Speciale: Pensare la realtà

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Rivista di appunti filosofici

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REDAZIONE

Direttore: Corrado Piroddi.

Vicedirettore: Anna Maria Ricucci

Redazione: Valeria Bizzari, Antonio Freddi, Giacomo Miranda, Teresa Paciariello, Lavinia Pesci, Corrado Piroddi, Anna Maria

Ricucci, Timothy Tambassi.

Collaboratori esterni: Marco Anzalone, Simona Bertolini, Mara Fornari, Donatella Gorreta, Federica Gregoratto, Francesco

Mazzoli, Giovanna Maria Pileci, Marina Savi, Cristina Travanini.

Direttore responsabile: Ferruccio Andolfi.

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SOMMARIO

Introduzione..............................................................................................................................................................................................p. 4

Umanamente oggettivo. Spunti di riflessione a partire dai «Quaderni del carcere» di Lucia Mancini.........................................................p. 6

Tra rappresentazionalismo e realismo diretto: lineamenti di un’interpretazione cartesiana di Giacomo Miranda....................................p. 14

Sulla realtà delle proprietà estetiche: un’incursione nel dibattito analitico di Cristina Travanini.............................................................p. 23

La struttura della compresentazione nella fenomenologia husserliana di Daniela Bandiera....................................................................p. 31

Realtà, ontologia e prospettivismo nell’elaborazione americana di Nietzsche di Antonio Freddi..............................................................p. 37

Realtà e possibilità. Una riflessione sulla proposta metafisica di E.J. Lowe di Timothy Tambassi.........................................................p. 51

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Introduzione

Giunta alla seconda edizione, la Giornata di Studi per Dottorandi e Dottori di Ricerca ha mantenuto il taglio della

precedente, privilegiando un approccio argomentativo e dialogico intorno al tema della realtà e del suo rapporto con

il pensiero. Studiosi specializzati in diversi ambiti della filosofia, legati all’Università degli Studi di Parma che ha

fatto da cornice all’evento, si sono confrontati senza che l’apertura prevista dal dibattito si traducesse in una deroga

alla scientificità o alla specificità dei rispettivi metodi. Ne è risultato un succedersi di contributi densi e stimolanti,

raccolti in questo numero della rivista «Quaderni della Ginestra» la cui Associazione culturale di riferimento, «La

Ginestra», è stata, insieme all’Università di Parma e alla Società Filosofica Italiana, tra i patrocinatori dell’evento.

Al riguardo, rinnoviamo i nostri più sentiti ringraziamenti alla prof.ssa Beatrice Centi, Responsabile dell’Area di

Filosofia del Dipartimento A.L.E.F. dell’Università di Parma, e al prof. Ferruccio Andolfi, presidente

dell’Associazione culturale «La Ginestra», direttore de «La società degli individui» e autorevole sostenitore di

questa iniziativa. Ringraziamo i singoli Relatori per gli articoli che compongono la raccolta e cogliamo, infine,

l’occasione per apprezzare il lavoro di Corrado Piroddi, direttore dei «Quaderni della Ginestra» e responsabile

dell’editing.

I curatori

Giacomo Miranda Timothy Tambassi

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Quaderni della Ginestra

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os’è la realtà?

Questo interrogativo, da sempre uno dei punti cardine

dell’indagine filosofica, non è estraneo alla ricerca intellettuale condotta

da Gramsci nei Quaderni del carcere1. Se da un lato questa constatazione

può non destare stupore data la natura frammentaria e miscellanea dei

Quaderni, dall’altro non possiamo che interrogarci sul motivo che può

avere spinto Gramsci, un politico ma non un filosofo, ad affrontare un

tema apparentemente così lontano, così eterogeneo, dai suoi interessi

specifici.

Si cercherà quindi di mostrare come la riflessione sul concetto di

realtà nell’economia del lavoro intellettuale gramsciano trascenda il

piano teoretico-epistemologico per assumere una connotazione

squisitamente politica.

1. Premesse metodologiche

Data la natura degli scritti carcerari, per poter meglio contestualizzare

le mie osservazioni, che non hanno la pretesa di essere conclusioni, ma

semplici spunti di riflessione a partire da alcuni paragrafi dei Quaderni,

diventa necessario premettere alcune considerazioni metodologiche da

tenere sempre presenti nel momento in cui affrontano i testi gramsciani.

Il breve paragrafo che segue ha una semplice funzione introduttiva, può

essere saltato da chi ha già dimestichezza con lo studio delle annotazioni

gramsciane.

In primo luogo occorre tenere presente che i Quaderni del carcere non

sono una trattazione organica e lineare di uno o più argomenti, ma degli

appunti, più o meno approfonditi, che Gramsci raccoglie tra il 1929 e il

1935 su ogni campo del sapere umano: storia, letteratura, economia,

scienze, traendo spunto da ricordi e da letture di libri e riviste.

La prima fase del lavoro carcerario (dall’8 febbraio 1929 alla

primavera del 1932) viene dedicata alle traduzioni dal tedesco, inglese e

dal russo, e all’accumulazione progressiva di note di vario argomento; a

partire dall’aprile del 1932 (pur continuando la stesura di nuove note

miscellanee) Gramsci dà inizio alla compilazione di quaderni, da lui

definiti «speciali», destinati a smistare e raccogliere ‘monograficamente’

alcune delle annotazioni precedenti. A causa del regolamento carcerario,

che limitava il numero di libri e quaderni consentito in cella, Gramsci,

per ovviare a questa restrizione, divideva idealmente e strutturalmente

alcuni di essi in sezioni. Tale pratica gli consentiva di affrontare

contemporaneamente più tematiche e di comportarsi come se avesse a

C UMANAMENTE OGGETTIVO. SPUNTI DI RIFLESSIONE A

PARTIRE DAI QUADERNI DEL CARCERE

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Pensare la realtà

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disposizione un numero maggiore di quaderni2. Si possono così

riconoscere diverse tipologie di quaderni: i quaderni miscellanei, nei

quali vengono raccolte annotazioni senza distinzioni di materia, i

quaderni misti (ossia quei quaderni che hanno una parte miscellanea e

almeno una sezione monografica) e i quaderni speciali, monografici,

destinati a raccogliere le riscritture di note precedenti.

Valentino Gerratana, autore della prima edizione critica dei Quaderni

del carcere, individuava tre differenti tipologie di appunti: i testi A (ossia le

annotazioni in prima stesura cui Gramsci attinge per la compilazione dei

quaderni «speciali»), i testi B (che rimangono in unica stesura) e i testi C

(ossia le annotazioni in seconda stesura dei quaderni «speciali»)3. Nello

specifico i testi C permettono di cogliere, attraverso le modifiche

operate rispetto alle annotazioni originarie, il «ritmo del pensiero in

isviluppo»4 che sostanzia i Quaderni: il processo di revisione continua cui

Gramsci sottopone i suoi appunti e, di conseguenza, le sue posizioni

teoriche. Infatti, nella quasi totalità dei casi, le riscritture sono più

dubitative che assertive perché tendono a problematizzare quanto

scritto nelle annotazioni in prima stesura.

Per comprendere l’idea del lavoro di interrogazione continua che

anima i Quaderni del carcere è possibile fare riferimento al seguente passo,

un appunto particolarmente prezioso perché in esso è Gramsci stesso a

sottolineare il carattere provvisorio delle sue riflessioni:

tutte queste note sono provvisorie e scritte a penna corrente: esso

sono da rivedere e da controllare minutamente, perché contengono

inesattezze, anacronismi, falsi accostamenti ecc. che non importano

danno perché le note hanno solo l’ufficio di promemoria rapido.5

Queste righe fanno parte di un’annotazione del maggio 1930; a due

anni di distanza Gramsci estrapola questo passo, lo rende autonomo e

lo pone in calce al quaderno speciale 11, intitolato Introduzione allo studio

della filosofia. Nel testo C leggiamo:

le note contenute in questo quaderno, come negli altri, sono state

scritte a penna corrente, per segnare un rapido promemoria. Esse sono

tutte da rivedere e controllare minutamente, perché contengono

certamente inesattezze, falsi accostamenti, anacronismi. Scritte senza

aver presenti i libri cui si accenna, è possibile che dopo il controllo

debbano essere radicalmente corrette perché proprio il contrario di ciò

che è scritto risulti vero.6

Proprio perché la riflessione gramsciana è per sua natura provvisoria,

e Gramsci stesso mette in guardia dalla necessità di non «far dire ai testi,

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Quaderni della Ginestra

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per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono»7, le mie

riflessioni che non vogliono essere ‘dati acquisiti’, ma spunti di

riflessione, interrogazioni a partire da alcuni appunti carcerari.

2. Realtà, spunti di riflessione

Il tema della realtà viene affrontato in diverse annotazioni, per lo più

rubricate sotto i titoli La tecnica del pensiero e L’obbiettività del mondo esterno.

La maggior parte delle note che citerò sono tratte dalle tre serie di

Appunti di filosofia8.

Già a una prima e superficiale lettura si rileva come il fine principale

di questi appunti sia quello di invalidare le tesi del realismo filosofico.

Per perseguire questo obiettivo Gramsci si muove

contemporaneamente contro due approcci, il ‘senso comune’9 e il

materialismo sovietico, due ‘orientamenti’ che, seppur all’apparenza

incommensurabili, portavano a respingere, perché assurda e

controintuitiva, la problematizzazione dell’obiettività e della piena

conoscibilità del mondo esterno. Il senso comune perché ancora

inconsapevolmente permeato dall’ideologia religiosa (secondo la quale

l’uomo, ultima creatura di Dio, si trova inserito in una realtà già esistente

e perfettamente compiuta). Il materialismo sovietico perché, sulla scia di

Materialismo ed empiriocriticismo, banalizzando la differenza kantiana tra

fenomeno e cosa in sé10, affermava l’esistenza di una realtà

indipendentemente e pienamente conoscibile a prescindere dai nostri

schemi concettuali, dalle nostre pratiche linguistiche, dalle nostre

credenze. È interessante notare che nella critica di questa posizione

Gramsci non cita mai l’opera leniniana, ma sempre il testo di Bucharin,

Teoria del materialismo storico, manuale popolare di sociologia marxista (tradotto

in diverse lingue europee, il testo, che tra il 1921 e il 1929 ha avuto sedici

edizioni nella sola Unione Sovietica, era stato pensato come una sorta di

abc, ad uso popolare, del marxismo), citato nei Quaderni nella forma

contratta di Saggio popolare11.

Gramsci definisce con chiarezza la sua posizione nei confronti

dell’oggettività del mondo esterno già nella prima serie di Appunti di

filosofia del Quaderno 4 affermando che questa non è un fatto scientifico

comprovabile mediante prove empiriche, ma «una concezione del

mondo, una filosofia». La scienza può solo vagliare le sensazioni al fine

di separare quelle permanenti dalle fallaci, legate cioè a «speciali

condizioni umane». In questo senso la scienza rettifica e perfeziona la

nostra percezione del mondo descrivendo «l’essere comune a tutti gli

uomini, l’essere indipendente da ogni punto di vista che sia meramente

particolare.»12

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Pensare la realtà

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Con l’esplicito riferimento all’uomo, Gramsci ci suggerisce una

concezione storica, transeunte, umana della realtà. Per corroborare

questa tesi Gramsci riprende l’argomentazione fornita da Russell circa le

categorie di Oriente-Occidente e i concetti di linea, punto, superficie.

Ricordo una affermazione di Bertrando Russell: si può immaginare

sulla terra, anche senza l’uomo, non Glasgow e Londra, ma due punti

della superficie della terra uno più a Nord e uno più a Sud (o qualcosa

di simile: è contenuta in un libretto filosofico di Russell tradotto in una

collezioncina Sonzogno di carattere scientifico). Ma senza l’uomo cosa

significherebbe Nord e Sud, e “punto”, e “superficie” e “terra”?13

A pochi mesi di distanza, nella seconda serie di Appunti di filosofia del

Quaderno 7, l’argomento viene approfondito14:

Oggettività del reale. Per intendere esattamente i significati che può

avere questo concetto, mi pare opportuno svolgere l’esempio dei

concetti «Oriente» e «Occidente» che non cessano di essere

«oggettivamente reali» seppure all’analisi si dimostrano nient’altro che

una «costruzione convenzionale» ossia «storica» (spesso i termini

«artificiale» e «convenzionale» indicano fatti «storici», prodotti dello

sviluppo della civiltà e non costruzioni razionalisticamente arbitrarie o

individualmente arbitrarie). Ricordare il libretto di Bertrand Russell

(ediz. Sonzogno, in una nuova collezione scientifica, numero 5 o 6) sulla

filosofia neorealistica, e il suo esempio. Il Russell dice presso a poco:

«Noi non possiamo pensare, senza l’esistenza dell’uomo sulla terra,

all’esistenza di Londra e di Edimburgo, ma possiamo pensare

all’esistenza di due posti, dove sono oggi Londra e Edimburgo, uno a

Nord e l’altro a Sud». Si potrebbe obbiettare che senza pensare

all’esistenza dell’uomo, non si può pensare di «pensare», non si può

pensare in genere a nessun fatto o rapporto che esiste solo in quanto

esiste l’uomo.

Ma il fatto più tipico, da questo punto di vista, è il rapporto Nord-

Sud e specialmente Est-Ovest. Essi sono rapporti reali e tuttavia non

esisterebbero senza l’uomo e senza lo sviluppo della civiltà. È evidente

che Est e Ovest sono costruzioni arbitrarie, e convenzionali (storiche),

poiché fuori della storia reale ogni punto della terra è Est ed Ovest nello

stesso tempo: costruzioni convenzionali e storiche non dell’uomo in

generale, ma delle classi colte europee, che attraverso la loro egemonia

mondiale le hanno fatte accettare a tutto il mondo. Il Giappone

probabilmente è Estremo Oriente non solo per l’Europeo, ma anche

per l’americano della California e per lo stesso Giapponese, il quale

attraverso la cultura inglese chiamerà prossimo Oriente l’Egitto, che dal

suo punto di vista dovrebbe essere Occidente lontano ecc. D’altronde il

valore puramente storico di tali riferimenti appare dal fatto che oggi le

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Quaderni della Ginestra

10

parole Oriente e Occidente hanno acquistato un significato

extracardinale e indicano anche rapporti fra complessi di civiltà15

In questa prospettiva, se lasciato sul piano meramente teorico-

speculativo, perde senso l’interrogativo circa la realtà del mondo esterno

perché «ciò che importa non è dunque l’oggettività del reale come tale

ma l’uomo che elabora questi metodi»16.

Il rapporto uomo-realtà viene da Gramsci risolto attraverso il

concetto di praxis perché «senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i

valori anche scientifici, cosa sarebbe l’“oggettività”?»17.

Non è difficile notare l’assonanza tra questa posizione e quanto

espresso da Marx nelle Tesi su Feuerbach che Gramsci legge e traduce in

carcere proprio negli stessi mesi in cui registra queste osservazioni. La

seconda tesi su Feuerbach, nella traduzione di Gramsci, recita:

la quistione se al pensiero umano appartenga una verità obbiettiva,

non è una quistione teorica, ma pratica. È nell’attività pratica che

l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere

terreno del suo pensiero. La discussione sulla realtà o non realtà di un

pensiero, che si isoli dalla praxis, è una quistione puramente scolastica.18

Gramsci definisce così il retroterra filosofico del materialismo storico

secondo cui «non si può staccare il pensare dall’essere, l’uomo dalla

natura, l’attività (storia) dalla materia, il soggetto dall’oggetto, se si fa

questo distacco si cade nel chiacchiericcio, nell’astrazione senza senso»19.

Ecco che, per superare la separazione tra essere e pensiero, tra

attività e materia, Gramsci concepisce il materialismo storico come un

nuovo monismo ossia come la

attività dell’uomo (storia) in concreto, […] applicata a una certa

«materia» organizzata (forze materiali di produzione), alla «natura»

trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’«atto

puro», ma proprio dell’atto «impuro», cioè reale nel senso profano della

parola.20

Ne segue che il marxismo può essere a buon diritto essere definito

materialismo storico se e solo se si interpreta il termine materialismo nel

suo «significato più estensivo»21, ossia come categoria ermeneutica che

escluda la trascendenza dal proprio orizzonte teorico e pratico.

In conclusione, ogni interrogativo sulla natura e sulla realtà che

venga posto sub specie aeternitatis, prescindendo cioè dalla prassi umana, è

un falso problema perché natura e realtà sono sempre dati in quella

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Pensare la realtà

11

MATTEO CERRETELLI, LETTURE DI STRADA

sintesi storica nella quale è impossibile prescindere dall’attività umana.

Se è così, ciò che più importa non è dunque l’oggettività del reale

come tale ma l’uomo che elabora questi metodi, questi strumenti

materiali che rettificano gli organi sensori, questi strumenti logici di

discriminazione, cioè la cultura, cioè la concezione del mondo, cioè il

rapporto tra l’uomo e la realtà. Cercare la realtà fuori dall’uomo appare

quindi un paradosso, così come per la religione è un paradosso, peccato,

cercarla fuori di Dio.22

Dopo aver apportato poche varianti, nel corrispettivo testo C

Gramsci aggiunge: «senza l’uomo, cosa significherebbe la realtà

dell’universo? Tutta la scienza è legata ai bisogni, alla vita, all’attività

dell’uomo»23. Ne risulta che, conoscendo solo «i fenomeni in rapporto

all’uomo e siccome l’uomo è un divenire, anche la conoscenza è un

divenire, pertanto anche l’oggettività è un divenire»24. Oggettivo quindi,

si domanda retoricamente Gramsci, «non significherà “umanamente

oggettivo” e non perciò anche umanamente “soggettivo”?»25

3. Considerazioni conclusive

Gramsci con la sua riflessione si impegna a definire la realtà come un

costrutto umano, sociale, per la precisione. Un prodotto storico e quindi

destinato a variare col mutare del sistema sociale di riferimento.

A mio avviso, si può affermare che ad essere importanti non siano

tanto le argomentazioni che Gramsci utilizza a favore della sua tesi,

quanto piuttosto il fine che le anima.

Gramsci non era un filosofo, Gramsci era «un combattente che non

ha avuto fortuna nella lotta politica immediata»26. Qual è stato il motivo

che può aver spinto Gramsci ad affrontare un argomento

apparentemente così lontano dai suoi interessi più o meno immediati

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Quaderni della Ginestra

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come il concetto di realtà e la critica del realismo filosofico di Bucharin?

Probabilmente la risposta a questa domanda risiede nel senso ultimo

che hanno le pagine dei Quaderni. I Quaderni del carcere sono un

laboratorio concettuale immenso, frammentario, labirintico, ma hanno

un fine preciso: elaborare per il futuro un progetto politico impossibile, a

causa della dittatura fascista, da attuare nel presente. Definire la realtà

come un processo, una costruzione umana, storica, e respingere l’idea che

si tratti di un qualcosa di fisso, immutabile, indipendente dall’uomo,

rientra a pieno titolo in questo progetto politico.

Gramsci è intimamente convinto della traducibilità tra concezione del

mondo (anche quando inconsapevole, acritica) e agire politico. La

filosofia, per Gramsci, non è pura teoresi, né semplice storia delle idee,

la filosofia è l’intera forma mentis sottesa al comportamento individuale e

sociale, la filosofia dà senso e vivifica la strategia politica. Come

sottolinea giustamente Frosini, il «materialismo volgare» (e il realismo

filosofico che sottende) appare a Gramsci un’ideologia da subalterni

perché «non fa che ripetere in forma variata la concezione religiosa del

rapporto tra uomo e mondo come di due sfere reciprocamente

estranee»: per Gramsci, «il materialismo perpetua la percezione che di se

stessi hanno le classi subalterne, come di oggetti privi di volontà, in balia

delle circostanze»27.

Per Gramsci il compito del politico in un momento storico di crisi è

educare le classi popolari ad assumere progressivamente un ruolo attivo

e consapevole nella vita politica del paese. Rifondare la filosofia partendo

dal concetto stesso di realtà diventa quindi la precondizione per la

riflessione e l’azione politica.

LUCIA MANCINI

1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975-2007. I riferimenti ai Quaderni del carcere seguiranno questo ordine: QC, numero di quaderno, numero di paragrafo, numero di pagina dell’edizione critica. Le citazioni delle traduzioni carcerarie fanno riferimento a Quaderni di traduzioni (1929-1932), a cura di G. Cospito, G. Francioni, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2007: saranno citati con la sigla QT seguita dall’indicazione del quaderno e del numero di pagina dell’edizione critica. Per quanto riguarda le citazioni dalle lettere, farò riferimento a Lettere dal carcere (1926-1937), a cura di A. A. Santucci, Sellerio, Palermo 1996. I riferimenti seguiranno questo schema: LC, numero di pagina e tra parentesi il destinatario seguito dalla data della lettera. 2 Per quanto riguarda le ‘norme’ redazionali e le modalità di stesura che Gramsci adot-ta in carcere, rimando alla Nota al testo di Gianni Francioni (QT, 835-898). 3 V. Gerratana, Prefazione in QC, XXXVI-VII. 4 QC, 4, 1, 419. 5 QC, 4, 16, 438. 6 QC, 11, Avvertenza, 1365. 7 QC, 6, 198, 838. 8 Con il titolo di Appunti di filosofia Gramsci definisce tre blocchi di note contenute nei Quaderni 4, 7 e 8, stese nei due anni compresi tra il maggio del 1930 e il maggio del 1932. La prima serie (dalla carta 41 recto alla carta 80 verso del Quaderno 4) è stata ver-gata tra il maggio e il novembre del 1930, la seconda (da c. 51 recto a c. 73 verso del Quaderno 7) tra il novembre del 1930 e il novembre del 1931 e l’ultima (dal recto di c. 51 al verso di c. 79) tra il novembre del 1931 e il maggio del 1932. Per quanto riguarda

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Pensare la realtà

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la particolare accezione del termine filosofia in Gramsci rimando al testo di F. Frosini, La religione dell’uomo moderno. Verità e politica nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, Carocci, Roma 2010. 9 Per Gramsci, il senso comune «è la “filosofia dei non filosofi”, cioè la concezione del mondo assorbita acriticamente dai vari ambienti sociali in cui si sviluppa l’individualità morale dell’uomo medio. Il senso comune non è una concezione unica, identica nel tempo e nello spazio: esso è il “folclore” della filosofia, e come il folclore si presenta in forme innumerevoli: il suo carattere fondamentale è di essere una concezione del mondo disgregata, incoerente, inconseguente, conforme al carattere delle moltitudini di cui esso è la filosofia» (QC, 8, 173, 1045). 10 «Ogni differenziazione misteriosa, sottile, ingegnosa tra il fenomeno e la cosa in sé è un’assoluta assurdità filosofica. In effetti ogni uomo ha osservato milioni di volte la trasformazione semplice ed evidente della “cosa in sé” in fenomeno, in “cosa per noi”. Questa trasformazione non è altro che la conoscenza. La “dottrina” del machismo se-condo cui, poiché noi conosciamo solo le sensazioni, non possiamo sapere niente sull’esistenza di qualche cosa oltre i limiti delle sensazioni, è un vecchio sofismo della filosofia idealistica e agnostica che viene servito con una nuova salsa». (Lenin, Materia-lismo ed empiriocriticismo, [1908], in Opere complete, XLV vol., Editori Riuniti, Roma 1955-1970, vol. XIV, pp. 13-377, p. 116). È doveroso ricordare come nei suoi Quaderni filoso-fici (scritti di carattere personale, non destinati alla pubblicazione e quindi liberi da pre-occupazioni politico-ideologiche immediate) Lenin registri osservazioni gnoseologiche meno ingenue nelle quali la conoscenza non viene definita come mera «fotografia» ma come «processo». «La conoscenza è il processo di immersione (dell’intelletto) nella natu-ra inorganica allo scopo di subordinarla alla potenza del soggetto e allo scopo di otte-nere generalizzazioni (conoscenza dell’universale nei suoi fenomeni). […] Il coincidere del pensiero con l’oggetto è un processo: il pensiero (=l’uomo) non si deve rappresentare la verità come la morta quiete, come una semplice immagine (copia), pallida (inerte), senza tendenza, senza movimento, come un genio o un numero, come un pensiero astratto» (V. I. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 186-187). 11 N. I. Bucharin, Teorija istoričeskogo materializza. Populjarnyi učebnik marksistkoj sociologii, Mosca 1921; La théorie du materialisme historique. Manuel populaire de sociologie marxiste, Édi-tion Sociales Internationales, Paris 1927; trad. it. A Binazzi, a cura di V. Gerratana, Teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista, La nuova Italia, Firen-ze 1977.

12 QC, 4, 41, 466. 13 QC, 4, 41, 467. 14 Un’ulteriore spia dell’interesse di Gramsci può essere dato dall’autonoma correzione dei riferimenti geografici (Edimburgo in luogo di Glasgow) dell’esempio di Russell. Rimando alle osservazioni di Giuseppe Cospito nel saggio Gli strumenti logici del pensiero: Gramsci e Russell in Gramsci e la scienza, storicità e attualità delle note gramsciane sulla scienza, a cura di M. P. Musitelli, Istituto Gramsci Friuli Venezia Giulia, Trieste 2008, pp. 63-80. 15 QC, 7, 25, 874. 16 QC, 4, 41, 467. 17 Ibidem [corsivo mio]. 18 QT, 7 [a], 743. 19 QC, 4, 41, 467. 20 QC, 4, 37, 455. 21 QC, 11, 16, 1408. 22 QC, 4, 41, 467. 23 QC, 11, 37, 1457. 24 QC, 8, 177, 1049. 25 QC, 8, 177, 1048. 26 LC, 448 (alla madre, 24 agosto 1931). 27 F. Frosini, Gramsci e la filosofia, cit., p. 87.

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Quaderni della Ginestra

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ella storia della filosofia uno dei temi più ricorrenti, e talora

inflazionati, è senza dubbio il mind-body problem. In generale, lo si

identifica con l’aporia della presenza, in un solo individuo, di due

sostanze separate quanto a funzioni e, per conseguenza diretta, a status

ontologico. L’immaterialità della mente e dei pensieri appare, se non in

contraddizione, certamente difficile da conciliare con la materialità del

corpo e dei suoi movimenti meccanici, per quanto l’esperienza ordinaria

confermi il singolo nella persuasione di essere all’origine di pensieri e, al

contempo, di azioni materiali. E tuttavia il ricorso all’esperienza, a ciò

che restituiscono i sensi, non è sufficiente, non consente di eludere la

problematicità di una coppia di opposti che verrebbero a coesistere in

un io unitario, o che come tale sperimenta se stesso. Il semplice esperire,

o esperirsi, ben lungi dal privare il mind-body problem della sua rilevanza

filosofica, si inserisce in quanto tale nella questione più ampia evocata

dal titolo della «Giornata di Studi», poiché il primo passo per pensare la

realtà è pensare la propria realtà.

Al riguardo mi è parso significativo proporre la figura di Descartes,

tradizionalmente considerato il campione di un dualismo senza

soluzione – cioè senza conciliabilità – tra mente e corpo e noto per aver

dato un inedito rilievo alla nozione di idea nel pensare la realtà. Poiché,

come apparirà in seguito e alla fine, i due temi sono strettamente

congiunti, dapprima procederò con una breve esposizione dello status

delle idee in Descartes fatta eccezione per quella di Dio, che

meriterebbe una ben più ampia trattazione a parte; dopodiché

ricostruirò le linee guida di una recente interpretazione del filosofo

come rappresentazionalista e, al contempo, realista diretto; infine, alla

luce della teoria dell’idea che sarà emersa, abbozzerò in estrema sintesi

una lettura di Descartes in chiave antidualista, riferendomi in particolare

al carteggio con la principessa Elisabetta di Boemia.

Come prima e immediata osservazione, in Descartes l’elemento

imprescindibile per pensare la realtà, l’idea, ha perso quasi totalmente i

suoi originari connotati platonici. L’opera cartesiana, invero, non è un

caso isolato, risente dell’influsso di un milieu in cui accanto al concetto di

idea-archetipo si era attestato quello di atto compiuto da una mente

finita, e dunque immanente alla causalità di quest’ultima. Nel Lexicon

philosophicum di Rudolph Goclenius, edito nel 1613, l’idea viene trattata

sotto due aspetti, uno generale e l’altro particolare, o speciale: descritta

secondo il primo aspetto, l’idea è la forma o exemplar di una cosa

guardando alla quale un opifex (artigiano, con un richiamo evidente al

Demiurgo del Timeo) produce (efficit) qualcosa in funzione di una precisa

N

TRA RAPPRESENTAZIONALISMO E REALISMO DIRETTO: LINEAMENTI DI UN’INTERPRETAZIONE CARTESIANA

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Pensare la realtà

15

intenzione. Specificando questa definizione ne risulta, in base al

secondo aspetto, che idea è la forma o la ragione di una cosa nella

mente di Dio, forma eterna ed immutabile contemplando la quale viene

creato qualcosa di analogo benché dotato di attributi antitetici a quelli

dell’archetipo, quali la durata, la mortalità, il movimento etc.

Prescindendo da quest’ultima, consideriamo invece la prima modalità di

intendere l’idea, precisata poco dopo – sempre alla voce «Idea» del

Lexicon – come segue: «Idea est ratio architectatrix […] in mente

artificis»1. Qui appare accentuato il carattere della progettualità: il

significato di idea tende a differenziarsi da quello di exemplar nella misura

in cui ciò che si designa non è più il corrispettivo perfetto di una cosa

imperfetta, bensì un movente, qualcosa di nettamente più simile al

prodotto della causalità esercitata da una mente umana.

Una fonte delle Meditazioni cartesiane, la Summa philosophiae

quadripatita di Eustache de Saint-Paul, pubblicata nel 1609 e ristampata

nel 1614, lascia anch’essa sopravvivere, in formale omaggio alla

tradizione platonica, il binomio idea-exemplar, ma attribuisce apertamente

all’idea la natura di atto, ovvero di effetto riconducibile ad un agente2.

In Descartes l’inerenza delle idee alla potenzialità della mente

rappresenta un dato acquisito, tanto più che si pone all’origine di una

serie di conseguenze assai rilevanti. In primo luogo, in quanto actus di un

agens, l’essere dell’idea non può ridursi a mero nulla, perché, se così

fosse, si dovrebbe dubitare della consistenza ontologica del suo agens,

ossia della mente. Bisogna allora suppore che il grado d’essere di

un’idea, incomparabile con quello degli oggetti extramentali, sia tuttavia

sufficiente non solo a distinguerla dal nulla, ma anche ad introdurre un

principio di individuazione che stabilisca una differenza numerica

rispetto alle altre idee. Assumo qui il termine “numerica” nel senso

cartesiano di “formale”, in quanto, a prescindere da ciò che

rappresentano, il criterio differenziante di base delle idee è il loro essere

entità individuali, ciascuna identica a se stessa. Si danno perciò idee

plurime solo in quanto si danno atti di pensiero plurimi, vale a dire

esercitati da una sostanza pensante, la mens, che mentre opera

produttivamente in questo modo, per così dire, ‘vede’ i prodotti della

sua operazione. E il ‘vedere’ della mente equivale a possedere

rappresentazioni, vale a dire oggetti dotati di un’esistenza intenzionale,

la cui essenza obiettiva non è altro che l’immagine (non subìta dalla

mente ma effetto del suo agire) dei corrispettivi nella realtà. L’idea di

una rosa bianca, per esempio, è quanto all’esse formale un atto della

mente, saturato tuttavia, a livello di esse obiectivum, dalla gamma di

attributi percepiti in presenza della rosa bianca reale. Ogni idea, da

quella della rosa bianca a quella di Dio, è sempre idea di qualcosa, non

Page 17: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

16

può essere un contenitore vuoto, donde comprendiamo bene il valore

simbolico dell’idea cartesiana, cioè il suo ‘rimandare ad altro da sé’: alla

mente quanto all’esse formale, alla realtà esteriore quanto all’esse obiectivum.

Poiché dunque, attraverso questa duplice dinamica di rinvii, l’idea si

pone come indispensabile raccordo tra epistemologia e ontologia, si

comprende bene la centralità – e l’originalità – assegnata da David

Clemenson alla modalità di trattazione che ad essa riserva Descartes e

che, secondo il docente della St. Thomas University, può conciliare

rappresentazionalismo e realismo diretto attraverso la dual presence theory.

Prima di illustrarne il significato, trovo però opportuno riportare le

definizioni di ‘rappresentazionalismo’ e ‘realismo diretto’, funzionali

anche a giustificare la scelta del titolo del mio intervento. In

Descartes’Theory of Ideas (Continuum 2007), il testo di riferimento di

Clemenson, il ‘rappresentazionalismo’ designa la posizione per la quale

nulla di ciò che immediatamente percepiamo esiste separato dall’atto

con cui è percepito, e pensare e percepire, va precisato, hanno il

medesimo significato in Descartes. Il realismo diretto asserisce, invece,

che almeno alcune delle percezioni che otteniamo immediatamente di

qualcosa esistono indipendentemente dalla mente.

Clemenson muove dal carattere essenzialista della metafisica

cartesiana, retaggio della formazione che Descartes ricevette presso il

collegio gesuitico di La Flèche tra il 1607 e il 1615. L’attributo

“essenzialista” è giustificato dalla rilevanza riconosciuta alla nozione di

essenza nella definizione di ens. Due erano le modalità di concepire l’ente:

come atto d’essere, ossia d’esistere, e dunque exsistens, oppure nel senso

di essenza (o natura) di una cosa esistente, intendendo ciò per cui la

cosa è ciò che è o, il che è lo stesso, ciò da cui derivano necessariamente

le proprietà che determinano la cosa in quanto tale. Quando parliamo di

ente reale, pertanto, ci riferiamo a un ente la cui essenza è del tutto

indipendente dalle operazioni dell’intelletto, sicché l’ente reale ‘tavolo’ è

quell’essenza posta la quale deriva la proprietà di esistere in piena

autonomia dalle rappresentazioni mentali e in unione con tutte le altre

peculiarità che contraddistinguono l’‘essere un tavolo’, dall’immobilità al

risultare una superficie piana che poggia su quattro sostegni, e così via.

Come il tavolo, anche l’idea del tavolo, che sappiamo essere un ente non

reale, possiede la sua essenza, ma si tratta di un’essenza che si colloca

alle ultime propaggini della capacità comprensiva del concetto di ente,

consistendo essa interamente nell’essere pensata. Mentre, quindi,

un’essenza reale – quella che gli Scolastici moderni denominavano esse in

mundo – deve esistere e non può non esistere, un’essenza ideale può essere,

ossia è fintanto che è pensata nella sua esistenza intenzionale, meritando

così l’appellativo di ‘ente di ragione’: il quale è all’origine di un’ulteriore

Page 18: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

17

suddivisione che si rivelerà tra poco cruciale, quella tra ens rationis cum

fundamento in re ed ens rationis sine fundamento in re.

Quest’ultimo è un’essenza intenzionale, o idea, senza il minimo

ancoraggio alla realtà esterna, come suggerisce l’espressione sine

fundamento in re, dunque non è da escludere che possa consistere anche in

un concetto autocontraddittorio come, per esempio, quello di chimera.

La chimera è in sé autocontradditoria perché riunisce proprietà

incompatibili con la loro presenza simultanea in un unico ente reale.

Quanto invece all’ens rationis cum fundamento in re, desidero rinviarne

per il momento l’illustrazione per concentrarmi, piuttosto, sul

consolidamento delle nozioni finora richiamate: la centralità dell’ens in

quanto essenza, l’esistenza come elemento ontologicamente successivo

alla posizione dell’essenza e, dunque, modo d’essere dell’essenza stessa.

Ne segue che dato un soggetto p, dire che p esiste significa, mettendo

temporaneamente tra parentesi la qualifica di in o extra mentem, porre

l’essenza di p necessariamente non contraddittoria con il fatto che p

esista. Nella proposizione ‘p è esistente’, quindi, la copula ‘è’ che

connette soggetto e predicato esprime l’attitudine dell’essenza di p ad

esistere. Nella medesima proposizione assumiamo che p sia un oggetto

mentale, dunque abbia – o sia, è indifferente – un’esistenza intenzionale:

fino a questo punto, con gli opportuni caveat, non si pone il problema

che p esista intenzionalmente, a condizione però che tale esistenza

soddisfi il requisito di dipendere interamente dalla mente, in quanto

concepire anche una chimera nell’orizzonte del pensabile è

un’operazione legittima. Diviene invece più complesso asserire che ‘p è

esistente’ qualora l’essenza di p sia intenzionale e, allo stesso tempo,

dotata di un fondamento in qualcosa che intenzionale non è. L’aggiunta

cum fundamento in re sortisce appunto l’effetto di porre, secondo l’essenza,

l’esistenza di un ens intenzionale come del tutto e non del tutto

dipendente dall’agens di cui è actus. La contraddittorietà è solo apparente,

a patto di considerare con attenzione le distinzioni ontologiche

tematizzate dagli Scolastici e sopravvissute, ancorché con variazioni, nei

Principia cartesiani del 1644.

Ad un esame non superficiale dei testi di La Flèche, materiale di

riferimento privilegiato da Clemenson e valorizzato soprattutto negli

elementi di continuità in Descartes, si intuisce come il concetto di

distinzione si muova tra due estremi opposti, quello della realtà e quello

della concettualità, senza tuttavia escludere gradi intermedi il cui

numero varia a seconda degli autori presi in considerazione. Distinguere

in base all’essenza reale di una cosa, ad esempio del tavolo, presuppone

che si assegni alla cosa un’unità altrettanto reale e, come sappiamo, già

implicata nella sua essenza al di fuori del nostro pensiero. In generale, si

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Quaderni della Ginestra

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può dire che p e q sono realmente distinti se e solo se p o q esistono

senza alcun legame di dipendenza reciproca né, ovviamente, da una

mente pensante. Al contrario, qualunque distinzione concettuale avviene

per necessità all’interno della mens, ma anche in ambiti così eterogenei

vale in maniera uniforme un criterio tanto generale quanto

fondamentale, quello cioè che pone la discernibilità nel numero.

Immaginiamo a questo proposito Socrate e Platone da un lato, e l’idea

di verde e di bianco dall’altro. L’unico tratto comune è costituito dal

raggruppamento, in entrambi i casi, di due unità numeriche.

Ho tuttavia accennato anche a gradi intermedi che, di fatto,

giustificano l’ampliamento del discorso sul concetto di distinzione.

Entro pertanto nel merito di due sotto-varietà contemplate nei manuali

dei Gesuiti e note a Descartes. Una prima è la distinzione ex natura rei,

comprendente sia la distinzione reale tra essenze reali (gli enti Socrate e

Platone) sia un’altra tipologia di distinguo non interamente reale, vale a

dire la distinzione modale. La distinctio modalis dipende strettamente da

come un’essenza esterna alla mente è. Essa dipende dunque dai modi

d’essere che necessariamente scaturiscono dalla sua posizione, come

quando poniamo ‘p è esistente’, ma ciò non toglie che possiamo pensare

– muovendoci dunque su un piano non più esclusivamente reale – p e la

sua esistenza come distinti. Altrimenti detto: dall’esistenza di p deriva in

noi il pensiero espresso nella proposizione ‘p è esistente’, ma, per

quanto nella realtà p e la sua esistenza siano inscindibili, nulla vieta di

pensarli in reciproca autonomia, fermo restando che l’archetipo (qui in

senso non platonico) della suddetta proposizione rimanga esterno alla

mente.

Specularmente, se la distinctio ex natura rei può definirsi come una

distinzione reale ampliata oltre i confini della realtà oggettuale in senso

stretto, anche la distinzione concettuale può proiettarsi al di fuori di un

orizzonte puramente mentale, e conservare la propria non-realtà seppur

in unione con il reale extramentale. Questo modo di distinguere

ricevette il nome di rationis ratiocinatae o, si noti bene, di cum fundamento in

re. Esaminando dunque da vicino questa espressione, come è possibile

che un’operazione – la distinctio, appunto – su essenze intenzionali

rinvenga il suo fondamento nella realtà? Un esempio chiarificatore

proviene dalla teologia. Se Dio è concepito come semplice, ovvero se

l’essenza dell’idea di Dio pone la semplicità, in che termini potrà dirsi

giusto e misericordioso? Non è forse vero che la pluralità di questi

attributi entra in conflitto con l’unità simplex del soggetto? Per evitare

che Dio si riduca ad un molteplice divisibile in se stesso e per

preservare, al contempo, la differenza qualitativa tra gli atti di giustizia e

di misericordia, occorre postulare un livello differente dall’ontologia di

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Pensare la realtà

19

ccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccc

Dio, e precisamente il livello reale in cui si manifestano realmente giustizia

e misericordia. In re, insomma, l’incompatibilità viene a cadere. Non

solo quindi è legittimo parlare di una distinzione originariamente

concettuale e cum fundamento nelle cose, ma la relazione che interviene tra

mentale e reale appare ben lontana dallo snaturare o, peggio ancora,

dall’esaurire un ambito nell’altro. In conclusione, come ho anticipato

poco fa, la distinzione tra due enti cum fundamento in re non è totalmente

dipendente dalla mente ancorché da essa tragga origine.

Tenendo allora ferma la tripartizione scolastica che include la

distinzione reale, cum fundamento in re e quella puramente concettuale, nei

Principia cartesiani del 1644 si nota, pur con le debite variazioni, che la

seconda tipologia appena evocata è stata parzialmente respinta

dall’autore e, in certa misura, conservata, incorporata sotto la semplice

dicitura di ‘distinzione razionale’. In fondo, non si tratta forse di un caso

di sinonimia con ‘concettuale’, al punto da rendere irriconoscibile il

fundamentum in re? A prima vista la risposta risulta affermativa: Descartes

prende in esame l’idea di triangolo e ne scinde essenza ed esistenza,

riconducendo tale operazione alla concettualità. Tuttavia apprendiamo

subito che quella distinzione è reale in senso lato, ossia nasce come ente

di ragione ma non perde l’aggancio con qualcosa di indipendente dalla

mente, vale a dire con una porzione di spazio delimitata da tre lati circa ANDREA MARCHESE, INDIVIDUI

Page 21: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

20

la quale non è contraddittorio ideare, in senso cartesiano, un’essenza e

un’esistenza separate.

Se le cose stanno così, il principio generalissimo di numerabilità

applicabile indifferentemente a res esterne o a idee finisce per incrinarsi.

Infatti, combinando l’essenza intenzionale delle rappresentazioni

mentali con la possibilità di distinguerle cum fundamento in re risulta che la

cosa rappresentata nell’idea è in primis un oggetto della mente, ma

simultaneamente possiede un esse reale. Il tavolo è percepibile, pensabile,

ma al contempo esiste realmente distinto dall’idea in cui è pensato

benché, numericamente, identico ad essa. In ogni istante, secondo

Descartes, una cosa può avere un modo di essere reale o intenzionale –

o ambedue – senza contraddizione. L’esistenza esterna del tavolo non è

dunque il tavolo intenzionato, bensì il fundamentum in re che sospende la

validità della rigida differenziazione numerica e fa di due tavoli – quello

reale e quello rappresentato – un unico tavolo nella rappresentazione.

La tesi della presenza duale enunciata da Clemenson, e che ho voluto

ricostruire partendo dai concetti di ‘essenza’ e ‘distinzione’, sostiene

appunto che realtà e intenzionalità sono due modi d’essere di una stessa

essenza che implicano identità numerica, per quanto l’essere-presente

del rappresentante (l’idea) nella mente rimanga radicalmente altro

dall’essere-presente del rappresentato (la cosa) nella realtà. Clemenson

può allora riscontrare in Descartes la compresenza di

rappresentazionalismo e realismo diretto nelle loro versioni deboli e più

agevolmente conciliabili: il filosofo francese è rappresentazionalista nel

momento in cui formula la tesi che l’oggetto immediatamente percepito

sia qualcosa di dipendente dalla mente, mentre il suo realismo diretto

lascia aperto un margine di indipendenza dalla mente, il che significa che

l’idea, lungi dal dischiudere scenari solipsistici, riacquista il rilievo

assegnatole da Descartes in tutta la sua opera e ci permette di

riformulare il mind-body problem come, in primo luogo, l’idea di un’unione

nella quale sono distinguibili mente e corpo ma che nella realtà,

nell’ontologia dei realia, si mantiene intatta.

Intendo, a questo punto, abbandonare il piano teoretico delle

argomentazioni prodotte da Clemenson per soffermarmi, invece, sulla

parte iniziale della corrispondenza epistolare tra Descartes e la

principessa Elisabetta di Boemia. Cronologicamente faccio riferimento

al 1643, ad un periodo intermedio tra le Meditazioni (1640) e i Principia

(1644).

Dapprima Elisabetta invita Descartes a chiarire lo status quaestionis

della relazione mente-corpo. Nonostante lo sforzo compiuto per

delucidarlo, il filosofo è costretto a dichiarare la natura aporetica,

intrinsecamente complessa, del problema. Poco tempo prima, nella sesta

Page 22: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

21

Meditazione, egli si era pronunciato in maniera più scoperta, asserendo –

senza troppo problematizzarlo – che mente e corpo sono insieme uniti

e distinti, e nelle Risposte alle Quarte Obiezioni questa convinzione aveva

trovato forma argomentativa nella nozione di un’unità sostanziale reale,

tale da rendersi presente alla mente come il concetto chiaro e distinto di

una sostanza completa.

Con atteggiamento pedagogico, Descartes sceglie di introdurre

gradualmente Elisabetta nel nucleo del problema e accoglie le sue

perplessità: anzitutto, come porre attenzione all’ordre des raisons,

all’ordine speculativo, senza perdere di vista il sensibile, senza cioè

sacrificare l’unione quale, originariamente, ci viene notificata dai sensi?

In secondo luogo, Descartes rivela alla principessa che è connaturato

all’intelletto il limite che impedisce di comprendere l’unione di due

sostanze separate. Se questa vexata quaestio, per sua natura, non è

traducibile in termini più perspicui, può allora essere utile – in armonia

con le finalità pedagogiche del carteggio – far ricorso ad una

similitudine. Il filosofo, infatti, ricorda a Elisabetta di aver fornito, alla

fine delle Risposte alle Seste Obiezioni, una concezione della gravità –

altrove attribuita agli Scolastici – incardinata su tre assunti: 1. la gravità

del corpo ne causa il movimento ma non meccanicamente; 2. la gravità

del corpo è una qualità reale del corpo; 3. la gravità del corpo è ad esso

congiunta in una modalità del tutto particolare perché è coestesa al corpo,

ovvero è diffusa in modo uniforme attraverso la totalità del corpo

pesante. Descartes propone a Elisabetta di immaginare la mente in

analogia con la gravità, sicché, al modo in cui la forza si esercita sul

grave, anche la mente provocherebbe realmente movimenti nel corpo

ancorché non in maniera meccanica. Tuttavia, data la realtà di queste

azioni, lo statuto della mente si avvicinerebbe pericolosamente a quello

di una qualità del corpo, una caratterizzazione inaccettabile per

Descartes e puntualmente contraddetta, infatti, da altri riferimenti

testuali. Nelle Risposte alle Quinte Obiezioni la mens è contraddistinta dalla

pura inestensione, e similmente si esprimono i Principia là dove, rigettata

la coestensione, emerge l’esperienza sensibile in quanto evidenza

dell’unione di res cogitans e res extensa e della stretta congiunzione tra le

due sostanze addirittura alla maniera aristotelica, ossia attraverso

un’informazione dell’una ad opera dell’altra.

Come motivare, pertanto, queste oscillazioni nella descrizione

dell’unione di mente e corpo? Esiste, al di là delle polemiche contingenti

che certo influirono sulle Risposte e sui Principia, così come al di là dei

tentativi di soddisfare la curiosità di Elisabetta, un elemento invariante

che si possa ricollegare alla centralità dell’idea enfatizzata da Clemenson

e al fatto che in un’idea si dia una distinzione numericamente non altra dalla

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Quaderni della Ginestra

22

cosa unitaria in essa rappresentata?

La risposta viene da sé: Elisabetta fatica a comprendere l’unità

perché non la pensa come idea originaria, sicché costringe il pensiero di

Descartes, per così dire, ad un movimento innaturale, ossia al dedurre

qualcosa di originario – l’unione, appunto, che si dà per prima –

muovendo dalle parti – mente e corpo – di cui essa consta e

accentuandone le rispettive differenze. È questa la via al dualismo,

etichetta affibbiata alla filosofia di Descartes già dai contemporanei e

radicatasi poi in un autentico pregiudizio giunto fino ai giorni nostri. Per

la dual presence theory, di contro, l’idea dell’unione è numericamente

identica a come l’unione è in realtà, ed anticipa qualunque divisione

successiva. Come è impossibile pensare essenza ed esistenza del

triangolo senza fondamento in quella porzione di spazio reale la cui

somma degli angoli interni è pari a 180°, così è altrettanto improbabile

che dalle nozioni astratte di mente e corpo si giunga all’unità

dell’individuo. Non solo le percezioni sensibili e la conoscenza, ma

anche le passioni, l’amore, l’odio, attestano che il pensare la nostra realtà

passa necessariamente attraverso il nostro essere nella realtà come enti

indivisi.

GIACOMO MIRANDA

1 R. GOCLENIUS, Lexicon Philosophicum, 1613, p. 209.

2 «Quam Graeci Ideam, Latini Exemplar appellant, quae nihil aliud est quam imago

seu species expressa rei faciendae in mente artificis. Est igitur idea seu exemplar hoco loco phantasma seu phantasiae opus quoddam in artifice cui opus externum conformatur. Sicque in artifice quatenus est artifex, duo sunt interna operandi prin-cipia, nempe ars in mente seu ratione, et idea seu exemplar in phantasia. Ars qui-dem habitus, idea vero actus seu expressus quidam animi conceptus est».

EUSTACHE DE SAINT-PAUL, Summa Philosophica Quadripartita, III, disp. I, quaest. III.

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Pensare la realtà

23

uando si afferma la bellezza, l’eleganza o la malinconia di un

oggetto, lo si qualifica in termini che sembrano sfuggire alla

percezione ordinaria. Con che tipo di proprietà abbiamo a che fare?

Prendendo le mosse dalla posizione di Eddy Zemach, si cercherà di

comprendere potenzialità e limiti esplicativi di una teoria realista delle

proprietà estetiche.

Premessa

L’uso del termine ‘estetico’ è di per sé problematico. La stessa

disciplina ‘estetica’ include una tale quantità di questioni da rendere

difficile delimitarne con chiarezza i confini. Nella sua costitutiva

polisemanticità, l’estetica è di fatto caratterizzabile come

scienza della sensibilità, studio del bello nelle sue varie forme, teoria

dell’arte, punto di raccordo dei caratteri sensuali di poetica e retorica, la

disciplina in cui si confrontano quei poteri dell’uomo che, come

l’immaginazione, costruiscono rappresentazioni extralogiche1.

In tale definizione si sovrappongono questioni molto diverse, che

vengono affrontate in modo specifico da altre discipline, come

l’ontologia o la filosofia dell’arte, la filosofia della percezione, la critica

d’arte. Seguendo la prospettiva di Eddy Zemach in Real Beauty (1997),

restringeremo in quanto segue il dominio dell’estetica allo ‘studio del

bello nelle sue varie forme’, escludendo questioni più generali sulla

natura delle nostre percezioni, nonché questioni più specifiche sulla

natura dell’opera d’arte.

Com’è noto, l’interesse della filosofia di tradizione analitica per

questioni di natura estetica è relativamente recente – anche a causa della

diffidenza, di stampo neopositivistico, per la nozione di ‘bello’.

Distinguendo tra discorso dichiarativo e non-dichiarativo, il

neopositivismo include gli enunciati estetici nel discorso non-

dichiarativo: in quanto non verificabili, le proposizioni dell’estetica sono

ritenute prive di valore conoscitivo e, quindi, di interesse filosofico.

Definire qualcosa come ‘bello’ ha dunque a lungo significato

abbandonare il terreno del dibattito razionale per addentrarsi in un

campo privo di riferimenti chiari e condivisi.

Il realismo estetico, come vedremo, è tuttavia in grado di soddisfare il

paradigma neopositivistico: i nostri giudizi estetici sono corretti (o

scorretti) nella misura in cui si riferiscono (o meno) aproprietà estetiche

Q

SULLA REALTÀ DELLE PROPRIETÀ ESTETICHE: UN’INCURSIONE NEL DIBATTITO ANALITICO

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Quaderni della Ginestra

24

MATTEO CETTERELLI, ABBANDONATO ALLA REALTÀ

indipendenti dalla mente [mind-independent] di chi le percepisce. La

bellezza è una qualità reale delle cose, che compare nell’inventario di ciò

che compone il mondo.

Una volta ristretta la nozione di estetica all’analisi di ciò che

definiamo ‘bello’, si tratta di chiarire a quali condizioni si possa parlare

di ‘bellezza’ di un oggetto. Una risposta a questo interrogativo implica

due tipi di considerazioni, relativamente all’esperienza in base alla quale

definisco ‘bello’ un oggetto x, e relativamente all’oggetto x che definisco

‘bello’. È la direzione oggettuale implicita nella seconda questione a

interessarci ora. Possiamo riconoscere, nell’oggetto, qualcosa che ci

consenta di qualificarlo come ‘bello’? Qualcosa come proprietà estetiche

specifiche, di cui andrà indagata la natura e la relazione con le proprietà

non-estetiche.

Nella sua Critica della facoltà di giudizio (1790), Kant fa riferimento alla

possibilità di considerare il bello proprietà reale delle cose.

Quando qualcuno mette un oggetto su un piedistallo, e lo chiama

bello, […] non giudica meramente per se stesso, ma per tutti, e parla

della bellezza come se fosse una proprietà delle cose. Dice quindi che è la

cosa in questione ad essere bella2.

Proviamo ora a valutare le implicazioni di un’eventuale eliminazione del

«come se» kantiano, considerando la possibilità che le proprietà estetiche

costituiscano effettivamente caratteristiche reali dell’oggetto.

Descrivere il reale. “Real Beauty”

Per proprietà estetiche di un oggetto intendiamo non solo il suo

essere ‘bello’ o ‘brutto’, ma anche il suo essere ‘elegante’, ‘raffinato’,

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Pensare la realtà

25

‘drammatico’, ‘sgargiante’, ‘sciatto’, proprietà che si ritengono oggetto di

un’esperienza emozionale da parte del soggetto.

Ciò che ora ci interessa valutare è la possibilità di un realismo delle

proprietà estetiche così come è sostenuto da Eddy Zemach nel suo Real

Beauty (1997). Qui Zemach non prende posizione per il realismo delle

proprietà in generale: intende piuttosto sostenere che, se ammettiamo

l’esistenza di un qualsiasi tipo di proprietà, primarie o secondarie che

siano, allora dovremo ammettere anche l’esistenza di proprietà estetiche.

L’assunto di fondo è che non vi sia differenza tra il definire un oggetto

x blu e il definirlo bello. Le proprietà estetiche ‘grazioso’, ‘orribile’,

‘vistoso’, ‘sgargiante’, sono qualità reali delle cose, al pari del loro essere

grandi o piccole, rosse o blu, oneste o disoneste.

Nella loro specificità, le proprietà estetiche non sono riducibili a

proprietà psicologiche o fisiche di altro tipo: in effetti, il tentativo

riduzionistico di spiegare i termini estetici ricorderebbe «la speranza

materialistica di spiegare l’azione senza un apparato di credenze e

desideri»3. La scienza non può spiegare in alcun modo le nostre

osservazioni estetiche; nessuna analisi neuronale ci consente di spiegare

come il delicato si distingua dallo sgargiante4.

L’interrogativo di partenza è il seguente: l’enunciato estetico descrive

uno stato di cose? È oggettivamente vero? Se sì, cosa lo rende vero? 5

Nel fondare il proprio realismo estetico, Zemach prende le mosse dalla

seguente obiezione antirealista: è un dato di fatto che sia molto più

facile trovarci d’accordo sul fatto che x è rosso, piuttosto che sul fatto

che x è elegante. Proprio contro questa presunta ovvietà argomenta

Zemach. Quando osserviamo qualcosa, afferma, l’osservazione avviene

in una serie di condizioni standard che rendono attendibile

l’osservazione. Ciò vale tanto per le proprietà secondarie di un oggetto

(il colore varia al variare delle condizioni di luce) che per quelle primarie

(si pensi alla misurazione di una distanza, in cui è ugualmente necessario

tener conto di specifici standard – per esempio, che il sistema di

riferimento sia in quiete). In questo senso, le proprietà estetiche non

hanno nulla di diverso da qualsiasi altra proprietà osservabile: qualcosa

di bello può comunque apparire orribile se osservato in condizioni non-

standard.

Se l’attribuzione di una proprietà dipende dalle condizioni in cui

l’osservazione avviene, diventa necessario chiarire in base a cosa sia

possibile definire le condizioni ‘standard’ di osservazione. Nel caso dei

colori chiunque è in grado di stabilire le condizioni standard che

consentono di vedere qualcosa come rosso: è necessaria la luce del

giorno, normali condizioni psicofisiche, l’assenza di fattori che possano

alterare l’osservazione. Più complicato, invece, è individuare le

Page 27: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

26

condizioni standard dell’osservazione in ambito estetico. Si prenda:

- una persona che indica una farfalla, mentre l’esperto la definisce

‘falena’;

- la persona comune che sente il suono di una chitarra, mentre

l’esperto riconosce un liuto;

- un uomo che dice «metto la maglietta rossa», e la compagna che

risponde: intendi quella magenta?6

- uno spettatore che definisce una scena teatrale ‘espressiva’,

mentre il critico lo corregge affermando: non è una scena

espressiva, è una scena ‘istrionica’7.

Riprendendo tesi classiche humeane8, ciò che emerge da questi

esempi è la presenza di esperti a definire le condizioni di correttezza di

un’osservazione. Che si parli di farfalle, strumenti musicali, colori o

spettacoli teatrali, in ciascuno di questi casi si danno personalità dotate

di peculiare sensibilità, in grado di stabilire gli standard osservativi in

questione. Cosa renda un esperto tale, è questione che Zemach non

affronta. Intuiamo tuttavia la duplice abilità dell’esperto, caratterizzato

da un lato da una maggiore ‘sensibilità’ al bello, dall’altro da una più

approfondita conoscenza della materia in oggetto. Si prenda una

qualsiasi citazione tratta da un testo accademico di storia dell’arte:

Nel suo lavoro l’artista sfida lo stile manierista prevalente nella sua

epoca, realizzando i suoi dipinti in modo ruvido, omettendo i dettagli, e

ottenendo così un effetto drammatico sorprendente 9.

Manierismi, ruvidezza del tratto, risultati drammatici sono proprietà

estetiche riscontrate dall’autrice – ed è qui il suo prestigio, la sua

affidabilità, la sua capacità di giustificare le proprie asserzioni a

convincerci della correttezza del suo giudizio. È la comunità di esperti a

garantire la veridicità del discorso estetico. In questo senso, grazie al

lavoro degli esperti di riferimento, ogni teoria estetica risulta adeguata o

inadeguata, suscettibile di controllo, perfino empiricamente verificabile.

Può tornarci utile un esempio proposto da Zemach stesso: si prenda

un adolescente appassionato di musica rock che ascolta un brano di

Bach senza apprezzarlo. Si potrebbe interpretare il non apprezzamento

di Bach come prova del fatto che Bach sia noioso. Oppure si potrebbe

affermare che l’adolescente non ha (ancora) gli strumenti

culturali/concettuali per apprezzarlo, né una sensibilità educata in tal

senso. Qui Zemach è incline a ritenere adeguata la seconda ipotesi, dove

le condizioni standard di osservazione per la valutazione di Bach sono

fissate non da un adolescente appassionato di musica rock ma da critici

musicali professionisti. In effetti, una teoria musicale che definisca Bach

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Pensare la realtà

27

noioso non sarà in grado di spiegare moltissime cose: perché musicisti

nei secoli si ostinino a suonare brani di Bach, perché compositori

successivi si siano confrontati con le sue opere, etc.. Certo è possibile

sostenere che tutto il mondo della musica sia vittima di un’illusione ma,

se così fosse, la pazzia dei critici si manifesterebbe probabilmente anche

in altro modo, e non solo nel loro apprezzare Bach. Una teoria che,

invece, prenda come condizioni standard per l’osservazione in ambito

musicale le condizioni sotto le quali le composizioni di Bach risultano

esteticamente belle, avrà particolare potere predittivo: spiegherà i legami

tra Bach e i suoi predecessori e successori; potrà dar conto di fenomeni

storici e sociologici.

Preferire una teoria estetica ad un’altra non è dunque arbitrario. Ma

questo ancora non significa aver dimostrato l’esistenza delle proprietà

estetiche.

Il punto di vista ontologico. Le proprietà estetiche esistono?

Al realista scientifico, per il quale esistono soltanto le proprietà

stabilite da una certa teoria scientifica, Zemach propone la seguente

argomentazione in difesa della realtà delle proprietà estetiche. Il realista

scientifico, di fronte a due teorie rivali, sceglie (con Quine) quella più

coerente (internamente e rispetto ad altre teorie); più semplice; con

maggiore potere esplicativo. La teoria migliore – coerente, semplice,

potente, elegante – deve, in una parola, essere ‘bella’! Scegliere una

qualsiasi teoria scientifica significa impegnarsi sul fronte estetico, e

ammettere la bellezza della teoria in questione10.

D’altra parte, sostenere la bellezza di una teoria ancora non significa

trovare la bellezza nel mondo, nelle cose. La realtà nell’oggetto delle

proprietà estetiche non è stata ancora dimostrata. Possiamo anche

desiderare e costruire una teoria scientifica coerente, semplice ed

elegante: ma cosa succede se invece il mondo, in sé, non è affatto

altrettanto coerente, semplice ed elegante? In altre parole, cosa ce ne

facciamo di una teoria bella se il nostro mondo è in realtà molto brutto?

Un bel modello può essere altamente esplicativo ed elegante, ma può

essere falso. Può un realista metafisico verificare che le cose nella realtà

hanno davvero proprietà estetiche?

E Zemach risponde che sì, il mondo deve di fatto avere proprietà

estetiche: si può dubitare dell’esistenza di elettroni, quark, neutrini, e di

qualsiasi entità postulata dalla scienza, ma non si può dubitare

dell’esistenza di proprietà estetiche, di cui abbiamo una conoscenza

immediata, evidente, indubitabile11. Per il solo fatto di avere una certa

struttura, il mondo ha necessariamente un certo aspetto e, quindi, certe

Page 29: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

28

proprietà estetiche – che sono assai meno problematiche delle sue

proprietà geometriche, di proprietà come ‘centrale’ o ‘sferico’ che si

modificano a seconda del tipo di spazio newtoniano/riemanniano

considerato. Possiamo allora fidarci delle nostre credenze estetiche

molto più che delle nostre conoscenze scientifiche, perché basate sulla

percezione delle proprietà estetiche presenti nel mondo.

Ciò non significa del resto avventurarsi in una nuova forma di

realismo ingenuo: non possiamo pensare che il nostro osservare il

mondo ci restituisca il mondo così com’è, «noumenicamente»

Il realismo ingenuo non è un’opzione attuale in metafisica. Sappiamo

che il sistema dei sensi umani è attivato solo da pochissime delle

caratteristiche fisiche del nostro ambiente. […] Credere, come fanno i

realisti ingenui, che l’immagine che ha l’uomo della natura sia una

replica precisa del mondo così come è in sé, è piuttosto irragionevole12.

Osservazioni

Emergono alcuni evidenti punti di forza di una teoria realista delle

proprietà estetiche. Innanzitutto le potenzialità contro posizioni

relativistiche. Che ‘sul gusto non si possa discutere’ è un’affermazione di

senso comune che il realista può agevolmente confutare, nel momento

in cui l’esistenza di proprietà estetiche consente di formulare valutazioni

appropriate e verificabili.

D’altro canto, il riferimento di Zemach all’esigenza di fissare

condizioni standard di osservazione e di individuare una comunità di

esperti di riferimento cui affidarsi nella valutazione estetica, mette in

luce come neppure il realista delle proprietà possa sottrarsi alla necessità

di addurre ragioni a sostegno delle proprie affermazioni. In questo MATTEO CETTERELLI, 3 LONG SHADOWS

Page 30: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

29

senso, anche in ambito di realismo estetico si assiste all’apertura di un

orizzonte pragmatico, di uno spazio intersoggettivo di confronto

razionale, in cui si richiede giustificazione per qualsiasi enunciato

espresso, scientifico, etico o estetico che sia. È nella comunità di esperti,

quindi in un contesto di interazione sociale, che possiamo trovare la

ragione ultima a giustificazione della scelta di una certa teoria estetica.

Come poi gli esperti arrivino a giudicare della bellezza di un oggetto è

un’altra questione, non necessariamente da risolversi attraverso il ricorso

alle proprietà estetiche. La proprietà ‘bello’ è nell’oggetto, direbbe

Zemach, ma talvolta è necessario affidarsi a degli esperti per cogliere la

bellezza in questione. In ultima istanza, anche all’interno di una

prospettiva realista, che un oggetto sia bello o meno è deciso all’interno

di un contesto di pratiche intersoggettive condivise, consolidate dal

confronto razionale.

L’ambito estetico si sottrae di conseguenza all’irrazionalità

attribuitogli dalla tradizione neopositivistica, che definiva gli enunciati

dell’estetica (così come quelli dell’etica) ‘pseudo-enunciati’, in quanto

non suscettibili di verificabilità empirica. Definire la bellezza, così come

qualsiasi proprietà estetica, reale proprietà dell’oggetto indipendente

dalla mente di chi la percepisce, consente di dar conto della normatività

dei giudizi estetici: se c’è qualcosa nel mondo che rende vero il mio

giudizio estetico, individuo un criterio per stabilire quali valutazioni

sono corrette e quali non lo sono. D’altra parte, di nuovo non è

necessario fare riferimento a proprietà estetiche reali per poter

ammettere la possibilità di un controllo razionale intersoggettivo dei

nostri enunciati estetici: affermare che un oggetto è ‘bello’ o ‘delicato’ o

‘sgargiante’ non è comunque isolabile dal più ampio contesto delle

relazioni umane, delle forme di vita in cui l’enunciato estetico viene

formulato. Nel momento in cui si apre un orizzonte pragmatico entro

cui collocare il discorso estetico, postulare l’esistenza di proprietà

estetiche diventa superfluo per il raggiungimento di un accordo

valutativo intersoggettivo. Affermare che «x è bello» richiede comunque

un dare ragione del proprio enunciato rispetto ad altre caratteristiche

dell’oggetto o ad altre pratiche sociali e culturali, a prescindere da

considerazioni ontologiche sull’esistenza o meno delle proprietà

estetiche. Un oggetto può essere percettivamente ‘bello’, ‘mostruoso’,

‘elegante’, ma in caso di conflitto valutativo non è nell’oggetto che

troviamo la soluzione alle nostre diatribe, bensì nel contesto più ampio

del confronto pratico, in cui si forniscono ragioni a sostegno delle

proprie posizioni.

CRISTINA TRAVANINI

Page 31: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

30

1E. Franzini, Estetica, Bruno Mondadori, Milano 2010, p. xv.

2 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, 1790; tr. it., Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 89. 3 E. Zemach, Real Beauty, Pennsylvania State University Press, University Park 1997, p. 97. 4Esclusa l´ipotesi riduzionistica, resta tuttavia aperta la possibilità di una ‘sopravve-

nienza’ delle proprietà estetiche rispetto a proprietà fisiche: le proprietà estetiche ‘so-

pravverrebbero’ sulla struttura fisica del mondo, quali «modi di apparire di ordine su-

periore che dipendono da modi di apparire di ordine inferiore, a cui tuttavia non sono riducibili» (J. Levinson, “Aesthetic Supervenience” (1983), ristampato in J. Levinson, Music, Art and Metaphysics: Essays in Philosophical Aesthetics, Cornell University Press, I-thaca (NY) 1990, p. 146). In questo senso, due oggetti strutturalmente e contestual-mente identici non potrebbero differire per qualità estetiche. 5 E. Zemach, Real Beauty, cit., p. xi. 6 Non commenteremo qui la banalità dello stereotipo per cui la donna si suppone più sensibile dell’uomo al colore. 7 Cfr. E. Zemach, Real Beauty, cit., p. 55. 8 D. Hume, “Of the Standard of Taste”, 1757; tr. it., La regola del gusto, Abscondita, Milano 2006. 9 E. Zemach, Real Beauty, cit., p. 56. 10 Cfr. E. Zemach, Real Beauty, cit., p. 68. 11 Ibidem, p. 67. 12 E. Zemach, Real Beauty, cit., p. 53.

Riferimenti bibliografici

P. D’Angelo, a cura di, Introduzione all’estetica analitica, Laterza, Roma-Bari 2008.

E. Franzini, Estetica, Bruno Mondadori, Milano 2010. D. Hume, “Of the Standard of Taste”, 1757; tr. it., La regola del gusto,

Abscondita, Milano 2006. I. Kant, Kritik der Urteilskraft , 1790; tr. it., Critica del giudizio, Laterza,

Roma-Bari 1984. J. Levinson, “Aesthetic Supervenience” (1983), ristampato in J.

Levinson, Music, Art and Metaphysics: Essays in Philosophical Aesthetics, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1990, pp. 134-158.

J. Levinson, “What are Aesthetic Properties?”, in Proceedings of the Aristotelian Society, suppl. 78, 2005, pp. 211-227; tr. it. “Cosa sono le

proprietà estetiche?”, in J. Levinson, Arte, critica e storia. Saggi di ontologia analitica, a cura di F. Desideri, F. Focosi, Aesthetica, Palermo 2011, pp.

149-162. S. Velotti, La filosofia e le arti. Sentire, pensare, immaginare, Laterza,

Roma-Bari 2012. N. Zangwill, The Metaphysics of Beauty, Cornell University Press, Ithaca

(NY) 2001. E. Zemach, Real Beauty, Pennsylvania State University Press,

University Park 1997 .

Page 32: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

31

n che modo la fenomenologia pensa la realtà? Che cosa vuole e può

dirci sulla realtà la fenomenologia husserliana a quasi cent’anni dalla

pubblicazione di Idee I? La fenomenologia è davvero una ‘truffa’1, come

sostiene la protagonista de L’eleganza del riccio di Muriel Barbery? È «un

solitario e infinito monologo della coscienza con sé stessa, un autismo

duro e puro che nessun vero gatto andrà mai ad importunare»2?

Modo efficace per ripensare il modo in cui la fenomenologia

interpreta la realtà potrebbe essere focalizzare l’attenzione su una delle

fondamentali strutture che Husserl mette in campo quando si tratta di

rivolgersi alla realtà, e cioè quella della com-presentazione, del continuo

procedere attraverso quelli che Husserl stesso definisce ‘orizzonti’.

Questa ‘struttura’, ripresa da Heidegger e Gadamer, è stata

particolarmente evidenziata da Merleau-Ponty nel volume postumo del

1964 Il visibile e l’invisibile, nel quale il filosofo sviluppa proprio il

concetto di ‘orizzonte’, e cioè quello di una coesistenza di visibile e

invisibile così strutturale, tanto da dover in definitiva riconoscere che

l’essere del mondo, della realtà non si mostra mai all’uomo nella sua

pienezza, ma si sottrae costantemente alla trasparenza totale. La nostra

esperienza ha un limite costitutivo: essa è strutturalmente prospettica e

cela in sé un “invisibile radicale” che non è un non-ancora-visto, ma

espressione di un’impossibilità di pienezza totale, di percezione totale.

La fenomenologia, husserliana e non, è talmente votata alla ricerca della

complessità e della ricchezza del reale, che, potremmo dire, il suo

principale compito è proprio, ripartendo dall’epochè, quello di riscoprire

tutto l’infinito campo di ricchezza e di stratificazioni che la realtà stessa

ci propone, in una dinamica che in molti modi può essere interpretata,

ma di certo non come ‘autistica’.

Come dicevamo, le riflessioni di Merleu-Ponty sono in realtà una

rivisitazione e un ampliamento del modo in cui Husserl stesso intense il

processo percettivo, sempre destinato ad una pienezza relativa, dinamica

e mai conclusa. Questa concezione attraversa immutata l’intero sviluppo

della fenomenologia husserliana e sembra anzi radicalizzarsi sempre di

più, come si mostra ad esempio in Idee II, in cui la determinazione

dell’oggetto appare come un vero e proprio concetto limite, poiché, in

definitiva, dice Husserl, «la percezione della cosa non è un’esperienza

che ci informi esaustivamente sulla cosa»3, essa è un continuo riattivarsi

di orizzonti, che avevano magari passivamente contribuito

all’apprensione stessa della cosa, senza ricevere la nostra esplicita

attenzione. Il progresso dell’esperienza è allora per Husserl “un

riempimento di motivazioni già presenti, le quali semplicemente si

I

LA STRUTTURA DELLA COMPRESENTAZIONE NELLA

FENOMENOLOGIA HUSSERLIANA

Page 33: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

32

arricchiscono e si delimitano nella loro unità di senso”4 e questo

processo è, in via di principio, incrementabile all’infinito ed esclude la

possibilità reale di una datità in originale adeguata della cosa, come

sottolinea ad esempio Rudolf Bernet 5. Come Husserl stesso ricorda

nella Crisi, nella conoscenza della cosa restano sempre orizzonti6

possibili e indeterminati di scoperta, tanto che si può addirittura arrivare

a dire che «la cosa è propriamente ciò che nessuno ha mai visto

realmente, perché è continuamente in movimento, continuamente e per

chiunque; per la coscienza, è l’unità della molteplicità aperta e infinita

delle mutevoli esperienze proprie e altrui e delle cose dell’esperienza»7.

Questo carattere costitutivamente infinito della percezione

husserliana ci sembra trovi massima espressione attraverso la

definizione della Appräsentation o Kompräsentation, “struttura percettiva”

attraverso la quale emerge il senso più profondo della percezione

husserliana, e, più in generale, del modo stesso in cui la fenomenologia

husserliana si rivolge alla realtà, in una continua tensione verso la

valorizzazione della complessità e multiformità del reale attraverso

infiniti rinvii e associazioni.

La struttura percettiva della compresentazione è stata ampiamente

analizzata ad esempio da Elmar Holenstein in Phänomenologie der

Assoziation, volume nel quale viene messo in luce come proprio

attraverso il concetto di compresentazione Husserl metta in forma

l’intuizione per la quale la percezione procede sempre attraverso

orizzonti che non possono mai essere saturati. Noi non percepiamo mai

qualcosa in modo completo, ma di una cosa abbiamo sempre una parte

percepita in modo chiaro e distinto, sulla quale si focalizza la nostra

attenzione attiva, e una parte tendenzialmente infinita di rinvii,

associazioni, orizzonti, che sono sempre co-fungenti nella percezione a

livello più o meno passivo e che possono essere in ogni momento

riattivati e condotti all’attenzione percettiva. Qualsiasi percezione si

delinea sempre allora appunto come una compresentazione, e cioè come

una Verschmelzung tra un presente percettivo e un complesso gioco di

elementi com-presenti: la Wahrnehmung è sempre anche un Mit-

Wahrnehmen.

La struttura della com-presentazione viene applicata da Husserl in

primis in riferimento alla costituzione cosale, la quale procede sempre in

una compenetrazione di elementi presentati direttamente alla nostra

attenzione e di elementi invece solo appresentati, che emergono

dall’infinito possibile insieme di orizzonti e possono sempre essere

condotti successivamente a presentazione. Il soggetto è così sempre

immerso tra le cose del mondo circostante e viene sollecitato prima di

tutto a livello passivo, quindi prima della vera e propria relazione

Page 34: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

33

MARTINA TAMBASSI, TOUGH

frontale e oggettivizzante: prima della datità nella sua pienezza, prima

dell’esperienza piena di una singola cosa, il soggetto risulta

continuamente affetto da una pre-datità passiva, da un orizzonte di cose.

La struttura della com-presenza non viene però applicata da Husserl

solo alla costituzione cosale, bensì ad esempio anche alla percezione del

nostro stesso corpo e ciò almeno in un triplice senso. Prima di tutto

bisogna infatti ricordare che sono molte le occasioni in cui Husserl

riporta l’attenzione sulla natura quasi contraddittoria della natura della

percezione del nostro stesso corpo, che, nonostante sia di sicuro, per

così dire, l’oggetto percettivo a noi più prossimo, risulta anche ciò su cui

abbiamo un punto di vista più limitato; noi infatti non possiamo mai

allontanarci dal nostro corpo e, anche mettendo in funzione tutte le

nostre capacità sensoriali, non solo visive, ma anche tattili, non abbiamo

mai una percezione completa del nostro corpo: il nostro stesso corpo

vivo si forma per noi sempre attraverso una compresenza di ciò che è

percepito in modo originale e di ciò che invece non lo è. In secondo

luogo, come sottolinea ad esempio Holenstein8, si dà la

compenetrazione relativa alle possibilità di differenti campi sensoriali: il

campo tattile, quello visivo, quello relativo alle sensazioni di calore non

sono semplicemente insieme, ma funzionano in modo armonico

proprio attraverso una funzione di compresentazione. Si deve infine

ricordare l’approfondimento husserliano relativo alla questione degli

impulsi; ad esempio nelle ultime pagine di Idee II 9, Husserl chiarisce che

la soggettività umana non è affatto un monolito, ma è altamente

stratificata, tanto che l’io spirituale, l’io libero e razionale trova sempre

un fondamento imprescindibile in una ‘base oscura’10, individuata nella

sfera sensibile delle associazioni, persistenze, tendenze, pulsioni,

sentimenti in quanto stimoli, che l’uomo condividerebbe con l’animale

Page 35: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

34

come una sorta di comune e basilare psichicità sensibile: anche il livello

della corporeità psico-fisica, nel quale il nostro corpo materiale e la

nostra psichicità si fondono in modo indissociabile, si mostra così come

strutturalmente caratterizzato dalla compresenza, in quanto la sfera degli

istinti e delle pulsioni viene a mostrare come la nostra corporeità viva sia

sempre caratterizzata da una sfera che fonda la coscienza desta, attiva,

spirituale, ma che permane per molti versi, come Husserl stesso ricorda,

oscura. La compresenza è quindi una struttura che fa parte non solo

della costituzione cosale, ma anche della nostra stessa costituzione,

caratterizzando, come abbiamo visto, sia la percezione del nostro Leib

come Körper, cioè come cosa inserita nello spazio-tempo che si sottrae

costitutivamente ad essere data per intero al nostro sguardo, sia del

nostro Leib come essere psichico, poiché la nostra stessa coscienza non

è mai un flusso limpido e chiaro neppure a noi stessi, in quanto essa si

fonda su una base inconscia ed istintiva che non possiamo mai del tutto

condurre dalla compresenza alla presenza.

Se la nostra stessa corporeità e la nostra stessa coscienza non

possono mai essere del tutto condotte dalla compresenza alla presenza

neppure per noi stessi, è facile intuire come la situazione si complichi

estremamente nel caso della percezione di un altro essere umano

nell’empatia e infatti, non a caso, è proprio nell’analisi dell’esperienza

dell’altro (Fremderfahrung) che il concetto di appresenza o compresenza si

radicalizza, venendo a connotare in modo strutturale la percezione

dell’alterità. Come Husserl chiarisce infatti nelle Meditazioni Cartesiane, in

chiara polemica con Theodor Lipps, io posso ‘accedere’ all’altro solo in

modo mediato e indiretto, e cioè tramite appresentazione.

Il concetto di appresentazione in relazione al problema dell’empatia

serve ad Husserl per mostrare come l’alter si offra sempre secondo una

doppia modalità: egli è percepibile originariamente nella sua

Körperlichkeit, ma a questa originaria presentazione si aggiunge sempre

anche il livello della psichicità ap-presente; se infatti la presenza

originaria può riguardare solo un essere oggettivo, l’appresenza viene

invece qui a riferirsi ad un essere psico-fisico, a quell’unione di psiche e

corpo vivo che caratterizza la natura umana. Ogni appresenza comporta

quindi, per essenza, un nucleo fondante di presenza originaria e ciò in

virtù del fatto che ogni psichicità richiede una corporeità fisica

intersoggettivamente esperibile: ogni appresenza rimanda alla presenza

originaria, cioè all’esperienza percettiva del corpo fisico particolare che

supporta la psichicità e che viene percepito originariamente, ma è

unicamente attraverso l’appresenza che io posso afferrare l’altrui

interiorità e, in questa modalità di percezione sui generis, nella quale

alcuni elementi possono costitutivamente essere solo compresenti, è

Page 36: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

35

come se la psichicità rivendicasse tutta la propria peculiarità.

Anche nella percezione cosale, come avevamo visto, esiste sempre un

momento di com-presenza, perché il mio sguardo prospettico non è mai

in grado di afferrare l’oggetto in modo completo, esaurendo l’orizzonte

percettivo che l’oggetto stesso reca con sé, ma la differenza tra la

compresenza nella percezione cosale e in quella di un alter è essenziale,

poiché se di un oggetto io ho sempre la possibilità di portare a

percezione diretta qualsiasi elemento all’inizio semplicemente com-

presentato, nella compresenza relativa all’empatia, attraverso la quale mi

si dà l’interiorità di un altro soggetto, ci sono invece degli elementi

strutturalmente compresenti, che di principio non possono essere

condotti a percezione diretta; come sottolinea Alice Pugliese «la

differenziazione tra la conoscenza delle cose e la conoscenza di un altro

io è differenza a priori, trascendentale in senso proprio, perché riguarda

le condizioni di possibilità del riempimento»11. Se la psichicità altrui

fosse per me direttamente percepibile non ci sarebbe più

differenziazione tra io e tu, tra i differenti flussi temporali-motivazionali.

In particolare la forma radicalizzata di compresenza presente

nell’empatia serve allora a mostrare come la compresenza funzioni

sempre attraverso successive integrazioni, integrazioni che nel caso

dell’empatia non possono di principio mai giungere a completa

saturazione: nella percezione cosale ogni compresenza è trasformabile

in via di principio in una presenza, invece nell’empatia si dà sempre una

compresenza radicale e strutturale, che mai può trasformarsi in

presentazione. Elemento molto interessante della fenomenologia

husserliana è che inoltre queste ‘integrazioni’ possono essere anche di

tipo intersoggettivo. Poniamo l’esempio del punto di vista su una cosa:

io posso avere più punti di vista su una cosa grazie alle possibilità che mi

sono offerte dal mio Leib cinestetico, ma posso avere anche un vero e

proprio nuovo punto di vista su quella stessa cosa anche attraverso

l’empatia, pensata da Husserl come una vera e propria possibilità di

esperienza sul mondo, un’esperienza certo sempre indiretta, ma non per

questo meno reale, di assumere il punto di vista dell’altro e di ampliare

le proprie prospettive sul mondo. Queste integrazioni intersoggettive

risultano così fondamentali prima di tutto per la mia stessa auto-

percezione (Husserl sottolinea ad esempio l’importanza degli altri per

“completare” la percezione del mio stesso Leib e per percepire il mio

Leib come un corpo nello spazio, cosa che si può verificare solo grazie

all’intervento del punto di vista altrui) e anche per ampliare

ulteriormente l’orizzonte delle compresentazioni stesse, il quale

funziona sempre attraverso ‘emersioni’ che si verificano in base al

principio di somiglianza-omogeneità o dissomiglianza-eterogeneità;

Page 37: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

36

come Husserl ricorda all’Appendice XXVI di HUA XV, la costituzione

del mondo procede attraverso il passaggio da orizzonti conosciuti ad

orizzonti sconosciuti, attraverso i quali emerge come non ogni anomalia

sia un semplice disturbo della normalità, ma come le anomalie stesse

possano avere una funzione positiva, e cioè quella di conferire al reale

elementi nuovi e inattesi, i quali vengono a rappresentare veri e propri

centri propulsori per l’avanzamento della costituzione stessa. Tali

anomalie sono inoltre da considerarsi in un doppio senso: non solo le

anomalie che possono emergere nel processo percettivo, ma anche la

relazione stessa a ‘punti di vista anomali sul mondo’, come quello dei

malati di mente, dei bambini, dei primitivi, o anche degli animali, sembra

per Husserl davvero in grado di allargare la percezione che noi abbiamo

del mondo, tanto che si può di certo affermare che finanche un gatto

può arrivare ad inquietare profondamente lo sguardo fenomenologico.

DANIELA BANDIERA

1 M BARBERY, L’eleganza del riccio, edizioni e/o, Roma 2007, p. 50.

2 Ivi, p. 54.

3E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica ,

libro II, trad. It. Di E. Filippini, Einaudi, Torino, 2002, p. 54. 4 Ivi, p. 114.

5 Come cause principali del fatto che la datità in originale adeguata della cosa sia

solo una possibilità ideale e non reale, Rudolf Bernet ricorda che: non è possibile ridurre lo spazio infinto alla finitezza del campo visivo; il continuum di adombra-menti, attraverso cui si presentano le cose spaziali, si può estendere all’infinito; il corpo spaziale, essendo mobile, può uscire dal campo di apparizioni e successiva-mente ritornarvi (R. BERNET, I. KERN, E. MARBACH, Edmund Husserl, trad. it. di C. La Rocca, il Mulino, Bologna, 2002, p. 171). 6 Il concetto di ‘orizzonte’ è utilizzato da Husserl anche nella Crisi: «In ogni perce-

zione di una cosa è implicito un ‘orizzonte’ di modi di apparizione e di sintesi di validità che non sono attuali e che tuttavia sono co-fungenti» (E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it. di E. Filippini, Saggiatore, Milano, 2002, p. 186). 7 Ivi, p. 191.

8 E. HOLENSTEIN, Phaenomenologie der Assoziation. Zu Struktur und Funktion

eines Grundprinzips der Passive Genesis bei E. Husserl, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1972, p. 155. 9 In particolare, Husserl attua questa divisone a pp. 275-276 di Idee II.

10 Ibid.

11 A. PUGLIESE, Unicità e relazione. Intersoggettività, genesi e io puro in Husserl,

Mimesis, Milano, 2009, p. 170.

Page 38: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

37

he cosa si deve intendere per ontologia in riferimento a

Nietzsche1? E’ possibile individuare nel suo prospettivismo uno

spazio per la dottrina dell’essere e per il concetto di realtà? Nelle

interpretazioni di Ricoeur2 e Habermas3, dove diviene assai difficile

distinguere il piano epistemologico da quello ontologico-metafisico

giungendo forse ad un dissolvimento del secondo nel primo, Nietzsche

sembra persuaso della possibilità di pervenire ad un essere ultimo, la

volontà di potenza, che prenderebbe il posto dell’ontos on della vecchia

metafisica.

Se invece Nietzsche volesse proprio negare l’essere e quindi la stessa

ontologia? Se, così come ha ammonito a diffidare della volontà di verità,

denunciasse anche la volontà di essere? In effetti le interpretazioni di

Vattimo4 e Derrida5 suggeriscono proprio che egli abbia cercato di

smascherare senza rimpiazzare, che abbia inteso la demitizzazione come

compito infinito che non pretende di pervenire ad esseri o essenze

ultime. Un’alternativa, pur sempre anti-essenzialista, al rifiuto completo

dell’ontologia è stata la qualifica di Nietzsche come esistenzialista

proposta, per esempio, da Lev Sestov6 a inizio Novecento. Contro il

rifiuto dell’ontologia si schiera anche Deleuze7, il quale anzi la ritiene

l’ambito determinante e la struttura portante dell’intero sistema di

Nietzsche: l’eterno ritorno sarebbe la sintesi della differenza e della

riproduzione del diverso al suo interno.

Alla ricerca di punti di vista inusuali, arricchenti e forse spaesanti su

queste e altre questioni vorrei prendere in considerazione uno scorcio

del panorama filosofico americano contemporaneo, individuabile da una

parte per comuni interessi interpretativi verso Nietzsche e dall’altra per

legami di affinità più o meno evidenti con il pensiero del filosofo di

Röcken. Non si pensi perciò ad un’avventura in un territorio ‘disabitato’

perché l’attenzione per l’aspetto ontologico del prospettivismo è ben

presente in America, per esempio, fin dalle interpretazioni di William

Salter e Frank Lea, risalenti alla prima metà del Novecento, anche se

diventerà consistente soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Questi

due studiosi, che in parte anticipano posizioni post-analitiche, ritengono

che il prospettivismo di Nietzsche altro non sia che l’approccio al

mondo come sistemazione estetica ed ermeneutica di impulsi (bisogni e

istinti) sia interni che esterni secondo particolari strutture di significato.

Il mondo avrebbe dietro di sé non uno ma innumerevoli sensi, derivanti

dai nostri bisogni e istinti che lo interpretano con una forma

epistemico-ontologica di dominio.

La trattazione procederà ora per paragrafi che cercano di ‘muoversi’

C

REALTÀ, ONTOLOGIA E PROSPETTIVISMO

NELL’ELABORAZIONE AMERICANA DI NIETZSCHE

Page 39: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

38

attorno a questioni che spostano ogni volta il centro d’attenzione o il

punto di vista: se si vuole un po’ come nella celebre parabola indiana dei

sei uomini ciechi che cercavano di conoscere un elefante toccandolo.

Classiche (o vecchie) categorie

Un punto di partenza, invero piuttosto classico, per una disanima

vagamente sistematica all’interno della visione americana di Nietzsche

potrebbe essere chiedersi se la proposta del filosofo tedesco appartenga

al realismo, all’idealismo, al materialismo o a forme di antirealismo.

Benché Nietzsche rifiuti spesso il soggetto, a prima vista non sembra

che il suo prospettivismo possa conciliarsi con l’idea (tipica del realismo)

che la realtà esiste indipendentemente dal soggetto, dai suoi schemi

concettuali, dal suo linguaggio: basta pensare alle sue frequenti critiche

dell’oggettività. D’altra parte si può forse credere che egli si ritroverebbe

in un idealismo, magari berkeleiano, in cui solo le idee sono reali? Cosa

significherebbero allora i suoi richiami alla terra che per taluni lo

avvicinano al materialismo? Sicuramente è difficile far rientrare

Nietzsche semplicemente in uno dei primi due schieramenti. Più

costruttivamente ci si potrebbe chiedere se egli neghi l’esistenza di un

secondo mondo retrostante quello dei fenomeni, oppure neghi l’unicità

della realtà a favore di una sua molteplicità che dall’epistemologia

penetra nell’ontologia.

Recentemente Brian Leiter8 ha proposto un’interpretazione

ontologico-pragmatica secondo la quale il mondo noumenico non è

conoscibile, quindi non importa se esista o meno. In questo senso

Nietzsche sembrerebbe ammettere la possibilità di un’ontologia

tradizionale, dove il problema ontologico sarebbe svincolato da quello

epistemologico. Tale indifferenza verso il noumeno ammetterebbe,

almeno in linea teorica, la possibilità della coesistenza allo stesso tempo

di un mondo conoscibile, per cui pare valere un certo grado di

idealismo, e di uno inconoscibile, al quale ascrivere le fiduciose pretese

di realismo. In realtà Leiter si sta soffermando su una fase, rintracciabile

nelle opere precedenti alla Gaia scienza, nella quale Nietzsche sembra

non preoccuparsi eccessivamente del problema ontologico.

Arthur Danto ritiene che Nietzsche non sia né un idealista, per il

quale non c’è un mondo al di fuori delle articolazioni della mente, né un

fenomenista, il quale crede che tutto ciò che ha significato possa essere

espresso in termini di esperienza. Non avrebbe però voluto rinunciare

all’idea che esista un mondo là fuori e sarebbe stato costretto a

mantenere questo residuo di realismo per avere qualcosa rispetto al

quale le nostre credenze fossero false9. Sebbene possa essere plausibile il

Page 40: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

39

realismo residuo di Nietzsche, questo passaggio di Danto,

soffermandosi sulla falsità, rende definitivo uno stadio intermedio della

complessiva argomentazione critica di Nietzsche che, a mio parere, si

conclude invece con la negazione della antitesi verità-falsità.

Frank Lea vede in Nietzsche il superamento sia del materialismo che

dell’idealismo: il mondo materiale non è un’illusione ma il vero essere di

ogni cosa consiste nella sua azione10. La realtà viene ad essere costituita

da centri di forza, cioè la volontà di potenza sostituisce sia la res cogitans

che la res extensa, non più recipiente di stimoli esterni, ma attività stessa.

Da questi e altri esempi appare come le interpretazioni americane

rifiutino perlopiù di incasellare la componente ontologica del pensiero

di Nietzsche in una delle precedenti macroclassificazioni troppo nette.

Realtà o apparenza?

Emerge piuttosto un altro tema classico dell’ontologia per il quale si

possono senz’altro trarre spunti più interessanti dall’atteggiamento di

Nietzsche: la gradualità o le antitesi esistenti in seno all’essere, in

particolare la distinzione tra mondo reale e mondo apparente. Il filosofo

tedesco rivisita, stravolge o capovolge, come vorrebbe l’interpretazione

di Heidegger, tale distinzione di origine platonica?

Un capovolgimento, sebbene diverso, delle precedenti concezioni

ontologiche, è in effetti quanto legge Alexander Nehamas. Nietzsche

non negherebbe la realtà del mondo ma considererebbe gli oggetti che

lo costituiscono il prodotto e non il fondamento di rapporti olistici ed

ermeneutici: «una cosa non è [perciò] per Nietzsche un soggetto che ha

effetti ma semplicemente un collezione di effetti correlati, selezionati da

qualche punto di vista particolare»11.

A questo proposito interessante è ancora Arthur Danto, il quale

coglie l’importanza della critica di Nietzsche alla contrapposizione tra

realtà e apparenza: se, come lui sostiene, scompare il mondo vero

scompare anche il mondo apparente12. L’interpretazione dell’americano

sembra però lasciare in sospeso la questione dell’esistenza di un mondo

metafisico rispetto al solo mondo come mondo-relazione13: infatti egli

attribuisce molta importanza ad un frammento di Umano, troppo umano14

in cui si parla della possibilità del mondo metafisico. Come osservato

per Leiter, questa interpretazione andrebbe associata alla constatazione

della successiva evoluzione del pensiero in Nietzsche.

Una rivisitazione è quanto offre l’interpretazione di Maudemarie

Clark15: sicuramente Nietzsche rifiuta il realismo metafisico, per il quale

la realtà è qualcosa in sé e la sua determinata natura è del tutto

indipendente da noi, dalla nostra struttura cognitiva. Ma la sua analisi va

Page 41: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

40

oltre: infatti mentre l’essenza (gnoseologica), realtà o cosa in sé, che dir

si voglia, sarebbe legata al realismo metafisico e quindi contraddittoria

con il prospettivismo, l’esistenza di una cosa indipendente dalla mente e

anche dalle prospettive (che lei associa al realismo del senso comune)

sarebbe invece compatibile con il prospettivismo16. La negazione delle

cose in sé da parte di Nietzsche non contraddirebbe l’esistenza

extramentale di un oggetto di cui si hanno le prospettive, a patto di non

confondere esistenza con essenza. Per giungere a tali considerazioni la

Clark concentra la sua attenzione anche sulle ultime opere di Nietzsche

nelle quali egli distinguerebbe tra oggetto che esiste indipendente da

come appare (l’aspetto esistenziale o ontologico ma

epistemologicamente non rilevante, vuoto) e oggetto in sé (l’aspetto

concettuale, epistemologico, a cui compete l’essenza), entrambi distinti

dal fenomeno e per Nietzsche non conoscibili, se non in modo illusorio.

Anzi, dei due Nietzsche nega l’oggetto in sé. Quindi non c’è nulla di

conoscibile nascosto al di là delle apparenze, non c’è alcun velo di Maya

da squarciare. Ma l’oggetto (non l’oggetto in sé) esiste senza il bisogno

di assumere che la sua vera natura sia indipendente da come appare.

Ecco allora spazio per il prospettivismo: l’apparenza non nasconde

un’essenza e quindi non c’è più rischio di contraddizione.

La posizione della Clark fa però sorgere alcuni dubbi. Innanzitutto la

forma di realismo a cui accostare le prospettive non può certo essere

quella del senso comune, cioè diretto o ingenuo, secondo il quale la

nostra percezione ci metterebbe in contatto non fallace con il mondo e

con gli oggetti che manterrebbero proprietà indipendenti dalla nostra

percezione. Infatti ciò significherebbe trascurare, per esempio, le critiche

di Nietzsche al positivismo. Un altro punto non chiarissimo è il

concetto di essenza: questa studiosa sembra separare l’extramentale in

esistente e essenza-concetto, attribuendo a Nietzsche la negazione della

seconda: quindi una sorta di nominalismo (in effetti è abbastanza

diffuso in ambito analitico) in cui sono negate non solo le essenze

universali ma anche quelle individuali.

Secondo l’interprete post-analitico Richard Schacht17 Nietzsche

sembrerebbe escludere la distinzione tra realtà e apparenza a favore

della sola esperienza, forse verso una forma di fenomenismo rivisitato18.

Alcuni aspetti del mondo sono effettivamente come ci si presentano: il

divenire, il cambiamento, cioè proprio ciò che i filosofi hanno

considerato apparenze, sono invece tra le reali caratteristiche del mondo.

Al mondo fenomenico non si contrappone il mondo vero: potrebbero

al massimo contrapporsi tra loro differenti mondi conoscibili solo

all’interno di specifiche prospettive ma in ogni caso sempre fenomenici.

Riformulando il significato di apparenza, il mondo è un mondo di

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Pensare la realtà

41

apparenze, dove l’apparenza non è un modo di cogliere il mondo ma è

la natura stessa in cui consiste il mondo19. Non c’è alcuna trascendenza,

alcun mondo delle idee (per usare l’espressione platonica contro cui

Nietzsche sembra scagliarsi) da opporre al fenomeno. Proseguendo nel

ragionamento si può giungere fino ad osservare che, nel momento in cui

elimina i concetti di trascendenza e di realtà assoluta, Nietzsche fa

cadere anche i concetti di esperienza e di apparenza, annullando

ovviamente la contrapposizione: «il contrasto tra il mondo apparente e il

mondo vero si riduce al contrasto tra ‘mondo’ e ‘nulla’»20.

Secondo Nehamas saremmo di fronte ad un vero e proprio cambio

di paradigma, che va oltre la contrapposizione realtà-apparenza. Per

Nietzsche «verità ed errore, conoscenza ed ignoranza, bene e male non

devono essere contrapposti l’uno all’altro; al contrario, li immagina

come punti di uno stesso continuum»21; aggiungerei alla serie anche realtà

e apparenza. Questo riferimento di Nehamas al continuum mi sembra

costituire un guadagno interpretativo rispetto alle visioni discrete, se

non binarie, di altri interpreti.

Mondi e prospettive

Seppur trascurando la separazione inaugurata da Christian Wolff tra

ontologia e cosmologia, possiamo chiederci quale idea di mondo gli

abbiano quindi attribuito gli studiosi americani?

Schacht sostiene sia l’interpretazione che non esista un mondo a

prescindere dalle prospettive sia l’idea che esso non si riduca ad una

prospettiva, quanto piuttosto alla somma di prospettive. Il mondo è

essenzialmente un mondo di relazioni tra centri di forza, i centri di

prospettive; esso è differente da ogni punto di vista, senza i quali nulla

esiste.

Anche Danto osserva come il mondo relazionale sia differente a

seconda dei punti di vista, mostri aspetti diversi, ma, diversamente da

come inteso da Schacht, non lo ritiene la somma di tutte le prospettive,

in quanto esse sarebbero tra loro inconciliabili e quindi non sommabili.

In realtà, mi sembra che per quanto possa essere discutibile l’idea della

realtà come somma delle prospettive, la loro eventuale inconciliabilità

non costituisce un reale ostacolo alla loro somma o al loro

accostamento: si tratterebbe semplicemente di un’eterotopia 22. Piuttosto

bisogna rilevare che Schacht sembra talvolta contrapporre la singola

prospettiva alla somma delle prospettive, attribuendo alla prima il nome

di apparenza e alla seconda quello di realtà: ma per Nietzsche non si

tratta in entrambi i casi di realtà?

Ci si può anche chiedere se il prospettivismo possa essere ritenuto

Page 43: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

42

una sorta di pluralismo ontologico.

Nehamas prende in considerazione questa possibilità, ma per

sottolineare la differenza tra le due concezioni. In entrambi i casi si ha

una pluralità di interpretazioni, ma il pluralismo ontologico è assai più

impegnativo in quanto ritiene che il mondo possegga tante nature

quante sono le interpretazioni. Tali interpretazioni dovrebbero essere

complete, cioè su tutto il mondo: il pluralismo ontologico non sarebbe

quindi compatibile con la nostra necessità di semplificazione di cui

spesso parla Nietzsche23. Il semplice prospettivismo sarebbe invece assai

meno esigente dal punto di vista ontologico: il mondo è unico e finito

ma può sempre essere ri-descritto in ogni sua parte. E’ evidente come

Nehamas attribuisca grande importanza al concetto di semplificazione,

sebbene forse lo privi della valenza negativa presente in Nietzsche: la

natura del mondo è data nella totalità delle concezioni che lo riguardano,

ma noi dobbiamo (o meglio non riusciamo a fare a meno di)

semplificare e selezionare. Questo significa che non vediamo oggetti

diversi, ma vediamo da prospettive diverse.

A mio avviso un’ottima metafora di tale situazione (e forse anche

dell’eterotopia di cui ho detto prima) è rinvenibile nelle figure ambigue

(come l’anatra-coniglio, la vecchia-ragazza, ecc.) e negli switch di cui ha

trattato la psicologia della Gestalt. Pur essendo sempre possibili, e in un

ccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccccANDREA MARCHESE, A REAL GHOST

Page 44: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

43

certo senso presenti, entrambe le “visioni” in tali figure, solo una alla

volta può mostrarsi alla nostra percezione. Tali cambi di prospettiva

trovano un interessante parallelo nei mutamenti di paradigma e del

mondo fenomenico di cui parla Kuhn: vari studiosi effettivamente

associano i paradigmi alle prospettive. Sarebbe a questo proposito

interessante capire se si tratti di un’analogia o se la teoria della Gestalt

rappresenti una possibilità generale sul funzionamento della mente che

comprende non solo il caso scientifico dei paradigmi.

Per meglio esemplificare la propria posizione Nehamas propone una

metafora cinematografica-pittorica, il finale del film Mio zio d’America24:

la sequenza si apre con un paesaggio di campagna, che però si rivela

essere nel mezzo di una città ed essere un affresco-murales iperrealista

sulla parete di un edificio; pare perfetto nei suoi particolari e nelle sue

linee; ma con l’avvicinarsi dello zoom si nota come la superficie non sia

liscia ma mostri i difetti dei mattoni e delle loro giunture, la loro

ruvidezza e l’irregolarità dei colori; quindi il paesaggio si perde sostituito

da confuse pennellate. Si presentano perciò differenti versioni della

situazione, dall’iperrealismo si è passati all’impressionismo (o addirittura

al surrealismo). Quali sono le vere linee? Qual è il vero dipinto? Alain

Resnais (il regista) risponde che sebbene non si possano vedere

contemporaneamente tutte le differenti ‘versioni’, il dipinto è tutte le

versioni sommate insieme, senza però che questa somma diventi la

singola realtà di cui le versioni siano apparenze. Quindi non c’è alcun

diritto qui di parlare di apparenze, perché il dipinto è solo queste

“apparenze” ognuna vista da una distanza particolare25. In altre parole si

potrebbe attribuire a Nietzsche la convinzione che ogni nuovo

approccio alla realtà crei non soltanto una nuova interpretazione, ma

proprio un nuovo testo da interpretare. Ogni visione del mondo è il

risultato di una ricostruzione creativa26.

L’interpretazione di Nehamas sembra oscillare tra un unico mondo e

molteplici mondi contemporanei senza prendere a fondo in

considerazione la possibilità di un unico mondo cangiante e mutevole,

cioè dalla natura in divenire (un divenire sia temporale che spaziale). La

natura dell’universo risulterebbe regolata da relazioni di tipo

interpretativo e quindi non sarebbe fissa ma indeterminata: ciò che

appare è frutto di un particolare e continuo riordinamento delle

componenti dell’universo. Dopotutto egli stesso osserva che le nostre

categorie linguistiche sono compatibili con differenti versioni della

struttura ontologica del mondo, il mondo della volontà di potenza può

essere descritto in molti modi, nessuno dei quali deve o può costituire la

sua rappresentazione ultima: «[Nietzsche] vuole mostrare che il mondo

non ha una struttura ontologica»27.

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Quaderni della Ginestra

44

Risulta pertanto naturale che Nehamas ritenga la genealogia, con la

sua polivalenza e la sua creatività, l’alternativa nietzschiana all’ontologia:

«domandare che cosa sia in se stessa la natura del mondo o quale

descrizione di esso sia in definitiva corretta equivale a chiedere quale

albero genealogico raffiguri le reali connessioni genealogiche

intercorrenti tra ciascun individuo del mondo» 28. La genealogia

consente molte alternative e non scopre né impone una realtà data una

volta per tutte perché dipende dall’immagine indeterminata del mondo

offerta dalla volontà di potenza, che nel fare ciò incorpora i propri

interessi.

Spostandosi dal piano dell’interpretazione del pensiero di Nietzsche

a quello della sua influenza, non si può non osservare come la questione

della pluralità dei mondi e/o della loro ‘volubile’ struttura ontologica

richiami senz’altro il pensiero di Nelson Goodman. Noi possiamo

costruire una «varietà di versioni corrette e anche in conflitto, ossia di

mondi»29, una molteplicità di sistemi divergenti che trattano dello stesso

dominio. Si possono approvare tutti o nessuno di tali mondi, ma non c’è

un fondamento in base a cui accettare la realtà di uno, ma non degli

altri.

Se mi chiedessero quale sia il cibo per l’uomo dovrei rispondere

‘nessuno’. Perché ci sono molti cibi. E se mi chiedono qual è il modo in

cui il mondo è, devo ugualmente rispondere ‘nessuno’. Perché il mondo

è in molti modi. [...] Ci sono molti modi in cui è il mondo e ogni

descrizione vera afferra uno di essi 30.

Ciò non sembra molto differente da quanto affermava Nietzsche:

«nella misura in cui la parola ‘conoscenza’ ha in genere un senso, il

mondo è conoscibile; ma lo si può interpretare in altro modo: esso non

ha un senso dietro di sé, ma innumerevoli sensi»31.

Risulta qui ben evidente il collegamento tra piano epistemologico e

ontologico. È naturale allora chiedersi come siano possibili teorie

contrastanti: gli oggetti a cui esse si riferiscono sono diversi, teorie

diverse per oggetti diversi. Un esempio citato spesso da Goodman è la

duplice visione (geocentrica o eliocentrica) del moto relativo tra terra e

sole: gli oggetti, nonché lo spazio e il tempo che occupano, sono

‘version-dependent’. Come suggerisce Nehamas parlando di Nietzsche,

anche in Goodman le cose a cui si riferiscono le versioni del mondo si

formano e vanno di pari passo con le versioni stesse.

Alla molteplicità delle versioni del mondo si collegano le posizioni

critiche tenute da Goodman nei confronti del realismo, che egli

considera interamente relativo alla cultura da cui è posto: «la

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Pensare la realtà

45

rappresentazione realistica non dipende dall’imitazione, dall’illusione o

dall’informazione, ma dall’addottrinamento»32. Egli giudica il suo

pensiero «un relativismo radicale sottomesso a restrizioni rigorose, che

si risolve in qualcosa di assai prossimo all’irrealismo»33, posizione diversa

dall’antirealismo; la mente, attraverso le versioni, costruisce i mondi:

«l’irrealismo non sostiene che tutto o qualsiasi cosa sia irreale, ma vede il

mondo fondersi in versioni e le versioni creare mondi, ritiene l’ontologia

evanescente, e ricerca ciò che rende una versione corretta e un mondo

ben costruito»34.

Ma allora si tratta proprio di esistenza di mondi diversi e non solo di

diversa interpretabilità di un unico mondo? In ogni caso per Goodman

non si può parlare di mondo indipendentemente dal riferimento a

specifiche strutture: «il nostro orizzonte è costituito dai modi di

descrivere tutto ciò che viene descritto. Il nostro universo consiste, per

così dire, di questi modi piuttosto che di un mondo o di mondi»35. La

costruzione degli oggetti e dei mondi sembra quasi un ‘farli emergere’

da un magma indistinto dell’essere. E’ evidente però che per Goodman

il costruire si basa su qualcosa che già c’è là fuori, anche se risulta

impossibile non solo capire di che cosa si tratti, ma addirittura pensarlo.

Rimanendo in un contesto filosofico vicino a Goodman, di mondi

ontologicamente differenti sembra parlare Thomas Kuhn, se per mondo

si intende qualcosa di organizzato e concettualizzabile: mentre Galileo

vedeva un pendolo, gli aristotelici vedevano pietre oscillanti, ecc. Se

invece si vuole fare riferimento all’idea, magari un po’ oscura, che ci sia

un qualcosa là fuori, allora forse il mondo è sempre lo stesso. Non è

affatto facile trarre le conseguenze ontologiche dal pluralismo dei mondi

proposto da Kuhn: «a mio giudizio, non v’è nessun modo, indipendente

da teorie, di ricostruire espressioni come ‘esservi realmente’; la nozione

di un accordo tra l’ontologia di una teoria e la sua ‘reale’ controparte

nella natura mi sembra ora, in linea di principio, ingannevole»36. Poiché è

naturale pensare che non ci siano discorsi indipendenti da teorie,

probabilmente siamo di fronte, come rilevabile in altri filosofi successivi

come Donald Davidson, ad una scissione tra piano discorsivo-

concettuale e piano ontologico: che si tratti di una particolare forma di

nominalismo, rilevabile anche in Nietzsche?

Esistono le cose, esistono i fatti?

Ovvero “Le cose non sono le cose”

Nietzsche osserva: «si deve prima di tutto interpretare questo fatto:

esso se ne sta lì in sé, stupido per tutta l’eternità, come ogni cosa in sé»37

e ancora «contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni dicendo «ci

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Quaderni della Ginestra

46

sono solo i fatti», io direi: no, appunto i fatti non esistono, esistono solo

interpretazioni»38.

John Wilcox esprime una perplessità comune a molti studiosi di

Nietzsche (e non solo): se tutta la nostra conoscenza è interpretativa,

cioè prospettica, c’è qualcosa che resta costante e di cui abbiamo

prospettive 39? Nietzsche, suo malgrado, è costretto ad usare il

linguaggio e il portato metafisico che ha spesso denunciato: il termine

prospettiva, in questo caso, richiama immediatamente un “bersaglio”, la

cosa in sé, a cui sarebbero indirizzate le prospettive. Il dubbio di Wilcox

quindi forse travisa il senso e lo scopo del prospettivismo di Nietzsche.

Siamo infatti sicuri che debba necessariamente esistere qualcosa al di là

della prospettiva?

Basandosi su quanto si trova in Genealogia della morale la Clark ritiene

che Nietzsche non neghi l’esistenza dei fatti, ma di una loro natura

indipendente dall’interpretazione: «la peccaminosità dell’uomo non [è]

un dato di fatto, ma piuttosto unicamente l’interpretazione di un dato di

fatto. [...] Col fatto che qualcuno si sente colpevole, peccaminoso, non è

ancora per nulla dimostrato che a ragione egli si senta tale»40. Quindi

esisterebbero fatti e interpretazioni di fatti: ma che dire allora dei

passaggi fondamentali per il prospettivismo in cui Nietzsche afferma

che non esistono i fatti41, ma solo le interpretazioni? Che cosa

intenderebbe Nietzsche con il termine fatti, che altrove nega? Secondo

questa studiosa la natura degli oggetti (e dei fatti) è solo l’interpretazione

da uno o più punti di vista. Ma si tratta in ultima istanza della somma

dei vari punti di vista? Oppure oggetto delle varie interpretazioni sono

solo altre interpretazioni? La Clark non chiarisce questo eventuale

realismo ontologico e non sembra inoltre tenere conto del fatto che

Nietzsche, nelle opere non giovanili, definisca chiaramente gli oggetti

solo una menzogna utile, un errore incarnato nel linguaggio. Qual è

allora l’oggetto delle nostre interpretazioni? Forse ogni interpretazione

crea i propri oggetti e fatti?

Correttamente Schacht, come altri interpreti post-analitici, insiste sul

legame tra prospettivismo e natura relazionale degli oggetti molto più di

quanto facciano Wilcox e la Clark: se la natura di qualcosa dipende dai

modi, dalla varietà di specifici punti di vista a partire dai quali la si può

incontrare, allora solo nella misura in cui uno è capace di fare gli

appropriati cambi di prospettiva tale natura diviene accessibile42.

Alcuni studiosi si sono soffermati sulle conseguenze di un’originale

proposta in cui Nietzsche sembra comporre la fisica a lui

contemporanea e il prospettivismo, la teoria degli oggetti come fasci

strutturati di potenza. Essa è rintracciabile in Volontà di potenza (o

Frammenti Postumi) dove può essere letto anche il radicalizzarsi di una

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Pensare la realtà

47

tradizione anglosassone, contraria all’ontologia delle sostanze, che parte

da Berkeley, passa per Hume e giungerà poi fino a Russell. Infatti all’idea

di Hume che l’io non sia atomico, bensì un fascio di percezioni,

Nietzsche aggiunge l’idea che l’io sia prospettico, all’idea di Berkeley che

non esistano oggetti indipendenti dalle loro proprietà aggiunge che

queste siano tipi di prospettive di potenza, all’idea di Russell che gli

oggetti siano una costruzione aggiunge che anche il sé è una

costruzione43.

Nella lettura di Danto le cose e gli esseri viventi “sono” volontà di

potenza, non “hanno” volontà di potenza. Neppure è corretto parlare di

cose: l’ontologia di Nietzsche tratta di quanti dinamici e non più di cose

e soggetti aventi volontà, perché loro stessi sono volontà, attività. A

questa interpretazione che subordina l’oggetto ad una attività, si può

collegare anche la proposta di filosofi come Davidson44: al concetto di

oggetto essi affiancano o sostituiscono quelli di fatti o ancor più di

eventi e di state of affairs, parlano di ontologie degli eventi. La realtà non

è un sistema atomistico composto da una continuità discreta di quanti,

bensì il risultato delle miriadi di configurazioni che essi possono

assumere.

Per analoghe ragioni Nehamas, pur parlando di fatti, di oggetti e di

eventi, non ritiene ci sia una teoria nietzscheana al riguardo, una

ontologia che risponda a domande come “che cosa è un fatto?”, “che

cosa è un evento?”. Secondo Nehamas l’informazione essenziale che

Nietzsche voleva fornirci è l’interconnessione di tutte le cose, ontologica

e epistemica allo stesso tempo. Infatti se «la loro [dei quanti] essenza

consiste nella loro relazione con tutti gli altri quanti»45, allora essi non

posseggono un sostrato indipendente. Che ne è quindi delle cose in sé?

È proprio a questo punto che all’interno del concetto di potenza si

manifesta la presenza del prospettivismo. Infatti il reale è un tutto fluido

e dinamico in quanto regolato da rapporti olistici ed ermeneutici, la sua

natura non è afferrabile una volta per tutte ma è legata alle

interpretazioni: come osserva Nehamas, «la sua [di Nietzsche]

concezione della relazionalità essenziale del tutto [fa] parte del suo

tentativo di mostrare che non vi è un mondo già dato, rispetto al quale

le nostre concezioni e teorie possono essere vere una volta per tutte»46.

Tra gli oggetti non possono che crearsi relazioni olistico-ermeneutiche:

essi non posseggono caratteristiche proprie, ma si definiscono nei loro

rapporti e nelle loro differenze reciproche. Ne deriva la fondazione

dell’ontologia nietzschiana su un prospettivismo “pan-interpretativo”:

come osserva Tiziana Andina «l’essenza delle cose coincide con la loro

possibilità di essere interpretate»47.

Quasi impossibile non pensare ancora a quanto osserva Goodman: i

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Quaderni della Ginestra

48

fatti nella visione filosofica fondazionalista, cioè come qualcosa a cui ci

troviamo davanti e che costituiscono la realtà, non esistono, «sono

qualcosa di chiaramente artificiale»48, teorie di piccola taglia.

L’americano presenta anche una serie di esempi tratti sia dalla vita

quotidiana sia dalle scienze in cui si evidenzia la loro natura di

interpretazione dipendente dalla prospettiva in cui ci si muove (realista

ingenuo, fisico, ecc). Sono gli oggetti, o fatti, ad essere il prodotto

dell’interpretazione, paradossalmente dell’effetto (nel pensiero comune),

direbbe Nehamas49. Tornando a quest’ultimo vediamo infatti come

l’interpretazione rivesta un ruolo fondamentale non solo nella

descrizione, ma anche nella continua ri-descrizione “costitutiva” delle

cose. Infatti, poiché la distinzione sostanza-accidente per Nietzsche non

ha più ragione d’essere e la struttura delle cose dipende esclusivamente

dall’interpretazione, ogni nuova interpretazione produce nuove “cose” e

queste, a loro volta, nuove interpretazioni.

Nehamas fa ricorso ad una metafora, certo non nuova, che però

aiuta a chiarire questo passaggio: il mondo come testo letterario. Tutte le

cose e gli eventi si pongono nei confronti delle loro relazioni come il

personaggio di un romanzo nei confronti dei propri atti: ogni successiva

azione di un personaggio lo modifica, genera una nuova interpretazione

sul suo passato, facendolo risultare «la somma dei suoi effetti»50. Allo

stesso modo le cose non sono circoscrivibili da definizioni e

proposizioni ultime, ma sono la totalità in divenire di eventi, sono

modificate da successivi eventi e generano nuove interpretazioni: «non

come una sostanza è correlata al suo attributo ma come un intero è

correlato alle sue parti; inoltre questa relazione è interpretativa e non

causale»51. Lo stesso rapporto di genesi sintetica e interpretativa,

potremmo dire, esiste tra un’opera d’arte e le varie interpretazioni che di

essa vengono date. Infatti in un’altra metafora, che Nehamas attribuisce

a Nietzsche, il mondo è come un’opera che genera se stessa: «come nel

caso della letteratura, così nel mondo, secondo Nietzsche reinterpretare

gli eventi significa riordinare gli effetti e perciò generare nuove cose»52.

Non proprio di interpretazioni ma di narrazioni parla R. Rorty,

profondo estimatore del pensiero di Nietzsche, che propone un

interessante sviluppo del ‘capovolgimento ontologico’ che, come visto,

alcuni studiosi leggono in Nietzsche. L’americano sembra sostituire alla

realtà la narrazione, fondendo normatività, creatività e descrizione53. La

scomparsa della realtà in senso metafisico non implicherebbe però il

regno del simulacro: l’esercizio dell’immaginazione non corrisponde alla

simulazione. Anzi, a mio avviso, si apre la possibilità di narrare storie

che, con il loro potere creativo, possono davvero fare la differenza: le

forme di narrazione che chiamiamo teoriche possono aiutare a portare

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Pensare la realtà

49

alla realtà un mondo migliore; si possono produrre nuove realtà,

virtualità attualizzate. La grande possibilità insita nella proposta di Rorty

è che siano i fatti a derivare dai nuovi mondi narrati, e non più

viceversa: la genesi della realtà è spostata nella narrazione allontanandosi

dai fatti, che cambiano in base alla narrazione. Il mondo può essere

scomposto in fatti solo dopo il lavoro costituente della narrazione: i fatti

sono frutto di un’analisi, di una scomposizione del mondo narrato, e

non più generatori del mondo per sintesi; prima viene la narrazione, poi

i fatti.

Questo sviluppo molto coraggioso lascia però alcuni dubbi: da dove

viene la creazione se non da altri linguaggi, da altre narrazioni? Che cosa

c’è al di fuori delle narrazioni? Al fine della “creazione” bastano le sole

narrazioni o è necessario anche qualcos’altro? In Rorty il centro della

realtà, intesa come narrazione, pare essere occupato dal linguaggio, o

meglio dai linguaggi o dai vocabolari; gli individui, cose o persone,

paiono emarginati: emerge una deriva verso la trascendenza e il

metafisico a scapito della pragmaticità e dell’umanità a cui l’americano

invece pare spesso aspirare54. L’essere diventa il linguaggio oppure

l’essere è semplicemente nel manifestarsi di tutte le prospettive

attraverso i linguaggi a cui l’uomo può accedere.

ANTONIO FREDDI

1 Per gli scritti di Nietzsche si è fatto riferimento alle edizioni critiche Nietzsche, Werke (KGW) e Briefwechsel (KGB) nonché alle relative traduzioni italiane pubblicate in vari anni da Adelphi. Fa eccezione Der Wille zur Macht, per la quale si è fatto riferimento alla traduzione a cura di Ferraris M. e Kobau P., Bompiani, Milano 2005. 2 P. RICOEUR, De l'interprétation. Essai sur Freud, Editions de Seuil; Parigi 1965 ; tr. it. Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 2002. 3 Si veda per esempio T. ROCKMORE, Habermas, Nietzsche, and Cognitive Perspective, 1999 in B. E. BABICH E R. S. COHEN (a cura di), Nietzsche and the Sciences I: Nietzsche, Theories of Knowledge and Critical Theory, Kluwer, Dordrecht e Londra 1999. 4 G. VATTIMO, Ipotesi su Nietzsche, Giappichelli, Torino 1964; Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 1985. 5 J. DERRIDA, Eperons. Les styles de Nietzsche, Flammarion, Parigi 1978; Otobiographies. L’enseignement de Nietzsche et la politique du nom propre, Galilée, Parigi 1984. 6 Si veda L. I. SESTOV, Достоевский и Ницше; 1903; tr. it La filosofia della tragedia. Dostoe-vskij e Nietzsche, Marco Editore, Cosenza 2004. 7 G. DELEUZE, Nietzsche et la Philosophie, PUF, Parigi 1962; tr. it. Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978. 8 B. LEITER, Nietzsche on Morality, Routledge, New York 2002. 9 A. DANTO, Nietzsche as Philosopher, MacMillan, New York 1965, p. 96. 10 F. LEA, The Tragic Philosopher, Philosophical Library, New York 1957, p. 259. 11A. NEHAMAS, Nietzsche: Life as Literature, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1985, p. 92; tr. it. (a cura di M. PERA) Nietzsche: la vita come letteratura, Armando, Roma 1989, p. 113. 12 A. DANTO, cit., 1965, p. 91. 13 A. DANTO, cit., 1965, p. 78. 14 F. NIETZSCHE, Menschliches, Allzumenschliches, 1878, 9. 15 M. CLARK, Nietzsche on Truth and Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1990, p. 41. 16 M. CLARK, cit., 1990, p. 136. 17 R. SCHACHT, Nietzsche, Routledge and Kegan Paul, Londra 1983, pp. 188-189. 18 F. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung, 1888, III, 2 e IV. 19 R. SCHACHT, cit., 1983, p. 191. 20 F. NIETZSCHE, Der Wille zur Macht, 1901, 567. 21 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 44 (tr. it., p. 61).

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Quaderni della Ginestra

50

22 Per approfondire il concetto di eterotopia si faccia riferimento a M. FOUCAULT, Les mots e les choses, Gallimard, Parigi 1966, introduzione, oppure la conferenza Des espaces autres, 1967; tr. it. Eterotopie, in Archivio Foucault, Feltrinelli, Milano 1998. 23 F. NIETZSCHE, Jenseits von Gut und Böse, 1886, 24. 24 Film di Alain Resnais del 1980. 25 A. NEHAMAS, cit., 1985, pp. 51-52 (tr. it., pp. 68-69). 26 F. NIETZSCHE, Die fröhliche Wissenschaft, 1882, 58. 27 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 96 (tr. it., p. 118). 28 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 104 (tr. it., p. 126). 29 N. GOODMAN, Ways of Worldmaking, Hackett Press, Indianapolis 1978, p. x; tr. it. Vedere e costruire il mondo, Laterza, Roma-Bari 1988, p. ix. 30 N. GOODMAN, Problems and Projects, Bobbs-Merrill, New York 1972, pp. 30-31. 31 F. NIETZSCHE, Der Wille zur Macht, 1901, 481 oppure Werke (Nachlass), 8 [7] 60, fine 1886-inizio 1887. 32 N. GOODMAN, Languages of Art: An Approach to a Theory of Symbols, Bobbs-Merrill, Indianapolis 1976; tr. it. (a cura di F. BRIOSCHI), I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, Mila-no 2003, p. 40. 33 N. GOODMAN, cit., 1978, p. x (tr. it., p. viii). 34 N. GOODMAN, Of Mind and Other Matters, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1984, p. 29. 35 N. GOODMAN, cit., 1978, p. 3 (tr. it., p. 3). 36 T. KUHN, The Structure of Scientific Revolution, 2nd ed. con poscritto, University of Chi-cago Press, Chicago 1970, p. 206; tr. it La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1999, p. 247. 37 F. NIETZSCHE, Zur Genealogie der Moral, 1887, III, 7. 38 F. NIETZSCHE, Der Wille zur Macht, 1901, 481 oppure Werke (Nachlass), 8 [7] 60, fine 1886-inizio 1887. 39 Cfr. J. WILCOX, Truth and Value in Nietzsche: A Study of His Metaethics and Epistemology, The University of Chicago Press, Chicago 1978. 40 F. NIETZSCHE, Zur Genealogie der Moral, 1887, III, 16. 41 F. NIETZSCHE, Der Wille zur Macht, 1901, 481. 42 R. SCHACHT, cit., 1983, p. 101. 43 F. NIETZSCHE, Jenseits von Gut und Böse, 1886, 12. 44 Per esempio in D. DAVIDSON, Essays on Action and Events, Oxford University Press, New York 1980; tr. it., Azioni ed eventi, Il Mulino, Bologna 1992, capp. 7, 8, 9, 10, 11.

45 F. NIETZSCHE, Der Wille zur Macht, 1901, 635. 46 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 81 (tr. it., p. 102). 47 T. ANDINA, Il volto americano di Nietzsche, La Città del Sole, Napoli 1999, p. 338. Vo-lendo si potrebbe osservare che esattamente la stessa cosa che ai miei occhi si compie a proposito dell’essenza del pensiero di Nietzsche. 48 N. GOODMAN, cit., 1978, p. 93 (tr. it., p. 109). 49 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 92 (tr. it., pp. 112-113). 50 ‘A Thing is the Sum of Its Effects’, è il titolo di un capitolo del già citato testo di Nehamas (1985). 51 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 89 (tr. it., p. 110). 52 A. NEHAMAS, cit., 1985, p. 91 (tr. it., p. 112). 53 Cfr. R. RORTY (1989), Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge University Press, Cambridge 1989; tr. it. (a cura di A. G. GARGANI) La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 2001. 54 Per esempio quando parla di solidarietà: si ved, per esempio, R. RORTY, cit., 1989, paragrafo ‘Solidarietà’.

Page 52: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

51

e nozioni di realtà e possibilità svolgono una funzione centrale

nella metafisica di E. J. Lowe, sia perché lo stesso Lowe definisce

la metafisica come la disciplina che studia le più fondamentali strutture

della realtà, sia per l’obiettivo che le ascrive, ossia stabilire «che cosa può

esserci». In queste pagine, cercherò di analizzare il ruolo che la realtà

assume nella proposta metafisica di Lowe, il rapporto che l’autore

individua tra la metafisica e le varie discipline scientifiche e intellettuali,

e infine di discutere il concetto di possibilità che è alla base della sua

proposta1.

1. Breve nota introduttiva

«La novità degli ultimi anni è che si sono affermati nuovi modi di

occuparsi della ‘scienza dell’essere in quanto essere’, e si è andata

sviluppando una nuova e diffusa consapevolezza nei confronti di questa

disciplina. Tutto il Novecento è pieno di annunciate o sperate o effettive

rinascite della metafisica, ma questa volta almeno alcuni segni fanno

sperare per il meglio. [...] In ogni caso, se il campo del lavoro del

metafisico è ancora relativamente diviso e anarchico [...], c’è la positiva

persuasione che nonostante la varietà delle soluzioni e degli approcci, si

possano trasmettere in modo neutrale almeno alcune delle acquisizioni

preliminari necessarie per occuparsi di metafisica in modo proficuo»2.

Con queste parole Franca D’Agostini sottolinea il rinnovato interesse

che la filosofia contemporanea, nelle sue diverse correnti, ha riservato (e

sta riservando) alle ricerche in metafisica, evidenziandone la pluralità di

soluzioni e metodi di ricerca. Obiettivi preliminari di queste ricerche

sono innanzitutto di definire cosa si intenda con metafisica, in che

modo si differenzi e rapporti alle altre discipline filosofiche, scientifiche

e intellettuali, e di difendere la metafisica dalle varie posizioni anti-

metafisiche che ne negano la possibilità o che la degradano «a qualcosa

di non meritevole di questa denominazione»3. Tali obiettivi sono centrali

nella proposta metafisica di Lowe, proposta che rappresenta lo sfondo

concettuale su cui si articola e struttura l’intera ricerca dell’autore, e i cui

tratti principali sono ben delineati in due sue opere: The Possibility of

Metaphysics (1998) e A Survey of Metaphysics (2002). In A Survey of

Metaphysics4, Lowe si concentra sui (vari) tentativi di definizione di

metafisica, sugli obiettivi di tali ricerche e sul rapporto tra metafisica e

discipline scientifiche e intellettuali. In particolare, Lowe difende una

concezione di metafisica come disciplina che studia la struttura

L

REALTÀ E POSSIBILITÀ. UNA RIFLESSIONE SULLA

PROPOSTA METAFISICA DI E.J. LOWE

Page 53: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

52

fondamentale della realtà come un tutto, dalle obiezioni del relativismo,

dell’epistemologia naturalizzata e da coloro che definiscono la metafisica

come lo studio dei nostri pensieri circa la realtà, evidenziando al

contempo la centralità che il concetto di possibilità assume nella sua

proposta. In The Possibility of Metaphysics, invece, Lowe si propone di

restituire alla metafisica un ruolo centrale nella ricerca filosofica,

fissando le ragioni per cui la metafisica è possibile ed è una disciplina

filosofica ragionevole, «con una metodologia autonoma e propri criteri

di validità»5. Secondo Lowe tutte le discipline – e tutte le forme di

sapere – si basano su assunzioni metafisiche. Restituire un ruolo di

primo piano alla metafisica significa analizzare criticamente e rendere

esplicite quelle assunzioni che le varie discipline accolgono senza un

apparato critico adeguato.

2. Che cos’è la metafisica

Lowe descrive la metafisica come la disciplina razionale a priori, di

carattere non empirico, che studia in modo sistematico le più

fondamentali strutture della realtà6 – realtà considerata come unitaria e

indipendente dal nostro modo di pensarla e descriverla7 – e che ha

l’obiettivo di esaminare le possibilità reali, cioè le possibilità della realtà

considerata in se stessa8. In quanto studio sulla realtà, la metafisica si

occupa delle entità su cui si struttura la realtà stessa (i suoi costituenti

basilari) e del modo in cui esse si collegano, e di chiarire alcuni concetti

universalmente applicabili – concetti come identità, possibilità,

necessità, spazio, tempo, persistenza, cambiamento e causalità –

esaminando le dottrine che li riguardano.

La centralità che la realtà, considerata come unitaria e auto-coerente,

e la verità, definita come unica e indivisibile9, assumono nella riflessione

sulla metafisica dell’autore permette di chiarire il rapporto che lega la

metafisica alle altre discipline scientifiche e intellettuali. Scrive a tal

proposito Lowe:

«Le varie discipline scientifiche, e le altre discipline intellettuali i cui

praticanti non sono probabilmente interessati a definirsi ‘scienziati’ –

come gli storici e i letterati – sono tutte impegnate, almeno in parte,

nella ricerca della verità, ricercandola ciascuna con i propri metodi di

indagine e all’interno del proprio ambito di ricerca. Tuttavia,

l’indivisibilità della verità implica che tutte queste forme di ricerca

devono, se vogliono riuscire nei loro obiettivi, riconoscere la necessità di

essere coerenti l’una con l’altra. Nessuna di queste forme di ricerca può

infatti presumere di definire la questione della reciproca coerenza,

perché nessuna tra queste discipline ha un’autorità al di fuori del proprio

Page 54: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

53

ambito di ricerca. Tale autorità può essere fornita solo da coloro che

praticano una disciplina intellettuale che aspira a una completa

universalità nel suo oggetto di ricerca e nei suoi obiettivi – e questa la

disciplina è la metafisica, come tradizionalmente concepita» 10.

In questo senso, secondo Lowe, la metafisica ha una priorità

concettuale rispetto a ogni altra disciplina (che ha un dominio più

limitato11), ne costituisce lo sfondo concettuale, e fornisce la struttura

all’interno della quale le varie discipline sono pensate e collegate le une

alle altre:

«uno dei ruoli della metafisica, come disciplina intellettuale, è fornire

un forum in cui possono essere affrontate dispute sui confini tra le varie

discipline – per esempio, la controversia sul fatto che l’oggetto di ricerca

di una disciplina scientifica, come la biologia o la psicologia o

l’economia, possa essere incluso in un’altra disciplina scientifica,

presumibilmente più ‘fondamentale’, come la fisica. [...] La metafisica

può occupare questo ruolo interdisciplinare descritto, perché il suo

obiettivo di ricerca principale è la struttura fondamentale della realtà

come un tutto. Nessuna scienza speciale – nemmeno la fisica – può

avere questo obiettivo, perché l’oggetto di ricerca di ogni disciplina

scientifica è identificato in modo più restrittivo»12. MARTINA TAMBASSI, SOFT

Page 55: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

54

La metafisica, inoltre, ha l’obiettivo di indagare e stabilire ‘che cosa

può esserci’ (che cosa è metafisicamente possibile), ed è dunque

strettamente correlata al concetto di possibilità (metafisica), possibilità

che, secondo Lowe, deve essere esplorata (o almeno assunta), prima che

qualsiasi pretesa di verità circa la realtà possa essere legittimata

dall'esperienza. Attraverso l’esperienza, sulla quale si fondano le scienze

empiriche, si potrà poi mostrare quale tra le varie possibilità metafisiche

alternative è plausibilmente vera nella realtà. La metafisica è dunque

preliminare rispetto alle scienze empiriche, in quanto «l’esperienza da

sola non è in grado di determinare ciò che è attuale senza una

delimitazione metafisica del regno del possibile»13. Le scienze empiriche,

invece, dovendo stabilire che cosa è attualmente vero sulla base

dell’esperienza, presuppongono la metafisica14: i contenuti

dell’esperienza, su cui si fondano le scienze empiriche, possono infatti

essere valutati solo alla luce di un quadro più generale che ci indichi cosa

è metafisicamente possibile.

«Dobbiamo riconoscere che, quando un metafisico afferma

l’esistenza di una caratteristica strutturale fondamentale della realtà che

reputa contingente, egli dovrebbe al contempo riconoscere che tale

affermazione deriva, almeno in parte, dall’evidenza empirica. Ma è

importante notare che una tale affermazione non deriva solo

dall’evidenza empirica. Quando un metafisico fa una simile

affermazione, spetta a lui stabilire [...] che l’esistenza di questa

caratteristica è quanto meno possibile. Il punto centrale è che l’evidenza

empirica non può essere la prova dell’esistenza di qualcosa che non è

una caratteristica possibile della realtà. Ma stabilire che l’esistenza di una

determinata caratteristica della realtà è possibile non è un qualcosa che

può essere conseguito con metodi di indagine puramente empirici,

proprio perché l’evidenza empirica può essere solo l’evidenza di uno

stato di cose possibile, indipendentemente da tale evidenza. In questo

senso, la metafisica [...] ha un medoto di indagine di carattere non-

empirico, nella misura in cui è la disciplina intellettuale la cui

preoccupazione è di tracciare le possibilità dell’esistenza reale. La

metafisica si occupa di scoprire ciò che la totalità dell’esistenza potrebbe

abbracciare: vale a dire, quali categorie di entità possono esistere e quali

di esse possono coesistere. Dopo aver tracciato le possibilità, rimarrà la

questione circa quale tra le varie possibilità reciprocamente

incompatibili per caratterizzare la struttura fondamentale della realtà si

ottenga attualmente – e a questa domanda si può rispondere solo, se non

del tutto, con l’aiuto dell’evidenza empirica, e solo attraverso tentativi e

in modo provvisorio»15.

In questo senso, le scienze empiriche possono interagire con la

Page 56: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

55

metafisica per determinare cosa è attuale: in particolare per stabilire se

una determinata posizione metafisica è vera nell’attualità. Dichiarare

dunque che il mondo esibisce una determinata proprietà metafisica sarà

quindi un giudizio a posteriori, dal momento che deve rispondere al

tribunale dell’esperienza. Ma il contenuto del giudizio manterrà sempre

il suo carattere modale esprimendo un’autentica possibilità metafisica:

«questa concezione dello statuto epistemologico degli enunciati della

metafisica, essendo a un tempo modali e a posteriori, è ovviamente

vicino alla posizione di Kripke. Egli sostiene, ad esempio, che alcuni

enunciati di identità e costituzione veri siano metafisicamente necessari

e tuttavia conoscibili solo a posteriori. Ciò che può essere conosciuto a

priori, secondo Kripke, è semplicemente che, se vale l’identità tra due

oggetti a e b, allora essa ha il carattere di una necessità metafisica ma il

fatto che essa valga può essere conosciuto solo a posteriori. Non sono

particolarmente incline ad accettare la posizione di Kripke [...] né

accetto la tesi connessa secondo cui la costituzione originaria di un

oggetto è metafisicamente necessaria. Al contrario concordo con la sua

intuizione che la metafisica abbia a che fare con verità modali e che

possa, tuttavia, fornire risposte a questioni riguardanti l’esistenza attuale

che si configurano come a posteriori»16.

Ammessa dunque a priori la correttezza di un determinato argomento

metafisico e a posteriori la sua interazione con le discipline scientifiche

per stabilire che cosa è attuale, avremo allora motivi, sia a priori che a

posteriori, per affermare la correttezza e l’applicabilità di tale argomento

metafisico al mondo attuale. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che la

metafisica non può dirci che cosa c’è nella realtà se non interagendo con

le discipline scientifiche: in questo senso, per quanto riguarda l’attualità,

la metafisica da sola non può fornirci certezze. D’altra parte, gli stessi

scienziati, secondo Lowe, formulano inevitabilmente assunzioni

metafisiche, sia implicitamente che esplicitamente, nelle costruzioni e

nel controllo delle teorie – assunzioni che sono al di là di quello che la

scienza è in grado di fondare. E queste assunzioni devono essere

esaminate criticamente sia dagli scienziati che dai filosofi: in entrambi i

casi attenendosi ai propri metodi e oggetti di ricerca.

Si può dunque affermare che sia la metafisica che le discipline

scientifiche mirano alla fondazione di una realtà oggettiva. Differiscono

però per il loro atteggiamento riguardo al contenuto dell’esperienza che,

secondo Lowe, ha un ruolo fondamentale nello stabilire come sia

effettivamente fatta la realtà. Per gli scienziati, infatti, l’esperienza è una

sorta di supporto evidenziale per ipotesi esplanatorie, e il suo contenuto

è accettato in modo relativamente acritico, anche se è spesso

Page 57: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

56

interpretato alla luce delle teorie scientifiche prevalenti. Per i metafisici,

invece, il contenuto dell’esperienza, e in particolare i concetti che

servono a strutturare tale contenuto, è esso stesso oggetto di ricerca,

critica e spiegazione sistematica, in base a principi a priori. Una tale

divergenza impone, secondo Lowe, che metafisica e discipline

scientifiche debbano sviluppare un rapporto di reciprocità – rapporto

che l’autore definisce in termini di ‘complementarità’ e ‘cooperazione’ –

in modo tale che la scienza non ignori più l’apriorità dei principi

metafisici, così come la metafisica tenga in conto le costruzioni teoriche,

a posteriori, della ricerca scientifica e dei suoi risultati. Da questo punto

di vista il metafisico non può permettersi di ignorare gli sviluppi della

scienza, ma non può rendersi colpevole di ‘schiavitù’ ideologica rispetto

ai risultati scientifici. Dunque, nel chiedersi ‘che generi di cose

esistono?’, il metafisico deve basarsi sui risultati della scienza e lavorare

criticamente sulle assunzioni e sulla metodologia della riflessione

scientifica, in modo tale da arrivare a una sintesi tra principi metafisici a

priori e costruzioni teoriche scientifiche a posteriori:

«Probabilmente [...] il miglior servizio che la metafisica analitica può

offrire è semplicemente tracciare le possibilità di esistenza e quindi

fornire gli strumenti concettuali con i quali categorizzare il contenuto

del mondo nel miglior modo possibile alla luce dell’esperienza,

assumendo un atteggiamento mentale aperto nei confronti di nuove

evidenze empiriche che possono sopraggiungere in futuro. Dobbiamo,

naturalmente, rivolgerci alla scienza sperimentale per sapere ‘che cosa

c’è’: gli scienziati, tuttavia, possono dirci cosa suppongono ci sia solo

assumendo una qualche categorizzazione delle entità in questione e il

compito di costruzione delle categorie è assegnato in ultima analisi alla

metafisica e non alle scienze empiriche17. La modesta speranza della

metafisica analitica è di poter facilitare il compito della costituzione di

teorie empiriche fornendo una struttura categoriale nella quale collocare

le entità supposte da tali teorie. Una metafisica inadeguata [...] può senza

dubbio intralciare il processo di costruzione delle teorie scientifiche [...].

Poiché ogni studioso formula teorie e congetture basandosi,

inevitabilmente, su alcune presupposizioni metafisiche è meglio che tali

assunzioni siano frutto di riflessione razionale piuttosto che implicite e

non adeguatamente controllate»18.

3. Possibilità metafisica

Dopo aver definito la metafisica come la disciplina che ha l’obiettivo

di indagare e stabilire che cosa può esserci (che cosa è metafisicamente

possibile), ci occupiamo ora della nozione di possibilità che ne è alla

Page 58: Speciale: Pensare la realtà

Pensare la realtà

57

base: la nozione di possibilità metafisica.

Ora, potremmo chiederci: come è possibile stabilire che cosa è

metafisicamente possibile? Secondo Lowe, in quanto esseri razionali,

non possiamo non considerarci capaci di conoscere almeno qualcosa sul

regno della possibilità metafisica: il ragionamento stesso dipende infatti

dalla nostra capacità di comprendere le possibilità, ossia di riconoscere

che un argomento è valido se non è possibile per la conclusione essere

falsa se le premesse sono vere – e un essere razionale può discernere la

validità di almeno alcuni argomenti.

Su questi presupposti, Lowe considera la possibilità metafisica come

una possibilità reale (de re), che riguarda la natura delle cose,

indipendentemente dal nostro modo di pensare e concettualizzare il

mondo, e dal nostro modo di descriverlo19. La possibilità metafisica di

uno stato di cose, per esempio, non è determinata semplicemente

dall’assenza di contraddizione nelle proposizioni utilizzate per

descriverlo (benché, ovviamente, l’assenza di contraddizione sia un

requisito minimale della possibilità metafisica), ma piuttosto dal fatto

che l’esistenza di tale stato di cose è resa possibile da principi e categorie

metafisicamente accettabili. La nozione di stato di cose, come quella di

sostanza, proprietà e così via, è essa stessa una nozione metafisica.

Queste sono considerate da Lowe come nozioni trascendentali: non

derivano cioè dall'esperienza, ma servono per costruire ciò che

l’esperienza ci dice della realtà. Ciò ovviamente non significa che

l’applicabilità di una nozione metafisica alla realtà possa essere

determinata interamente a priori, ma solo che la sua possibile

applicabilità può essere determinata in questo modo. Con un esempio:

«i metafisici hanno dibattuto a lungo sulla possibilità del mutamento

e della realtà del tempo [...]. Si tratta, tuttavia, di questioni né puramente

empiriche né puramente logiche. Il modo in cui dovremmo concepire il

tempo è anch’esso un problema metafisico e cioè se e come la nozione

di tempo debba essere correlata ad altre nozioni metafisiche più

fondamentali. [...] Quello che vorrei sottolineare in questa sede è,

innanzitutto, che queste tematiche possono essere affrontate con una

discussione razionale e, secondariamente, che il tipo di argomentazione

in esame è chiaramente metafisico. Far vedere che il tempo è

metafisicamente possibile non consiste solamente nel dimostrare la

consistenza logica del discorso temporale [...] né nel formulare una

coerente teoria fisica del tempo sulla scorta, ad esempio, della teoria

della relatività di Einstein. Quest’ultima dichiara alcuni principi

fondamentali riguardo al tempo [...] ma il fatto che il suo oggetto sia

proprio il tempo e che, in quanto tale, risulti possibile, sono questioni

metafisiche alla quali nessuna teoria scientifica può dare risposta» 20.

Page 59: Speciale: Pensare la realtà

Quaderni della Ginestra

58

Considerando le nozioni di possibilità e necessità come

interdefinibili, Lowe intende mostrare come la nozione di necessità (e

dunque di possibilità) metafisica non coincida con la nozione di

necessità logica, anche se esiste una nozione di necessità logica

coestensiva con la necessità metafisica21: la necessità logica ampia (o

allargata), cioè la verità in ogni mondo logicamente possibile, ovvero in

ogni mondo in cui valgono le leggi della logica22. Ossia: dato P, se P è

metafisicamente necessario allora non esiste alcun mondo logicamente

possibile nel quale non-P sia vero, anche se è coerente dire che P è

necessario e che non-P è tuttavia possibile – nel senso che la verità di

non-P non è scartata dalle leggi logiche insieme ai concetti non-logici

presenti in P. In molti casi, tuttavia, questo tipo di necessità non è

conoscibile a priori, proprio perché molto spesso non è fondata sulla

logica e sui concetti ma sulla natura delle cose23.

Un esempio di necessità logica ampia potrebbe essere ‘L’acqua è

H20’, anche se si può obiettare che questa proposizione non possa

essere vera in ogni mondo possibile, dal momento che l’acqua non è

presente in tutti i mondi possibili. Una tale obiezione può tuttavia essere

aggirata distinguendo tra necessità forte e debole: una proposizione è

debolmente necessaria (nel senso della necessità logica ampia) solo nel

caso in cui è vera in ogni mondo possibile nel quale le sue espressioni

referenziali non siano vuote.

«Quindi, assumendo che ‘l’acqua è H20’ debba essere analizzato

come un enunciato di identità costituito da due espressioni referenziali

(o nomi), risulterà essere solo debolmente necessario. Notiamo che se

‘l’acqua è H20’ viene analizzato come ‘Per ogni x, x è acqua se e solo se

x è H20’, allora le difficoltà scompaiono immediatamente da sole poiché

‘l’acqua è H20’ diventa banalmente vera in tutti i mondi in cui l’acqua

non esiste (nei mondi, cioè, dove nulla è acqua e quindi nulla è H20).

Ciò che è fondamentale, in ogni caso, è che non è in virtù delle leggi della

logica più sole definizioni che ‘l’acqua è H20’ risulta vera in tutti i mondi

logicamente possibili (o, alternativamente, in tutti i mondi nei quali l e

espressioni referenziali non sono vuote) e pertanto non si tratta né di

una necessità logica assoluta né ristretta»24.

In questo senso, diciamo che ‘l’acqua è H20’ è una necessità logica

ampia, in virtù della natura dell’acqua, non in base alle leggi logiche e

alle definizioni o ai concetti di acqua e di H20. Lowe chiama questo tipo

di necessità con l’aggettivo ‘metafisica’ in quanto il suo fondamento è di

carattere ontologico e non formale o concettuale. Ciò può costituire una

ragione per riservare il termine ‘necessità metafisica’ a quel tipo di

necessità logiche ampie che non sono anche necessità logiche assolute o

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Pensare la realtà

59

ristrette.

«Potremmo legittimamente affermare [...] che è un tratto

caratteristico (anche se non necessario) delle necessità metafisiche il non

essere conoscibili a priori, a differenza con le necessità assolute e

ristrette che sono, invece, tipicamente conoscibili a priori. [...] Definire

‘necessità metafisica’ come sinonimo di ‘necessità logica ampia’ o come

sinonimo di ‘necessità logica ampia che non è né necessità logica

assoluta né ristretta’ è alla fine una questione di gusti. Entrambe le

definizioni andranno bene, se adeguatamente argomentate. Tuttavia, per

questioni di semplicità e per consonanza con altri studiosi, adotterò la

prima opzione. Ma vorrei far notare che benché non abbia problemi ad

ammettere che la necessità metafisica di una proposizione come

‘L’acqua è H20’ (o dello stato di cose che tale proposizione descrive)

non sia conoscibile a priori – dal momento che si basa sulla natura

dell’acqua che non è conoscibile secondo quella modalità – insisto

ancora sul fatto che la sola esperienza non è in grado di determinare

cosa sia attuale in assenza di una delimitazione metafisica del possibile.

Normalmente tale delimitazione fa riferimento alle categorie metafisiche,

che sono completamente conoscibili a priori, a differenza dei generi

naturali come l’acqua»25

TIMOTHY TAMBASSI

1 Ho sviluppato queste riflessioni in T. Tambassi, L’esistenza del reale. Metafisica, sostanza e tempo nella proposta di E.J. Lowe, “Philosophia: E-Journal of Philosophy and Culture”, 6, 2014, http://philosophy-e.com/lesistenza-del-reale-metafisica-sostanza-e-tempo-nella-proposta-di-e-j-lowe/. 2 F. D’Agostini, Recensione: Manuali di metafisica, “2R – Rivista di Recensioni Filosofiche (SWIF)”, 3, 2007, pp. 57-58. 3 E. J. Lowe, The Possibility of Metaphysics: Substance, Identity and Time, Clarendon Press, Oxford 1998, trad. it. La possibilità della metafisica. Sostanza, identità, tempo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, p. 14. A tal proposito va sottolineato come Lowe individui quattro posizioni anti-metafisiche: il relativismo, lo scientismo, il neo-kantismo e il semanticismo. La prima posizione definisce la metafisica come «un prodotto deteriore della tracotanza intellettuale dell’Occidente, ovvero l’illusoria ricerca di un’inesistente verità ‘oggettiva’ e ‘totale’ effettuata secondo i principi della logica a torto considerati eterni e universali», piuttosto che connessi a una determinata situazione culturale. La seconda sostiene che, anche ammessa l’esistenza di un ambito di speculazione metafi-sica, saranno le scienze empiriche a dirci ciò che si può dire su tale ambito. La terza sostiene invece che la metafisica non può dire nulla sulla realtà oggettiva in se stessa, ma si occupa piuttosto di descrivere alcune proprietà necessarie e fondamentali del nostro pensiero sulla realtà. Infine, la quarta sostiene che le questioni metafisiche pos-sano essere risolte con il solo ricorso alla teoria del significato, cfr. E. J. Lowe, La possi-bilità della metafisica, cit., pp. 14-19. 4 E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, Clarendon Press, Oxford 2002. 5 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 5. 6 Lowe tuttavia è restio a fornire una definizione rigorosa di metafisica, la cui impreci-sione potrebbe comportare «il rischio di privilegiare un’impostazione filosofica a di-scapito di un’altra» E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 13. 7 In questo senso, secondo Lowe, è un errore (kantiano) supporre che la metafisica riguardi la struttura dei nostri pensieri sulla realtà, piuttosto che la realtà stessa: «È vero […] che noi possiamo solo parlare razionalmente circa la natura dell’essere, in quanto siamo in grado di pensieri su cosa vi sia o su cosa vi possa essere nel mondo. Ma ciò non significa che dobbiamo sostituire lo studio del nostro pensiero sulle cose allo studio delle cose stesse. I nostri pensieri non costituiscono infatti un velo o una tenda interposti tra noi e le cose alle quali cerchiamo di pensare, e che in qualche modo ce le rende inaccessibili o imperscrutabili. Al contrario, le cose sono accessibili a noi proprio perché siamo in grado di pensarle. E le cose a cui pensiamo non collassano nei

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pensieri che abbiamo di esse» E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, cit., p. 14. 8 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 42. 9 Lowe considera la nozione di verità come primitiva e indefinibile, e così come per altre nozioni è restio a fornirne una definizione esaustiva, pur riconoscendole un ruolo ineliminabile nell’attività intellettuale. La mancanza di una definizione non gli impedisce tuttavia di considerarla come unica e indivisibile (alethic monism) e di opporsi a varie visioni relativiste che considerano la verità stessa come molteplice o relativa a un soggetto conoscente. Per un approfondimento della posizione di Lowe sul concetto di verità si veda: E. J. Lowe, The Four-Category Ontology: A Metaphysical Foundation for Natural Science, Clarendon Press, Oxford 2006, pp. 177-210. 10 E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, cit., p. 3. In questo senso, secondo Lowe, la meta-fisica va intesa come una disciplina autonoma di carattere razionale, e ogni cosa, inclusi lo status e le credenziali della metafisica stessa, è oggetto di indagine metafisica. 11 Dalla metafisica otteniamo inoltre risposte a questioni concernenti le strutture fon-damentali della realtà, questioni più fondamentali di quelle affrontate dalle discipline scientifiche, che si occupano di indagare solo parti specifiche della realtà. 12 E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, cit., pp. 2-3. 13 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 22. 14 Lowe non ritiene però necessario distinguere con precisione assoluta gli argomenti a carattere metafisico e i problemi scientifici altamente teorici: tracciare un confine non è utile e non è richiesto per sostenere «che l’oggetto della metafisica è sufficientemente differenziato da costituire un nucleo tematico di una disciplina relativamente indipen-dente» E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 13. 15 E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, cit., pp. 10-11. 16 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., pp. 41-42. 17 In altre parole: «la metafisica fornisce le categorie, ma il modo migliore per applicarle nella costruzione di specifiche teorie scientifiche è una questione che è meglio lasciare agli scienziati stessi, a condizione che rispettino i vincoli che la cornice categoriale impone» E. J. Lowe, The Four-Category Ontology, cit., p. 19. 18 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 124. 19 Cfr. E. J. Lowe, A Survey of Metaphysics, cit., pp. 11-13. 20 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., pp. 26-27. 21 La posizione di Lowe su questo punto è molto vicina alle tesi di Platinga e Forbes, cfr. A. Plantinga, The Nature of Necessity, Clarendon Press, Oxford 1974; G. Forbes, The Metaphysics of Modality, Clarendon Press, Oxford 1985.

22 E. J. Lowe, La possibilità della metafisica, cit., p. 29. 23 Ibidem, cit. pp. 38-39. 24 Ibidem, cit. p. 30. 25 Ibidem, cit. pp. 31-32.

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Gli autori

Daniela Bandiera ha conseguito nel 2009 la laurea specialistica in Filosofia presso l’Università degli Studi di Parma ed nel 2013 ha terminato il dottorato di ricerca in Filosofia Teoretica e Pratica presso l’Università degli Studi di Padova, presentando una dissertazione dal titolo Tra corporeità, spazialità e immaginazione: forme dell’empatia in

Husserl. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il dilemma morale nei Lineamenti di etica formale di Husserl (in Dilemmi morali, a cura di A. Da Re e A. Ponchio, Il Melangolo, Padova 2011) e Vivere è sentire: fenomenologia della sensibilità in due recenti saggi di Vincenzo Costa (in «Archivio di storia della cultura», (25), 2012).

Antonio Freddi, dopo una prima laurea magistrale in Ingegneria, si è laureato con lode in Filosofia presso l’Università degli studi di Parma. Ha successivament e conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro” dove è cultore della materia per Storia della Filosofia Moderna

e Contemporanea. Oltre a collaborare con l’Accademia Cattolica di Brescia a un progetto di ricerca relativo all’intercultural ità, attualmente sta frequentando il master di

secondo livello “International Politics” presso l’Università di Bologna. Alla fine del 2012 ha pubblicato con l’editore Aracne il testo Nietzsche e il prospettivismo: interpretazioni e influenze nella filosofia americana contemporanea; la sua eclettica attività di ricerca in ambito filosofico è testimoniata da vari saggi brevi e articoli su R. Rorty, D.

Davidson, M. Foucault, E. Tugendhat, A. Feenberg, H. Frankfurt, Platone, postmodernismo, individualismo, interculturalismo, democrazia, scetticismo e filosofia dell’arte (per gli editori Limina Mentis e Morcelliana e nelle riviste «Rivista di storia della Filosofia», «Intersezioni», «La società degli individui», «Humanitas», «Exibart»,

«Quaderni della Ginestra» e «Dialegesthai»).

Lucia Mancini è nata a Massa il 21 dicembre 1984. Dopo la laurea special istica in Teorie filosofiche, ha conseguito nel 2009 il diploma per la classe di scienze umane

presso l’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. Negli anni universitari ha studiato in particolar modo lo storic ismo tedesco, il marxismo italiano e

l’illuminismo napoletano. Nel 2012 ha terminato il ciclo di dottorato in filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia d iscutendo una tesi dal titolo “Per un’introduzione alle tre serie di Appunti di filosofia dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci”. Da due anni lavora come redattrice.

Giacomo Miranda ha compiuto gli studi presso l’Università degli Studi di Parma addottorandosi nel 2012 con una Tesi sul tardo cartesianesimo olandese. Ha

collaborato con la «Società degli Individui» e fa parte del comitato redazionale dei «Quaderni della Ginestra». Autore di curatele, l’ultima in ordine di tempo è l a

traduzione, in collaborazione con Leonardo Allodi, di Dio e il mondo, autobiografia del filosofo tedesco Robert Spaemann.

Timothy Tambassi è Assegnista di Ricerca presso il dipartimento di Studi Umanistici dell ’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” per il progetto

Geolat – Geografia per la letteratura latina. Ha studiato nelle università di Parma e Verona e svolto attività di studio e ricerca presso la Durham University. I suoi interessi di ricerca comprendono: la metafisica, la filosofia della mente, la filosofia politica e l’ontologia formale e della geografia. Oltre a una serie di saggi pubblicati su

riviste scientifiche nazionali e internazionali, è autore delle monografie Il rompicapo della realtà. Metafisica, ontologia e filosofia della mente in E.J. Lowe (Milano-Udine, 2014) e Relativamente possibile (Gaeta, 2014). Ha curato (con G. Miranda) Percorsi nella soggettività (Parma, 2013).

Cristina Travanini si è laureata all'Università degli Studi di Parma e ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Scuola Superiore di Studi in Filosofia, Università di Roma Tor Vergata, con una tesi dal titolo “Oggetto e valore. Prove di parallel ismi tra teoria del valore e teoria dell’oggetto in Alexius Meinong”.

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Immagini di:

Matteo Cetterelli

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Andrea Marchese

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Martina Tambassi

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