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Stato liberale e rappresentanza dell’economia Il Consiglio di agricoltura di Maria Malatesta Introduzione Le tormentate vicende del ministero di Agri- coltura, industria e commercio e le sue diffi- coltà di esistenza iniziate durante lo Stato sa- baudo e proseguite per il ventennio postuni- tario, sono state lette dalla storiografia am- ministrativa come il segno della resistenza di una classe politica, totalmente dedita ad una cultura economica liberista, ad accettare re - sistenza di un dicastero attraverso il quale ve- nisse organizzato da parte deH’amministra- zione centrale un settore che si reputava esse- re patrimonio esclusivo dell’iniziativa priva- ta e in quanto tale soggetto ad essere rigoro- samente salvaguardato da intromissioni e controlli dei pubblici poteri. Sia nel 1850 che nel 1860 il ministero venne fondato per ra- gioni di opportunità politica, più che per la convinzione che fosse necessario dare vita ad un apposito ramo dell’amministrazione1. Eppure, anche in quel clima improntato ad un liberismo programmatico, il governo ave- va ritenuto di dover compiere un’azione di tutela di alcune condizioni generali dell’atti- vità economica nazionale e di incentivo allo sviluppo delle forze produttive, pur “senza immischiarsi direttamente nelle cose indu- striali e commerciali, al cui incremento è principalmente uno stimolo l’interesse pri- vato”2. La funzione di tutela e di sostegno esercitata dal governo soprattutto nei con- fronti dell’agricoltura venne sottolineata am- piamente dagli amministrativisti dell’epoca che in questo modo risolsero l’arduo dilem- ma costituito dalla mediazione tra laissez fai- re e interventismo statale3. Le analisi condot- te sulla legislazione europea in materia di di- ritto pubblico dell’economia hanno eviden- ziato lo scarto esistente tra la formula del non intervento dello Stato liberale e la sua ef- fettiva realizzazione. La normativa volta a regolare i rapporti economici tra i privati si è progressivamente arricchita di norme impe- rative, restrittive dell’attività dei singoli. Lo Stato liberal-borghese ha mantenuto tutte le funzioni di disciplina dell’economia caratte- ristiche dello Stato patrimoniale àe\Vancien Régime e le ha accresciute nel corso degli an- ni, passando “intere province... dalla sfera privata a quella pubblica” fino ad arrivare alle prime statalizzazioni4. La distanza stessa ' Alberto Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell'unificazione italiana, Torino, Einaudi, 1960, p. 43. 2 Atti parlamentari, Legislazione VII, 1860. Sessione unica. Documenti della Camera e del Senato, Progetto di legge presentato alla Camera il 22 maggio I860 da! ministro delle Finanze Vegezzi. 3 R. Porrini, I ministeri, in Primo trattato completo di diritto amministrativo, a cura di V. Emanuele Orlando, Ro- ma, 1933, vol. I, p. 470. 4 Massimo Severo Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 31. Italia contemporanea”, marzo 1986,162

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Stato liberale e rappresentanza dell’economiaIl Consiglio di agricoltura

di Maria Malatesta

Introduzione

Le tormentate vicende del ministero di Agri­coltura, industria e commercio e le sue diffi­coltà di esistenza iniziate durante lo Stato sa­baudo e proseguite per il ventennio postuni­tario, sono state lette dalla storiografia am­ministrativa come il segno della resistenza di una classe politica, totalmente dedita ad una cultura economica liberista, ad accettare re ­sistenza di un dicastero attraverso il quale ve­nisse organizzato da parte deH’amministra- zione centrale un settore che si reputava esse­re patrimonio esclusivo dell’iniziativa priva­ta e in quanto tale soggetto ad essere rigoro­samente salvaguardato da intromissioni e controlli dei pubblici poteri. Sia nel 1850 che nel 1860 il ministero venne fondato per ra­gioni di opportunità politica, più che per la convinzione che fosse necessario dare vita ad un apposito ramo dell’amministrazione1. Eppure, anche in quel clima improntato ad un liberismo programmatico, il governo ave­va ritenuto di dover compiere un’azione di tutela di alcune condizioni generali dell’atti­vità economica nazionale e di incentivo allo

sviluppo delle forze produttive, pur “senza immischiarsi direttamente nelle cose indu­striali e commerciali, al cui incremento è principalmente uno stimolo l’interesse pri­vato”2. La funzione di tutela e di sostegno esercitata dal governo soprattutto nei con­fronti dell’agricoltura venne sottolineata am­piamente dagli amministrativisti dell’epoca che in questo modo risolsero l’arduo dilem­ma costituito dalla mediazione tra laissez fai­re e interventismo statale3. Le analisi condot­te sulla legislazione europea in materia di di­ritto pubblico dell’economia hanno eviden­ziato lo scarto esistente tra la formula del non intervento dello Stato liberale e la sua ef­fettiva realizzazione. La normativa volta a regolare i rapporti economici tra i privati si è progressivamente arricchita di norme impe­rative, restrittive dell’attività dei singoli. Lo Stato liberal-borghese ha mantenuto tutte le funzioni di disciplina dell’economia caratte­ristiche dello Stato patrimoniale àe\V ancien Régime e le ha accresciute nel corso degli an­ni, passando “intere province... dalla sfera privata a quella pubblica” fino ad arrivare alle prime statalizzazioni4. La distanza stessa

' Alberto Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell'unificazione italiana, Torino, Einaudi, 1960, p. 43.2 Atti parlamentari, Legislazione VII, 1860. Sessione unica. Documenti della Camera e del Senato, Progetto di legge presentato alla Camera il 22 maggio I860 da! ministro delle Finanze Vegezzi.3 R. Porrini, I ministeri, in Primo trattato completo di diritto amministrativo, a cura di V. Emanuele Orlando, Ro­ma, 1933, vol. I, p. 470.4 Massimo Severo Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 31.

Italia contemporanea”, marzo 1986,162

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tra diritto privato e diritto pubblico è stata in un certo senso annullata dalle grandi co­dificazioni dell’Ottocento che, nate allo sco­po di sancire la suprema garanzia dei diritti del singolo, hanno trasformato nel medesi­mo tempo, il diritto privato in diritto dello Stato5.

Nel caso dell’Italia, sebbene la storiogra­fia economica non abbia riscontrato nel pri­mo ventennio unitario tracce di un interven­to nell’economia che assumesse la forma di modificatore e regolatore del ciclo, la strut­tura accentrata della pubblica amministra­zione facilitò, anche in campo economico, l’avvio di quel processo di interventismo sta­tale e di commistione tra interessi pubblici e privati che si affermerà con decisione duran­te l’età giolittiana. La funzione esercitata dal ministero di Agricoltura, industria e commercio fu incentrata soprattutto nella difesa degli interessi delle categorie econo­miche in esso rappresentate. Per questo mo­tivo il movimento di protesta sorto in tutti gli ambienti economici del paese in occasio­ne dell’ultima soppressione del dicastero av­venuta nel 1877, fu determinante per garan­tire la sua ricostruzione. La decisione pre­sa al riguardo da Cairoli venne interpretata come “un doveroso e legittimo ossequio al­la pubblica opinione” anche se non chiaris­simi apparivano i motivi della protesta. La Commissione per il bilancio, chiamata ad esprimere il suo parere sulla gestione, avan­zò il dubbio che in essa “prevalesse il biso­gno vero e sentito dell’esistenza del ministe­ro di Agricoltura, industria e commercio o se invece questo coro concorde traesse la sua base in quel legame di simpatia e di

interessi che esiste tra l’amministrazione centrale e i corpi e i Consigli che ne dipen­dono”6.

Per quanto riguarda l’agricoltura, che la rappresentanza degli interessi concernesse esclusivamente la proprietà fondiaria, era già detto esplicitamente nel decreto di costituzio­ne del ministero del 5 luglio 1860. Ad esso veniva in primo luogo attribuito il compito di preparare le leggi dirette a tutelare la pro­prietà fondiaria. Seguivano altre prerogative inerenti il campo di intervento dei pubblici poteri per il miglioramento del territorio e per la creazione delle infrastrutture; la pro­mozione dell’istruzione tecnica, l’organizza­zione della statistica e dei censimenti nazio­nali; la creazione degli enti rappresentativi dell’agricoltura a livello locale. Questa prio­rità attribuita dalla amministrazione pubbli­ca dell’agricoltura alla proprietà fondiaria è tipica della tendenza imperante per tutto l’Ottocento, secondo la quale la disciplina dell’economia fondata sull’istituto della pro­prietà, tutta contenuta nei codici, fu caratte­rizzata dalla scelta fra interessi contrastanti di varie categorie di privati7. Questa selezio­ne a favore della proprietà terriera restò una costante dell’amministrazione pubblica del­l’agricoltura anche nel periodo di trasforma­zione dello Stato monoclasse in stato pluri- classe, quando il predominio della classe fondiaria venne limitato dall’affermarsi di altre classi sociali e categorie economiche, in concomitanza con l’avvio del processo di in­dustrializzazione.

Lo studio della rappresentanza dell’agri­coltura condotto privilegiando come osser­vatorio il Consiglio di agricoltura, uno dei

5 Francesco Galgano, Storia del diritto commerciale, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 77.6 Riportato in Piero Calandra, Parlamento e amministrazione. I. L ’esperienza dello Statuto albertino, Milano, Giuffrè, 1971, p. 131. Sul dibattito analizzato dall’autore relativo alla ricostituzione del ministero di Agricoltura, ve­di le osservazioni di Raffaele Romanelli in “Quaderni storici”, 1973, n. 25, pp. 613-614.7 Stefano Rodotà, Scienza giuridica ufficiale, in II terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 129. Il titolo di questa raccolta di saggi è tratto da una frase di Cesare Beccaria: “Il diritto di proprietà (terri­bile e forse non necessario diritto)” .

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corpi consultivi dei quali storiografia ha da tempo sottolineato la funzione rivelatrice dell’intervento dello Stato liberale nella so­cietà8, consente di misurare lo spessore della presenza della proprietà fondiaria all’interno della pubblica amministrazione; di identifi­care quali aree geografiche ebbero maggior voce in capitolo a seconda dei periodi; e qua­li furono le esclusioni più vistose sia dal pun­to di vista territoriale che da quello dell’orga­nizzazione degli interessi; di indagare infine su quel ruolo di retroguardia conservatrice che venne attribuito anche attraverso la pub­blica amministrazione all’agricoltura “non riformata”9, quando i mutamenti iniziati ne­gli anni della grande depressione cambiarono il volto tradizionale della rappresentanza sia per quanto riguarda i soggetti sociali ed eco­nomici, sia per quel che concerne le forme organizzative.

Le rappresentanze territoriali dell’economia

La linea tenuta dalla pubblica amministra­zione nei riguardi della proprietà fondiaria non soltanto in relazione alle altre categorie agrarie ma anche agli altri settori economici, emerge con notevole chiarezza dall’assetto della rappresentanza territoriale dato all’a­gricoltura, all’industria e al commercio. L’amministrazione dell’economia nel perio­do liberale presenta la medesima forma ac­centrata riscontrabile negli altri ordinamen­ti10. Dal ministro di Agricoltura, industria e commercio dipendevano le divisioni settoria­li, affiancate da un alto numero di corpi con­sultivi presieduti dai vari direttori o dallo stesso ministro. A livello periferico erano

stati creati due tipi di istituti rappresentativi delle economie locali: le camere di commer­cio e i comizi agrari. Questi erano formal­mente autonomi rispetto alla pubblica ammi­nistrazione, in quanto si trattava di enti col­locati nell’ambito del diritto privato, dotati di personalità giuridica, ma legati all’ammi­nistrazione sia per le funzioni loro attribuite, sia per il controllo a cui erano sottoposti. Erano cioè enti privati con funzioni pubbli­che. Il loro scopo consisteva nel rappresenta­re gli interessi dei rispettivi settori presso il governo; di agire come promotori dello svi­luppo dell’economia e dell’istruzione tecnica locale; di fungere da rilevatori statistici; di esprimere infine pareri su questioni proposte dal governo relative alla legislazione in mate­ria economica e doganale. La struttura dei due istituti era però assai diversa, come di­verse erano le loro prerogative e la loro effet­tiva autonomia.

Le camere di commercio. La legge 3 luglio 1862 che definiva il nuovo ordinamento delle camere di commercio, industria ed arti, rece­pì le antiche attribuzioni dell’istituto nel­l’ambito della giurisdizione commerciale. Alle loro dipendenze erano assegnate le bor­se di commercio, enti pubblici sottoposti alla tutela governativa: decidevano della loro formazione, dato che dovevano sostenerne le spese ed esercitavano su di esse una partico­lare giurisdizione. Le camere furono collega­te direttamente ai tribunali di commercio fi­no al 1888, data in cui vennero eliminati, in seguito al prevalere della tendenza a soppri­mere le giurisdizioni speciali. Per questi com­pilavano i ruoli dei periti per le materie com­merciali e la lista di coloro che potevano es-

A. Caracciolo, Stato e società civile, cit., pp. 88-93. Le indicazioni formulate al riguardo dall’autore sono state re­centemente sviluppate da Dora Marucco, Lavoro e previdenza dall’Unità al fascismo. Il Consiglio della previdenza dal 1869al 1922, Milano, Angeli, 1984.9 Lucio Villari, Il capitalismo della grande depressione, in L ’economia della crisi, Torino, Einaudi, 1980, pp. 5.10 Sull’organizzazione dei ministeri vedi Raffaele Romanelli, L ’Italia liberale (1861-1900), Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 42 sgg.

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sere eletti a giudici. Avevano infine il compi­to di stilare i regolamenti per l’esame di ido­neità ad esercitare la funzione di pubblico mediatore.

Prima dell’emanazione della legge, le ca­mere esistenti sul territorio nazionale erano 27. Successivi decreti ne ampliarono il nume­ro fino ad arrivare a 73, distribuite per la maggior parte nei capoluoghi di provincia, ma anche in città minori con un forte svilup­po di traffici commerciali. Le camere erano elettive, composte di un numero di membri non maggiore di ventuno e non inferiore a nove. Elettori ed eleggibili erano “tutti gli esercenti commerci, arti, industrie, capitani marittimi” iscritti nelle liste elettorali politi­che dei comuni compresi nella circoscrizione della camera. Tra costoro potevano essere compresi anche i conduttori agricoli. Le liste venivano compilate dalla camera o dal tribu­nale di commercio. Le camere provvedevano al proprio finanziamento tramite l’imposi­zione di un tributo a carico degli iscritti nella categoria B dei ruoli dell’imposta di ricchez­za mobile, in proporzione del reddito impo­nibile e sotto forma di centesimi addizionali all’imposta principale; oppure riscuotevano un’imposta diretta dagli esercenti in propor­zione dei loro traffici. L’autonomia delle ca­mere di commercio era così dovuta sia alle speciali prerogative loro attribuite che alla facoltà di imporre il tributo camerale, che costituiva un’aggiunta alle imposte locali pa­gate da industriali e commercianti11. La sua riscossione obbligatoria rendeva così indi- pendenti le camere sia dal comune e dalla provincia di appartenenza che dal ministero.

Anche le camere di commercio non erano co­munque esenti dal controllo dell’esecutivo il quale si riservava la facoltà di scioglierle, al­lo stesso modo dei consigli provinciali e co­munali, qualora non risultassero efficienti o dessero prova di comportamenti antigover­nativi e di installare un commissario fino alla costituzione della nuova camera.

Nel ventennio postunitario il controllo pubblico sul settore economico non fu limi­tato ai suoi istituti rappresentativi ma inte­ressò soprattutto il mercato azionario. Nel vecchio codice di commercio — adattamento del codice sardo del 1842, ricalcato a sua vol­ta su quello napoleonico del 1807 — le socie­tà per azioni in accomandita e le anonime, caratterizzate dalla responsabilità limitata, dovevano rispondere all’atto della loro costi­tuzione, ad una serie di garanzie richieste dallo Stato12. I fondatori della società erano responsabili degli obblighi contratti e il capi­tale doveva essere versato per almeno quat­tro quinti. Il soddisfacimento di queste con­dizioni era il requisito per ottenere l’autoriz­zazione governativa, che poteva essere revo­cata qualora la società fosse minacciata da gravi perdite. Il controllo pubblico sulle so­cietà venne dapprima attuato dal ministero di Agricoltura attraverso l’introduzione di commissari regi negli uffici distrettuali per il controllo delle attività sociali; successivmen- te dal ministero delle Finanze con l’istituzio­ne di un unico ufficio di sindacato sulle so­cietà commerciali e sugli istituti di credito; infine con la creazione di uffici provinciali di ispezione composti dal prefetto e da due membri eletti dalle camere di commercio13. Il

11 Legge per l ’istituzione e l ’ordinamento delle camere di commercio ed arti (6 luglio 1862, n. 680) annotata dall’avv. Achille Padoa, in Raccolta delle leggi speciali e convenzioni internazionali del Regno d ’Italia, 4a serie, vol. II, Tori­no, 1881 ; Antonio Amorth, Le camere di commercio dall’Unità d ’Italia alla riforma: assetto istituzionale e ruolo, in Le camere di commercio fra Stato e regioni, a cura di R. Gianolio, Milano, Giuffrè, 1979.12 Sulla forma giuridica delle società per azioni e sulla funzione della “responsabilità limitata” nello sviluppo del­l’impresa capitalistica moderna, vedi Francesco Galgano, Le istituzioni dell’economia capitalistica. Società per azio­ni, stato e classi sociali, Bologna, Zanichelli, 1980.13 Piero Calandra, Storia dell’amministrazione pubblica in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 122.

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proposito di ottenere “salde guarentigie con­tro speculazioni avventate o insidiose”14 si collocava alPinterno di una visione legislati­va ancorata ad un’economia nella quale l’in­dustria ricopriva un ruolo marginale rispetto all’agricoltura. Questa arretratezza della le­gislazione commerciale, già imputata agli inizi dell’Ottocento al Code de commerce, venne colmata con il nuovo codice del 1882 con il quale anche la borghesia imprendito­riale ottenne la sua “carta”, ossia quell’in­quadramento giuridico che costituirà lo sfondo dello sviluppo commerciale e indu­striale delle società per azioni15. Nel nuovo codice una delle maggiori novità fu proprio la soppressione dell’autorizzazione governa­tiva sulle società per azioni.

Alla “pretesa del potere esecutivo” di re­vocare l’autorizzazione concessa con un sem­plice atto amministrativo, fu sostituito un si­stema “che tende ad esercitare l’intelligente sorveglianza degli interessati rendendola più agevole mediante una estesa pubblicità, pro­clamando la libertà delle contrattazioni tem­perata dalla rigorosa responsabilità di coloro che prendano parte alla costituzione della società”16. La liberalizzazione del mercato azionario, richiesta con insistenza dagli ope­ratori, segnò un mutamento rilevante dei pubblici poteri nei confronti del campo in­

dustriale e finanziario. È forse anche in rela­zione al riconoscimento dell’espansione di questi settori dell’economia che va letto il mutamento del ruolo rappresentativo attri­buito alla camera di commercio, avvenuto nella seconda metà degli anni ottanta, quan­do si affermò la tendenza ad “interpretarle come un gruppo di pressione privilegiato e come strumento per incanalare e regolare amministrativamente le esigenze e le propo­ste del mondo economico, piuttosto che a va­lutarle quali organi per la formazione e rap­presentazione del consenso agli ordini costi­tuzionali e di consultazione politica del paese da parte del governo”17, come invece si era verificato nel periodo postunitario. Questo sostanziale rovesciamento di prospettiva ri­spetto al passato, che si affermò nella prati­ca, per cui “la camera è legittimata non tanto in quanto necessario corpo rappresentativo, bensì legittima tale sua richiesta — la sua stessa esistenza — in quanto collabora col­l’amministrazione statale”, restò tuttavia profondamente ambiguo e contraddittorio rispetto agli intenti originari contenuti nella legge del 1862. “Ed è proprio da questa si­tuazione che potrà scaturire la riforma del 1910, non per nulla ben addentro all’età gio- littiana, quando cioè si saranno determinate le condizioni per lo scioglimento delle ambi-

14 Relazione ministeriale al Re sul codice di commercio tenuta dal guardasigilli Vacca nell’udienza del giugno 1865, riportata in Alberto Aquarone, La unificazione legislativa e i codici del 1865, Milano, Giuffrè, 1959. Sul rapporto tra il Code de commerce, il codice sardo e la codificazione commerciale del regno d’Italia vedi, oltre ad Aquarone, Carlo Ghisalberti, Unità nazionale e codificazione giuridica in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 147 sgg.15 Tullio Ascarelli, La dottrina commercialista e Francesco Carnelutti, in “Problemi giuridici”, vol. II, Milano, Giuffrè, 1959, p. 984. Sul codice di commercio dell’82 vedi anche Carlo Ghisalberti, La codificazione de! diritto in Italia 1865-1942, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 149 sgg.16 Stefano Castagnola, Fonti e motivi. Nuovo codice di commercio italiano. Libro I, Torino, 1883, pp. 58-60.17 Cesare Mozzarelli e Stefano Nespor, Amministrazione e mediazione degli interessi: le camere di commercio, in “Archivio ISAP”, n. 3, L'amministrazione nella storia moderna, Milano, 1985, p. 1664. Questo saggio, del quale la parte relativa al periodo liberale — qui citata — è stata scritta da Cesare Mozzarelli (Stefano Nespor ha trattato il pe­riodo relativo al dopoguerra e al fascismo), è la prima ricerca complessiva condotta sull’argomento. La bibliografia precedente è infatti costituita da monografie di tipo commemorativo su singole camere di commercio, oltre che da studi di diritto amministrativo. Accenni sulla funzione degli istituti camerali nella vita economica associativa nel pri­mo Ottocento e nel periodo postunitario si trovano in Alberto Caracciolo, La storia economica, in “Storia d’Ita­lia”, vol. Ili, Dal primo Settecento all’Unità, Torino, Einaudi, 1973, pp. 592-596; Id., Stato e società civile, cit.,pp. 81-82.

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guità precedenti e per proporre, accettato or­mai un nuovo assetto e ruolo dell’autorità e della amministrazione statale, una parimenti nuova condizione per le camere e la rappre­sentanza degli interessi economici, e un nuo­vo rapporto tra di esse e gli assetti sociali e di potere del paese”18. Con la legge 20 marzo 1910 le camere di commercio vennero infatti trasformate in enti pubblici. Il nuovo asset­to, se esaltò per un verso la loro importanza, accrebbe su di esse il controllo della pubblica amministrazione. La loro potestà subì inol­tre una diminuzione dato che l’imposizione del tributo camerale fu limitata a quella par­te di reddito derivante direttamente da un’at­tività commerciale o industriale invece che, più genericamente, dai traffici19. In questo modo le tasse commerciali furono ridotte ad un unico tipo, avente per base il reddito de­sunto dai ruoli dell’imposta di ricchezza mo­bile.

Le camere si avviarono a rappresentare più gli interessi del commercio e della piccola impresa, piuttosto che quelli della grande in­dustria che, in quegli stessi anni, privilegiò la forma dell’associazione di categoria come luogo di organizzazione degli interessi im­prenditoriali. Le ragioni della trasformazio­ne delle camere di commercio di enti pubblici sono rintracciabili — come ha acutamente osservato Cesare Mozzarelli — nella politica di sostegno delle classi medie che trovò po­sto, in età giolittiana, all’interno della più ampia strategia di amministrativizzazione del conflitto sociale. “La ‘amministrativizza­zione’ delle camere diventa così importante non più tanto al fine di normalizzare e neu­tralizzare un’istituzione che per le sue pretese di rappresentanza e l’implicito rifarsi ad una ipotesi di politicità diffusa e non immediata

mente disciplinata negli apparati statali, si può presentare come luogo di aggregazione alternativa alla politica governativa, seppure all’interno del blocco dominante, quanto so­prattutto al fine di mostrare e comprovare la indifferenza e imparzialità dell’autorità sta­tale nel governare le forze sociali e nel dar ri­sposta alle loro richieste”. Un altro motivo può essere rinvenuto nel fenomeno, avviatosi in quegli stessi anni, di crescita dell’interven­to dello Stato nel settore industriale e della nascita degli enti para-statali20.

Da questo excursus sulle camere di com­mercio scaturisce un interrogativo sul diver­so destino dei corrispettivi istituti locali agri­coli. Anticipando alcune considerazioni che verranno svolte successivamente, si può at­tribuire la mancata trasformazione dei comi­zi in enti pubblici da un lato alla loro com­posizione, formata esclusivamente da pro­prietari fondiari, rispetto ai quali la strategia di amministrativizzazione non venne appli­cata; dall’altro alla politica bifronte condot­ta dallo Stato liberale nei riguardi dell’agri­coltura soprattutto negli anni del decollo in­dustriale, quando il minor peso esercitato dall’amministrazione pubblica nel settore agricolo accompagnò, se non favorì addirit­tura, il suo declino all’interno dell’economia nazionale.

I comizi agrari. La “rappresentanza legale” dell’agricoltura — come veniva chiamata al­l’epoca — offre, diversamente a quello del­l’industria e del commercio, un panorama percorso da incertezze normative e dalla ri­cerca di un assetto definitivo, mai raggiunto durante il periodo liberale. Quattro anni do­po la promulgazione della legge sulle camere di commercio fu emenato il D.R. 23 dicem-

18 Ibidem, p. 1665. La citazione successiva è a p. 1669.19 Santi Romano, Le camere di commercio, Il tributo camerale e le casse di risparmio, in Scritti minori, II, Milano, Giuffrè, 1950, pp. 232-233.20 Sabino Cassese, Aspetti della storia delle istituzioni, in Gli apparati statali dall’Unità al fascismo, a cura di Isabel­la Zanni Rosiello, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 202 sgg.

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bre 1866 con il quale venivano creati i comi­zi, enti territoriali di base. Decreto e non leg­ge, in attesa del completamento della struttu­ra rappresentativa decentrata che avrebbe dovuto realizzarsi con la creazione delle ca­mere di agricoltura, dipartimentali o regio­nali, che non furono mai istituite. Le debo­lezze dell’agricoltura, denunciate sin dalla formazione dello Stato unitario, lo scarso af­fidamento sull’impegno della classe fondia­ria locale, i cui rappresentanti formavano pe­raltro la classe dirigente, furono i motivi che determinarono l’aspetto sconnesso e mal funzionante della sua rappresentanza. Ri­spetto ad essa emerge un curioso paradosso: mentre nel settore marginale dell’economia nazionale e scarsamente rappresentato in Parlamento e nella pubblica amministrazione fu attribuita a livello locale maggiore autono­mia, a quello dominante e altamente rappre­sentato fu attribuita a priori una scarsa capa­cità di funzionamento in sede periferica21.

La ragione di questo fenomeno va proba­bilmente ricercata nella dinamica esistente, all’interno della classe dominante, tra centro e periferia nel periodo ancora caratterizzato dal suffragio ristretto, quando gli interessi locali agivano direttamente al centro, oppure rifiutavano ogni tipo di ingerenza in periferia.

L’esistenza dei comizi fu accompagnata da un intervento costante del centro attraverso la mediazione dei prefetti. L’amministrazio­ne dell’agricoltura non aveva — a differenza

di quella delle finanze, dei lavori pubblici e della guerra — funzionari speciali preposti all’esercizio locale dei servizi ad essa affidati. Questo compito venne affidato ai prefetti, mentre gli enti autarchici territoriali doveva­no coprire parte delle spese relative allo svi­luppo della produzione agricola ed alla diffu­sione dell’istruzione tecnica22. L’assenza di un ispettore compartimentale o regionale dell’a­gricoltura fu assai criticata sia da amministra­tivisti che da esperti agronomi. Enrico Presutti e Ghino Valenti sottolinearono gli inconve­nienti derivanti dalla carenza di informazioni di cui soffriva il Ministero sulle condizioni lo­cali dell’agricoltura, dato che tutto il lavoro ri­cadeva sulle prefetture, notoriamente sprovvi­ste di personale tecnico23. L’utilizzazione del prefetto nell’installazione e nel controllo della rete rappresentativa locale aveva, al di là delle carenze tecniche che comportò, un significato più ampio. I comizi vennero concepiti come “manifestazioni spontanee dei bisogni delle popolazioni”; non erano obbligatori come le camere di commercio e dovevano sorgere in ogni capoluogo di circondario per iniziativa degli interessati. Fu la scarsa fiducia sull’effica­cia della medesima a determinare da parte del­la commissione che elaborò il testo del decreto di istituzione dei comizi il loro affidamento al­le cure dei prefetti e dei sottoprefetti24.

La mancanza di un intervento legislativo imperativo, come per le camere di commercio, motivato dal proposito di salvaguardare la li-

21 Circolare del ministero d'Agricoltura, industria e commercio ai signori Prefetti, Sottoprefetti e Commissari di­strettuali con la quale si accompagna la relazione a S.M. ed il decreto reale concernenti l ’istituzione dei comizi agrari (Firenze, 21 gennaio 1867), in Ordinamento dei comizi agrari ne! Regno d ’Italia, annotato dal cav. avv. Aronne Rab- beno, in Raccolta delle leggi speciali e convenzioni internazionali del Regno d ’Italia, 4a serie, vol. Ili, Torino, 1881.22 Sull’intervento dei prefetti nella vita economica locale e sull’ampliamento della delega loro attribuita dal R.D. 9 ottobre 1861, che escludeva poteri riguardanti altri ministeri diversi da quello degli Interni, vedi Claudio Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica, da Radazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano Giuffrè, 1964, pp. 168-169, 269; Pietro Calandra, L ’amministrazione dell’agricoltura, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 10.23 Enrico Presutti, L ’amministrazione pubblica dell’agricoltura, in Primo trattato completo di diritto amministrati­vo, cit., vol. V, p. 37; Ghino Valenti, L ’Italia agricola nel cinquantennio 1862-1911, in Studi di politica agraria, Ro­ma, 1914, p. 512.24 Relazione fatta al signor ministro di agricoltura, industria e commercio dalla commissione reale per l ’incremento dell’agricoltura creata con decreto reale dell’8 settembre 1866, in Ordinamento dei comizi agrari, cit.

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bertà di iniziativa delle classi fondiarie, si tradusse in un ambiguo compromesso. Crea­ti allo scopo di sostituire le preesistenti socie­tà e associazioni agrarie, i comizi furono sot­toposti alla tutela governativa attraverso i prefetti. Costoro erano il tramite tra i comizi e il ministero; controllavano il loro funziona­mento dopo aver contribuito alla formazione della direzione e presieduto alla loro installa­zione. Nel caso di insufficiente attività — ve­rificatasi con frequenza impressionante — il ministro ne ordinava lo scioglimento e il pre­fetto assumeva l’incarico di commissario go­vernativo col compito di scegliere i nuovi membri onde poter formare un’altra e teori­camente più funzionante direzione25.

L’oscuro confine tra spontaneità ed obbli­gatorietà dell’istituto rappresentativo risalta anche dalle altre sue caratteristiche. Non era formato secondo il rigido criterio elettivo delle camere di commercio, in quanto vi po­tevano far parte, senza limitazione di nume­ro, tutti gli interessati ai problemi della agri­coltura. Costoro erano tenuti a pagare un contributo annuo di cui non erano precisate per legge l’entità e la forma e neppure l’ob­bligatorietà. La sopravvivenza del comizio dipendeva di fatto delle sovvenzioni ministe­riali, elargite con grande parsimonia e da quelle dei comuni e delle province che tende­vano però a sottrarsi a questo ulteriore onere gravante sui magri bilanci. All’interno dei comizi doveva essere garantita la presenza dei rappresentanti degli enti locali, per se­guirne l’andamento e mantenerli in contatto con le autorità provinciali. Ma questa pre­

senza fu spesso aleatoria; non più, del resto, di quella dei diretti interessati. La storia dei comizi agrari è infatti quella di una lunga as­senza, intervallata da esempi di effettivo fun­zionamento, concentrato sulla Valle Padana e in particolare in quelle province in cui pree­sistevano delle forti società agrarie o accade­mie scientifiche: come il caso di Torino, Mi­lano, Udine, Bologna, Vicenza. Contraria­mente ai progetti ministeriali, furono queste società che assorbirono i comizi, dopo casi di semi-ribellione di fronte alle pressioni eserci­tate dal ministero perché fosse riconosciuta la priorità dell’ente con funzioni pubbliche rispetto all’associazione privata26.

Tutto sembrò non funzionare nei comizi agrari e la politica dell’amministrazione cen­trale, a metà tra la coercizione e l’incentiva­zione non sortì effetti rilevanti. Nel regola­mento seguito al nuovo decreto dell’8 dicem­bre 1878 — lo stesso che sanciva il riordina­mento del Consiglio di agricoltura — i mem­bri della direzione dovevano essere possiden­ti e domiciliati nella provincia (art. 6). In tal modo il ministro Pessina intendeva da un la­to porre rimedio all’assenteismo, spesso mo­tivato col fatto che i soci abitavano fuori del­la provincia dove avevano le terre, dall’altro potenziare, o meglio formalizzare, la domi­nanza della componente proprietaria che di fatto ebbe in mano la quasi totalità dei comi­zi del territorio nazionale. Anche se l’anno seguente il ministro Majorana Calatabiano corresse il testo dell’art. 6, limitando a tre i membri della direzione obbligatoriamente possidenti e residenti nella provincia, l’istitu-

25 Numerosissimi gli esempi al riguardo contenuti nei fondi del ministero di Agricoltura, industria e commercio re­peribili presso l’Archivio centrale dello Stato. Per citarne solo alcuni: comizio di Gallarate (1880), I vers., b. 23; co­mizio di Pavia (1881), I vers., b. 33. Interessante la relazione del prefetto di Verona (30 aprile 1868) al ministro, nella quale si lamenta l’impossibilità di esercitare un effettivo controllo sul comizio che tende a scavalcare l’autorità pre­fettizia trattando direttamente con l’amministrazione centrale (I vers. b. 45). Questo comportamento si generalizzerà a partire dagli anni ottanta.26 “L’Agricoltura”, bollettino della Società agraria di Lombardia, Milano, gennaio 1865; ACS, MAIC, I vers., b. 45. Relazione del prefetto di Vicenza al ministro, 13 luglio 1867. La maggior forza delle società più antiche rispetto ai nuovi comizi fu sottolineata anche da Francesco Coletti, Le associazioni agrarie in Italia dalla metà del secolo deci- mottavo alla fine del decimonono, Roma, 1901, p. 56-57.

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to restò di fatto completamente in mano alla proprietà fondiaria.

La politica degli incentivi fu condotta dal ministero attraverso i sovvenzionamenti at­tribuiti per finanziare concorsi, esposizioni, acquisti di macchinari agricoli sperimen­tali27. Ma la distribuzione e gli eventuali au­menti degli stanziamenti dipendevano dal li­vello di rendimento del comizio. Più era sta­to attivo nel corso dell’anno, più possibilità aveva di ricevere finanziamenti. I piccoli co­mizi delle province più povere erano così de­stinati a morire se — come si esprimeva il mi­nistro nelle circolari ai prefetti — non dava­no “segni di vita” . Le sovvenzioni erano co­munque scarse; i soci pagavano contributi annui irrisori e spesso il loro numero era tan­to irrilevante (quindici, venti soci) da non consentire la sopravvivenza solo attraverso la tassazione volontaria. I comuni e le pro­vince tendevano in linea di massima a sot­trarsi al pagamento delle quote per il mante­nimento dei comizi. A questo venivano ob­bligati dall’intervento diretto del ministro dopo lunghe e faticose contrattazioni che non sortivano sempre un esito positivo. L’u­nica soluzione possibile per risolvere la que­stione non fu mai attuata, anche se paventa­ta in svariate occasioni: l’imposizione di cen­tesimi addizionali all’imposta fondiaria, pro­porzionali al reddito. Soprattutto dopo il 1887, quando il dazio sui prodotti agricoli cerealicoli fece aumentare notevolmente il reddito dei proprietari fondiari, un lieve au­mento dell’imposta fondiaria devoluto a fa­vore dei comizi, avrebbe permesso loro — è questo il giudizio di Ghino Valenti — di eser­citare “assai meglio alcune funzioni al pre­sente affidate al governo centrale”28, di rea­

lizzare ossia un efficace decentramento del­l’agricoltura alla cui mancata realizzazione fu ostacolo non solo, e non tanto, la struttu­ra accentrata dello Stato unitario, quanto l’opposizione della stessa proprietà terriera.

Che il punto debole dei comizi fosse il loro finanziamento, lo attestano le numerose pro­poste di modifica provenienti dai gruppi agrari locali prima del 1878, anno di emana­zione del nuovo decreto di riordinamento delle rappresentanze. Il decreto del 1866 avrebbe dovuto essere completato dalla legge sulle camere di agricoltura. Nel progetto pre­sentato al Senato il 20 dicembre 1871 dal mi­nistro Castagnola, le camere costituivano un gradino superiore della rappresentanza loca­le in quanto composte dai delegati dei comizi della loro circoscrizione e situate in ogni zo­na agraria del regno. Create allo scopo di coordinare l’attività agricola locale, avrebbe­ro dovuto ovviare alla deprecata frammenta­rietà dei comizi sparsi su tutto il territorio. Le spese di mantenimento erano previste a carico dei comizi circondariali, obbligati allo stanziamento di una somma annua di £. 2 per ogni cento abitanti per provvedere al proprio sostentamento e a quello delle came­re. Le reazioni al progetto furono compieta- mente negative. Alcuni comizi chiesero un coordinamento più stretto tra le varie istitu­zioni rappresentative in modo da farle dipen­dere direttamente dall’amministrazione cen­trale. Altri, capeggiati da quello di Bologna, volevano al contrario una maggiore autono­mia, perseguibile attraverso la formazione di comizi a circoscrizione regionale e provincia­le nei quali più forte sarebbe stata l’influenza dei grandi proprietari fondiari legati alle so­cietà agrarie29. Queste due posizioni diver-

27 Sull’attività tecnico-agronomica svolta dai comizi e sul loro complessivo funzionamento interno, vedi Paola Cor­ti, Fortuna e decadenza dei comizi agrari, in “Quaderni storici”, n. 36, 1977.28 G. Valenti, L ’Italia agricola, cit., p. 519.29 Memoria presentata al comizio agrario di Bologna a Sua Eccellenza il Ministro di agricoltura, industria e com­mercio intorno ad un progetto di riforma dei comizi agrari, Bologna, 1875.

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genti, che riflettevano il profondo disaccor­do tra i vari gruppi fondiari locali in rela­zione al loro rapporto con lo Stato, aveva­no un punto in comune: la richiesta di abo­lizione della quota individuale dei soci, rite­nuta inadeguata e contraddittoria per una “rappresentanza legale” istituita dal go­verno per i “-suoi intenti”. Le spese di man­tenimento degli istituti dovevano ricade­re sulle amministrazioni locali, ossia di­stribuite fra tutti i contribuenti. Una terza indicazione, emersa nello stesso anno al congresso di Ferrara degli agricoltori, relati­va ad una fusione tra camere di commercio e comizi, attribuiva ugualmente ai comuni l’onere del finanziamento delle nuove ca­mere.

Si doveva arrivare al 1896 perché fosse formulata una vera proposta di autofinan­ziamento delle rappresentanze agricole. In quell’anno il deputato di Crema Luigi Grif- fini nominato, senatore nel 1881, apparte­nente alla Sinistra, membro del Consiglio di agricoltura e di numerose commissioni permanenti, sensibile ai problemi dell’im­prenditoria agraria che difese in Senato nel corso dei dibattiti sulla crisi agraria, pre­sentò alla Camera di nomina regia un com­plesso progetto di legge sulla formazione delle camere di agricoltura. Queste si sareb­bero sostituite ai comizi — che avrebbero potuto continuare a sussistere sotto la for­ma di associazioni libere — come nuova organizzazione della rappresentanza agraria dotata di importanti funzioni di concilia­zione.

Le camere previste da Griffini avrebbero costituito il terreno sul quale estendere an­che all’agricoltura l’istituto dei probiviri per la risoluzione delle controversie insorgenti tra proprietari, affittuari, mezzadri e colo­ni. Sarebbero state a base elettiva, ossia aperte a tutte le categorie agrarie e avrebbe­ro provveduto al proprio finanziamento in due modi: attraverso l’imposizione di cen­

tesimi addizionali sulla imposta fondiaria e su quella di ricchezza mobile a carico degli affittuari, o mediante una tassazione delle categorie dei proprietari e dei conduttori di fondi, in proporzione dei redditi fondiari ed agrari.

Il progetto di Griffini equiparava la strut­tura delle camere di agricoltura a quella del­le camere di commercio, consistente nell’au­tofinanziamento e nella composizione eletti­va, mentre intendeva realizzare una nuova fusione tra proprietari e affittuari coinvol­gendo questi ultimi, che erano scarsamente presenti nei comizi, nella gestione del nuovo istituto rappresentativo.

Ma anche questo progetto, approvato il 15 maggio 1896 dal Senato che ne aveva pe­rò stralciato la parte relativa alla composi­zione delle controversie, si arenò nel corso dell’iter parlamentare. Venne ripreso nel 1906 da Enea Cavalieri, strenuo ed intelli­gente sostenitore dell’imprenditorialità agri­cola, e presentato all’esame del Consiglio di agricoltura. Cavalieri notò che il progetto Griffini prevedeva la tassazione degli affit­tuari quando questi erano già inclusi fra le categorie professionali che facevano capo alle camere di commercio. A questo dato si aggiungeva il fenomeno, verificatosi in età giolittiana, relativo alla scalata degli im­prenditori agricoli all’interno degli istitu­ti camerali situati nei grossi centri rurali, per accrescere il proprio potere a livello lo­cale.

Il progressivo spostamento dei conduttori verso il settore industriale e il divario tra gli interessi della grande affittanza e quelli della proprietà fondiaria furono avvertiti come un fattore disgregante e limitativo della crescita dell’agricoltura da Enea Ca­valieri che propose come correttivo alla spaccatura tra proprietà e impresa, che si ri­fletteva anche a livello di rappresentanza, di togliere gli affittuari dalle camere di com-

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mercio e di inserirli nelle nuove istitu­zioni30.

Il progetto di Cavalieri — come si vedrà - non ebbe un esito diverso da quello di Griffi- ni e di tutte le altre proposte che volevano adeguare la rappresentanza dell’agricoltura, al modello delle camere di commercio. So­prattutto nel primo periodo dello Stato uni­tario, precedente l’allargamento del suffra­gio che abbassò la rappresentanza parlamen­tare della proprietà terriera, la presenza mas­siccia dei grandi proprietari fondiari in Par­lamento e negli altri corpi dello Stato costituì la difesa più sicura dei loro interessi. Come ebbe a dire Girolamo Chizzolini, efficiente policy-maker della proprietà fondiaria mila­nese, “la vera rappresentanza poi degli inte­ressi dell’agricoltura è da cercarsi non già in piccoli corpi provinciali o regionali sibbene nello stesso Parlamento”31. Un simile atteg­giamento trovò sostegno nell’ambigua politi­ca statale, indecisa se attribuire agli organi­smi economici locali funzioni di esclusiva rappresentanza o di amministrazione32. Alle domande formulate da alcuni comizi per avere un chiarimento sulle loro prerogative, fu risposto che il loro compito non doveva superare quello dell’amministrazione spic­ciola33. Di fronte a questo campo fluttuante di posizioni dei gruppi agrari e dello Stato nei confronti del rapporto che li univa, anche la “normale amministrazione locale” affida­ta ai comizi venne disattesa con la complicità della stessa pubblica amministrazione. Con­cedendo agli istituti rappresentativi della

proprietà fondiaria l’esenzione fiscale, que­sta ne accentuò la condizione di privilegio ri­spetto ad altre categorie economiche, perpe­tuando al tempo stesso la sua dipendenza dal centro. In questo senso l’accentramento eser­citato dallo Stato nei confronti delle forze produttive — confutato da Sabino Cassese per quanto riguarda la storia delle istituzioni agricole34 — si tradusse in una forma di con­nivenza nei confronti delle classi fondiarie. La politica di favore condotta dall’ammini­strazione nei riguardi dei proprietari terrieri si espresse nel loro legame esclusivo con il centro, attraverso il quale il tradizionale in­dividualismo di questa classe venne perpe­tuato grazie alla protezione dello Stato anche nel periodo in cui la proprietà fondiaria non costituì più la base prevalente della classe di governo. La garanzia di riproduzione dei ceti possidenti, fornita dallo Stato per assicurar­sene l’appoggio, fu uno dei fattori che impe­dirono la formazione di una cultura dell’au­togoverno locale dell’agricoltura. La selezio­ne attuata nei confronti delle classi fondiarie a discapito delle altre categorie agricole, la difesa dell’individualismo del possesso ed il dialogo esclusivo tra amministrazione cen­trale e proprietari contribuirono infatti a ne­gare, da parte di questi ultimi, la possibilità di un rapporto con lo Stato attuato sulla base di una gestione locale dell’economia agricola alla quale partecipassero tutte le categorie in­teressate ad uno sviluppo produttivo del settore34 bls. Da questo punto di vista la selet­tività e il favoritismo nei riguardi della pro-

10 Prima relazione del comm. Enea Cavalieri sul tema: “La rappresentanza dell’agricoltura”, Consiglio di agricoltu­ra (CA), Sessione 1905 e 1906, in “Annali di agricoltura” (AA), 1907, p. 346.31 IV Congresso generale degli agricoltori italiani tenutosi in Ferrara (maggio 1875), A tti ufficiati, Milano, 1877.32 Proposte per una riforma dei comizi agrari fa tte dal comizio agrario di Bologna, in “Il nuovo incoraggiamento”, monitore dei comizi agrari del Regno d’Italia, Ferrara, 1874.33 Risposta del ministro Majorana-Catalabiano a G. Chizzolini, ACS, MAIC, V vers., b. 16 (20 luglio 1876).

34 Sabino Cassese, Le regioni nel governo dell’agricoltura, in La formazione dello stato amministrativo, Mila­no, Giuffrè, 1974, p. 311.34 bls Sul processo attraverso il quale nell’Ottocento l’idea della proprietà individuale come diritto naturale si salda a quella di cittadino, vedi Paolo Grossi, Un altro modo di possedere, Milano, Giuffré, 1977.

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prietà fondiaria appaiono come costanti di lungo periodo dello Stato liberale che con­corsero alla formazione di quel “privatismo” che contrassegnerà la storia del padronato agrario in età giolittiana, quando la svolta industrialista e la conflittualità nelle campa­gne fecero sorgere all’interno del settore agricolo domande pressanti di difesa rivolte allo Stato, che si unirono al tempo stesso al sorgere di forti atteggiamenti antigovernati­vi. Proprio nel periodo giolittiano il mante­nimento del privilegio nei riguardi della pro­prietà fondiaria venne utilizzato dall’ammi­nistrazione pubblica per controbilanciare il massiccio intervento di sostegno nei confron­ti dell’industria e per continuare a garantirsi una base politica all’interno di un settore in declino.

Il Consiglio di agricoltura

La composizione. Il Consiglio di agricoltura fu creato il 24 settembre 1868 come un ri­stretto corpo consultivo, composto di sei membri di nomina regia, innalzati a dodici dopo due mesi. Era affiancato dal Consiglio forestale e da quello ippico. I tre consigli vennero unificati nel 1872 dal ministro Ca­stagnola e trasformati in sezioni di un unico Consiglio di Agricoltura, i cui membri furo­no innalzati a quaranta. Il corrispondente Consiglio dell’industria e del commercio era sorto nel 1869 per espressa volontà di Min- ghetti, ministro di Agricoltura nel terzo mi­nistero Menabrea, modellato su analoghi esempi europei, il Consiglio di agricoltura aveva il compito di fornire pareri sui proget­ti di riordinamento delle rappresentanze e delle statistiche agrarie; sugli acquisti di con­cimi, semi, macchine, etc. proposti dai co­mizi e sugli eventuali sussidi da erogare al ri­guardo; su concorsi, esposizioni e pubblica­zioni del ministero. Era presieduto dal mini­stro; il direttore dell’agricoltura ne era mem­

bro di diritto. Secondo le dichiarazioni di Errico Pessina, a cui si deve la riforma più radicale del consiglio avvenuta nel 1878, la scelta di escludere la rappresentanza locale, ossia i comizi era stata motivata dal fatto che ancora nei primi anni settanta si pensava di giungere in breve alla costituzione delle camere provinciali di agricoltura dalle quali, seguendo l’esempio della Prussia, sarebbero stati eletti i rappresentanti in seno al consi­glio. La mancata attuazione di una riforma della rappresentanza dell’agricoltura su base elettiva alla periferia e al centro consentì al­l’amministrazione pubblica di privilegiare la proprietà fondiaria e di attuare nei suoi con­fronti una selezione in base all’appartenenza territoriale, al fine di rispettare gli equilibri politici dei vari governi. I membri, in carica in questa prima fase per tre anni, erano sem­pre rieleggibili; il che permise di dare al cor­po una forte continuità.

La rappresentanza locale fu introdotta fi­no al 1878 per via indiretta tramite la scelta di membri che erano presidenti di importan­ti comizi, nella maggior parte dei casi pro­prietari fondiari di origine nobiliare con un passato risorgimentale e appartenenti alla classe dirigente nazionale, come il sen. conte Guglielmo Cambray-Digny (Firenze), il sen. conte Giovanni Arrivabene (Mantova); il sen. Giacomo Plezza (Mantova), il dep. con­te Pietro Pasolini (Cesena); il conte Giovan­ni Revedin (Ferrara); il dep. Vincenzo Titto- ni e il conte Guido Carpegna (Roma). A co­storo si affiancavano i consiglieri scelti per l’unione tra carriera politica e competenza, come Stefano Jacini, o tra carriera politica e interessi fondiari e industriali, come Vincen­zo Breda. Rilevante anche la presenza degli esperti in agronomia, quasi esclusivamente di provenienza padano-toscana. Alcuni era­no tecnici puri, come Antonio Zanelli, en­trato nel consiglio nel 1874 quando insegna­va nell’Istituto tecnico di Reggio Emilia e re­statovi fino al 1887 in qualità di direttore

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della Scuola zootecnica e di caseificio di Reg­gio35; Adolfo Targioni Tozzetti, direttore della Stazione entomologica di Firenze; Francesco Lawley, fino al 1877 presidente del Comitato centrale ampelografico. Altri, rappresentano lo stretto legame tra tecnici e classi fondiarie, come Alfonso Cossa, diret­tore della Stazione agraria di Torino, divenu­to presidente dell’Associazione agraria di Torino nel 1893; Antonio Keller, professore universitario di agronomia e direttore per molti anni del comizio di Padova; Gaetano Cantoni, fondatore della Scuola di agricoltu­ra di Milano che diresse fino al 1887, anno della sua morte. Nominato dal 1871 al 1886, Cantoni attesta nel consiglio la forza della tradizione agronomica lombarda e la sua fu­sione con la proprietà fondiaria milanese.

Le vicende del corpo consultivo diventano più movimentate a partire dal 1878, quando il decreto dell’8 dicembre lo trasformò in consiglio allargato. La riforma fu varata du­rante il primo ministero Cairoli, sei mesi do­po che Baccarini aveva ripristinato il sop­presso ministero di Agricoltura che venne af­fidato al napoletano Pessina. La composi­zione del consiglio, che doveva costituire un anello di congiunzione più solido tra le rap­presentanze locali e il governo, subì notevoli modifiche. Abolite le tre sezioni, i membri — portati a trentasette con incarico annuale — vennero così suddivisi: ventiquattro presi­denti di comizi; sei presidenti di società eco­nomiche, accademie, associazioni scientifi­che agrarie, società veterinarie, ippiche e al­tre attinenti all’economia rurale, forestale e del bestiame; dieci consiglieri di nomina re­gia “scelti fra le persone più versate nelle dottrine economiche e scientifiche attinenti all’agricoltura”; sette membri di diritto. L’introduzione ufficiale dei rappresentanti

dei comizi non trasformò comunque il consi­glio in elettivo, dal momento che era ancora il ministro a scegliere ogni anno i ventiquat­tro comizi “più attivi e autorevoli” . Il per­manere del criterio nominativo anche nei ri­guardi delle rappresentanze locali aveva un duplice scopo: sollecitare i comizi ad un mi­gliore funzionamento; garantire all’ammini­strazione centrale la discrezionalità della se­lezione per salvaguardare equilibri regionali e politici. La riforma del consiglio fu accom­pagnata dall’emanazione del già citato decre­to che imponeva ai comizi di scegliere il pro­prio presidente e vicepresidente tra i soci pos­sidenti e domiciliati nella provincia. In que­sto modo, nonostante l’allargamento della composizione del consiglio, era assicurata la presenza di un proprietario fondiario anche in rappresentanza di quelle zone dove preva­leva il grande affitto. L’introduzione delle società e delle accademie agrarie a fianco dei comizi risulta particolarmente significativa in quanto apre uno spazio all’associazioni­smo privato, al momento costituito ancora all’antica forma del sodalizio scientifico, che a partire dalla fine degli anni ottanta sarà occupato dalle nuove organizzazioni degli interessi economici. Il loro peso crebbe, al­l’interno del consiglio, fino al 1896 a discapi­to dei comizi. A quella data il ministro Guic­ciardini unificava le due sezioni dei comizi e delle associazioni, abbassando il numero complessivo dei rappresentanti a diciotto (R.D. 31 dicembre 1896) che, per la sessione 1896-1897 furono suddivisi in dieci presiden­ti di comizi e otto presidenti di associazioni. Contemporaneamente fu elevato il numero dei “consiglieri eccellenti” di nomina regia: quindici nel 1887, su ventiquattro presidenti di comizi e sei associazioni; dodici nel 1896, su diciotto presidenti di comizi e società; sei

35 Su Antonio Zanelli, vedi Marco Paterlini, Prima forma di zootecnia razionate e agricoltura a Reggio Emilia e fine Ottocento, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” , n. 5/1983, Le campagne padane negli anni della crisi

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nel 1898 su dodici presidenti di comizi e asso­ciazioni. Il numero crescente di consiglieri di nomina regia garantì la continuità delle cari­che nonostante la riduzione del periodo ad un anno. Nel 1896-1897 il consiglio rispec­chiò maggiormente i mutamenti avvenuti al­l’interno delle rappresentanze agrarie: il de­clino dei comizi; la loro abdicazione nei con­fronti dei sindacati economici sovente nati per loro stessa iniziativa; la nascita della Fe­derazione italiana dei consorzi agrari, che unificò la nuova rete dell’associazionismo economico imponendosi come forte gruppo di interesse non solo nell’area padana ma an­che a livello nazionale. Il ruolo marginale at­tribuito ai comizi e l’apertura alle nuove as­sociazioni sorte alla fine della crisi agraria con lo scopo di controllare il mercato, non modificarono tuttavia radicalmente la fun­zione consiliare, che aveva prevalso in passa­to all’interno dell’organo, in una funzione di rappresentanza.

Nel momento in cui all’interno dell’agri­coltura la dinamica degli interessi stava tra­sformando i criteri della rappresentanza at­traverso l’emergenza di categorie imprendi­toriali che si opponevano alla logica della rendita fondiaria, il consiglio fu sottoposto ad un’ulteriore e decisiva modifica che segnò l’inizio della perdita del suo potere consulti­vo. Il decreto 27 febbraio 1898, mentre in­nalzava nuovamente i rappresentanti a venti, creava un comitato formato da sei consiglie­ri, dal presidente e dal direttore della Agri­coltura, che avrebbe dovuto trattare col mi­nistro per i casi più urgenti senza che il consi­glio venisse convocato. Dopo due anni, con ulteriore modifica apportata dal ministro Carcano, veniva introdotta per la prima vol­ta un’effettiva componente elettiva. In un elenco suddiviso in dodici gruppi corrispon­denti alle regioni agrarie del paese, erano in­

seriti i comizi, le associazioni, i consorzi e le accademie più attivi tra i quali dovevano es­sere eletti i dodici rappresentanti per un bien­nio da inviare al consiglio. Ma gli elenchi, compilati a discrezione delPamministrazio- ne, non rispettavano l’effettiva importanza degli enti. Come ebbe a lamentare l’infatica­bile Enea Cavalieri in un progetto di riforma del consiglio presentato nel 1905, la Feder- consorzi era equiparata ad un comizio o ad un piccolo consorzio locale36. Con questa ul­teriore riforma riprese forza la rappresentan­za legale dell’agricoltura: nel 1902 e nel 1905 il rapporto tra comizi e associazioni è di nuo­vo a favore dei primi (9 su 12), anche quando questa componente diventa elettiva. Ciò è dovuto al fatto che negli elenchi erano inseri­ti soprattutto i comizi, i consorzi e le società ad essi legati, al fine di consentire la perma­nenza dentro il consiglio di una rappresen­tanza fortemente selezionata, sia dal punto di vista geografico che da quello categoriale.

La parzialità del sistema elettivo introdot­to e il suo scarso potere di trasformazione del consiglio sono confermati con decreto del 23 maggio 1901, emanato da Zanardelli, che in­nalzò il numero dei membri di nomina regia da sei a dodici, pareggiandoli con gli eletti. Le “guarentigie di indipendenza” del consi­glio — come si espresse Enea Cavalieri nel suddetto progetto — erano rese “affatto de­risorie” sia dal numero dei membri scelti dal ministro che da quelli di diritto, che crebbe in misura direttamente proporzionale alla decrescita complessiva dei consiglieri. Com­presi il ministro e il segretario generale — che fu sostituito dopo la riforma Crispi con il sottosegretario di Stato — i membri di diritto furono sette nel 1887, otto nel 1896, sei nel 1898, otto nel 1900 (da notare l’aumento in concomitanza dell’introduzione del sistema elettivo). Alcuni consiglieri nominati per le

36 Relazione de! comm. Enea Cavalieri sul tema "Riordinamento del Consiglio di agricoltura", CA, Sess. 1905 e 1906, AA. 1907, pp. 488.

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loro competenze tecniche diventarono, come Raffaele Canevari, ispettori dell’agricoltura o presidenti di corpi e commissioni rappre­sentati di diritto dentro il Consiglio di agri­coltura. Per altri dalla presidenza di un cor­po tecnico prese avvio una felice carriera am­ministrativa: Giancarlo Simeoni, presidente dal 1887 al 1896 del Consiglio forestale, di­venne nel 1897 direttore dell’agricoltura. Ni­cola Miraglia, la cui ultraventennale direzio­ne dell’agricoltura fu la più famosa all’inter­no del ministero, fece il percorso inverso. Terminata la carriera di funzionario, eletto deputato di Lagonegro, rientrò nel consiglio nel 1892 e 1893 come presidente del Consi­glio ippico e dal 1902 al 1910 come consiglie­re nominato nella sua nuova carica di diret­tore generale del Banco di Napoli. Anche Al­fredo Codacci Pisanelli, deputato pugliese, entrò come consigliere nel 1911 dopo essere stato dal 1904 al 1910 sottosegretario di Sta­to al Tesoro e all’Agricoltura. Il conte Fran­cesco Guicciardini è infine l’esempio più chiaro di continuità all’interno del consiglio grazie al passaggio della carriera amministra­tiva a quella politica. Entratovi nel 1884 co­me presidente del comizio di S. Miniato, di­venne segretario generale del Ministero fino all’86. Tornato nel 1888 per nomina regia e nel 1892 ancora come presidente del comizio, divenne ministro dell’Agricoltura dal 1896 al 1897. A quella data Guicciardini abbandonò l’Agricoltura per continuare in dicasteri più prestigiosi la sua carriera, culminata nel 1906 con il portafoglio degli Esteri.

Si può riscontrare anche nel Consiglio di agricoltura quella progressiva burocratizza­zione dell’amministrazione, iniziata alla fine del secolo come conseguenza dell’attenuarsi

dell’osmosi tra carriera politica e carriera amministrativa37? Le analisi condotte sul Consiglio della previdenza e del lavoro han­no verificato puntualmente questo fenome­no, dato che i membri di diritto presenti in questi corpi erano tutti funzionari mi­nisteriali38. Nel Consiglio di agricoltura tra i membri di diritto prevalgono i funzionari (direttori, segretari, ispettori) solo in deter­minati periodi, come negli anni ottanta. In altri dominano i presidenti di altri corpi o commissioni tecniche, come nel Novecento. Invece che di burocratizzazione è più oppor­tuno parlare di uno svuotamento di compe­tenze del consiglio a causa della proliferazio­ne di corpi speciali di natura esclusivamente tecnica che aumentarono comunque il peso dell’amministrazione sia rispetto al consiglio che allo stesso Parlamento. A differenza di quanto avvenne all’interno del Consiglio del lavoro, in quello di agricoltura non si alzò nessuna voce, all’infuori di quella di Enea Cavalieri a lamentare la progressiva perdita del suo potere consultivo. Nella rinuncia dei membri a combattere per far riacquistare al consiglio le proprie competenze tecniche può, a ben vedere, essere identificata la fun­zione politica che il corpo svolse in età giolit- tiana. Tale rinuncia attesta il legame subal­terno nei confronti dell’amministrazione ac­cettato dai proprietari terrieri al fine di non intaccare il privilegio del loro rapporto esclu­sivo con lo Stato. La lenta agonia del consi­glio, iniziata nel 1897, anno dopo il quale si riunì solo nel 1902 e nel 1905 per proseguire a singhiozzo fino al 1911 ed arrestarsi comple­tamente a quella data prima dello scoppio della guerra, segue quel processo di decaden­za dell’attività del ministero, vigorosamente

37 Sabino Cassese, Il sistema amministrativo italiano, Bologna, Il Mulino 1983, p. 27 sgg.; Alberto Caracciolo, Sa­bino Cassese, Ipotesi sul ruolo degli apparati democratici nell’Italia liberale, in “Quaderni storici” , n. 18, 1971. Sul­l’osmosi fra politica e amministrazione nel primo trentennio unitario, vedi Riccardo Faucci, Finanza, amministra­zione e pensiero economico. Il caso della contabilità di stato da Cavour al fascismo, Torino, Fondazione L. Einaudi, 1975, pp. 97-702.38 Dora Marucco, Lavoro e previdenza dall’Unità al fascismo. Il Consiglio della previdenza e delle assicurazioni, cit.; Enzo Balboni, Le origini dell’organizzazione amministrativa del lavoro, Milano, Giuffrè, 1968, pp. 46 sgg.

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enunciato da Nitti quando era deputato, in­serendosi, al tempo stesso nella linea soste­nuta da Nitti ministro dell’Agricoltura incen­trata sulla diminuzione dei corpi speciali e sull’aumento del personale tecnico39. Ma è anche la riprova della scelta regressiva dei suoi membri, disposti ad evitare ogni pres­sione sull’amministrazione pur di non altera­re al suo interno la base ristretta della loro rappresentanza.

Rappresentanza geografica e rappresentanza degli interessi. Nel corso degli anni ottanta avvenne il passaggio da una rappresentanza fondata sulla proprietà che si esprimeva se­condo un criterio territoriale, nel quale le unità da rappresentare erano circoscritte geograficamente e che poggiava su di una forte omogeneità delle classi dominanti, ad una di tipo categoriale che segnò la fine del­l’omogeneità di quelle classi e la nascita al lo­ro interno di interessi contrastanti40. A que­sto mutamento fece riscontro il sorgere di una nuova dinamica organizzativa, allarga­tasi a tutte le classi sociali, incentrata sulla formazione di associazioni nate al di fuori del Parlamento e dell’amministrazione pub­blica, con l’intento di portarvi dall’esterno la voce degli interessi settoriali. È possibile ve­rificare questo fenomeno in relazione alle classi agricole attraverso l’analisi della com­posizione del consiglio, utilizzando cioè un osservatorio dal quale è individuabile tanto la politica dell’amministrazione quanto quel­la delle classi fondiarie in rapporto all’asset­to della rappresentanza?

Nel primo periodo della storia del consi­glio che coincide, con uno scarto minimo,

con il governo della Destra prevale esclusiva- mente il criterio della rappresentanza geogra­fica. Dalla minuta relativa alle nomine per il 1874 si può constatare che il ministro ha sud­diviso i membri secondo le regioni di prove­nienza: Piemonte, 4; Lombardia, 4; Liguria 1; Toscana, 5; Sicilia, 1; Sardegna, l41. La componente centro-settentrionale continua a dominare anche all’interno del consiglio ri­formato per quanto riguarda la rappresen­tanza dei comizi. Dal 1879 al 1894 vennero scelti ogni anno 24 comizi secondo una sud- divisione costante: Italia settentrionale, 9; centrale, 7; meridionale, 8. Nel 1897 (il Con­siglio non si era più riunito per tre anni) su 10 comizi, 5 sono del Nord, 2 del Centro, 3 del Sud. Le proporzioni corrispondono al livello di funzionalità degli enti territoriali, notoria­mente abbastanza attivi nel Centro-Nord, ma soddisfano ancora una partizione che fa­vorisce, come al tempo della Destra, la Valle Padana e la Toscana. Il rapporto tende a pe­requarsi in età giolittiana, dopo l’introduzio­ne del sistema elettivo: nel 1902, su 12 comi­zi, 5 sono del Nord, 3 del Centro, 4 del Sud; nel 1905, 4 del Nord, 3 del Centro, 5 del Sud. Il criterio di scelta dei comizi era basato sulla loro efficienza. Per questo motivo per la Val­le Padana compare con più frequenza il Ve­neto, con i comizi delle province di Padova, Vicenza e Treviso, che furono sempre molto attivi. Segue il Piemonte, altra regione in cui la rete dei comizi era ampia e ben funzionan­te, soprattutto nella provincia di Torino; la Lombardia, ripetutamente rappresentata dalle province di Milano, Mantova e Pavia; infine l’Emilia, presente prevalentemente at­traverso Piacenza e Ferrara. Per il Centro è

39 Francesco Saverio Nitti, Discorsiparlamentari, vol. I, Roma, 1973, p. 161 sgg.; vol. II, Roma, 1974, p. 654 sgg. Sul Ministero dell’agricoltura nel primo Novecento, vedi Carlo Desideri, L ’amministrazione dell’agricoltura (1910-1980), Roma, Officina edizioni, 1981 ; Carlo Fumian, li ministero di agricoltura e la politica agraria dello stato dall’età giolit­tiana agli anni trenta, in Agricoltura e forze sociali in Lombardia nella crisi degli anni trenta, Milano, Angeli, 1983.40 Alessandro Pizzorno, Il sistema pluralistico di rappresentanza, p. 357; Charles S. Maier, “Vincoli fittizi... della ricchezza e del diritto’’: teoria e pratica della rappresentanza degli interessi, p. 70 sgg., in L ’organizzazione degli inte­ressi nell’Europa occidentale, a cura di Suzanne Berger, Bologna, Il Mulino, 1983.41 ACS, MAIC, II, vers., b. 8, fase. 4, Consiglio superiore di agricoltura.

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chiamato in ogni sezione il comizio di Roma; una buona frequenza hanno anche quelli di Firenze o S. Miniato e Terni. I comizi del Sud — a differenza del Centro-Nord — son rappresentati più dai centri minori che dai capoluoghi di provincia ed hanno una forte rotazione.

La “rappresentanza legale” favorisce in complesso il Centro-Nord sia nel periodo della Destra che della Sinistra. La stessa ri- partizione geografica è riscontrabile nella ca­tegoria “società e accademie” . Disaggregan­do la frequenza dei vari tipi di associazioni su un totale di 84, relativamente al periodo 1878-1911, si ha la seguente ripartizione: Nord 39 (Piemonte 11, Lombardia 14, Friuli 6, Veneto 4, Liguria 1, Emilia 3) Centro 24 (Toscana 10, Marche 2, Lazio 12) Sud e Isole 21 (Campania 11, Puglia 3, Sicilia 6, Sarde­gna 1). Torino, Milano, Firenze, Roma e Na­poli con le loro Società agrarie e accademie scientifiche sono presenti in ogni sessione. Quelle di Milano rappresentano da sole tutta la Lombardia, mentre l’Emilia è rappresen­tata solo da Piacenza e Parma. Anche nella nomina regia dei “membri illustri” predomi­na l’area padana. Su un totale di 85 membri (su 93), sempre in relazione al medesimo pe­riodo, di cui è stata identificata l’area geo­grafica rappresentata, la suddivisione è la se­guente: Nord 51 (Piemonte 10, Lombardia 14, Veneto 14, Emilia 12, Liguria 1) Centro 17 (Toscana 7, Lazio 7, Umbria 2, Abruzzo 1) Sud e Isole 19 (Campania 9, Puglia 3, Ba­silicata 1, Sicilia 5, Sardegna 1). Nel totale sono compresi anche i tecnici agronomi, pre­

valentemente direttori di scuole agrarie e di cattedre ambulanti, il cui numero ammonta a 21 (sono stati esclusi F. Lawley e L. Petrini in quanto funzionari ministeriali) ed è così suddiviso: Lombardia 4, Veneto 5, Emilia 4, Liguria 1, Toscana 4, Campania 3, Sicilia 1.

Queste statistiche vanno però interpretate attraverso l’analisi della persistenza dei con­siglieri e di quella delle singole associazioni, giacché i membri di nomina regia sono pre­senti nel consiglio sovente anche come presi­denti di società. Il maggior numero di fre­quenze spetta ad Emanuele Romanin-Ja- cur42, deputato della provincia di Padova dalla XIV alla XXIV legislatura, sottosegre­tario di Lavori pubblici dal 1893 al 1896 con Crispi e agli interni con Saracco (1900-1901); appartenente ad una famiglia di grossi possi­denti della Bassa padovana, è consigliere per dieci sessioni dal 1884 al 1910. E ad Enea Ca­valieri, il leader della Federconsorzi, anch’e­gli presente in dieci sessioni (dal 1885 al 1910) come esperto, come presidente della Commissione per la pellagra per Ferrara e come rappresentante della Federconsorzi (nel 1893 e 1897)43. Questi due membri attra­versarono la storia otto-novecentesca del consiglio, mentre le altre presenze di lungo periodo sono soggette ad una suddivisione geografica. Sino alla fine degli anni ottanta prevale l’area padana. Gerolamo Chizzolini, il duro rappresentante dei proprietari mila­nesi e degli interessi fondiari nelle opere di bonifica, entra nel 1880 come presidente del­la Società degli agricoltori italiani di Milano e vi resta fino al 188844. Piero Lucca, il depu-

42 Per la ricostruzione dei profili biografici dei membri del consiglio appartenenti anche al Parlamento sono stati uti­lizzati: S. Sapuppo Zanghi, Storia d ’Italia dal 1789 al 1884 coll’aggiunta delle biografie di tutti i deputati e senatori del Regno, Roma, 1889; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale. Profili e cenni biografici di tutti i deputati e senatori eletti e creati dal 1848 al 1890 (legislatura XVI), Terni, 1890; A. Malatesta, Ministri, deputati, senatori dal 1848al 1922, Milano, 1940.43 Su Enea Cavalieri e la Federconsorzi vedi Angelo Ventura, La Federconsorzi dall’età liberale al fascismo: ascesa e capitolazione della borghesia agraria, 1892-1932, in “Quaderni storici” , n. 36, 1977; Dizionario biografico degli ita­liani (voce di M. Fatica). Sulla sua presenza nel Consiglio della previdenza vedi Marucco, Lavoro e previdenza, cit.44 Gerolamo Chizzolini, laureatosi in matematica a Pavia, lavorò a Milano presso la direzione servizi acque e stra­de, poi in Sardegna come direttore della costruzione delle strade nazionali. Membro del Collegio degli ingegneri e

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tato di Novara e Vercelli dalla XV alla XXII legislatura, emerse negli anni della crisi agraria come il principale organizzato- re della linea protezionistica dei proprietari piemontesi, è nominato consigliere dal 1884 al 1892 mentre compie la scalata nel mon­do politico nazionale che culminerà con il sottosegretario agli Interni nel governo Di Rudini; Pietro Del Vecchio, deputato di Cuneo e seguace di Cairoli, dal 1885 al 1893; il senatore Luigi Griffin, entrato al­l’Agricoltura nel 1879 come membro della Commissione sulla filossera, dal 1884 al 1888. Dalla fine della crisi agraria si accen­tua la presenza di membri di estrazione me­ridionale. Raffaele De Cesare pugliese di estrema destra, segretario all’agricoltura do­po l’Unità, consigliere della Corte dei conti, viene nominato dal 1887 al 1897; il conte Eugenio Faina, deputato di Perugia, mem­bro della Commissione permanente delle Fi­nanze, dal 1882 al 1910; il senatore romano principe Felice Borghese, dal 1897 al 1905; il principe Paolo di Camporeale Beccadelli Acton, di Siracusa, ministro della Marina nel terzo ministero Cairoli e nel quarto De- pretis, rappresentante degli interessi vitivini­coli, dal 1892 al 1910; il deputato foggiano Giuseppe Pavoncelli, ministro dei Lavori pubblici nel terzo dicastero Di Rudini, dal 1897 al 1905. Rappresentante della coltura intensiva pugliese, lui stesso proprieta­rio-imprenditore legato al mondo della fi­nanza, partecipa anche al Consiglio del la­

voro sia come membro nominato che come rappresentante dei produttori e capi di aziende agrarie.

La componente meridionale acquista for­za dopo la nascita di alcune società nazio­nali di categoria, molti membri delle quali sono chiamati nel consiglio a rappresentar­le. Il Circolo enofilo italiano, fondato a Ro­ma nel 1882, scelto per tre volte come asso­ciazione, è anche rappresentato da Eugenio Rebaudendo, Edoardo Ottavi, Giuseppe Pavoncelli, Francesco Guicciardini e dai tecnici Tito Poggi e Gerolamo Caruso. La Società dei viticultori italiani, sorta a Roma nel 1884 sotto il patrocinio del ministero di Agricoltura e grazie all’iniziativa di Dome­nico Berti e Giuseppe Devincenzi, chiamata nel consiglio per due volte è anche rappre­sentata, oltre ai due sunnominati, dal sena­tore di Cuneo Felice Garelli, suo presidente, e dal segretario G.B. Cerletti, fondatore della Scuola di viticoltura di Conegliano. Infine la Società generale degli agricoltori italiani, fondata a Roma su un progetto di Devicenzi realizzato da Miraglia45. Anch’es- sa largamente sostenuta dal ministero come nuova forma di organizzazione degli inte­ressi agrari, ebbe un carattere più scientifico che economico. Costituì comunque un ter­reno di forte unione della proprietà fon­diaria soprattutto centro-meridionale. La sua rappresentanza all’interno del consiglio venne affidata soprattutto a membri del Sud, oltre che del Centro: Raffaele Cappelli,

degli architetti di Milano, fu presidente della Società agraria di Lombardia nel 1863. Fondò “L’Agricoltore” (dive­nuto poi “L’Italia agricola”) e la Società degli agricoltori italiani di Milano, che ebbe un ruolo determinante nel­l’organizzazione della campagna protezionistica nei primi anni ottanta. Proprietario di terre in provincia di Manto­va e di Ferrara, partecipò alle operazioni finanziarie per le opere di bonifica nel Ferrarese. Su quest’ultimo punto vedi Giorgio Porisini, Bonifiche e agricoltura nella bassa Valle Padana (1860-1915), Milano, Banca Commerciale, 1978.45 Su queste tre associazioni, oltre a Coletti, Le associazioni agrarie in Italia, cit., vedi Luigi Musella, Proprietà e politica agraria in Italia, Napoli, Guida, 1984, al quale si rimanda anche per le notizie relative a Gerolamo Giusso, all’Associazione dei proprietari e agricoltori di Napoli e all’attività del tecnico-agronomo O. Bordiga, direttore de “La rivista agraria” , periodico dell’associazione nato nel 1891.

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suo presidente dal 1897, il principe Felice Borghese, Raffaele De Cesare, Eugenio Fai­na, Miraglia, Leopoldo Franchetti, Gerola­mo Giusso.

Dagli anni novanta l’organizzazione degli interessi categoriali entra dunque nel consi­glio, ma la selezione attuata dall’amministra­zione è molto forte e tende ancora un volta a seguire un criterio geografico coincidente con il mutare delle alleanze tra governi e clas­si fondiarie. Le analisi precedenti hanno mo­strato che ai vari livelli di composizione del consiglio la prevalenza di membri e associa­zioni padane è smussata, anche se non messa totalmente in discussione, da una più costan­te presenza del Centro-Sud, dove il Centro non è più rappresentato dalla Toscana bensì da Roma. Dopo la svolta protenzionista e più ancora in età giolittiana, le classi fondia­rie del Sud hanno una rappresentanza molto incisiva attraverso l’Associazione dei pro­prietari e agricoltori di Napoli, fondata nel 1886 e presieduta fino al 1901 dal conte Ge­rolamo Giusso, membro del consiglio e della Società degli agricoltori italiani. Mentre ana­loghe associazioni sorte in Valle Padana du­rante e dopo la crisi sono totalmente ignora­te, questa è presente nel consiglio dal 1887 al 1910 con una frequenza di cinque sessioni pari alla Società agraria di Lombardia, chia­mata dal 1879 al 1902. La crescita della com­ponente fondiaria meridionale avviene nel contesto di una sua costante alleanza politica con l’amministrazione e coincide con la for­mazione in Parlamento del gruppo agrario, avvenuta negli anni novanta, monopolizzato dai proprietari del Sud. La proprietà milane­se resta in assoluto la più rappresentata at­traverso la Società agraria, la vecchia Società degli agricoltori di Chizzolini, le sue società scientifiche e la Scuola superiore di agricol­tura che, con Gaetano Cantoni e Vittorio Al­

pe, attraversa la storia del consiglio. L’indi­scussa predominanza dei tecnici padani è una riprova del carattere differenziato attribuito dalPamministrazione pubblica alla rappre­sentanza dell’agricoltura nazionale. Di quel­la padana vengono valorizzati gli elementi di competenza e organizzazione scientifica del­la produzione; di quella meridionale l’allean­za governativa. Per quanto riguarda la pro­prietà fondiaria milanese, la sua rappresen­tanza in chiave eminentemente tecnica ha ri­scontro nelle posizioni assunte dalla Destra milanese nei confronti della Sinistra, in par­ticolare di Crispi e della “meridionalizza- zione” della classe dirigente da questi inau­gurata46. La chiusura delle classi fondiarie milanesi e la loro emarginazione dal mondo della politica nazionale durante gli anni della Sinistra è verificabile anche all’interno del consiglio. Mentre i nuovi consiglieri del Sud sono tutti membri del Parlamento, quando non del governo, nessuno dei tecnici e dei rappresentanti della Società agraria di Lom­bardia sono parlamentari. Lo sono invece quelli delle altre province lombarde, legati alla Sinistra storica.

Nel gioco delle presenze e delle assenze re­gionali l’Emilia occupa una posizione singo­lare. Se si esclude il ferrarese Enea Cavalieri, che sostiene dalla seconda metà degli anni novanta gli interessi della Federconsorzi di Piacenza, le province emiliane, scarsamente presenti, sono rappresentate quasi esclusiva- mente da alcuni tecnici famosi. Emerge il vuoto della rappresentanza di Bologna: il suo comizio è chiamato solo tre volte; la sua gloriosa Società agraria, così legata a Min- ghetti, mai. Eppure i proprietari bolognesi furono sempre ministeriali: seguaci di Min- ghetti, poi depretisiani, crispini e almeno una parte di essi, quelli di origine nobiliare, an­che giolittiani47. Ma la loro rappresentanza

46 Fausto Fonzi, Crispi e lo “stato di Milano”, Milano, Giuffrè, 1965.4 Maria Malatesta, Il Resto del Carlino. Potere politico ed economico a Bologna da! 1885 al 1922, Milano, Guanda, 1978.

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nel Parlamento e negli altri corpi dello Stato fu assai scarsa, quasi a comprovare la margi­nalità politica di una provincia che pure ave­va grandemente contribuito alla formazione dello Stato unitario. L’esclusione della regio­ne dal mondo della politica nazionale diven­ta più marcato nel periodo giolittiano quan­do le lotte agrarie acutizzano propensioni an­ti governative nel padronato locale48, produ­cendo al tempo stesso nuove organizzazioni degli interessi (le associazioni di resistenza in funzione antisciopero) che non trovano al­cuna rappresentanza aH’interno della pub­blica amministrazione. Nel 1910 Lino Carra­ra, il leader dell’Agraria parmense, venne eletto nel consiglio come rappresentante del­l’Emilia, ma in qualità di presidente del Consorzio agricolo, da pochi anni controlla­to dall’Agraria. La potente Federazione in­terprovinciale agraria, che coordinò le asso­ciazioni di resistenza emiliane e del basso Veneto e la Confederazione nazionale agra­ria, che da questa ebbe origine49, non fu­rono mai incluse nell’elenco ministeriale del­le associazioni, mentre poterono inviare al­cuni rappresentanti al nuovo Consiglio del lavoro sorto nel 1902. Tuttavia anche per questo consiglio non si arriverà mai ad una rappresentanza ufficiale delle nuove orga­nizzazioni padronali sia industriali che agrarie.

In questo corpo, che avrebbe dovuto di­ventare un Parlamento del lavoro, l’agricol­tura e l’industria entravano “o attraverso l’organizzazione generica delle Camere di commercio e dei comizi agrari scelti dal mi­nistro tra i designati delle associazioni iscrit­te negli elenchi... necessariamente imperfet­tissimi ed eterogenei”50. La riforma invocata dalle componenti padronali per ottenere

nel consiglio una rappresentanza specifica della agricoltura e dell’industria, non fu mai attuata dato che l’amministrazione respinse un’organizzazione del consiglio orchestrata direttamente dai gruppi economici e sinda­cali. L’esempio del Consiglio del lavoro fa­cilita la risposta alla domanda posta prelimi­narmente, relativa ai tipi di rappresentanza riscontrabili all’interno di quello di agricol­tura. La pubblica amministrazione applicò un criterio di esclusione sia nei riguardi delle frange aggressive degli agrari padani che as­sunsero nel primo Novecento posizioni auto­nomistiche ed antigovernative, sia nei con­fronti delle organizzazioni categoriali degli imprenditori, privilegiando quella proprietà fondiaria sul cui appoggio poteva contare, nei vari periodi, con sicurezza. In questo senso le nuove organizzazioni degli interes­si furono oggetto di accurata selezione e ri­cevettero una rappresentanza amministrati­va solo nei casi in cui coincidevano con op­zioni politiche, più direttamente esprimibi­li attraverso una logica geografico-territo- riale.

La difesa del diritto di proprietà

La funzione consultiva esercitata dal Consi­glio di agricoltura per più di quarant’anni venne esplicata in base ad un criterio rigido ed irremovibile: la difesa del “terribile dirit­to” . Questo compito che gli era stato attri­buito istituzionalmente, emerse in modo ine­quivocabile a partire dal 1887 quando, con decreto del 20 marzo, venne consultato an­che sui provvedimenti volti a promuovere ir­rigazioni e bonifiche e sui sussidi previsti dal­le leggi del 25 dicembre 1883 e 28 febbraio

48 Antony Cardoza, Agrarian Elites and Italian Fascism. The Province o f Bologna, Princeton, 1982.49 Confederazione nazionale agraria, Annuario delle associazioni agrarie italiane, Bologna, 1912.50 Per la riforma della composizione del Consiglio superiore del lavoro. Relazione del Comitato permanente al Con­siglio superiore. Relatori: Abbiate, Cabrini, Saldini, in ministero di Agricoltura, industria e commercio. Ufficio del lavoro, A tti del Consiglio superiore del lavoro, XIV sess., febbraio 1910, Roma, 1910, p. 234.

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1886; sulle concessioni dei lavori di bonifica di prima categoria a società private o ad im­prenditori; sui ricorsi contro le decisioni del­la Commissione per la bonifica dell’Agro ro­mano, sui miglioramenti agrari e sulle tra­sformazioni delle colture che, secondo la leg­ge sul credito agrario del 1887, potevano da­re diritto ai mutui ipotecari. Negli ultimi an­ni ottanta l’attività del consiglio fu incentra­ta nell’esame delle richieste dei proprietari fondiari riuniti in consorzio relative al rim­borso delle opere di bonifica compiute diret­tamente, come prevedeva la normativa suc­cessiva alla legge Baccarini del 1882, secondo la quale l’onere dell’esecuzione dei lavori di prima categoria ricadeva direttamente sullo Stato. I pareri del consiglio, largamente fa­vorevoli ai proprietari, contribuirono in mi­sura decisiva ad incrementare l’azione di so­stegno fornita dallo Stato nei confronti della proprietà attraverso le bonifiche che si rive­larono essere la maggiore fonte di finanzia­mento pubblico di cui usufruì la proprietà fondiaria a partire dalla grande depres­sione51.

Ma la salvaguardia dei confini della pro­prietà fu esercitata dal consiglio anche all’in­terno, perseguendo una linea di difesa del “terribile diritto” dalle minacce che, sul fini­re del secolo, cominciavano ad essere avan­zate da più parti. Così, il diritto di proprietà venne protetto contro le limitazioni che ad esso sarebbero derivate dall’affermazione di un nuovo diritto dell’impresa e del lavoro.

Nell’espletamento di questo compito essen­ziale, il consiglio si scontrò in alcuni casi con il ministero di Agricoltura, impedendo che istanze innovatrici da questo proposte tro­vassero attuazione in una legislazione ade­guata. L’azione frenante esercitata dal corpo pare confermare l’ipotesi iniziale relativa al ruolo di retroguardia conservatrice che l’am­ministrazione attribuì di fatto alla proprietà fondiaria come garanzia dell’inattuabilità di un processo di modernizzazione dell’Italia agricola. I tentativi di riforma elaborati da ministri dell’Agricoltura illuminati, come Grimaldi, o progressisti, come Raineri non furono accompagnati da una modificazione della composizione del consiglio che, rimasta costantemente formata dai grandi proprieta­ri fondiari, funzionò sempre da argine ad ogni progetto che comportasse anche in mi­sura lieve l’imposizione da parte dello Stato, attuata tramite lo strumento della legge, di una limitazione dell’assolutezza dell’istituto della proprietà. Per converso è da sottoli­neare il progressivo svuotamento del consi­glio, visibile soprattutto durante l’età giolit- tiana. Per quanto riguarda l’agricoltura, si può formulare l’ipotesi che il “progetto burocratico”52 realizzato in quel periodo venne finalizzato all’emarginazione progres­siva di questo settore economico, mantenen­do immutati al suo interno i rapporti di pote­re. La marginalizzazione dell’agricoltura ini­ziata negli anni del decollo industriale pare essere riconducibile anche ad una strategia

51 CA, Sessione 1884, tornata del 6 marzo 1885, AA. 1885; Sessione 1885, tornate del 25, 27 luglio 1885, AA. 1885; Sessione 1886, tornata del 2 luglio 1886, AA. 1887; Sessione 1893, tornata del 27 maggio 1893, AA. 1893; sulla legi­slazione in materia di bonifiche vedi Giorgio Porisini, Le bonifiche nella politica economica dei governi Cairoti e De- pretis, in “Studi storici”, luglio-settembre 1974.52 Paolo Farneti, Sistema politico e società civile, Torino, Istituto di Scienze politiche dell’Università di Torino, 1971, p. 189. Per quanto riguarda il rapporto amministrazione/classi agricole in età giolittiana, si possono avanzare dubbi sull’interpretazione di Farneti relativa alla funzione del progetto burocratico nella costruzione di uno stato “supremo moderatore dei conflitti della società civile” e nella risoluzione della questione politica in questione ammi­nistrativa. Una riserva generale relativa ad una simile “capacità dello stato amministrativo” è già sollevata da Nicola Tranfaglia, Il deperimento dello Stato liberale in Italia, in Dallo Stato liberale allo Stato fascista. Problemi e ricer­che, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 44.

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della pubblica amministrazione che assecon­dò la perdita del potere politico della pro­prietà fondiaria senza peraltro controbilan­ciarla con la nascita di quello degli imprendi­tori e dei lavoratori agricoli e continuando ad attribuire alla prima il privilegio della rap­presentanza degli interessi generali del setto­re per garantirsi comunque il suo appoggio. Le vicende della rappresentanza dell’agricol­tura all’interno della pubblica amministra­zione si congiungono così alla storia del pro­tezionismo, sulla funzione compensatrice del quale venne stilato l’accordo tra i proprietari terrieri e i governi della Sinistra.

Nel Consiglio di agricoltura vennero difesi esclusivamente i diritti della grande e media proprietà, mentre la piccola non fu mai rap­presentata. Il peso esercitato da quest’ultima nell’organizzazione nazionale degli interessi dell’agricoltura era ancora, in età giolittiana, minoritario anche se in via di affermazione. La Federazione nazionale dei piccoli proprie­tari nacque nel 1913 data in cui quello che sa­rebbe divenuto il suo leader, il deputato cat­tolico di Parma Giuseppe Micheli, aveva da poco iniziato la carriera politica che lo avreb­be portato a ricoprire il dicastero dell’Agri­coltura e dei Lavori pubblici nel 1920 e nel 1921, quando i mutamenti apportati dalla guerra nell’assetto fondiario congiunti alla funzione conservatrice attribuita ai piccoli proprietari diedero a questa categoria una nuova e più consistente rappresentanza al­l’interno dell’amministrazione. All’esclusio­ne dei piccoli proprietari si affiancò quella dei conduttori di fondi. Neppure i grandi af­fittuari padani vennero rappresentati diretta- mente nel consiglio; i loro interessi vennero sostenuti, in senso lato, solo da Enea Cava­lieri e da Vittorio Alpe. Giovanni Secondi deputato di Melegnano, medico e grande af­fittuario, radicale — come tutti gli affittuari

lombardi, che formarono in quegli anni la base rurale dell’elettorato radicale53 — soste­nitore della linea dura dell’affittanza capita­listica negli anni della crisi agraria, fu nomi­nato consigliere dal 1879 al 1881. La carica non venne più rinnovata l’anno successivo, quando Secondi presentò alla Camera l’in­terpellanza dalla quale prese ufficialmente avvio la “rivolta degli affittuari” lombardi contro la proprietà. Alla sua uscita dal consi­glio fa riscontro l’ingresso di Piero Lucca, che rappresentò in quegli anni la linea di di­fesa più aperta della proprietà fondiaria pro­tezionistica e di destra.

Le associazioni degli affittuari sorte negli anni della crisi non furono mai chiamate a far parte del consiglio. Né quella di Melegna­no, che a metà degli anni ottanta contava più di 1.500 aderenti, un numero infinitamente superiore anche a quello dei comizi e delle Società agrarie più importanti, né le altre as­sociazioni di conduttori di fondi, compren­denti anche i proprietari-conduttori, sorte in Valle Padana nel primo Novecento, all’inter­no delle quali si mescolavano finalità an- ti-sciopero e rivendicazioni di tipo imprendi­toriale. Il predominio della grande proprietà impedì complessivamente, con ruoli diversi esercitati a seconda dei periodi da quella set­tentrionale o meridionale, che il consiglio esprimesse una valutazione favorevole all’af­fermazione di un nuovo diritto dell’impresa, inteso come rivendicazione di una gestione autonoma dell’azienda agraria realizzata sul­la base di una diversa dislocazione tra potere dei proprietari e quello degli imprenditori. La rivolta dei grandi affittuari lombardi, scoppiata nei primi anni ottanta, costituì il primo attacco al diritto di proprietà. Alla ri­chiesta contingente di diminuzione dei cano­ni di locazione, si affiancarono quelle relati­ve ad una adeguata remunerazione della va­

53 Stefano Merli, La democrazia radicale in Italia (1866-1898), in “Movimento operaio”, 1955, pp. 45-46; Laura Ba­rile, li Secolo 1865-1923. Storia di due generazioni delia democrazia lombarda, Milano, Guanda, 1980, pp. 133-136.

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lorizzazione del capitale fisso fornito dalla proprietà attuata dall’imprenditore (la que­stione delle migliorie) e alla difesa dei diritti di quest’ultimo, affidata a nuovi organi giu­risdizionali (i probiviri) che garantissero l’e­quità del contratto utilizzando il loro potere giurisdizionale per correggere le norme con­tenute nel codice civile in materia di localiz­zazione dei fondi rustici, apertamente a fa­vore del proprietario.

La risoluzione della crisi agraria proposta dalla proprietà fondiaria, ossia la tariffa protezionistica, fu accettata in ultima istanza dagli affittuari come correttivo alla contra­zione dei profitti rinunciando a battersi per una soluzione all’inglese, basata sull’intensi­ficazione della produzione agricola, garanti­ta da una forte difesa attuata dallo Stato nei confronti degli imprenditori, piuttosto che sulla protezione delle merci dalla concorren­za extra europea54. Ma la rivolta degli affit­tuari, seguita dai primi scioperi agrari dei braccianti del Polesine e del Mantovano e dei coloni del Milanese, aveva svelato la rottura dell’armonia tra le categorie agricole, basato fino a quel momento sulla soggezione della parte più debole agli accordi contrattuali sti­pulati in base ad un principio fittizio di equi­tà largamente legittimato dalla normativa contenuta nel codice civile. Questione con­trattuale e contesa tra le parti si imposero co­me due aspetti della medesima realtà di fron­

te alla quale emergeva l’esigenza di regola­mentare la libertà di contrattazione attra­verso una legislazione che correggesse le norme contenute nel codice55. Una prima ri­soluzione a questo problema fu cercata dal­l’amministrazione attraverso il progetto di estendere anche al settore agricolo l’istituto dei probiviri in analogia a quanto si stava già discutendo per l’industria. Già ampia­mente diffusi in Europa a quella data, i col­legi probivirali furono creati in Italia, limi­tatamente al settore industriale, nel 1893 al­lo scopo di conciliare e di risolvere in via giudiziale le controversie di lavoro. Il loro operato fu sempre osteggiato dalla compo­nente padronale e, negli anni di decisiva af­fermazione delle organizzazioni sindacali negletti anche da quella operaia, nella misu­ra in cui prendeva piede l’obiettivo della contrattazione collettiva al posto della riso­luzione individuale delle questioni contrat­tuali. Ebbero comunque un valore assai ri­levante attribuibile al fatto che la giurisdi­zione esercitata dai probiviri colmò le lacu­ne della legge gettando le basi sulle quali verrà elaborato il nuovo diritto del lavoro56 ed evidenziò, in questo senso, la funzione destabilizzante dei nodi costituzionali dello Stato di diritto esercitata dalla produzione di un nuovo diritto atto a garantire interessi sociali in opposizione alla logica dell’indivi­dualismo liberale57.

34 Sulla rivolta degli affittuari lombardi e sulla questione del contratto locazione dei fondi rustici nel XIX secolo vedi Maria Malatesta, La grande depressione e l’organizzazione degli interessi economici: il caso degii agrari padani, in “Passato e presente”, maggio-agosto 1985; sulle lotte contadine durante la crisi agraria vedi Rivolte e movimenti con­tadini nella Valle Padana di fine Ottocento, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi”, 6/1984, Bologna, Il Mulino, 1984.55 Natalino Irti ha precisato la differenza tra leggi eccezionali, che introducono deroghe ai principi del codice civile, e leggi speciali che regolano istituti ignoti al sistema del codice (L’età delta decodificazione, Milano, Giuffrè, 1979, in part. pp. 7-9). La legge speciale è estranea al carattere della legislazione civile ottocentesca basata sul concetto di im­mutabilità. Da notare invece che dalla rivolta degli affittuari siano emerse richieste di una legislazione speciale in ma­teria di contratti che corregga “il culto superstizioso di codici del rigido e irreformabile giure” (discorso di Francesco Cagnola, Atti parlamentari, Camera dei deputati, tornata dell’8 febbraio 1885).56 Balboni, Le origini dell’organizzazione amministrativa del lavoro, cit., p. 20 sgg.37 Gustavo Gozzi, Legislazione sociale e crisi dello stato di diritto tra Otto e Novecento. Due modelli a confronto: Ita­lia e Germania, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, X, 1984, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 200-201.

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In agricoltura, l’istituto dei probiviri non superò mai la fase del progetto di legge. Nel 1886 il ministro dell’Agricoltura Grimaldi in­caricò Enea Cavalieri di studiare e sottoporre all’esame del consiglio la proposta della crea­zione di collegi di probiviri ai quali ricorrere obbligatoriamente in tutti i casi di disaccor­do tra le parti. Alcuni consiglieri videro nel- l’obbligo di risoluzione dei conflitti attraver­so la giurisdizione dei probiviri un elemento inaccettabile di coercizione, peraltro non presente nel progetto relativo alPindustria e al commercio nel quale il ricorso era facolta­tivo. L’estensione indiscriminata dei collegi in tutte le zone agrarie era ugualmente discu­tibile. Secondo G.B. Cerletti, il fondatore della Scuola di agricoltura di Conegliano, la formazione di ogni collegio avrebbe dovuto essere sottoposta all’approvazione del pre­fetto e del comizio locale, vale a dire subor­dinata alla valutazione dei rapporti di forza esistenti tra le categorie agrarie58. Nella ses­sione successiva Cavalieri presentò un nuovo e più articolato progetto che chiariva la com­posizione del collegio, formato dai probiviri eletti in numero pari dai proprietari, dagli af­fittuari e dai lavoratori agricoli e le sue com­petenze, che dalla conciliazione si estendeva­no alla risoluzione delle controversie tra pro­prietari e conduttori; tra proprietari e con­duttori e lavoratori. In esso erano presenti buona parte delle rivendicazioni degli affit­tuari, relative alla clausole contrattuali che garantivano l’ingerenza del proprietario nel­la conduzione dell’azienda e al calcolo delle migliorie da rimborsare al termine della loca­zione. Nelle contese con i proprietari i probi­viri avrebbero non solo sostituito il perito agronomo che redigeva le stime relative alla consegna ed alla riconsegna per conto del lo­

catore, bensì esercitato una propria giurisdi­zione in tutti quei casi per i quali l’appello al­la legge o alla consuetudine risultava insuf­ficiente59.

Le prerogative giurisdizionali dei probivi­ri, furono interpretate come un attacco al proprio diritto dai proprietari che sovente avevano trovato nella magistratura ordinaria un appoggio a loro favore nel contenzioso con i conduttori. Il dibattito apertosi tra i membri del consiglio fu orchestrato con astuzia volpina da Piero Lucca il quale, men­tre si opponeva al principio delle giurisdizio­ni speciali perché crevano delle “caste”, sol­levò una questione di merito relativa all’op­portunità per il consiglio di pronunciarsi sul­la creazione di un tribunale speciale quando il Parlamento stava discutendo dell’abolizio­ne di quelli di commercio. Lucca fu appog­giato dal senatore Nobili-Vitelleschi, presi­dente del comizio di Roma, che ribadì l’in­competenza del consiglio a giudicare di un tribunale eccezionale, composto “di gente affatto imperita di diritto, e che di più giudi­chi irrevocabilmente; maniera di giudizio che non esiste nella nostra legislazione”. Cavalie­ri replicò che i probiviri avrebbero innestato il principio popolare nell’amministrazione della giustizia e che avrebbero fornito una garanzia di equità in quanto, a differenza dei tribunali di commercio, la materia agricola sarebbe stata ad essi avocata in prima istanza senza distinzione tra il valore delle cause e i tribunali civili sarebbero tornati competenti solo in via di appello. Fu appoggiato solo da Leopoldo Franchetti, che partecipò al consi­glio in quella sessione e nella successiva, mentre il senatore cremonese Griffini che al­cuni anni dopo — come si è visto — avrebbe presentato in Senato il progetto di legge sul-

58 Enea Cavalieri, Relazione e disegno di legge sui probiviri, CA, Sessione 1886, AA 1887; ibidem, tornata del 3 lu­glio 1886, pp. 397-424.59 Enea Cavalieri, Relazione e disegno di legge sui probiviri in agricoltura, CA, Sessione 1887, AA 1888; ibidem, tornata del 10 dicembre 1887, pp. 125-241.

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le camere di agricoltura con funzioni arbitra­li, alla fine si schierò con Lucca e Vitelleschi. L’o.d.g. votato a maggioranza, mirabilmen­te generico, respinse di fatto il progetto di Cavalieri. Nel 1893, anno in cui fu varata la legge sui probiviri nell’industria, il progetto sulla loro estensione all’agricoltura fu nuo­vamente sottoposto all’esame del consiglio. L’unico membro che si pronunciò a favore dell’esercizio della competenza dei collegi nelle controversie tra proprietari e condutto­ri relative alla locazione delle cose, fu Carlo Ferraris, il noto amministrativista, rettore dell’Università di Padova, più volte membro del Consiglio della previdenza e di quello di agricoltura60. Ferraris riteneva opportuno escludere un intervento dei collegi nei con­tratti di lavoro, dato che in questo caso avrebbero assunto piuttosto la funzione di giurì in materia civile. Tutti gli altri difesero la competenza dei collegi nei conflitti di lavo­ro e diedero finalmente parere favorevole al progetto alla condizione che i probiviri fosse­ro utilizzati esclusivamente nelle controversie con i lavoratori agricoli. Cavalieri stesso, schierandosi con la maggioranza, stilò l’o.d.g. nel quale il consiglio dichiarava di preferire “che corra qualche anno di espe­rienza su questa più modesta loro giurisdi­zione prima di affidare ai probiviri, sia pure con opportune cautele, anche l’altra delle controversie relative al patto colonico”61. L’approvazione del progetto venne data a patto di una grave mutilazione, con la quale i proprietari riuscirono ad evitare il ricorso obbligatorio alla giurisdizione speciale per le controversie con i conduttori che li riguarda­vano direttamente; accettarono invece quello relativo ai contratti di lavoro al quale erano

in genere coinvolti i conduttori e i braccianti. L’ulteriore progetto di legge, presentato alla Camera nel 1909 da Cocco-Ortu e Orlando, non venne più sottoposto al giudizio del con­siglio che fu invece chiamato a pronunciarsi, due anni dopo, sul punto centrale del conten­zioso tra proprietari e affittuari: l’indennizzo delle migliorie.

La questione si poneva in termini assai di­versi a seconda che si riferisse all’affitto ca­pitalistico, prevalente nella Bassa Padana ir­rigua, o dell’affitto detto “a miglioria”, dif­fuso nell’Italia meridionale. Nel primo caso si trattava di grossi investimenti di capitale fatti dal conduttore nel fondo per intensifi­carne la produzione, che venivano remunera­ti alla fine della locazione solo parzialmente, mentre il rimborso completo, soprattutto se riferito a modifiche strutturali, avveniva solo nel caso in cui il proprietario aveva dato pre­ventivamente il permesso. Per gli affittuari capitalistici l’indennizzo delle migliorie signi­ficava libertà di iniziativa nel fondo e al tem- di recuperare i capitali investiti che altrimenti restavano a beneficio esclusivo del locatore. I proprietari padani resistettero tenacemente sull’obbligo dell’autorizzazione preventiva, anche se nei primi anni del Novecento la na­scente forza organizzativa degli affittuari riuscì a diffondere considerevolmente il di­battito relativo alla modifica del contratto di locazione62. Senza riuscire ad intaccare, in nome del diritto dell’impresa, il punto nel quale i locatori identificavano il diritto di proprietà, furono ottenute alcune concessio­ni anche grazie all’appoggio di tecnici prove­nienti da ambienti tradizionalmente legati al­la proprietà. È il caso di Arrigo Serpieri, se­gretario della Società agraria di Lombardia

60 Sulla funzione di Carlo Ferraris nell’elaborazione teorica della nuova organizzazione sociale degli interessi vedi Gustavo Gozzi, Organizzazione degli interessi e razionalità amministrativa in Italia fra Otto e Novecento, in “Il pen­siero politico”, 1983, n. 2.61 CA, Sessione 1893, tornata del 27 e 29 maggio 1893, AA. 1893, pp. 22-44, 84-99.62 Eduino Negri, Relazione sull’ordine del giorno proposto dagli agricoltori l ’8 dicembre 1902 ne! tèatro Guidi di Pavia, estratto dagli Atti del congresso, Pavia, 1903.

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nel primo Novecento, che diede un forte con­tributo alla causa dell’affittanza organizzan­do commissioni di studio ed elaborando ar­diti progetti, modellati sull’esempio ingle­se63. Con l’affitto a miglioria, era stata in origine attuata la trasformazione in agrumeti dei terreni incolti o coltivati. In Sicilia si chiamava “contratto a ventennale” e consi­steva nell’affidamento della terra nuda, spes­so improduttiva, al conduttore perché la col­tivasse a sue spese senza aver diritto ad alcun rimborso. Il fitto a miglioria era stato utiliz­zato a partire dagli anni ottanta anche nel­l’Agro romano dove i proprietari, in seguito alle agevolazioni fiscali e creditizie previste dalla legge sulla bonifica nella zona, avevano dato in affitto i terreni ad un canone iniziale molto basso, per un periodo di diciotto anni. Il conduttore doveva sostenere tutte le spese delle bonifiche agrarie e fondiarie che gli ve­rnano rimborsate solo per il 33%. L’inden­nizzo non sussisteva più in caso di rinnovo della locazione per dodici anni, mentre il ca­none aumentava del 40%64.

La commissione sui contratti agrari e del lavoro formatasi nel 1894 aveva ampiamente discusso il problema, che restò comunque irrisolto65. Giovanni Raineri, divenuto mini­stro dell’Agricoltura nel 1910, volle inaugu­rare il consiglio che non si era più riunito per quattro anni, proponendo come argomento centrale proprio la questione degli indenniz­zi, finora mai affrontata dal corpo consulti­vo. Questo atto del ministro testimoniava la

politica che avrebbe improntato il suo dica­stero — che tuttavia abbandonò dopo un an­no — più spostata verso l’imprenditoria agraria e gli obiettivi produttivistici caratte­rizzanti la gestione della Federconsorzi, alla quale era strettamente legato. Raineri affidò a Vittorio Alpe, nuovo direttore della Scuola di agricoltura di Milano dopo la morte di Cantoni, altro componente del gruppo diri­gente della Federconsorzi, il compito di sten­dere la relazione. Alpe, che alcuni anni pri­ma aveva abbracciato una posizione di com­promesso che lo avvicinava molto più alla li­nea dei proprietari, invocò in questa occasio­ne, in termini peraltro assai contenuti, la ne­cessità di “far intervenire la legge a stabilire l’inclusione dei capitolati d’affitto di patti i quali riconoscano al fittaiolo il diritto a com­penso per le migliorie agrarie e fondiarie dal­lo stesso compiute e giudicate utili dai periti”66. Le reazioni suscitate dalla relazione furono quanto mai vistose. Il prof. Caruso, direttore della Scuola agraria di Pisa, Codac- ci Pisanelli, ex sottosegretario all’Agricoltu­ra, il principe di Camporeale Acton furono unanimemente d’accordo sul fatto che “non sia neanche lontanamente ammesso che si voglia obbligare i proprietari a subire la vo­lontà dei conduttori” ; che “il proprietario debba soggiacere a quanto propose nel 1901 il Congresso di Lodi, di vedere cioè trasfor­mato il suo fondo, per dover poi sottostare ad indennizzare il fittavolo delle spese da lui fatte” . Ciò che venne respinto con forza fu

63 Società agraria di Lombardia, A tti della commissione per lo studio delle riforme a! capitolato d ’affitto dei fondi irrigui lombardi, Milano, 1905; Arrigo Serpieri, L ’indennizzo per miglioramenti nei contratti d ’affitto (1906), in “Studi sui contratti agrari”, Bologna, 1920. Sull’attività di Serpieri all’interno della Società agraria di Lombardia v. Carlo Fumian, Modernizzazione, tecnocrazia, ruralismo: Arrigo Serpieri, in “Italia contemporanea”, n. 137, 1979, pp. 10-15.64 Vittorio Alpe, Un contratto agrario, in “Agricoltura moderna”, n. 6, 1903; Arturo Bruttini, Sul contratto d ’affit­to “a ventennale” e sulle condizioni dell’agricoltura in provincia di Trapani, Bologna, 1903.65 Ministero di grazia e giustizia-ministero di Agricoltura, industria e commercio, Commissione per i contratti agrari e per il contratto di lavoro parte I, Contratti agrari, Roma, 1895.66 A tti del congresso agrario di Lodi, 11-14 settembre 1901, Milano, 1902, pp. 57-59; Vittorio Alpe, Se e come con­venga dettare delle disposizioni legislative che rendano obbligatorio l ’indennizzo da parte del proprietario al fittaio­lo, per le migliorie da questi compiute nel fondo locato, CA, Sessione 1910-1911, AA, 1912.

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che la legislazione si insinuasse nel patto tra privati, imponendo regole che modificavano il secolare squilibrio tra le parti contraenti. Se intervento legislativo era da esserci, dove­va limitarsi a forme di agevolazione tributa­ria o creditizia. Rispetto al coro dei proprie­tari, al cui interno più acuto si levò la voce di quelli meridionali, non disposti a discutere la possibilità di modificare le clausole a loro fa­vore previste nel contratto “a miglioria”, Li­no Carrara assunse una posizione assai inte­ressante, sia dal punto di vista della media­zione tra gli interessi della proprietà e dell’af­fittanza, congiunti all’interno dell’Agraria parmense nell’obiettivo primario della lotta di classe anti-bracciantile, sia da quello della funzione attribuita allo Stato all’interno del­la visione “privatista” degli agrari. Salva­guardando il principio della necessità di con­tribuire alle spese fatte dagli affittuari so­prattutto nei miglioramenti fondiari, Carra­ra propose che lo Stato finanziasse (attraver­so “premi”) le opere più costose, ponendole sotto il suo controllo. Inutilmente Alpe s’ap­pellò alla legislazione inglese, che prevedeva il diritto di indennizzo per tutti i mutamenti agricoli o fondiari, apportati dall’affittuario al fondo. Gli altri membri restarono arrocati sulla formula proposta da Codacci Pisanelli, nella quale l’intervento governativo era limi­tato all’“incoraggiamento”67.

Il netto rifiuto di una legislazione che siste­masse la materia contrattuale in base a criteri più rispondenti all’emergenza di nuovi biso­gni sociali ed economici, non più incentrati esclusivamente, come quelli del codice civile, sul diritto di proprietà, era già stato espresso con altrettanta energia in occasione dei di­

battiti apertisi all’interno del consiglio, negli anni della crisi in seguito ai primi moti agra­ri, relativi alle eventuali modifiche da appor­tare ai contratti colonici. Queste non doveva­no avvenire attraverso “atti coercitivi” e lo Stato nulla doveva imporre a riguardo del mutamento delle consuetudini. Il terrore che la legge scritta si frapponesse fra le due parti contraenti, emerge anche dal rifiuto espresso dal consiglio della proposta avanzata da Enea Cavalieri, relativa al censimento ed alla pubblicazione di tutte le consuetudini alle quali si riportava il codice civile. La risposta della proprietà al quesito sottopostole fu una: se mai intervento dello Stato doveva es­serci, che fosse indirizzato alla diffusione della mezzadria, dato che “le considerazioni d’ordine sociale debbono avere anche, ora specialmente, importanza considerevole”68. Il consiglio difese sempre la libera contratta­zione come nucleo portante della salvaguar­dia del diritto di proprietà. Protetto dalle consuetudini secolari e dal codice civile, che le recepì inserendole all’interno del principio generale della intangibilità del contratto tra privati, il terribile diritto venne ribadito dai suoi detentori dagli attacchi provenienti da un’organizzazione sociale che stava lenta­mente spostandosi verso forme di aggrega­zione collettiva69. La frontiera ultima della proprietà fondiaria, basata sull’individuali­smo del possesso, venne difesa dai membri del consiglio anche attraverso i modi della sua rappresentanza.

Il tema della rappresentanza dell’agricol­tura venne ripetutamente sottoposto all’ana­lisi del consiglio, soprattutto in concomitan­za della presentazione dei progetti di legge

67 CA, Sessione 1910-1911, tornata del 27 e 28 febbraio 1911, AA, 1912, pp. 1-8,48-65.fi8 CA, Sessione 1888-1889, tornata del 3 giugno 1889, pp. 126-143, AA. 1889; sess. 1892, tornata 19 maggio 1892, AA. 1892, parte II, pp. 383-403.69 Sull’individualismo possessivo che ha informato la codificazione francese del 1804 e quella italiana, vedi Natalino Irti, Dal diritto civile al diritto agrario (momenti di storia giuridica francese), Milano, Giuffrè, 1962; Giovanni Ta- rello, Le ideologie della codificazione, Genova, 1971; Paolo Grossi, Tradizioni e modelli nella sistemazione post-uni- taria della proprietà, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno” , nn. 5-6, 1.1, 1976-77.

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relativi alla sua modificazione. La modalità dei dibattiti e la coerenza dei pareri finali che furono espressi dai vari membri attestano il carattere non episodico delle dicussioni, dal­le quali emerse il ruolo centrale attribuito dalla proprietà fondiaria ad una formula rappresentativa selettiva che garantisse loro un rapporto privilegiato con l’amministra­zione. Su questo punto si verificò, nel 1893, una forte collisione tra il consiglio e il mini­stero al momento della presentazione di un progetto di legge relativo alla formazione di istituti rappresentativi economici locali che unissero l’agricoltura all’industria ed al com­mercio. In essi le camere di commercio man­tenevano le precedenti prerogative fiscali, mentre i comizi avrebbero provveduto al proprio mantenimento tramite un contributo di 2 lire per abitante ricavato dai bilanci pro­vinciali. Le due istituzioni, che rimanevano profondamente diversificate per quanto con­cerne l’aspetto del finanziamento, venivano unificate nella composizione che, come per le camere di commercio già esistenti, doveva essere a base elettiva. Elettori delle camere agrarie sarebbero così stati i proprietari, gli affittuari, i coloni e i mezzadri. Contro la proposta dell’amministrazione, che presup­poneva la costituzione di una rappresentanza elettiva scalare che dalla periferia si sarebbe estesa al centro, i membri di quella sessione difesero strenuamente i vecchi comizi, certo mal funzionanti ma sicuramente controllati dai proprietari. Due solo furono le voci di dissenso: quella di Carlo Ferraris che si pro­nunciò decisamente a favore delle nascenti forme organizzative private, basate sull’ag­gregazione degli interessi categoriali, intese come il terreno dal quale sarebbero scaturite nuove formule rappresentative. E quella di

Enea Cavalieri che valorizzò il significato del progetto ministeriale in quanto avrebbe po­tuto costituire un tentativo di risoluzione in­terclassista ai conflitti sociali che avevano iniziato a sconvolgere le campagne padane70. Questa linea venne ripresa da Cavalieri dieci anni dopo, con la consueta energia in un’am­pia proposta di modifica della rappresentan­za, il cui centro era ancora costituito dalle camere di agricoltura a base elettiva. L’inter­classismo propugnato da Cavalieri nel Nove­cento si era arricchito di un più maturo con­vincimento all’interno del quale traspariva l’influenza delle teorie di Carlo Ferraris, ba­sato sull’assunto che convenisse “prevenire le organizzazioni a base di classe con le orga- nizzazoni a base di interessi”71. Ma a diffe­renza di quanto aveva sostenuto lo stesso Ferraris nella discussione del 1893, Cavalieri voleva affidare l’esecuzione di questa opera­zione allo Stato che nei riguardi dei “rappre­sentanti economici e sociali... rifugge dal considerarsi incompetente, e dal contentarsi di un’alta tutela, sia perché ben spesso è chiamato arbitro delle loro contestazioni, sia perché i gruppi multifórmi degli interessi economici e sociali non hanno la propria ori­gine e il proprio svolgimento progressivo, se non attingendo alla stessa vita nazionale”72.

L’obiettivo di Cavalieri consisteva nella creazione di aggregazioni locali e di reti rap­presentative rispondenti a fini sociali, oltre che economici, in quanto avrebbero costitui­to attraverso l’interclassismo ed il legame con la pubblica amministrazione un canale di integrazione all’interno dello Stato dei ceti subalterni agricoli. Questa soluzione avrebbe però comportato una diversa dislocazione del potere dei proprietari fondiari nei riguar­di dell’amministrazione anche perché apriva,

70 CA, Sessione 1893, tornate del 29, 30 maggio, 2 giugno 1893, pp. 103-108, 115, 123, 325-349.71 Prima relazione deI comm. Enea Cavalieri sul tema: “La rappresentanza dell’agricoltura”, CA, Sessione 1905 e 1906, AA. 1907, p. 344.7~ Ibidem , p. 307. Vedi anche nello stesso volume degli “Annali di agricoltura”, la Seconda relazione del comm. Enea Cavalieri sul tema: “La rappresentanza dell’agricoltura”. Il dibattito tenutosi il 26 giugno 1905 è alle pp. 35-38.

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al tempo stesso, un canale rappresentativo diretto anche alle categorie imprenditoriali. E venne infatti respinta dalla proprietà fon­diaria attraverso la difesa dell’istituto del co­mizio. L’interclassismo “teorico”, propu­gnato in quegli anni dalle agrarie padane era una formula vuota-, che presupponeva co­munque un controllo del padronato su mez­zadri e braccianti. Acquistava un diverso si­gnificato quando veniva proposto in termini di “concertazione” degli interessi categoriali garantita dalla mediazione dello Stato.

La storia del Consiglio di agricoltura può

essere considerata in definitiva non solo co­me rivelatrice delle modalità del rapporto tra Stato e classi fondiarie ma anche delle stesse caratteristiche rivestite dallo Stato nel perio­do liberale. La linea di Cavalieri risultò in­fatti perdente in quanto presupponeva uno Stato mediatore tra interessi contrastanti, mentre si scontrava in realtà con un’ammini­strazione ancora profondamente contesa fra le domande di legittimazione di nuovi e la di­fesa di retroguardia di più antichi interessi73.

Maria Malatesta

73 Le posizioni di Cavalieri si avvicinavano, pur con alcune diversità, alle teorie di Carlo Ferraris e come queste ven­nero sconfitte all’interno della politica e della cultura Otto-Novecentesca. La concezione della scienza dell’ammini­strazione elaborata dal giurista padovano presupponeva uno Stato armonizzatore delle diseguaglianze sociali al fine di conservare lo sviluppo economico esistente. La tendenza che si impose a fine Ottocento fu invece quella dell’asso- lutizzazione del giuridico, propugnata da Vittorio Emanuele Orlando, attraverso la quale venne rappresentata la se­parazione tra Stato e società valorizzando, grazie alla scelta formalistica, la funzione dell’organizzazione ammini­strativa come strumento di gestione della società. Questa tesi è stata elaborata da Cesare Mozzarelli e Stefano Ne- spor, Giuristi e scienze sociali nell’Italia liberale, Venezia, Marsilio Editore, 1981.