Sorce, Schapiro...forma

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Francesco Sorce

Schapiro e il problema della forma.

Teofilo. Scemenze. Io posso dirti che cosa suscita in me la Gioconda.

Aletofilo. E a me non interessa per niente, in questo contesto,

ed escludo che il dirlo riguardi l’ontologia dell’arte.

Maurizio Ferraris, A che punto è la notte. Dialogo sull’ontologia dell’arte.

1. L’importanza della riflessione morfologica per la storia dell’arte è stata decisiva fin dalle origini

“accademiche” della disciplina: a ben guardare buona parte dei protocolli della ricerca storico artistica dipende, in

fin dei conti, dall’impegno nei confronti dell’ontologia della forma. E ciò - occorre sottolinearlo - a prescindere

dalla variabilità di collocazione di tale impegno nell’ordine delle priorità dei diversi sistemi di indagine

(iconologia, storia sociale, stilistica, critica “militante”…).

Ciò nonostante, l’ambito epistemico della storia dell’arte è stato attraversato negli ultimi trenta anni da una

revisione profonda degli obiettivi dell’orizzonte di ricerca, distanziandosi dalle fondative aspirazioni

all’edificazione di una morfologia generale. L’affermazione dei paradigmi della cosiddetta New Art History ha

provveduto a spostare l’inquadratura degli interessi piuttosto lontano dalle problematiche formali, enfatizzando,

accanto all’ermeneutica iconologica, le prospettive del “contestualismo” e della storia sociale.

Questi percorsi - almeno in parte coincidenti con lo sfondo epistemologico che si suole definire postmoderno

- si sono delineati più o meno esplicitamente in dialettica con le varie declinazioni di formalismo - l’indirizzo cioè

maggiormente incline ad assegnare alla forma un posto centrale e esclusivo rispetto all’assetto di ricerca nel suo

complesso - mettendone in discussione i fondamenti teorici, l’inclinazione prescrittiva (soprattutto di quello

anglosassone) la vocazione transculturale e le finalità pragmatiche1.

All’interno del quadro sommariamente delineato, la figura di Schapiro assume un rilievo significativo, non

solo avendo contribuito, tra i primi, a mettere in discussione alcuni cardini del pensiero formalista - all’interno del

quale, vale la pena ricordarlo, è avvenuta la sua formazione (Williams 2002, pp. 443-447) - ma avendo anche

conservato sempre uno spiccato interesse per le questioni relative alla forma. Egli ha in effetti prospettato

un’alternativa robusta nel contesto dei sistemi di analisi morfologica, tanto rispetto al formalismo “classico”

quanto all’iconologia di matrice panofskiana.

L’obiettivo di questo intervento consiste nel tentativo di perimetrare i tratti distintivi del concetto di forma -

nella duplice accezione referenziale e non mimetica - su cui poggia l’impalcatura del metodo schapiriano, al fine

di prendere in esame le modalità attraverso le quali lo studioso ha superato le nozioni tradizionali e le strategie

adottate nell’intento di infrangere diversi dei vincoli procedurali formalisti.

Sarà pertanto necessario: a) esaminare la differenza concettuale rispetto ai modelli in auge agli inizi della sua

carriera, dei quali lo studioso ha provveduto ad ampliare gli orizzonti; b) valutare la fecondità e la tenuta della sua

eredità nel panorama attuale, specie in rapporto ad alcune proposte di revisione del formalismo elaborate

1 Sui rapporti tra “Nuova Storia dell’Arte” e formalismo si veda ad esempio Crowther 1993 e Crowther 2002, pp. 1-4.

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nell’ambito dell’estetica analitica recente2; c) interrogarsi infine, più in generale, sul ruolo che l’analisi della forma

può (deve) rivestire nel contesto di una disciplina che ambisca ad un profilo compiutamente scientifico.

La traiettoria della produzione di Schapiro appare costantemente costellata di osservazioni relative ai

principali nodi connessi allo statuto della forma: la sua relazione con il contenuto, i peculiari modi di

significazione del piano plastico, i caratteri espressivi, le sue costanti trans-storiche, il suo costituire degli insiemi

coerenti sull’asse diacronico e sincronico.

L’impegno profuso al riguardo, ad ogni buon conto, non ha impedito a parte della letteratura fiorita intorno al

pensiero schapiriano di rilevare in esso una mancanza di solido spessore teorico rispetto all’ordine di problemi

posti dalle questioni menzionate, e di stigmatizzare il mantenersi sempre o quasi al di sotto della densità delle

implicazioni filosofiche della forma da parte dello studioso di origine lituana3.

Tale mancanza appare senz’altro concreta se si cerca nella sua opera una presa di una posizione del tutto

esplicita e limpidamente sistematica: un’operazione, tuttavia, che Schapiro ha forse evitato più che eluso, anche

perché critico convinto di quelle ricerche di indirizzo generalizzante, incapaci - a suo dire - di rendere conto della

variegata complessità dei fenomeni storici, o in difficoltà nel fronteggiare esempi particolari, come nel caso

celebre della lettura heideggeriana delle “scarpe” di Van Gogh4.

Se l’assenza di un assetto immediatamente disponibile alla dialettica, per così dire, suscita effettivamente

qualche perplessità, una certa coerenza nella prospettiva dello studioso affiora nondimeno in trasparenza anche

negli studi di tenore squisitamente pragmatico, permettendo di delineare un concetto di forma tutto sommato

omogeneo, all’elaborazione del quale Schapiro si è dedicato lungo tutto il corso della carriera.

Pare possibile pertanto distillare dal complesso dei suoi lavori gli elementi che ne compongono la cornice

generale di riferimento, eleggendo quali punti di partenza, in ragione del loro grado di esemplarità, anzitutto le

ben note recensioni a La stylistique ornementale dans la sculpture romane di Jurgis Baltrušaitis (1931) e agli studi della

“Nuova Scuola di Vienna”, entrambe degli anni Trenta5.

Dall’attraversamento di quei testi si evince agevolmente in primo luogo l’assetto assunto dallo studioso nei

confronti di alcune almeno delle premesse del formalismo nella sua versione “continentale” - vale a dire

essenzialmente tedesca, austriaca e francese - e se ne coglie in filigrana la posizione rispetto a quello di matrice

anglosassone.

Una sintesi di tale assetto dovrebbe altresì consentire di iniziare a tratteggiare, sia pure per sommi capi, i

margini della “morfologia” schapiriana.

Lo studioso si pone polemicamente anzitutto rispetto all’idea della radicale autonomia del mondo artistico,

imperniata su quello che egli definisce il “dogma della separatezza di arte e vita” (2000, p. 236), com’è noto

largamente diffuso in ambito formalista6.

2 Faccio riferimento essenzialmente a Carroll 1999.

3 Le critiche più decise sono state espresse, com’è noto, da Mitchell 1995.

4 Non si può fare a meno di osservare, tuttavia, come non di rado lo studioso si sia lasciato persuadere con una certa disinvoltura dalle procedure

esplicative della teoria marxista, imputabili spesso proprio di sommaria quanto schematica generalizzazione. Si veda ad esempio il tentativo di spiegazione delle ragioni che hanno generato le reazioni artistiche all’impressionismo in Schapiro 1937, p. 208. 5 Schapiro 1932, pp. 292-313; Schapiro 1936, pp. 258-266.

6 Basti pensare al modello elaborato da Henri Focillon (1943), e a quello sostenuto da Clive Bell (1914) e Roger Fry (1920). Il “dogma” ha innervato

naturalmente anche l’assetto teorico di Clement Greenberg, che con Schapiro ha condiviso il contesto artistico ed estetico de lla cosiddetta Scuola di New York.

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Particolarmente esplicito nel prendere in questo le distanze da Hans Sedlmayr da un lato e da Alfred Barr

dall’altro, Schapiro doveva prospettare una concezione complessiva dell’arte come “variabile dipendente”, che

non è possibile astrarre dai contesti di creazione, rifiutando altresì la tesi di una sua natura necessariamente

teleologica7.

Queste premesse generali di ordine ontologico si associano - in modo esplicito, per lo meno agli inizi - alla

propensione per un monismo epistemologico incline a non riconoscere distinzioni nette tra comprensione e

spiegazione, privilegiando semmai il secondo polo. Tali premesse costituiscono inoltre la ragione di riflessi

notevoli sulla concezione generale dei fenomeni artistici, che si può sunteggiare schematicamente nel modo

seguente: 1) Se l’arte, in quanto variabile dipendente, ha una relazione con il contesto, essa possiede allora

un’ineludibile dimensione semantica8; 2) il contenuto di un’opera svolge una funzione generativa sulla forma,

sebbene la relazione fra i due elementi non sia di dipendenza necessaria.

Si osservi, per inciso, come Schapiro abbia sempre preferito lasciare per così dire “aperto” il concetto di

contenuto, non vincolandolo in una definizione normativa, in ragione del problematico duplice orizzonte dei

suoi interessi costituito dall’arte antica e da quella moderna. Una sua caratterizzazione puntuale risulta pertanto

non facile. Egli non lo ha identificato mai, ad ogni modo, con il soggetto iconografico, né descritto quale

prodotto o espressione di categorie come lo “spirito del tempo”, tendendo a valorizzare soprattutto le sue

implicazioni non proposizionali9. Ciò - mi pare - contribuisce a distinguere chiaramente il suo dal paradigma

iconologico.

Tornando al filo principale del percorso intrapreso, il principio di organizzazione formale di un’opera non

risiede, dunque, in una qualche legge puramente morfologica, ma dipende anche da fattori eteronomi,

individuabili, fra gli altri, in ragioni socioculturali e persino - specie, ma non solo, nel caso dell’arte “referenziale”

- nel rapporto percettivo con il mondo, sul quale si avrà occasione di tornare in seguito.

Si coglie distintamente in questa persuasione una differenza sostanziale rispetto a quanto asseriva Baltrušaitis

(1931) ad esempio, per il quale il processo di definizione formale di un’opera è determinato dall’adeguamento di

qualsiasi contenuto allo schema morfologico fisso che caratterizza lo stile di riferimento. Questa “legge” risultava

agli occhi di Schapiro (1932) - sempre scettico nei confronti delle generalizzazioni non controllate ed in special

modo verso quelle implicanti la radicale autonomia dell’arte - gravemente deficitaria dal punto di vista

epistemologico, perché desunta dall’osservazione di un numero troppo esiguo di fenomeni10

.

Il profilo teorico sin qui tracciato denota quindi un distacco sensibile rispetto ai modelli formalisti assestati nel

panorama disciplinare all’epoca degli esordi di Schapiro nel campo della critica. Accanto alla posizione dialettica

nei confronti di alcuni assunti della nuova Scuola viennese, lo studioso prendeva le distanze anche da due

elementi centrali del pensiero formalista: 1) il principio che la forma, possedendo una natura intransitiva, “si

7 Sul carattere non autotelico dell’arte si veda anche, tra l’altro, Schapiro 1937, pp. 202 -204 e in particolare p. 202, dove lo studioso contesta l’idea, esposta

da Alfred Barr, che l’arte realizzi “in sé una specie di ordine naturale”. 8 Schapiro, com’è noto (Guilbaut 1983, pp. 31-32, 36-37; Carani 2002), fu del resto impegnato in prima linea nel sostenere la necessità dell’attivismo

politico da parte degli artisti nei confronti del proprio contesto di appartenenza. 9 Schapiro (1966, p. 83) fornisce questa definizione, peraltro piuttosto sibillina: “il contenuto di un’opera è il significato delle sue forme in quanto

rappresentazioni e strutture espressive”. 10

Lo studioso è tornato in molte circostanze sulla questione. Si vedano ora anche le considerazioni sul problema dell’autonomia dell’arte nei preziosi

contributi alla conoscenza della miniatura anglosassone di VII e VIII secolo, originariamente esposti in forma di lezione presso la Columbia University nel 1968 e finalmente pubblicati in Schapiro 2005 (in particolare p. 27).

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significhi”, secondo le arcinote tesi di Focillon (1943), nell’alveo delle quali confluivano gli studi di Baltrušaitis; 2)

la concezione, emergente dalle riflessioni di Clive Bell e Roger Fry, che il carattere significante della forma sia

connesso (in modo notoriamente circolare) con una non meglio precisata emozione estetica11.

Il riconoscimento di un ruolo cardinale del contenuto nella strutturazione dell’universo formale conduce

Schapiro a biasimare nel complesso, e in maniera spesso implicita, quelle prospettive che tendono a qualificare la

forma esclusivamente come contorno o profilo delle cose, implicandone la riduzione ad un insieme di linee,

colori e volumi: una riduzione che crea le condizioni di possibilità per le procedure critiche - costitutive per la

declinazione attribuzionistica della storia dell’arte - incentrate sull’astrazione del puro disegno, o della pura forma

dall’opera.

Nel progetto schapiriano emerge invece un’idea di forma - largamente attestata peraltro nella tradizione

occidentale - come insieme di parti e rete di rapporti, prossima dal punto di vista semantico a quella di struttura12.

Ciò che Schapiro sembra avere in mente è quindi un concetto assai prossimo a quello di composizione; ne

discende piuttosto naturalmente dal punto di vista pragmatico un cambio di impostazione metodologica, che

individua la prassi più pertinente all’analisi formale in una serie di protocolli in grado di focalizzare la trama delle

relazioni e di interpretarne il senso dal punto di vista espressivo.

Dalla centralità conferita al dato semantico deriva anche una nuova valutazione delle capacità espressive della

forma (rappresentativa e non mimetica), che assumono progressivamente un rilievo sempre più pronunciato

nell’architettura delle ricerche schapiriane, comparendo del resto anche nella celebre definizione dello stile.

Per stile, scriveva infatti lo studioso (1953, p. 3), “si intende la forma costante - e talvolta gli elementi, le

qualità e l’espressione costanti - dell’arte di un individuo o di un gruppo”. E poco più avanti (ib.): “ma lo stile è

soprattutto un sistema di forme dotato di una qualità e di un’espressione portatrice di significato, che permette di

riconoscere la personalità dell’artista e la visione del mondo di un gruppo”.

Un ulteriore confronto con le proposte metodologiche e gli esiti delle ricerche di Baltrušaitis consente di

cogliere la rilevanza dello scarto segnato dalla prospettiva schapiriana rispetto ai modelli concorrenti. Schapiro

(1932, p. 300) sottolineava come lo studioso lituano non riuscisse ad afferrare l’aspetto genetico e il

funzionamento semantico di certe configurazioni come quella del timpano di Conques, ad esempio, proprio

perché incline ad ignorare il fattore espressivo. Nello specifico solo la considerazione del soggetto e del suo

contenuto permette infatti di comprendere il senso della differente organizzazione formale tra la raffigurazione

del Paradiso e quella dell’Inferno, le cui variazioni strutturali sono dettate dall’esigenza di comporre contrasti

espressivi13.

L’aver fatto reagire in modo nuovo la sfera formale con quella del contenuto e dell’espressione - almeno per

quanto riguarda l’arte figurativa - sollecita inoltre Schapiro a inserire nel sistema di definizione della forma anche

il nodo della funzione. Infrangendo i limiti delle cornici usuali, la sua strategia conoscitiva sottrae finalmente la

forma alla realtà di più alto livello in cui la relega il formalismo classico separandola da quella dell’esperienza. Ne

11 Non è qui il caso di esplorare nel dettaglio i problemi relativi alla tenuta teorica dei formalismi europei della prima metà del secolo scorso. Per una critica

del versante anglosassone si rimanda senz’altro al consuntivo fornito da Carroll 2003, pp. 87-96. 12

Su questo punto si veda Tatarkievicz 1976, p. 255. 13

Schapiro aveva esposto “in positivo” le sue considerazioni rispetto all’urgenza di affrancarsi dalla semplicistica rilevazione di forme ge ometriche nelle

composizioni scultoree medievali già a partire, ad esempio, dagli studi sulla Storia di Teofilo nel portale di Souillac. Si veda in proposito Crow, 1999, pp. 15-16.

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discende che il giudizio sulla sua perfezione, ad esempio, non può essere esercitato solo in base agli astratti

parametri del mondo formale, ma deve semmai essere tarato su quella che potrebbe definirsi l’efficacia retorica

della forma stessa.

L’assetto descritto pone del resto, più o meno esplicitamente, le premesse per l’inclusione dell’osservatore

quale polo decisivo per esaminare il processo di organizzazione e i risultati delle composizioni sotto il profilo

comunicativo14.

Sebbene tuttavia il rapporto fra configurazione, funzione e contenuto non sia mai per Schapiro descrivibile in

termini di necessità, egli è sempre parso comunque persuaso dell’esistenza di una sorta di norma generale della

concordanza tra contenuto e forma basato propriamente su un principio di funzionalità.

La migliore esemplificazione di tale assunto si trova - mi pare - nella interpretazione dello stile dei mosaici di

Santa Maria Maggiore a Roma. Le differenze formali tra alcuni riquadri, tradizionalmente interpretate come

riflesso di esecutori diversi o di cronologie distinte, vengono spiegate da Schapiro (1953, p. 57) come esito di

opzioni formali adeguate a “contenuti” vari, cioè funzionali all’espressione di un certo significato: “se dai due

cicli emerge nel complesso un’impressione di contrasto fra due stili, è perché l’Antico Testamento è stato

interpretato principalmente come vicenda o azione, mentre il Nuovo è visto come fonte di dogmi o rituali; ma

ogniqualvolta questi ultimi si ritrovano nelle scene dell’Antico Testamento, anche queste sono raffigurate nella

modalità espressiva dei soggetti neotestamentari”.

Le operazioni teoriche sin qui osservate contribuiscono quindi alla messa a punto di un disegno generale che

permette il superamento delle pratiche di quello che Richard Wollheim (2001, pp. 127-137) ha definito

formalismo “normativo”, il cui giudizio sugli equilibri compositivi, ad esempio, viene elaborato sulla base

esclusiva di un ordine a priori - concepito essenzialmente sull’ideale di simmetria - non “giustificato” in modo

coerente, e soprattutto sradicato dalle sue possibili funzioni sul piano della comunicazione del senso. Un modello

analitico-assiologico così definito manca fatalmente - agli occhi di Schapiro - di intercettare le finalità espressive

delle composizioni, perché non opportunamente sintonizzato, per così dire, sugli aspetti sintattico-semantici delle

forme.

Nello spettro concettualmente esteso dell’analisi della forma e in particolare di quella a statuto referenziale

possono così inscriversi elementi scarsamente considerati come veicoli di espressione del senso all’interno delle

pratiche tradizionali15

.

Entrano dunque nel contesto morfologico lo sguardo e il gesto rappresentati, assunti da Schapiro quali

strumenti primari non solo nel connotare singole figure, ma anche in quanto generatori di dinamiche e tensioni

all’interno del campo figurativo: veri e propri articolanti logici, cioè, di quei tessuti sintattici che governano la

distribuzione di pesi e equilibri del materiale visivo. Come hanno rilevato ancora di recente Malcolm Budd (1995,

p. 55) e Dominic Lopes (2005, p. 124), nell’ansia di astrazione che lo contraddistingue, un formalismo non

emendato risulta in effetti inadeguatamente attrezzato per la corretta definizione dell’importanza di dispositivi del

genere nella costruzione della forma.

14 In questo senso non pare in effetti arbitrario l’accostamento che Paul Mattick (1997, p. 17) ha avanzato con l’idea molto all argata di forma messa a punto

da David Summers (2003), che contempla come essenziale la relazione con lo spazio dello spettatore. 15

Un’eccezione importante è costituita dagli studi di Alois Riegl (1902) sul ritratto di gruppo olandese.

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Nell’agenda schapiriana diventa inoltre componente cardinale lo spazio - nella duplice accezione di “planare”

e “simulato” - in quanto elemento portante e mai neutro nella costruzione delle immagini. La particolare cura che

lo studioso è solito riservare alla descrizione del funzionamento dello spazio di superficie deriva certamente, del

resto, dalle riflessioni sollecitate dalle correnti dell’astrattismo intorno al problema del significato nell’arte non

iconica. L’interesse per l’espressione genera infatti il riconoscimento di potenti meccanismi semantici in quelle

che, nella fase già semiotica di Campo e veicolo (1969, p. 101), doveva chiamare proprietà “topologiche”,

includendovi opposizioni elementari come destra-sinistra, alto-basso, frontalità-profilo16. Anche a tal proposito si

deve rimarcare l’originalità del pensiero di Schapiro nel flettere tali qualità - beninteso, certo non ignote alla storia

e alla critica d’arte - all’interno della sfera dei dispositivi di produzione del senso, anziché confinarle in un sapere

dalla tendenza puramente descrittiva ed eventualmente valutativa17.

È senz’altro interessante sottolineare, a margine di quanto detto, il fatto che lo studioso - in ragione dell’idea

generale di arte come intimamente collegata all’esperienza - abbia costantemente radicato la capacità di

generazione di significati delle proprietà topologiche nella sfera sensibile, cioè in quella che definisce una

“criptoestesia” (1969, p. 117). Per analizzare i principi di strutturazione delle opere e il funzionamento dei loro

effetti Schapiro non ha dunque bisogno di postulare l’esistenza di qualche legge formale puramente artistica né di

invocare codici affatto arbitrari. Gli è sufficiente fare riferimento, ad esempio, alla anisotropia dello spazio per

come essa si manifesta in relazione alla normale dotazione dell’apparato percettivo.

L’idea del radicamento nella sfera sensibile della costituzione degli spazi figurativi - una sfera intesa come

elemento stabile nel tempo, a differenza di quanto pensava Wölfflin, per non fare che un esempio di una

convinzione assai diffusa - suggerisce a Schapiro sostanzialmente l’assunzione di alcuni caratteri della forma

(serie oppositive, articolanti logici e così via) come costanti, la cui esistenza non dipende (esclusivamente) dai

contesti o da qualche forza come il Kunstwollen, così come non deriva (necessariamente) da questi ultimi la loro

rilevabilità sotto il profilo critico18.

2. Il concetto di espressione - fondamentale, come si è visto, nella morfologia schapiriana - presenta

nondimeno alcune debolezze che occorre valutare con una certa cura. Si proverà pertanto a disegnare

un’ulteriore specificazione dei contesti d’uso di tale elemento nell’architettura teorica descritta, abbozzandone

una problematizzazione.

Lo sfondo sul quale si proietta il progetto schapiriano pare coincidere con quello generale delle cosiddette

Expression Theories, tra le più diffuse e accreditate ancora alla metà del Novecento. Il nodo espressivo è del resto

questione condivisa e all’ordine del giorno nell’estetica cronologicamente prossima a quella di Schapiro - e non è

certo qui il caso dilungarsi sui riverberi del tema nella filosofia di Croce e di Collingwood e nelle riflessioni di Bell

16 Vale la pena di osservare come Schapiro si dimostri in questo caso almeno in parte debitore di una serie di argomenti già lucidamente formulati da Otto

Pächt rispetto all’importanza di considerare le relazioni spaziali tra superficie e profondità, quando ad esempio, parla dell o spazio tra le figure come generatore di effetti di “intimità, intromissione e isolamento” (1969, p. 100). Sulla conoscenza e l’apprezzamento di Pächt da parte dello studioso si veda

Schapiro 1936, pp. 262-264; sulla relazione tra le sue ricerche “semiotiche” e il paradigma definito da Greimas e dalla sua “scuola” sono utili le i ndicazioni offerte da Corrain 2002. Si veda anche Carani 2002. 17

Si veda in proposito la limpida sintesi elaborata da Puttfarken 2000, che a Schapiro fa peraltro esplicito riferimento in rap porto alla definizione di

composizione. 18

Sul radicamento dell’idea della storicità dell’occhio nel panorama storico artistico contemporaneo e sui problemi che tale radicamento comporta si veda

Danto 2001, p. 40.

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e Fry19. Schapiro ha sempre considerato l’argomento, non senza qualche residuo di ambiguità, sotto due rispetti

differenti, che sollecitano un esame distinto.

Il primo corno del problema pare riconducibile all’assunto della stretta relazione tra arte e vita interiore. Nel

panorama culturale statunitense alla metà del Novecento, l’esplorazione e l’espressione dell’inconscio attraverso

la pittura diventano, com’è noto, un vero e proprio luogo comune sull’onda del successo degli astrattismi della

Scuola di New York, collocandosi all’interno di un generale fenomeno di attenzione per la soggettività alimentato

dalla diffusione dei paradigmi psicanalitici e dal largo consenso del surrealismo.

Schapiro elabora su queste premesse un modello analitico generale dei dati espressivi piuttosto incline ad

individuare nella forma tracce biografiche dell’autore, estendendo in modo francamente illegittimo uno dei

cardini teorici dell’Espressionismo Astratto, imperniato sul processo di messa in figura dell’interiorità, che egli

stesso, insieme a Harold Rosenberg e ad alcuni artisti, ha contribuito a consolidare20.

L’opzione teorica dello studioso è in questo senso ben testimoniata - sia pure a livello implicito - nel saggio su

Fromentin (1949), del quale egli mostra di apprezzare soprattutto la presunta straordinaria abilità nel far

emergere la “sensibilità” e lo “stato spirituale” degli artisti attraverso le opere. Schapiro si dimostra propenso in

effetti, sulla scorta degli interessi dichiarati per la psicanalisi, ad assegnare ai lavori degli artisti un carattere

sintomatico rispetto ai loro stati psicologici, assumendo talvolta il segno, ed in special modo quello non

mimetico, come “tracciato dell’emozione” (1957, p. 233)21.

In questo quadro le scelte iconografiche non costituiscono puri pretesti formali - a differenza di quanto

pretenderebbe certo formalismo - ma sono significative poiché riflettono simbolicamente un investimento

personale dell’artista, manifestandone la “presenza”, come nel caso delle scarpe di van Gogh, delle mele di

Cézanne o della picassiana Donna con ventaglio.

Tuttavia, al di là delle suggestioni che le analisi, comunque generalmente piuttosto penetranti e tutto sommato

abbastanza sobrie, generano in termini di chiavi di lettura possibili delle storie intellettuali degli artisti, le

spiegazioni dei nessi causali tra dati biografici e opzioni formali si fanno spesso sfumate e si dimostrano in

definitiva di utilità assai contenuta nella comprensione delle immagini.

Le difficoltà analitiche già evidenti nell’ambito del discorso critico sull’astrattismo si fanno inoltre ancora più

pronunciate in relazione alla pittura figurativa. Due esempi paiono sufficienti ad illustrare la generale attitudine

interpretativa dello studioso, non sempre improntata a quelle esigenze di rigore scientifico già invocato nella

discussione del metodo della Nuova Scuola Viennese.

Confrontando Donna con ventaglio di Picasso [INSERIRE QUI FIG 1. Didascalia: fig. 1. Pablo Picasso. Donna

con ventaglio: Washington, National Gallery of Art] con il disegno preparatorio [INSERIRE QUI FIG. 2.

Didascalia: fig. 2. Pablo Picasso. Donna con ventaglio: Oberlin [Ohio], Allen Memorial Art Museum], Schapiro vede

nell’atteggiamento della fanciulla dipinta il riflesso di un cambiamento nella psicologia dell’autore, che esprime un

19 Per una panoramica aggiornata sulle questioni più rilevanti del problema dell’espressione nel contesto della filosofia dell’arte si veda Davies 2006, pp.

135-166, in particolare 144-152, e Carroll 1999, pp. 58-106. In ambito più specificamente storico-artistico rimane suggestivo il saggio di Gombrich 1963. 20

Sul rapporto tra inconscio e arte nel contesto della Scuola di New York si veda Leja 1993, in particolare pp. 37-41, e Tedeschi 2004. 21

Lo studioso partecipò peraltro alla ben nota tavola rotonda sull’arte moderna promossa dalla rivista Life nel 1948, sostenendo significativamente, e in

linea con le tendenze del contesto, una visione del modernismo come “costante ricerca di sé stessi”. Si veda in proposito Leja 1993, pp. 38-39.

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diversa considerazione della sua relazione con il mondo. Addirittura, un “momento critico nello sviluppo della

personalità del pittore, delle sue tensioni interiori” (1976, p. 128).

Nel saggio sulle mele cézanniane, ed in particolare a proposito del disegno raffigurante un Autoritratto con mela

[INSERIRE QUI FIG. 3. Didascalia: fig. 3. Paul Cézanne, Autoritratto con mela: Cincinnati, Art Museum], lo

studioso giunge inoltre a riscontrare analogie tra le proprietà estetiche del frutto e il carattere di Cézanne,

sostenendo una “affinità fra il pittore ed i suoi oggetti”, che “al di là di ogni somiglianza con il suo cranio calvo,

spiega probabilmente la scelta di rappresentare una mela isolata accanto ad un autoritratto” (1968, p. 33).

Mi sembra che qui emerga in tutta la sua flagranza il riflesso di uno dei principali nodi irrisolti della teoria

dell’arte sottesa alla prospettiva descritta, che - osservava opportunamente Monroe Beardsley (1981², p. XLI) -

tende a identificare ciò che l’arte esprime con ciò che l’artista esprime (di sé), spiegando il primo dato nei termini

del secondo. Lo stesso Beardsley suggeriva in proposito - e mi pare che difficilmente gli si possa dar torto - che

sarebbe necessario tenere sempre distinti i due poli, concependo più semplicemente l’espressione dell’artista

come l’atto di creare qualcosa di espressivo, al fine di spostare il fuoco dell’analisi dal soggetto all’oggetto e di

renderlo in tal modo concretamente discutibile.

Il problema più consistente, quindi, riguarda non tanto l’idea di senso comune che l’arte sia anche espressione

della personalità dell’artista - cosa che nessuno in genere tende a negare - quanto come, semmai, se ne possa (e se

ne debba) parlare. La scelta reiterata di un soggetto può certamente essere investita di implicazioni personali.

Tuttavia, non è mai chiaro in che modo specifici elementi formali siano la testimonianza diretta di qualche

preciso stato emotivo, in che maniera cioè contengano le marche del vissuto dell’autore, anche nelle prospettive

più disponibili all’“autobiografismo”22.

Né risulta chiaro come sia possibile individuare i frammenti dell’inconscio in quanto tali all’interno di

un’opera, se non continuando a pensare la questione in termini semplicisticamente “empatici”, risolvendola sul

piano della sensibilità individuale che si immagina capace di risuonare nel modo opportuno alle sollecitazioni

degli artisti: scorciatoia alla quale non si sottrae lo stesso Schapiro (1957, p. 237) quando asserisce che il

“messaggio” dell’arte astratta può essere colto solo da chi è dotato di sensibilità particolare, aggiungendo che “in

molte persone” l’esperienza dell’astrattismo è “equivalente” alla “esperienza religiosa”. Tant’è che per provarla

occorre avere “purezza di spirito”23.

Ma ad evidenza questa posizione risulta troppo fragile per essere condivisibile: dal punto di vista storico-

artistico, quindi, la questione più pressante, insieme al definitivo riconoscimento delle varie debolezze della

teoria, riguarda la necessità di vagliare l’effettiva produttività sotto il profilo euristico delle procedure ad essa

improntate.

22 Le scarpe dipinte da van Gogh costituiscono per Schapiro (1968, p. 203) una sorta di specchio dell’intimità dell’artista, una sorta di autoritratto. Le

soluzioni formali scelte dal pittore olandese (“la densità e la pesantezza della sostanza del colore, l’emergere dall’ombra d elle scarpe scure, le linee irregolari

e angolose e i lacci sorprendentemente allentati”) dovrebbero inoltre riflettere la sua “originale concezione delle stesse”. La possibilità di riferire quelle precise soluzioni al travaglio interiore dell’artista sono, tuttavia, al più congetturali e difficilmente generalizzabili, nonostante tutte le diffuse conoscenze

sulla turbolenta esistenza di van Gogh. D’altra parte, come controargomento per analogia varrà qui, come in casi analoghi, l’esempio relativo all’impossibilità di adottare una prospettiva “espressionista” nel determinare lo stato d’animo che genera ad esempio la scelta di tonalità minori in campo

musicale. Un accordo minore o diminuito, infatti - è cosa ben nota - può essere scelto in piena serenità, semplicemente con l’intenzione di conferire alla composizione la veste e gli effetti tipici degli intervalli minori o diminuiti. 23

Sono molti i passi che attestano la sua posizione in merito. A titolo di esempio si può fare riferimento a quanto affermato i n Schapiro 1952, p. 159, dove

si dice che l’arte astratta proietta sulla tela “elementi intimi dell’artista, che esigono una corrispondenza attiva da parte del fruitore”; oppure alle conclusioni cui giunge in Schapiro 1937, p. 211, dove sostiene che il fruitore più sensibile è quello che vive una dimensione emotiva affine a quella dell’artista.

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Il secondo corno del problema dell’espressione - senz’altro più fecondo rispetto alle questioni appena indicate

- riguarda la definizione della natura di quelle che Schapiro chiama, in più di un’occasione, qualità fisionomiche,

vale a dire dei caratteri che nella letteratura recente risultano stabilmente assestati come “proprietà espressive”.

Anzitutto, pare legittimo dedurre dall’esplorazione dei suoi scritti la persuasione di un legame diretto tra

l’espressione e le proprietà “configurazionali”, nonostante lo studioso eviti sempre l’esplicita illustrazione del suo

impegno in merito. In altre parole, la forma - in virtù delle sue configurazioni peculiari - possiede un’intrinseca e

stabile espressività, che sembra peraltro funzionare per Schapiro su base essenzialmente sinestetica,

“incontrando” aspetti diversi e complementari della sensibilità24. Con particolare riferimento all’arte non

figurativa, e pur rimanendo al di qua di una sistemazione del tutto coerente, Schapiro pare quindi prossimo allo

schizzo di una sorta di teoria della significazione diretta25.

Tale prospettiva, almeno in linea di principio, contribuisce a rendere possibile la definizione delle modalità in

cui la forma produce senso senza rappresentare, andando naturalmente ad incidere sui metodi di approccio

all’arte non figurativa, il cui significato va cercato tra l’altro, come si è già accennato, proprio nell’espressività e

non in una qualche forma di contenuto proposizionale.

Del resto lo studioso (1969, p. 117) è parso sempre incline a considerare l’identità dei meccanismi di fondo

che regolano la distribuzione dei segni mimetici e di quelli non mimetici, sostenendo coerentemente che l’arte

astratta mantiene “molte delle qualità e delle relazioni formali dell’arte mimetica”, riflesso chiarissimo del suo

impegno come critico militante e engagé nella legittimazione di certo astrattismo. Da questo punto di vista l’arte

astratta produce, sul piano espressivo, risultati analoghi a quelli della figurazione rappresentativa.

Schapiro si è espresso peraltro in modo eloquente rispetto al piano dei suoi interessi, affermando che

un’opera astratta tende a persuadere quando produce “una sensazione di ordine, armonia e espressività” e un

“senso del giusto e del coerente” (2000, p. 213), e ha spesso insistito sulla chiarezza, l’equilibrio e l’armonia come

effetti e valori che toccano direttamente la sfera sensibile dell’osservatore.

Benché si tratti di una linea largamente attestata nell’orizzonte assiologico formalista, Schapiro ha tentato

tuttavia di farla confluire in un sistema di spiegazioni più articolato e decisamente meno frammentario26. Le

intuizioni dello studioso intorno al nesso tra forma e espressione - esposte non di rado come tali, cioè quali

semplici intuizioni - attingono infatti al bacino teorico e ai risultati degli studi sulla percezione visiva, capaci di

garantirne almeno in parte la fondatezza, svincolandole dai limiti di una dimensione strettamente personale. Non

sarà un caso, del resto, se il suo nome compare tra i ringraziamenti del celeberrimo Arte e percezione visiva di

Rudolph Arnheim (1974²), con il quale egli sembra condividere molte opinioni intorno ai caratteri delle qualità

fisionomiche e all’astrattismo in generale27.

24 Si noti per inciso che il patrimonio espressivo delle forme tende per lo studioso a costituire la condizione di possibilità (o, se si preferisce , la base

motivazionale) per la loro trasformazione in forme simboliche, come attesta chiaramente l’esempio della sfera proposto in Schapiro 1960, p. 242. 25

Una teoria del genere risulta assimilabile con una certa approssimazione al modo di significazione fisionomico descritto da Thürlemann 1986, pp. 118-

119. 26

È possibile in questo caso rilevare il legame che Schapiro palesa ancora - fatte salve tutte le convenienti distinzioni - con la tradizione formalista ed in

particolare con Roger Fry (1920), che sosteneva come fosse possibile provare “un piacere particolare nella percezione dell’ordine, nel carattere inevitabile

delle relazioni”. 27

Numerosi, ad esempio, sono i riferimenti ai nodi della percettologia in Schapiro 1978, pp. 246-279. Sul tema delle proprietà espressive della forma

Arnheim (1974, pp. 361-375) presenta inoltre diverse convergenze concettuali - ancorché mai del tutto coincidenti - con la riflessione schapiriana.

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Alcune delle annotazioni critiche di Schapiro sui caratteri espressivi dell’astrattismo paiono peraltro

confermate dalle ricerche, certo ancora aurorali, che stanno dissodando il terreno di confine tra storia dell’arte e

neurobiologia: ricerche che sembrano poter contribuire all’illuminazione di diversi aspetti del rapporto tra forma

e espressione, fornendo spiegazioni persuasive, ad esempio, intorno ai fenomeni di “sopravvenienza”28

.

Le indagini di Semir Zeki (1999) - da prendere senz’altro con lo stesso beneficio del dubbio che l’autore

prudentemente avanza - attestano, tra l’altro, che la ricerca dell’ordine, delle relazioni pure e dei loro esiti

espressivi da parte dell’arte non figurativa ha un ancoraggio nei meccanismi delle funzioni elementari del cervello

visivo, attrezzato ad “afferrare” e focalizzare determinate configurazioni formali più e meglio di altre. Studi di

questo genere forniscono quindi un appiglio e una possibile via di evoluzione alle letture di impostazione

schapiriana sui fenomeni dell’astrattismo e dell’astrazione, permettendo di conferire sistemazione stabile a un

bagaglio di conoscenze critiche dai contorni talvolta poco limpidi ed esposto al rischio dell’arbitrarietà.

Mi pare, in conclusione, che uno degli apporti maggiori di Schapiro alla storia dell’arte come disciplina

“scientifica”, consista nell’aver contribuito a spostare risolutamente l’asse tradizionale dell’indagine sulla forma,

concependo un assetto epistemico che si pone come obiettivo la spiegazione dei modi in cui l’arte produce senso

e che si discosta in modo radicale dalle varie modalità di critica tese a promuovere o suggerire determinate

esperienze estetiche.

Con lo studio dell’espressività anzitutto del piano plastico, la messa a punto di un concetto di forma come

composizione e l’abbozzo di una retorica degli “affetti”, Schapiro ha consegnato alla storia dell’arte le premesse

per un progetto conoscitivo in grado - in linea di principio - di mettere in luce il processo di elaborazione delle

opere attraverso la disimplicatura dei sedimenti compositivi cristallizzati nella densità delle immagini.

La proposta metodologica dello studioso, al di là delle non poche ellissi teoriche di cui si compone, sembra

contenere alcuni dei semi utili allo sviluppo di un compiuto modello “funzionalista”, indispensabile

all’evoluzione di una morfologia finalmente affrancata dai vincoli tradizionali e aperta alle fertili novità del

pensiero analitico contemporaneo.

Tale modello - certo uno dei più solidi fra quelli disponibili nel panorama delle morfologie contemporanee -

contempla la forma come esito di una serie di scelte compiute in funzione di qualche scopo, con l’intenzione di

creare un insieme di relazioni che si ritiene ottimale per la realizzazione dell’obiettivo suddetto29

.

Esso tenta dunque di spiegare le ragioni per le quali un’opera è “così e così”, definendo gli elementi formali in

termini di opzioni razionali e di “massimizzazione” del risultato, per citare la formula fortunata e ricca di

implicazioni coniata da Jon Elster (2000). La prospettiva delineata infine, nella polarizzazione gnoseologica

compresa tra sapere che e sapere perché, consente di muovere il fuoco della storia dell’arte decisamente verso il

secondo punto e di istituire un sistema analitico capace di produrre un incremento di conoscenza rispetto alla

consolidata prassi tendenzialmente classificatoria della disciplina.

28 Per un’ottima sintesi della questione in campo estetico si veda Pouivet 1999, pp. 141-164.

29 Per la più compiuta definizione dell’assetto funzionalista e per una valutazione consapevole di alcuni possibili problemi si veda Carroll 1999, pp. 137-

154.

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RINGRAZIAMENTI: mi capita spesso di essere loro debitore, ma non per questo è meno sentito il

riconoscimento nei confronti di Luca Bortolotti e Michele Di Monte, per gli inviti e perché sanno arginare gli

errori in eccesso. Di tutti quelli che rimangono sono naturalmente l’unico responsabile. Devo inoltre un

ringraziamento speciale a Francesca Sinagra, che ha condiviso (e sopportato) questo e tanto altro.

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