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Corrado Bologna Spazio e tempo nel Purgatorio

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Corrado Bologna

Spazio e tempo nel Purgatorio

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La navicella dell’ingegno naviga omai in miglior acque

Per correr miglior acque alza le vele

omai la navicella del mio ingegno,

che lascia dietro a sé mar sì crudele.

(Purg., I 1-3)

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London, BL, ms. Egerton 943, fol. 63r (Purg. I)

metà XIV secolo

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London, BL, ms. Egerton 943, fol. 63r (Purg. I), dettaglio

«La navicella del mio ingegno»

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London, BL, ms. Egerton 943, fol. 63r (dettagli a confronto)

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Paris, BN, ms. Lat. 74

Dante allo scrittoio, miniato nell’iniziale “N”

di “Nel mezzo del cammin di nostra vita”

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BAV, Vat. lat. 4776, frontespizio

Dante allo scrittorio, rappresentato nella “selva oscura”

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L’immaginazione si colloca nel ventricolo anteriore, che

è la prua del cervello, ed è la facoltà che ritiene

l’immagine di una cosa dopo che essa è scomparsa dalla

percezione dei sensi. [. . .] Le facoltà della memoria e

della ritenzione si collocano nella parte posteriore, che è

la poppa del cervello. (Averroè, Colliget, o Liber universalis de medicina [Kitab al-

Kylliyyat fi al-Tibb], II 20)

In anteriori cellula sive ventriculo formatur imaginatio,

in media ratio, in posteriori memoria et recordatio.

Cognominatur autem pars anterior prora, posterior

pars puppis vocitatur. (Bartolomeo Anglico, De proprietatibus rerum, V 3, De cerebro)

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“Il gran mare de l’essere”

…tutte nature, per diverse sorti,

[…] si muovono a diversi porti

per lo gran mar de l’essere […].

(Par., I 110-113)

E ’n la sua volontade è nostra pace:

ell’è quel mare al qual tutto si move.

(Par., III 85)

…e ’l naufragar m’è dolce in questo mare.

(G. Leopardi, L’Infinito)

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Io sono stato un legno sanza vela e sanza governo

Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato

a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa

povertade

(Conv., I 3, 5)

[…] lo tempo chiama e domanda la mia nave uscir di porto, per

che, drizzato l'artimone de la ragione a l'ora del mio desiderio,

entro in pelago con isperanza di dolce cammino e di salutevole

porto e laudabile ne la fine de la mia cena.

(Conv., II 1, 1).

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Giovanni di Paolo (1440 ca.)

Il “gran mare dell’essere” (Par., II)

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La prima immagine mitica che il Purgatorio ci offre è colma di

spazio e di tempo: è il viaggio della mente del poeta, del poeta in

quanto uomo, e quindi della mente umana, in acque finalmente

tranquille, sul cui orizzonte sorge un sole nuovo, impensato, che è

il rinnovarsi lustrale, nelle «miglior acque», del primo giorno

dell’umanità.

«Omai»: questo avverbio peculiare di Dante e attestato solo a

partire dalla sua età (Battisti-Alessio, DEI, IV, pp. 2645 e 2665),

contiene e fonde l’ora e il mai (oggimai, oramai), la novità attuale

che spalanca un futuro e la cancellazione definitiva del passato;

fa cenno a un già e ad un ancora. Non si può rallentare, «omai»,

l’avvento del tempo che viene: la speranza è «omai», certezza.

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I tre “luoghi” dell’aldilà dantesco possiedono una natura ontologica e

un regime spazio-temporale diversissimi. I due regni estremi sono

essenzialmente assenza (in entrambi è assente il tempo; c’è assenza di

luce, all’Inferno; di tenebra, in Paradiso). Vale per loro la dichiarazione

intensa, bellissima di un poeta moderno, Attilio Bertolucci: «Assenza,

/ più acuta presenza» (Assenza, in Sirio, 1929).

Il Purgatorio, invece, è presenza (di tempo, di spazio), che si dà

però nella forma della lontananza, della nostalgia, della speranza,

possibili solo nello spazio-tempo che imperano sulla terra. La natura

temporale e spaziale, dunque di fatto terrestre, del Purgatorio, è il primo

dato importante su cui soffermarsi.

Per intendere meglio il legame fra le dimensioni incommensurabili

dell’eterno e del transeunte, del limitato e dell’infinito, e per cogliere,

su questo orizzonte, il senso profondo della metamorfosi

epistemologica introdotta dall’“invenzione del Purgatorio”, merita

che ci si fermi qualche istante sullo forma e sullo statuto dell’universo

medioevale.

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Gervasio di Ebstorf, Mappa mundi

(perduta in un bombardamento nel 1943)

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La gloria di Colui che tutto move

per l’universo penetra e risplende

in una parte più e meno altrove.

(Par., I 1-3)

E cominciò: «Le cose tutte quante

hanno ordine fra loro, e questa è forma

che l’universo a Dio fa simigliante»

(Par., I 103-105)

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L’universo “aristotelico-tolemaico”

(al centro la terra, intorno le sfere delle orbite planetarie)

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Ordine dell’universo “copernicano”

(al centro il Sole, intorno i cerchi delle orbite planetarie)

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Nella concezione tolemaica la Terra è una sfera immobile collocata al centro

dell’Universo e circondata da 7 pianeti (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte,

Giove, Saturno), dal Cielo delle Stelle fisse, dal Cielo Cristallino (o “Primo

Mobile”) e dall’Empireo, che non è in realtà né un cielo, né uno “spazio”.

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S. Botticelli, illustrazione per Paradiso, II – Il Cielo della Luna

Beatrice mostra a Dante la forma dell’Universo

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Questa medievale parossistica teologia dell’ordine […] ha due

profondi significati. Al di sotto del quotidiano turbolento v’è un

reticolato stabile di radici, al di sotto delle miserie esistenziali degli

accadimenti v’è una realtà essenziale, realtà metaumana, in cui sono

riposte le salde fondamenta dell’universo; v’è una natura delle

cose fisiche e sociali che si propone, al di là delle antinomie e dei

particolarismi, soprattutto come armonia delle diversità e quindi

come unità armonica. […] Il secondo significato è che, se il volto

essenziale del mondo è ordine, se ordine è immancabilmente

relazione fra entità ed è garanzia di armonia – di consonantia –

proprio perché compara collega congiunge, l’essenza di questo

mondo sta tutta, più che nella singola entità solitaria, nel

reticolato di rapporti unitivi.

(P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza 1995, pp. 81-83)

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La morte è il lato della vita rivolto altrove da noi, non illuminato

da noi […]. La vera figura della vita si stende traverso i due regni,

traverso ambedue muove il sangue del più grande circolo: non c’è

un aldiquà né un aldilà, ma la grande unità, in cui dimorano gli

esseri che ci superano, gli “angeli”. […] L’effimero precipita

dovunque in un profondo essere. E così tutte le figurazioni di

quaggiù non sono da usarsi solo limitate nel tempo, ma da

inserire, per quanto noi possiamo, in quelle superiori

significazioni, a cui noi partecipiamo. […] Si deve introdurre

quanto qui si vede e si tocca nel più vasto cerchio, non in un

aldilà, la cui ombra ottenebra la terra, ma in un tutto, nel tutto.

(Rainer Maria Rilke, lettera al suo traduttore polacco Witold von

Hulewicz, Sierre, 13.XI.1925)

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«La grande unità» che fonde «aldiquà» e «aldilà», e le «superiori

significazioni, a cui noi partecipiamo» del poeta Rilke, come il

«reticolato di rapporti unitivi» di cui parla il giurista Paolo Grossi,

rinviano ad una «teologia dell’ordine» capace di connettere

solidamente l’uomo al divino e alla sua giustizia, attraverso una

gerarchia che amministra quasi burocraticamente il governo della

salvezza, in qualità di Theoû synergói, collaboratori di Dio

(Gerarchia celeste dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita, III 2 165B, p.

99). In questa gerarchia spirituale «gli uni sono purificati e gli altri

purificano, […] gli uni sono illuminati e gli altri illuminano» (p.

101). La purificazione e l’illuminazione dei cuori e delle menti è il

progetto unitivo della Salvezza. Il Purgatorio entra, con l’età di

Dante, in questo quadro concettuale, come un fondamentale

dispositivo di redenzione.

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S. Botticelli, struttura dell’Inferno

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Struttura del Purgatorio dantesco (la montagna è “generata”

dalla stessa caduta di Lucifero che produce l’Inferno)

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Domenico di Michelino, Firenze, S. Maria del Fiore

Dante e il Purgatorio (1465)

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Domenico di Michelino, Purgatorio (dettaglio)

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I’ son Beatrice che ti faccio andare;

vegno del loco ove tornar disio;

amor mi mosse, che mi fa parlare.

(Inf., II 70-72).

Giustizia mosse mio alto fattore.

(Inf., III 4)

La gloria di Colui che tutto move.

(Par., I 1)

L’Amor che move il sole e l’altre stelle.

(Par., XXXIII 145).

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Per me si va nella città dolente,

per me si va ne l’etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore;

fecemi la divina podestate,

la somma sapienza e ’l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterna duro.

Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate.

(Inf. III, 1-9)

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L’Amore che ha spinto il Fattore a creare il mondo (e che da allora

«muove» l’universo) e la Giustizia che lo «mosse» a fondare

l’Inferno e la sua Porta sono, di fatto, due modalità di una stessa

natura, due diverse manifestazioni di una sostanza ontologicamente

solidale. La condanna degli angeli ribelli fu comminata, all’inizio del

tempo, secondo giustizia, perché la misericordia non può sollevare un

peso così terribile.

La Misericordia aiuterà invece gli uomini accecati ma non sconfitti

dal male, e sarà la Grazia ad offrirgli la redenzione attraverso una

Giustizia che coincide con l’Amore: «excæcatus homo et incurvatus

in tenebris sedet et cæli lumen non videt nisi succurrat gratia cum

iustitia contra concupiscentiam» («l’uomo dimora nel cuore delle

tenebre, accecato e piegato su di sé, e non riesce a vedere la luce del

cielo se non lo soccorrono la grazia e la giustizia, in contrasto con la

concupiscenza»: Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in

Deum, I 7).

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Il Purgatorio di Dante rappresenta la conclusione sublime

della lenta genesi del Purgatorio avvenuta nel corso del

Medioevo.

(J. Le Goff, La naissance du Purgatoire, tr. it. La nascita del

Purgatorio, Einaudi 1981)

Nella cultura del mercante si pratica «la conquista del

tempo, e insieme dello spazio»: egli «scopre il valore e il

“prezzo” del tempo nel momento stesso in cui esplora lo

spazio, che per lui coincide con la durata di un viaggio».

(J. Le Goff, Temps de l’église, temps du merchand, tr. it. Tempo

della chiesa, tempo del mercante, Einaudi 1977).

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Rutilio Manetti, S. Caterina da Siena (1630)

Pinacoteca di Siena

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E se tu ti vòlli [=volgi] al purgatorio, vi trovarrai la mia

dolce e inextimabile providenzia in quelle tapinelle anime che

per ignoranza perdêro il tempo, e perché sonno separate dal

corpo, non hanno più el tempo di potere meritare: unde Io

l’ho provedute col mezzo di voi, che anco séte nella vita

mortale, che avete il tempo per loro; cioè che con le limosine e

divino offizio che facciate dire a’ ministri miei, con digiuni e con

orazioni facte in istato di grazia, abbreviate a loro il tempo

della pena mediante la mia misericordia. Odi dolce

providenzia!

(Caterina da Siena, Tractato de la Providenzia, III, cap.

CXLVIII).

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All’interno di questa nuova civiltà borghese-mercantile

prendono forma la categoria teologico-giuridica della

purgazione e la struttura spazio-temporale del Purgatorio.

La dottrina dell’indulgenza, che va elaborandosi in parallelo

con la teorizzazione del Purgatorio, prevede la possibilità di

cancellare in tutto o in parte la pena temporale conseguente a un

peccato confessato con pentimento sincero, e che dovrebbero

essere scontate appunto nel Purgatorio.

Si tratta di una mentalità di tipo economicistico, in cui prevale

l’idea che “il tempo è denaro” e che dunque attraverso il

versamento di denaro (o azioni simboliche equivalenti) si possa

“ridurre il tempo” della pena purgatoriale, ottenendo per così dire

uno “sconto” sul “prezzo da pagare”.

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La concezione stessa della giusta eternità della condanna

all’Inferno comminata agli individui colpevoli di peccati gravi

muta radicalmente di fronte alla misericordiosa introduzione,

sul piano teologico, di questo spazio-tempo supplementare

(se così è lecito chiamarlo così): occasione integrativa di

recupero del premio eterno elargita a chi ha compiuto colpe lievi

o ha comunque acquisito una benemerenza, e nel contempo

opportunità di conservare aperto il legame con l’Aldilà.

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Uomini sulla terra e anime dei trapassati “lavorano” insieme

nel tempo che resta, tempo donato dal Cielo per aumentare

l’armonia universale, l’Ordine e l’Armonia del cosmo.

Lavorano “nel” tempo, lavorano “il” tempo.

Li unisce, in questa oikonomía della salvezza, un filo di

solidarietà. Lo paragonerei, vista la valenza appunto politico-

economica del governo delle anime, alla corda che, nell’affresco

senese del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, passa di

mano in mano dalla Giustizia distributiva, sul cui capo aleggia

la Sapientia, ai cittadini di Siena che lo consegnano al Buon

Governo, fondato sulla concordia della communitas cittadina.

Anche in Dante la teologia, la filosofia, la poesia, sono in primo

luogo politica: progetto di humanitas, e di communitas, di

riscatto dell’unum che, solo, dà senso alla molteplicità degli

esseri attraverso la concordia universale.

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Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo

Siena, Palazzo Comunale (1338-39)

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Nel Purgatorio dantesco è fondamentale la preghiera salmodiata

dal coro anonimo all’inizio del V canto, perfettamente speculare al

V dell’Inferno, giacché Dante vi incontra i penitenti dell’ultima ora,

e là Paolo e Francesca vennero uccisi in piena colpa, senza

occasione di ravvedimento. Nel V del Purgatorio le anime intonano

il Salmo sopra ogni altro penitenziale, il Miserere (n° 50):

«Miserere mei Deus, secundum magnam misericordiam tuam».

Il ritorno nella Commedia di questo testo cruciale della liturgia

cristiana non può non rievocare nella memoria del lettore come

proprio questa fu la prima parola pronunciata da Dante-

personaggio nel I dell’Inferno («“Miserere di me”, gridai a

lui…»: Inf., I 65), al momento dell’incontro con Virgilio. Allora

Dante era «smarrito» nel «gran diserto» che è la vita, secondo Ugo

di S. Vittore: «Est enim quoddam disertum via ista mortalis».

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Il pentimento dell’uomo e la misericordia di Dio

«O anima che vai per esser lieta

con quelle membra con le quai nascesti»,

venian gridando, «un poco il passo queta.

Guarda s'alcun di noi unqua vedesti,

sì che di lui di là novella porti:

deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?

Noi fummo tutti già per forza morti,

e peccatori infino a l'ultima ora;

quivi lume del ciel ne fece accorti,

sì che, pentendo e perdonando, fora

di vita uscimmo a Dio pacificati,

che del disio di sé veder n’accora».

(Purg., V 46-57)

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Nel III canto del Purgatorio Manfredi, figlio di Federico II

imperatore, ucciso nella battaglia di Benevento (1260), si

abbandona, «piangendo, a quei che volontier perdona», e proclama:

Orribil furon li peccati miei;

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò che si rivolge a lei.

(Purg., III 120-123).

Robert Hollander, nel suo commento alla Commedia, sottolinea

come a Firenze, all’età di Dante, «nessuno, o quasi, avrebbe

potuto accettare l’idea che Manfredi fosse tra i salvi»: possiamo

solo immaginare «quanti guelfi e uomini di chiesa si sarebbero

infuriati di fronte a questo passo». Anche nella scelta di “salvare” un

antagonista come il figlio di Federico II, Dante è altissimo, libero da

qualsiasi pregiudizio ideologico.

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Nel canto V del Purgatorio va ricordata anche la magnifica,

fulminea autobiografia che segue i versi sui pentiti nell’ultimo istante

di vita, che si condensa nel discorso di Bonconte di Montefeltro,

figlio del condottiero ghibellino Guido, incontrato da Dante nel

XXVII dell’Inferno fra i consiglieri fraudolenti.

La sorte di Bonconte, “salvato” per il pentimento finale, è

perfettamente speculare a quella del padre Guido, il quale invece,

da stratega e calcolatore, cercò di ottenere dal papa un “perdono

anticipato”. Guido, infatti, «crede[tte] […] fare ammenda» (v. 68)

e dopo essersi «pentuto e confesso» (v. 83) tentò di stringere un

patto con Bonifacio VIII per essere assolto anzitempo («Padre, da

che tu mi lavi / di quel peccato ov’io mo cader deggio», vv. 108-109).

Indimenticabile, in quel XXVII infernale, il dibattito in extremis

fra San Francesco e un diavolo, vinto da quest’ultimo, per la

conquista dell’anima di Guido di Montefeltro.

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Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya, fine XIII sec.

S. Michele e il Diavolo pesano le anime

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Questo “duello” tra S. Francesco e il Diavolo, che cercano di

accaparrarsi ciascuno in extremis l’anima di Guido da

Montefeltro, ricorda certe immagini dipinte del XII secolo in cui

angeli e diavoli («i neri cherubini» di Purg., V 113) si

contendono l’anima del defunto.

Prima di concludere con il celebre «Forse / tu non pensavi

ch’io löico fossi!» il demonio, vestiti i panni di un clericus

aristotelico che insegna logica all’Università, argomenta

contro Francesco, sceso dal Paradiso come l’angelo della

Chanson de Roland per portare con sé in cielo l’anima di Guido:

«ch’assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere

insieme puossi / per la contraddizion che nol consente» (vv.

118-120).

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Bonconte, invece, si pente all’ultimo istante: una sola “lagrimetta”

lo versata nel pentimento dell’ultimo istante di vita lo salva agli occhi

di Dio, per la sua misteriosa, insondabile e insindacabile misericordia,

che connota l’intero Purgatorio:

Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:

l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno

gridava: «O tu del ciel, perché mi privi?

Tu te ne porti di costui l’etterno

per una lagrimetta che ’l mi toglie;

ma io farò de l'altro altro governo!»

(Purg., V 103-108)

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«Per una lagrimetta» si salva Bonconte, mentre fallisce

la strategia di suo padre intorno ai tempi dell’assoluzione.

Il diavolo, furioso, non argomenta più da «löico», come

nell’Inferno; con quel diminutivo irridente («Per una

lagrimetta!») spregia la sproporzione fra la minima misura del

pentimento e l’eternità del premio ottenuto, con quella che a

lui sembra un’equazione aritmetica assurda.

In realtà diabolico è per Dante proprio il calcolo

ragionieresco del bene e del male, il governo della salvezza

soppesato col bilancino di una falsa giustizia solo formale.

Nella dimensione soteriologica della Commedia a salvare non

può essere la partita doppia del dare-avere, l’equilibrio

mercantile dell’investimento e del guadagno. Salvano

l’intenzione, la volontà: quelle facoltà umane che negli

ultimi versi della Commedia resteranno anche dopo la

caduta dell’intelletto, dell’ «alta fantasia»: il disio e il velle.

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«Per una lagrimetta». Un pentimento da nulla, diminutivo. Un

quasi-niente, un non so che. Ma capace di salvare un’esistenza

intera. Il Purgatorio dantesco è anche questo: la misura del

piccolo, del minuscolo, della minuzia.

Attraverso un diminutivo entreranno in scena nel Purgatorio anche

«la vedovella […] al freno» di Traiano, «di lagrime atteggiata e di

dolore», «miserella» che chiede giustizia per l’uccisione del figlio

(Purg., X 77-78 e 82), la cui storia è incisa sul marmo nel girone dei

superbi; e dopo di lei la moglie di Forese Donati, che lui stesso, dopo

averla maltrattata nella tenzone giovanile con Dante, nel XXIII del

Purgatorio chiama con tenerezza «la vedovella mia, che molto amai»,

e che «in bene operare è più soletta» (Purg., XXIII 92). Con un

diminutivo, accompagnato da verbi evocanti giochi d’infanzia

(vagheggiare, pargoleggiare, trastullare), in Purg. XVI Dante cesella

teneramente la creazione dell’anima, «fanciulla semplicetta»

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Esce di mano a lui che la vagheggia

prima che sia, a guisa di fanciulla

che piangendo e ridendo pargoleggia,

l’anima semplicetta che sa nulla,

salvo che, mossa da lieto fattore,

volontier torna a ciò che la trastulla.

(Purg., XVI 85-90).

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«Una lagrimetta», due «vedovelle», l’«anima semplicetta» che, fra

braccia del Creatore padre-madre, «pargoleggia». Parole di

tenerezza. Quell’emozione, quel sentimento che oggi chiamiamo

tenerezza, attende che qualcuno ne scriva la storia. Così come è

stata scritta una storia della paura, della morte, del sangue, del

dolore, dell’amore, occorrerebbe raccogliere e meditare una storia

della tenerezza.

E di certo uno spazio grande occorrerà riservare, in questa storia di

un’emozione modernissima, al Purgatorio dantesco, e prima di lui al

francescanesimo con la sua tenerezza mai prima pensata per

«sora nostra morte corporale», per le creature piccole e inutili,

per i «frati fiorellini» profumati e senza valore, che Francesco

invitava i suoi fratres a coltivare senza pensare a un ricavo, per

gratuita largesse di tenero amore cosmico.

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Compito del linguaggio è non ridurre lo spessore della

lontananza. L’arte, la poesia, tengono aperto lo spazio della

lontananza, perché rappresentano la lontananza come

lontananza.

A.Prete, Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri 2008

«Rappresentare la lontananza come lontananza»: è la

misura dello spazio-tempo del Purgatorio dantesco, fondata

su una memoria che dà vita all’attesa e alla speranza.

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La tenerezza purgatoriale si condensa in uno fra i più incantevoli e intensi incipit

della Commedia, articolato sul ripetersi degli endecasillabi a minori, scandito da un

ostinato musicale ribattuto sui «che» (ben 5 in 6 versi).

Era già l’ora che volge il disio

ai navicanti e ’ntenerisce il core

lo dì ch’han detto ai dolci amici addio;

e che lo novo peregrin d’amore

punge, se ode squilla di lontano

che paia il giorno pianger che si more…

(Purg., VIII 1-6)

I «che» compongono la dimensione mentale dello spazio-tempo della nostalgia, e

offrono dimora al ventaglio lessicale della vaghezza, dell’indeterminatezza,

tipicamente terrestre e purgatoriale, che dà parola all’indefinito.

L’indefinito, non l’infinito. Con gesto emotivo tipico del tanto “terrestre”

Purgatorio, e che non avrebbe potuto incastonarsi nell’eterno fuori del tempo

dell’Inferno e del Paradiso, l’avvio del canto VIII dà figura e forma di parola

proprio alla finitudine del tempo e dello spazio, alla lontananza e alla nostalgia

malinconiosa che ne consegue. Non a caso di questi versi rimarrà memoria

attiva e appassionata in Giacomo Leopardi.

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D’in su la vetta della torre antica,

Passero solitario, alla campagna

Cantando vai finchè non more il giorno;

Ed erra l’armonia per questa valle.

Primavera dintorno

Brilla nell’aria, e per li campi esulta,

Sì ch’a mirarla intenerisce il core….

Odi per lo sereno un suon di squilla…

(Giacomo Leopardi, Il passero solitario, vv. 5-7 e 29)

Dante, Purgatorio, VIII:

…’ntenerisce il core

lo dì ch’han detto ai dolci amici addio…

…ode squilla di lontano

che paia il giorno pianger che si more.

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La poesia, lingua precipua del sentire, conosce e mette in

scena anche il dolore per la lontananza da un tempo che più

non c’è. Conosce la miseria dell’irreversibile, la distanza dal

già vissuto, la malinconia del finito. Conosce e mette in scena il

tragico. Solo che il suo rappresentare in assenza è davvero

un render presente, un dare nuova presenza (…) La poesia

dischiude il colloquio con quel che più non c’è. Pensa contro

l’oblio.

(A. Prete, Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina,

2017)

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C. Carrà, Pino sul mare (1922)

Collezione privata

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«Era già l’ora che volge il disio

ai navicanti e ’ntenerisce il core

lo dì ch’han detto ai dolci amici addio…»

Uno degli incipit più incantevoli e intensi della Commedia, l’VIII

del Purgatorio, dà figura e forma di parola alla finitudine del

tempo e dello spazio, alla lontananza e alla nostalgia che ne

consegue.

L’addio è il protagonista di questo avvio mirabile, che è nella

memoria di tutti. Il saluto “per sempre” a chi si ama e al “tempo

che fu”; un “mai più” che si traduce in memoria di tenerezza e in

un desiderio di riscatto che il futuro non riuscirà a soddisfare.

Nel «core» si insediano la tenerezza, la malinconia, la nostalgia che

si legano all’esperienza della perdita, dell’essere-lontano, dello

scoprire sé stessi come esseri della lontananza, esiliati dalla realtà

pur trovandosi nel cuore di essa.

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Caspar David Friedrich, Luna nascente sul mare (1822)

Berlin, Nationalgalerie

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Edward Hopper, Morning sun (1952)

Columbus Museum of Arts, Ohio

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In quel pianto del giorno per la morte propria, che è emblema della

morte dell’uomo, risuona la pietà creaturale estesa a tutti gli esseri,

anche inanimati, della terra: consiste in questo il «realismo

creaturale» che Erich Auerbach (Mimesis, 1946, tr. it. 1956)

riconobbe nella «rappresentazione cristiana e specialmente

medievale» della realtà, supremamente espressa nella Commedia,

specie nel Purgatorio.

Ai nostri giorni, facendo maturare la propria memoria dantesca e

leopardiana, e riflettendo su Mimesis di Auerbach, in due belle

poesie delle Ceneri di Gramsci, Il pianto della scavatrice e Récit

(1956), Pier Paolo Pasolini troverà un respiro biblico per dar

voce a quest’idea: «Piange ciò che ha / fine e ricomincia». Poi,

conservando alla lettera e rovesciando nel senso la malinconia dei

suoi grandi ispiratori, scandirà il moderno, disperato estinguersi

della tenerezza creaturale, nella metamorfosi disperata del

dantesco «’ntenerisce il core»: «Più fu un tempo tenero, più

s’indurisce il cuore».

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Alla speranza fanno cenno le frequenti preghiere dei purganti a Dante,

perché si “ricordi di loro” e per loro preghi: emergono nella mente il fulmineo

«Ricorditi di me che son la Pia» (Purg., V 133), e il «sovenha vos a temps

de ma dolor!» di Arnaut Daniel (Purg, XXVI 147), di cui si rammenterà

Thomas Stearns Eliot nel Miserere del purgatoriale Mercoledì delle ceneri

(1930): «And pray to God to have mercy upon us», e poco dopo,

letteralmente: «Sovegna vos».

Una considerazione sottile, che risale al Génie du Christianisme di

Chateaubriand, rileva come da un punto di vista non teologico o

dottrinario, ma puramente poetico, il Purgatorio abbia qualcosa di umano,

che manca non solo all’Inferno, ma allo stesso Paradiso: rappresenta una

speranza di avvenire, l’attesa di una radicale mutazione, di cui sono privi i

due “luoghi eterni”. È la sua natura di spazio-tempo esterno ma non estraneo a

quello della vita sulla terra, anzi ad esso affine e ancora collegato, che fa del

Purgatorio il “luogo” e la cantica più “umana”, quindi più fragile e colma

di limiti, di contraddizioni, di emozioni, capace di superare il Cielo e

l’Inferno. In questa cantica soltanto può darsi l’alternanza di un’alba e di

un tramonto, che si legano alle emozioni umane, all’attesa, alla speranza.

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Caspar David Friedrich, Donna al tramonto (o all’alba?), 1818

Essen, Museum Folkwang

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All’inizio del Purgatorio sboccia, incantevole, l’improvviso di più intenso

cromatismo del poema, aperto da quello che Jacqueline Risset riteneva il verso

più bello della Commedia. Dante illumina lo spazio-tempo del nuovo scenario con

l’alba azzurrina di un giorno radioso, in cui la luce si raccoglie nell’aria e, dopo

l’orrore tenebroso dell’Inferno, offre «diletto allo sguardo» e alla fantasia creatrice:

«Dolce colore d’orïental zaffiro

che s’accoglieva nel sereno aspetto

del mezzo, puro infino al primo giro,

a li occhi miei ricominciò diletto

tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta

che m’avea contristati li occhi e ’l petto».

(Purg., I 13-15)

Il dono rarissimo di questa splendida aurora, dopo tanta mancanza di luce e di

ritmo solare, apre con un movimento inatteso e rapidissimo la seconda cantica,

scandendo fin dal primo istante una fenomenologia del tempo e dello spazio

perfettamente terrestri, umani, che la connoteranno per intero, non più nella

tenebra impenetrabile dell’«aura sanza tempo tinta» (Inf., III 29) e non ancora

nella luce assoluta che porterà Dante a «nulla vedere» (Par., XXX 19).

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«I tre aggettivi della mirabile terzina, dolce - sereno -

puro, si sommano lentamente, qualificando quel cielo a cui

l’occhio è fisso, il soave mondo senza turbamenti, senza

angosce, immacolato come nel primo giorno della

creazione, che attende l’uomo uscito dal mondo del male

per ritornare a Dio» (A. M. Chiavacci Leonardi,

commento a Purg., I 13-15).

È proprio così: «immacolato come nel primo giorno della

creazione» è lo sguardo con cui Dante, e noi con lui,

guardiamo l’alba che ripropone il suo miracolo promettendo

luce e calore, e quindi anche, fatalmente, annunciando che ci

sarà un tramonto e il ritorno del buio e del freddo, ma poi

altro calore, altra luce, in quel ritmato salire e scendere,

accendersi e spegnersi, che si chiama vita.

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Si adempie qui l’annuncio profetico che risuonava

già alla fine del primo trattato del Convivio a proposito

del volgare, e che nel Purgatorio acquisisce una

connotazione spiccatamente liturgico-battesimale:

«Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale

surgerà là dove l’ussato tramonterà, e darà lume a

coloro che sono in tenebre ed in oscuritade, per lo

usato sole che a loro non luce» (Conv., I 13, 12).

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Dante gode nuovamente della luce solare: gode la sua vista di

Dante («gli occhi») che puntano al cielo in cui sorge Venere, la

stella del mattino, «lo bel pianeto che d’amar conforta / che faceva

tutto rider l’orïente» (vv. 19-20), e gode dell’aria fresca il respiro

(«il petto»).

Non è solo la mente di Dante a risvegliarsi, a prendere il volo in

quella che Gaston Bachelard, ne L’air et les songes (1943), definì

ptéropsychologie, «psychologie de la verticalité», «imagination

verticale» (p. 108), «verticale du chant» (p. 101) e metaforica

dell’ascesa dell’anima.

È proprio il suo corpo a riprendersi. Si sente di nuovo a suo

agio la sua fragile ma appassionata natura di uomo che veglia e

dorme, che sogna, che ha fame e sete, che ha paura e si

stupisce, e guarda come un incantesimo l’alba e il tramonto.

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Il cosmo dantesco: il Purgatorio al centro

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Concludiamo là dove avevamo incominciato: con la “forma” del

Purgatorio, invenzione tutta dantesca.

La caduta di Lucifero dà origine al centro del mondo, il «tristo

buco / sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce» (Inf., XXXII 2).

Quell’inabissarsi primordiale diede principio anche all’opera

della salvezza, alla redenzione e alla purgazione dell’uomo.

Qui prende forma una delle geniali innovazioni di Dante, l’idea

che la ribellione della prima creatura contro il Creatore abbia

sconvolto il giusto, armonioso ordine cosmico, scavando

l’immensa fossa sotterranea, causa a sua volta dell’emersione

nell’emisfero opposto della montagna purgatoriale, sulla cui

vetta, nell’Eden, fu creato l’uomo, puro, senza colpa.

Lassù Dante deve giungere, uscendo dal «tristo buco», per tornare

a testa alta a popolare il Paradiso terrestre, nuovo Adamo,

incontrandovi Beatrice che lo condurrà ancora più in alto,

all’«Amor che move il sole e l’altre stelle».

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«Lucifero cadendo ha rovesciato l’ordine dell’universo,

spostando la terra nell’emisfero boreale, l’emisfero

dell’esilio e della colpa, dove sarà ucciso […] l’uomo

innocente per eccellenza, il figlio di Dio. La posizione

attuale di Lucifero è dunque a rovescio, a testa in giù,

rispetto all’“alto” del mondo. E tale è la condizione

dell’uomo peccatore sulla terra dell’esilio, mentre l’Eden si

eleva dritto verso il cielo» (A. M. Chiavacci Leonardi).

Si comprende meglio, allora, perché la catabasi e l’anabasi di

Dante, nella loro inscindibile dialettica, sono un viaggio di

giustizia e di amore inteso al riscatto dell’innocenza e

dell’origine perdute. Non è solo un viaggio morale, ma una

«restaurazione dell’universo a misura del cammino

dell’uomo verso Dio».

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Una restaurazione dell’universo. Questo, in ultima

analisi, è il progetto del Purgatorio dantesco.

Riscattare l’umanità, la sua ulteriorità, il suo

guardare-oltre la finitudine in cui consiste l’essere-

uomo, che può prepararsi a commisurare a sé il

cosmo, la «forma universal» del nodo conoscitivo

inestricabile (Par., XXXIII 91), nel momento in cui

riconosce e accoglie teneramente quella finitezza

creaturale come proprio limite e propria unicità, fino

a riconquistarsi quale un nuovo Adamo all’alba della

sua creazione, «puro e disposto a salire a le stelle».