Stato liberale e rappresentanza dell’economiaIl Consiglio di agricoltura di Maria Malatesta...
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Stato liberale e rappresentanza dell’economiaIl Consiglio di agricoltura
di Maria Malatesta
Introduzione
Le tormentate vicende del ministero di Agricoltura, industria e commercio e le sue difficoltà di esistenza iniziate durante lo Stato sabaudo e proseguite per il ventennio postunitario, sono state lette dalla storiografia amministrativa come il segno della resistenza di una classe politica, totalmente dedita ad una cultura economica liberista, ad accettare re sistenza di un dicastero attraverso il quale venisse organizzato da parte deH’amministra- zione centrale un settore che si reputava essere patrimonio esclusivo dell’iniziativa privata e in quanto tale soggetto ad essere rigorosamente salvaguardato da intromissioni e controlli dei pubblici poteri. Sia nel 1850 che nel 1860 il ministero venne fondato per ragioni di opportunità politica, più che per la convinzione che fosse necessario dare vita ad un apposito ramo dell’amministrazione1. Eppure, anche in quel clima improntato ad un liberismo programmatico, il governo aveva ritenuto di dover compiere un’azione di tutela di alcune condizioni generali dell’attività economica nazionale e di incentivo allo
sviluppo delle forze produttive, pur “senza immischiarsi direttamente nelle cose industriali e commerciali, al cui incremento è principalmente uno stimolo l’interesse privato”2. La funzione di tutela e di sostegno esercitata dal governo soprattutto nei confronti dell’agricoltura venne sottolineata ampiamente dagli amministrativisti dell’epoca che in questo modo risolsero l’arduo dilemma costituito dalla mediazione tra laissez faire e interventismo statale3. Le analisi condotte sulla legislazione europea in materia di diritto pubblico dell’economia hanno evidenziato lo scarto esistente tra la formula del non intervento dello Stato liberale e la sua effettiva realizzazione. La normativa volta a regolare i rapporti economici tra i privati si è progressivamente arricchita di norme imperative, restrittive dell’attività dei singoli. Lo Stato liberal-borghese ha mantenuto tutte le funzioni di disciplina dell’economia caratteristiche dello Stato patrimoniale àe\V ancien Régime e le ha accresciute nel corso degli anni, passando “intere province... dalla sfera privata a quella pubblica” fino ad arrivare alle prime statalizzazioni4. La distanza stessa
' Alberto Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell'unificazione italiana, Torino, Einaudi, 1960, p. 43.2 Atti parlamentari, Legislazione VII, 1860. Sessione unica. Documenti della Camera e del Senato, Progetto di legge presentato alla Camera il 22 maggio I860 da! ministro delle Finanze Vegezzi.3 R. Porrini, I ministeri, in Primo trattato completo di diritto amministrativo, a cura di V. Emanuele Orlando, Roma, 1933, vol. I, p. 470.4 Massimo Severo Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 31.
Italia contemporanea”, marzo 1986,162
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tra diritto privato e diritto pubblico è stata in un certo senso annullata dalle grandi codificazioni dell’Ottocento che, nate allo scopo di sancire la suprema garanzia dei diritti del singolo, hanno trasformato nel medesimo tempo, il diritto privato in diritto dello Stato5.
Nel caso dell’Italia, sebbene la storiografia economica non abbia riscontrato nel primo ventennio unitario tracce di un intervento nell’economia che assumesse la forma di modificatore e regolatore del ciclo, la struttura accentrata della pubblica amministrazione facilitò, anche in campo economico, l’avvio di quel processo di interventismo statale e di commistione tra interessi pubblici e privati che si affermerà con decisione durante l’età giolittiana. La funzione esercitata dal ministero di Agricoltura, industria e commercio fu incentrata soprattutto nella difesa degli interessi delle categorie economiche in esso rappresentate. Per questo motivo il movimento di protesta sorto in tutti gli ambienti economici del paese in occasione dell’ultima soppressione del dicastero avvenuta nel 1877, fu determinante per garantire la sua ricostruzione. La decisione presa al riguardo da Cairoli venne interpretata come “un doveroso e legittimo ossequio alla pubblica opinione” anche se non chiarissimi apparivano i motivi della protesta. La Commissione per il bilancio, chiamata ad esprimere il suo parere sulla gestione, avanzò il dubbio che in essa “prevalesse il bisogno vero e sentito dell’esistenza del ministero di Agricoltura, industria e commercio o se invece questo coro concorde traesse la sua base in quel legame di simpatia e di
interessi che esiste tra l’amministrazione centrale e i corpi e i Consigli che ne dipendono”6.
Per quanto riguarda l’agricoltura, che la rappresentanza degli interessi concernesse esclusivamente la proprietà fondiaria, era già detto esplicitamente nel decreto di costituzione del ministero del 5 luglio 1860. Ad esso veniva in primo luogo attribuito il compito di preparare le leggi dirette a tutelare la proprietà fondiaria. Seguivano altre prerogative inerenti il campo di intervento dei pubblici poteri per il miglioramento del territorio e per la creazione delle infrastrutture; la promozione dell’istruzione tecnica, l’organizzazione della statistica e dei censimenti nazionali; la creazione degli enti rappresentativi dell’agricoltura a livello locale. Questa priorità attribuita dalla amministrazione pubblica dell’agricoltura alla proprietà fondiaria è tipica della tendenza imperante per tutto l’Ottocento, secondo la quale la disciplina dell’economia fondata sull’istituto della proprietà, tutta contenuta nei codici, fu caratterizzata dalla scelta fra interessi contrastanti di varie categorie di privati7. Questa selezione a favore della proprietà terriera restò una costante dell’amministrazione pubblica dell’agricoltura anche nel periodo di trasformazione dello Stato monoclasse in stato pluri- classe, quando il predominio della classe fondiaria venne limitato dall’affermarsi di altre classi sociali e categorie economiche, in concomitanza con l’avvio del processo di industrializzazione.
Lo studio della rappresentanza dell’agricoltura condotto privilegiando come osservatorio il Consiglio di agricoltura, uno dei
5 Francesco Galgano, Storia del diritto commerciale, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 77.6 Riportato in Piero Calandra, Parlamento e amministrazione. I. L ’esperienza dello Statuto albertino, Milano, Giuffrè, 1971, p. 131. Sul dibattito analizzato dall’autore relativo alla ricostituzione del ministero di Agricoltura, vedi le osservazioni di Raffaele Romanelli in “Quaderni storici”, 1973, n. 25, pp. 613-614.7 Stefano Rodotà, Scienza giuridica ufficiale, in II terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 129. Il titolo di questa raccolta di saggi è tratto da una frase di Cesare Beccaria: “Il diritto di proprietà (terribile e forse non necessario diritto)” .
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corpi consultivi dei quali storiografia ha da tempo sottolineato la funzione rivelatrice dell’intervento dello Stato liberale nella società8, consente di misurare lo spessore della presenza della proprietà fondiaria all’interno della pubblica amministrazione; di identificare quali aree geografiche ebbero maggior voce in capitolo a seconda dei periodi; e quali furono le esclusioni più vistose sia dal punto di vista territoriale che da quello dell’organizzazione degli interessi; di indagare infine su quel ruolo di retroguardia conservatrice che venne attribuito anche attraverso la pubblica amministrazione all’agricoltura “non riformata”9, quando i mutamenti iniziati negli anni della grande depressione cambiarono il volto tradizionale della rappresentanza sia per quanto riguarda i soggetti sociali ed economici, sia per quel che concerne le forme organizzative.
Le rappresentanze territoriali dell’economia
La linea tenuta dalla pubblica amministrazione nei riguardi della proprietà fondiaria non soltanto in relazione alle altre categorie agrarie ma anche agli altri settori economici, emerge con notevole chiarezza dall’assetto della rappresentanza territoriale dato all’agricoltura, all’industria e al commercio. L’amministrazione dell’economia nel periodo liberale presenta la medesima forma accentrata riscontrabile negli altri ordinamenti10. Dal ministro di Agricoltura, industria e commercio dipendevano le divisioni settoriali, affiancate da un alto numero di corpi consultivi presieduti dai vari direttori o dallo stesso ministro. A livello periferico erano
stati creati due tipi di istituti rappresentativi delle economie locali: le camere di commercio e i comizi agrari. Questi erano formalmente autonomi rispetto alla pubblica amministrazione, in quanto si trattava di enti collocati nell’ambito del diritto privato, dotati di personalità giuridica, ma legati all’amministrazione sia per le funzioni loro attribuite, sia per il controllo a cui erano sottoposti. Erano cioè enti privati con funzioni pubbliche. Il loro scopo consisteva nel rappresentare gli interessi dei rispettivi settori presso il governo; di agire come promotori dello sviluppo dell’economia e dell’istruzione tecnica locale; di fungere da rilevatori statistici; di esprimere infine pareri su questioni proposte dal governo relative alla legislazione in materia economica e doganale. La struttura dei due istituti era però assai diversa, come diverse erano le loro prerogative e la loro effettiva autonomia.
Le camere di commercio. La legge 3 luglio 1862 che definiva il nuovo ordinamento delle camere di commercio, industria ed arti, recepì le antiche attribuzioni dell’istituto nell’ambito della giurisdizione commerciale. Alle loro dipendenze erano assegnate le borse di commercio, enti pubblici sottoposti alla tutela governativa: decidevano della loro formazione, dato che dovevano sostenerne le spese ed esercitavano su di esse una particolare giurisdizione. Le camere furono collegate direttamente ai tribunali di commercio fino al 1888, data in cui vennero eliminati, in seguito al prevalere della tendenza a sopprimere le giurisdizioni speciali. Per questi compilavano i ruoli dei periti per le materie commerciali e la lista di coloro che potevano es-
A. Caracciolo, Stato e società civile, cit., pp. 88-93. Le indicazioni formulate al riguardo dall’autore sono state recentemente sviluppate da Dora Marucco, Lavoro e previdenza dall’Unità al fascismo. Il Consiglio della previdenza dal 1869al 1922, Milano, Angeli, 1984.9 Lucio Villari, Il capitalismo della grande depressione, in L ’economia della crisi, Torino, Einaudi, 1980, pp. 5.10 Sull’organizzazione dei ministeri vedi Raffaele Romanelli, L ’Italia liberale (1861-1900), Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 42 sgg.
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sere eletti a giudici. Avevano infine il compito di stilare i regolamenti per l’esame di idoneità ad esercitare la funzione di pubblico mediatore.
Prima dell’emanazione della legge, le camere esistenti sul territorio nazionale erano 27. Successivi decreti ne ampliarono il numero fino ad arrivare a 73, distribuite per la maggior parte nei capoluoghi di provincia, ma anche in città minori con un forte sviluppo di traffici commerciali. Le camere erano elettive, composte di un numero di membri non maggiore di ventuno e non inferiore a nove. Elettori ed eleggibili erano “tutti gli esercenti commerci, arti, industrie, capitani marittimi” iscritti nelle liste elettorali politiche dei comuni compresi nella circoscrizione della camera. Tra costoro potevano essere compresi anche i conduttori agricoli. Le liste venivano compilate dalla camera o dal tribunale di commercio. Le camere provvedevano al proprio finanziamento tramite l’imposizione di un tributo a carico degli iscritti nella categoria B dei ruoli dell’imposta di ricchezza mobile, in proporzione del reddito imponibile e sotto forma di centesimi addizionali all’imposta principale; oppure riscuotevano un’imposta diretta dagli esercenti in proporzione dei loro traffici. L’autonomia delle camere di commercio era così dovuta sia alle speciali prerogative loro attribuite che alla facoltà di imporre il tributo camerale, che costituiva un’aggiunta alle imposte locali pagate da industriali e commercianti11. La sua riscossione obbligatoria rendeva così indi- pendenti le camere sia dal comune e dalla provincia di appartenenza che dal ministero.
Anche le camere di commercio non erano comunque esenti dal controllo dell’esecutivo il quale si riservava la facoltà di scioglierle, allo stesso modo dei consigli provinciali e comunali, qualora non risultassero efficienti o dessero prova di comportamenti antigovernativi e di installare un commissario fino alla costituzione della nuova camera.
Nel ventennio postunitario il controllo pubblico sul settore economico non fu limitato ai suoi istituti rappresentativi ma interessò soprattutto il mercato azionario. Nel vecchio codice di commercio — adattamento del codice sardo del 1842, ricalcato a sua volta su quello napoleonico del 1807 — le società per azioni in accomandita e le anonime, caratterizzate dalla responsabilità limitata, dovevano rispondere all’atto della loro costituzione, ad una serie di garanzie richieste dallo Stato12. I fondatori della società erano responsabili degli obblighi contratti e il capitale doveva essere versato per almeno quattro quinti. Il soddisfacimento di queste condizioni era il requisito per ottenere l’autorizzazione governativa, che poteva essere revocata qualora la società fosse minacciata da gravi perdite. Il controllo pubblico sulle società venne dapprima attuato dal ministero di Agricoltura attraverso l’introduzione di commissari regi negli uffici distrettuali per il controllo delle attività sociali; successivmen- te dal ministero delle Finanze con l’istituzione di un unico ufficio di sindacato sulle società commerciali e sugli istituti di credito; infine con la creazione di uffici provinciali di ispezione composti dal prefetto e da due membri eletti dalle camere di commercio13. Il
11 Legge per l ’istituzione e l ’ordinamento delle camere di commercio ed arti (6 luglio 1862, n. 680) annotata dall’avv. Achille Padoa, in Raccolta delle leggi speciali e convenzioni internazionali del Regno d ’Italia, 4a serie, vol. II, Torino, 1881 ; Antonio Amorth, Le camere di commercio dall’Unità d ’Italia alla riforma: assetto istituzionale e ruolo, in Le camere di commercio fra Stato e regioni, a cura di R. Gianolio, Milano, Giuffrè, 1979.12 Sulla forma giuridica delle società per azioni e sulla funzione della “responsabilità limitata” nello sviluppo dell’impresa capitalistica moderna, vedi Francesco Galgano, Le istituzioni dell’economia capitalistica. Società per azioni, stato e classi sociali, Bologna, Zanichelli, 1980.13 Piero Calandra, Storia dell’amministrazione pubblica in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 122.
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proposito di ottenere “salde guarentigie contro speculazioni avventate o insidiose”14 si collocava alPinterno di una visione legislativa ancorata ad un’economia nella quale l’industria ricopriva un ruolo marginale rispetto all’agricoltura. Questa arretratezza della legislazione commerciale, già imputata agli inizi dell’Ottocento al Code de commerce, venne colmata con il nuovo codice del 1882 con il quale anche la borghesia imprenditoriale ottenne la sua “carta”, ossia quell’inquadramento giuridico che costituirà lo sfondo dello sviluppo commerciale e industriale delle società per azioni15. Nel nuovo codice una delle maggiori novità fu proprio la soppressione dell’autorizzazione governativa sulle società per azioni.
Alla “pretesa del potere esecutivo” di revocare l’autorizzazione concessa con un semplice atto amministrativo, fu sostituito un sistema “che tende ad esercitare l’intelligente sorveglianza degli interessati rendendola più agevole mediante una estesa pubblicità, proclamando la libertà delle contrattazioni temperata dalla rigorosa responsabilità di coloro che prendano parte alla costituzione della società”16. La liberalizzazione del mercato azionario, richiesta con insistenza dagli operatori, segnò un mutamento rilevante dei pubblici poteri nei confronti del campo in
dustriale e finanziario. È forse anche in relazione al riconoscimento dell’espansione di questi settori dell’economia che va letto il mutamento del ruolo rappresentativo attribuito alla camera di commercio, avvenuto nella seconda metà degli anni ottanta, quando si affermò la tendenza ad “interpretarle come un gruppo di pressione privilegiato e come strumento per incanalare e regolare amministrativamente le esigenze e le proposte del mondo economico, piuttosto che a valutarle quali organi per la formazione e rappresentazione del consenso agli ordini costituzionali e di consultazione politica del paese da parte del governo”17, come invece si era verificato nel periodo postunitario. Questo sostanziale rovesciamento di prospettiva rispetto al passato, che si affermò nella pratica, per cui “la camera è legittimata non tanto in quanto necessario corpo rappresentativo, bensì legittima tale sua richiesta — la sua stessa esistenza — in quanto collabora coll’amministrazione statale”, restò tuttavia profondamente ambiguo e contraddittorio rispetto agli intenti originari contenuti nella legge del 1862. “Ed è proprio da questa situazione che potrà scaturire la riforma del 1910, non per nulla ben addentro all’età gio- littiana, quando cioè si saranno determinate le condizioni per lo scioglimento delle ambi-
14 Relazione ministeriale al Re sul codice di commercio tenuta dal guardasigilli Vacca nell’udienza del giugno 1865, riportata in Alberto Aquarone, La unificazione legislativa e i codici del 1865, Milano, Giuffrè, 1959. Sul rapporto tra il Code de commerce, il codice sardo e la codificazione commerciale del regno d’Italia vedi, oltre ad Aquarone, Carlo Ghisalberti, Unità nazionale e codificazione giuridica in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 147 sgg.15 Tullio Ascarelli, La dottrina commercialista e Francesco Carnelutti, in “Problemi giuridici”, vol. II, Milano, Giuffrè, 1959, p. 984. Sul codice di commercio dell’82 vedi anche Carlo Ghisalberti, La codificazione de! diritto in Italia 1865-1942, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 149 sgg.16 Stefano Castagnola, Fonti e motivi. Nuovo codice di commercio italiano. Libro I, Torino, 1883, pp. 58-60.17 Cesare Mozzarelli e Stefano Nespor, Amministrazione e mediazione degli interessi: le camere di commercio, in “Archivio ISAP”, n. 3, L'amministrazione nella storia moderna, Milano, 1985, p. 1664. Questo saggio, del quale la parte relativa al periodo liberale — qui citata — è stata scritta da Cesare Mozzarelli (Stefano Nespor ha trattato il periodo relativo al dopoguerra e al fascismo), è la prima ricerca complessiva condotta sull’argomento. La bibliografia precedente è infatti costituita da monografie di tipo commemorativo su singole camere di commercio, oltre che da studi di diritto amministrativo. Accenni sulla funzione degli istituti camerali nella vita economica associativa nel primo Ottocento e nel periodo postunitario si trovano in Alberto Caracciolo, La storia economica, in “Storia d’Italia”, vol. Ili, Dal primo Settecento all’Unità, Torino, Einaudi, 1973, pp. 592-596; Id., Stato e società civile, cit.,pp. 81-82.
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guità precedenti e per proporre, accettato ormai un nuovo assetto e ruolo dell’autorità e della amministrazione statale, una parimenti nuova condizione per le camere e la rappresentanza degli interessi economici, e un nuovo rapporto tra di esse e gli assetti sociali e di potere del paese”18. Con la legge 20 marzo 1910 le camere di commercio vennero infatti trasformate in enti pubblici. Il nuovo assetto, se esaltò per un verso la loro importanza, accrebbe su di esse il controllo della pubblica amministrazione. La loro potestà subì inoltre una diminuzione dato che l’imposizione del tributo camerale fu limitata a quella parte di reddito derivante direttamente da un’attività commerciale o industriale invece che, più genericamente, dai traffici19. In questo modo le tasse commerciali furono ridotte ad un unico tipo, avente per base il reddito desunto dai ruoli dell’imposta di ricchezza mobile.
Le camere si avviarono a rappresentare più gli interessi del commercio e della piccola impresa, piuttosto che quelli della grande industria che, in quegli stessi anni, privilegiò la forma dell’associazione di categoria come luogo di organizzazione degli interessi imprenditoriali. Le ragioni della trasformazione delle camere di commercio di enti pubblici sono rintracciabili — come ha acutamente osservato Cesare Mozzarelli — nella politica di sostegno delle classi medie che trovò posto, in età giolittiana, all’interno della più ampia strategia di amministrativizzazione del conflitto sociale. “La ‘amministrativizzazione’ delle camere diventa così importante non più tanto al fine di normalizzare e neutralizzare un’istituzione che per le sue pretese di rappresentanza e l’implicito rifarsi ad una ipotesi di politicità diffusa e non immediata
mente disciplinata negli apparati statali, si può presentare come luogo di aggregazione alternativa alla politica governativa, seppure all’interno del blocco dominante, quanto soprattutto al fine di mostrare e comprovare la indifferenza e imparzialità dell’autorità statale nel governare le forze sociali e nel dar risposta alle loro richieste”. Un altro motivo può essere rinvenuto nel fenomeno, avviatosi in quegli stessi anni, di crescita dell’intervento dello Stato nel settore industriale e della nascita degli enti para-statali20.
Da questo excursus sulle camere di commercio scaturisce un interrogativo sul diverso destino dei corrispettivi istituti locali agricoli. Anticipando alcune considerazioni che verranno svolte successivamente, si può attribuire la mancata trasformazione dei comizi in enti pubblici da un lato alla loro composizione, formata esclusivamente da proprietari fondiari, rispetto ai quali la strategia di amministrativizzazione non venne applicata; dall’altro alla politica bifronte condotta dallo Stato liberale nei riguardi dell’agricoltura soprattutto negli anni del decollo industriale, quando il minor peso esercitato dall’amministrazione pubblica nel settore agricolo accompagnò, se non favorì addirittura, il suo declino all’interno dell’economia nazionale.
I comizi agrari. La “rappresentanza legale” dell’agricoltura — come veniva chiamata all’epoca — offre, diversamente a quello dell’industria e del commercio, un panorama percorso da incertezze normative e dalla ricerca di un assetto definitivo, mai raggiunto durante il periodo liberale. Quattro anni dopo la promulgazione della legge sulle camere di commercio fu emenato il D.R. 23 dicem-
18 Ibidem, p. 1665. La citazione successiva è a p. 1669.19 Santi Romano, Le camere di commercio, Il tributo camerale e le casse di risparmio, in Scritti minori, II, Milano, Giuffrè, 1950, pp. 232-233.20 Sabino Cassese, Aspetti della storia delle istituzioni, in Gli apparati statali dall’Unità al fascismo, a cura di Isabella Zanni Rosiello, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 202 sgg.
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bre 1866 con il quale venivano creati i comizi, enti territoriali di base. Decreto e non legge, in attesa del completamento della struttura rappresentativa decentrata che avrebbe dovuto realizzarsi con la creazione delle camere di agricoltura, dipartimentali o regionali, che non furono mai istituite. Le debolezze dell’agricoltura, denunciate sin dalla formazione dello Stato unitario, lo scarso affidamento sull’impegno della classe fondiaria locale, i cui rappresentanti formavano peraltro la classe dirigente, furono i motivi che determinarono l’aspetto sconnesso e mal funzionante della sua rappresentanza. Rispetto ad essa emerge un curioso paradosso: mentre nel settore marginale dell’economia nazionale e scarsamente rappresentato in Parlamento e nella pubblica amministrazione fu attribuita a livello locale maggiore autonomia, a quello dominante e altamente rappresentato fu attribuita a priori una scarsa capacità di funzionamento in sede periferica21.
La ragione di questo fenomeno va probabilmente ricercata nella dinamica esistente, all’interno della classe dominante, tra centro e periferia nel periodo ancora caratterizzato dal suffragio ristretto, quando gli interessi locali agivano direttamente al centro, oppure rifiutavano ogni tipo di ingerenza in periferia.
L’esistenza dei comizi fu accompagnata da un intervento costante del centro attraverso la mediazione dei prefetti. L’amministrazione dell’agricoltura non aveva — a differenza
di quella delle finanze, dei lavori pubblici e della guerra — funzionari speciali preposti all’esercizio locale dei servizi ad essa affidati. Questo compito venne affidato ai prefetti, mentre gli enti autarchici territoriali dovevano coprire parte delle spese relative allo sviluppo della produzione agricola ed alla diffusione dell’istruzione tecnica22. L’assenza di un ispettore compartimentale o regionale dell’agricoltura fu assai criticata sia da amministrativisti che da esperti agronomi. Enrico Presutti e Ghino Valenti sottolinearono gli inconvenienti derivanti dalla carenza di informazioni di cui soffriva il Ministero sulle condizioni locali dell’agricoltura, dato che tutto il lavoro ricadeva sulle prefetture, notoriamente sprovviste di personale tecnico23. L’utilizzazione del prefetto nell’installazione e nel controllo della rete rappresentativa locale aveva, al di là delle carenze tecniche che comportò, un significato più ampio. I comizi vennero concepiti come “manifestazioni spontanee dei bisogni delle popolazioni”; non erano obbligatori come le camere di commercio e dovevano sorgere in ogni capoluogo di circondario per iniziativa degli interessati. Fu la scarsa fiducia sull’efficacia della medesima a determinare da parte della commissione che elaborò il testo del decreto di istituzione dei comizi il loro affidamento alle cure dei prefetti e dei sottoprefetti24.
La mancanza di un intervento legislativo imperativo, come per le camere di commercio, motivato dal proposito di salvaguardare la li-
21 Circolare del ministero d'Agricoltura, industria e commercio ai signori Prefetti, Sottoprefetti e Commissari distrettuali con la quale si accompagna la relazione a S.M. ed il decreto reale concernenti l ’istituzione dei comizi agrari (Firenze, 21 gennaio 1867), in Ordinamento dei comizi agrari ne! Regno d ’Italia, annotato dal cav. avv. Aronne Rab- beno, in Raccolta delle leggi speciali e convenzioni internazionali del Regno d ’Italia, 4a serie, vol. Ili, Torino, 1881.22 Sull’intervento dei prefetti nella vita economica locale e sull’ampliamento della delega loro attribuita dal R.D. 9 ottobre 1861, che escludeva poteri riguardanti altri ministeri diversi da quello degli Interni, vedi Claudio Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica, da Radazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano Giuffrè, 1964, pp. 168-169, 269; Pietro Calandra, L ’amministrazione dell’agricoltura, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 10.23 Enrico Presutti, L ’amministrazione pubblica dell’agricoltura, in Primo trattato completo di diritto amministrativo, cit., vol. V, p. 37; Ghino Valenti, L ’Italia agricola nel cinquantennio 1862-1911, in Studi di politica agraria, Roma, 1914, p. 512.24 Relazione fatta al signor ministro di agricoltura, industria e commercio dalla commissione reale per l ’incremento dell’agricoltura creata con decreto reale dell’8 settembre 1866, in Ordinamento dei comizi agrari, cit.
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bertà di iniziativa delle classi fondiarie, si tradusse in un ambiguo compromesso. Creati allo scopo di sostituire le preesistenti società e associazioni agrarie, i comizi furono sottoposti alla tutela governativa attraverso i prefetti. Costoro erano il tramite tra i comizi e il ministero; controllavano il loro funzionamento dopo aver contribuito alla formazione della direzione e presieduto alla loro installazione. Nel caso di insufficiente attività — verificatasi con frequenza impressionante — il ministro ne ordinava lo scioglimento e il prefetto assumeva l’incarico di commissario governativo col compito di scegliere i nuovi membri onde poter formare un’altra e teoricamente più funzionante direzione25.
L’oscuro confine tra spontaneità ed obbligatorietà dell’istituto rappresentativo risalta anche dalle altre sue caratteristiche. Non era formato secondo il rigido criterio elettivo delle camere di commercio, in quanto vi potevano far parte, senza limitazione di numero, tutti gli interessati ai problemi della agricoltura. Costoro erano tenuti a pagare un contributo annuo di cui non erano precisate per legge l’entità e la forma e neppure l’obbligatorietà. La sopravvivenza del comizio dipendeva di fatto delle sovvenzioni ministeriali, elargite con grande parsimonia e da quelle dei comuni e delle province che tendevano però a sottrarsi a questo ulteriore onere gravante sui magri bilanci. All’interno dei comizi doveva essere garantita la presenza dei rappresentanti degli enti locali, per seguirne l’andamento e mantenerli in contatto con le autorità provinciali. Ma questa pre
senza fu spesso aleatoria; non più, del resto, di quella dei diretti interessati. La storia dei comizi agrari è infatti quella di una lunga assenza, intervallata da esempi di effettivo funzionamento, concentrato sulla Valle Padana e in particolare in quelle province in cui preesistevano delle forti società agrarie o accademie scientifiche: come il caso di Torino, Milano, Udine, Bologna, Vicenza. Contrariamente ai progetti ministeriali, furono queste società che assorbirono i comizi, dopo casi di semi-ribellione di fronte alle pressioni esercitate dal ministero perché fosse riconosciuta la priorità dell’ente con funzioni pubbliche rispetto all’associazione privata26.
Tutto sembrò non funzionare nei comizi agrari e la politica dell’amministrazione centrale, a metà tra la coercizione e l’incentivazione non sortì effetti rilevanti. Nel regolamento seguito al nuovo decreto dell’8 dicembre 1878 — lo stesso che sanciva il riordinamento del Consiglio di agricoltura — i membri della direzione dovevano essere possidenti e domiciliati nella provincia (art. 6). In tal modo il ministro Pessina intendeva da un lato porre rimedio all’assenteismo, spesso motivato col fatto che i soci abitavano fuori della provincia dove avevano le terre, dall’altro potenziare, o meglio formalizzare, la dominanza della componente proprietaria che di fatto ebbe in mano la quasi totalità dei comizi del territorio nazionale. Anche se l’anno seguente il ministro Majorana Calatabiano corresse il testo dell’art. 6, limitando a tre i membri della direzione obbligatoriamente possidenti e residenti nella provincia, l’istitu-
25 Numerosissimi gli esempi al riguardo contenuti nei fondi del ministero di Agricoltura, industria e commercio reperibili presso l’Archivio centrale dello Stato. Per citarne solo alcuni: comizio di Gallarate (1880), I vers., b. 23; comizio di Pavia (1881), I vers., b. 33. Interessante la relazione del prefetto di Verona (30 aprile 1868) al ministro, nella quale si lamenta l’impossibilità di esercitare un effettivo controllo sul comizio che tende a scavalcare l’autorità prefettizia trattando direttamente con l’amministrazione centrale (I vers. b. 45). Questo comportamento si generalizzerà a partire dagli anni ottanta.26 “L’Agricoltura”, bollettino della Società agraria di Lombardia, Milano, gennaio 1865; ACS, MAIC, I vers., b. 45. Relazione del prefetto di Vicenza al ministro, 13 luglio 1867. La maggior forza delle società più antiche rispetto ai nuovi comizi fu sottolineata anche da Francesco Coletti, Le associazioni agrarie in Italia dalla metà del secolo deci- mottavo alla fine del decimonono, Roma, 1901, p. 56-57.
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to restò di fatto completamente in mano alla proprietà fondiaria.
La politica degli incentivi fu condotta dal ministero attraverso i sovvenzionamenti attribuiti per finanziare concorsi, esposizioni, acquisti di macchinari agricoli sperimentali27. Ma la distribuzione e gli eventuali aumenti degli stanziamenti dipendevano dal livello di rendimento del comizio. Più era stato attivo nel corso dell’anno, più possibilità aveva di ricevere finanziamenti. I piccoli comizi delle province più povere erano così destinati a morire se — come si esprimeva il ministro nelle circolari ai prefetti — non davano “segni di vita” . Le sovvenzioni erano comunque scarse; i soci pagavano contributi annui irrisori e spesso il loro numero era tanto irrilevante (quindici, venti soci) da non consentire la sopravvivenza solo attraverso la tassazione volontaria. I comuni e le province tendevano in linea di massima a sottrarsi al pagamento delle quote per il mantenimento dei comizi. A questo venivano obbligati dall’intervento diretto del ministro dopo lunghe e faticose contrattazioni che non sortivano sempre un esito positivo. L’unica soluzione possibile per risolvere la questione non fu mai attuata, anche se paventata in svariate occasioni: l’imposizione di centesimi addizionali all’imposta fondiaria, proporzionali al reddito. Soprattutto dopo il 1887, quando il dazio sui prodotti agricoli cerealicoli fece aumentare notevolmente il reddito dei proprietari fondiari, un lieve aumento dell’imposta fondiaria devoluto a favore dei comizi, avrebbe permesso loro — è questo il giudizio di Ghino Valenti — di esercitare “assai meglio alcune funzioni al presente affidate al governo centrale”28, di rea
lizzare ossia un efficace decentramento dell’agricoltura alla cui mancata realizzazione fu ostacolo non solo, e non tanto, la struttura accentrata dello Stato unitario, quanto l’opposizione della stessa proprietà terriera.
Che il punto debole dei comizi fosse il loro finanziamento, lo attestano le numerose proposte di modifica provenienti dai gruppi agrari locali prima del 1878, anno di emanazione del nuovo decreto di riordinamento delle rappresentanze. Il decreto del 1866 avrebbe dovuto essere completato dalla legge sulle camere di agricoltura. Nel progetto presentato al Senato il 20 dicembre 1871 dal ministro Castagnola, le camere costituivano un gradino superiore della rappresentanza locale in quanto composte dai delegati dei comizi della loro circoscrizione e situate in ogni zona agraria del regno. Create allo scopo di coordinare l’attività agricola locale, avrebbero dovuto ovviare alla deprecata frammentarietà dei comizi sparsi su tutto il territorio. Le spese di mantenimento erano previste a carico dei comizi circondariali, obbligati allo stanziamento di una somma annua di £. 2 per ogni cento abitanti per provvedere al proprio sostentamento e a quello delle camere. Le reazioni al progetto furono compieta- mente negative. Alcuni comizi chiesero un coordinamento più stretto tra le varie istituzioni rappresentative in modo da farle dipendere direttamente dall’amministrazione centrale. Altri, capeggiati da quello di Bologna, volevano al contrario una maggiore autonomia, perseguibile attraverso la formazione di comizi a circoscrizione regionale e provinciale nei quali più forte sarebbe stata l’influenza dei grandi proprietari fondiari legati alle società agrarie29. Queste due posizioni diver-
27 Sull’attività tecnico-agronomica svolta dai comizi e sul loro complessivo funzionamento interno, vedi Paola Corti, Fortuna e decadenza dei comizi agrari, in “Quaderni storici”, n. 36, 1977.28 G. Valenti, L ’Italia agricola, cit., p. 519.29 Memoria presentata al comizio agrario di Bologna a Sua Eccellenza il Ministro di agricoltura, industria e commercio intorno ad un progetto di riforma dei comizi agrari, Bologna, 1875.
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genti, che riflettevano il profondo disaccordo tra i vari gruppi fondiari locali in relazione al loro rapporto con lo Stato, avevano un punto in comune: la richiesta di abolizione della quota individuale dei soci, ritenuta inadeguata e contraddittoria per una “rappresentanza legale” istituita dal governo per i “-suoi intenti”. Le spese di mantenimento degli istituti dovevano ricadere sulle amministrazioni locali, ossia distribuite fra tutti i contribuenti. Una terza indicazione, emersa nello stesso anno al congresso di Ferrara degli agricoltori, relativa ad una fusione tra camere di commercio e comizi, attribuiva ugualmente ai comuni l’onere del finanziamento delle nuove camere.
Si doveva arrivare al 1896 perché fosse formulata una vera proposta di autofinanziamento delle rappresentanze agricole. In quell’anno il deputato di Crema Luigi Grif- fini nominato, senatore nel 1881, appartenente alla Sinistra, membro del Consiglio di agricoltura e di numerose commissioni permanenti, sensibile ai problemi dell’imprenditoria agraria che difese in Senato nel corso dei dibattiti sulla crisi agraria, presentò alla Camera di nomina regia un complesso progetto di legge sulla formazione delle camere di agricoltura. Queste si sarebbero sostituite ai comizi — che avrebbero potuto continuare a sussistere sotto la forma di associazioni libere — come nuova organizzazione della rappresentanza agraria dotata di importanti funzioni di conciliazione.
Le camere previste da Griffini avrebbero costituito il terreno sul quale estendere anche all’agricoltura l’istituto dei probiviri per la risoluzione delle controversie insorgenti tra proprietari, affittuari, mezzadri e coloni. Sarebbero state a base elettiva, ossia aperte a tutte le categorie agrarie e avrebbero provveduto al proprio finanziamento in due modi: attraverso l’imposizione di cen
tesimi addizionali sulla imposta fondiaria e su quella di ricchezza mobile a carico degli affittuari, o mediante una tassazione delle categorie dei proprietari e dei conduttori di fondi, in proporzione dei redditi fondiari ed agrari.
Il progetto di Griffini equiparava la struttura delle camere di agricoltura a quella delle camere di commercio, consistente nell’autofinanziamento e nella composizione elettiva, mentre intendeva realizzare una nuova fusione tra proprietari e affittuari coinvolgendo questi ultimi, che erano scarsamente presenti nei comizi, nella gestione del nuovo istituto rappresentativo.
Ma anche questo progetto, approvato il 15 maggio 1896 dal Senato che ne aveva però stralciato la parte relativa alla composizione delle controversie, si arenò nel corso dell’iter parlamentare. Venne ripreso nel 1906 da Enea Cavalieri, strenuo ed intelligente sostenitore dell’imprenditorialità agricola, e presentato all’esame del Consiglio di agricoltura. Cavalieri notò che il progetto Griffini prevedeva la tassazione degli affittuari quando questi erano già inclusi fra le categorie professionali che facevano capo alle camere di commercio. A questo dato si aggiungeva il fenomeno, verificatosi in età giolittiana, relativo alla scalata degli imprenditori agricoli all’interno degli istituti camerali situati nei grossi centri rurali, per accrescere il proprio potere a livello locale.
Il progressivo spostamento dei conduttori verso il settore industriale e il divario tra gli interessi della grande affittanza e quelli della proprietà fondiaria furono avvertiti come un fattore disgregante e limitativo della crescita dell’agricoltura da Enea Cavalieri che propose come correttivo alla spaccatura tra proprietà e impresa, che si rifletteva anche a livello di rappresentanza, di togliere gli affittuari dalle camere di com-
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mercio e di inserirli nelle nuove istituzioni30.
Il progetto di Cavalieri — come si vedrà - non ebbe un esito diverso da quello di Griffi- ni e di tutte le altre proposte che volevano adeguare la rappresentanza dell’agricoltura, al modello delle camere di commercio. Soprattutto nel primo periodo dello Stato unitario, precedente l’allargamento del suffragio che abbassò la rappresentanza parlamentare della proprietà terriera, la presenza massiccia dei grandi proprietari fondiari in Parlamento e negli altri corpi dello Stato costituì la difesa più sicura dei loro interessi. Come ebbe a dire Girolamo Chizzolini, efficiente policy-maker della proprietà fondiaria milanese, “la vera rappresentanza poi degli interessi dell’agricoltura è da cercarsi non già in piccoli corpi provinciali o regionali sibbene nello stesso Parlamento”31. Un simile atteggiamento trovò sostegno nell’ambigua politica statale, indecisa se attribuire agli organismi economici locali funzioni di esclusiva rappresentanza o di amministrazione32. Alle domande formulate da alcuni comizi per avere un chiarimento sulle loro prerogative, fu risposto che il loro compito non doveva superare quello dell’amministrazione spicciola33. Di fronte a questo campo fluttuante di posizioni dei gruppi agrari e dello Stato nei confronti del rapporto che li univa, anche la “normale amministrazione locale” affidata ai comizi venne disattesa con la complicità della stessa pubblica amministrazione. Concedendo agli istituti rappresentativi della
proprietà fondiaria l’esenzione fiscale, questa ne accentuò la condizione di privilegio rispetto ad altre categorie economiche, perpetuando al tempo stesso la sua dipendenza dal centro. In questo senso l’accentramento esercitato dallo Stato nei confronti delle forze produttive — confutato da Sabino Cassese per quanto riguarda la storia delle istituzioni agricole34 — si tradusse in una forma di connivenza nei confronti delle classi fondiarie. La politica di favore condotta dall’amministrazione nei riguardi dei proprietari terrieri si espresse nel loro legame esclusivo con il centro, attraverso il quale il tradizionale individualismo di questa classe venne perpetuato grazie alla protezione dello Stato anche nel periodo in cui la proprietà fondiaria non costituì più la base prevalente della classe di governo. La garanzia di riproduzione dei ceti possidenti, fornita dallo Stato per assicurarsene l’appoggio, fu uno dei fattori che impedirono la formazione di una cultura dell’autogoverno locale dell’agricoltura. La selezione attuata nei confronti delle classi fondiarie a discapito delle altre categorie agricole, la difesa dell’individualismo del possesso ed il dialogo esclusivo tra amministrazione centrale e proprietari contribuirono infatti a negare, da parte di questi ultimi, la possibilità di un rapporto con lo Stato attuato sulla base di una gestione locale dell’economia agricola alla quale partecipassero tutte le categorie interessate ad uno sviluppo produttivo del settore34 bls. Da questo punto di vista la selettività e il favoritismo nei riguardi della pro-
10 Prima relazione del comm. Enea Cavalieri sul tema: “La rappresentanza dell’agricoltura”, Consiglio di agricoltura (CA), Sessione 1905 e 1906, in “Annali di agricoltura” (AA), 1907, p. 346.31 IV Congresso generale degli agricoltori italiani tenutosi in Ferrara (maggio 1875), A tti ufficiati, Milano, 1877.32 Proposte per una riforma dei comizi agrari fa tte dal comizio agrario di Bologna, in “Il nuovo incoraggiamento”, monitore dei comizi agrari del Regno d’Italia, Ferrara, 1874.33 Risposta del ministro Majorana-Catalabiano a G. Chizzolini, ACS, MAIC, V vers., b. 16 (20 luglio 1876).
34 Sabino Cassese, Le regioni nel governo dell’agricoltura, in La formazione dello stato amministrativo, Milano, Giuffrè, 1974, p. 311.34 bls Sul processo attraverso il quale nell’Ottocento l’idea della proprietà individuale come diritto naturale si salda a quella di cittadino, vedi Paolo Grossi, Un altro modo di possedere, Milano, Giuffré, 1977.
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prietà fondiaria appaiono come costanti di lungo periodo dello Stato liberale che concorsero alla formazione di quel “privatismo” che contrassegnerà la storia del padronato agrario in età giolittiana, quando la svolta industrialista e la conflittualità nelle campagne fecero sorgere all’interno del settore agricolo domande pressanti di difesa rivolte allo Stato, che si unirono al tempo stesso al sorgere di forti atteggiamenti antigovernativi. Proprio nel periodo giolittiano il mantenimento del privilegio nei riguardi della proprietà fondiaria venne utilizzato dall’amministrazione pubblica per controbilanciare il massiccio intervento di sostegno nei confronti dell’industria e per continuare a garantirsi una base politica all’interno di un settore in declino.
Il Consiglio di agricoltura
La composizione. Il Consiglio di agricoltura fu creato il 24 settembre 1868 come un ristretto corpo consultivo, composto di sei membri di nomina regia, innalzati a dodici dopo due mesi. Era affiancato dal Consiglio forestale e da quello ippico. I tre consigli vennero unificati nel 1872 dal ministro Castagnola e trasformati in sezioni di un unico Consiglio di Agricoltura, i cui membri furono innalzati a quaranta. Il corrispondente Consiglio dell’industria e del commercio era sorto nel 1869 per espressa volontà di Min- ghetti, ministro di Agricoltura nel terzo ministero Menabrea, modellato su analoghi esempi europei, il Consiglio di agricoltura aveva il compito di fornire pareri sui progetti di riordinamento delle rappresentanze e delle statistiche agrarie; sugli acquisti di concimi, semi, macchine, etc. proposti dai comizi e sugli eventuali sussidi da erogare al riguardo; su concorsi, esposizioni e pubblicazioni del ministero. Era presieduto dal ministro; il direttore dell’agricoltura ne era mem
bro di diritto. Secondo le dichiarazioni di Errico Pessina, a cui si deve la riforma più radicale del consiglio avvenuta nel 1878, la scelta di escludere la rappresentanza locale, ossia i comizi era stata motivata dal fatto che ancora nei primi anni settanta si pensava di giungere in breve alla costituzione delle camere provinciali di agricoltura dalle quali, seguendo l’esempio della Prussia, sarebbero stati eletti i rappresentanti in seno al consiglio. La mancata attuazione di una riforma della rappresentanza dell’agricoltura su base elettiva alla periferia e al centro consentì all’amministrazione pubblica di privilegiare la proprietà fondiaria e di attuare nei suoi confronti una selezione in base all’appartenenza territoriale, al fine di rispettare gli equilibri politici dei vari governi. I membri, in carica in questa prima fase per tre anni, erano sempre rieleggibili; il che permise di dare al corpo una forte continuità.
La rappresentanza locale fu introdotta fino al 1878 per via indiretta tramite la scelta di membri che erano presidenti di importanti comizi, nella maggior parte dei casi proprietari fondiari di origine nobiliare con un passato risorgimentale e appartenenti alla classe dirigente nazionale, come il sen. conte Guglielmo Cambray-Digny (Firenze), il sen. conte Giovanni Arrivabene (Mantova); il sen. Giacomo Plezza (Mantova), il dep. conte Pietro Pasolini (Cesena); il conte Giovanni Revedin (Ferrara); il dep. Vincenzo Titto- ni e il conte Guido Carpegna (Roma). A costoro si affiancavano i consiglieri scelti per l’unione tra carriera politica e competenza, come Stefano Jacini, o tra carriera politica e interessi fondiari e industriali, come Vincenzo Breda. Rilevante anche la presenza degli esperti in agronomia, quasi esclusivamente di provenienza padano-toscana. Alcuni erano tecnici puri, come Antonio Zanelli, entrato nel consiglio nel 1874 quando insegnava nell’Istituto tecnico di Reggio Emilia e restatovi fino al 1887 in qualità di direttore
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della Scuola zootecnica e di caseificio di Reggio35; Adolfo Targioni Tozzetti, direttore della Stazione entomologica di Firenze; Francesco Lawley, fino al 1877 presidente del Comitato centrale ampelografico. Altri, rappresentano lo stretto legame tra tecnici e classi fondiarie, come Alfonso Cossa, direttore della Stazione agraria di Torino, divenuto presidente dell’Associazione agraria di Torino nel 1893; Antonio Keller, professore universitario di agronomia e direttore per molti anni del comizio di Padova; Gaetano Cantoni, fondatore della Scuola di agricoltura di Milano che diresse fino al 1887, anno della sua morte. Nominato dal 1871 al 1886, Cantoni attesta nel consiglio la forza della tradizione agronomica lombarda e la sua fusione con la proprietà fondiaria milanese.
Le vicende del corpo consultivo diventano più movimentate a partire dal 1878, quando il decreto dell’8 dicembre lo trasformò in consiglio allargato. La riforma fu varata durante il primo ministero Cairoli, sei mesi dopo che Baccarini aveva ripristinato il soppresso ministero di Agricoltura che venne affidato al napoletano Pessina. La composizione del consiglio, che doveva costituire un anello di congiunzione più solido tra le rappresentanze locali e il governo, subì notevoli modifiche. Abolite le tre sezioni, i membri — portati a trentasette con incarico annuale — vennero così suddivisi: ventiquattro presidenti di comizi; sei presidenti di società economiche, accademie, associazioni scientifiche agrarie, società veterinarie, ippiche e altre attinenti all’economia rurale, forestale e del bestiame; dieci consiglieri di nomina regia “scelti fra le persone più versate nelle dottrine economiche e scientifiche attinenti all’agricoltura”; sette membri di diritto. L’introduzione ufficiale dei rappresentanti
dei comizi non trasformò comunque il consiglio in elettivo, dal momento che era ancora il ministro a scegliere ogni anno i ventiquattro comizi “più attivi e autorevoli” . Il permanere del criterio nominativo anche nei riguardi delle rappresentanze locali aveva un duplice scopo: sollecitare i comizi ad un migliore funzionamento; garantire all’amministrazione centrale la discrezionalità della selezione per salvaguardare equilibri regionali e politici. La riforma del consiglio fu accompagnata dall’emanazione del già citato decreto che imponeva ai comizi di scegliere il proprio presidente e vicepresidente tra i soci possidenti e domiciliati nella provincia. In questo modo, nonostante l’allargamento della composizione del consiglio, era assicurata la presenza di un proprietario fondiario anche in rappresentanza di quelle zone dove prevaleva il grande affitto. L’introduzione delle società e delle accademie agrarie a fianco dei comizi risulta particolarmente significativa in quanto apre uno spazio all’associazionismo privato, al momento costituito ancora all’antica forma del sodalizio scientifico, che a partire dalla fine degli anni ottanta sarà occupato dalle nuove organizzazioni degli interessi economici. Il loro peso crebbe, all’interno del consiglio, fino al 1896 a discapito dei comizi. A quella data il ministro Guicciardini unificava le due sezioni dei comizi e delle associazioni, abbassando il numero complessivo dei rappresentanti a diciotto (R.D. 31 dicembre 1896) che, per la sessione 1896-1897 furono suddivisi in dieci presidenti di comizi e otto presidenti di associazioni. Contemporaneamente fu elevato il numero dei “consiglieri eccellenti” di nomina regia: quindici nel 1887, su ventiquattro presidenti di comizi e sei associazioni; dodici nel 1896, su diciotto presidenti di comizi e società; sei
35 Su Antonio Zanelli, vedi Marco Paterlini, Prima forma di zootecnia razionate e agricoltura a Reggio Emilia e fine Ottocento, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” , n. 5/1983, Le campagne padane negli anni della crisi
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nel 1898 su dodici presidenti di comizi e associazioni. Il numero crescente di consiglieri di nomina regia garantì la continuità delle cariche nonostante la riduzione del periodo ad un anno. Nel 1896-1897 il consiglio rispecchiò maggiormente i mutamenti avvenuti all’interno delle rappresentanze agrarie: il declino dei comizi; la loro abdicazione nei confronti dei sindacati economici sovente nati per loro stessa iniziativa; la nascita della Federazione italiana dei consorzi agrari, che unificò la nuova rete dell’associazionismo economico imponendosi come forte gruppo di interesse non solo nell’area padana ma anche a livello nazionale. Il ruolo marginale attribuito ai comizi e l’apertura alle nuove associazioni sorte alla fine della crisi agraria con lo scopo di controllare il mercato, non modificarono tuttavia radicalmente la funzione consiliare, che aveva prevalso in passato all’interno dell’organo, in una funzione di rappresentanza.
Nel momento in cui all’interno dell’agricoltura la dinamica degli interessi stava trasformando i criteri della rappresentanza attraverso l’emergenza di categorie imprenditoriali che si opponevano alla logica della rendita fondiaria, il consiglio fu sottoposto ad un’ulteriore e decisiva modifica che segnò l’inizio della perdita del suo potere consultivo. Il decreto 27 febbraio 1898, mentre innalzava nuovamente i rappresentanti a venti, creava un comitato formato da sei consiglieri, dal presidente e dal direttore della Agricoltura, che avrebbe dovuto trattare col ministro per i casi più urgenti senza che il consiglio venisse convocato. Dopo due anni, con ulteriore modifica apportata dal ministro Carcano, veniva introdotta per la prima volta un’effettiva componente elettiva. In un elenco suddiviso in dodici gruppi corrispondenti alle regioni agrarie del paese, erano in
seriti i comizi, le associazioni, i consorzi e le accademie più attivi tra i quali dovevano essere eletti i dodici rappresentanti per un biennio da inviare al consiglio. Ma gli elenchi, compilati a discrezione delPamministrazio- ne, non rispettavano l’effettiva importanza degli enti. Come ebbe a lamentare l’infaticabile Enea Cavalieri in un progetto di riforma del consiglio presentato nel 1905, la Feder- consorzi era equiparata ad un comizio o ad un piccolo consorzio locale36. Con questa ulteriore riforma riprese forza la rappresentanza legale dell’agricoltura: nel 1902 e nel 1905 il rapporto tra comizi e associazioni è di nuovo a favore dei primi (9 su 12), anche quando questa componente diventa elettiva. Ciò è dovuto al fatto che negli elenchi erano inseriti soprattutto i comizi, i consorzi e le società ad essi legati, al fine di consentire la permanenza dentro il consiglio di una rappresentanza fortemente selezionata, sia dal punto di vista geografico che da quello categoriale.
La parzialità del sistema elettivo introdotto e il suo scarso potere di trasformazione del consiglio sono confermati con decreto del 23 maggio 1901, emanato da Zanardelli, che innalzò il numero dei membri di nomina regia da sei a dodici, pareggiandoli con gli eletti. Le “guarentigie di indipendenza” del consiglio — come si espresse Enea Cavalieri nel suddetto progetto — erano rese “affatto derisorie” sia dal numero dei membri scelti dal ministro che da quelli di diritto, che crebbe in misura direttamente proporzionale alla decrescita complessiva dei consiglieri. Compresi il ministro e il segretario generale — che fu sostituito dopo la riforma Crispi con il sottosegretario di Stato — i membri di diritto furono sette nel 1887, otto nel 1896, sei nel 1898, otto nel 1900 (da notare l’aumento in concomitanza dell’introduzione del sistema elettivo). Alcuni consiglieri nominati per le
36 Relazione de! comm. Enea Cavalieri sul tema "Riordinamento del Consiglio di agricoltura", CA, Sess. 1905 e 1906, AA. 1907, pp. 488.
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loro competenze tecniche diventarono, come Raffaele Canevari, ispettori dell’agricoltura o presidenti di corpi e commissioni rappresentati di diritto dentro il Consiglio di agricoltura. Per altri dalla presidenza di un corpo tecnico prese avvio una felice carriera amministrativa: Giancarlo Simeoni, presidente dal 1887 al 1896 del Consiglio forestale, divenne nel 1897 direttore dell’agricoltura. Nicola Miraglia, la cui ultraventennale direzione dell’agricoltura fu la più famosa all’interno del ministero, fece il percorso inverso. Terminata la carriera di funzionario, eletto deputato di Lagonegro, rientrò nel consiglio nel 1892 e 1893 come presidente del Consiglio ippico e dal 1902 al 1910 come consigliere nominato nella sua nuova carica di direttore generale del Banco di Napoli. Anche Alfredo Codacci Pisanelli, deputato pugliese, entrò come consigliere nel 1911 dopo essere stato dal 1904 al 1910 sottosegretario di Stato al Tesoro e all’Agricoltura. Il conte Francesco Guicciardini è infine l’esempio più chiaro di continuità all’interno del consiglio grazie al passaggio della carriera amministrativa a quella politica. Entratovi nel 1884 come presidente del comizio di S. Miniato, divenne segretario generale del Ministero fino all’86. Tornato nel 1888 per nomina regia e nel 1892 ancora come presidente del comizio, divenne ministro dell’Agricoltura dal 1896 al 1897. A quella data Guicciardini abbandonò l’Agricoltura per continuare in dicasteri più prestigiosi la sua carriera, culminata nel 1906 con il portafoglio degli Esteri.
Si può riscontrare anche nel Consiglio di agricoltura quella progressiva burocratizzazione dell’amministrazione, iniziata alla fine del secolo come conseguenza dell’attenuarsi
dell’osmosi tra carriera politica e carriera amministrativa37? Le analisi condotte sul Consiglio della previdenza e del lavoro hanno verificato puntualmente questo fenomeno, dato che i membri di diritto presenti in questi corpi erano tutti funzionari ministeriali38. Nel Consiglio di agricoltura tra i membri di diritto prevalgono i funzionari (direttori, segretari, ispettori) solo in determinati periodi, come negli anni ottanta. In altri dominano i presidenti di altri corpi o commissioni tecniche, come nel Novecento. Invece che di burocratizzazione è più opportuno parlare di uno svuotamento di competenze del consiglio a causa della proliferazione di corpi speciali di natura esclusivamente tecnica che aumentarono comunque il peso dell’amministrazione sia rispetto al consiglio che allo stesso Parlamento. A differenza di quanto avvenne all’interno del Consiglio del lavoro, in quello di agricoltura non si alzò nessuna voce, all’infuori di quella di Enea Cavalieri a lamentare la progressiva perdita del suo potere consultivo. Nella rinuncia dei membri a combattere per far riacquistare al consiglio le proprie competenze tecniche può, a ben vedere, essere identificata la funzione politica che il corpo svolse in età giolit- tiana. Tale rinuncia attesta il legame subalterno nei confronti dell’amministrazione accettato dai proprietari terrieri al fine di non intaccare il privilegio del loro rapporto esclusivo con lo Stato. La lenta agonia del consiglio, iniziata nel 1897, anno dopo il quale si riunì solo nel 1902 e nel 1905 per proseguire a singhiozzo fino al 1911 ed arrestarsi completamente a quella data prima dello scoppio della guerra, segue quel processo di decadenza dell’attività del ministero, vigorosamente
37 Sabino Cassese, Il sistema amministrativo italiano, Bologna, Il Mulino 1983, p. 27 sgg.; Alberto Caracciolo, Sabino Cassese, Ipotesi sul ruolo degli apparati democratici nell’Italia liberale, in “Quaderni storici” , n. 18, 1971. Sull’osmosi fra politica e amministrazione nel primo trentennio unitario, vedi Riccardo Faucci, Finanza, amministrazione e pensiero economico. Il caso della contabilità di stato da Cavour al fascismo, Torino, Fondazione L. Einaudi, 1975, pp. 97-702.38 Dora Marucco, Lavoro e previdenza dall’Unità al fascismo. Il Consiglio della previdenza e delle assicurazioni, cit.; Enzo Balboni, Le origini dell’organizzazione amministrativa del lavoro, Milano, Giuffrè, 1968, pp. 46 sgg.
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enunciato da Nitti quando era deputato, inserendosi, al tempo stesso nella linea sostenuta da Nitti ministro dell’Agricoltura incentrata sulla diminuzione dei corpi speciali e sull’aumento del personale tecnico39. Ma è anche la riprova della scelta regressiva dei suoi membri, disposti ad evitare ogni pressione sull’amministrazione pur di non alterare al suo interno la base ristretta della loro rappresentanza.
Rappresentanza geografica e rappresentanza degli interessi. Nel corso degli anni ottanta avvenne il passaggio da una rappresentanza fondata sulla proprietà che si esprimeva secondo un criterio territoriale, nel quale le unità da rappresentare erano circoscritte geograficamente e che poggiava su di una forte omogeneità delle classi dominanti, ad una di tipo categoriale che segnò la fine dell’omogeneità di quelle classi e la nascita al loro interno di interessi contrastanti40. A questo mutamento fece riscontro il sorgere di una nuova dinamica organizzativa, allargatasi a tutte le classi sociali, incentrata sulla formazione di associazioni nate al di fuori del Parlamento e dell’amministrazione pubblica, con l’intento di portarvi dall’esterno la voce degli interessi settoriali. È possibile verificare questo fenomeno in relazione alle classi agricole attraverso l’analisi della composizione del consiglio, utilizzando cioè un osservatorio dal quale è individuabile tanto la politica dell’amministrazione quanto quella delle classi fondiarie in rapporto all’assetto della rappresentanza?
Nel primo periodo della storia del consiglio che coincide, con uno scarto minimo,
con il governo della Destra prevale esclusiva- mente il criterio della rappresentanza geografica. Dalla minuta relativa alle nomine per il 1874 si può constatare che il ministro ha suddiviso i membri secondo le regioni di provenienza: Piemonte, 4; Lombardia, 4; Liguria 1; Toscana, 5; Sicilia, 1; Sardegna, l41. La componente centro-settentrionale continua a dominare anche all’interno del consiglio riformato per quanto riguarda la rappresentanza dei comizi. Dal 1879 al 1894 vennero scelti ogni anno 24 comizi secondo una sud- divisione costante: Italia settentrionale, 9; centrale, 7; meridionale, 8. Nel 1897 (il Consiglio non si era più riunito per tre anni) su 10 comizi, 5 sono del Nord, 2 del Centro, 3 del Sud. Le proporzioni corrispondono al livello di funzionalità degli enti territoriali, notoriamente abbastanza attivi nel Centro-Nord, ma soddisfano ancora una partizione che favorisce, come al tempo della Destra, la Valle Padana e la Toscana. Il rapporto tende a perequarsi in età giolittiana, dopo l’introduzione del sistema elettivo: nel 1902, su 12 comizi, 5 sono del Nord, 3 del Centro, 4 del Sud; nel 1905, 4 del Nord, 3 del Centro, 5 del Sud. Il criterio di scelta dei comizi era basato sulla loro efficienza. Per questo motivo per la Valle Padana compare con più frequenza il Veneto, con i comizi delle province di Padova, Vicenza e Treviso, che furono sempre molto attivi. Segue il Piemonte, altra regione in cui la rete dei comizi era ampia e ben funzionante, soprattutto nella provincia di Torino; la Lombardia, ripetutamente rappresentata dalle province di Milano, Mantova e Pavia; infine l’Emilia, presente prevalentemente attraverso Piacenza e Ferrara. Per il Centro è
39 Francesco Saverio Nitti, Discorsiparlamentari, vol. I, Roma, 1973, p. 161 sgg.; vol. II, Roma, 1974, p. 654 sgg. Sul Ministero dell’agricoltura nel primo Novecento, vedi Carlo Desideri, L ’amministrazione dell’agricoltura (1910-1980), Roma, Officina edizioni, 1981 ; Carlo Fumian, li ministero di agricoltura e la politica agraria dello stato dall’età giolittiana agli anni trenta, in Agricoltura e forze sociali in Lombardia nella crisi degli anni trenta, Milano, Angeli, 1983.40 Alessandro Pizzorno, Il sistema pluralistico di rappresentanza, p. 357; Charles S. Maier, “Vincoli fittizi... della ricchezza e del diritto’’: teoria e pratica della rappresentanza degli interessi, p. 70 sgg., in L ’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale, a cura di Suzanne Berger, Bologna, Il Mulino, 1983.41 ACS, MAIC, II, vers., b. 8, fase. 4, Consiglio superiore di agricoltura.
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chiamato in ogni sezione il comizio di Roma; una buona frequenza hanno anche quelli di Firenze o S. Miniato e Terni. I comizi del Sud — a differenza del Centro-Nord — son rappresentati più dai centri minori che dai capoluoghi di provincia ed hanno una forte rotazione.
La “rappresentanza legale” favorisce in complesso il Centro-Nord sia nel periodo della Destra che della Sinistra. La stessa ri- partizione geografica è riscontrabile nella categoria “società e accademie” . Disaggregando la frequenza dei vari tipi di associazioni su un totale di 84, relativamente al periodo 1878-1911, si ha la seguente ripartizione: Nord 39 (Piemonte 11, Lombardia 14, Friuli 6, Veneto 4, Liguria 1, Emilia 3) Centro 24 (Toscana 10, Marche 2, Lazio 12) Sud e Isole 21 (Campania 11, Puglia 3, Sicilia 6, Sardegna 1). Torino, Milano, Firenze, Roma e Napoli con le loro Società agrarie e accademie scientifiche sono presenti in ogni sessione. Quelle di Milano rappresentano da sole tutta la Lombardia, mentre l’Emilia è rappresentata solo da Piacenza e Parma. Anche nella nomina regia dei “membri illustri” predomina l’area padana. Su un totale di 85 membri (su 93), sempre in relazione al medesimo periodo, di cui è stata identificata l’area geografica rappresentata, la suddivisione è la seguente: Nord 51 (Piemonte 10, Lombardia 14, Veneto 14, Emilia 12, Liguria 1) Centro 17 (Toscana 7, Lazio 7, Umbria 2, Abruzzo 1) Sud e Isole 19 (Campania 9, Puglia 3, Basilicata 1, Sicilia 5, Sardegna 1). Nel totale sono compresi anche i tecnici agronomi, pre
valentemente direttori di scuole agrarie e di cattedre ambulanti, il cui numero ammonta a 21 (sono stati esclusi F. Lawley e L. Petrini in quanto funzionari ministeriali) ed è così suddiviso: Lombardia 4, Veneto 5, Emilia 4, Liguria 1, Toscana 4, Campania 3, Sicilia 1.
Queste statistiche vanno però interpretate attraverso l’analisi della persistenza dei consiglieri e di quella delle singole associazioni, giacché i membri di nomina regia sono presenti nel consiglio sovente anche come presidenti di società. Il maggior numero di frequenze spetta ad Emanuele Romanin-Ja- cur42, deputato della provincia di Padova dalla XIV alla XXIV legislatura, sottosegretario di Lavori pubblici dal 1893 al 1896 con Crispi e agli interni con Saracco (1900-1901); appartenente ad una famiglia di grossi possidenti della Bassa padovana, è consigliere per dieci sessioni dal 1884 al 1910. E ad Enea Cavalieri, il leader della Federconsorzi, anch’egli presente in dieci sessioni (dal 1885 al 1910) come esperto, come presidente della Commissione per la pellagra per Ferrara e come rappresentante della Federconsorzi (nel 1893 e 1897)43. Questi due membri attraversarono la storia otto-novecentesca del consiglio, mentre le altre presenze di lungo periodo sono soggette ad una suddivisione geografica. Sino alla fine degli anni ottanta prevale l’area padana. Gerolamo Chizzolini, il duro rappresentante dei proprietari milanesi e degli interessi fondiari nelle opere di bonifica, entra nel 1880 come presidente della Società degli agricoltori italiani di Milano e vi resta fino al 188844. Piero Lucca, il depu-
42 Per la ricostruzione dei profili biografici dei membri del consiglio appartenenti anche al Parlamento sono stati utilizzati: S. Sapuppo Zanghi, Storia d ’Italia dal 1789 al 1884 coll’aggiunta delle biografie di tutti i deputati e senatori del Regno, Roma, 1889; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale. Profili e cenni biografici di tutti i deputati e senatori eletti e creati dal 1848 al 1890 (legislatura XVI), Terni, 1890; A. Malatesta, Ministri, deputati, senatori dal 1848al 1922, Milano, 1940.43 Su Enea Cavalieri e la Federconsorzi vedi Angelo Ventura, La Federconsorzi dall’età liberale al fascismo: ascesa e capitolazione della borghesia agraria, 1892-1932, in “Quaderni storici” , n. 36, 1977; Dizionario biografico degli italiani (voce di M. Fatica). Sulla sua presenza nel Consiglio della previdenza vedi Marucco, Lavoro e previdenza, cit.44 Gerolamo Chizzolini, laureatosi in matematica a Pavia, lavorò a Milano presso la direzione servizi acque e strade, poi in Sardegna come direttore della costruzione delle strade nazionali. Membro del Collegio degli ingegneri e
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tato di Novara e Vercelli dalla XV alla XXII legislatura, emerse negli anni della crisi agraria come il principale organizzato- re della linea protezionistica dei proprietari piemontesi, è nominato consigliere dal 1884 al 1892 mentre compie la scalata nel mondo politico nazionale che culminerà con il sottosegretario agli Interni nel governo Di Rudini; Pietro Del Vecchio, deputato di Cuneo e seguace di Cairoli, dal 1885 al 1893; il senatore Luigi Griffin, entrato all’Agricoltura nel 1879 come membro della Commissione sulla filossera, dal 1884 al 1888. Dalla fine della crisi agraria si accentua la presenza di membri di estrazione meridionale. Raffaele De Cesare pugliese di estrema destra, segretario all’agricoltura dopo l’Unità, consigliere della Corte dei conti, viene nominato dal 1887 al 1897; il conte Eugenio Faina, deputato di Perugia, membro della Commissione permanente delle Finanze, dal 1882 al 1910; il senatore romano principe Felice Borghese, dal 1897 al 1905; il principe Paolo di Camporeale Beccadelli Acton, di Siracusa, ministro della Marina nel terzo ministero Cairoli e nel quarto De- pretis, rappresentante degli interessi vitivinicoli, dal 1892 al 1910; il deputato foggiano Giuseppe Pavoncelli, ministro dei Lavori pubblici nel terzo dicastero Di Rudini, dal 1897 al 1905. Rappresentante della coltura intensiva pugliese, lui stesso proprietario-imprenditore legato al mondo della finanza, partecipa anche al Consiglio del la
voro sia come membro nominato che come rappresentante dei produttori e capi di aziende agrarie.
La componente meridionale acquista forza dopo la nascita di alcune società nazionali di categoria, molti membri delle quali sono chiamati nel consiglio a rappresentarle. Il Circolo enofilo italiano, fondato a Roma nel 1882, scelto per tre volte come associazione, è anche rappresentato da Eugenio Rebaudendo, Edoardo Ottavi, Giuseppe Pavoncelli, Francesco Guicciardini e dai tecnici Tito Poggi e Gerolamo Caruso. La Società dei viticultori italiani, sorta a Roma nel 1884 sotto il patrocinio del ministero di Agricoltura e grazie all’iniziativa di Domenico Berti e Giuseppe Devincenzi, chiamata nel consiglio per due volte è anche rappresentata, oltre ai due sunnominati, dal senatore di Cuneo Felice Garelli, suo presidente, e dal segretario G.B. Cerletti, fondatore della Scuola di viticoltura di Conegliano. Infine la Società generale degli agricoltori italiani, fondata a Roma su un progetto di Devicenzi realizzato da Miraglia45. Anch’es- sa largamente sostenuta dal ministero come nuova forma di organizzazione degli interessi agrari, ebbe un carattere più scientifico che economico. Costituì comunque un terreno di forte unione della proprietà fondiaria soprattutto centro-meridionale. La sua rappresentanza all’interno del consiglio venne affidata soprattutto a membri del Sud, oltre che del Centro: Raffaele Cappelli,
degli architetti di Milano, fu presidente della Società agraria di Lombardia nel 1863. Fondò “L’Agricoltore” (divenuto poi “L’Italia agricola”) e la Società degli agricoltori italiani di Milano, che ebbe un ruolo determinante nell’organizzazione della campagna protezionistica nei primi anni ottanta. Proprietario di terre in provincia di Mantova e di Ferrara, partecipò alle operazioni finanziarie per le opere di bonifica nel Ferrarese. Su quest’ultimo punto vedi Giorgio Porisini, Bonifiche e agricoltura nella bassa Valle Padana (1860-1915), Milano, Banca Commerciale, 1978.45 Su queste tre associazioni, oltre a Coletti, Le associazioni agrarie in Italia, cit., vedi Luigi Musella, Proprietà e politica agraria in Italia, Napoli, Guida, 1984, al quale si rimanda anche per le notizie relative a Gerolamo Giusso, all’Associazione dei proprietari e agricoltori di Napoli e all’attività del tecnico-agronomo O. Bordiga, direttore de “La rivista agraria” , periodico dell’associazione nato nel 1891.
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suo presidente dal 1897, il principe Felice Borghese, Raffaele De Cesare, Eugenio Faina, Miraglia, Leopoldo Franchetti, Gerolamo Giusso.
Dagli anni novanta l’organizzazione degli interessi categoriali entra dunque nel consiglio, ma la selezione attuata dall’amministrazione è molto forte e tende ancora un volta a seguire un criterio geografico coincidente con il mutare delle alleanze tra governi e classi fondiarie. Le analisi precedenti hanno mostrato che ai vari livelli di composizione del consiglio la prevalenza di membri e associazioni padane è smussata, anche se non messa totalmente in discussione, da una più costante presenza del Centro-Sud, dove il Centro non è più rappresentato dalla Toscana bensì da Roma. Dopo la svolta protenzionista e più ancora in età giolittiana, le classi fondiarie del Sud hanno una rappresentanza molto incisiva attraverso l’Associazione dei proprietari e agricoltori di Napoli, fondata nel 1886 e presieduta fino al 1901 dal conte Gerolamo Giusso, membro del consiglio e della Società degli agricoltori italiani. Mentre analoghe associazioni sorte in Valle Padana durante e dopo la crisi sono totalmente ignorate, questa è presente nel consiglio dal 1887 al 1910 con una frequenza di cinque sessioni pari alla Società agraria di Lombardia, chiamata dal 1879 al 1902. La crescita della componente fondiaria meridionale avviene nel contesto di una sua costante alleanza politica con l’amministrazione e coincide con la formazione in Parlamento del gruppo agrario, avvenuta negli anni novanta, monopolizzato dai proprietari del Sud. La proprietà milanese resta in assoluto la più rappresentata attraverso la Società agraria, la vecchia Società degli agricoltori di Chizzolini, le sue società scientifiche e la Scuola superiore di agricoltura che, con Gaetano Cantoni e Vittorio Al
pe, attraversa la storia del consiglio. L’indiscussa predominanza dei tecnici padani è una riprova del carattere differenziato attribuito dalPamministrazione pubblica alla rappresentanza dell’agricoltura nazionale. Di quella padana vengono valorizzati gli elementi di competenza e organizzazione scientifica della produzione; di quella meridionale l’alleanza governativa. Per quanto riguarda la proprietà fondiaria milanese, la sua rappresentanza in chiave eminentemente tecnica ha riscontro nelle posizioni assunte dalla Destra milanese nei confronti della Sinistra, in particolare di Crispi e della “meridionalizza- zione” della classe dirigente da questi inaugurata46. La chiusura delle classi fondiarie milanesi e la loro emarginazione dal mondo della politica nazionale durante gli anni della Sinistra è verificabile anche all’interno del consiglio. Mentre i nuovi consiglieri del Sud sono tutti membri del Parlamento, quando non del governo, nessuno dei tecnici e dei rappresentanti della Società agraria di Lombardia sono parlamentari. Lo sono invece quelli delle altre province lombarde, legati alla Sinistra storica.
Nel gioco delle presenze e delle assenze regionali l’Emilia occupa una posizione singolare. Se si esclude il ferrarese Enea Cavalieri, che sostiene dalla seconda metà degli anni novanta gli interessi della Federconsorzi di Piacenza, le province emiliane, scarsamente presenti, sono rappresentate quasi esclusiva- mente da alcuni tecnici famosi. Emerge il vuoto della rappresentanza di Bologna: il suo comizio è chiamato solo tre volte; la sua gloriosa Società agraria, così legata a Min- ghetti, mai. Eppure i proprietari bolognesi furono sempre ministeriali: seguaci di Min- ghetti, poi depretisiani, crispini e almeno una parte di essi, quelli di origine nobiliare, anche giolittiani47. Ma la loro rappresentanza
46 Fausto Fonzi, Crispi e lo “stato di Milano”, Milano, Giuffrè, 1965.4 Maria Malatesta, Il Resto del Carlino. Potere politico ed economico a Bologna da! 1885 al 1922, Milano, Guanda, 1978.
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nel Parlamento e negli altri corpi dello Stato fu assai scarsa, quasi a comprovare la marginalità politica di una provincia che pure aveva grandemente contribuito alla formazione dello Stato unitario. L’esclusione della regione dal mondo della politica nazionale diventa più marcato nel periodo giolittiano quando le lotte agrarie acutizzano propensioni anti governative nel padronato locale48, producendo al tempo stesso nuove organizzazioni degli interessi (le associazioni di resistenza in funzione antisciopero) che non trovano alcuna rappresentanza aH’interno della pubblica amministrazione. Nel 1910 Lino Carrara, il leader dell’Agraria parmense, venne eletto nel consiglio come rappresentante dell’Emilia, ma in qualità di presidente del Consorzio agricolo, da pochi anni controllato dall’Agraria. La potente Federazione interprovinciale agraria, che coordinò le associazioni di resistenza emiliane e del basso Veneto e la Confederazione nazionale agraria, che da questa ebbe origine49, non furono mai incluse nell’elenco ministeriale delle associazioni, mentre poterono inviare alcuni rappresentanti al nuovo Consiglio del lavoro sorto nel 1902. Tuttavia anche per questo consiglio non si arriverà mai ad una rappresentanza ufficiale delle nuove organizzazioni padronali sia industriali che agrarie.
In questo corpo, che avrebbe dovuto diventare un Parlamento del lavoro, l’agricoltura e l’industria entravano “o attraverso l’organizzazione generica delle Camere di commercio e dei comizi agrari scelti dal ministro tra i designati delle associazioni iscritte negli elenchi... necessariamente imperfettissimi ed eterogenei”50. La riforma invocata dalle componenti padronali per ottenere
nel consiglio una rappresentanza specifica della agricoltura e dell’industria, non fu mai attuata dato che l’amministrazione respinse un’organizzazione del consiglio orchestrata direttamente dai gruppi economici e sindacali. L’esempio del Consiglio del lavoro facilita la risposta alla domanda posta preliminarmente, relativa ai tipi di rappresentanza riscontrabili all’interno di quello di agricoltura. La pubblica amministrazione applicò un criterio di esclusione sia nei riguardi delle frange aggressive degli agrari padani che assunsero nel primo Novecento posizioni autonomistiche ed antigovernative, sia nei confronti delle organizzazioni categoriali degli imprenditori, privilegiando quella proprietà fondiaria sul cui appoggio poteva contare, nei vari periodi, con sicurezza. In questo senso le nuove organizzazioni degli interessi furono oggetto di accurata selezione e ricevettero una rappresentanza amministrativa solo nei casi in cui coincidevano con opzioni politiche, più direttamente esprimibili attraverso una logica geografico-territo- riale.
La difesa del diritto di proprietà
La funzione consultiva esercitata dal Consiglio di agricoltura per più di quarant’anni venne esplicata in base ad un criterio rigido ed irremovibile: la difesa del “terribile diritto” . Questo compito che gli era stato attribuito istituzionalmente, emerse in modo inequivocabile a partire dal 1887 quando, con decreto del 20 marzo, venne consultato anche sui provvedimenti volti a promuovere irrigazioni e bonifiche e sui sussidi previsti dalle leggi del 25 dicembre 1883 e 28 febbraio
48 Antony Cardoza, Agrarian Elites and Italian Fascism. The Province o f Bologna, Princeton, 1982.49 Confederazione nazionale agraria, Annuario delle associazioni agrarie italiane, Bologna, 1912.50 Per la riforma della composizione del Consiglio superiore del lavoro. Relazione del Comitato permanente al Consiglio superiore. Relatori: Abbiate, Cabrini, Saldini, in ministero di Agricoltura, industria e commercio. Ufficio del lavoro, A tti del Consiglio superiore del lavoro, XIV sess., febbraio 1910, Roma, 1910, p. 234.
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1886; sulle concessioni dei lavori di bonifica di prima categoria a società private o ad imprenditori; sui ricorsi contro le decisioni della Commissione per la bonifica dell’Agro romano, sui miglioramenti agrari e sulle trasformazioni delle colture che, secondo la legge sul credito agrario del 1887, potevano dare diritto ai mutui ipotecari. Negli ultimi anni ottanta l’attività del consiglio fu incentrata nell’esame delle richieste dei proprietari fondiari riuniti in consorzio relative al rimborso delle opere di bonifica compiute direttamente, come prevedeva la normativa successiva alla legge Baccarini del 1882, secondo la quale l’onere dell’esecuzione dei lavori di prima categoria ricadeva direttamente sullo Stato. I pareri del consiglio, largamente favorevoli ai proprietari, contribuirono in misura decisiva ad incrementare l’azione di sostegno fornita dallo Stato nei confronti della proprietà attraverso le bonifiche che si rivelarono essere la maggiore fonte di finanziamento pubblico di cui usufruì la proprietà fondiaria a partire dalla grande depressione51.
Ma la salvaguardia dei confini della proprietà fu esercitata dal consiglio anche all’interno, perseguendo una linea di difesa del “terribile diritto” dalle minacce che, sul finire del secolo, cominciavano ad essere avanzate da più parti. Così, il diritto di proprietà venne protetto contro le limitazioni che ad esso sarebbero derivate dall’affermazione di un nuovo diritto dell’impresa e del lavoro.
Nell’espletamento di questo compito essenziale, il consiglio si scontrò in alcuni casi con il ministero di Agricoltura, impedendo che istanze innovatrici da questo proposte trovassero attuazione in una legislazione adeguata. L’azione frenante esercitata dal corpo pare confermare l’ipotesi iniziale relativa al ruolo di retroguardia conservatrice che l’amministrazione attribuì di fatto alla proprietà fondiaria come garanzia dell’inattuabilità di un processo di modernizzazione dell’Italia agricola. I tentativi di riforma elaborati da ministri dell’Agricoltura illuminati, come Grimaldi, o progressisti, come Raineri non furono accompagnati da una modificazione della composizione del consiglio che, rimasta costantemente formata dai grandi proprietari fondiari, funzionò sempre da argine ad ogni progetto che comportasse anche in misura lieve l’imposizione da parte dello Stato, attuata tramite lo strumento della legge, di una limitazione dell’assolutezza dell’istituto della proprietà. Per converso è da sottolineare il progressivo svuotamento del consiglio, visibile soprattutto durante l’età giolit- tiana. Per quanto riguarda l’agricoltura, si può formulare l’ipotesi che il “progetto burocratico”52 realizzato in quel periodo venne finalizzato all’emarginazione progressiva di questo settore economico, mantenendo immutati al suo interno i rapporti di potere. La marginalizzazione dell’agricoltura iniziata negli anni del decollo industriale pare essere riconducibile anche ad una strategia
51 CA, Sessione 1884, tornata del 6 marzo 1885, AA. 1885; Sessione 1885, tornate del 25, 27 luglio 1885, AA. 1885; Sessione 1886, tornata del 2 luglio 1886, AA. 1887; Sessione 1893, tornata del 27 maggio 1893, AA. 1893; sulla legislazione in materia di bonifiche vedi Giorgio Porisini, Le bonifiche nella politica economica dei governi Cairoti e De- pretis, in “Studi storici”, luglio-settembre 1974.52 Paolo Farneti, Sistema politico e società civile, Torino, Istituto di Scienze politiche dell’Università di Torino, 1971, p. 189. Per quanto riguarda il rapporto amministrazione/classi agricole in età giolittiana, si possono avanzare dubbi sull’interpretazione di Farneti relativa alla funzione del progetto burocratico nella costruzione di uno stato “supremo moderatore dei conflitti della società civile” e nella risoluzione della questione politica in questione amministrativa. Una riserva generale relativa ad una simile “capacità dello stato amministrativo” è già sollevata da Nicola Tranfaglia, Il deperimento dello Stato liberale in Italia, in Dallo Stato liberale allo Stato fascista. Problemi e ricerche, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 44.
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della pubblica amministrazione che assecondò la perdita del potere politico della proprietà fondiaria senza peraltro controbilanciarla con la nascita di quello degli imprenditori e dei lavoratori agricoli e continuando ad attribuire alla prima il privilegio della rappresentanza degli interessi generali del settore per garantirsi comunque il suo appoggio. Le vicende della rappresentanza dell’agricoltura all’interno della pubblica amministrazione si congiungono così alla storia del protezionismo, sulla funzione compensatrice del quale venne stilato l’accordo tra i proprietari terrieri e i governi della Sinistra.
Nel Consiglio di agricoltura vennero difesi esclusivamente i diritti della grande e media proprietà, mentre la piccola non fu mai rappresentata. Il peso esercitato da quest’ultima nell’organizzazione nazionale degli interessi dell’agricoltura era ancora, in età giolittiana, minoritario anche se in via di affermazione. La Federazione nazionale dei piccoli proprietari nacque nel 1913 data in cui quello che sarebbe divenuto il suo leader, il deputato cattolico di Parma Giuseppe Micheli, aveva da poco iniziato la carriera politica che lo avrebbe portato a ricoprire il dicastero dell’Agricoltura e dei Lavori pubblici nel 1920 e nel 1921, quando i mutamenti apportati dalla guerra nell’assetto fondiario congiunti alla funzione conservatrice attribuita ai piccoli proprietari diedero a questa categoria una nuova e più consistente rappresentanza all’interno dell’amministrazione. All’esclusione dei piccoli proprietari si affiancò quella dei conduttori di fondi. Neppure i grandi affittuari padani vennero rappresentati diretta- mente nel consiglio; i loro interessi vennero sostenuti, in senso lato, solo da Enea Cavalieri e da Vittorio Alpe. Giovanni Secondi deputato di Melegnano, medico e grande affittuario, radicale — come tutti gli affittuari
lombardi, che formarono in quegli anni la base rurale dell’elettorato radicale53 — sostenitore della linea dura dell’affittanza capitalistica negli anni della crisi agraria, fu nominato consigliere dal 1879 al 1881. La carica non venne più rinnovata l’anno successivo, quando Secondi presentò alla Camera l’interpellanza dalla quale prese ufficialmente avvio la “rivolta degli affittuari” lombardi contro la proprietà. Alla sua uscita dal consiglio fa riscontro l’ingresso di Piero Lucca, che rappresentò in quegli anni la linea di difesa più aperta della proprietà fondiaria protezionistica e di destra.
Le associazioni degli affittuari sorte negli anni della crisi non furono mai chiamate a far parte del consiglio. Né quella di Melegnano, che a metà degli anni ottanta contava più di 1.500 aderenti, un numero infinitamente superiore anche a quello dei comizi e delle Società agrarie più importanti, né le altre associazioni di conduttori di fondi, comprendenti anche i proprietari-conduttori, sorte in Valle Padana nel primo Novecento, all’interno delle quali si mescolavano finalità an- ti-sciopero e rivendicazioni di tipo imprenditoriale. Il predominio della grande proprietà impedì complessivamente, con ruoli diversi esercitati a seconda dei periodi da quella settentrionale o meridionale, che il consiglio esprimesse una valutazione favorevole all’affermazione di un nuovo diritto dell’impresa, inteso come rivendicazione di una gestione autonoma dell’azienda agraria realizzata sulla base di una diversa dislocazione tra potere dei proprietari e quello degli imprenditori. La rivolta dei grandi affittuari lombardi, scoppiata nei primi anni ottanta, costituì il primo attacco al diritto di proprietà. Alla richiesta contingente di diminuzione dei canoni di locazione, si affiancarono quelle relative ad una adeguata remunerazione della va
53 Stefano Merli, La democrazia radicale in Italia (1866-1898), in “Movimento operaio”, 1955, pp. 45-46; Laura Barile, li Secolo 1865-1923. Storia di due generazioni delia democrazia lombarda, Milano, Guanda, 1980, pp. 133-136.
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lorizzazione del capitale fisso fornito dalla proprietà attuata dall’imprenditore (la questione delle migliorie) e alla difesa dei diritti di quest’ultimo, affidata a nuovi organi giurisdizionali (i probiviri) che garantissero l’equità del contratto utilizzando il loro potere giurisdizionale per correggere le norme contenute nel codice civile in materia di localizzazione dei fondi rustici, apertamente a favore del proprietario.
La risoluzione della crisi agraria proposta dalla proprietà fondiaria, ossia la tariffa protezionistica, fu accettata in ultima istanza dagli affittuari come correttivo alla contrazione dei profitti rinunciando a battersi per una soluzione all’inglese, basata sull’intensificazione della produzione agricola, garantita da una forte difesa attuata dallo Stato nei confronti degli imprenditori, piuttosto che sulla protezione delle merci dalla concorrenza extra europea54. Ma la rivolta degli affittuari, seguita dai primi scioperi agrari dei braccianti del Polesine e del Mantovano e dei coloni del Milanese, aveva svelato la rottura dell’armonia tra le categorie agricole, basato fino a quel momento sulla soggezione della parte più debole agli accordi contrattuali stipulati in base ad un principio fittizio di equità largamente legittimato dalla normativa contenuta nel codice civile. Questione contrattuale e contesa tra le parti si imposero come due aspetti della medesima realtà di fron
te alla quale emergeva l’esigenza di regolamentare la libertà di contrattazione attraverso una legislazione che correggesse le norme contenute nel codice55. Una prima risoluzione a questo problema fu cercata dall’amministrazione attraverso il progetto di estendere anche al settore agricolo l’istituto dei probiviri in analogia a quanto si stava già discutendo per l’industria. Già ampiamente diffusi in Europa a quella data, i collegi probivirali furono creati in Italia, limitatamente al settore industriale, nel 1893 allo scopo di conciliare e di risolvere in via giudiziale le controversie di lavoro. Il loro operato fu sempre osteggiato dalla componente padronale e, negli anni di decisiva affermazione delle organizzazioni sindacali negletti anche da quella operaia, nella misura in cui prendeva piede l’obiettivo della contrattazione collettiva al posto della risoluzione individuale delle questioni contrattuali. Ebbero comunque un valore assai rilevante attribuibile al fatto che la giurisdizione esercitata dai probiviri colmò le lacune della legge gettando le basi sulle quali verrà elaborato il nuovo diritto del lavoro56 ed evidenziò, in questo senso, la funzione destabilizzante dei nodi costituzionali dello Stato di diritto esercitata dalla produzione di un nuovo diritto atto a garantire interessi sociali in opposizione alla logica dell’individualismo liberale57.
34 Sulla rivolta degli affittuari lombardi e sulla questione del contratto locazione dei fondi rustici nel XIX secolo vedi Maria Malatesta, La grande depressione e l’organizzazione degli interessi economici: il caso degii agrari padani, in “Passato e presente”, maggio-agosto 1985; sulle lotte contadine durante la crisi agraria vedi Rivolte e movimenti contadini nella Valle Padana di fine Ottocento, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi”, 6/1984, Bologna, Il Mulino, 1984.55 Natalino Irti ha precisato la differenza tra leggi eccezionali, che introducono deroghe ai principi del codice civile, e leggi speciali che regolano istituti ignoti al sistema del codice (L’età delta decodificazione, Milano, Giuffrè, 1979, in part. pp. 7-9). La legge speciale è estranea al carattere della legislazione civile ottocentesca basata sul concetto di immutabilità. Da notare invece che dalla rivolta degli affittuari siano emerse richieste di una legislazione speciale in materia di contratti che corregga “il culto superstizioso di codici del rigido e irreformabile giure” (discorso di Francesco Cagnola, Atti parlamentari, Camera dei deputati, tornata dell’8 febbraio 1885).56 Balboni, Le origini dell’organizzazione amministrativa del lavoro, cit., p. 20 sgg.37 Gustavo Gozzi, Legislazione sociale e crisi dello stato di diritto tra Otto e Novecento. Due modelli a confronto: Italia e Germania, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, X, 1984, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 200-201.
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In agricoltura, l’istituto dei probiviri non superò mai la fase del progetto di legge. Nel 1886 il ministro dell’Agricoltura Grimaldi incaricò Enea Cavalieri di studiare e sottoporre all’esame del consiglio la proposta della creazione di collegi di probiviri ai quali ricorrere obbligatoriamente in tutti i casi di disaccordo tra le parti. Alcuni consiglieri videro nel- l’obbligo di risoluzione dei conflitti attraverso la giurisdizione dei probiviri un elemento inaccettabile di coercizione, peraltro non presente nel progetto relativo alPindustria e al commercio nel quale il ricorso era facoltativo. L’estensione indiscriminata dei collegi in tutte le zone agrarie era ugualmente discutibile. Secondo G.B. Cerletti, il fondatore della Scuola di agricoltura di Conegliano, la formazione di ogni collegio avrebbe dovuto essere sottoposta all’approvazione del prefetto e del comizio locale, vale a dire subordinata alla valutazione dei rapporti di forza esistenti tra le categorie agrarie58. Nella sessione successiva Cavalieri presentò un nuovo e più articolato progetto che chiariva la composizione del collegio, formato dai probiviri eletti in numero pari dai proprietari, dagli affittuari e dai lavoratori agricoli e le sue competenze, che dalla conciliazione si estendevano alla risoluzione delle controversie tra proprietari e conduttori; tra proprietari e conduttori e lavoratori. In esso erano presenti buona parte delle rivendicazioni degli affittuari, relative alla clausole contrattuali che garantivano l’ingerenza del proprietario nella conduzione dell’azienda e al calcolo delle migliorie da rimborsare al termine della locazione. Nelle contese con i proprietari i probiviri avrebbero non solo sostituito il perito agronomo che redigeva le stime relative alla consegna ed alla riconsegna per conto del lo
catore, bensì esercitato una propria giurisdizione in tutti quei casi per i quali l’appello alla legge o alla consuetudine risultava insufficiente59.
Le prerogative giurisdizionali dei probiviri, furono interpretate come un attacco al proprio diritto dai proprietari che sovente avevano trovato nella magistratura ordinaria un appoggio a loro favore nel contenzioso con i conduttori. Il dibattito apertosi tra i membri del consiglio fu orchestrato con astuzia volpina da Piero Lucca il quale, mentre si opponeva al principio delle giurisdizioni speciali perché crevano delle “caste”, sollevò una questione di merito relativa all’opportunità per il consiglio di pronunciarsi sulla creazione di un tribunale speciale quando il Parlamento stava discutendo dell’abolizione di quelli di commercio. Lucca fu appoggiato dal senatore Nobili-Vitelleschi, presidente del comizio di Roma, che ribadì l’incompetenza del consiglio a giudicare di un tribunale eccezionale, composto “di gente affatto imperita di diritto, e che di più giudichi irrevocabilmente; maniera di giudizio che non esiste nella nostra legislazione”. Cavalieri replicò che i probiviri avrebbero innestato il principio popolare nell’amministrazione della giustizia e che avrebbero fornito una garanzia di equità in quanto, a differenza dei tribunali di commercio, la materia agricola sarebbe stata ad essi avocata in prima istanza senza distinzione tra il valore delle cause e i tribunali civili sarebbero tornati competenti solo in via di appello. Fu appoggiato solo da Leopoldo Franchetti, che partecipò al consiglio in quella sessione e nella successiva, mentre il senatore cremonese Griffini che alcuni anni dopo — come si è visto — avrebbe presentato in Senato il progetto di legge sul-
58 Enea Cavalieri, Relazione e disegno di legge sui probiviri, CA, Sessione 1886, AA 1887; ibidem, tornata del 3 luglio 1886, pp. 397-424.59 Enea Cavalieri, Relazione e disegno di legge sui probiviri in agricoltura, CA, Sessione 1887, AA 1888; ibidem, tornata del 10 dicembre 1887, pp. 125-241.
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le camere di agricoltura con funzioni arbitrali, alla fine si schierò con Lucca e Vitelleschi. L’o.d.g. votato a maggioranza, mirabilmente generico, respinse di fatto il progetto di Cavalieri. Nel 1893, anno in cui fu varata la legge sui probiviri nell’industria, il progetto sulla loro estensione all’agricoltura fu nuovamente sottoposto all’esame del consiglio. L’unico membro che si pronunciò a favore dell’esercizio della competenza dei collegi nelle controversie tra proprietari e conduttori relative alla locazione delle cose, fu Carlo Ferraris, il noto amministrativista, rettore dell’Università di Padova, più volte membro del Consiglio della previdenza e di quello di agricoltura60. Ferraris riteneva opportuno escludere un intervento dei collegi nei contratti di lavoro, dato che in questo caso avrebbero assunto piuttosto la funzione di giurì in materia civile. Tutti gli altri difesero la competenza dei collegi nei conflitti di lavoro e diedero finalmente parere favorevole al progetto alla condizione che i probiviri fossero utilizzati esclusivamente nelle controversie con i lavoratori agricoli. Cavalieri stesso, schierandosi con la maggioranza, stilò l’o.d.g. nel quale il consiglio dichiarava di preferire “che corra qualche anno di esperienza su questa più modesta loro giurisdizione prima di affidare ai probiviri, sia pure con opportune cautele, anche l’altra delle controversie relative al patto colonico”61. L’approvazione del progetto venne data a patto di una grave mutilazione, con la quale i proprietari riuscirono ad evitare il ricorso obbligatorio alla giurisdizione speciale per le controversie con i conduttori che li riguardavano direttamente; accettarono invece quello relativo ai contratti di lavoro al quale erano
in genere coinvolti i conduttori e i braccianti. L’ulteriore progetto di legge, presentato alla Camera nel 1909 da Cocco-Ortu e Orlando, non venne più sottoposto al giudizio del consiglio che fu invece chiamato a pronunciarsi, due anni dopo, sul punto centrale del contenzioso tra proprietari e affittuari: l’indennizzo delle migliorie.
La questione si poneva in termini assai diversi a seconda che si riferisse all’affitto capitalistico, prevalente nella Bassa Padana irrigua, o dell’affitto detto “a miglioria”, diffuso nell’Italia meridionale. Nel primo caso si trattava di grossi investimenti di capitale fatti dal conduttore nel fondo per intensificarne la produzione, che venivano remunerati alla fine della locazione solo parzialmente, mentre il rimborso completo, soprattutto se riferito a modifiche strutturali, avveniva solo nel caso in cui il proprietario aveva dato preventivamente il permesso. Per gli affittuari capitalistici l’indennizzo delle migliorie significava libertà di iniziativa nel fondo e al tem- di recuperare i capitali investiti che altrimenti restavano a beneficio esclusivo del locatore. I proprietari padani resistettero tenacemente sull’obbligo dell’autorizzazione preventiva, anche se nei primi anni del Novecento la nascente forza organizzativa degli affittuari riuscì a diffondere considerevolmente il dibattito relativo alla modifica del contratto di locazione62. Senza riuscire ad intaccare, in nome del diritto dell’impresa, il punto nel quale i locatori identificavano il diritto di proprietà, furono ottenute alcune concessioni anche grazie all’appoggio di tecnici provenienti da ambienti tradizionalmente legati alla proprietà. È il caso di Arrigo Serpieri, segretario della Società agraria di Lombardia
60 Sulla funzione di Carlo Ferraris nell’elaborazione teorica della nuova organizzazione sociale degli interessi vedi Gustavo Gozzi, Organizzazione degli interessi e razionalità amministrativa in Italia fra Otto e Novecento, in “Il pensiero politico”, 1983, n. 2.61 CA, Sessione 1893, tornata del 27 e 29 maggio 1893, AA. 1893, pp. 22-44, 84-99.62 Eduino Negri, Relazione sull’ordine del giorno proposto dagli agricoltori l ’8 dicembre 1902 ne! tèatro Guidi di Pavia, estratto dagli Atti del congresso, Pavia, 1903.
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nel primo Novecento, che diede un forte contributo alla causa dell’affittanza organizzando commissioni di studio ed elaborando arditi progetti, modellati sull’esempio inglese63. Con l’affitto a miglioria, era stata in origine attuata la trasformazione in agrumeti dei terreni incolti o coltivati. In Sicilia si chiamava “contratto a ventennale” e consisteva nell’affidamento della terra nuda, spesso improduttiva, al conduttore perché la coltivasse a sue spese senza aver diritto ad alcun rimborso. Il fitto a miglioria era stato utilizzato a partire dagli anni ottanta anche nell’Agro romano dove i proprietari, in seguito alle agevolazioni fiscali e creditizie previste dalla legge sulla bonifica nella zona, avevano dato in affitto i terreni ad un canone iniziale molto basso, per un periodo di diciotto anni. Il conduttore doveva sostenere tutte le spese delle bonifiche agrarie e fondiarie che gli vernano rimborsate solo per il 33%. L’indennizzo non sussisteva più in caso di rinnovo della locazione per dodici anni, mentre il canone aumentava del 40%64.
La commissione sui contratti agrari e del lavoro formatasi nel 1894 aveva ampiamente discusso il problema, che restò comunque irrisolto65. Giovanni Raineri, divenuto ministro dell’Agricoltura nel 1910, volle inaugurare il consiglio che non si era più riunito per quattro anni, proponendo come argomento centrale proprio la questione degli indennizzi, finora mai affrontata dal corpo consultivo. Questo atto del ministro testimoniava la
politica che avrebbe improntato il suo dicastero — che tuttavia abbandonò dopo un anno — più spostata verso l’imprenditoria agraria e gli obiettivi produttivistici caratterizzanti la gestione della Federconsorzi, alla quale era strettamente legato. Raineri affidò a Vittorio Alpe, nuovo direttore della Scuola di agricoltura di Milano dopo la morte di Cantoni, altro componente del gruppo dirigente della Federconsorzi, il compito di stendere la relazione. Alpe, che alcuni anni prima aveva abbracciato una posizione di compromesso che lo avvicinava molto più alla linea dei proprietari, invocò in questa occasione, in termini peraltro assai contenuti, la necessità di “far intervenire la legge a stabilire l’inclusione dei capitolati d’affitto di patti i quali riconoscano al fittaiolo il diritto a compenso per le migliorie agrarie e fondiarie dallo stesso compiute e giudicate utili dai periti”66. Le reazioni suscitate dalla relazione furono quanto mai vistose. Il prof. Caruso, direttore della Scuola agraria di Pisa, Codac- ci Pisanelli, ex sottosegretario all’Agricoltura, il principe di Camporeale Acton furono unanimemente d’accordo sul fatto che “non sia neanche lontanamente ammesso che si voglia obbligare i proprietari a subire la volontà dei conduttori” ; che “il proprietario debba soggiacere a quanto propose nel 1901 il Congresso di Lodi, di vedere cioè trasformato il suo fondo, per dover poi sottostare ad indennizzare il fittavolo delle spese da lui fatte” . Ciò che venne respinto con forza fu
63 Società agraria di Lombardia, A tti della commissione per lo studio delle riforme a! capitolato d ’affitto dei fondi irrigui lombardi, Milano, 1905; Arrigo Serpieri, L ’indennizzo per miglioramenti nei contratti d ’affitto (1906), in “Studi sui contratti agrari”, Bologna, 1920. Sull’attività di Serpieri all’interno della Società agraria di Lombardia v. Carlo Fumian, Modernizzazione, tecnocrazia, ruralismo: Arrigo Serpieri, in “Italia contemporanea”, n. 137, 1979, pp. 10-15.64 Vittorio Alpe, Un contratto agrario, in “Agricoltura moderna”, n. 6, 1903; Arturo Bruttini, Sul contratto d ’affitto “a ventennale” e sulle condizioni dell’agricoltura in provincia di Trapani, Bologna, 1903.65 Ministero di grazia e giustizia-ministero di Agricoltura, industria e commercio, Commissione per i contratti agrari e per il contratto di lavoro parte I, Contratti agrari, Roma, 1895.66 A tti del congresso agrario di Lodi, 11-14 settembre 1901, Milano, 1902, pp. 57-59; Vittorio Alpe, Se e come convenga dettare delle disposizioni legislative che rendano obbligatorio l ’indennizzo da parte del proprietario al fittaiolo, per le migliorie da questi compiute nel fondo locato, CA, Sessione 1910-1911, AA, 1912.
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che la legislazione si insinuasse nel patto tra privati, imponendo regole che modificavano il secolare squilibrio tra le parti contraenti. Se intervento legislativo era da esserci, doveva limitarsi a forme di agevolazione tributaria o creditizia. Rispetto al coro dei proprietari, al cui interno più acuto si levò la voce di quelli meridionali, non disposti a discutere la possibilità di modificare le clausole a loro favore previste nel contratto “a miglioria”, Lino Carrara assunse una posizione assai interessante, sia dal punto di vista della mediazione tra gli interessi della proprietà e dell’affittanza, congiunti all’interno dell’Agraria parmense nell’obiettivo primario della lotta di classe anti-bracciantile, sia da quello della funzione attribuita allo Stato all’interno della visione “privatista” degli agrari. Salvaguardando il principio della necessità di contribuire alle spese fatte dagli affittuari soprattutto nei miglioramenti fondiari, Carrara propose che lo Stato finanziasse (attraverso “premi”) le opere più costose, ponendole sotto il suo controllo. Inutilmente Alpe s’appellò alla legislazione inglese, che prevedeva il diritto di indennizzo per tutti i mutamenti agricoli o fondiari, apportati dall’affittuario al fondo. Gli altri membri restarono arrocati sulla formula proposta da Codacci Pisanelli, nella quale l’intervento governativo era limitato all’“incoraggiamento”67.
Il netto rifiuto di una legislazione che sistemasse la materia contrattuale in base a criteri più rispondenti all’emergenza di nuovi bisogni sociali ed economici, non più incentrati esclusivamente, come quelli del codice civile, sul diritto di proprietà, era già stato espresso con altrettanta energia in occasione dei di
battiti apertisi all’interno del consiglio, negli anni della crisi in seguito ai primi moti agrari, relativi alle eventuali modifiche da apportare ai contratti colonici. Queste non dovevano avvenire attraverso “atti coercitivi” e lo Stato nulla doveva imporre a riguardo del mutamento delle consuetudini. Il terrore che la legge scritta si frapponesse fra le due parti contraenti, emerge anche dal rifiuto espresso dal consiglio della proposta avanzata da Enea Cavalieri, relativa al censimento ed alla pubblicazione di tutte le consuetudini alle quali si riportava il codice civile. La risposta della proprietà al quesito sottopostole fu una: se mai intervento dello Stato doveva esserci, che fosse indirizzato alla diffusione della mezzadria, dato che “le considerazioni d’ordine sociale debbono avere anche, ora specialmente, importanza considerevole”68. Il consiglio difese sempre la libera contrattazione come nucleo portante della salvaguardia del diritto di proprietà. Protetto dalle consuetudini secolari e dal codice civile, che le recepì inserendole all’interno del principio generale della intangibilità del contratto tra privati, il terribile diritto venne ribadito dai suoi detentori dagli attacchi provenienti da un’organizzazione sociale che stava lentamente spostandosi verso forme di aggregazione collettiva69. La frontiera ultima della proprietà fondiaria, basata sull’individualismo del possesso, venne difesa dai membri del consiglio anche attraverso i modi della sua rappresentanza.
Il tema della rappresentanza dell’agricoltura venne ripetutamente sottoposto all’analisi del consiglio, soprattutto in concomitanza della presentazione dei progetti di legge
67 CA, Sessione 1910-1911, tornata del 27 e 28 febbraio 1911, AA, 1912, pp. 1-8,48-65.fi8 CA, Sessione 1888-1889, tornata del 3 giugno 1889, pp. 126-143, AA. 1889; sess. 1892, tornata 19 maggio 1892, AA. 1892, parte II, pp. 383-403.69 Sull’individualismo possessivo che ha informato la codificazione francese del 1804 e quella italiana, vedi Natalino Irti, Dal diritto civile al diritto agrario (momenti di storia giuridica francese), Milano, Giuffrè, 1962; Giovanni Ta- rello, Le ideologie della codificazione, Genova, 1971; Paolo Grossi, Tradizioni e modelli nella sistemazione post-uni- taria della proprietà, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno” , nn. 5-6, 1.1, 1976-77.
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relativi alla sua modificazione. La modalità dei dibattiti e la coerenza dei pareri finali che furono espressi dai vari membri attestano il carattere non episodico delle dicussioni, dalle quali emerse il ruolo centrale attribuito dalla proprietà fondiaria ad una formula rappresentativa selettiva che garantisse loro un rapporto privilegiato con l’amministrazione. Su questo punto si verificò, nel 1893, una forte collisione tra il consiglio e il ministero al momento della presentazione di un progetto di legge relativo alla formazione di istituti rappresentativi economici locali che unissero l’agricoltura all’industria ed al commercio. In essi le camere di commercio mantenevano le precedenti prerogative fiscali, mentre i comizi avrebbero provveduto al proprio mantenimento tramite un contributo di 2 lire per abitante ricavato dai bilanci provinciali. Le due istituzioni, che rimanevano profondamente diversificate per quanto concerne l’aspetto del finanziamento, venivano unificate nella composizione che, come per le camere di commercio già esistenti, doveva essere a base elettiva. Elettori delle camere agrarie sarebbero così stati i proprietari, gli affittuari, i coloni e i mezzadri. Contro la proposta dell’amministrazione, che presupponeva la costituzione di una rappresentanza elettiva scalare che dalla periferia si sarebbe estesa al centro, i membri di quella sessione difesero strenuamente i vecchi comizi, certo mal funzionanti ma sicuramente controllati dai proprietari. Due solo furono le voci di dissenso: quella di Carlo Ferraris che si pronunciò decisamente a favore delle nascenti forme organizzative private, basate sull’aggregazione degli interessi categoriali, intese come il terreno dal quale sarebbero scaturite nuove formule rappresentative. E quella di
Enea Cavalieri che valorizzò il significato del progetto ministeriale in quanto avrebbe potuto costituire un tentativo di risoluzione interclassista ai conflitti sociali che avevano iniziato a sconvolgere le campagne padane70. Questa linea venne ripresa da Cavalieri dieci anni dopo, con la consueta energia in un’ampia proposta di modifica della rappresentanza, il cui centro era ancora costituito dalle camere di agricoltura a base elettiva. L’interclassismo propugnato da Cavalieri nel Novecento si era arricchito di un più maturo convincimento all’interno del quale traspariva l’influenza delle teorie di Carlo Ferraris, basato sull’assunto che convenisse “prevenire le organizzazioni a base di classe con le orga- nizzazoni a base di interessi”71. Ma a differenza di quanto aveva sostenuto lo stesso Ferraris nella discussione del 1893, Cavalieri voleva affidare l’esecuzione di questa operazione allo Stato che nei riguardi dei “rappresentanti economici e sociali... rifugge dal considerarsi incompetente, e dal contentarsi di un’alta tutela, sia perché ben spesso è chiamato arbitro delle loro contestazioni, sia perché i gruppi multifórmi degli interessi economici e sociali non hanno la propria origine e il proprio svolgimento progressivo, se non attingendo alla stessa vita nazionale”72.
L’obiettivo di Cavalieri consisteva nella creazione di aggregazioni locali e di reti rappresentative rispondenti a fini sociali, oltre che economici, in quanto avrebbero costituito attraverso l’interclassismo ed il legame con la pubblica amministrazione un canale di integrazione all’interno dello Stato dei ceti subalterni agricoli. Questa soluzione avrebbe però comportato una diversa dislocazione del potere dei proprietari fondiari nei riguardi dell’amministrazione anche perché apriva,
70 CA, Sessione 1893, tornate del 29, 30 maggio, 2 giugno 1893, pp. 103-108, 115, 123, 325-349.71 Prima relazione deI comm. Enea Cavalieri sul tema: “La rappresentanza dell’agricoltura”, CA, Sessione 1905 e 1906, AA. 1907, p. 344.7~ Ibidem , p. 307. Vedi anche nello stesso volume degli “Annali di agricoltura”, la Seconda relazione del comm. Enea Cavalieri sul tema: “La rappresentanza dell’agricoltura”. Il dibattito tenutosi il 26 giugno 1905 è alle pp. 35-38.
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al tempo stesso, un canale rappresentativo diretto anche alle categorie imprenditoriali. E venne infatti respinta dalla proprietà fondiaria attraverso la difesa dell’istituto del comizio. L’interclassismo “teorico”, propugnato in quegli anni dalle agrarie padane era una formula vuota-, che presupponeva comunque un controllo del padronato su mezzadri e braccianti. Acquistava un diverso significato quando veniva proposto in termini di “concertazione” degli interessi categoriali garantita dalla mediazione dello Stato.
La storia del Consiglio di agricoltura può
essere considerata in definitiva non solo come rivelatrice delle modalità del rapporto tra Stato e classi fondiarie ma anche delle stesse caratteristiche rivestite dallo Stato nel periodo liberale. La linea di Cavalieri risultò infatti perdente in quanto presupponeva uno Stato mediatore tra interessi contrastanti, mentre si scontrava in realtà con un’amministrazione ancora profondamente contesa fra le domande di legittimazione di nuovi e la difesa di retroguardia di più antichi interessi73.
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73 Le posizioni di Cavalieri si avvicinavano, pur con alcune diversità, alle teorie di Carlo Ferraris e come queste vennero sconfitte all’interno della politica e della cultura Otto-Novecentesca. La concezione della scienza dell’amministrazione elaborata dal giurista padovano presupponeva uno Stato armonizzatore delle diseguaglianze sociali al fine di conservare lo sviluppo economico esistente. La tendenza che si impose a fine Ottocento fu invece quella dell’asso- lutizzazione del giuridico, propugnata da Vittorio Emanuele Orlando, attraverso la quale venne rappresentata la separazione tra Stato e società valorizzando, grazie alla scelta formalistica, la funzione dell’organizzazione amministrativa come strumento di gestione della società. Questa tesi è stata elaborata da Cesare Mozzarelli e Stefano Ne- spor, Giuristi e scienze sociali nell’Italia liberale, Venezia, Marsilio Editore, 1981.