero compresi in questo perdono generale, malgrado tutte le istanze fatte dal re di Svezia in loro favore.

III. Tutte le ostilità, tanto per mare che per terra, cesseranno qui e nel Granducato di Finlandia, entro quindici giorni, o prima se è possibile, dalla sottoscrizione di questa pace; ma negli altri luoghi entro tre settimane, o prima se è possibile, dacché si sarà fatto il cambio da una parte e dall’altra. Per tale effetto si pubblicherà subito la conclusione della pace. E nel caso in

699 Sull’originale Stroemfeld. Otto Reinhold Strömfelt (o Strömfeldt; 1679-1746), politico svedese. Dal 1720 al 1731 fu governatore della contea di Dalarna (che fino al 1997 si chiamava Kopparberg, per la presenza di miniere di rame). In seguito fece parte dei servizi di Stato e nel 1743 diventò presidente della Corte d’appello di Turku.

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cui, trascorso questo termine, sia commessa qualche ostilità o per mare o per terra, dall’una o dall’altra parte, sotto qualunque nome, per ignoranza della pace conclusa, ciò non arrecherà alcun pregiudizio alla conclusione di questa pace; ma si dovranno restituire e gli uomini e gli effetti presi, e tolti dopo il suddetto tempo.

IV. Sua Maestà il re della Svezia cede con la presente, tanto per sé che per i suoi successori al trono e al regno di Svezia, a Sua Maestà lo zar e suoi successori all’impero di Russia, in piena, irrevocabile ed eterna proprietà, le province che furono conquistate e prese con le armi da Sua Maestà lo zar in questa guerra alla corona di Svezia; cioè la Livonia, l’Estonia, l’Ingria e una parte della Carelia, così come il distretto del feudo di Vyborg, precisato qui sotto nell’articolo del regolamento dei confini; le città e fortezze di Riga, Dunemunde700, Pernau701, Revel702, Dorpt703, Narva, Vyborg, Kexholm704, e le altre città, fortezze, porti, piazze, territori, lidi e coste appartenenti alle suddette province, come anche le isole di Ösel, Dagö, Mön, e tutte le altre isole dalla frontiera di Curlandia, sulle coste di Livonia, Estonia e Ingria, e dal lato orientale di Revel, sul mare, che va a Vyborg, verso Mezzogiorno e Oriente; con tutti gli abitanti che si trovano in dette isole, province, città e piazze; e generalmente tutte le loro pertinenze, dipendenze, prerogative, diritti ed emolumenti, senza alcuna eccezione, così come la Corona di Svezia le ha possedute.

Per tale effetto, Sua Maestà il re di Svezia rinuncia per sempre, nella maniera più solenne, tanto per sé quanto per i suoi successori e per tutto il regno di Svezia, a tutte le pretese che ebbero finora, o possano avere sulle suddette province, isole, paesi e piazze, delle quali tutti gli abitanti saranno, ai sensi della presente, prosciolti dal giuramento [di fedeltà] che hanno prestato alla Corona di Svezia; in modo che Sua Maestà e il regno di Svezia non potranno più attribuirseli d’ora innanzi, né richiederli mai, sotto qualunque pretesto; ma essi saranno e resteranno annessi in perpetuo all’impero di Russia; e Sua Maestà e il regno di Svezia si impegnano con la presente di lasciare e mantenere sempre Sua Maestà lo zar e i suoi successori all’impero di Russia nel pacifico possesso delle suddette province, isole, paesi e piazze; e di cercare e consegnare a quelli che saranno autorizzati da Sua Maestà lo zar tutti gli archivi e le carte, riguardanti principalmente questi Paesi, che siano stati sottratti e portati in Svezia durante la guerra.

V. Sua Maestà lo zar, in cambio, si impegna e promette di restituire e dare, libero e vuoto dalle truppe, a Sua Maestà e alla corona di Svezia, nel termine di quattro settimane dopo aver ratificato scambievolmente questo trattato di pace, o prima se è possibile, il Granducato di Finlandia, eccetto la parte riservata qui sotto nel regolamento dei confini, che apparterrà a Sua

700 O Jurmala, in Lettonia.701 O Pärnu, in Estonia.702 O Reval, ora Tallinn, in Estonia.703 O Dorpat, o Derpt, ora in Russia.704 Odierna Korela.

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Maestà lo zar; in modo che Sua Maestà lo zar e i suoi successori non avranno né produrranno mai alcuna pretesa sul suddetto ducato sotto qualunque pretesto. Oltre a ciò, Sua Maestà lo zar si impegna e promette di fare pagare subito, infallibilmente e senza diminuzione, la somma di due milioni di scudi alle autorità del re di Svezia, purché presentino e diano ricevute valide nei termini fissati, e in tale sorta di moneta di cui si è deciso in un articolo separato, il quale è dello stesso vigore come se fosse qui inserito parola per parola.

VI. Sua Maestà il re di Svezia si è anche riservato, riguardo al commercio, il permesso per sempre di fare comperare annualmente cereali a Riga, Revel e Ahrensburg, per 50.000 rubli: i quali cereali usciranno dalle suddette piazze senza pagare alcun dazio o altra imposta, per essere trasportati in Svezia, mediante un attestato sul quale appaia che sono stati comperati per conto di Sua Maestà svedese, o da sudditi incaricati di tale acquisto da Sua Maestà il re di Svezia: ciò però non sarà valido negli anni in cui Sua Maestà lo zar si trovasse costretta, in mancanza di raccolto, o per altre ragioni importanti, a vietare il trasporto di cereali a tutte le nazioni in generale.

VII. Sua Maestà lo zar promette ancora, nella forma più solenne, che non si mischierà affatto negli affari interni del regno di Svezia, né nella forma di reggenza che fu regolata e stabilita con giuramento, e all’unanimità dagli Stati del detto regno; che non assisterà alcuno, in nessun modo, che possa essere direttamente o indirettamente [coinvolto], ma che proverà a impedire e prevenire tutto ciò che vi fosse contrario, purché ciò venga a conoscenza di Sua Maestà lo zar; al fine di dare con ciò prove evidenti di un’amicizia sincera e di buon vicinato.

VIII. E poiché si ha, da una parte e dall’altra, l’intenzione di fare una pace ferma, sincera e duratura, e che perciò è necessario regolare precisamente i confini, in modo che nessuna delle due parti possa averne ombra, ma che ciascuna possieda in maniera pacifica ciò che le è stato ceduto con questo trattato di pace. Esse hanno voluto dichiarare che i due imperi avranno, d’ora in poi e per sempre, i confini seguenti, i quali cominciano sulla costa settentrionale del Sinus Finicus705, vicino a Vikolax, da cui si estendono per mezza lega dalla riva del mare fin di fronte a Villayoki, e di la più oltre nel Paese; per modo che, dalla parte del mare e dirimpetto a Rohel, ci sarà una distanza di tre quarti di lega in linea diametrale fino alla strada che va da

705 Golfo di Finlandia in latino. I nomi delle località dette in seguito, eccetto Vyborg e Kexholm (in russo Priozersk) non sono oggi riscontrabili con certezza: per esempio, Rohel è stata identificata sia con Röhäll (Finlandia) che con Roheline (Estonia). Ma già all’epoca di Voltaire l’articolo VIII risultava poco comprensibile: ne Le Grand Dictionnaire Géographique et Critique di Antoine Augustin Bruzen de la Martinière, edito a Venezia nel 1737-1741, alla voce “Carelia” è riportato, dopo il testo virgolettato, questo commento: «Io uso la traduzione francese di questo trattato, che è stata pubblicata nelle relazioni del tempo. Ci sono delle oscurità che provengono dall’incapacità del traduttore, e non è facile stabilire cosa si intenda per linea diametrale e per le altre espressioni impiegate, ma non sono stato in grado di porvi rimedio in mancanza del trattato in lingua originale. Vyborg e Kexholm erano capitali, la prima, della Carelia finlandese e, la seconda, della Carelia di Kexholm e attualmente sono nella Carelia moscovita».

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Vyborg a Lapstrand, distante tre leghe da Vyborg, e che va nella stessa distanza di tre leghe verso nord per Vyborg, in linea diametrale fino agli antichi confini che erano tra Russia e Svezia, e anche prima della riduzione del feudo di Kexholm, sotto la sovranità del re di Svezia. Questi antichi confini si estendono, dal lato nord, a otto leghe; di là vanno, per linea diametrale, attraverso il feudo di Kexholm fino al luogo dove il mare di Porojeroi, che comincia presso il villaggio di Kudumagube, bagna gli antichi confini che furono già tra la Russia e la Svezia; cosicché Sua Maestà il re e il regno della Svezia possiederanno per sempre tutto ciò che è situato verso ovest e verso nord, oltre i confini precisati; e Sua Maestà lo zar e l’impero di Russia possiederanno per sempre ciò che è di qua situato, dal lato d’oriente e del sud. E come Sua Maestà lo zar cede in questo modo per sempre a Sua Maestà il re e al regno di Svezia una porzione del feudo di Kexholm, che prima apparteneva all’impero di Russia, così promette nella maniera più solenne, per sé e i suoi successori al trono di Russia, che non richiederà né potrà richiedere mai questa porzione del feudo di Kexholm, sotto qualunque pretesto; ma la suddetta porzione sarà e resterà sempre incorporata al regno di Svezia. Quanto ai confini nei paesi dei Lapmarchi, essi resteranno sullo stesso piano in cui erano prima dell’inizio di questa guerra tra i due imperi. Si è deciso, inoltre, di nominare, subito dopo la ratifica del trattato principale, dei commissari da una parte e dall’altra per regolare i confini nel modo suddetto.

IX. Sua Maestà lo zar promette inoltre di mantenere tutti gli abitanti delle province di Livonia, Estonia e Ösel, i nobili e i plebei, le città, i magistrati e le corporazioni di mestieri, nell’intero godimento di privilegi, usanze e prerogative di cui hanno goduto sotto il dominio del re di Svezia.

X. Non si introdurrà neppure l’obbligo di coscienza nei Paesi che sono stati ceduti; ma in quelli si lascerà e sarà mantenuta la religione evangelica, così come le chiese, le scuole, e ciò che da esse dipende, nello stesso posto in cui erano al tempo dell’ultima reggenza del re di Svezia, a condizione che vi si possa esercitare liberamente anche la religione greca.

XI. Quanto alla riduzione e liquidazione che furono fatte al tempo della passata reggenza del re di Svezia, in Livonia, Estonia e Ösel, con grave danno dei sudditi e degli abitanti di quel paese (ciò che ha portato, non meno che l’equità dell’affare stesso, il defunto re di Svezia, di gloriosa memoria, a dare assicurazione, con una patente pubblicata il 13 aprile 1700, «che, se alcuni dei suoi sudditi possono provare legalmente che i beni che sono stati confiscati sono loro, si renderà loro giustizia a tale riguardo»; e allora molti sudditi dei suddetti Paesi furono rimessi nel possesso dei loro beni confiscati), Sua Maestà lo zar si impegna e promette di rendere giustizia a ognuno, sia che rimanga dentro o fuori il territorio, che abbia giusto titolo sulle terre in Livonia, Estonia, o nella provincia di Ösel, e la possa verificare nelle debite forme; in modo che essi rientrino in possesso dei loro beni o terre.

XII. Si restituiranno anche tempestivamente, in conformità dell’amnistia che fu accordata e regolata qui sopra nell’articolo II, a quelli di Livonia, di

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Estonia e dell’isola di Ösel, che hanno seguito in questa guerra le parti del re di Svezia, i beni, terre e case che furono confiscate e dati ad altri, tanto nelle città di queste province che in quelle di Narva e Vyborg, sia che a essi siano appartenuti prima della guerra o siano a loro passate durante la guerra per eredità o altro titolo, senza alcuna eccezione o restrizione, sia che i proprietari si trovino ora in Svezia o in prigione, o in altro luogo, dopo che ciascuno avrà prima dimostrato presso il governo generale i documenti riguardanti i suoi diritti; ma questi proprietari non potranno pretendere nulla delle entrate che furono da altri riscosse in questa guerra, e dopo la confisca, né alcun risarcimento dei danni sofferti in questa guerra o altrimenti. Coloro che rientrano in questo modo nel possesso dei loro beni o terre saranno obbligati a rendere omaggio a Sua Maestà lo zar, ora loro sovrano, e a comportarsi nel resto come fedeli vassalli e sudditi; dopo che avranno prestato il giuramento abituale, sarà loro permesso uscire dal Paese, di andare a dimorare altrove nei Paesi di quelli che sono alleati e amici dell’impero di Russia, e di mettersi al servizio di potenze neutrali, o di continuarvi, se già vi sono impegnati, come giudicheranno al proposito. Per quelli che non vogliono rendere omaggio a Sua Maestà lo zar, resta loro fissato e concesso il termine di tre anni dopo la pubblicazione della pace, per vendere entro questo tempo i loro beni, terre e ciò che loro appartiene, al meglio che potranno, senza pagare più di quello che tutti devono pagare in conformità con le ordinanze e gli statuti del Paese. In caso che succedesse in futuro che un’eredità sia attribuita, secondo le leggi del Paese, a qualcuno che non abbia prestato il giuramento di fedeltà a Sua Maestà lo zar, sarà obbligato a farlo al ricevimento della sua eredità, o a vendere questi beni in capo a un anno.

Nello stesso modo, coloro che hanno esborsato denaro su terre situate in Livonia, Estonia e nell’isola di Ösel, e che ne abbiano ricevuto dei contratti legittimi, godranno in modo pacifico delle loro ipoteche finché se ne paga loro e il capitale e l’interesse; ma tali ipotecari non potranno pretendere nulla degli interessi che siano scaduti durante la guerra e che siano stati raccolti; ma coloro che, nell’uno o nell’altro caso, hanno l’amministrazione dei beni suddetti, saranno obbligati a rendere omaggio a Sua Maestà lo zar. Tutto ciò si intende anche per coloro che restano sotto la sovranità di Sua Maestà lo zar, i quali avranno la medesima libertà di disporre dei beni che posseggono in Svezia e nei paesi ceduti alla Corona di Svezia per questa pace. Inoltre si manterranno anche reciprocamente i sudditi delle parti pacificate che hanno pretese giuste nei paesi delle due potenze, col pubblico o con persone private, e si renderà loro una giustizia rapida, affinché ciascuno sia così messo e rimesso in possesso di ciò che gli appartiene di diritto.

XIII. Tutti i contributi in denaro cesseranno nel Granducato di Finlandia, che Sua Maestà lo zar restituisce, secondo l’articolo V, a Sua Maestà il re e al regno di Svezia, a contare dalla data della firma del presente trattato; ma vi si forniranno tuttavia gratuitamente i viveri e i foraggi necessari alle truppe di Sua Maestà lo zar, finché il suddetto ducato sia del tutto libero, sul

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piano che si è praticato finora; e lo si difenderà e si vieterà, sotto pene rigorosissime, di condurre via dai loro alloggi alcun ministro o paesano finlandese, contro loro voglia, o di fargli alcun torto. Oltre a ciò, si lasceranno tutte le fortezze e castelli della Finlandia nello stesso stato in cui sono ora; ma sarà permesso a Sua Maestà lo zar di fare trasportare, ritirandosi dal suddetto paese e piazze, ogni grande e piccolo cannone, i loro attrezzi, depositi e altre munizioni di guerra che Sua Maestà lo zar vi fece trasportare a qualunque titolo. Per questo fine, e per il trasporto dei bagagli dell’esercito, gli abitanti forniranno gratuitamente i cavalli e i carri necessari fino alle frontiere. Inoltre, se non si potesse effettuare tutto ciò nel termine stipulato, e che si fosse obbligati a lasciare indietro una parte, essa sarà ben conservata e ridata poi a coloro che saranno autorizzati da Sua Maestà lo zar, in altri tempi che piaccia, e si farà parimenti trasportare la suddetta parte fino alle frontiere. In caso che le truppe di Sua Maestà lo zar avessero trovato e inviato fuori del Paese alcuni archivi e carte riguardanti il Granducato di Finlandia, se ne farà fare una ricerca accurata, e si farà rendere in buona fede ciò che si è trovato a coloro che sono autorizzati da Sua Maestà il re della Svezia.

XIV. Tutti i prigionieri, di una parte e dell’altra, di qualunque nazione, condizione e stato che siano, saranno scarcerati immediatamente dopo la ratifica di questo trattato di pace, senza pagare alcun riscatto; ma occorre che ciascuno abbia prima saldato i debiti contratti, o abbia dato garanzia sufficiente per il loro pagamento. Si forniranno loro gratuitamente, da una parte e dall’altra, i cavalli e i carri necessari, nel tempo fissato per la loro partenza, in proporzione alla distanza dei luoghi dove essi si trovano attualmente, fino alle frontiere. Per quanto riguarda i prigionieri che hanno abbracciato le parti dell’uno o dell’altro, o che hanno intenzione di restare negli Stati dell’una o dell’altra parte, avranno indifferentemente questo permesso. Lo stesso si intende per tutti coloro che siano statti presi, da una parte e dall’altra, durante questa guerra; i quali potranno anche, o restare dove sono, o tornare a casa loro, eccetto quelli che, di loro spontanea volontà, hanno abbracciato la religione greca, volendolo così Sua Maestà lo zar; per il qual fine le due parti pacificate faranno pubblicare e affiggere degli editti nei loro Stati.

XV. Sua Maestà il re e la Repubblica di Polonia, come alleati di Sua Maestà lo zar, sono compresi espressamente in questa pace, e si riserva loro l’accesso nello stesso modo, come se il trattato di pace da rinnovare tra loro e la Corona di Svezia sia stato inserito qui parola per parola. A questo fine, cesseranno tutte le ostilità, di qualunque nome siano, ovunque e in tutti i regni, paese e domini che appartengono alle due parti pacificate, e che sono situati tanto nell’impero romano che fuori dell’impero romano, e vi sarà una pace stabile e duratura tra le suddette due Corone. E siccome nessun ministro plenipotenziario da parte di Sua Maestà e la Repubblica di Polonia ha assistito al congresso di pace tenutosi a Neustadt, e così non si è potuto rinnovare allo stesso tempo la pace tra Sua Maestà il re di Polonia e la Corona di Svezia con un trattato solenne, Sua Maestà il re di Svezia si

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impegna e promette di mandare al congresso di pace i suoi plenipotenziari, per iniziare le conferenze appena si sarà concertato il luogo del congresso, al fine di concludere, con la mediazione di Sua Maestà lo zar, una pace duratura tra questi due re, a condizione che nulla vi sia contenuto che possa portare del pregiudizio a questo trattato di pace eterna fatto con Sua Maestà lo zar.

XVI. Si regolerà e si confermerà la libertà del commercio che vi sarà per mare e per terra tra le due potenze, i loro Stati, sudditi e abitanti, appena sarà possibile, tramite un trattato a parte su questo tema, in vantaggio degli Stati di una parte e dell’altra; ma, nel frattempo, sarà permesso ai sudditi russi e svedesi di trafficare liberamente nell’impero di Russia e nel regno di Svezia, da quando si sarà ratificato questo trattato di pace, pagando i dazi ordinari per ogni specie di mercanzia; in modo che i sudditi di Russia e di Svezia godranno reciprocamente degli stessi privilegi e prerogative che si accordano ai più grandi amici degli Stati suddetti.

XVII. Essendo la pace conclusa, si restituiranno da una parte e dall’altra ai sudditi di Russia e di Svezia, non soltanto i magazzini che erano prima della guerra in alcune città mercantili di queste due potenze, ma anche si permetterà loro di stabilirne di nuovi nelle città, porti e altre piazze che sono sotto la sovranità di Sua Maestà lo zar e del re di Svezia.

XVIII. In caso che dei vascelli da guerra o mercantili svedesi vengano ad arenarsi o perire per tempesta o per altri incidenti sulle coste o lidi della Russia, i sudditi di Sua Maestà lo zar saranno obbligati a dare loro ogni tipo di soccorso e di assistenza, di salvare l’equipaggio e gli effetti, quanto sarà loro possibile, e rendere esattamente ciò che sia stato gettato a terra, se essi lo richiedono, mediante una ricompensa adatta. I sudditi di Sua Maestà il re di Svezia faranno lo stesso nei confronti dei vascelli e degli effetti russi che hanno la disgrazia di arenarsi o perire sulle coste della Svezia. A tale scopo, e per prevenire eventuali furti, insolenze e saccheggi, che di solito si commettono in questi sfortunati incidenti, Sua Maestà lo zar e il re di Svezia faranno emanare un rigorosissimo divieto a questo proposito, e faranno punire con arbitrio i trasgressori.

XIX. E, per impedire anche per mare ogni occasione che potrebbe far nascere qualche disaccordo tra le due parti pacificate, tanto quanto è possibile, si è concluso e risolto che quando d’ora in poi i vascelli da guerra svedesi, uno o più, sia piccoli che grandi, passeranno innanzi a una delle fortezze di Sua Maestà lo zar, faranno la salva del loro cannone, ed essi saranno risalutati da quello della fortezza russa; e viceversa, d’ora in poi quando i vascelli da guerra russi, uno o più, sia piccoli che grandi, passeranno davanti a una delle fortezze di Sua Maestà il re di Svezia, faranno la salva del loro cannone, ed essi saranno risalutati da quello della fortezza svedese. In caso che i vascelli svedesi e russi si incontrino in mare, o in qualche porto o altro posto, si saluteranno reciprocamente con la salva ordinaria, nello stesso modo in cui si usa in simili casi tra Svezia e Danimarca.

XX. Si è convenuto da ambo le parti di non rimborsare più i ministri delle

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due potenze, come prima; i loro ministri, i plenipotenziari e inviati, senza o con carattere, che dovranno mantenersi in futuro da sé con tutto il loro seguito, tanto in viaggio che a corte, e nella città in cui hanno ordine di andare a risiedere; ma, se una o l’altra delle due parti riceverà tempestivamente l’avviso dell’arrivo di un inviato, ordinerà ai suoi sudditi di dargli tutta l’assistenza di cui avrà bisogno, affinché possa continuare in sicurezza il suo viaggio.

XXI. Da parte di Sua Maestà il re di Svezia, si comprende anche in questo trattato di pace Sua Maestà il re della Gran Bretagna, alla riserva delle obiezioni che ci sono tra Sua Maestà lo zar e il suddetto re, di cui si tratterà direttamente, e si proverà a terminarle amichevolmente. Sarà pure permesso ad altre potenze, che saranno nominate dalle due parti pacificate nello spazio di tre mesi, di entrare in questo trattato di pace.

XXII. In caso che si verifichi in futuro qualche vertenza tra gli Stati e i sudditi di Svezia e di Russia, ciò non pregiudicherà affatto questo trattato di pace eterna e inviolabile, ma avrà e terrà la sua forza e il suo effetto; e si nomineranno tempestivamente commissari da una parte e dall’altra per esaminare e risolvere equamente la vertenza.

XXIII. Si renderanno anche, d’ora in poi, tutti coloro che sono colpevoli di tradimenti, omicidi, furti e altri crimini, e che passano dalla Svezia in Russia e dalla Russia in Svezia, soli o con mogli e figli, in caso che la parte lesa del Paese da cui essi sono fuggiti li reclami, di qualunque nazione essi siano, e nello stesso stato in cui erano al loro arrivo, con mogli e figli, così come con tutto ciò che avevano portato via, rubato o saccheggiato.

XXIV. Il cambio delle ratifiche di questo strumento di pace si farà a Neustadt nello spazio di tre settimane, a partire dalla sottoscrizione, o prima se è possibile. In fede di tutto ciò, sono stati elaborati due esemplari dello stesso tenore del presente trattato di pace, che sono stati confermati dai ministri plenipotenziari di una parte e dell’altra, ai sensi dei poteri che hanno avuto dai loro signori, che li avevano firmati di proprio pugno, e autenticati con i loro sigilli.

Fatto a Neustadt il 30 agosto 1721 vecchio stile706, dalla nascita di nostro Signore.

Johan Paulinus LillienstedtOtto Reinhold StrömfeltJames BruceHeinrich Johann Friedrich Ostermann

706 Ossia 10 settembre 1721 secondo il calendario gregoriano.

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EDITTO DELL’IMPERATORE PIETRO IPER L’INCORONAZIONE DELL’IMPERATRICE CATERINA707

Noi, Pietro I, imperatore e autocrate di tutta la Russia, ecc. facciamo sapere a tutti gli ecclesiastici, ufficiali civili e militari, e altri della nazione russa, nostri sudditi fedeli [quanto segue]:

Nessuno ignora l’uso costante e perpetuo stabilito nei regni della cristianità, secondo il quale i sovrani fanno incoronare le loro spose, così come ciò lo si pratichi attualmente, e lo è stato diverse volte nei tempi passati dagli imperatori della vera fede greca; cioè l’imperatore Basilide che ha fatto coronare la sua sposa Zenobia708 l’imperatore Giustino709 la sua sposa Lupicina, l’imperatore Eraclio la sua sposa Martina; l’imperatore Leone il Filosofo la sua sposa Maria710, e molti altri che hanno del pari fatto mettere la corona imperiale sul capo delle loro consorti, ma di cui non faremo menzione qui, perché ciò ci condurrebbe troppo lontano.

È anche noto fino a quale punto abbiamo noi esposto la nostra persona, e affrontato i pericoli maggiori, a favore della nostra patria, durante il corso dell’ultima guerra di ventuno anni consecutivi; che noi abbiamo terminato, con l’aiuto di Dio in modo così onorevole e vantaggioso che la Russia non vide mai paci simili, né acquisì mai la gloria che le è derivata da questa guerra. L’imperatrice Caterina, nostra amatissima sposa, ci fu di grande aiuto in tutti questi pericoli, non soltanto nella suddetta guerra, ma anche in alcune altre spedizioni, in cui ci ha accompagnato volontariamente, e ci servì da consigliere quanto ha potuto, nonostante la debolezza del sesso; particolarmente nella battaglia contro i Turchi, sul fiume Prut, dove il nostro esercito era ridotto a 22.000 soldati, e quello dei Turchi era composto da 270.000 uomini. Fu in tale circostanza disperata che ella segnalò soprattutto il suo zelo con un coraggio superiore al suo sesso, così come è noto a tutto l’esercito e in tutto il nostro impero. Per queste ragioni, e in virtù del potere che Dio ci ha dato, noi abbiamo deciso di onorare la nostra sposa della corona imperiale, in grata riconoscenza di tutte le sue pene; ciò che, se piace a Dio, sarà compiuto questo inverno a Mosca; e noi diamo avviso di questa risoluzione a tutti i nostri sudditi fedeli, in favore dei quali la nostra affezione imperiale è inalterabile.

707 Cfr. seconda parte, capitolo XVII. (Nota dell’autore) – L’editto è del 15/26 novembre 1723. Caterina fu incoronata ufficialmente il 7/18 maggio 1724.

708 Zenobia Settimia era la seconda moglie di Odenato, re di Palmira. “Basilide” (o Basilio come è riportato in alcune ristampe) sta probabilmente per basileus, come si faceva chiamare l’imperatore bizantino.

709 Nell’ordinanza è Giustiniano, ma fu il suo predecessore Giustino I (V-VI secolo) a sposare Lupicina, schiava e di origine barbara, che cambiò il nome in Eufemia quando diventò imperatrice.

710 Era Leone III Isaurico. Con Leone il Filosofo, o il Saggio, si intende invece Leone VI.

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