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Per i cattolici lo spazio del riformismo democratico Raffaele Cananzi pag. 3 La “questione sociale” e le sfide antropologiche Stefano Ceccanti pag. 7 La doppia appartenenza del laico cattolico Rosanna Virgili pag. 9 editoriale di pag. 2 La povertà è davvero un “destino”? Pierre Carniti CRISTIANO SOCIALI NEWS - QUINDICINALE DEL MOVIMENTO DEI CRISTIANO-SOCIALI - Poste italiane spa - spedizione inA.P. D.L. 353/2003 (conv. L. 27/02/2004 n° 46) art.1, DCB - Roma “La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250”. Birmania: riflettori accessi (segue a pag. 13) per un’Italia solidale S ono solo due mesi che la Birmania è sotto gli occhi del mondo. Due mesi che sono quasi secoli, per co- loro che hanno lanciato la pericolosa sfida alla giunta militare birmana. Due mesi che rappresentano anni di lavoro sotterraneo, faticoso, rischioso per le migliaia di oppositori che sono raccolti nel sindacato birmano e nel- le organizzazioni democratiche delle donne, degli stu- denti, delle nazionalità etniche, dei buddisti,dei mussul- mani. Anni difficili e veri, quelli che sono trascorsi dalle grandi e ignorate manifestazioni del 1988, anni che han- no portato alle uniche elezioni democratiche del 1990, che la giunta militare ha ignorato, arrestando buona par- te dei parlamentari democraticamente eletti e mantenen- do agli arresti domiciliari ormai da 12 anni la l’eroina più nota della Birmania: la Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Anni che hanno visto crescere espo- nenzialmente il lavoro forzato, riempire le prigioni di dis- 24 ottobre 2007 Anno XI - Numero 15 - 2 24 ottobre 2007 Anno XI - Numero 15 - 2 di Cecilia Brighi speciale assisi

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Per i cattolici lo spaziodel riformismo democratico

Raffaele Cananzi

pag. 3

La “questione sociale”e le sfide antropologiche

Stefano Ceccantipag. 7

La doppia appartenenzadel laico cattolico

Rosanna Virgilipag. 9

editoriale di pag. 2

La povertà è davveroun “destino”?

Pierre Carniti

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Birmania: riflettori accessi

(segue a pag. 13)

per un’Italia solidale

S ono solo due mesi che la Birmania è sotto gli occhidel mondo. Due mesi che sono quasi secoli, per co-

loro che hanno lanciato la pericolosa sfida alla giuntamilitare birmana. Due mesi che rappresentano anni dilavoro sotterraneo, faticoso, rischioso per le migliaia dioppositori che sono raccolti nel sindacato birmano e nel-le organizzazioni democratiche delle donne, degli stu-denti, delle nazionalità etniche, dei buddisti,dei mussul-mani. Anni difficili e veri, quelli che sono trascorsi dallegrandi e ignorate manifestazioni del 1988, anni che han-no portato alle uniche elezioni democratiche del 1990,che la giunta militare ha ignorato, arrestando buona par-te dei parlamentari democraticamente eletti e mantenen-do agli arresti domiciliari ormai da 12 anni la l’eroinapiù nota della Birmania: la Premio Nobel per la PaceAung San Suu Kyi. Anni che hanno visto crescere espo-nenzialmente il lavoro forzato, riempire le prigioni di dis-

24 ottobre 2007Anno XI - Numero 15 - € 224 ottobre 2007

Anno XI - Numero 15 - € 2

di Cecilia Brighi

speciale assisi

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(segue a pag. 12)

editorialieditoriali La povertà è davveroun “destino”?

C he dire degli ultimi dati sulla “povertà re-lativa” che l’Istat, dopo un ingiustificato le-

targo, ha finalmente deciso di tornare a misu-rare? La prima cosa da rilevare è che i poveristanno fuori dalla “moda” politica. Al puntoche, malgrado qualche marginale eccezione,non costituiscono argomento di dibattito pub-blico. Infatti i dati Istat sono passati come ac-qua fresca. Nell’indifferenza pressoché gene-rale. Le spiegazioni per questa afasia possonoessere varie. Stando allo spazio che giornali etelevisioni dedicano al cibo, alla tavola, alle re-gole alimentari, alla cura del corpo, sono in-dotto a pensare che la maggioranza degli ita-liani ritengano che la nostra sia ormai diven-tata la “società della dieta”. Purtroppo però an-che nella “società della dieta” restano molti,troppi quelli che hanno fame. Tuttavia, essi nonfanno notizia. Come mai?A mio avviso, stiamo scontando il fatto che ne-gli ultimi decenni si è verificato un significati-vo cambiamento culturale e politico nell’ap-proccio alla questione della “giustizia socia-le”. Mi riferisco in particolare: alla crescenteespansione dell’individualismo, con il conse-guente affievolirsi della determinazione a tra-durre in azione politica il valore della solida-rietà; al fascino esercitato dalle ricette “liberi-ste” su una parte consistente della cultura e de-gli uomini politici; alla crescente attenzione ver-so i ceti medi, motivata dal timore di perder-ne il consenso; all’aumento delle disugua-glianze in molti paesi (a cominciare dagli Sta-ti Uniti), generalmente interpretato dalla vul-gata mediatica come un indicatore di dinami-smo economico e sociale e, dunque, un fatto-re di successo. Mentre esso era soprattutto l’ef-fetto di spregiudicate ed arrembanti specula-zioni finanziarie e di un grave affievolimentodell’etica pubblica. Come, del resto, hannoconfermato i numerosi scandali societari degliultimi anni. C’è poi da considerare una ragioneantropologica. In una società che esalta i

consumi superflui, il successo, la notorietà ef-fimera, che antepone l’apparire all’essere, lapovertà e la fame tendono ad essere nascoste.Persino da chi è costretto a subirle. Questo pro-babilmente spiega (anche se non giustifica af-fatto) perché la povertà non riesce ad assu-mere rilievo politico. Il risultato, comunque, èche essa non è percepita come un problemache riguardi l’intera società. Ma è considera-to, di fatto, un problema dei poveri.La conferma ci viene appunto dal rapportoIstat sulla “povertà relativa” in Italia nel 2006.L’istituto centrale di statistica ci dice infatti chedal 2002 (cioè da quattro anni) i numeri del-la povertà “sono rimasti sostanzialmente ugua-li, così come sono rimaste immutate le princi-pali caratteristiche delle famiglie in condizio-ni di povertà”. Tradotto significa che i poverisono rimasti poveri. Significa anche che, sfron-date tutte le chiacchiere inutili, in Italia nonesiste alcuna mobilità sociale. Il dato è parti-colarmente allarmante. Perché vuol dire chela povertà non più una condizione nella qua-le si può cadere (in rapporto alle circostanzedella vita), ma dalla quale si può anche usci-re (aiutati da efficaci politiche di contrasto).Essa si è infatti tramutata in una sorta di “de-stino”. Un destino segnato dal luogo in cui sinasce, dalla famiglia a cui si appartiene, dalgruppo sociale da cui si proviene.La constatazione è assai preoccupante e sem-brerebbe lecito attendersi una appropriatareazione. Anche per la buona ragione chenon stiamo parlando di un gruppetto limitatodi persone. Parliamo invece di 2.623.000 fa-miglie. Vale a dire l’11,1 di quelle residenti.Parliamo di oltre sette milioni e mezzo di per-sone. Per l’esattezza 7.537.000, pari al 12,9per cento dell’intera popolazione. Ad esse oc-corre poi aggiungere che quasi altri due mi-lioni di famiglie sono in condizioni di indi-genza (e comunque di grandissima difficoltà

di Pierre Carniti

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R ingrazio per l’invito particolarmente gradito per un convegno digrande interesse in un momento difficile della vita del Paese .

Ho molto apprezzato la relazione di Mimmo Lucà, ampia e bella, nellaquale sono molti i motivi di riflessione sul Partito Democratico e sull’at-teggiamento dei cattolici circa la nascita di questa realtà nel panoramadella politica e dell’antipolitica italiana.Dico con franchezza che ottica e contenuti della riflessione cattolica oggiin Italia mi suscitano non poche perplessità. È un’ottica che certamentesegna un ritorno al passato, un antico passato; non tanto antico, però,da ritornare allo spirito e ai contenuti espressi dall’ignoto autore dellalettera a Diogneto nel II secolo d. C. L’accostamento è quello ad un pas-sato più recente: il tempo della vigenza del “non expedit”, cioè della nonconvenienza dell’impegno dei cattolici oggi, in particolare,nel nascen-te Partito Democratico. Sembra, quasi, di ritornare a profili della que-stione fra intransigenti e clerico-moderati, all’opposizione verso lademocrazia cristiana di Murri e, passando per il patto Gentiloni, allegrandi perplessità sulla nascita del Partito Popolare di Luigi Sturzo.E tutto questo non solo nell’oblio della lettera a Diogneto ma nella assaipoca dimestichezza con importanti eventi del secolo scorso fra i qualiha grande preminenza il Concilio Vaticano II. Se non ci fosse stata in Italia e in Europa la riflessione sturziana e l’e-sperienza storica del Ppi; se non ci fosse stata la riflessione di largo respi-ro di Maritain sull’umanesimo cristiano e di Mounier sul personalismocomunitario; se non ci fosse stata, nella drammatica ricostruzione delPaese e nella complessa redazione della Costituzione fondativa dellanostra Repubblica democratica, l’esperienza di Alcide De Gasperi e diquel gruppo di cattolici che, anche da sponde diverse, ne affermavanoin concreto la lucidità e lungimiranza; se non ci fosse stata la riflessioneteologica sui laici e sul laicato nella vita della Chiesa del Congar e dialtri teologi; se non ci fosse stata la chiara impostazione del rapportoazione cattolica-azione politica ben espressa da Lazzati nel 1948 innetta polemica con Gedda; se non ci fosse stato tutto questo sul pianodella riflessione e del vissuto storico si potrebbe dire che, sul tema checi riguarda (fede e storia, Chiesa e Stato, cattolici e impegno politico),il Concilio abbia offerto un insegnamento nuovo e quasi rivoluzionario.In realtà il Concilio ha dottrinalmente teorizzato e pastoralmente inse-gnato, razionalizzando e universalizzando, quanto veniva da questaricca riflessione ed esperienza concretamente vissuta dai cattolici ita-liani ed europei. Non è questa la sede per riportare, neppure nell’essenziale, il chiarodettato conciliare, espresso non solo nella Gaudium et spes ma anchenelle altre costituzioni e, per profili particolari, in decreti e dichiarazio-ni. Qui, al fine di rimarcare come il dibattito contemporaneo nel mondo

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Per i cattolici lo spaziodel riformismo democratico

Da alcune parti del mondo cattolico si insiste nel parlare di una pregiudiziale impossibilità di militare nel Partito Democratico. Si tratta di un grave errorecome giudizio storico, come giudizio politico e come prospettiva d’impegno

speciale assisispeciale assisi

di Raffaele Cananzi

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cattolico sia lontano dal Concilio, mi bastarichiamare l’applicazione che del Concilio faPaolo VI in quell’intramontabile esortazioneapostolica che è la Evangelii Nuntiandi, doveal n. 20 il Papa, che consentì l’approdo delConcilio, così scrive: “Il Vangelo, e quindi l’e-vangelizzazione, non si identificano certo conla cultura, e sono indipendenti rispetto a tuttele culture. Tuttavia il Regno, che il Vangeloannunzia, è vissuto da uomini profondamentelegati alla cultura, e la costruzione del Regnonon può non avvalersi degli elementi della cul-tura e delle culture umane. Indipendenti difronte alle culture, il Vangelo e l’evangelizza-zione non sono necessariamente incompatibi-li con esse, ma capaci di impregnarle tutte,senza asservirsi ad alcuna”. Ora nella visioneuniversale propria della cattolicità, connotareuna cultura come “cattolica” è già fuori dallospirito conciliare. L’ispirazione evangelica,infatti, può animarevarie culture. L’unità dei credenti è nelVangelo, nella fede; non nella cultura.L’identità cattolica è nella fede e nella moraleche la Chiesa insegna. Anche nell’ambito cat-tolico, pur restando profonda l’ispirazioneevangelica, può ben sussistere un pluralismoculturale. Il progetto culturale della Chiesa ita-liana, portato avanti dal convegno diPalermo, è un itinerario per maggiori conver-genze che si rifanno alla stessa ispirazione mache ben possono provenire da linee di pen-siero e di azione diverse.Mi sembra perciò fuori discussione che i catto-lici possano respirare ed esprimere culturediverse; se esiste un pluralismo culturale amaggior ragione esiste un pluralismo sul pianodei principi e delle scelte politiche che sonoeminentemente realtà storiche volte ad attuareil bene comune oggi possibile.Se si approfondisse il tema circa la reale inci-denza di una cultura cristianamente ispiratanell’ambito politico della destra italiana (ForzaItalia, Alleanza Nazionale e Lega) sul pianodei programmi e delle scelte concrete, non soquale sarebbe la conclusione. Per meglio dire,ho una opinione negativa precisa ma qui nonmi interessa motivarla.Se si approfondisse il tema circa la reale inci-denza di una cultura cristianamente ispiratanelle cosiddette forze di centro (Udc e Udeur)si potrebbe forse ammettere che l’incidenza èsul piano dei programmi ma non certamente

su quello dei comportamenti concreti e dellescelte politiche quotidiane.In questo quadro ciò di cui non riesco a ren-dermi conto è perché da alcune parti delmondo cattolico si insista nel dire di una quasipregiudiziale impossibilità per i cattolici dimilitare nel nascente Partito Democratico..A mio modesto avviso si tratta di un grave erro-re come giudizio storico, come giudizio politi-co e come prospettiva d’impegno.V’è, infatti, una indiscutibile legittimazione diadesione dei cattolici ad un partito che trovaoggi la sua ragione di essere non tanto persuperare la pur nefasta frammentazione par-titica o per ricercare un serio bipolarismo o pergarantire una solida governabilità quantopiuttosto per rigenerare la politica e l’agirepolitico nel segno di una più alta speranza digiustizia e nella visione del futuro con i suoi nonpochi complessi problemi. Un partito cheintende aprire una pagina ancora inedita nellapolitica italiana costruendo non la già vistaRepubblica dei partiti ma provando a porre inatto mezzi e strumenti per edificare unaRepubblica dei cittadini che contano effettiva-mente e non solo al momento del voto (che,comunque, deve essere “a suffragio universa-le” ma anche “diretto”) attraverso processi didemocratica partecipazione e non per formedi succubi acquisizioni clientelari. Un partitoche, pur giovandosi del metodo della modera-zione, non ha nulla da spartire con il modera-tismo ma intende essere riformatore e, dunque,capace di programmare e realizzare tutti queicambiamenti necessari secondo lo spirito e lalettera dei nostri valori costituzionali. Un parti-to, perciò, sinceramente democratico nel sensodi applicare al suo interno il metodo democra-tico, garantito da regole sempre rispettate nonsolo formalmente ma anche sostanzialmente,e nel senso di voler contribuire allo sviluppo diuna democrazia matura sotto il profilo dellaqualità e dell’equilibrio armonico delle istitu-zioni nonché di una reale e viva partecipazio-ne dei cittadini. Un partito aperto perché vuolesempre più allargare questa partecipazioneattraverso un motivato consenso e non perspinte generate da favori e privilegi (clientes etconsulentes). Un partito plurale per la ricchez-za delle culture che in esso convergono, cultu-re di ispirazione cattolica, socialista, liberale eambientalista che hanno costituito le fonda-menta dell’edificio costituzionale. Un partito,

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perciò, laico senza preclusioni laiciste e senzafondamentalismi religiosi. Un partito pro-grammatico e non ideologico perché, pur ali-mentato da alti ideali conseguenti alle cultureispirative, non cerca sintesi culturali né com-plessivi sistemi di pensiero per dare risposte aiperenni e universali problemi dell’uomo e del-l’umanità, ma si muove sul più modesto ma ine-ludibile piano della sintesi politica e, dunque,della stesura di un programma di partito chenel tempo, con il metodo della gradualità edelle priorità, s’invera in programma di gover-no. Non si tratta di contaminare le culture madi mediare sintesi condivise sul piano politico.Rispetto ad un partito che abbia queste carat-teristiche – che sono, peraltro, quelle condivi-se dalle formazioni politiche che hanno pro-clamato il proprio autoscioglimento nonchéespresse da quella parte di cittadini chedichiara di aderire alla nuova formazionepolitica – non è dato capire per quale ragio-ne debba mettersi in forse o ci si debba pre-giudizialmente chiudere rispetto ad una par-tecipazione dei cattolici, assumendone laloro marginalità. Forse perché si ritiene che icosiddetti valori non negoziabili non possa-no trovare una adeguata collocazione nelprogramma del partito. Questo, in linea diprincipio, non è vero. Tutte le culture chehanno dato vita alla Costituzione repubblica-na accolgono la tutela degli inviolabili dirittidell’uomo, garantiscono lo sviluppo nelladignità e nella libertà della persona umana,promuovono la famiglia legittima, il lavoro ei diritti sociali. Certo le interpretazioni nellescelte concrete non sono univoche. Ma la stes-sa cosa accade in tutte le formazioni politicheplurali. Ed oggi sotto il profilo dei valori nonnegoziabili tutte le formazioni politiche sonoplurali, nonostante a parole, ma solo a paro-le, ci si sforzi a dire il contrario. Consentitemi un ricordo personale e mi avvioa concludere.Quando discutemmo in aula alla Camera ildisegno di legge sulla fecondazione assistitaritenni utile ed opportuno dichiarare la miaidentità cattolica e soggiungere che gli argo-menti oggetto della legge ostavano in principiocon la mia personale visione morale. Aggiunsisubito, però, che come rappresentante delpopolo italiano non potevo negare nel far westprocreatico la necessità di una legge nel nostroPaese e, dunque, anche il mio personale

impegno a costruire con tutti la migliore leggepossibile tenendo conto, per quanto mi riguar-dava personalmente, dei principi e dei valoriche mi stavano particolarmente a cuore.Dall’esercizio della “ragionevole ragione” e,dunque da un dialogo laico sostenuto dai prin-cipi della Costituzione con tutte le forze politi-che è nata quella che è poi diventata la legge40. L’esercizio di una laicità, sanamente intesada tutti, anche all’interno del PartitoDemocratico dovrà indurre ad affrontare queiproblemi eticamente sensibili che hanno biso-gno di una regolamentazione legislativa – esolo quelli – evitando che tali questioni venga-no poi trasferite nei programmi di Governo.Sono problemi che vanno lasciati alla respon-sabilità delle Camere rappresentative e suiquali un partito non può che dare un indirizzoe non pretendere discipline di partito; sono,infatti, problemi in cui si deve esprimere lapiena responsabilità di ciascun parlamentarecome rappresentante del popolo e come per-sona che esplica in pienezza scienza e coscien-za senza vincoli di alcun tipo. All’interno dellavita di un partito plurale e democratico solo undialogo franco, aperto e coraggioso, nel reci-proco rispetto e in piena onestà intellettuale,può generare indirizzi e proposte veramenteutili al bene delle persone e del Paese.La mia personale convinzione è che nei con-fronti del partito che sta per nascere siano privedi senso chiusure pregiudiziali e anche diffi-denze infondate. Va, invece, tenuto presente cheil Partito Democratico sarà anche un partito per-sonalista e solidarista nella misura in cui i catto-lici democratici (sociali, liberali, comunqueriformisti secondo la tradizione del cattolicesimodemocratico) sapranno parteciparvi animan-dolo e fermentandolo. Un grande partito ha cer-tamente da guadagnare, sotto il profilo del rin-novamento dell’architettura democratica dellaRepubblica e della realizzazione del benecomune nel Paese, dalla attiva presenza didonne e uomini di culture cristianamente ispira-te. L’emarginazione dei cattolici dal PartitoDemocratico dipenderà essenzialmente dai cat-tolici stessi se rinunzieranno a coprire uno spa-zio politico del riformismo democratico che aloroècertamente congeniale, per principi evan-gelici e per tradizioni politiche, e dal qualepotranno svolgere un’azione sicuramente inci-siva per lo sviluppo del Paese.

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È possibile coniugare nella politica odiernauna forte attenzione alla questione socia-

le e alle sfide antropologiche? La spinta sem-bra essere divaricante: la questione socialesembra portare a sinistra, le sfide antropolo-giche a destra. A prima vista c’è una soluzio-ne semplice: riproporre il mito del centro, uni-co luogo in cui la conciliazione degli oppostisembrerebbe possibile. A prescindere dal fat-to che di centri potrebbero essercene molti, al-cuni dei quali in grado di effettuare anche lasintesi opposta, aliena sia da una reale sensi-bilità alla questione sociale sia alle sfide an-tropologiche, è evidente che qui ci troviamo difronte all’ennesima riproposizione di una no-stalgia. Ma, per dirla con Mounier, “Non è conle audacie dei nostri nonni che noi risponde-remo alle angosce dei nostri figli”. Lo stessoMounier nel 1950 segnalava l’importanza del-la promessa di unità dei riformisti che si eraavuta “in Francia e in Italia” con la Resisten-za e che si era poi interrotta per il legame conl’Urss (“incondizionata idolatria”) dei due par-titi comunisti. Mounier proponeva di “ripen-sare interamente al problema della sinistra noncomunista” nella logica dell’unità dei riformi-sti evitando tre derive ben sperimentate: l’”an-ticomunismo sistematico” che avrebbe condottoa una subalternità al conservatorismo politico,il “laburismo eclettico”, cioè la velleità minori-taria di voler “rifare il socialismo al livello dicenacoli” e il “criptocomunismo”. È per que-sto che non vediamo l’appuntamento col Par-tito Democratico come la caduta da una miti-ca età dell’oro (come per altri è invece anco-ra il richiamo all’unità politica dei cattolici especularmente all’unità ideologica della sini-stra), ma come il raggiungimento di quellaidentità comune dei riformisti che abbiamo vi-sto balenare in alcuni momenti (la linea di frat-tura tra Zaccagnini e Forlani al congressoDc del 1976 e specularmente quella tra Oc-chetto e i suoi oppositori al momento dello

scioglimento del Pci). A partire da un itinera-rio convergente lo ha detto con chiarezza Wal-ter Veltroni, aprendo l’introduzione del suo vo-lume “La nuova stagione”: con il 1989 vienemeno “l’egemonia comunista sulla sinistra…(che) aveva precluso alla sinistra stessa la viadel governo, rendendo impossibile l’alternan-za e il ricambio alla guida del paese.. co-stringendo il pluralismo culturale, sociale e po-litico del movimento cattolico italiano dentrolo schema dell’unità politica nella Democraziacristiana”. Superato quell’ostacolo della diva-ricazione della guerra fredda, che a lungo hafatto aggio sul comune impegno contro l’in-giustizia, se ne deve aprire per forza un altro,quello delle questioni antropologiche? Sareb-be esso a costituire oggi la pietra d’inciampodel futuro Pd, come sostengono alcuni settoridel mondo cattolico e altri della sinistra? Noncrediamo affatto che il compito sia impossibi-le. Anzitutto occorre criticare sul primo dei dueversanti, quello dell’ambito ecclesiale, a par-tire da categorie e riflessioni già in esso pre-senti, il semplicismo della identificazione diprincipi non negoziabili sulle questioni antro-

La “questione sociale” e le sfide antropologiche

di Stefano Ceccanti

L’appuntamentocol PartitoDemocratico non è la cadutada una miticaetà dell’oro ma il raggiungimentodi quella identitàcomune dei riformisti che si è vistabalenarein alcuni momenti dellastoria del Paese

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pologiche con una serie di veti e di proibizio-ni. Quasi che l’invito del Vangelo di Matteo 5,37 “Il vostro parlare sia Sì, Sì, No, No”, invi-to alla coerenza personale, divenissi senza me-diazioni “Il vostro decidere per tutti sia Sì, Sì,No, No”. Specularmente sul versante del Pdai portatori di culture politiche non provenientidall’area cattolica va ricordato, a partire daelaborazioni laiche, quanto scrive Augusto Bar-bera, secondo il quale, nonostante l’imposta-zione personalista e solidarista della PrimaParte della Costituzione, “la scienza giuridicaitaliana... rimane spesso ferma ad una inter-pretazione radicale delle libertà individua-li…mentre aiuterebbe una concezione dell’in-dividuo come persona capace di un agire fi-nalizzato, cui spetta una libertà per” e non so-lo una “libertà da”. A ragione Zagrebelsky harichiamato il fatto che alcune appartenenzeparziali, religiose ma anche secolari, se inter-pretate in chiave fondamentalista, possono mi-nare la lealtà ai principi della sfera pubbli-ca. A Zagrebelsky va comunque segnalato

che anche un certo fondamentalismo indivi-dualista indebolisce il terreno culturale su cuipoggiano tal principi, che alle esperienze re-ligiose occorre rivolgersi come a delle risorseprima che a cause di rischio e ancor più va ri-marcato il fatto che non appare casuale che ilsistema di doppia fedeltà a Dio e Cesare, incui Cesare non è Dio né un’alternativa diabo-lica a Dio, sia maturato nello spazio feconda-to con particolare incidenza dal cristianesimo.L’apertura del Concilio Vaticano II di cui par-la Zagrebelsky non si inserisce come un epi-sodio improvviso e inatteso, ma come il per-fezionamento di dinamiche profonde spiritua-li e politiche, certo non esenti da conflitti e con-traddizioni. Con queste consapevolezze po-tremo quindi, grazie al Pd, trovare insieme ri-sposte nuove a problemi nuovi, applicabilialle sfide antropologiche dell’oggi, smen-tendo coloro che, dopo che sono caduti i Mu-ri, danno per scontato che esse tendano acostituire dei muri ancora più spessi di quel-li del passato.

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S ulla scia del IV Convegno Ecclesiale di Vero-na proporrò una meditazione sul laico cat-

tolico che vive la sua “doppia appartenenza” al-la città dell’uomo e alla città di Dio:a) verso la Chiesa: “Egli sta nella Chiesa in modoadulto, con coscienza libera e matura, né dipen-dente dai Pastori né in contrapposizione con essi”;b) verso la società civile: che vive il suo impegnosecolare come modo significativo e necessarioper adempiere alla missione della Chiesa.La condizione del laico credente: lo rende parte-cipe di tante tensioni e di tanti interrogativi; loespone a una ricerca inquieta circa i modi di in-terpretare da cristiani la vita, ma lo coinvolge inun’avventura umana intensa e appassionante.

LAICI E CHIESA

Laicità, ubbidienza e servizioNella accezione moderna più comune, infatti,“laico” vuol dire sciolto da qualsiasi ubbidienzase non da quella verso se stesso e la propria co-scienza. Il laico – inteso come il non credente, l’a-teo, l’agnostico – ha un determinato concetto dilibertà che è il seguente: fare tutto ciò che si cre-de, che si desidera e si ritiene opportuno fino ache non si lede la libertà dell’altro. In questo ca-so, dunque, la presenza di un altro, di qualcunofuori del sé ha soltanto una funzione negativa:serve a delimitare il campo d’azione dell’io e nul-la più.È possibile allora: essere laici ( per “laico” si in-tende non l’uomo che non confessa alcun credo,ma il cristiano battezzato non ordinato, fuori dalclero) e “servire” la Chiesa? “Addomesticare” iltermine “laico”, cioè di vedere se sia possibilepiegarlo, coniugarlo al verbo “ubbidire” o “ser-vire”? Egli deve servire le comunità cui effettiva-mente appartiene: La Chiesa e la società civile.Non appartiene a se stesso. Non è un atomo im-pazzito né perduto, non è un figlio di nessuno.Dentro questo “servire”, c’è, dunque, una con-cezione dell’uomo ed anche dell’essere laico.

Il laico credente è un tale che sente di essere par-te di un tessuto di vita, di affetti, di sentimenti. Digiocare l’esistenza in un economia di contatti,confronti, condivisioni, in uno spirito di collabo-razione, solidarietà e comunione, bene comune.Non ha la percezione di sé come di qualcuno cuitutto “gira intorno” oppure più drammaticamen-te di uno che “sta solo sul cuor della terra…”. Eglisi sente in compagnia, legata da sentimenti del-l’amore, di fratelli, compagni, amici che si pren-dono cura di lui, come lui si prende cura di loro,specialmente nei momenti della tristezza, del do-lore e del bisogno, si sente parte di un progettodi vita comune. Ciò che è degli altri interessa la persona del cri-stiano l’esistenza del quale non può prescindereda loro. Pertanto il laico cristiano non “servirà”una legge, né una dottrina, né un ideale moralenella Chiesa, ma servirà solo quella comunionedi persone cui appartiene la sua vita e dentro laquale egli sviluppa e fa crescere se stesso all’in-terno del Corpo mistico di Cristo. All’interno diuna realtà che è umana ma, allo stesso tempo di-vina, che si fa specchio della Presenza di Dio nelmondo.Poste queste premesse teoriche passiamo ad ana-lizzare le situazioni pratiche della laicità cristiana.

Il laico vive nella Chiesa in modo adultoQuesto manifesto programmatico è perfetto. Manon so se denunci più un auspicio che una real-tà effettiva. Magari tutte e due queste cose. Direche il laico vive nella Chiesa in modo adulto concoscienza libera e matura come se fosse la regi-strazione di una realtà è qualcosa che va verifi-cato. Proviamo a farlo.Cominciamo con l’adulto. Essere adulto vuol di-re avere la maturità per poter assumere le re-sponsabilità delle proprie scelte. Quanto è vero,allora, che i laici nella Chiesa fanno questo? Fac-ciamo un esempio. Mi è capitato di sentire in unprogramma televisivo una donna che si definiva

La doppia appartenenzadel laico cattolico

di Rosanna Virgili

Il testo della meditazionesvolta dalla biblista in apertura del convegno di Assisi

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cattolica praticante e convinta profondamentedella sua fede che alla domanda: ha mai letto unVangelo? Rispondesse: no, mai, neppure una pa-gina. Ma oltre questo caso personale da una re-centissima statistica risulta che l’89 per cento deicattolici italiani possieda i Vangeli, ma che ap-pena il 3 per cento li abbia mai aperti. E tutto ciòa più di quaranta anni dalla Dei Verbum!Qui si presenta una prima perplessità circa la ma-turità dei laici cattolici: come possono assumersila responsabilità di una fede di cui non conoscononeppure l’alfabeto?E ancora come potrebbe uno che non sa nem-meno una parola di quelle pronunciate da Gesùe dagli Apostoli, fare delle scelte “cristiane”? Oassumere le responsabilità verso la sua fede dicui ignora i fondamenti?L’ignoranza è un peccato!E veniamo, allora, ad una seconda perplessitàsull’essere adulti dei laici cattolici.Qualcuno potrebbe obiettare – circa l’ignoranzadel mondo cattolico verso la Scrittura – dicendoche i sacerdoti, nelle liturgie, leggono la Bibbiae spiegano alla gente come regolarsi di conse-guenza. Va bene. Rimane però un doppio rischio:il primo quello di delegare al sacerdote la inter-pretazione della parola ed anche la responsabi-lità di dire come metterla in pratica; secondo,quello di considerare la Parola di Dio appan-naggio dei sacerdoti e affar loro, per cui il laicofa fatica ad incarnare quella Parola, a farla sua,a metabolizzarla in modo tale da sentirne la re-sponsabilità di esserne testimone.Non per nulla i non credenti criticano nei cristia-ni proprio la mancanza di coerenza e di una te-stimonianza autentica della fede e lo scandalo diuna doppia moralità, dell’ipocrisia, di professareparole fasulle… di “avere Dio sulla loro bocca,ma lontano dal loro cuore”, come direbbe il pro-feta Geremia. Di non conoscere la materia dellaloro fede e di affidarsi soltanto a vuoti ritualismi,fossero anche sacramentali, mentre il loro com-portamento morale va in tutt’altra direzione.Non sempre a torto: ci sono molti cristiani favo-revoli alla pena di morte, alla guerra o affatto tol-leranti verso gli stranieri o coloro che professanoreligioni diverse. Tutto ciò è la negazione dell’a-nima cristiana ed evangelica.La debole profezia cioè la mancanza di atti cri-tici: si pensi all’invito fatto dal Papa ai giovani aLoreto! La mancata denuncia da parte dei laicidella acquiescenza del clero verso la mafia, ver-so sistemi economici corrotti.

Potremmo denunciare lo stato effettivo di minori-tà dei laici nella Chiesa: i catechisti, le fami-glie…ecc. perfino gli studiosi: si pensi all’esege-si biblica e alla vergogna di non poter consegnareai “laici credenti” i risultati delle loro ricerche…Lamancanza della orizzontalità del “popolo di Dio”,tra laici e ordinati o religiosi nelle comunità cri-stiane? In pochi casi, anche nei movimenti.Le difficili integrazioni dei carismi nella Chiesa.Con lo spreco e il disprezzo dei doni dello Spi-rito Santo.Il laico cattolico, pertanto, dimostra una istintiva ten-tazione alla delega delle sue responsabilità di adul-to nella fede, ai professionisti della cosa sacra…specialmente ai sacerdoti ed ai Vescovi. Finisce peraffidarsi come un minorenne a chi assume al po-sto loro, la responsabilità ultima della fede.

Il rapporto con i pastori“I laici non sono dipendenti dai pastori né in con-trapposizione ad essi, poiché agiscono con co-scienza libera e matura”.E qui grandi perplessità sull’effettivo stato dellecose! Come potrebbe agire, infatti, non in dipendenzadai pastori qualcuno che non ha un rapporto di-retto con il Vangelo? Chi non accosta il Signore alsuo orecchio e prega nell’intimità della sua stan-za? Chi non condivide la sua vita con i “fratelli”?Quando Pietro afferma nel libro degli Atti: “Biso-gna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini”(5,29).Da cosa può nascere una coscienza libera e cri-tica? Il sapere di “ubbidire a Dio piuttosto che agliuomini? Così che ognuno potesse formare unacoscienza libera e sovrana proprio in virtù di quel-la conoscenza. Che non deve a priori escluderela presenza e l’importanza di chi “custodisce” lafede (i Vescovi), ma al contrario, la avvalori?Su quale base su quale autorevolezza si potreb-be fondare una “obiezione di coscienza a ciò cheafferma e fa la gerarchia? Come si può matura-re la forza e la dignità di un Paolo che, nella let-tera ai Galati dice:“Se qualcuno – e l’allusione era a Pietro! – vienecon un Vangelo diverso da quello che io vi ho an-nunciato, sia anatema!”Questo vorrebbe dire “essere adulti nella fede”:avere la maturità e il diritto/dovere di dare ungiudizio sulla autentica testimonianza di fede, maanche la responsabilità di decidere e mettere inpratica le opere di quella fede…Ora dobbiamo chiederci se questa maturità e li-

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bertà di coscienza non solo sia effettiva, ma an-che possibile nel laicato cattolico attuale.Si registra, infatti, una sorta di schizofrenia per cui,in molti casi, i laici sentono di credere qualcosanella loro coscienza, ma debbono ubbidire adun’altra per la dottrina o anche la prassi della Chie-sa. Un esempio tra i più banali: i funerali non con-cessi a Welby dalla gerarchia ecclesiastica roma-na. Quanti cattolici hanno sentito un urlo nella lo-ro coscienza contro un rifiuto del genere, contro laporta chiusa di quella Chiesa. Quando, per con-tro, si celebrano a cuor leggero, i funerali di ma-fiosi, assassini, corruttori e corrotti.Certo la comunità parrocchiale di Welby, se fos-se stata interpellata, avrebbe suggerito un ben di-verso comportamento, visto il suo afflusso sullapiazza antistante alla chiesa. Il problema dellostato di minorità del laicato cattolico, allora, è an-cora un altro: esso è minorenne, perché non puòesprimere il suo parere, non è ammesso a dareun voto, proprio così come succede ai minori didiciotto anni nei governi democratici…Non solo il laicato non ha un potere deliberati-vo, ma neppure consultivo, nella maggioranzadei casi. E cosa vogliamo pretendere, allora? Ilaici restano spesso a fare da cornice agli eventidecisi dal clero, come una pura massa orna-mentale…!Facciamo un altro esempio: La nomina dei Ve-scovi. Nelle comunità cristiane neo testamentarieessi venivano scelti dalle Comunità ed al loro in-terno tra le persone più solide nella fede e nellacarità cristiana. Ora i Vescovi arrivano, invece,dal cielo sulle comunità diocesane. I laici sono af-fatto all’oscuro dei motivi della scelta e di tutto ilresto. In questo modo non possono certo sentirela Chiesa come la loro casa…spesso si sentonodegli ospiti cui è permesso di sostare in punta dipiedi… senza farsi troppo sentire… C’è poi ilproblema della donna, che non può essere evi-tato quando si parla di laici. Per il semplice mo-tivo che essa non essendo ammessa agli ordinidi nessun grado, resta in ogni caso in una con-dizione di laicato, pur sotto forme diverse, nel-la Chiesa. Sulla donna, sul riconoscimento del-la sua dignità e del suo ruolo la Chiesa sta in-sistendo nel portare avanti un assurdo ed ana-cronistico ritardo…Basterebbe che tutti i cattolici, laici e chierici pren-dessero finalmente sul serio le antiche e ancorasconvolgenti parole di Paolo: “Non c’è più Giudeoné Greco, schiavo né libero, uomo né donna…inCristo Signore” E regolarsi di conseguenza.

BB)) LLAAIICCII EE SSOOCCIIEETTÀÀ CCIIVVIILLEE

Dunque poter “servire” la Chiesa come laici nonè del tutto facile. Ma “servire” la società, curarequesta seconda appartenenza è altrettanto ar-duo. Nella cultura secolarizzata in cui ci trovia-mo a vivere il laico cattolico sembra avere unaconcezione della vita di radicale estraneità a quel-la dei non credenti.Una estraneità che si origina sulla concezionedell’uomo e del mondo. Un concetto espresso conestrema chiarezza da Papa Ratzinger nel suo dis-corso accademico del Convegno di Verona:“La cultura che predomina in Occidente vorreb-be porsi come universale e autosufficiente gene-rando un nuovo costume di vita. Ne deriva unanuova ondata di illuminismo e di laicismo, per laquale sarebbe razionalmente valido soltanto ciòche è sperimentabile e calcolabile, mentre sul pia-no della prassi la libertà individuale viene erettaa valore fondamentale al quale tutti gli altri valo-ri dovrebbero sottostare. Così Dio rimane esclu-so dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede inLui diventa più difficile, anche perché viviamo inun mondo che si presenta quasi sempre più co-me opera nostra, nel quale, per così dire, Dio noncompare più direttamente, sembra divenuto su-perfluo, anzi estraneo”.Dunque una “libertà individuale” come principiosia dell’etica, sia della conoscenza, metterebbefuori gioco senza appello la figura di Dio.In un orizzonte del genere la distanza tra il cre-dente ed il non credente potrebbe apparire dav-vero insuperabile.Se, infatti, nella morale rivelata, cattolica, l’uomoessendo creatura di Dio, non può decidere auto-nomamente e in base alla sua libertà individua-le della sua stessa vita, il contrario accade nel ca-so della morale cosiddetta laica, per cui l’uomo,l’individuo ha il sacrosanto diritto di decidere del-la sua vita, da quando nasce a quando muore.Ed ecco gli scontri frontali della Chiesa con i lai-ci, sui temi della fecondazione, trattamento degliembrioni, sessualità, matrimonio e eutanasia. Tut-to ciò è fin troppo chiaro e comprensibile.Sul piano della conoscenza, poi, riprendendo an-cora le parole di Benedetto XVI il fatto che sia di-ventato “razionalmente valido soltanto ciò che èsperimentabile e calcolabile” dalla ragione uma-na e che, addirittura, “il mondo si presenta qua-si sempre più come opera dell’uomo” nei prodottitecnologici, rende addirittura “superflua” la figu-ra di Dio.

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Lo diceva molto bene E. Bianchi qui ad Assisi l’an-no scorso: la nostra è la prima generazione sto-rica per la quale Dio è “un superfluo” nel sensoche mentre nel mondo antico e fino alla Rivolu-zione scientifica, bene o male, la categoria di“Dio” veniva utilizzata per spiegare i fenomenidella natura e della vita, ora non più. Sono altrie ben più dimostrabili i criteri di spiegazione diquanto accade nella storia dell’uomo…!Ora dunque, in un quadro del genere, le alter-native circa il modo in cui il laico credente possaservire la società, intendendo con essa la civiltàe la cultura contemporanea, mi sembrano due.La prima è quella di contrapporre la presenza diDio e di un pensiero cristiano cattolico alla cultu-ra ed al pensiero laico, promuovendo una sortadi “via parallela” a quella laica, e chiamandola“testimonianza”. Questa è, almeno secondo lamia interpretazione, la risposta del Papa nel con-testo del Convegno di Verona. Egli dice infatti:“…diventa di nuovo possibile allargare gli spa-zi della nostra razionalità, riaprirla alle grandiquestioni del vero e del bene, coniugare tra lorola teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno ri-spetto dei loro metodi propri e della lo reciprocaautonomia ma anche nella consapevolezza del-l’intrinseca unità che le tiene insieme, è questo uncompito che sta davanti a noi, una avventura af-fascinante nella quale merita spendersi, per da-re nuovo slancio alla cultura del nostro tempo eper restituire in essa alla fede cristiana piena cit-tadinanza. Il progetto culturale della Chiesa inItalia è senza dubbio, a tal fine, un’intuizione fe-lice e un contributo assai importante”.L’atteggiamento che il Papa invita i cristiani adassumere è un atteggiamento, insomma, di dife-sa dei valori e del pensiero cristiano, come hacommentato molto bene il grande vaticanista Lui-gi Accattoli: “Il Papa ha indicato come priorita-rio l’impegno a recuperare una piena cittadinanzaalla fede cristiana nel nostro tempo fronteggian-do con determinazione quelle scelte politiche elegislative che tendono ad allontanare la societàitaliana dalla tradizione cristiana. Per far questoi cristiani dovrebbero incrementare il loro dina-mismo sulla scena pubblica sapendosi anche al-leare con persone che avvertano la stessa urgenzabenché “non condividano la stessa fede“. Quel-lo che ci si propone – e su questo non solo e nontanto – forse – il Papa, quanto la Cei è insomma,la promozione di una etica ed una conoscenza“cristiane” che andrebbero definite “autonome”,cioè viventi di principi e elaborazioni proprie, a

fronte di una etica e una conoscenza laiche, cioèdi non credenti, estranee alla stessa.L’unica apertura è quella verso coloro che, purnon avendo la fede, condividesse i valori e le li-nee di azione politiche dei credenti. (il riferimen-to è ai cosiddetti “atei devoti”).La seconda risposta possibile è quella di chi, inve-ce, decidesse di tener conto dello spazio “laico”che la cultura occidentale lascia a Dio e si cimen-tasse nella sfida di non rinunciare a quello spazio“superfluo” che a Lui è ormai consacrato. Il cardinale di Milano, Tettamanzi, ha espresso quel-la che sempre Accattoli chiama la seconda animadella Chiesa italiana, come è evidente molto più“laicale” della prima, nel merito e nel metodo. Quanto al merito essa accetta di occupare lo spa-zio del “superfluo”, definendo lo stesso “la speci-ficità della fede cristiana” che è fatta di quel sur-pluse di “opere di speranza”, che permettono –secondo le parole di Tettamanzi – di impegnarsiin atteggiamenti concreti (…) dentro le vicende esituazioni storiche e i più diversi ambiti di vita (…)In questa linea la testimonianza presuppone unumile forte esame di coscienza e diviene il frutto diuna vera e propria conversione a Cristo e all’uo-mo!”Lo spirito è quello della Lettera a Diogneto del IIsecolo che dice: “Non rinneghino nulla del Van-gelo, ma restino in mezzo agli altri uomini consimpatia senza separarsi da loro, solidali tesi acostruire insieme una società più umana. Cristianiche sappiano vivere come amici di tutti gli uomi-ni, senza cadere preda dell’angoscia o della pau-ra di essere minoranza, vero lievito e sale nellapasta del mondo: così nell’incontro del cristianocon il cristiano non è entrambi possano escla-mare: “Mai l’uno senza l’altro!” “Un’anima espressa anche dal Priore di Bose En-zo Bianchi nel suo volumetto “La differenza cri-stiana”, dove dice:“I cristiani non possono condurre le loro batta-glie trincerandosi dietro i dogmi e usando comearma la loro dottrina: è questione, innanzitutto,di custodia della fede e delle sue parole più pro-prie e, in secondo luogo, di termini e di modali-tà di dialogo capaci di mostrare che il Cristiane-simo è sempre al servizio della umanizzazionedi ogni persona e della collettività , al servizio diun mondo più abitabile segnato da giustizia, pa-ce, rispetto del creato e della dignità umana. (…)I cristiani, allora, siano vigilanti, sappiano riso-lutamente contribuire alla costruzione della polisfedeli all’ispirazione della loro fede; sappiano

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proporre, dire ed anche personalmente vivere ciòche per lo è irrinunciabile, ma sempre senza ar-roganza e intolleranza”.Dunque un laico cattolico può scegliere tra que-sta due modi di “ servire “ e appartenere la so-cietà in cui vive.Per dare una visione plastica delle due alternativeproposte a Verona ed anche della differenza traloro è utile un paragone tratto dalla geometria:mentre la proposta del Papa pone la testimonian-za di fede come una retta incidente alla cultura lai-ca, la proposta del Cardinale di Milano pone la

testimonianza di fede come una tangente sulla cul-tura del tempo, con la quale interagisce e si con-fronta in maniera talvolta dialogica tal altra dia-lettica ma sempre positiva e costruttiva.Un laico cattolico non può esimersi dalla re-sponsabilità della scelta secondo una coscienzalibera e matura. Questo è un dovere del cristia-no battezzato, non riguarda soltanto gli addettiai lavori. Ogni battezzato ha infatti il compito del-la profezia, la dignità della regalità, il dolce ono-re della unzione sacra di Dio.

Testo non rivisto dall’Autore

La povertà è davveroun “destino”?

segue da pag. 2 economica), perché si trovano immediata-mente al di sopra della linea che stabilisce lasoglia di povertà. Stiamo quindi parlando diuna quota rilevante di popolazione. Una mas-sa enorme di persone che si aggira per i dis-count ed i mercati rionali cercando di rispar-miare sul cibo, sul vestiario. Questa peregri-nazione però non basta. Comunque non ri-solve. Infatti, malgrado tutti gli accorgimenti,esse fanno sempre più fatica ad arrivare allafine del mese. Anche quando dispongono diun salario, oppure di una pensione. L’aspettoche colpisce è che, a differenza dei benestantiche in prevalenza amano mostrarsi in pub-blico e dire la loro su tutto (inclusi gli argo-menti di cui sanno e capiscono poco) questisette milioni e mezzo di persone costituisconoper la stragrande maggioranza dei casi unesercito discreto, silenzioso. Perché? Per pu-dore? Per vergogna? In parte si. Ma proba-bilmente anche perché hanno la chiara per-cezione di essere un esercito che non dispo-ne di ufficiali e comandanti e perciò si riten-gono, non immotivatamente, del tutto abban-donati a sé stessi. Per di più sono senza stru-menti, senza armi efficaci con cui combatte-re. Non è certo un caso se televisioni e gior-nali si disinteressano di loro. Personalmente sono convinto che per correg-gere una situazione sociale sempre più de-gradata è necessario avviare una riflessionecritica su alcuni aspetti della cultura politica.A cominciare da quella del centrosinistra. Inparticolare su due questioni cruciali. La pri-ma riguarda il fatto che le politiche sociali delcentrosinistra, di norma, si fondano sul prin-cipio dell’universalismo. Vale a dire sul con-vincimento che: diritti, protezioni, sostegni,

debbano essere ugualmente riconosciuti atutti. Indipendentemente dalle differenti con-dizioni materiali in cui ciascuno si trova ef-fettivamente. Si dovrebbe invece incomin-ciare a riconoscere che fino a quando si im-maginava che la crescita e la ricchezza fos-sero praticamente illimitate, questo approc-cio ai problemi sociali poteva anche avereun senso. Mentre ora non ne ha affatto. Inparticolare in Italia, in un quadro di risorselimitate (considerato la dimensione del de-bito pubblico ed il costo del servizio sul de-bito) l’efficacia delle politiche sociali dipen-de strettamente dalla capacità di stabilire unrapporto equilibrato ed accettabile tra “uni-versalismo” e “selettività”. Il caso di della povertà lo richiede in modoassolutamente evidente. Le situazioni di “po-vertà relativa” comprendono infatti coloroche non ce la fanno, o fanno fatica ad arri-vare alla fine del mese, assieme a quanti so-no in condizioni di “povertà assoluta”. Valea dire tutti coloro che autonomamente nondispongono di un paniere minimo di beni eservizi ritenuti indispensabili per la soprav-vivenza. Ad essi debbono infine essere ag-giunti quanti si trovano in situazione di “po-vertà estrema”. Come i senza tetto ed i sen-za tutto. Trattandosi di situazioni tra di loroassai diverse è evidente che le politiche, lastrumentazione ed i soggetti da coinvolgerenegli interventi, per risultare efficaci, nonpossono che essere a loro volta diversifica-ti. Perciò la stella polare di ogni concreta po-litica di contrasto alla povertà non può es-sere che quella dell’ “universalismo con se-lettività”. Che significa: “alcuni diritti devo-no essere riconosciuti a tutti, mentre ci deve

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essere selettività nelle politiche di sostegno”,in relazione alla diversità dei bisogni.La seconda riguarda la politica fiscale. Negliultimi tempi, della riduzione delle tasse si dis-cute molto. A tenere viva la discussione con-tribuiscono non poco i disinvolti lamenti e lereiterate grida di angoscia degli elusori edevasori. Il fatto che colpisce però è che ancheuna parte consistente del centrosinistra si di-chiari favorevole ad una riduzione “indiscri-minata” delle imposte. Le spiegazioni per que-sta anomalia possono essere diverse. Proba-bilmente pesa una attrazione per discutibilicongetture di politica economica, oppure unintenerimento per gli strilli ed i piagnistei, oinfine un banale calcolo elettorale. C’è infat-ti chi ritiene, non del tutto a torto, che i ricchisentono assai più dei poveri le ingiustizie dicui si credono vittime. E la loro capacità di in-dignazione non conosce limiti. Sicché ancheun discreto numero di politici del centrosini-stra è diventato non insensibile a questo aspet-to. Bisogna fare attenzione però. Soprattuttoavere bene presenti le conseguenze delle pro-prie scelte. Assecondare le pretese dei bene-stanti equivale a sbarrare la strada per ognivera azione di contrasto della povertà. Le spie-gazioni sono persino banali. La prima è chelotta alla povertà richiede risorse. Se si eso-nerano i ricchi chi la dovrebbe finanziare? Ipoveri? Sarebbe un modo come un altro per

rendere esplicito che la lotta alla povertà nonviene considerata una urgenza e soprattuttouna necessità. La seconda è che una riduzio-ne indiscriminata delle imposte aumenta an-ziché diminuire le disuguaglianze. Che, co-me quasi tutti sanno, è invece la condizioneper contrastare la povertà. Queste conside-razioni non debbono tuttavia oscurare unaspetto della politica fiscale che è invece cru-ciale nella lotta alla povertà. Mi riferisco allanecessità di ridurre il prelievo sul reddito fis-so (salari e pensioni); sia per ridurre l’ingiu-stificata ed abnorme differenza di detrazioniriconosciuta al reddito fisso rispetto a tutti glialtri redditi, sia per attenuare il rischio e le si-tuazioni di effettiva povertà che coinvolgonouna parte non marginale di lavoratori dipen-denti e pensionatiIn conclusione non posso fare altro che limi-tarmi ad un auspicio. L’auspicio è che le for-ze di centrosinistra (si tratti di quelle impe-gnate nella nascita di un nuovo partito, op-pure di quelle orientate alla unificazione dipartiti esistenti, o infine di quelle alla ricercadi una loro rifondazione) riescano a trovareil tempo e soprattutto la voglia per una ricon-siderazione critica della propria proposta po-litica. In modo da ricostruire la speranza chesi riesca finalmente a porre su basi concretel’azione di contrasto alla povertà.

Pierre Carniti

sidenti politici e sindacali, torturati e costrettisopravvivere in condizioni disumane graziesolo al coraggio. Anni di silenzio del mondo,che ha permesso alla giunta militare di arric-chirsi, di ampliare il suo mega esercito di ol-tre 440.000 soldati, migliaia dei quali bam-bini soldato, di costruire una nuova capitale,affamando ulteriormente il paese, di beffarsidelle oltre 24 risoluzioni della Assemblea ge-nerale dell’Onu e dei ripetuti appelli dell’Ilo edel Consiglio per i Diritti Umani.In soli due mesi i fiumi di persone, che han-no circondato in un grande abbraccio pro-tettivo le migliaia di monaci scalzi, che apasso veloce e deciso hanno colorato con ilrosso, delle loro tuniche e poi del loro san-gue le strade delle maggiori città birmane,hanno segnato il tempo e obbligato i governi

istituzioni internazionali ad una nuova agen-da politica, almeno sulla carta. Oggi siamo, però in una situazione profonda-mente diversa da quella in cui si sono trovati amanifestare gli operai, gli studenti e i monacinel lontano 8 agosto 1988, quando le piazzedelle città birmane furono bagnate dal sanguedi migliaia di feriti e morti, fatti sparire comesta succedendo oggi, nei forni o in pasto ai coc-codrilli. Oggi grazie ad internet e ai telefonini,che forse hanno permesso di ridurre il numerodei morti e dei feriti, per altro molto alto, il mon-do non può dire di non sapere, anzi, ha vistogli orrori delle cariche dei militari e dei loro ac-coliti. Ha potuto vedere i pestaggi, i cadaveri,l’uccisione in diretta di un fotografo giappone-se, il corpo senza vita del monaco galleggiarein un fiume.Ha potuto assistere a cosa significa

Birmania: riflettori accessi

segue da pag. 1

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avere il coraggio delle proprie idee. Oggi nonpuò essere più come prima. Per anni gli appel-li ad una azione internazionale coerente con-tro la giunta militare sono rimasti inascoltati. Perchi ha seguito con attenzione le discussioni cheperiodicamente si sono tenute sia alla Assem-blea Onu che all’Ilo e alla Unione Europea, lafrustrazione è stata molta. Per coloro, che han-no vissuto in prima persona il peso della re-pressione brutale un prezzo troppo alto. Prendiamo ad esempio la questione del lavo-ro forzato, discussa ripetutamente all’Ilo nelcorso degli ultimi 20 anni. Nel 1995 il sin-dacato presentò all’Unione Europea e l’annosuccessivo all’Ilo un rapporto dettagliato chedimostrava come oltre 800.000 persone era-no state obbligate al lavoro forzato in progettiper la costruzione di aeroporti, centrali elet-triche, autostrade. L’esempio più famoso fu laferrovia Ye- Tavoy dove oltre 20.000 personeerano state obbligate con turni continui in cen-tinaia di villaggi e città e come oltre 160.000persone dei gruppi etnici Kareni e Mon era-no stati deportati nella zona controllati da ol-tre 30.000 persone. il caso era emblematicopoiché le autorità locali distribuivano volan-tini in tutti i villaggi in cui indicavano le puni-zioni che sarebbero state attuate su coloro checercavano di rifiutarsi. All’epoca due grandiimprese del settore del gas furono coinvoltenell’utilizzo del lavoro forzato. La francese To-tal e l’americana Unocal impegnate nella co-struzione del gasdotto di Padana. Altre mi-gliaia di persone furono obbligate al lavoroforzato per il restauro dei monumenti, l’aper-tura di alberghi e la costruzione di infrastrut-ture per l’apertura al turismo internazionale.Le prime misure restrittive furono decise dal-la UE nel 1996, seguite poi da ulteriori mo-difiche nel 2004. Nel 2006 vennero inseriteulteriori restrizioni tra cui la proibizione dipartecipazione in una serie di imprese bir-mane, tutte irrilevanti, non si proibì ne la im-portazione ne l’esportazione di prodotti so-prattutto in settori chiave come il legno, i mi-nerali, le pietre preziose ne attività nel setto-re del gas e del petrolio. All’Ilo si arrivò solonel 2000 ad una risoluzione, che chiedeva aigoverni e alle imprese e alle istituzioni inter-nazionali di adottare le misure adeguate perassicurare che le proprie iniziative non venis-sero usate per perpetuare o estendere il siste-ma del lavoro forzato”.

Sia la Posizione comune Ue che la Risoluzio-ne Ilo rimasero chiuse nei cassetti delle ri-spettive organizzazioni e dei governi, indi-pendentemente dal loro colore politico. Pocoè stato fatto soprattutto perché mai sono sta-te definite le necessarie procedure di monito-raggio e controllo da parte dei governi e del-le istituzioni internazionali. Ciascuno ai di-versi livelli non vedeva l’ora di trovare unabuona ragione per rimandare nel tempo lapresa di decisioni più consistenti e coerenti.Così la giunta militare ha per anni giocato algatto e al topo. Se condannava a morte deisindacalisti, sapeva che ci sarebbe stata la mi-naccia formale di ulteriori azioni. Così subi-to prima della adozione delle decisioni in que-sto caso all’Ilo, provvedeva a ridurre la pena,poi solo dopo altre pressioni la cancellava,ottenendo il plauso dei governi. Ma il lavoroforzato continuava come prima. I militari usa-vano infatti diversivi su cui spostare l’atten-zione per mantenere il proprio potere immu-tato. Gli “avvertimenti” sono stati sempre ri-tenuti dalla diplomazia internazionale, stru-menti migliori delle sanzioni economiche mi-rate. Così questo gioco è continuato per annie coloro che pontificano, a vanvera, sulla inef-ficacia delle sanzioni economiche, sanno chein realtà, queste non sono state mai veramenteesistite. Un gioco di specchi, una illusione acui tutti: istituzioni internazionali, governi esoprattutto imprese hanno voluto credere perinteresse. Per questo, lavoro forzato, stupri edeportazioni hanno continuato a crescere in-sieme ad arresti, minacce e uccisioni. Il se-condo pilastro della azione politica interna-zionale verso la Birmania avrebbe dovuto es-sere quello di una forte azione diplomatica,soprattutto dopo il veto posto nel gennaio scor-so da Cina e Russia ad una possibile risolu-zione del Consiglio di Sicurezza. Nessun pae-se, compreso l’Italia, almeno sino agli inizi diottobre 2007, però, ha mai adottato una po-litica di questo tipo, con il risultato che a me-tà agosto quando ci si è ritrovati con migliaiadi persone e monaci in piazza, non era statomesso in atto alcun processo di convincimen-to delle grandi capitali a partire da Pechino,Mosca, Delhi, Tokio. Guardando in casa nostra bisogna applau-dire la scelta, sebbene molto tardiva del no-stro governo per un robusto rafforzamentodelle sanzioni a livello europeo e un con-

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temporaneo lavoro diplomatico bilaterale emultilaterale. Bisogna però non tacere, so-prattutto se si vuole strutturalmente voltarepagina ed attuare una politica internazio-nale coerente con i valori del rispetto dei di-ritti umani e del lavoro, che ancora il 13 set-tembre scorso i nostri diplomatici facevanopresentare al governo italiano al Senato unaposizione anacronistica e “fuori program-ma”. Il sottosegretario Di Donato infatti, igna-ro delle ripercussioni politiche di quanto an-dava dicendo visto che si occupa di Ameri-ca Latina e non di Asia, era stato indotto asostenere come governo una strategia poli-tica ormai defunta da oltre 2 anni: la strate-gia del dialogo costruttivo con la giunta mi-litare attraverso un processo con i paesi asia-tici denominato “Friend of Bangkok Process”.Una iniziativa inventata dal precedente go-verno Berlusconi, sulle ceneri dell’altrettantoimmediatamente fallito Bangkok Process, pro-mosso dal governo tailandese. Non che ildialogo non sia necessario, ma questo nonpuò essere un monologo. Il documento pre-sentato al Senato, dalla nostra diplomazia,ancora a settembre, registrava fantomaticisviluppi positivi nel dialogo tra la giunta e leagenzie internazionali. Forse i nostri diplo-matici non conoscevano le profonde preoc-cupazioni espresse dal Relatore speciale sul-la Birmania del Consiglio per i diritti umanidell’Onu, Paulo Sergio Pinheiro, o le con-clusioni formali dell’ultima Conferenza Ilo incui si denunciava la continuazione del lavo-ro forzato. Come si può registrare sviluppi

positivi di fronte alla durissima condanna delPresidente del Comitato Internazionale del-la Croce Rossa (ICRC), Jakob Kellenberger,che con una rara decisione – considerata latradizionale riservatezza diplomatica – hadenunciato e condannato aspramente le vio-lazioni delle norme umanitarie internazio-nali, l’utilizzo di detenuti come lavoratori eportatori forzati per le forze armate, gli ar-resti arbitrari le uccisioni, le deportazioni ela distruzione in larga scala di scorte ali-mentari da parte dell’esercito birmano. Que-sto il 13 settembre.Credo sia importante sottolineare questo vuo-to pneumatico, per altro ber superato dal sot-tosegretario agli Esteri Vernetti e dal Ministrodegli Esteri D’Alema con importanti scelte siaa sostegno delle sanzioni che nel dialogo coni paesi chiave come l’India, perché non soloper il caso Birmania, la diplomazia italiana,ancora oggi troppo spesso non è in grado diconiugare la promozione dei diritti umani edel lavoro con le strategie di politica interna-zionale. Quello che si registra è un ritardo eun distacco della diplomazia italiana rispettoa queste tematiche, soprattutto nello sviluppodella politica economica estera. Un esempioè dato dalle delegazioni governative affian-cate da quelle imprenditoriali. Tutte missionipreparate senza una dimensione sociale, sen-za chiedere alle imprese italiane di rispetta-re le norme internazionali del lavoro o le Li-nee guida Ocse sulle multinazionali e senzaporre nelle agende di dialogo con i governila questione della qualità sociale, della pro-mozione del lavoro dignitoso etc..Così appa-riva naturale, sino a ieri, per la Birmania, siaper la diplomazia europea e internazionale,porre il primato della tutela degli interessi del-le imprese.Interessi economici: il gas: abbondantissimo.Il teak: il migliore al mondo. Le pietre prezio-se: i rubini “sangue di piccione” i più belli eambiti dai migliori gioiellieri. Interessi politi-ci: la Birmania ha le sue coste nel mar delleAndamane, di fronte all’India. La Cina in an-ni di rapporti privilegiati non solo ha conti-nuato a vendere armi ai generali, ma ha an-che installato proprie basi militari per con-trollare non solo gli indiani, ma per mante-nere anche il controllo di questa parte di ma-re, a dispetto degli americani. E così il gigantecinese ha decuplicato in soli due anni i pro-

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pri investimenti in Birmania. L’India poi nonavrebbe mai permesso di regalare la Bir-mania alla Cina. Anche la più grande de-mocrazia al mondo ha bisogno poi, comeil pane non solo di gas, ma anche di pro-teggere le proprie frontiere con la Birma-nia, dai gruppi etnici separatisti Naga, chespesso si rifugiano nella terra del Pavone.E poi c’è la Russia, con i suoi accordi perla fornitura di armi e la costruzione di unreattore nucleare sperimentale, interessantevisto che nelle montagne birmane sono sta-ti scoperti giacimenti di uranio. E la listapotrebbe continuare, se si volesse parlaredi Tailandia, Corea del Sud, Corea delNord, Francia etc. Ogni paese ha i suoi piccoli o grandi ca-daveri negli armadi, come le triangola-zioni economiche e commerciali, che po-trebbero rivelare altri interessi e commerciproficui con questo paese o partecipa-zioni in investimenti in settori critici comequello del gas. Quindi tutti sotto coperta, sino ai primi disettembre scorso quando il mondo abi-tuato o addormentato di fronte ai realityshow è stato svegliato all’improvviso dal-la emozione delle file infinite di monaciscalzi, bagnati e determinati. E improvvi-samente si è acceso il campanello dellasolidarietà sopita, della denuncia, dellavergogna per la assenza della necessariaazione politica. La Cisl ha presentato unalunga lista di imprese che importano edesportano e che fanno affari con i milita-ri. Alcune hanno cercato di protestare af-fermando che le informazioni erano sba-

gliate. Ma poi, forseguardando meglio incasa propria, si sonoacquietate. Altre han-no deciso di interrom-pere i rapporti com-merciali con il regime.Altre ancora, come laAvio e la Danieli, duegrandi aziende deisettori difesa e side-rurgico e le molte im-prese del teak sonosparite “sott’acqua”.Così siamo arrivati al-la decisione europea

di rafforzare le sanzioni. Una decisionein cui finalmente l’Italia ha avuto un ruo-lo forse decisivo a favore di una posizio-ne dura. Non si potrà più fare affari neisettori delle pietre preziose, dei mineralie del legno. Però il gas, fonte di enormiprofitti per la giunta e la Francia, è statoescluso. Inoltre la decisione verrà raffor-zata o modificata a seguito di una valu-tazione dei risultati della missione in Asiadel rappresentante Onu Gambari e allaluce degli “sviluppi sul campo”. Nel frat-tempo la giunta militare ha dichiarato chele decisioni di Gambari sono ininfluenti eha continuato a fare arresti tra i respon-sabili delle manifestazioni, a torturare e auccidere e soprattutto a far letteralmentesparire migliaia di monaci e dimostranti.La giunta conosce bene le reazioni delmondo politico. Sa che se non ci sarannoazioni concrete e coerenti, tutto cambieràperché tutto rimanga uguale. Butterà co-me al solito fumo negli occhi delle istitu-zioni internazionali. Libererà magari qual-che dissidente, ma non la leader birmanaAung San Suu Kyi e le migliaia di dete-nuti politici che hanno un ruolo decisio-nale. Soprattutto cercherà di restare in sel-la il più a lungo possibile, magari ma-scherando la dittatura attraverso la attua-zione di quanto previsto dalla Conven-zione nazionale conclusasi agli inizi di set-tembre. Un percorso per una democraziafinta in cui i militari avranno ancora il con-trollo delle decisioni. Sta al mondo, alleistituzioni internazionali, ai governi, aiparlamenti, ai media, alla società civile ealla partecipazione collettiva far si, nonsolo, che questo non avvenga, ma che laopposizione politica e sociale sia messain condizioni di resistere e di lavorare perla democrazia. Un ruolo importante lo po-trebbe giocare in Italia, oltre al lavoro diorganizzazioni come la Cisl, lo potrebbegiocare anche il neonato gruppo inter-parlamentare bipartisan a favore della de-mocrazia in Birmania. C’è molto da faree almeno sul terreno della democrazia edella promozione dei diritti fondamentaliè auspicabile un lavoro e una collabora-zione bipartisan, che nel caso Birmaniaunisce già oggi il paese reale.

Cecilia Brighi

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