Storia, cultura e attualità dell’Adriatico orientale è il ... · Una cosa è certa: nel pieno...

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As s oci az i one Naz i onal e Venez i a Gi ul i a e Dal maz i a : : www. anvgd. i t LUIGI TOMAZ LA COMUNE CIVILTÀ TRA LE DUE SPONDE ADRIATICHE DALLA PREISTORIA ALL 'EVO MODERNO Storia, cultura e attualità dell’Adriatico orientale è il titolo del volume di atti del corso di aggiornamento in storia per docenti promosso a Pescara dal Libero Comune di Zara in esilio nel 1999. Dal volume riproduciamo le lezioni del prof. Luigi Tomaz. Prima di Roma Quando si parla dell'Adriatico, anche trattando del secondo millennio avanti Cristo, si rischia di essere accusati di revanscismo irredentista. Perciò io uso l'accortezza di appoggiare le mie panoramiche storiche su supporti insospettabili, politicamente e nazionalisticamente ben definiti o comunque super partes. Giacomo Scotti, scrittore italiano accolto nel Quarnaro quando io fui costretto ad abbandonarlo, nel 1980 fa proprie le parole dello storico Bernardo Benussi che nel 1924, così si è espresso: “La storia ci conserva la memoria di una grande migrazione ... nelle nostre regioni (Istria e Quarnaro) all'epoca della guerra troiana: quella dei Veneti. (Euganei?) Avanzandosi dall'Oriente attraverso i Balcani lungo la via del Danubio-Sava (dell'Istro), i Veneti, oltrepassate le Alpi orientali ... si sarebbero stabiliti in tutto il paese dai monti al mare, spingendosi inoltre ben addentro nell'Alta Italia”. Un popolo unico dunque lungo tutto l'alto golfo Adriatico! Scotti continua: “Sullo stesso argomento non nutre dubbi uno dei più profondi conoscitori della preistoria sulle isole adriatiche, Grga Novak. Afferma che verso la fine dell'Eneolitico, sulle sponde dell'Adriatico comparvero tribù indoeuropee ... Probabilmente le nuove tribù, che dilagavano anche nelle regioni interne della penisola balcanica e appenninica, giunsero a queste sponde per le vie del mare dal Peloponneso occidentale,. ma ci furono anche colonne che scesero dal Nord ... penetrando nell'odierna Venezia Giulia, nel Veneto, nella Romagna, nella Lombardia. Si devono a questi nuovi arrivati i villaggi di palafitte e di terramare sorti nel Veneto e in Romagna e i castellieri lungo la costa orientale e sulle isole adriatiche, più che altrove numerosi proprio nel Quarnaro e in Istria. Restano tracce di centinaia di questi abitati-fortezze (molti diventeranno castri romani) a Cherso, Lussino, Veglia ed Arbe”. Un'unica migrazione stanziatasi lungo la sponda di Romagna, Veneto, Istria e Isole del Quarnaro, cioè da Rimini a Zara su un arco ininterrotto. Virgilio racconta che le delegazioni dei Veneti convenivano ogni anno alle foci del Timavo, in Istria, per celebrar sacrifici al mitico Diomede che li aveva portati fino assieme ai Troiani. Il mito di Giasone e Medea vuole gli Argonauti arrivati, via Danubio e Sava, o al Quarnaro o nel golfo Tergestino, comunque nei due seni adriatici che serrano l'Istria: Polibio dice che “abitava da tempo la parte presso l'Adriatico una popolazione molto antica, dei Veneti, poco differenti dai Celti negli usi e costumi, ma di lingua diversa”. Nel Veneto sono state distinte cinque o sei epoche preromane denominate Este dalla città capitale, dal 1200 al 200 avanti Cristo. Tra Este IV ed Este VI si sarebbe sviluppata la lingua scritta in caratteri di tipo etrusco, tramandata da lamine, terrecotte e lapidi. La lingua venetica fu simile o affine a quella degli Istri, dei Liburni e degli altri adriatici? Difficile da sapere, ma è certo per ora che l'unica iscrizione-stele figurata attribuita ai Liburni si trova a Novilara nelle Marche. Le vecchie storie di Senigallia ne attribuiscono la fondazione ai Liburni di Segna, nel litorale del Quarnaro, e Segna si considerava fondata dai Liburni di Senigallia prima che la Sena delle Marche divenisse sede dei Galli Senoni. Può darsi che questa storia sia nata durante i lunghi secoli di traffico marittimo privilegiato tra Segna - mai veneziana - ed il porto pontificio di Senigallia, ma è certo che fin dalle epoche più nebulose dell'antichità c'è stata comunanza e frequentazione intensissima tra

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LUIGI TOMAZLA COMUNE CIVILTÀ

TRA LE DUE SPONDE ADRIATICHEDALLA PREISTORIA ALL 'EVO MODERNO

Storia, cultura e attualità dell’Adriatico orientale è il titolo del volume di atti del corsodi aggiornamento in storia per docenti promosso a Pescara dal Libero Comune di Zara in esilionel 1999. Dal volume riproduciamo le lezioni del prof. Luigi Tomaz.

Prima di RomaQuando si parla dell'Adriatico, anche trattando del secondo millennio avanti Cristo, si rischia

di essere accusati di revanscismo irredentista. Perciò io uso l'accortezza di appoggiare le miepanoramiche storiche su supporti insospettabili, politicamente e nazionalisticamente ben definiti ocomunque super partes.

Giacomo Scotti, scrittore italiano accolto nel Quarnaro quando io fui costretto adabbandonarlo, nel 1980 fa proprie le parole dello storico Bernardo Benussi che nel 1924, così si èespresso: “La storia ci conserva la memoria di una grande migrazione ... nelle nostre regioni (Istria eQuarnaro) all'epoca della guerra troiana: quella dei Veneti. (Euganei?) Avanzandosi dall'Orienteattraverso i Balcani lungo la via del Danubio-Sava (dell'Istro), i Veneti, oltrepassate le Alpi orientali... si sarebbero stabiliti in tutto il paese dai monti al mare, spingendosi inoltre ben addentro nell'AltaItalia”. Un popolo unico dunque lungo tutto l'alto golfo Adriatico!

Scotti continua: “Sullo stesso argomento non nutre dubbi uno dei più profondi conoscitoridella preistoria sulle isole adriatiche, Grga Novak. Afferma che verso la fine dell'Eneolitico, sullesponde dell'Adriatico comparvero tribù indoeuropee ... Probabilmente le nuove tribù, chedilagavano anche nelle regioni interne della penisola balcanica e appenninica, giunsero a questesponde per le vie del mare dal Peloponneso occidentale,. ma ci furono anche colonne che sceserodal Nord ... penetrando nell'odierna Venezia Giulia, nel Veneto, nella Romagna, nella Lombardia. Sidevono a questi nuovi arrivati i villaggi di palafitte e di terramare sorti nel Veneto e in Romagna e icastellieri lungo la costa orientale e sulle isole adriatiche, più che altrove numerosi proprio nelQuarnaro e in Istria. Restano tracce di centinaia di questi abitati-fortezze (molti diventeranno castriromani) a Cherso, Lussino, Veglia ed Arbe”. Un'unica migrazione stanziatasi lungo la sponda diRomagna, Veneto, Istria e Isole del Quarnaro, cioè da Rimini a Zara su un arco ininterrotto.

Virgilio racconta che le delegazioni dei Veneti convenivano ogni anno alle foci del Timavo,in Istria, per celebrar sacrifici al mitico Diomede che li aveva portati fino lì assieme ai Troiani. Ilmito di Giasone e Medea vuole gli Argonauti arrivati, via Danubio e Sava, o al Quarnaro o nel golfoTergestino, comunque nei due seni adriatici che serrano l'Istria:

Polibio dice che “abitava da tempo la parte presso l'Adriatico una popolazione molto antica,dei Veneti, poco differenti dai Celti negli usi e costumi, ma di lingua diversa”.

Nel Veneto sono state distinte cinque o sei epoche preromane denominate Este dalla cittàcapitale, dal 1200 al 200 avanti Cristo. Tra Este IV ed Este VI si sarebbe sviluppata la lingua scrittain caratteri di tipo etrusco, tramandata da lamine, terrecotte e lapidi. La lingua venetica fu simile oaffine a quella degli Istri, dei Liburni e degli altri adriatici? Difficile da sapere, ma è certo per orache l'unica iscrizione-stele figurata attribuita ai Liburni si trova a Novilara nelle Marche. Le vecchiestorie di Senigallia ne attribuiscono la fondazione ai Liburni di Segna, nel litorale del Quarnaro, eSegna si considerava fondata dai Liburni di Senigallia prima che la Sena delle Marche divenissesede dei Galli Senoni. Può darsi che questa storia sia nata durante i lunghi secoli di trafficomarittimo privilegiato tra Segna - mai veneziana - ed il porto pontificio di Senigallia, ma è certo chefin dalle epoche più nebulose dell'antichità c'è stata comunanza e frequentazione intensissima tra

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Piceni, Liburni, Padani del Po e di Spina, Adriesi, Istri, Veneti, Dalmati e Iapigi delle Puglie.Nell'isoladi Veglia, mare insulare dei Liburni, furono trovate fibbie di bronzo in tutto simili proprioad altre della necropoli di Novilara.

I parlari? Vedremo che molte connessioni transadriatiche ci sono state, e tali che, se anchenon ci fossero le prove raccolte, il complesso delle altre risultanze le esigerebbe. Non dobbiamoperò neanche pretendere che 30 o 25 secoli fa ci fosse una lingua adriatica unica e senza differenzeda luogo a luogo, quando pensiamo che neanche cent'anni or sono, i pescatori di Molfetta e quellidi Chioggia - indiscutibilmente italiani - si capivano soltanto con i gesti e non nei loro dialetti.

Una cosa è certa: nel pieno del millennio avanti Cristo, di qua e di là dal mare, si capivano econoscevano tutti perché partecipavano della stessa civiltà peculiare dell'Adriatico. Se non ci sonrimaste tante parole, ci è rimasta la lingua dell'arte,dell'artigianato,dell'abbigliamento,dellaconvivenza sociale, della vita familiare e di comunità, del culto dei morti.

Anche per questo argomento io non vado a scomodare ne accademici d'Italia,né studiosiimpegnati nella difesa delle radici italiche degli istro-dalmati, ma vado a spulciare un altroinsospettabile, il prof. Alexander Stipcevic che in Arte degli llliri, del 1963 ci dà ragione anchequando tenta di insinuare – parrebbe per dovere patriottico - giustificazioni ingenue fino allatenerezza. Sentiamolo, tenendo presente che al di là dell'Adriatico si vuol far credere che anchetremila anni fa esistevano gli attuali confini etnici, linguistici e politici: “A quanto pare l'estensionedel territorio illirico corrisponde all'odiernoterritorio iugoslavo. ... Genti illiriche, più precisamentedi origine illirica, vivevano pure in Italia (i Messapi, gli Iapigi ecc. in Puglia, i Piceni nelle Marche)ma non prenderemo in considerazione queste genti perché la loro cultura è di carattere più italianoche il lirico”. Chi non legge oltre all'Introduzione resta dell'ideache nel libro non si parli più deirapporti con la costa adriatica della Penisola italiana.Così invece non è perché tosto leggiamo: “Le genti illiriche che per prime meritano di esseremenzionate ... sono senza dubbio quelle abitanti le odierne Istria e Slovenia. … Infatti, nel periodoin cui molti llliri non conoscevano o quasi l'artefigurativa, quelli dell'Istriae della Slovenia,strettamente collegati da legami economici e culturali con le civiltà italiche, producevano eparzialmente anche importavano prodotti di alta qualità artistica. Gli scavi archeologici già nelloscorso secolo dimostrano che in quelle regioni illiriche fioriva un'artefigurativa affine a quellaconosciuta nell'Italiasettentrionale ... Le monumentali statue lapidee di Nesazio (Istria) ... e gli altrioggetti d'arte hanno dato all'arte illirica di quelle zone un valore di prim'ordine”.

E ancora: “Il confronto dei bronzi rinvenuti in Slovenia e in Istria, con quelli di Bologna, diEste, di Sesto Calende, ecc, dimostra la mancanza di una differenza essenziale anche nei particolari.… Una prova assai convincente della produzione indigena (non d'importazione) scaturisce dal fattoche i cinturoni provenienti dalla Slovenia sono di forma rettangolare, mentre quelli atestini sonoovali”. Dobbiamo desumere che quelli dell'Istria sono ovali come quelli di Este al di là del mare.

“Nei numerosi oggetti di abbigliamento rinvenuti in queste regioni (e non in quelle internebalcaniche) osserveremo un singolare mescolarsi di elementi indigeni con altri di provenienzaitalica da una parte (Istria) e dall'Europacentrale dall'altra(Slovenia). L 'influssoitalico è peròmolto più forte e, diremo, decisivo nella formazione di quest'arte”.

A monte della Liburnia, nell'attualeCroazia, si sono trovati dei ninnoli a Kompolje, nelterritorio degli antichi Japodi: “Possiamo affermare che la patria della plastica di Kompolje sial'Italia... perché quasi tutte le figurine umane di ambra che si possono paragonare a quelle diKompolje provengono dall'areaculturale estrusca (Bologna, Marzabotto, Roma, Vasto - sulGargano - e Ruvo in Puglia). È molto probabile che l'emporio greco-estrusco di Spina fosse il puntodi partenza. … Ma poiché gli Japodi frequentavano assiduamente la costa italica nel VI-V secolonon si può escludere che esse siano state acquistate in qualche altro emporio della spondaoccidentale dell'Adriatico”.

Dopo gli Istri e i loro propinqui, tocca ai Liburni: “Sul territorio tra il fiume Cherca inDalmazia e l'Arsain Istria, e nelle isole adiacenti - Veglia, Cherso, Pago, ecc., vivevano i Liburni,

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gente bellicosa che nella prima metà del primo millennio a C. dominava l'Adriatico... Era genteprettamente marittima e non c'è da stupirsi che la loro cultura materiale (quella ... immateriale non èstata trovata negli scavi!) differisse ... da quella conosciuta dalle altre genti illiriche del retroterra.La grande necropoli di Nona presso Zara, ci ha rivelato ... che nella civiltà Iiburnica l'elementoitalico era particolarmente forte”.

“Un elemento artistico caratteristico per la civiltà liburnica è l'applicazione(ornamentometallico applicato) a forma di testa di uccello lacustre ... nei pendagli, pettorali, ecc. e in generedove gli Japodi mettono teste equine. È un motivo molto usato dai Liburni. ... Strette analogietroviamo pure col materiale archeologico proveniente dalla civiltà picena della opposta spondaitalica. Proprio questo motivo ornamentale, associato ad altri elementi archeologici, fa di queste dueciviltà adriatiche quasi un unico complesso culturale”.

Come gli Istriani con i Veneti e i Romagnoli, così i Liburni con i Piceni, costituivanoun'unica civiltà rappresentata in simbolo dalla stessa insegna araldica.

Lo Stipcevic insiste: “Ci sono differenze tra le protomi (pendagli a forma di mascheraumana) liburniche (marittime) e quelle Japodiche (terragne). Tra gli esemplari più belli, quello diNona e cinque ... da Bescanova nell'isoladi Veglia. Questi ultimi ricordano molto le figureprovenienti dall'Etruriae probabilmente nell'Italiaetrusca dobbiamo rintracciare le origini diquest'arte”.

Mi sono dilungato per dimostrare con le parole di un insospettabile che anche nel millennioprecedente l'eracristiana, lungo le due sponde parallele del nostro mare la lingua dell'artee dellaciviltà era straordinariamente unica e diversa da quella degli Illiri balcanici oltremontani. Lacolonizzazione greca in Dalmazia è stata comune all'Italiameridionale e adriatica ed è sempre stataaccettata come componente essenziale e positiva della civiltà italiana sviluppatasi anche su quelleradici. Stipcevic sostiene che le sponde adriatiche non colonizzate, non riuscivano a recepiredirettamente l'arteellenica e avevano bisogno della mediazione italica per l'affinitàdi gusto e dimentalità tra gli italici egli adriatici.

È qui doveroso accennare che la storiografia contemporanea ungherese, interessata allaDalmazia per la parte avuta dalla corona ungarica nelle vicende adriatiche medioevali, havalorizzato l'influsso delle Polis greche, prima ma anche durante e dopo la stessamunicipalizzazione romana, trovandovi la radice del forte senso civico e d'autonomiacomunaledelle autocefale e autodespote città dalmate del Medioevo, in netto anticipo sullo stesso analogofenomeno comunale del Medioevo italiano.

Ritornando ai linguaggi parlati e scritti già accennati, Giacomo Devoto assicura nel 1969 chenella regione pugliese dove erano approdati gli Illiri Japigi, ad una preesistente piattaforma, da luichiamata convenzionalmente protolatina, si era sovrapposto uno strato ‘illirico’ di cui dà lamaggiore testimonianza la lingua dei Messapi che con i Dauni e i Pancezi costituivano le tre tribùdegli Japigi alle quali oggi corrispondono territorialmente le province pugliesi storiche di Foggia,Bari e Lecce. L'illiricosi è sovrapposto al protolatino, in quei territori, a partire dal IX e IIX secoloa. C. e nel Salento leccese è sopravvissuto nelle sue particolarità sonore in oltre 300 iscrizioni conalfabeto greco derivato dalle vicine città greco-italiche.

Il Devoto ridimensiona la portata del termine illirico affermando che solo da una decinad'anniesso tende a rientrare nei limiti ragionevoli dopo essere stato portato ad una nozione moltovaga ed esagerata ... non solo nell'Italiaantica. Riduce inoltre la definizione di miri dalla nozionepositiva di gruppo di popolazioni nuove arrivato per ultimo a completare la grande migrazioneindoeuropea, alla nozione negativa di resti di tribù preindoeuropee, scampate al diluvio dei popolinuovi indoeuropei stanziatisi tutto intorno a loro premendoli e costringendoli a compiere dellemigrazioni parziali attorno all'Adriatico.

Questa affermazione del Devoto dà maggior vigore alla nostra tesi perché conferisceomogeneità, maggiore antichità e primigenia autoctonia alle genti adriatiche, presentandole comeconsanguinee oltre che affini per civiltà e cultura ininterrotta tra il secondo ed il primo millennio a.

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C. Illiri indoeuropei stanziatisi attorno al nostro mare o adriatici preindoeuropei in continuoalternarsi e trafficare tre le due sponde, Devoto ribadisce comunque: “Questo non esclude chesussistano in Italia concordanze transadriatiche”.

Il mito tramandato per tremila anni è confermato dal rigore scientifico di un massimoluminare del nostro secolo, che continua: “L'Italia, per la sua ascendenza umbra, venetica eprotolatina esige connessioni transadriatiche...‘indoeuropee’ non ancora differenziate, noncircoscrivibili in un termine ristretto come l'Illirismo”.

Si badi bene che io ho lasciato gli Illiri al prof. Stipcevic, iniziando a parlare di Veneti, diIstri, di Liburni, di Piceni, di Dalmati e di Iapigi. Passando a qualche straniero super partes, citoJohn J. Wilkes che sostiene nel 1997 la affinità linguistica tra Liburni e Veneti e la loro disponibilitàcivile alla precoce assimilazione alla mentalità romana con la strutturazione in Municipia e laestensione dello Jus Italicum o Dominium ex iure quiritium, con l'ordineequestre romano, già in etàgiulio-claudia, quando i cosiddetti Illiri oltremontani erano tenuti al margine dai coloni italici.

Sulla parlata e sulla consanguineità, suggerita dal Devoto, possiamo citare M. Landolfi chenel 1988 ha evidenziato il fittissimo scambio reciproco tra le sponde Liburniche e Picene durante l'età repubblicana romana, nella seconda metà del millennio, ma, diamo grande valore ad un altroinsospettabile, Slobodan • a• e che nel 1984, sviluppando il passo di Plinio il vecchio sui Liburni,indicati quali i più antichi abitatori del Piceno, è arrivato ad ipotizzare che gli aspettistraordinariamente simili delle culture liburnica e picena derivino da una antichissima e inizialeresidenza italica dei Liburni quali proto-piceni. Staccatisi dal ceppo originario e migrati sulle isole elungo la costa della sponda opposta, avrebbero mantenuto il naturale rapporto fraterno con la terrad'origine,come gli Elleni della Magna Grecia italica con le loro originarie Polis dell'Ellade.La tesinon contrasta con le ‘piccole migrazioni parziali’ delle tribù Illiriche preindoeuropee del Devoto. Iltitolo del saggio di Slobodan • a• e è significativo: Truentum Liburnorum -Tronto, fiume deiLiburni.

* * *

Lasciando ai sommi vertici dell'archeologia, della glottologia e della indaginetoponomastica, il grande parlare di Illiri in riferimento a tutte le genti adriatiche, da Erodoto aVirgilio a Festo a Plinio nella fitta schiera di poeti, storici e geografi antichi, dimostra che i Greciavevano coniato quel denominatore comune perché convinti dell'ovviasomiglianza tra l'umanitàdelle due riviere e che i Romani l'hanperpetuato per la stessa evidenza. Ci basta e ci appaga quantoha sintetizzato Giuseppe Praga: “Le ipotesi e le teorie sinora formulate sono troppo indeterminateper poterle proiettare sul piano storico. È tuttavia sin da ora accertato che ... soprattutto tra l'unael'altrariva dell'Adriaticovi fossero sin dai tempi preistorici non solo vivi scambi e passaggi diuomini, cose e forme di vita, ma medesimezza di strati etnici”.

Tutto questo mondo pre- o postindoeuropeo, che non ha saputo scrivere la sua storia purlasciando orme che la risacca di due millenni non ha cancellato, è stato vieppiù influenzato econquistato dalla civiltà greca penetrata nel suo stesso golfo e poi da quella greco-romana, seguita eincalzata dalla stessa espansione della sovranità di Roma.

Con RomaRoma aveva conquistato con interminabili guerre, tutti i popoli italici che la circondavano,

sul versante tirrenico, su quello appenninico e su quello ionico. Venne così il tempo della suapresenza in Adriatico.Nel 290 avanti Cristo ha già raggiunto la costa picena; nel 283 e 268 deduce le colonie di SenaGallica e di Ariminum; nel 264, quando sul Tirreno affronta Cartagine, possiede tutta la costaadriatica centro-meridionale. Nel 229 stringe patto di alleanza stabile con le città greche di Corcyra(Corfù), Apollonia, Dyrrachium (Durazzo) e Issa (Lissa) nel cuore marittimo della Dalmazia e con

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le tribù dalmate minacciate da un regno illirico, piratesco, da poco esteso da Scodra (Scutari) finoalle foci del Narenta. L'alleanzacontinua, finché si susseguono le guerre, per mezzo secolo.Contemporaneamente, nel 225, è pattuita la stabile intesa veneto-romana, libera e consensuale comel'altra,perche imposta dalla avversità dei Celti della Gallia Cisalpina, Nel 189 - chiusa la parentesidi Annibale - è dedotta la colonia di Bononia (Bologna) ed otto anni dopo, nel 181, quella diAquileia. Tre anni dopo, dal 178 al 177 è espugnata l'Istria,Nel 168 si concludono gli scontri nellabassa Dalmazia e nel 156-155 il potere romano si stende anche sui Dalmati a Nord del Narenta; nel129, senza contrasti, sui Liburni fino al confine con gli Istriani già raggiunto da occidente.

Roma non estende la sovranità per razziare ma per difendere la sua civiltà, civilizzando ipopoli limitrofi, Nel 175 ha costruito la via da Bologna ad Aquileia, nel 148 la Postumia da Genovaad Aquileia, nel 132-31 la Popilia Annia da Rimini, per Adria, a Padova dove si innesta allaBologna - Aquileia che continuerà nella via Gemina verso Emona e nella Flavia verso Pola e poiverso Tarsatica (Fiume). Un piano formidabile che avanzerà in Liburnia e Dalmazia per arrivare altraghetto della via Appia con 1'Egnaziadiretta alla Grecia conquistata nel frattempo. Nella guerratra Cesare e Pompeo, i Dalmati sono con Pompeo e i Liburni con Cesare: sono pienamente entratinelle stesse lotte civili di Roma. Dal tempo di Silla, il Limes italicus è posto trasversalmente traAmo e Rubicone. Tutto il resto, da Cesenatico in su non è ancora Italia.

Nel 42, due anni dopo la morte di Cesare, il Senato estende il nome e l'ordinamentod'Italiafino alle Alpi e all'Istria,Emilia, Veneto ed Istria entrano così nell'Italiaassieme, con le altre regioniche stanno al centro e all'ovestdi quella che diventa allora soltanto l'Italiasettentrionale. Augustostruttura la nuova Italia in 11 regioni rispettandone con grande saggezza le antiche peculiarità. Lacosta da Otranto al Quarnaro è ordinata nelle Regiones: II Apulia et Calabria; IV Samnium; VPicenum; VI Umbria (il lido dell'Ager Gallicus con Senigallia e Pesaro); VII Aemilia; X Venetia etHistria. La Decima Regio sarà estesa nel 170 d.C. alle liburniche Alvona (Albona), Flanona(Fianona), Tarsatica (Fiume) e raggiungerà poi Emona (Lubiana).

Thomas H Wilkins, nel 1988-89 sostiene che le città liburniche vennero ascritteamministrativamente di fatto alla X regio Venetia et Histria fin dall'epocaaugustea. MassimilianoCerva, nel 1996, trattando della pacifica entrata liburnica nel nesso romano, se ne dichiara convintoin base a dati precisi e nuovi. La storia delle isole del Quarnaro lo dimostra.

Nel 33 a.C. è costituita la Provincia romana chiamata ora Illiricum ora Dalmatia, che fino il22 è Senatoria e poi Imperiale, Augusto stesso vi ha stabilito colonie e municipi estendendoviImmunitas e Jus italicum e insediando a Salona il Legatus Augusti pro Pretore. Risolta nel 9 dopoCristo l'ultimadifficoltà militare, per sei secoli la costa orientale dell'Adriaticovivrà in pacecontinua progredendo nella civiltà romana. Fino al 70 vi stanzieranno due legioni, la VII e la XI edal 70 la Dalmazia sarà Provincia inermis, senza presidio militare, affidata al rispetto e alla tuteladelle leggi e degli ordinamenti municipali gestiti nell'autonomia civica sul modello dell'Urbe.

Non stiamo facendo la storia sistematica dell'Adriatico e perciò qui fermiamo l'elencazioneincalzante di fatti e date che abbiano iniziato dal 290 a. C. ripercorrendo la romanizzazionesimultanea delle due sponde. L'abbiamofatta per evidenziare che non fu una sponda occidentale giàromana ab immemorabili a conquistare una sponda orientale ancora barbara e refrattaria allacivilizzazione romana, ma che, in uno stesso processo storico, un'unicamarea ha risalito l'Adriaticonella sua lunghezza, dilagando ad ondate sull'unae sull'altrariva fino a congiungerle a settentrionecon un solido arco, conchiuso dalla chiave di volta della penisola istriana.

* * *

La romanizzazione totale avviene subito, il che ne dimostra la predisposizione. Il lidoorientale è inteso da Roma come l'altra sponda del mare di casa, cioè l'estensionesul mare delterritorio metropolitano. In questa visione il territorio viene fortemente aiutato ad identificarsi,nell'aspettoe nel vivere civile, allo stesso centro dell'Impero,per costituire non una stazione

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periferica avanzata, ma la base stessa di supporto e riferimento per la conquista dell'Illiricooltremontano ben presto attuata fino al Danubio e poi al continente oltredanubiano che nella suaillimitatezza preoccupa la lungimirante previsione governativa.

La capillare deduzione di colonie, l'entusiasmo istro-dalmata per l'arruolamento nella flotta- notato dagli storici - e nelle legioni stanziate per il mondo, la conseguente forza sociale del cetodei veterani, la capillarità dei porti aperti ai traffici sicuri per la disciplina imposta all'anticaprepotenza piratesca, la rete viaria attuata su piano mondiale e la sicurezza delle leggi, con lacittadinanza romana, danno vita ad una lunga riviera civilissima e prospera difesa dalla barrieranaturale delle Alpi che continua ininterrotta, dopo i valichi carnici, costeggiando la fascia costierafino all'Epiro.Ville, aziende agricole e ittiche, collegano città cinte di mura turrite, ornate di porte,di archi, di templi, di palazzi, di fori, di acquedotti, di teatri, anfiteatri, palestre, ippodromi,biblioteche, scuole. Il commercio, l'agricoltura,la navigazione, promuovono l'artigianatoe l'arte.Città e vie si disseminano di statue, are, sepolcri monumentali. Ogni agro è inizialmente pianificatocon la città dalla centuriazione che la fotografia aerea ha oggi portato alla conoscenza quasi perfetta.

Il collegamento tra le due rive è funzionale e appaga l'attesadi convivenza prospera maturatain oltre mille anni. Il porto di Classe, sul lido di Ravenna ha il suo controporto nella baia di Salona ele sue sezioni staccate nel Nord e a Sud. Ossero, centro già liburnico sull'euripod'entrataall'arcipelagodalmata, che divide le isole di Crepsa - Cherso e l'attualeLussino, conserva capitellicompositi grandiosi, resti del suo aspetto importante di stazione di controllo marittimo dell'altoAdriatico. La grande estensione dell'esportazionecommerciale marittima è documentata dalleanfore di produzione istriana scoperte nel porto di Ostia.

Gli antichi parlari han ceduto al latino e tra archi, colonne, fori e basiliche civili e poireligiose, fiorisce la letteratura. La Dalmazia darà alla romanità Gerolamo, che ci teneva adichiararsi figlio della sua terra: ‘Son dalmata!’ Non diceva ‘sono Illirico’ ed era sincerissimoperché parlava a Dio: Parce mihi, Domine, quia dalmata sum! La sua Vulgata ha dato la lingualatina alla Chiesa di Roma. Nella lingua del grande dalmata il mondo occidentale ha appreso laparola di Dio. Prima e dopo il Padre della Chiesa Gerolamo la Dalmazia ha dato a Roma due Papi,Caio di Salona nel 283 e Giovanni IV di Zara nel 640. Ma ha dato anche Imperatori, il più celebre egrande, tanto preoccupato per i lo stato romano da ordinare la più sistematica persecuzione deicristiani per amore di Roma.

Il cristianesimo è arrivato e si è radicato già nel secolo apostolico. Durante la persecuzionedi Diocleziano si ha un esempio significativo della complementarietà e dell'integrazionechecontinua e aumenta tra le due sponde, nello scambio delle materie prime, della manodoperaqualificata, delle maestranze edili. Nell'ediliziamonumentale è la sponda istriano-dalmata a fornireimpresari ed esecutori al seguito dei marmi assai pregiati e richiesti in occidente. Allora il lungogolfo Adriatico era considerato quasi un canale transitabile a guado e fior di maestri dell'architetturaci lavoravano e v lavoreranno or qua or là con effettivo ‘pendolarismo’. San Gerolamo, scrivendo alsanto vescovo di Altino, Eliodoro, minimizza tanto il braccio di mare tra le due rive da definirlotantum fretum - nient'altro che un fosso!

Attorno al 301, Marino e Leo, maestri lapicidi dell'isoladi Arbe, si trovano a Rimini perlavorare la pietra portata dalle cave della loro isola. Stanno restaurando le mura della città ocostruendo un ponte nei pressi, quando li coglie la persecuzione ordinata dal loro corregionale che,proprio allora stava facendo costruire sulla costa di Salona il grandioso palazzo imperiale. Essendocristiani ben noti e Marino anche diacono, si rifugiano in cima al monte Titano. Leo passa in unaltro monte vicino e la matrona Felicissima dona il complesso roccioso a Marino che, morendo insantità, lo lascia al suo piccolo popolo di seguaci dando così inizio alla Repubblica di San Marino.Storia e leggenda, patrimonio sacro della più antica repubblica del mondo. L'urnain cui furonoposte le ossa del Santo è di autentica pietra di Arbe e la Repubblica ha coltivato sempre con l'isolarapporti di fratellanza. Lo scambio della pietra già lavorata o squadrata per facilitare il trasporto,

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avveniva da qualche secolo e continuerà nei periodi di fervore edilizio per esplodere nelRinascimento.

Il mausoleo di Teodorico arriverà, dopo l'impero,dall'Istriaa Ravenna, a pezzi pronti per ilmontaggio, compresa la pesantissima cupola monolitica. Tutta Venezia è di pietra d'Istria:piazze,campielli, calli, rive, dighe amare, porticati, loggiati, balconate e polifore. D'altronde,come potevamancare la pietra tra tanto traffico di legname e di legna, di sale, di olio, di vino, di granaglie, dicarne affumicata, di lana, di panno di rascia e di tutto il trasportabile in qua e un là e per traverso dae per il Levante, l'Oriente e Aquileia, porto dell'Europa continentale?

* * *

La pietra e i lapicidi ci hanno portato all'architetturae dobbiamo entrarci perché lamodellazione degli spazi urbani e la forza dei loro stili è lo specchio più significativo di ogni civiltà.Limitiamo la panoramica monumentale della romanità più vistosa, di Pola nell'Istriae di Zara,Salona e Spalato nella Dalmazia.

Pola

Ha scritto Mario Mirabella Roberti, ultimo sovrintendente ai monumenti di Pola italiana:“Pola, insegna di Roma sull'Adriatico... dopo Roma, più che Verona, ... ed altre città ... d'Italiaed'Europa,... può mostrare quasi tutte le architetture antiche. Le opere della difesa e dello svago: dueporte, un largo tratto della cinta murale, un anfiteatro e due teatri; le opere della fede edell'esaltazioneonoraria: due templi e un arco,. le opere dell'utilitàpubblica e della devozione aitrapassati: una grande conserva d'acqua,un ninfeo e un mausoleo ... Mostra ... chiaramente tuttora iltessuto connettivo che collegava i grandi edifici antichi, l'impiantourbanistico romano ... Ed è aPola non l'incrociarsitradizionale delle strade, ben noto in molte altre città, ma una disposizione cheè unica nel mondo romano, con le vie radiate tutt'intornoal colle in cui la città è costruita, dallacima alla breve fascia di terra che vi è al piede bagnata in gran parte delle acque del porto, dove frala collina e le mura passa la via decumana”.

Pola può esibire un buon tratto di evoluzione storica e stilistica dal periodo post-Cesareo alpieno Impero fino e oltre l'epocaFlavia e l'haesibito a tutti i grandi architetti e trattatisti delRinascimento che vi hanno ricavato disegni e proporzioni.

La Porta d'Ercole; con la testa del mitico eroe, con arcata possente che ricorda ancora leporte etrusche, risale al 40 avanti Cristo, due anni dopo che il nome d'Italiafu esteso al settentrioneed è la costruzione romana più antica di tutta l'Italiasettentrionale. Ostenta la scritta dedicatoria aiduoviri della città L. Calpurnio Pisone Cesonino suocero di Cesare e L. Cassio Longino fratello diun uccisore di Cesare, personaggi patrizi di primissimo piano venuti in Istria in seguito alle guerrecivili e alle proscrizioni da Roma. Due torri rotonde la scortano. Altre torri rotonde e quadrilateresporgono in rudere da una seconda cinta di mura più ampia, di epoca tardoromana e ci colleganoidealmente al Palazzo di Diocleziano costruito a Spalato. Su queste mura s'aprela Porta Gemina adue fornici che indirizzavano al colle e al teatro minore.

I due archi sono identici, serrati da pilastri con colonne di stile composito ionico-corinzio.Sopra il bel cornicione in origine s'alzava un timpano triangolare a frontone. Manca l'iscrizionesulla lunga tabella e perciò l'etàdell'operaè deducibile solo dallo stile riconducibile agli imperatoriAntonini. Un'altraporta, a tre fornici, fu distrutta alla metà del 1800 assieme alle mura sacrificate al... progresso che allora si riduceva ai bei viali per le passeggiate in carrozza della gente bene comeaveva insegnato Vienna. Somigliava ed era probabilmente coeva della Porta dell'Arco augusteo diFano sulla riviera marchigiana.

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La porta trigemina era collegata da una via all'Arco dei Sergi dedicato, all'ingressodella viaDecumana, da Salvia Postuma, nobile patrizia, in onore del marito Lucio Sergio, del figlio LucioSergio Lepido - tribuno militare della XXIX legione distintasi ad Azio dalla parte di Antonio - e delgenero Cneo Sergio, tutti le tre edili e duoviri della colonia di Pola. I Sergi erano arrivati a Polaperché invisi nell'Urbe come gente di Catilina.

La ricchissima e finissima decorazione a rilievo con scene e allegorie, d'armi, sfingi, delfini,viluppi di fogliame con grappoli e uccelli vivaci, rivela lo stile naturalistico e arioso della sculturaaugustea e ricorda l'Ara Pacis di Roma che però è posteriore. Il fregio d'armi è il più ricco che siconosca dopo quelli del portico di Atena a Pergamo. Nel Rinascimento sarà modello agli scultoriricamatori di pilastri stipiti e soglie, attivi in Italia e in Europa.

Ma l'originalitàdell'Arcodei Sergi sta nelle colonne binate, cioè poste sporgenti a due a duedavanti ai pilastroni di sostegno dell'arcata,su propri distinti piedistalli e con propri segmenti ditrabeazione superiore. Le colonne, scanalate, sono corinzie e le foglie dei capitelli sono tagliate coneffetto di forte chiaroscuro. Il motivo delle colonne binate ha interessato molto i grandi dellaRinascenza. L'arcofu disegnato e misurato, alla metà de11400, da fra'Giocondo da Verona,maestro di Raffaello, e da lui per primo esibito al mondo.

Michelangelo nel 1500 ne ha eseguito un disegno particolareggiato con le indicazioni dellemisure. Battista Sangallo fratello di Antonio autore del celebre ‘modello’ di S.Pietro e traduttore diVitruvio, ne ha rilevato il disegno ora agli Uffizi di Firenze. Giovanni Maria Falconetto, veronese,che girò l'Istriain lungo e in largo, ne eseguì il disegno per il suo mecenate Alvise Cornaro diPadova, Baldassare Peruzzi lo studiò e Sebastiano Serlio lo riprodusse nei suoi celeberrimi 7 libridell'Architetturae Prospettiva. E riconosciuto che tutte le colonne binate dal 1400 in poi derivanodall' Arco di Pola a partire dall'arco aragonese di Napoli lavorato dal dalmata Laurana.

Allo stesso periodo augusteo risale il tempio di Augusto a Roma, elegante edificio sacro sualto basamento con gradinata d'accesso alla facciata costituita da portico con quattro colonne acapitelli compositi ad alto fogliame corinzio. Fu l'unicomonumento romano d'Italiacolpito da unabomba d'aereo.La notte del 3 marzo 1944 ebbe squarciato il timpano e il tetto e divelte le colonne.Il restauro fu immediato e preciso, pur nell'angoscia di quei due anni tremendi che si conclusero nel'47con la consegna di Pola, fino ad allora occupata dagli anglo-americani, alla armata iugoslava diTito, dopo l'esododella città. Un grande insegnamento di civiltà che agli italiani nessuno ha volutoancora ricordare.

Il tempio formava, in coppia con uno gemello, ai lati di uno più grande, il ‘Campidogliodella città’. Porta scritto: Romae et Augusto Caesari divi f(ilio) Patri Patriae. È dell'epocadellanascita di Cristo. Lo spirito è perfettamente romano, ancora repubblicano, e richiama la forza deltempio della Fortuna virile di Roma. Le proporzioni classiche sono perfette.

Come nessun'altracittà dell'Italiasettentrionale, Pola aveva due teatri adagiati alla greca sulpendio di un colle: uno entro le mura ed uno fuori. Ne restano le tracce e i ruderi tra case ecostruzioni. Nel 1543 Andrea Palladio e nel 1550 Sebastiano Serlio ne hanno misurato e valutatocon grande scrupolo le rovine allora ancora eloquenti, soprattutto del teatro maggiore.

Ma l'emblemadi Pola e la corona dell'Adriatico romano è l'anfiteatrochiamato, come aVerona, l'Arena. La cinta perfettamente conservata misura di circonferenza m. 327. Ha 4 torriscalarie sporgenti che ne costituiscono l'originalità.È il sesto anfiteatro d'Italiadopo il Colosseo equelli di Pompei, Pozzuoli, Capua e Verona. È il maggiore dell'Adriatico.Il primo anfiteatro, diAugusto, fu ingrandito nell'epocadi Claudio e - pare - finito nell'epocadi Vespasiano. I visitatoridel 1500 testimoniano delle tombe polesi a pianta centrale. Ne rimane oggi una sola, ottagonale eunica. Rimangono i gradini a ferro di cavallo della fonte d'acqua‘Ninfeo’ e le volte a botte dellagrande cisterna a tre navate, capace di 600 metri cubi di riserva d'acqua.Dell'acquedottoè affioratala testimonianza di una scritta.

La ricchezza di architetture di tutta l'Istriaromana era straordinaria e lo rimarcherà, unsessantennio dopo la caduta dell'Imperod'Occidente,il letterato ministro del Regno d'Italia

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barbarico M.A. Cassiodoro scrivendo da Ravenna ai tribuni della X Regio italica: “Ville di livellopretorio che splendono in lungo e in largo, appaiono disposte come perle per dar testimonianza deigusti raffinati degli antichi di quella provincia che appare ornata di tante architetture”.

La vastità del sepolcreto romano colpirà Dante che ne lascierà nota nell'Inferno:“Fanno isepolcri tutto il loco varo / Sì com'aPola presso del Carnaro / Ch 'Italiachiude e suoi terminibagna”.

ZaraZara non conserva i suoi notevoli monumenti se non in una miriade di reperti architettonici e

scultorei per mezzo dei quali si è potuta fare comunque una ricostruzione abbastanza precisasoprattutto del Foro. I grandi bombardamenti del 1943 e 1944 han fatto piazza pulita di tanti restiromani, assieme a quelli veneziani e moderni, sfigurando la bella città che però è ancora impostatasulla pianta romana a scacchiera castrense. L'agromostra chiari i segni della centuriazione romanain quadrati di 710 metri per lato. Sorge sull'estremitàdi una penisola parallela alla sponda diterraferma e già al tempo romano aveva un vallo che la isolava, sul quale s'ergevauna grandemuraglia che andava da parte a parte perpendicolare al mare. Il grande muro antichissimo, a massirobusti diseguali ma a perfetta coesione, si apriva al centro in corrispondenza della via cardinalemaggiore. La porta era bella come un arco di trionfo a tre fornici. Era quindi trigemina e scortata dadue possenti torri ottagonali tipiche in questa funzione anche a Roma, ad Altino città romana sulciglio della laguna veneta, a Pola, a Salona e sulla cinta del Palazzo di Diocleziano a Spalato. C'eraun'altraporta piccola, verso il mare aperto, scortata da una sola torre quadrata. Dalla parte opposta aquesto muro di difesa, verso la punta sul mare, ad ovest nella scacchiera urbana, si stendeva l'areadel Foro e del Campidoglio mentre a metà, verso la riva interna, si apriva il piazzale del mercato. IlForo, rettangolare, era tutto circondato da un edificio quadrilatero con finestre su due pianiall'esternoe con un portico colonnato continuo all'interno.Il Foro era diviso in due parti, una, difondo, eminente di ben due metri sull'altrae cinta di porticato ad un sol piano, mentre la parteiniziale più ampia era attorniata da porticato a due piani. Al centro della parte alta si innalzava untempio con colonnato esastilo prostilo a due file di colonne. Il tempio era ampio, alto sul rialzo delforo ed ulteriormente sopraelevato su un suo basamento a gradinata anteriore. Aveva tre porte dientrata sulla facciata, con tre navate interne, come il Partenone di Atene. La Piazza più vasta ai piedidel tempio era dominata da due grandi colonne eleganti di funzione onoraria. Una delle colonne haresistito anche ai terribili bombardamenti ed è ancora in piedi scorticata ma possente. Rimangonoancora i gradini laterali del porticato, molte basi e alcuni mozziconi di colonne. Il Campidoglio eratutto di marmo fine decorato da altorilievi.

La piazza stranamente si presentava come la piazza san Marco di Venezia con le Procuratie(gli uffici pubblici) ai lati sollevate sui colonnati, e San Marco (il tempio) dominante al capo dellapiazza. Vi era accanto la basilica civile adibita alle assemblee politiche e giudiziarie. Il tempio, del Isecolo a. C., era dedicato ai tre protettori di Jadera, i massimi dell'olimpo,Giove, Giunone eMinerva. Rimangono bassorilievi e rilievi di ghirlande e mascheroni, volti di Giove Ammone, dellaMedusa e di altri dei ed eroi della classicità. Il complesso del Campidoglio si è sviluppato tra il I edil III secolo d.C. La piazza del mercato aveva un arco monumentale che dal 1500 è conservatomurato sulla porta di città. L'urbs dalmatina Jadra aveva due acquedotti, il più grande lungo 35chilometri, fino al lago di Vrana. Restano tracce di due necropoli e di un anfiteatro fuori dalle mura.Sull'areadel foro sono stati costruiti la chiesa bizantina di San Donato, il palazzo vescovile enumerosi edifici della città medioevale.

Ciò che non è riuscito a fare il fluire normale della storia sovrapponendo le epoche sullostesso rettangolo urbano stretto per tre lati dal mare, han fatto le bombe della guerra mondiale…diliberazione 1943-45, in base al programma predisposto nei decenni tra le due guerre, quando ilpoeta Vladimir Nazor che volle essere il ‘D'Annunzio croato’ educava i nuovi iugoslavi con i versi:

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“Ridurremo in frantumi nel nostro territorio le pietre della città nemica dopo averla distrutta, e legetteremo in fondo al mare dell'oblio. Al posto di Zara distrutta sorgerà la nuova Zadar”.

SalonaSalona non esiste più dal VII secolo dopo Cristo quando la metropoli madre di imperatori, papi,martiri e patriarchi venne rasa al suolo dalla marea avaro-slava. La sua vitalità pluricentenaria fumutata d'untratto in una enorme cava di pietre, di opere d'artescultorea frantumate, di teste mozzedi marmo, di statue mutile e divelte, di basiliche cristiane appena costruite durante gli ultimi due se-coli, profumate e arse, di sepolcri scoperchiati.

Pure apparentemente internata, era città sul mare perché vi penetrava un fiordo marinoprofondo. Romana dal 119 a.C., era stata elevata da Augusto a Colonia Julia Martia. I veteranidelle legioni salonitane colonizzarono tutto l'illiricofino al Danubio. Il massimo sviluppo lo ebbetra il III ed il VI secolo in concomitanza con la decadenza generale dell'impero.Era rinomata edinsuperabile per l'industriadelle armi. Per fuggire ai Longobardi, Salona era stata scelta daiBeneventani e da molti della costa occidentale, quale rifugio sicuro. Anche gente dell'Istriae dellaVenezia risulta essersi trasferita allora nella capitale della Dalmazia.

Anche Salona aveva la porta principale trigemina, a tre fornici, come Zara e Pola, alta 8metri, tra due torri ottagonali robuste. Gli imperatori Costanzo e Marco Aurelio abbellirono la cittàe l'ampliarono cingendone le mura di torri nuove per renderla sicura dall'attaccodei Marcomanni, iprimi barbari pericolosi. Rimangono i resti delle terme del II secolo con le fondamenta delcalidarium e tracce dell'acquedotto.L'Anfiteatro di Salona risaliva al 150 d.C. circa ed aveva unporticato aggiunto tra i secoli IV-V. Poteva contenere dai 15 ai 20 mila spettatori. Di età augusteaera il Teatro presso il mare accanto ad un tempio prostilo.

Numerose e complesse erano le basiliche paleocristiane costruite dal IV al VII secolo. Anchel'architettura cristiana fu ridotta alle fondamenta. I Salonitani si rifugiarono nel vicino palazzo diDiocleziano che, divenuto loro residenza fissa, diventò Spalato. Con una leggendaria sortita fupossibile trarre dalle cripte sepolte sotto le macerie i corpi venerati dei martiri e il papa GiovanniIV, zaratino, ne volle le reliquie che sono conservate al culto universale nella basilica di SanGiovanni in Laterano di Roma dove sono state allora portate con grandi cerimonie e dovesplendono, ritratti in piedi in lunga teoria ai lati di Maria e sotto il grande Cristo benedicente tra isimboli degli Evangelisti. Il celebre mosaico raggruppa assieme sia i Martiri salonitani sia gliistriani, quasi in una previsione del comune destino delle loro terre che li rende significativamenteattuali.

SpalatoNato a Salona o nella vicina Dioclea, l'imperatoreDiocleziano, tra la fine del 200 e l'inizio

del 300 d.C., si costruì uno splendido Palazzo, dove oggi è, come abbiamo detto, la città vecchia diSpalato. Vi si stabilì nel 305 e vi morì nel 313. Vissuto a lungo a Nicomedia, si è pensato abbiafatto progettare il palazzo da architetti orientali, come Traiano aveva fatto per il suo Foro in Roma.Lo stile è comunque quello ufficiale del tempo.

Il Palazzo è una costruzione fra la villa di lusso ed il campo militare romano con elementi dicittà ellenistica. E rimasto pressoché intatto per molti secoli. Dopo pochi anni fu preso a modelloper quello di Costantino nella nuova capitale Costantinopoli e poi suggerirà forme ai monasteribenedettini medioevali, ai maggiori castelli e palazzi isolati dei regnanti e dei grandi feudatari, allecittà murate medioevali di impianto castrense romano, fino all'Escorialedi Carlo V a Madrid e allemaggiori regge. La pianta è un rettangolo impercettibilmente sghembo per l'adattamento alla formadel suolo, di 180 metri per 215. La superficie occupata è di circa 30.000 mq. Tutto il complesso ècinto da una muraglia alta 17 metri dalla quale sporgono all'esternoquattro torrioni quadrati aiquattro spigoli e due torri rettangolari leggermente più piccole su ciascuno dei tre lati di terraferma.Il quarto lato è sul mare. Al centro di ciascuno dei tre lati di terraferma c'è una porta cui fanno scor-

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ta due torri ottagonali, la porta aurea, la porta argentea e la porta ferrea. L'aurea è la principale,posta a monte. Sono massicce, ad arco, e la muraglia su cui s'aprono termina con una cornice diarchi ciechi alternati a finestre cieche. Il motivo è usato in Roma nelle coeve terme dello stessoDiocleziano, nella Curia e nel tempio di Venere e già annuncia quelle che, dopo l'interruzionebarbarica, saranno le finte arcate dello stile romanico. Il lato sul mare era in origine tutto bagnatodalle onde ed era liscio e solare. Si apriva sul piano superiore in un'unicalunga balconata ad arconisu pilastri ritmati da pseudo-colonne. La balconata s'impennavaformando quel motivo che saràripreso nel 1500 da Sebastiano Serlio e, col nome di Serliana, verrà usato dal Palladio rimanendo diuso costante.

Una unica porticina, oggi chiamata bronzea, si apriva semplice su un imbarcadero di pietrache serviva da rivetta d'ormeggiosull'Adriatico verso il mondo intero. Tra le tre porte passavano ledue strade esterne che dentro il Palazzo s'incontravanoperpendicolari a formare il Cardo e ilDecumano. Mentre il Decumano andava da porta a porta, dividendo trasversalmente il complesso indue, il Cardo procedeva di poco oltre all'incrocioformando il mirabile Peristilio e si fermavadavanti al protiro della residenza imperiale. Le due vie principali dividevano il tutto in tre parti: ledue simmetriche a monte, erano destinate una ai soldati della grande guardia e l' altra ai funzionari eagli impiegati. Dal Decumano fino al mare si stendeva tutta la terza parte, ufficiale rispetto alle altredue.

Il Peristilio è ancor oggi accompagnato ai lati da due colonnati corinzi senza architraveperché sui capitelli poggiano direttamente i piedritti degli archi. Non è un motivo nuovo e orientaleperché è visibile anche nelle decorazioni parietali a motivi architettonici di Pompei. Il motivo èsegno evidente che la logica costruttiva romana classica stava evolvendosi nelle forme chetroveranno attuazione tipica dopo un paio di secoli nell'architetturabizantina. Il vigore spazialedioclezianeo rivivrà col Brunelleschi di Santo Spirito di Firenze oltre mille anni dopo. Il Peristiliotermina nel Protiro tutto facciata nel quale il frontone triangolare comprende un'arcata centrale tradue paia di colonne unite in alto da segmenti rettilinei. Filippo Brunelleschi, o chi altro ne è stato ilprogetti sta (oggi c'è discussione) riprenderà il motivo sulla facciata della Cappella Pazzi di Firenze.Ai lati del Peristilio, oltre le divisioni ideali dei colonnati, s'apronodue spazi rettangolari dentro iquali da una parte s'alza la cappella palatina, tempietto di Giove pro stilo tetrastilo con soffitto abotte decorato a cassettoni di vivo marmo, e dall'altral'edificio ottagono porticato del Mausoleoche Diocleziano volle costruirsi per rimanere nel suo palazzo anche da morto, protetto nel sonnoeterno da due sfingi misteriose di granito egiziano. Il disegno verrà raccolto nel Rinascimento forseda Luciano Laurana e passerà alle ‘rotonde’ disegnate nelle piazze delle città ideali, dipinte, se nondallo stesso Laurana, da Francesco di Giorgio Martini che lo frequentò ad Urbino, da Piero dellaFrancesca e sui fondali prospettici di Perugino e Raffaello.

Il Protiro immette in un grande vestibolo circolare con cupola, tuttora in piedi. Dal vestibolosi accedeva alla grande sala delle udienze solenni, all'appartamentodell 'Imperatorecon la vasta ericca biblioteca, e alle sale della famiglia imperiale. Dappertutto erano fregi scolpiti, pavimenti dimosaico e mosaici parietali. La cupola splendeva di un unico grande mosaico. Non mancavano leterme e l'acquedotto,alto e slanciato sulla campagna, ora in parte ancora utilizzato. Nel palazzo,dopo la morte di Diocleziano visse la moglie Prisca con la figlia Valeria e poi abitò Galla Placidiache nell'altroversante, a Ravenna, si è costruita il piccolo mausoleo a croce greca con i mosaicisimili a quelli perduti di Spalato. Vi hanno vissuto altri imperatori, come Glicerio che il Papa avevanominato vescovo di Salona poi che era stato deposto da Giulio Nepote. Quando Giulio Nepote asua volta lo raggiungerà, verrà accolto con grande cortesia e fatto fuori con altrettanta speditezza.Anche Glicerio farà la stessa fine per mano dei seguaci di Giulio Nepote. Tutto procedeva liscio trale due sponde.

Il primo vescovo di Spalato sarà un adriatico occidentale, Giovanni da Ravenna chetrasformerà, senza toccarne le strutture, il mausoleo del grande imperatore in chiesa cattedrale, ed iltempietto di Giove in battistero. Una miriade di architetti e scultori ha attinto forme e ispirazione

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dal grande monumento e ne parlano trattati, storie dell'arte,guide turistiche, cronache antiche epubblicazioni moderne della costa occidentale che per lunghissimi secoli si è fatta illuminare dalmessaggio di Roma che splendeva sulla costa orientale, dove appunto sorge il sole sull'Adriatico.

Il periodo bizantinoDopo Roma ed il regno d'ltalia‘barbarico’ di Odoacre e di Teodorico, regno che aveva compreso laDalmazia, tutta la costa da Ravenna a Grado, dell'Istriae della Dalmazia, era entrata nell'orbitadell'altraRoma, Costanti-nopoli-Bisanzio che dalla sede esarcale di Ravenna, costituita nel 569mantenne viva l'antica romanità nella reciprocità totale tra le due sponde. Quando Ravenna fuscossa dalle discordie religiose, l'imperatoreGiustiniano, ordinatore del Diritto romano, mandòvescovo a Ravenna, capitale effettiva dell'Italiae di fatto della stessa Chiesa occidentale, il preteMassimiano di Pola che in breve seppe imporsi e farsi amare e obbedire per la sua saggiaautorevolezza. Quel Massimiano che splende sui mosaici delle maggiori basiliche ravennati e in SanVitale è ritratto con l'imperatoreGiustiniano alla cerimonia della consacrazione del tempio, diprospetto all'imperatriceTeodora col suo seguito, è un istriano della Decima regione italica. Anchealtri istriani e dei dalmati furono arcivescovi della Ravenna bizantina.

Come a Ravenna, così a Parenzo, insigne sede vescovile dell'Istria,sorse la basilicaeufrasiana e pur questa splende ancora di mosaici romano-bizantini. È a pianta basilicale romanacome la ravennate S. Apollinare in Classe consacrata 5 anni dopo ed ha costituito il ponte tral'architetturae l'artebizantino-ravennate e quella della basilica di san Marco in Venezia, molto piùtarda e di aspetto e spirito del tutto orientale. Quando tutto il Veneto era chiamato Longobardia, lacosta lagunare veneta, con l'Istriae la Dalmazia marittima erano chiamate Romània e gli abitantiRomani, dai greci Romànoi. Allo stile romano-bizantino non ha aderito solo Ravenna, con la Pugliae l'Istria,ma logicamente anche la Dalmazia. Ricordiamo l'edificiopiù significativo, il San Donatodi Zara. Scrive il Lavagnino: “Si collega direttamente all'arteravennate ... la chiesa rotonda di s.Donato a Zara, probabilmente edificata tra l’801 e 1l’804. La bella costruzione, che ha giro giro undeambulatorio sostenuto da forti pilastri, matroneo, e tre absidi all'esternoarcheggiate, ha vivissimipunti di contatto con quelle di S. Vitale di Ravenna e del Duomo di Aquisgrana, che venivaconsacrato appunto nello stesso anno 804. Dati gli scambi anche allora continui tra la Dalmazia el'Esarcato,non v'ènessun bisogno di spiegare la costruzione del S. Donato come derivazione daedifici orientali o addirittura dalla chiesa tedesca, come ha voluto far credere qualche studioso, ma èmolto più logico, semplice e opportuno riferirla appunto a s. Vitale di Ravenna.

San Vitale di Ravenna era stata iniziata nel 521, prima dei SS. Sergio e Bacco (528) e diSanta Sofia (532) di Costantinopoli. È significativa la origine ravennate di S. Donato tardiva di 3secoli ed iniziata quattro anni dopo l'inizioad Aquisgrana della cappella palatina del rinato ImperoRomano d'Occidente.

L'invasione barbarica e la resistenza costieraNessuno contesta l'arrivo della romanità intatta al VII-VIII secolo, sulla sponda orientale

dell'Adriatico ma pochi riflettono che, girando tutto attorno il mare che circonda la penisolaitaliana, solo la costa istriano-dalmata ha mantenuto viva, assieme a quelle pietre, la civiltà e lacultura romano-italica fino al nostro secolo, così come è avvenuto nella Penisola stessa.

Nell’ VIII secolo si compì il dramma immane dell'ultimainvasione barbarica calata sulmondo romano, la più rovinosa. Gli Avari sono scesi da oltre il Danubio sull'Illiricoo Dalmaziacontinentale, portandosi dietro gli Slavi precedentemente sottomessi, e li hanno poi lasciati padronidella vasta regione. Di nessuna invasione, dopo quella fugacissima di Attila, è stato scritto daicontemporanei in toni tanto catastrofici. Fu un oceano di sangue, la distruzione totale di cittàcivilissime, l'annientamentoumano sistematico, secondo il programma genetico di quelle orde.L'ondata,di origine carpatica, aveva raggiunto le creste degli alti monti e lì si era fermata, pare

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terrorizzata dal mare. Il Papa Giovanni IV, dalmata di Zara, mandò da Roma carri di denaro d'oroeargento per riscattare quanti cristiani poté.

Questa tremenda pagina di pulizia etnica e civile è di fatto esaltata con entusiasmopatriottico della storiografia nazional-razzista degli slavi del sud, almeno da centocinquant'annicioè da quando han deciso di completarla. Ai Dalmati italiani, e per estensione anche agli Istriani,essi obiettano che i loro avi hanno sterminato uno ad uno tutti i dalmato-romani e che, diconseguenza, il seme italico non è autoctono, ma importato dai veneziani a partire dall'anno1000quando, secondo loro, il doge Pietro Orseolo II strappò la Dalmazia ad un regno slavo, più miticoche storico, che in una decina d' anni avrebbe assunto tutti i diritti di sovranità razziale, di prima e didopo, in perpetuo. Questo mostruoso diritto storico di conquista per sterminio sarebbe statoereditato dopo secoli e secoli dagli occupatori calatisi dai monti dopo il 1918 e il 1945. Agli esodiha corrisposto infatti una enorme calata al mare dalla Balcània oltremontana.

Dallo sterminio e dalla distruzione avaro-slava sono invece rimaste illese le piccole cittàsulle isole e le più grandi città sugli estremi promontori peninsulari. Non sta qui ricordare i tantitestimoni autorevoli quali, tra gli altri, Costantino Porfirogenito Imperatore di Bisanzio, che nel 950circa, scrivendo per il figlio erede il trattato De Administrando Imperio, elenca con chiarezza tutte lecittà rimaste romane e abitate da romani di lingua latina.

C'èun filone storiografico che accetta quanto dice il Porfirogenito, ma aggiunge che dopomezzo millennio la pressione slava, pur pacifica, fu tale da snaturare la latinità popolare che poisarebbe rifiorita nell'italicitàimposta dalla presenza veneziana. Trieste, Fiume e Ragusa, nonveneziane, dimostrano il contrario. Le città municipali ed episcopali marittime resistettero e siimposero anche ai re ungari quando fagocitarono il regno croato subito dopo il 1000 ... ereditando aloro volta i suoi ... diritti. Con la forza del coraggio, col lume della civiltà e con la sapienzamarinara, le città marittime imposero rispetto così come Venezia lo impose, dalle sue lagune, allasua terraferma padano-veneta-friulana invasa dai Longobardi. Come i Longobardi hanno dato ilnome alla Longobardia-Lombardia che si stendeva fino alla conterminazione lagunare di Venezia,così gli Slavi hanno dato nome alla Schiavonia discesa fino agli anfratti più interni del mare, apirateggiare dalla foce del Narenta. Come fu distrutta Aquileia e nacque Venezia, così fu distruttaSalona e nacque Spalato.

L'Istriafu un'eccezione,sia rispetto al Veneto che rispetto alla Dalmazia; la X Regio italicacontinuò nella penisola istriana e nella ‘Venetia marittima’ (lagunare). L'Istriasubì una fugacepresenza dei Longobardi che spinsero gente a trasferirsi oltre Adriatico, in laguna o a Ravenna.Nell'alternarsidelle scorrerie aliene, molti ravennati presero invece la strada inversa. Stanchi diessere taglieggiati dalla pirateria narentana che era arrivata a pretendere il praetium pacis dallastessa Venezia, Veneziani e Dalmati s'accordarono,con il placet dell'Imperatored'Oriente,eVenezia, dal 1000 in poi sposò il mare Adriatico in segno di dominio. La vitalità municipale di cittàmarittime e commerciali come Zara conservò forte autonomia per qualche secolo, patteggiando conAncona e con Pisa, allora repubblica marinara che soccomberà a Genova. Zara soccomberà aVenezia. Ma le città dalmatiche che si trovavano Venezia sul mare, si trovavano però l'Ungheriasulcontinente, che voleva arrivare al mare per legarsi in Adriatico al regno di Napoli frontaliero dellaDalmazia con la sponda meridionale dalla Puglia in su. Tra le due corone si arriverà allaconsanguineità di Casa d'Angiò. Anche questa è storia dei rapporti tra le due sponde.

Le forti comunità adriatiche manifestarono in quegli scontri-incontri tutta la loro esuberanzamunicipale romana evolutasi nella fierezza mercantile dei liberi comuni italici.

Il Romanico a ZaraA dimostrare che la Dalmazia non è stata una colonia di Venezia, ma che invece la sua

civiltà si è espressa in forme italiche inizialmente indipendenti e legate alla sua profonda romanità,sono alcune opere straordinarie radicate nella stessa storia civica delle singole città.

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Tra l'XIed il XIII secolo, le città dalmate si svegliano nella prima rinascita mediterranea.Diventano noti i porti di Zara, Traù e Ragusa. Sorgono grandi cattedrali, a tre navate condizionateda preesistenti fondamenta paleocristiane, con tre absidi terminali e altrettanti portali sulle facciatein coerenza con gli spazi funzionali interni. Anche il grande tempio romano e la basilica civile diZara erano a tre navate con le rispettive porte! Si elevano campanili ora massicci, ora più eleganti,di lato e isolati dalle loro chiese, o sdoppiati e simmetrici sulla facciata come a S. Pietro e Mosènella Salona ormai ricostruita quel tanto che bastava a ripristinare il culto dei luoghi santificati daimartiri. È molto interessante il rarissimo culto di San Mosè – o Moisè – coltivato, con grandeimportanza, a Spalato e a Venezia dove parrebbe essere stato addirittura l'originariosanto patronodella città.

Dal secolo 1100 al 1300 il Romanico trionfa a Zara e a Traù, ma non c'ècittà costiera oisolana dove non lasci traccia di sicura originalità. A Zara viene costruita la Cattedrale di SantaAnastasia, vigorosa nella coerenza strutturale. Ad ogni navata corrisponde il suo portaleprofondamente incavato con lunette scolpite a bassorilievo e statue su alte mensole sporgenti daglispigoli esterni, che rappresentano la continuità col tempio paleocristiano-bizantino sostituito. Unacornice sottile e forte, liscia, marca la divisione tra l'altozoccolo solare, e la parte superiore che-meraviglia per chi conosce gli stili ma non la storia della città - è tutto un gioco astratto dichiaroscuro, a tre fasce sovrapposte disuguali, in adesione all'esigenzadel profilo facciale a capannatripartita. Sono tre pseudo-loggiati romanico-toscani. La loro derivazione è pisana, con sfumaturestilistiche che a qualcuno hanno suggerito Lucca o Pistoia, per opinabili somiglianze formali deisingoli archetti. L'architettodella facciata ha espresso la sua maestria misurata di spirito tardoromano rivissuto in forme che rivelano ancora lievità bizantina in accordo con l'influenzamediterraneo-orientale presente a Pisa. Ma c'èanche Venezia, sensibile sia al bizantino cheall'orientale,nella fascia più bassa e più estesa, paragonabile al lungo loggiato sulle facciate coevedi Cà Loredan e del poi Fondaco dei Turchi, in origine Cà Pesaro.

All'internosfilano, parallele lungo la navata centrale, sopra i colonnati, le due logge delmatroneo a colonnine binate in armonia con le esterne corrispondenti ai lati del rosone. Va ricordatoche Zaratini e Pisani, il 28 marzo 1188 firmarono un patto di alleanza che ripeterono nel 1192-93assieme alla città di Pola, contro l'assolutismoadriatico di Venezia. Neolatini e italici sì, ma inparità di diritti! Venezia chiederà ai crociati, a parziale copertura del noleggio del viaggio inTerrasanta, di scendere a Zara e ... dissuaderla dai giochetti con i tirrenici. Il Papa quando lo sapràscomunicherà i veneziani e manderà da Ancona navi e armati a difesa degli Zaratini. Del mancatodestino con la repubblica di Pisa, resta a Zara la bella costruzione romanica che simili non ha pertutto l'Adriatico fuorché - attenti - proprio ad Ancona nella chiesa a tre navate della quale ha scrittoEmilio Lavagnino: “Un maestro Filippo decorava con file sovrapposte d'archetti ciechi la elegantefacciata della chiesa di Santa Maria della Piazza ad Ancona e l’edificio sembra riflettere, più che leforme pisane quelle del Duomo di Zara”.

Altra chiesa importante è San Grisogono, consacrata nel 1175, bell'esempiodi romanicofondamentalmente lombardo con qualche influsso pugliese nelle ampie superfici scandite da sottiliintagli di cornice. A Zara l'absidemaggiore di San Grisogono e il fianco della Cattedrale, terminanoin una galleria lombarda e le facciate delle due chiese sono ritmate, con evidente ricordo dellearchitetture pisano-lucchesi, da serie di colonnine e di arcatelle. A differenza della cattedrale, lecolonnine della facciata, che sono binate, formano oggi una fascia sola di pseudo-loggiato. L'altaloggia semicircolare a colonnette singole che circonda tutta l'absidemaggiore non può nonricordarci l'absidealtissima del Duomo di Parma, quella di Santa Maria Maggiore di Bergamo, maanche il più primitivo battistero di San Vincenzo e Anastasio ad Ascoli Piceno. Sul mare abbiamoqualcosa di somigliante a Santa Maria di Portonovo di Ancona ma soprattutto sull'absidedi SanDonato a Murano nella laguna veneziana.

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Romanico e Gotico a TraùA Traù, città fondata dai Greci come Ancona, che Plinio il vecchio ha chiamato Tragurium

civium Romanorum, fu dedicata al patrono san Lorenzo nel pieno 1200 una cattedrale romanica,gioiello e scrigno di gioielli in quella stupenda isoletta murata a città, allacciata alla infidaterrafenna da un ponte levatoio come molte antiche città costiere, da Chioggia a Grado, da Isolad'Istria, Capodistria, Rovigno in giù, Zara compresa.

La basilica è dalmaticamente a tre navate con le rispettive tre absidi e senza transetto. Incompenso del transetto ha un bell'atriodavanti alla facciata, non unico come idea se pensiamo asant'Apollinare in Classe, a Torcello di Venezia, alla stessa San Marco, al protoromanico diPomposa che è del 1026 e all'umilissimoe commovente romanico di Lugnano in Teverina nellaregione umbro-marchigiana. È unico di forma perché ha l'arconeprincipale in posizione lateralesicché la vera facciata della chiesa è lo spigolo sul quale s'alzail campanile che esternamentedomina il tutto. Intelligente scelta urbanistica condizionata dalla piazzetta. La costruzione della torrecampanaria che si è protratta per tutto il 1300, il '400ed il '500,presenta la cattedrale che le sta disotto e di dietro, come fosse di stile gotico quando invece la scatola muraria è romanica.

Il campanile ha il primo piano con due finestre per lato di stile gotico fiorito, come si puòtrovare nelle costruzioni pubbliche civili dell'Italiacentrale al di là dal mare di Traù. Il secondopiano è gotico pienamente veneziano: le due bifore per lato sembrano tolte pari pari da una facciatasul Canal Grande, inconfondibili perché il gotico a Venezia è stato longevo ed è entratotranquillamente nello stesso Rinascimento. n terzo piano non ha più le ogive, ma due bifore per latoche di gotico hanno conservato solo la lungilinearità ed il ricamo quadrilobato sopra gli archetti atutto sesto. La torre è tutta di marmo lavorato con somma finezza e termina nella grande piramidequadra come la cuspide del campanile di san Marco.

La chiesa è pienamente romanica, anche nella copertura a crociere delle navate. L'atrioètutto di marmo, ma il capolavoro è il portale, del maestro lapicida Radovano. È datato 1240 el'operascultorea è importantissima per il suo valore intrinseco ma soprattutto perché si pone all'origine della stessa nuova scultura italiana arrivata per via di Puglia a Pisa e da Pisa a Roma. Lastoriografia istriano-dalmata italiana è stata finora condizionata dalla avversa storiografia di rapinaiugo-croata. Di contro alla negazione delirante dell'italicitàveneziana delle nostre terre si è volutoalzare il muro difensivo della venezianità totale che non corrisponde alla verità storica completa.Un'opera storica uscita di recente come summa della partecipazione istro-dalmata alla civiltàitalica, presenta una biografia del Radovano assai deludente. Vi sono citati i due leoni chesorreggono, uno per parte, le statue di Adamo e di Eva, la ricca simbologia dei girali vegetali e dellefigure allegoriche; è riportata la foto del presunto autoritratto dell'autore,ma il commento si limita aqueste parole: “La critica ha notato la mescolanza di forme lombarde e forme veneziane el'influenzadell'Antelamidev'essereammessa, ed allora si può ammettere pure che Radovano vide lefigure e le allegorie di Benedetto Antelami nella porta maggiore di San Marco a Venezia: motivo dipiù per un accostamento e una dipendenza della scuola scultoria dalmata da quella veneziana”.Nient'altro.Con la totale sudditanza alla scuola veneziana (e non è vero che Antelami sia ilrappresentante della scuola veneziana) tutto dovrebbe quadrare.

L'originalitàdel portale di Traù, che per il resto è una bella e aggiornatissima edizione deiportali in gran voga in Italia tra il romanico ed il gotico, sta nella lunetta che rappresenta abassorilievo la Natività come Presepio. Nel 1240 sul lunettone del Duomo di Traù è stata scolpitauna complessa Natività che esibisce caratteristiche marcate delle Natività che solo dopo qualchedecennio saranno scolpite da Nicola e Giovanni Pisano a Pisa, a Siena e a Pistoia. Dopo un primoperiodo di acquiescenza al piatto bassorilievo bizantino, a figure emergenti da un fondo altrettantopiatto, e particolareggiate da solchi incisi, viene tosto avvertita in Dalmazia l'ariadi rinascitaromanica e poi gotica e preumanistica, e la scultura si arrotonda riprendendo la robusta plasticità,ispirata anche dagli evidenti contatti con l'arte lombarda e veneta ma soprattutto dal grandepatrimonio locale di architettura e scultura romana. Significativo è quanto scrive Vera Fortunati

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circa la basilica di san Nicolò di Bari iniziata nel 1087: “Se Roma era lontana e per quei tempipressoché irraggiungibile, il suo patrimonio artistico si poteva conoscere nella Dalmazia, a Spalato,zona familiare ai pugliesi nelle lunghe scorribande di traffici e commerci”.

Il lunettone del portale di Traù è stato scolpito 28 anni prima del pulpito di Siena di NicolòPisano, 62 prima del pulpito di Pistoia e del Battistero di Pisa di Giovanni Pisano. Arnolfo diCambio scolpirà le statue del Presepio di Santa Maria Maggiore in Roma 55 anni dopo, e Giottodipingerà la Natività di Padova dopo 65 anni. L'originalitàdella Natività di Traù consiste nel fattoche lo scultore ha posto i tradizionali motivi delle Natività bizantine distribuiti su una superficiesenza prospettiva, senza peso e fuori dall'ordine cronologico, in un ordine coerente con la mentalitàromano occidentale concretamente basata sul realismo della forza di gravità e sulla successionecronologica degli episodi.

È, lo ribadiamo, un forte momento di occidentalizzazione della figurazione orientale e ungrande rientro nella romanità, come nella Penisola non è ancora avvertito. Nell'angolaresinistrodella lunetta, le pecore e i caproni, due dei quali dan di cozzo per loro conto mentre i pastori siscaldano al fuoco, annunciano chiaramente la loro parentela con i caproni che Nicola Pisanoscolpirà 20 anni dopo a Pisa. Anche l'alberonell'angolare di destra, con le sue larghe foglie sultronco contorto, annuncia l'albero scolpito di Siena. La caratteristica del letto, della culla e delvigoroso Bambino lavato, impostati e pensati con realismo, prende corpo ancora più preciso aSpalato nel quasi contemporaneo e forse precedente di 20-30 anni, lastrone di marmo inserito su unafacciata del campanile della cattedrale. La Natività di Spalato offre qualcosa di più di una dura egoffa replica del timpano di Traù ricomposto in forma allungata come è stato di recente definito.Noi ci vediamo invece una forte e prepotente corposità ancora inedita ed uno stacco delle figure dalfondo. Il lavoro, che è di Radovano o meglio del Buvina, è un deciso inizio della composizionerealista in un unico ambiente con le figure saldamente piantate al suolo. Lo stesso realismo è nell'Annunciazione sullo stesso campanile. Per chi non lo ricorda, Nicola Pisano è nato in Puglia, forse aBari nel 1220, e si è trasferito a Pisa nel 55-'60.La Puglia era la prima regione della Penisola asentire la voce della scultura romana riproposta agli artisti dal grande re Federico II. I giovanipugliesi praticavano la Dalmazia perché era per loro l'altraparte del canale di casa. Come poteva ungiovane lapicida trascurare la conoscenza delle pietre romane così a portata di mano, e noninteressarsi di quanto si stava costruendo e scolpendo a Spalato e Traù? Nel 1240 Nicola aveva 18anni. Prima di trasferirsi a Pisa, ormai quasi quarantenne, ha visto la Natività di Traù e l'hadisegnata come s'usava,portando con se i disegni. Oltre al figlio Giovanni, è stato suo allievo ancheArnolfo di Cambio che porterà il messaggio a Roma.

Gotico e Rinascimento“L'arte gotica venne (in Dalmazia) adottata tardi e abbandonata presto per il Rinascimento,

stile verso il quale i dalmati dimostrarono una attitudine precoce. È naturale perche la Dalmazia eraed è densa di romanità”. Del gotico possiamo sì dire che è arrivato da Venezia. Sulle mille facciatedelle case rimarrà in auge fino a tutto il 1500 così come nella stessa Venezia dove si costruivanoancora balconate ogivali dopo che le opere del Sansovino erano scuola di Rinascimento al mondo.Per Venezia città e repubblica, più che gotico era lo ‘stile veneziano’ e con questo nome è statoriproposto a Venezia, in Istria, in Dalmazia, a Spalato e perfino a Trieste, alla fine del 1800 e nelprimo 1900. Il turista vede Venezia sulla costa istro-dalmata proprio per tanta dovizia di goticoveneziano sulle facciate delle rive e delle piazzette. Anche il gotico monumentale fu portato inDalmazia da veneziani, forse dalla notissima famiglia di lapicidi identificata col suo mestiere, Dellemasegne che vuol dire “dei macigni” cioè dei blocchi di marmo. Ma a Venezia lapicidi dalmatilavoravano già.

Emblematico del gotico dalmata è il Duomo di Sebenico, che è già però una grande operadella Rinascenza. A Sebenico era in costruzione la cattedrale almeno dal 1430. Vi lavoravano comearchitetti e scultori un Pier Paolo creduto Delle Masegne, e poi identificato per Busato, con gli aiuti

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Francesco di Giacomo e Lorenzo Pincino o Pincin, tutti veneziani. La chiesa stava sorgendo con lecaratteristiche del gotico di S. Stefano, San Giobbe e Santa Maria dell'Ortodi Venezia, unicadifferenza evidentissima il bianco della pietra locale più conveniente del laterizio. Oggi la cattedraledi Sebenico ha colonne e arconi della navata gotici sui quali scorre una fascia di cornice a fogliamein volute gotiche. Le pareti esterne delle navate laterali sono in parte di quel periodo e così il grandeportale della facciata. Gotico è anche il portale laterale chiaramente riferibile al portale di Traù delquale ripete anche i leoni reggi-colonne e le statue di Adamo ed Eva. È opera del dalmata Gregoriodi Antonio. Le statue sono di Bonino da Milano che in Dalmazia si trovava come a casa sua elavorava dappertutto assieme a tanti altri lombardi, toscani e d'altre regioni d'Italia.

Dopo dieci anni di lavori venne ingaggiato un nuovo Proto, Giorgio di Matteo da Zara cheaveva lavorato, in fama di artista provetto, a Venezia dove aveva messo su casa con moglie e figlisposando la veneziana Elisabetta, figlia del presidente della corporazione degli intagliatori in legno.Giorgio stava allora scolpendo per l'impresadei Bon, la famosa Porta della Carta del Palazzoducale. Adolfo Venturi sostiene che Giorgio è stato, tra gli allievi del Bon, il più evoluto verso ilRinascimento: “Questa forma evoluta dell'artedei Bon si trova in Giorgio da Sebenico, tantoevoluta da non aver riscontro in tutta l'Italiae in tutto il secolo XV”. A Sebenico, dove si trasferisceda Venezia nel 1441, viene indicato nel contratto come: Magister Georgius lapicida, quondamMathei de Jadra, habitator Venetiarum, ad praesens existens Sibinicj.

Egli imposta il suo disegno nuovo e già nel 1443 è in grado di incidere sulla pietra ilconseguimento della copertura delle absidi e del transetto con tetto e botte originalissimo: Hoc opuscuvarum fecit M(agister)r Giorgius Mathei Dalmaticus. La volta a botte è lavoro di pura sculturaperché è congegnata in tanti lastroni di pietra tutti uguali e ricurvi, posti uno accanto all'altroadincastro su costoloni d'appoggio.Non c'èintercapedine o soffitta sicché la stessa lastra incurvata sivede dall'internoe dall'esterno.Nel 1447 è a Spalato, dove scolpisce con grande vigore la cappelladel Rosario per le Benedettine e la cappella di S. Anastasio nella cattedrale, in simmetria a quella diS. Doimo eseguita da Bonino da Milano. È molto celebre la formella della flagellazione con lefigure vigorosamente animate e colte nell'attimo fuggente, paragonata al Donatello di Padova.

Nel 1451 è a Zara dove fa estrarre e sbozzare pietre delle cave locali, su richiesta di LeonBattista Alberti che a Rimini, sull'altrasponda, sta costruendo il Tempio malatestiano ricoprendo lapreesistente chiesa gotica di san Francesco di un involucro ispirato all'architetturaromana antica.Con l'Albertiè dunque in contatto di collaborazione forte e non può aver svolto le delicate funzionisenza avere tra le mani una copia del progetto del tempio. Con l'Alberti, o quantomeno colcostruttore dell'Alberti,Matteo de Pasti, non può non essersi incontrato e non può non aver visto ilmodello. Le pietre venivano lavorate prima dell'imbarco. Vincenzo Fasolo scrive: “Fattointeressante questo, per la conoscenza che egli acquista dell'artedi quella chiesa e dell'Albertichedobbiamo annotare per la coincidenza, probabile, del terminale tricuspidato della facciata, del qualeGiorgio poté avere visione dal modello”. Qui entra in discussione la originale facciata di Sebenicoche termina appunto non a capanna puntuta, ma a semicerchio perfetto sul prospetto della navatacentrale, e ad archi di cerchio sui prospetti delle navate laterali.

Giorgio assume quale primo collaboratore il già rinomato Nicolò Fiorentino, allievo delDonatello. li Fiorentino ne continuerà l'operae completerà la copertura delle navate, la cupolettacentrale e la facciata, rispettando, per contratto, il modello del maestro. Apollonj Ghetti e LuigiCrema, hanno scritto nel 1943 a proposito della facciata a tre curve di Sebenico: “Come è noto, l'edificio fu terminato da Nicolò Fiorentino. Ma se, come appare probabile, egli non fece che dareesecuzione al modello preparato da Giorgio, si avrebbe in questa facciata, logica espressione delleretrostanti strutture (traenti forse più remote origini da forme romaniche proprie a talune chiesepugliesi), il primo esempio di quelle terminazioni semicircolari che Mauro Coducci introdusse nelRinascimento veneziano, con S. Michele in Isola e S. Zaccaria”. Gli illustri studiosi - e ciò a noi orainteressa molto - propongono per le coperture a botte di Giorgio, una possibile derivazioneromanica pugliese. Riconoscono poi a Giorgio il merito - lo fanno col minimo di cautela dovuto

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all'ufficialitàdella loro pubblicazione - di aver suggerito la sua nuova forma di facciata albergamasco Coducci che nel 1469 costruirà a Venezia S. Michele in isola col triplice coronamentocurvilineo, ripreso in forma grandiosa anche sulla facciata di San Zaccaria dove il Coducci halavorato dal 1480 al 1515, nella Scuola di S. Marco eseguita assieme a P. Lombardo tra il 1487 ed il1495 e a Santa Maria dei miracoli, dal 1481 al 1489. Di queste chiese però soltanto la piccola SantaMaria dei miracoli ha la facciata a semicerchio corrispondente al profilo del tetto, ma il tetto è dilegno rivestito di piombo. Quelle del Coducci quindi sono eleganti decorazioni scenografiche nonfunzionali, che mascherano normali tetti a tre spioventi coperti di coppi.

Il rapporto di lavoro di Giorgio con l'Alberti per il Tempio malatestiano di Rimini è peròdecisivo. Il tempio di Rimini è rimasto infatti incompiuto ed oggi la sua facciata si presenta a formadi arco trionfale romano a tre fornici, con la parte superiore mai eseguita. L'Alberti,da quel teoricoche era, ha giocato su tutte le sue facciate con le curve, con i timpani triangolari e con le volute,senza decidere mai. Il modello di Giorgio, approvato ed esposto dal 1442, può avere esercitato unatemporanea influenza sull'Alberti? Ciò capovolgerebbe i termini, ma anche quanto sembratemerario può avere un fondamento. La medaglia del Tempio, modellata per incarico del ducaSigismondo Malatesta dallo stesso Matteo de Pasti, ci documenta incontrovertibilmente che la partealta terminale di Rimini era stata progettata a semicerchio centrale e a due archi laterali propriocome quella di Sebenico. La medaglia porta la data: MCCCCL -1450. Nel 1450 Giorgio non puònon averne avuto sotto gli occhi una copia dato che nel ’51 spedì al de Pasti le pietre già pronte.

L'originalitàdi Giorgio sta comunque nell'ideaunitaria della copertura delle navate cui lafacciata aderisce con esattezza per rispecchiare lo spazio interno. Solo l'ideatoredel tetto scolpito ascrigno poteva concepire la facciata corrispondente. Invidia di campanile e ruggine interessata diconsolidate impalcature di storiografia baronale sfiorano questi argomenti senza volerli maiapprofondire. Puglia romanica, Rimini proto-rinascimentale del sommo teorico Alberti,Rinascimento veneziano del Lombardo e del Coducci, gravitano attorno al modello realizzato perprimo a Sebenico dal silenzioso Magister Georgius de Jadra, in arte Dalmaticus, che in casa, luiche era di Zara, con la moglie veneziana e i figli nati a Venezia dove possedeva tre case, parlavadalmatico-veneto ma fuori, al mondo dell'arte,parlava nella più aggiornata lingua italianad'avanguardia.Nel 1451, per otto anni, Giorgio è ad Ancona. Nel 1461 è a Ragusa chiamato daquella repubblica marinara indipendente per la celebre torre Minceta. E poi a Pago per disegnare lapianta urbanistica della nuova città voluta dal governo veneto e vi riprogetta il palazzo vescovile ela chiesa di san Nicolò. Si è scritto che sono idee sue la facciata della cattedrale di Ossero ed iportali di linea gemella di Ossero e Cherso, ma la facciata armoniosa di Ossero è liscia come lefacciate gotiche di Muggia e della Madonna grande di Treviso. Sulla lunetta del portale di Chersoc'èdal 1495 la copia di marmo a bassorilievo, esatta in tutti i particolari più minuti, dellacontemporanea Madonna degli Alberetti dipinta del Giambellino e conservata alla Galleria dell'Accademia di Venezia.

Giorgio Dalmatico degli Orsini di Zara, impropriamente chiamato da Sebenico va qua e làper l'Adriatico e così Andrea Alessi e così Nicolò Fiorentino, che lascia molte belle sculture inDalmazia, lavori nelle isole Tremiti davanti al Gargano e soprattutto a Traù dove esegue la cappelladel beato Orsini, opera poderosa più liberamente rinascimentale del monumento al doge Francesco Foscari nella basilica dei Frari di Venezia. Il Nostro muore nel 1475 lasciando incompiuta aCivitanova Marche la facciata del Duomo. È una constatazione doverosa che l'operadi Giorgio,architetto e scultore, è già chiaramente rinascimentale in Dalmazia, mentre è ancora gotica sulversante delle Marche. L'Adriatico occidentale non era ancora diffusamente preparato alla novità.L'antica toga romana veniva ritessuta partendo dal suo splendido orlo dalmata.

Anche nei lavori anconetani di totale apparenza gotica, quali la Loggia dei mercanti, lafacciata, con grandioso Portale, di S. Francesco delle scale, la Loggia e il Portale di S. Agostino eforse il Palazzo Bonincasa, i fermenti rinascimentali sono però evidenti nella tendenza compositivaalla forma quadrata, cioè all'equilibrioclassico, e non alla forma rettangolare cioè allo squilibrio

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verticale, o al triangolo allungato verso il vertice di quando il gotico scaturisce dal cuore. ASebenico, sulla cornice orizzontale che corona all'esterno l'alto zoccolo del complesso absidale,Giorgio ha fatto sporgere una serie continua di teste a tutto tondo: vivacissimi e popolareschi ritratti,tutti differenti, di una arguta umanità cittadina. I croati, contro l'evidenza,ripetono che si tratta ditipici volti di razza croata. I compilatori delle guide turistiche non si sono accorti che Giorgio haposto una cornice di teste così anche ad Ancona, tutt'attornoal portale di San Francesco delle Scale.Sono musi croati anche quelli? O belle facce della stessa gente adriatica? In Dalmazia la facciatadelle chiese alla Sebenzana ha repliche in S. Maria di Zara, in s. Salvatore di Ragusa, nel Duomo diLesina, per citare le più importanti oltre alle repliche Coducciane in Venezia.

* * *

Nello stesso secolo di Giorgio la Dalmazia ha dato due altri eccelsi protagonisti alRinascimento italiano, Luciano e Francesco Laurana che pare siano nati nello stesso borgodell'agrozaratino e nello stesso anno 1420 senza essere né gemelli né fratelli. Si vede che su Uranao Vrana è passata quell'anno una stella speciale.

Luciano morirà a Pesaro ne11479, Francesco ad Avignone nel 1502. Quando Giorgio, sicalcola a quarant'anni,si stabilì a Sebenico, loro ne avevano 21. Si deve pensare ad un loro inizialeapproccio col mestiere in Zara e poi ad un soggiorno a Venezia, alla quale Zara era ritornata nel1410 dopo aver passato sotto la corona d'Ungheriaun cinquantennio feudale insopportabile per lamentalità e le esigenze vitali dei comuni marittimi adriatici. In quei primi decenni del '400perciò laDalmazia si sentiva liberata e fioriva di vitalità a lungo repressa, tutta protesa verso l'occidenteitalico di cui si sentiva intimamente parte. A Venezia e nel Veneto erano passati tutti i massimimaestri, Giotto, Antelami e poi Donatello e anche il Brunelleschi che era nato nel 1377, mandatodal cielo per dar nuova forma all'architettura già per centinaia d'anni smarrita, a detta del Vasari.

La cappella Pazzi è del 1430. Del 1421 è il porticato dell'Ospedaledegli Innocenti. Del 1432è S. Spirito di Firenze. Nel 1436 è finita la enorme cupola di Santa Maria del Fiore che dal ’17teneva il fiato sospeso al mondo intero. Giorgio è per tutto quel periodo a Venezia, dove annotatutte le notizie di prima mano. Il modellino della cupoletta di Sebenico non può non essere statoeseguito sul modello approvato nel 1442, se non nell'influenzadel cupolone brunelleschiano. Certo,come ingegneria è tutt'altracosa perché si può dire una scultura, ma la forma è quella, con icostoloni fortemente evidenziati all'esterno.

Il più giovane Luciano Laurana ha capito il Brunelleschi forse ancor più intimamente diGiorgio e lo dimostra in quell'ideaplatonica fatta architettura reale che è il cortile porticato delPalazzo ducale di Urbino costruito nel 1468 -1472 tenendo un occhio teso all'Ospedale degliInnocenti.

Prima, durante o appena dopo il soggiorno a Venezia, i Laurana non possono non essersiincontrati con Giorgio. Adolfo Venturi ha voluto individuare in due angeli scolpiti nel duomo diSebenico lo scalpello del giovane Francesco. Altri hanno intravisto lo scalpello del Laurana sugliangeli, ugualmente flessuosi ma più stiacciati, nel Tempio malatestiano di Rimini. Comunque lestrade dei tre dalmati procedettero divise per percorrere le due sponde dell'Adriaticoe andare moltooltre.

* * *Le vite dei due Laurana sono misteriose come il fascino dalle opere, d'architettura di Luciano

e di scultura di Francesco. È certo che seppero frequentare e capire i più grandi maestri del secolo edivenire così eccelsi da subire un rispettoso isolamento per la troppa originalità ed elevatezza. Ideaplatonica è il cortile urbinate di Luciano, idee platoniche sono i busti femminili di Francesco.Luciano è stato a contatto diretto con l'Albertiattorno al 1465 a Mantova dove gli si attribuisce ilcortile di san Giorgio del palazzo ducale. Ad Urbino nel 1468, per il Duca Federico da Montefeltroallora padrone di fatto d'Italia,ampliò tutti gli spazi del palazzo a misura della corte principesca

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centro di tutte le menti somme dell'umanesimo.Il cortile è un “mirabile prodigio di proporzione, dimusicalità e di leggerezza: ogni elemento ha vita rarefatta, ma la rarefazione non esclude, anzi,sottolinea la freschezza letificante ...”. La cosiddetta facciata a ponente, svela analoga freschezzanell'accordarsi,sia con gli altri volumi, sia col paesaggio, realizzando un 'intelligentissimasoluzioneurbanistica. Ha scritto Paolo d'Ancona:“Il palazzo d'Urbino... trova una probabile fonte diispirazione nel palazzo di Diocleziano a Spalato. ... Luciano Laurana, dalmata, è il terzo grandearchitetto del Quattrocento, che come il Brunelleschi e l'Albertitrasse ispirazione dalla tradizioneclassica espressa attraverso tipi architettonici romani ... [ma] a differenza del Brunelleschi edell'Alberti,il Laurana non si ispirò a tipi architettonici della prima età imperiale, quali il Pantheone il Colosseo; per la sua origine dalmata da Zara, poté invece studiare un esempio del tardo impero:il palazzo di Diocleziano a Spalato del IV secolo d. C. ... Al linearismo brunelleschiano e allamonumentalità albertiana, si accosta così l’elenganza spaziale del Laurana”.

A Napoli il suo nome è legato ai due potenti torrioni di Castelnuovo tra i quali, forse anchelui stesso ma certo Francesco, daranno impronta decisa al portale costruito come arco trionfale diFrancesco I d'Aragona. Vi sono presenti, per la prima volta nella Rinascenza, le colonne binate dell'Arco dei Sergi di Pola. Nel 1476 erige la rocca di Pesaro. Sua è la rocca di Senigallia. Ad Urbinosono a lui attribuiti altri palazzi, la loggia dell'ospedale, parte della chiesa degli Zoccolanti, la casaLuminati. È presente nella rocca di Sassocorvaro e nel palazzo Limi di Rimini. La sua sensibilitàurbanistica non può non averlo portato al dibattito, allora attualissimo, sulle città ideali. A lui dataluno sono stati attribuiti tutti o in parte i tre dipinti di prospettive urbane (musei di Berlino,Urbino, Walters di Baltimora), delle quali abbiamo già accennato parlando del mausoleo ottagonaledi Diocleziano.

* * *Francesco Laurana ha forse eseguito alcune sculture del Palazzo di Urbino. Nel 1452, a 32

anni, è già a Napoli dove incontra la scultura di Michelozzo, che ha lavorato anche a Ragusa, e delcatalano Sagrera, primo progettista dell'arcodi Alfonso che probabilmente con Luciano trasformeràin corso d'opera.Dal 1458 al '67è in Provenza per Renato d'Angiò e vi assorbe qualche squisitezzadel tardo gotico che saprà usare con intelligenza in Sicilia dove lavorerà intensamente dal 1467 al'71realizzando la cappella Mastrantonio del Duomo di Palermo, la Madonna di Noto con altremadonne soavi, e i busti-ritratto idealizzati eppure somiglianti, di Eleonora e di Beatrice d'Aragona.Francesco in Sicilia inaugura il Rinascimento. Questo merito non gli è conteso da alcuno. In seguitoalla visita a Palermo di Federino di Montefeltro, dopo il 1472 è ad Urbino dove per il Ducascolpisce, dal modello della maschera mortuaria, il ri-tratto celeberrimo della duchessa BattistaSforza. I suoi numerosi busti di nobili donne lo hanno reso famosissimo. Francesco ci ha impresso ilmassimo della rarefazione astratta dei volumi mossi in volute ascensionali metafisiche che nullatolgono alla monumentalità regale ma sempre umana. Ha saputo cogliere le lezioni di Piero dellaFrancesca e di Antonello da Messina per essere lui stesso in modo insuperabile.

* * *Nella nostra panoramica trimillenaria non possono entrare se non i massimi esponenti del

tema che andiamo svolgendo. L'innumerevoleschiera di tutti gli altri valenti uomini della culturaistriana e dalmata devono essere sottintesi. Non va sottaciuta però l'operadi Giovanni Dalmata daTraù, nato nel 1440, allievo forse dell'Alessisocio di Nicolò Fiorentino e allievo-collaboratore diGiorgio. A Roma, dove acquistò fama, fu allievo di Paolo Romano e lavorò con Mino da Fiesole epoi con Andrea Bregno veneziano, e da solo, lasciando la tomba di papa Paolo Il, ora smontata, ilsepolcro del Cardinale Roverella in San Clemente, opere a Palazzo Venezia, stemmi papaliinsuperabili, lavori ad Aracoeli, S. Maria del Popolo, SS. Apostoli. È stato scritto che ai suoi lavorisi è ispirato Andrea Sansovino. In Ungheria ha scolpito i ritratti di Beatrice d'Aragona e MattiaCorvino; a Venezia, a fine secolo, il busto vigoroso di Carlo Zen ora al Museo Correr. Scultoregentile dal piglio deciso, ad Ancona è presente col monumento Gianelli in Duomo. Ha lasciato aRoma la firma: Opus Ioannis Dalmatae, sul noto bassorilievo della Speranza.

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Ai grandi dalmati del XV secolo ha dedicato, nel 1966, una bella pagina Francesco NegriArnoldi in una collana di massima divulgazione: “Non spetta soltanto ai lombardi il meritodell'incrementodella scultura rinascimentale ... ché spesso ben più valido e significativo fu ilcontributo di artisti provenienti dalla Dalmazia, regione soggetta all'influenzaculturale del Veneto edella Lombardia sin dal periodo romanico, ma fecondata anche dall'artetoscana attraverso l'operadiMichelozzo (chiamato per i lavori del Palazzo dei Rettori a Ragusa) e più tardi di Niccolò Fio-rentino (collaboratore di Andrea Alessi alle sculture della Cappella Orsini nel Duomo e autore dellaTomba di Giovanni Sabota in San Domenico a Traù). Assai più colti dei lombardi, e più di loroaperti alle conquiste rinascimentali, si mostrano infatti questi artisti dalmati ... Così il grandearchitetto Luciano Laurana, iniziatore del Rinascimento urbinate; così gli scultori FrancescoLaurana, attivo a Napoli, in Sicilia e in Francia, e Giovanni Dalmata, il più dotato dei maestri nordi-ci operanti a Roma in questo periodo. A questi artisti va aggiunto il nome di Giorgio Orsini daSebenico, che ad Ancona eseguiva i Portali delle Chiese di Sant'Agostinoe di San Francesco e laLoggia dei mercanti. In patria Giorgio lavorava fin dal 1441 alla fabbrica del Duomo di Sebenico,alla cui direzione succedeva poi nel 1477 lo stesso Niccolò Fiorentino. L 'operaarchitettonica, comequella scultorea del maestro Dalmata, al quale spetta in parte anche la decorazione plastica delDuomo di Sebenico ... appare caratterizzata dal felice accordo tra il senso di grandiosità classica(certo ispirato alle rovine del Palazzo di Diocleziano a Spalato) ed una energia e fermezza di formetipicamente lombarde. A volte inoltre (come nei rilievi che ornano l'Arcadi Santo Anastasio aSpalato) l'artedi Giorgio da Sebenico si accende ad un dinamismo espressionistico, ad una vivaceanimazione che non è possibile non attribuire ad una, sia pur indiretta. influenza dell'operapadovana di Donatello. Ed è opportuno ricordare a questo punto che tra gli aiuti del maestrofiorentino durante il periodo di attività padovana figurava anche un Francesco da Ragusa”.

Luigi Tomaz