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STORIA DEL CRISTIANESIMO: volume 1 INTRODUZIONE di Alberto Pincherle. I. 1. Da un punto di vista strettamente storico-religioso, cioè di quel ramo delle scienze storiche che si dedica allo studio delle religioni, e secondo un "criterio tipologico" di classificazione, il cristianesimo si presenta con i caratteri di religione "monoteistica, rivelata, fondata, universalistica" e, possiamo aggiungere, "storica". Questi caratteri, o alcuni di essi, non appartengono però esclusivamente al cristianesimo; e sono d'altronde strettamente collegati fra di loro (1.. Il "monoteismo" - tralasciando qui religioni a proposito delle quali si può discutere - É carattere comune anche all'ebraismo e all'islamismo. Nell'uno e nell'altro esso É promulgato mediante una "rivelazione" della divinità che costituisce l'unico oggetto non solo del culto, ma anche della fede, per cui non vi sono altri Dei all'infuori di Dio che É l'unico vero, il solo realmente tale. Questa rivelazione É incorporata in un libro, o un complesso di scritti che costituiscono il Libro Sacro, le "Sacre Scritture". Il cristianesimo ha appunto fatto suo il Libro Sacro dell'ebraismo: ma alla rivelazione in esso contenuta ha aggiunto la propria, che di quella É il coronamento e il perfezionamento, anzi, in vari punti, il superamento. E come le altre rivelazioni si presentano quali fatte dalla divinità a un uomo, o più uomini, per mezzo dei quali essa parla all'umanità, o ad un popolo - scelto affinché‚ si faccia a sua volta annunciatore e rivelatore a tutti gli altri - così anche il cristianesimo implica la fede nella rivelazione che il suo "Fondatore" ha trasmesso all'umanità intera: onde l'"universalismo", implicito nel fatto che la religione dell'unico Dio vero si afferma anche come l'unica vera. Tutto ciò si può esporre in altro modo, e almeno formalmente più semplice, dicendo che il cristianesimo si fonda sulle due parti che costituiscono la Bibbia, e cioè l'Antico e il Nuovo Testamento; e che quest'ultimo tratta di Gesù Cristo e di ciò che con la parola o con gli atti ha insegnato agli uomini. Dunque il cristianesimo É sotto più aspetti una religione "storica": in quanto esso É sorto sul tronco di una religione esistente (anche essa, come si É visto, monoteistica, rivelata e fondata: si pensi ad Abramo, e soprattutto a MosÉ, che raccolse la rivelazione fattagli, ma anche ai profeti.; ha un "Fondatore", personaggio storico: e di questo Fondatore espone la storia, che costituisce il contenuto della sua fede. Inoltre - e pur senza addentrarci in considerazioni teologiche - il cristianesimo si può chiamare religione storica o, se si vuole, storicistica, per essere stato ed essere fattore determinante di civiltà (influendo anche su alcune diverse da quella europea e occidentale che É la nostra. e perché‚ la sua apparizione É concepita come un momento centrale della storia umana. Non si tratta soltanto della esteriore e volgare determinazione cronologica per cui indichiamo gli anni avanti cristo e dopo cristo (determinazione che É stata introdotta soltanto verso il 525. ma d'un dato di fatto: per tutti i cristiani, con Gesù Cristo É incominciata veramente una nuova epoca nella storia umana, nei rapporti cioè del genere umano con Dio.

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STORIA DEL CRISTIANESIMO: volume 1 INTRODUZIONE di Alberto Pincherle. I. 1. Da un punto di vista strettamente storico-religioso, cioè di quel ramo delle scienze storiche che si dedica allo studio delle religioni, e secondo un "criterio tipologico" di classificazione, il cristianesimo si presenta con i caratteri di religione "monoteistica, rivelata, fondata, universalistica" e, possiamo aggiungere, "storica". Questi caratteri, o alcuni di essi, non appartengono però esclusivamente al cristianesimo; e sono d'altronde strettamente collegati fra di loro (1.. Il "monoteismo" - tralasciando qui religioni a proposito delle quali si può discutere - É carattere comune anche all'ebraismo e all'islamismo. Nell'uno e nell'altro esso É promulgato mediante una "rivelazione" della divinità che costituisce l'unico oggetto non solo del culto, ma anche della fede, per cui non vi sono altri Dei all'infuori di Dio che É l'unico vero, il solo realmente tale. Questa rivelazione É incorporata in un libro, o un complesso di scritti che costituiscono il Libro Sacro, le "Sacre Scritture". Il cristianesimo ha appunto fatto suo il Libro Sacro dell'ebraismo: ma alla rivelazione in esso contenuta ha aggiunto la propria, che di quella É il coronamento e il perfezionamento, anzi, in vari punti, il superamento. E come le altre rivelazioni si presentano quali fatte dalla divinità a un uomo, o più uomini, per mezzo dei quali essa parla all'umanità, o ad un popolo - scelto affinché‚ si faccia a sua volta annunciatore e rivelatore a tutti gli altri - così anche il cristianesimo implica la fede nella rivelazione che il suo "Fondatore" ha trasmesso all'umanità intera: onde l'"universalismo", implicito nel fatto che la religione dell'unico Dio vero si afferma anche come l'unica vera. Tutto ciò si può esporre in altro modo, e almeno formalmente più semplice, dicendo che il cristianesimo si fonda sulle due parti che costituiscono la Bibbia, e cioè l'Antico e il Nuovo Testamento; e che quest'ultimo tratta di Gesù Cristo e di ciò che con la parola o con gli atti ha insegnato agli uomini. Dunque il cristianesimo É sotto più aspetti una religione "storica": in quanto esso É sorto sul tronco di una religione esistente (anche essa, come si É visto, monoteistica, rivelata e fondata: si pensi ad Abramo, e soprattutto a MosÉ, che raccolse la rivelazione fattagli, ma anche ai profeti.; ha un "Fondatore", personaggio storico: e di questo Fondatore espone la storia, che costituisce il contenuto della sua fede. Inoltre - e pur senza addentrarci in considerazioni teologiche - il cristianesimo si può chiamare religione storica o, se si vuole, storicistica, per essere stato ed essere fattore determinante di civiltà (influendo anche su alcune diverse da quella europea e occidentale che É la nostra. e perché‚ la sua apparizione É concepita come un momento centrale della storia umana. Non si tratta soltanto della esteriore e volgare determinazione cronologica per cui indichiamo gli anni avanti cristo e dopo cristo (determinazione che É stata introdotta soltanto verso il 525. ma d'un dato di fatto: per tutti i cristiani, con Gesù Cristo É incominciata veramente una nuova epoca nella storia umana, nei rapporti cioè del genere umano con Dio. Ossia, il momento ideale a cui si guarda come a quello della perfezione, per il cristianesimo É posto nel passato: il cristiano ha anche sempre presente, come oggetto essenziale della sua fede e modello da amare e imitare, Gesù e i suoi immediati discepoli, gli Apostoli. Nello stesso tempo, però, elemento essenziale della fede cristiana É anche un guardare, un protendersi verso l'avvenire: ciò che costituisce l'aspetto "escatologico" (dal greco "tà ‚skhata", le ultime cose, gli ultimi eventi o, come si esprimono con un latinismo i catechismi, i "novissimi".. Anche questo carattere É comune ad altre religioni, pur esse rivelate, perché‚ appunto la predizione, che genera l'attesa, cioè la fede e la speranza, É l'oggetto della rivelazione stessa. Ed É attesa che riguarda tanto la collettività dei fedeli, quanto ciascuno di essi: onde si distinguono una "escatologia collettiva", ed una "individuale", personale: il destino di tutti, e quello di ciascuno. Strettamente collegato con questo aspetto É quello per cui il cristianesimo É anche - altro carattere comune ad altre religioni - una religione "soteriologica" (dal greco "soter¡a", salvezza. precisamente in quanto oggetto della fede É la storia del Fondatore, alla rivelazione, insegnamento e opera del quale il cristiano riconosce di dovere la

possibilità di conseguire la salvezza; e ciò sia individualmente, come salvezza dell'anima oltre la morte del corpo, sia in senso collettivo, come partecipe della società dei credenti, popolo di Dio. Sotto questo aspetto, il cristianesimo presenta una certa affinità con i misteri (indicati talvolta come religioni misteriche o anche misteriosofie . del mondo classico-mediterraneo (orfismo, misteri eleusini, di Iside, eccetera. nei quali la immortalità beata era assicurata agli iniziati, prescindendo più o meno dall'appartenenza ad una città (specialmente in Grecia. o ad uno Stato, ad un popolo, eccetera: religioni cioè sopranazionali, e anch'esse, sotto un certo aspetto e in una certa misura, universali. Coloro che appartengono ad esse infatti si sentono uniti fra loro da un vincolo strettamente religioso (una fede e quindi anche un comportamento comune. diverso da quelli che tengono uniti gli appartenenti ad una stessa famiglia, tribù, nazione o Stato, classe sociale, professione, eccetera. In altre parole, la società religiosa É distinta da ogni altro organismo sociale e implica una serie di rapporti così dei membri di essa tra loro come della società stessa, e dei singoli, con la divinità. Nel cristianesimo questo complesso di rapporti É sentito in maniera particolarmente viva: e perciò assume tanta più importanza - come la storia stessa dimostra - il problema delle relazioni tra la società religiosa - la Chiesa - e quella civile - lo Stato -; che suscita echi nelle singole coscienze. In relazione con ciò É un altro fatto: alla società religiosa non si appartiene che in virtù di un fatto religioso: ossia, di una iniziazione. Questo, oltre che nelle religioni monoteistiche indicate, accadeva anche nei misteri del mondo antico, i quali a loro volta presentano aspetti, che qui non interessano, analoghi a ciò che si osserva in religioni dei popoli chiamati ancora, per comodità, primitivi, oggetto di studio da parte della storia generale delle religioni e dell'etnografia ed etnologia. Va invece rilevato che ai misteri, di origine generalmente remota, ma assai diffusi e fiorenti nel mondo mediterraneo nei secoli in cui il cristianesimo sorse e si affermò, esso, per quell'affinità su indicata, É stato paragonato e quasi assimilato da molti studiosi, suscitando vivaci discussioni nei primi decenni del nostro secolo. Da tali misteri il cristianesimo differisce però essenzialmente per due ragioni. La prima É che, mentre nei misteri il fondatore, rivelatore e salvatore (un personaggio divino, morto e risorto, con il quale l'iniziato s'identifica misticamente, partecipando così alla sua medesima sorte e acquistando per tal mezzo una immortalità beata in un regno di oltretomba. É un personaggio mitico, nel cristianesimo, per contro, il Fondatore É un personaggio pienamente storico (tutti i tentativi di negare la realtà storica di Gesù si sono dimostrati vani.. La seconda É che, mentre nei misteri sopravvive la credenza in una pluralità di esseri divini, il cristianesimo, come si É osservato, si mantiene rigidamente monoteistico, come l'ebraismo - o più esattamente, il giudaismo (2. - sul ceppo del quale esso É sorto. Pertanto, prima e principalissima fonte per la conoscenza del cristianesimo É, ovviamente, il suo Libro Sacro, la Bibbia, come la chiamiamo ancora attraverso la trascrizione latina, "Biblia" (anche come nominativo singolare., del greco "tà Bibl¡a" i libri per eccellenza; o la Sacra Scrittura, o semplicemente la Scrittura per eccellenza (anche al plurale, pensando alle varie parti di cui si compone.. La Bibbia contiene la rivelazione. Ma conviene subito aggiungere che il contenuto della sua fede, il cristiano lo sente e lo ha, conservato e tramandato fedelmente - come sacro deposito lasciatole dal Fondatore - dalla Chiesa. Troviamo qui - ma basti l'averlo indicato - il concetto di tradizione nel senso preciso e ristretto di rivelazione non scritta (cioè non contenuta esplicitamente nella Bibbia, ma pur sempre rivelazione. accanto a quella biblica: concetto sentito con particolare forza e più vivo impegno nella Chiesa cattolica. 2. Anche la tradizione non biblica É però pervenuta a noi attraverso una serie di testimonianze. Inoltre, e per quanto c'interessa propriamente, va pur notato che ovviamente per conoscere tutto quanto É avvenuto, É stato pensato e detto nel corso di tanti secoli dobbiamo, come per tutta la storia, ricorrere a quelle che si designano come fonti.

La Bibbia É, in questo senso, una di queste, e fondamentalissima; accanto ad essa possiamo porre le testimonianze della tradizione. Ma le fonti a cui dobbiamo ricorrere sono molte e di vario genere: letterarie, e cioè scritti di teologi, predicatori, autori d'opere di edificazione, e così via, compresi i libri liturgici, eccetera oltre a cronache contemporanee o storie della Chiesa redatte da scrittori antichi fondandosi su quanto erano venuti a conoscere o su documenti da loro conservati (É il caso soprattutto di Eusebio di Cesarea e di qualcuno dei suoi continuatori.; nonch‚ documenti di carattere pubblico (decisioni di concili, raccolte di norme giuridiche o liturgiche, lettere e decreti di autorità ecclesiastiche o politiche. o anche privato come certe lettere ritrovate in papiri; ma anche archeologiche o monumentali (scritte o no: iscrizioni, monete e medaglie, opere d'arte o d'artigianato, luoghi di culto, eccetera.. N‚ sono certamente da trascurare le opere di dotti moderni, almeno dal secolo sedicesimo in poi, talune delle quali importantissime sia per i risultati di indagini erudite, sia per il modo in cui hanno concepito e narrato la storia del cristianesimo, o della liturgia o della teologia o della filosofia, nei rapporti con la teologia, o quella degli Stati nei rapporti con la Chiesa. A tutti questi studiosi, particolarmente nel campo della filologia neotestamentaria e patristica, dobbiamo in gran parte l'elaborazione di criteri validi per tutti i rami della ricerca storica, e specialmente per l'antichità. Si tenga poi presente che opere, da considerare assai importanti, non ci sono pervenute; altre sono state più o meno ricostruite secondo rigorosi metodi scientifici; altre ancora dobbiamo a ritrovamenti, talvolta fortuiti, e di esse va ricercato con cura l'ambiente in cui sono sorte e quello in cui furono accolte, o respinte. II. 1. Nella Bibbia, come ognuno sa, il cristianesimo distingue l'Antico e il Nuovo Testamento. L'Antico Testamento costituisce l'insieme degli scritti in cui sono contenute le disposizioni, le memorie storiche, gli ammonimenti profetici dell'Antico Patto. Di questo infatti si tratta: JahwÉ (3. É l'unico Dio, che si rivela a Israele; Israele lo riconosce come Dio, lo adora, lo serve e gli ubbidisce: ed É per indicare il Patto che si usò in greco "diath‚ke", cioè disposizione, specialmente in vista della morte, quindi reso in latino con "testamentum". Accanto ad esso il Patto nuovo, o Nuovo Testamento "kainÉ diath‚ke", contiene i racconti e gli ammaestramenti evangelici ed apostolici. Gli israeliti, naturalmente, non accettano questa parte della Bibbia, ma neppure qualche altro libro che fa pure parte dell'Antico Testamento accolto dai cristiani. a. Secondo il giudaismo nei Libri Sacri si distinguono tre gruppi o tre parti: la "Legge" ("Toràh"., i "Profeti" e gli Scritti - s'intende sacri - che anche in italiano sono talvolta chiamati, con grecismo, gli "Agiografi". La "Legge" É costituita dai cinque libri (onde la designazione di Pentateuco. di cui É riconosciuto autore MosÉ: "Genesi", "Esodo", "Levitico", "Numeri", "Deuteronomio" (cioè ripetizione della Legge .: la storia del genere umano, e in particolare del popolo d'Israele, dalla creazione del mondo al diluvio universale, allo stabilimento in Egitto, all'uscita da questo paese sotto la guida di MosÉ e all'arrivo alla Terra promessa, insieme con le norme di ispirazione divina a cui il popolo avrebbe dovuto attenersi secondo il Patto: e cioè la Legge . I "Profeti" - cioè in senso proprio autori ispirati assai più che in quello derivato di vaticinatori del futuro - comprendono nella Bibbia ebraica in primo luogo una serie di libri, i cosiddetti profeti anteriori che cioè precedono gli altri: "GiosuÉ", "Giudici", I e II "Samuele", I e II "Re" (nella Bibbia tradotta in greco e poi nella "Vulgata" latina quindi in molte Bibbie cattoliche, questi ultimi sono uniti con lo stesso titolo come I, II, III, IV libro "dei Regni o dei Re".. Quanto al contenuto, questi libri sono storici: comprendono cioè il racconto dello stabilirsi delle 12 tribù nella Palestina, della unificazione sotto un re, della divisione in due regni, settentrionale o di Israele e meridionale o di Giuda, fino alla distruzione del primo nel 721 a.C., e a quella del secondo sino alla deportazione delle classi dirigenti nella Babilonia nel 586 avanti cristo Seguono, nello stesso gruppo, i cosiddetti profeti posteriori. Sono i libri di quelli che si considerano come profeti nel senso più stretto del termine: "Isaia", "Geremia", "Ezechiele" e "dodici profeti minori" (più brevi e perciò riuniti in un solo libro: "Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia".. Il terzo gruppo comprende una serie di libri che le Bibbie cristiane raggruppano attenendosi ad un criterio proprio.

La distinzione dei vari gruppi nell'ebraismo corrisponde infatti, a un dipresso, alle varie tappe in cui si venne formando il canone (4., l'ultima tappa per gli ebrei, specialmente palestinesi, e poi per tutto il giudaismo si ebbe verso la fine del primo secolo dopo cristo per opera dei maestri (rabbini. o teologi-legisti, ed É già testimoniata da Giuseppe Flavio intorno al 90 (5.. Il criterio seguito fu che l'ispirazione divina fosse cessata al tempo di Esdra (6., quindi che i libri riconoscibilmente scritti prima di allora potessero essere ammessi, e che quelli posteriori - in particolare quelli scritti in greco - dovessero essere esclusi. Perciò si riconobbero come ispirate opere attribuite tradizionalmente a David, Salomone, eccetera, e cioè: "Salmi, Proverbi, Giobbe; Cantico dei cantici, Rut, Lamentazioni" (di Geremia., "Ecclesiaste", "Ester" (i cosiddetti 5 Rotuli, o libri, letti nelle Sinagoghe nelle solennità di Pasqua, Pentecoste, 9 del mese di "Ab" - anniversario della distruzione di Gerusalemme nel 586 avanti cristo - "Tabernacoli", o Capanne , e "Purim" rispettivamente.; "Daniele", "Esdra" e "Neemia" in un solo libro e I e II "Cronache" (o grecamente "Paralipomeni"., pure in un libro solo. E questa É la Bibbia che anche nel Nuovo Testamento É designata come la Legge e i Profeti. b. Tuttavia gli ebrei di lingua greca e in particolare quelli stabiliti in Egitto e specialmente in Alessandria si erano procurati una traduzione dei Libri Sacri. Secondo una leggenda largamente diffusa e già testimoniata attorno al 100 avanti cristo, questa sarebbe stata opera di 70 (o 72: 6 per ciascuna delle 12 tribù di Israele; É detta perciò dei Settanta o anche brevemente la Settanta o latinamente "Septuaginta". dotti, i quali, pur lavorando separatamente, avrebbero prodotto una versione unica: cioè sotto l'ispirazione divina. Tuttavia, a causa delle differenze tra essa e il testo ebraico, gli ebrei nella prima metà del secondo secolo dopo cristo si procurarono altre versioni e cioè quelle di un certo Aquila - la cui pedissequa aderenza all'ebraico, e cioè ad una lingua di struttura grammaticale differente, finiva per produrre un greco barbaro - e le revisioni, della Settanta, compiute da Teodozione (la cui traduzione di "Daniele" É entrata in tutti i manoscritti della Settanta tranne uno., da un certo Simmaco (della versione di Aquila. e qualche altra meno importante. Ora, la Settanta, con ogni probabilità, per quanto si può desumere dalla testimonianza di Giuseppe Flavio e dai manoscritti esistenti, tutti però cristiani, disponeva i libri secondo un criterio di carattere letterario e di contenuto, quindi in un ordine diverso da quello ebraico, e comprendeva libri, o parti di essi, non inclusi nel canone ebraico. Quali essi fossero effettivamente, si può - per la ragione anzidetta, cioè mancandoci manoscritti non cristiani - soltanto congetturare: tuttavia sembra che la Bibbia dei giudei alessandrini fosse costituita come segue (sono in corsivo quelli omessi dal canone ebraico.: Pentateuco; Libri storici (GiosuÉ, Giudici, Rut, I-IV Re, I-II Cronache o Paralipomeni, "I Esdra" o Esdra greco, II Esdra cioè Esdra-Neemia.; Libri poetici e didattici (Salmi, Proverbi, Ecclesiaste, Cantico dei cantici, Giobbe, "Sapienza di Salomone", "Ecclesiastico di Ben Sira" o Siracide.; Narrativa (Ester, con le aggiunte segnalate da san Girolamo, "Giuditta", "Tobia".; Libri profetici (i Dodici, Isaia, Geremia, Baruch, Lamentazioni, "Epistola di Geremia", Ezechiele, Daniele con il "Cantico dei tre fanciulli", la "Storia di Susanna", e "Bel e il Dragone".; I e II Maccabei, talvolta "III" e "IV Maccabei". Con l'eccezione degli ultimi due, É questo l'ordine in cui i libri dell'Antico Testamento sono disposti nel Codice greco vaticano 1209, che comprende anche il Nuovo Testamento ed É uno dei più antichi (circa metà del secolo quarto. della Bibbia greca conservati. Come si vede, le aggiunte non sono poche n‚ poco importanti. I cristiani anche nella parte occidentale dell'Impero adottarono la Settanta e su questa furono condotte le prime traduzioni in latino. Quindi nonostante si sapesse da parecchi che certi libri, o loro parti, mancavano nel canone ebraico, essi furono accettati. San Girolamo, che aveva appreso l'ebraico in Palestina da maestri ebrei, e che dall'ebraico tradusse in latino l'Antico Testamento (É la versione che il Concilio di Trento chiamò "Vulgata"., difese il canone ebraico. Sant'Agostino per contro, considerando la Settanta come ispirata, mantenne il canone alessandrino. In Oriente, invece, la Chiesa siriaca dapprima respinse i libri non accolti nel canone ebraico.

Vi erano dunque, specialmente tra gli ebrei (ma anche, come si É accennato, per alcuni cristiani nei primi secoli. libri universalmente ammessi come canonici e altri di cui almeno si discuteva. A quelli che per l'argomento, o per l'autore cui erano attribuiti, sembravano non indegni di entrare nel canone ma sul cui carattere di libri ispirati si avevano dei dubbi, può spettare l'appellativo di apocrifi nel senso letterale del termine, che non significa falsi o eretici (queste accezioni sono posteriori. bensì nascosti o segreti: sia, talvolta, soltanto nel senso di sacro, e riservato a iniziati; sia, più generalmente, per indicare che non erano accettati per la lettura pubblica nel culto cristiano; potevano però essere ammessi o tollerati per la lettura privata. La grande autorità di sant'Agostino in Occidente fece sì che il canone alessandrino fosse generalmente accettato ed esso prevalse anche in Oriente, con il Concilio di Costantinopoli detto "in Trullo" (dalla sala a cupola in cui fu tenuto. o meglio "trullano secondo" del 692. I Concili ecumenici di Ferrara e poi di Trento (sessione prima, 8 aprile 1546. riconobbero a libri non inclusi nel canone ebraico il carattere di ispirati, come "deuterocanonici" (quasi canonizzati in un secondo tempo.. E ciò, a Trento, contro Lutero, che nella sua traduzione della Bibbia in tedesco collocò quelli che le Chiese riformate chiamano ancora apocrifi alla fine, cioè dopo i libri del Nuovo Testamento, quasi in appendice. Altre Chiese riformate furono più severe e alla lunga ottennero che gli apocrifi fossero addirittura omessi nelle edizioni a stampa fatte da protestanti (in quelle della Società biblica britannica e forestiera, dal 1827. L'Antico Testamento nelle Bibbie cattoliche risulta quindi così composto: Pentateuco; Libri storici (GiosuÉ, Giudici, Rut, I e II Samuele, I e II Re, I e II Cronache, Esdra, Neemia, Tobia, Giuditta, Ester, I e II Maccabei.; Libri sapienziali (Giobbe, Salmi, Proverbi, Ecclesiaste, Cantico dei cantici, Sapienza, Ecclesiastico o Siracide.; Libri profetici (Isaia, Geremia, Lamentazioni, Baruch, Ezechiele, Daniele e i Dodici ciascuno come un libro a parte.; in quelle protestanti mancano, come indicato (o talvolta sono posti in appendice., i deuterocanonici o apocrifi in senso stretto. c. Ma, appunto perché‚ era diventata corrente la teoria che l'ispirazione (e quindi la possibilità di inclusione nel canone. era cessata al tempo di Esdra, vari scrittori di libri religiosi, a cui premeva diffondere le loro dottrine e accrescere autorità ai loro scritti (e in un'epoca in cui mancava la sensibilità moderna per l'originalità e la difesa del diritto d'autore. li presentarono come redatti da autori antichi e riconosciuti come ispirati: sono quindi "pseudepigrafi", cioè dal titolo (o dall'intestazione. falso: questo termine É usato prevalentemente dai biblisti riformati. Esso tuttavia non significa necessariamente che si tratti sempre di opere eterodosse, benché‚ in molti casi derivino realmente da sette ereticali che in tal modo cercavano di accreditare e diffondere le loro dottrine. Alcuni sono di autori ebrei, altri di cristiani (spesso, ma non sempre, eretici. o con interpolazioni cristiane; alcuni si presentano come dovuti a personaggi dell'Antico Testamento, altri a personaggi del Nuovo. Molti di essi ci sono stati trasmessi in lingue orientali (siriaco, etiopico., alcuni in greco, in latino o in slavo antico. Ci limitiamo a segnalare i titoli di alcuni dei più importanti tra i Pseudepigrafi dell'Antico Testamento, indicando soltanto le lingue in cui ci sono stati conservati (prescindendo da versioni secondarie. in tutto o in parte: "Salmi di Salomone" (greco, siriaco.; "Testamenti dei Dodici Patriarchi" (greco.; "Libro dei Giubilei" (etiopico, greco.; "Ascensione di Isaia" (etiopico, latino.; "Apocalisse di MosÉ" o "Vita di Adamo ed Eva" (latino, greco.; "Libro di Enoc" (etiopico, greco. e "Libro dei Segreti di Enoc" (slavo.; "Assunzione di MosÉ" (latino.; "III Esdra" (greco.; "IV Esdra" o "Apocalisse di Esdra" (latino.; "Apocalisse di Baruch" (siriaco.; "III Maccabei" (greco.; "IV Maccabei" (greco.. Ad alcuni di questi, o a qualche altro si avrà occasione di accennare in seguito. 2. La seconda parte della Bibbia, quella esclusivamente cristiana, il Nuovo Testamento, cioè il Nuovo Patto, il nuovo rapporto tra Dio ed il genere umano É anch'essa una collezione di scritti, che testimoniano il modo in cui la primitiva comunità intese e raffigurò la persona, l'azione e l'insegnamento del Fondatore, e quindi, attraverso anche il racconto delle proprie vicende e documenti di personalità eminenti, anche se stessa, con la coscienza della propria originalità e autonomia. Si pone così in primo luogo il problema dei rapporti con il mondo circostante, e soprattutto, nell'epoca delle origini, con l'ambiente palestinese e mediterraneo.

Esso ci si presenta come percorso, animato, da varie tendenze, con diversità di condizioni sociali e di correnti politiche, oltre che di spiritualità e di cultura. Nell'ambiente palestinese e nel giudaismo, quanto all'aspetto politico si possono distinguere, schematicamente, due tendenze: quella che, richiamandosi a tradizioni antiche ed al carattere originariamente nazionale della religione, reclamava almeno in teoria l'indipendenza politica come condizione per il libero e legittimo esercizio del culto; e quella alla quale pareva questione secondaria, o indifferente, o da subire come effetto della volontà divina, che il potere politico fosse esercitato da un membro o l'altro della dinastia asmonea, o da un sovrano straniero, come Erode o dai Romani, purché‚ e fino a quando l'autorità politica non ostacolasse l'esercizio del culto e l'applicazione della Legge, o non facesse di peggio. Qui era un limite invalicabile. L'identificazione di religione e nazionalità permetteva di trarre entrambe le conseguenze: e cioè, che finch‚ la religione era salva si potesse non sentirsi oppressi; o al contrario che, senza indipendenza civile e politica, neppure l'esercizio del culto e l'applicazione della "Torah" potessero considerarsi veramente garantite. a. Alla morte di Erode il Grande (4 a C . che con l'aiuto dei Romani e passando al momento giusto dalla parte del vincitore nelle guerre civili era riuscito ad assicurarsi il trono già dei Maccabei-Asmonei, i vasti territori vennero divisi fra i suoi tre figli, che erano sopravvissuti all'esecuzione del loro fratello Antipatro. Tra una serie di conflitti, di maneggi e di rivolte popolari, ad Archelao, o Erode Archelao, rimasero, ma col semplice titolo di etnarca, anzich‚ di re, i territori sud-occidentali, cioè l'Idumea, la Giudea e la Samaria (meno Gaza e altre due città greche.; toltegli poi nel 6 d C , quando furono ridotte a provincia romana sotto un Procuratore. La Perea all'est, e la Galilea a nord dei territori di Archelao toccarono ad Antipa, o Erode Antipa, che li mantenne fino al 40 dopo cristo con il titolo di tetrarca. L'altro fratello, Filippo, anche lui tetrarca, ebbe le regioni nord-orientali, che egli governò fino alla morte, nel 34 d C ; e passarono poi a Giulio Agrippa, o Erode Agrippa Primo, il quale nel 39-40 ottenne altresì i territori di Antipa, e poi anche la Giudea e la Samaria. A lui succedette nel 44 il figlio, Giulio Agrippa, o Erode Agrippa Secondo, che soltanto più tardi ebbe la parte più periferica dei territori paterni, mentre il resto ritornava sotto il dominio immediato di Roma. Quanto agli ebrei, che si erano sovente ribellati e mal tolleravano i principi di origine straniera, ebbero, a fianco del procuratore - o, secondo un'iscrizione, scoperta recentemente, prefetto - romano un loro tribunale, il Sinedrio (7. presieduto dal Sommo Sacerdote che giudicava in materia religiosa, civile e penale. V'É chi pensa che fossero sostenitori della dinastia degli Erodi quegli erodiani (ma altri spiega questo appellativo diversamente. di cui É cenno nei Vangeli, ma che non sembra costituissero un gruppo molto importante. Sotto l'aspetto strettamente religioso, va osservato anzitutto che il quadro presentato soprattutto da Giuseppe Flavio e accolto universalmente - con qualche precisazione o riserva critica - nella storiografia così del giudaismo come del cristianesimo primitivo, prima delle recenti scoperte, É divenuto in seguito a queste assai più complesso; e ciò non solo per quanto esse ci hanno rivelato come dato di fatto, ma anche per ciò che lasciano intravvedere, in relazione anche con altri fenomeni di cui si ha qualche notizia e la cui interpretazione dà adito a discussioni e ricerche tuttora in corso. La raffigurazione della Storia del popolo ebreo all'epoca di Gesù Cristo (come suona il titolo del libro, rimasto classico e, nonostante gli apporti rilevantissimi di ricerche e tentativi di sintesi recenti, non ancora completamente sostituito, dello Schrer. si presenta inoltre naturalmente diversa, a seconda che quella situazione storica venga studiata in funzione, per così dire, del cristianesimo, o del giudaismo stesso. Per quanto riguarda quest'ultimo - e qui vi si accenna brevemente solo per chiarezza - lo storico sarà portato a sottolineare particolarmente, pur senza trascurare le tendenze centrifughe, il processo verso l'unità, l'inizio cioè di quel moto verso la formazione, sulle basi principalmente del farisaismo, di quello che É stato chiamato giudaismo normativo, e che portò, gradualmente, a quel ripiegamento su se stesso, a quell'isolamento, che caratterizzerà, in complesso, ma non senza eccezioni e deviazioni, il giudaismo delle età posteriori, in seguito anche alle condizioni di vita degli ebrei sino alle concessioni della tolleranza e della libertà di culto e civile; e mantenutosi nella istituzione caratteristica, la sinagoga (8..

b. Ma il giudaismo dell'età precristiana e dei primissimi tempi del cristianesimo era una religione anche proselitistica e tendente all'espansione, alla diffusione nel mondo civile, soprattutto (ma non esclusivamente. ellenistico-romano, particolarmente delle grandi città e dei centri commerciali. A quel mondo, il giudaismo tendeva a presentarsi come accettabile, capace cioè di armonizzarsi con la cultura contemporanea, come una religione e un modo di vita comprensibili ad un ambiente per il quale il popolo d'Israele e le sue credenze costituivano una stranezza, un paradosso, oggetto di stupefazione, di ironia compassionevole o di scherno e di ostilità; e lasciato sopravvivere -anzi riconosciuto e protetto nell'Impero romano e dotato di privilegi antichi nelle città ellenistiche - in quanto non costituiva più un pericolo, mentre nella terra d'origine aveva resistito ai tentativi di ellenizzazione religiosa forzata fatti dai re di Siria e, nel campo religioso e con atteggiamenti diversi, come si É accennato, anche a più recenti tentativi fino alle due ribellioni del 66-73 e del 132-135 dopo la quale Adriano vietò l'esercizio del culto e dell'insegnamento in Palestina. Quella condizione, tutto sommato, di tolleranza o sopportazione - si ebbero anche scoppi, di tanto in tanto, di manifestazioni violente dell'avversione popolare - era maggiormente sentita nei luoghi ove giudei, nella loro Diaspora, o disseminazione, nel mondo ellenistico-romano si trovavano a contatto con la cultura di questo, e principalmente in Alessandria. Qui, infatti, si ebbe la traduzione greca dell'Antico Testamento che rivela già uno sforzo di adattamento alla mentalità ellenistica, per effetto tanto di un processo di assimilazione cui i giudei venivano sottoposti, quanto di un loro più o meno cosciente e volontario desiderio di avvicinamento, cui corrispondeva la tendenza al proselitismo, ad un'attività missionaria. In Alessandria, capitale culturale del mondo ellenistico, in cui gli ebrei erano numerosi, si svolse il grande sforzo di sintesi compiuto, in numerosi scritti, dal dotto e socialmente eminente Filone (nato tra il 20 e il 13 a C , morto dopo il 40 d C . tra giudaismo e filosofia greca (delle varie scuole, ma soprattutto platonismo e, in parte, stoicismo., per mostrarne la sostanziale identità: la Bibbia, per quanto in maniera non sistematica e in forma tra popolare e misteriosa, volta a volta, non fa che presentare, nel racconto della "Genesi", nelle leggi di MosÉ, nelle sue altre parti, le verità che i migliori filosofi greci - Platone soprattutto - hanno esposto in altro modo, ma anch'essi per una certa ispirazione divina. Filone ricorre per la sua dimostrazione all'interpretazione allegorica della Scrittura, come già alcuni greci - specialmente stoici - avevano fatto con Omero e la mitologia in genere: e a tale metodo ricorrevano anche altri. Accanto agli scritti di Filone, che affrontava i più ardui problemi della metafisica - come i rapporti tra la divinità trascendente e il mondo della contingenza - e delle altre partizioni tradizionali della filosofia, si ebbero altri scritti, altri tentativi, di carattere più popolare, miranti a distogliere dal culto degli dei falsi e bugiardi, demoni maligni o idoli materiali foggiati con materia vile da uomini, per rivolgersi all'unico Dio vero, preannunciato non solo dai profeti d'Israele o dai grandi pensatori della Grecia, ma dai più profondi poeti - di cui si trasceglievano versi, o a cui se ne attribuivano di fabbricati a tale scopo - o dalle profetesse misteriose, le Sibille, fin dalla più remota antichità. c. L'influsso delle culture circostanti era naturalmente risentito anche in Palestina, sia per avere essa fatto parte dell'Impero persiano e poi del regno di Siria e ora, in sostanza, dell'Impero romano con rapporti commerciali, amministrativi, eccetera; e sia per i frequenti pellegrinaggi che i giudei della Diaspora facevano a Gerusalemme, specialmente in occasione di Pasqua. Il greco era tutt'altro che sconosciuto; s'era generalizzato l'aramaico, lingua semitica largamente diffusa; mentre l'ebraico, lingua della Bibbia (tranne brevissime parti in aramaico., viveva come lingua dotta e, modernizzato, anche parlata. Ma sotto l'aspetto religioso va ancora segnalato che mancava, nel giudaismo di quel tempo, una vera e propria ortodossia nel senso di una dogmatica precisa, tanto meno formulata in un sistema coerente. Unico dogma, accettato da tutti e oggetto di una vera e propria professione di fede, e da cui discendono i due precetti fondamentali dell'amore di Dio e del prossimo ("Deuteronomio" 6, 4 seg.; "Levitico" 19, 18. era ciò in cui gli ebrei differivano da ogni altro popolo contemporaneo: il monoteismo, anche se l'unico Dio oggetto della fede era concepito, con maggiore o minore intensità, come attorniato da schiere di messaggeri (angeli. ai suoi ordini e aventi mansioni speciali: credenza diffusa in alcune correnti religiose e nel popolo. E' ritenuta da molti studiosi di origine orientale, iranica.

La fede in Dio si estrinsecava attivamente nel temerlo e nell'adempimento dei precetti legali, etici e rituali (confronta "Deuteronomio" 6, 13 e 17.. Resta nondimeno valida, entro questi limiti e per quest'epoca, la caratterizzazione di un giudaismo ufficiale, di quelli che si possono descrivere come ceti dirigenti a cui appartenevano i membri del Sinedrio, del quale però facevano parte seguaci di tendenze diverse. Ciò rende naturalmente difficile, e in qualche misura arbitrario, il definire, in contrapposizione con l'ortodossia, delle eterodossie, e delle sÉtte, nel senso che questo termine ha acquistato nel cristianesimo, cioè di comunità religiose con una loro fede e ristrette, ma meno forte organizzazione interna in contrapposizione con le grandi denominazioni o Chiese, e tanto meno nel senso politico. Giuseppe Flavio, nel suo intento apologetico, presenta queste tendenze, gruppi, o anche in certo modo partiti, come scuole filosofiche e tenta anzi di identificarli con quelle del mondo classico: sadducei ed epicurei, farisei e stoici, esseni e pitagorici. Accanto a costoro, di cui si parlerà tra poco, egli enumera certi estremisti, zeloti, su cui ci informa anche il Nuovo Testamento: che accettavano le dottrine religiose dei farisei, accentuando però le aspirazioni messianiche e nazionalistiche, forse alimentate da condizioni di inferiorità sociale ed economica, di quello che si può ben chiamare proletariato, soprattutto rurale (M. Simon.. Si affermarono appunto nell'insurrezione antiromana guidata da Giuda il Galileo (6-7 dopo cristo. alla cui sconfitta e morte accennano anche gli "Atti degli Apostoli" (5, 37.. Con quelli tra loro che, dal corto pugnale (lat. "sica". con cui compivano azioni singole di rappresaglia o terrorismo venivano chiamati sicari, gli zeloti dopo aver suscitato una rivolta forse anche con un certo Teude, furono gli animatori delle grandi ribellioni terminate con le catastrofiche distruzioni del 70 e del 135. In modo particolare essi avversavano quelli che si chiamerebbero oggi collaborazionisti con Roma. Tra questi ultimi É naturale che fossero più specialmente invisi e trattati come nemici e peccatori gli appaltatori ed esattori delle gabelle (oppressive per se stesse e come segno di oppressione straniera e di pagani., i "publicani". Ma sta di fatto che, ove si escludano i samaritani (su cui v. appresso., ed in certo qual modo un altro gruppo, a proposito del giudaismo di quell'epoca si può parlare di sÉtte soltanto in senso approssimativo. Quanto al Sinedrio, esso É una corte di giustizia, che interpreta ed applica la Legge di MosÉ, piuttosto che un concilio enunciante proposizioni dottrinali... La povertà del contenuto dottrinale del giudaismo contribuisce infatti, allo stesso titolo che l'assenza di un'autorità ammessa da tutti in questa materia, a spiegare il carattere alquanto indefinito della sua nozione di ortodossia... il giudaismo rimase prima di tutto una ortoprassia; professarlo implica essenzialmente piegarsi agli imperativi, morali e rituali, della "Torah", carta dell'alleanza col Dio unico, di cui essa custodisce la volontà (M. Simon.. E' in questo senso che si può parlare di un giudaismo normativo e unito nell'adempimento della Legge, ma che manifesta allo stesso tempo, in maniera incipiente, la tendenza ad evolversi in quello che si può chiamare giudaismo rabbinico: e cioè a trarre dalla Legge, mediante un intenso e costante sforzo di interpretazione, nuove norme, pratiche e anche teoriche, arricchendo il proprio contenuto dottrinale, secondo orientamenti filosofici, e metodi razionali, o anche. con speculazioni mistiche. Il quadro del giudaismo dell'epoca neotestamentaria si presenta così parecchio complesso, come dimostra anche il gran numero di scritti pseudepigrafici che risalgono, sia direttamente sia indirettamente (in quanto i testi giunti fino a noi si palesano all'indagine critica quali rimaneggiamenti di scritti anteriori. appunto a quest'epoca. Ciò per un verso vale ad arricchire di nuovi elementi la storia del giudaismo stesso, ma, per un altro, ha grandissima importanza per la storia del cristianesimo nascente e delle

sue prime vicende, per facilitare la comprensione di ciò che il Nuovo Testamento o non menziona o lascia trasparire o dice apertamente. d. Venendo ora a parlare delle diverse sÉtte dovremmo, a rigore, escludere i "samaritani". Questi riconoscevano come scrittura sacra soltanto il Pentateuco, contrapponevano a quello di Gerusalemme come unico Tempio legittimo il loro sul monte Gerizim, si consideravano come l'unico autentico popolo d'Israele ed erano divisi dagli ebrei da un antagonismo profondo, onde gli appartenenti a ciascuna comunità trattavano quelli dell'altra come pagani e peggio. Ma anche a proposito dei samaritani gli studiosi parlano piuttosto di scisma che di eresia. e. Un gruppo importantissimo, in un certo senso il più importante, era costituito dai "farisei". Questo nome É interpretato variamente: secondo l'opinione più diffusa, significherebbe i separati, in quanto si tenevano lontani, appartati, segregati dagli empi e dai pagani; secondo altri, gli interpreti della Legge; secondo altri, addirittura i persiani (cioè, per distinguerli da quelli rimasti in Palestina, gli ebrei ritornati dall'esilio e che, come si É visto, avevano ristabilito il culto dell'unico Dio e l'osservanza della Legge mosaica.. Erano, in sostanza, i continuatori di quel partito o tendenza degli "asidei", cioè pii, ai quali si doveva la riscossa nazionale e religiosa contro la politica di ellenizzazione dei Seleucidi; ed erano stati generalmente avversi all'unione del regno e del sommo sacerdozio nella stessa persona, sotto la dinastia Asmonea. Tutte le spiegazioni del nome tengono conto del fatto che i farisei ci sono presentati appunto come coloro i quali, solleciti di assicurare l'osservanza piena e scrupolosa della Legge e la purezza assoluta del culto mantenendolo immune da ogni contaminazione di paganesimo - perciò anche nella prassi quotidiana, in ogni manifestazione della cultura e della vita -, avevano posto intorno alla Legge stessa, per meglio proteggerla, una siepe di prescrizioni tradizionali e di misure, ricavate dalla Legge mediante un metodo di interpretazione estensiva: tendente cioè a ricavare, dalle norme contenute nella Legge e in genere nella Scrittura, regole valevoli anche per casi e situazioni non previste esplicitamente, nonch‚ la giustificazione di credenze - come la risurrezione dei corpi - che sarebbe stato arduo sostenere in base al solo testo scritto. E l'esegesi dei testi sacri era opera degli scribi, cioè i dotti, i giuristi-teologi, che si dividevano in scuole più o meno rigorose, ma in generale aderivano appunto al partito dei farisei, destinato a trionfare nel giudaismo rabbinico - nel quale le tradizioni e discussioni dei maestri furono poi messe per iscritto, nella "Mishnà" e nel "Talmud" (9. - e già allora visto con simpatia dalle classi popolari. In queste era assai diffusa e vivissima l'aspettativa dei tempi del Messia, cioè dell'Unto (termine reso in greco appunto con "Christ¢s" latinizzato in "Christus". del Signore: il re, discendente da David, protetto e destinato da Dio, mandato - secondo alcuni dopo dure prove finali per lui e per il popolo - a restituire alla nazione l'indipendenza e la prosperità, ad inaugurare un'era di pace e di benessere, ricompensa delle sofferenze del passato, e durante la quale il culto del vero Dio si sarebbe diffuso su tutta la Terra. O anche, accanto al re, un sacerdote. Ma l'aspetto più propriamente religioso, su cui avevano insistito vari profeti - e specialmente il secondo Isaia (10. - e che trovava maggiori risonanze nell'animo dei più sinceramente devoti tra i farisei, era poi in gran parte obliterato nei molti scritti dell'accesa e fantasiosa letteratura apocalittica (11., la quale manteneva vive quelle speranze e quelle prospettive di un capovolgimento della situazione anche materiale, che É naturale fossero care ai diseredati e agli oppressi; ed erano in genere condivise dai farisei, in connessione con le altre loro credenze. Nello stesso tempo si spiegano anche altre cose: e cioè che tra i farisei, accanto alle anime sinceramente religiose, fossero numerosi i falsi devoti, gli ipocriti; che quell'elemento progressivo, quel principio di sviluppo implicito nell'importanza da essi attribuita alla tradizione e all'esegesi (e che appunto per ciò permetteva di accogliere senza venir meno ai princìpi fondamentali, anche dottrine di origine straniera. si trasformasse in parecchi in spirito rigoristico e d'intransigenza, creando un impaccio al libero estrinsecarsi del sentimento religioso. E poi, che nell'interpretazione della Legge l'abilità dei giuristi finisse non di rado per diventare fine a se stessa, esaurendosi in mero gioco intellettuale, di chi (secondo metodi in sostanza non molto diversi da quelli dei grammatici dell'ellenismo. mirava a far mostra di sottigliezza, arrivando talvolta anche a conclusioni contrarie, o alla lettera, o certo allo spirito della Legge medesima.

E che, infine, la coscienza della propria rettitudine trasmodasse in un sentimento di superiorità di fronte agli ignoranti ed agli empi, anzi in autentica superbia e sete di dominio almeno nel campo spirituale: per cui questi appartati pretendevano di imporre a tutti le proprie idee, conclusioni e prescrizioni, e, considerandosi come i soli uomini graditi al Signore, guardavano tutti gli altri con un misto di commiserazione e di disprezzo. Così infatti i farisei sono presentati nei Vangeli. f. Avversi a loro erano i "sadducei", il cui nome più probabilmente deriva da quello del Sommo Sacerdote al tempo di Salomone ("I Re", 2, 55. capostipite della famiglia, o casta o classe, sacerdotale - i figli di Sadoc - ai quali Ezechiele (44, 15 seguenti. voleva fosse riservato l'esercizio delle attribuzioni sacerdotali. Erano dunque essenzialmente i membri dell'aristocrazia sacerdotale; che, anche per le loro responsabilità politiche di ceto dirigente, non potevano chiudersi in un ristretto esclusivismo nazionalistico, impervio ad ogni influsso culturale straniero. D'altra parte rimanevano fermi nell'anteporre la Legge agli altri Scritti della Bibbia, e nell'interpretarla letteralmente, opponendosi all'accettazione di norme e concetti d'origine popolare e tradizionale, da essi ripudiati come pericolose ed ingiustificate innovazioni. Ritenevano che l'uomo fosse completamente libero di operare il bene o il male, attirandosi con ciò premi e pene felicità e sventure, in questa vita: e pertanto respingevano le credenze in una rimunerazione dopo la morte, nella stessa immortalità dell'anima, e nella risurrezione dei corpi, a cui credevano i farisei. Respingevano altresì le credenze negli angeli e negli spiriti, anch'esse molto diffuse nei ceti popolari, accolte dai farisei e nella letteratura apocalittica, con molta probabilità per influenze del mondo iranico-mesopotamico, con cui, come si É accennato, erano frequenti, da tempo, i contatti. Da tali influenze orientali molti studiosi fanno dipendere una forma particolare di concezione del Messia, quale Figlio d'uomo. Questa espressione che in s‚ significa uomo e quindi nel passo fondamentale di "Daniele" (7, 13 seguenti: come un Figlio d'uomo. indica uno avente aspetto umano, designa già in alcuni testi un essere superiore alla semplice umanità, celeste, superiore anche agli angeli. g. Vi É poi la setta che ci É stata fatta conoscere da uno dei più importanti e clamorosi ritrovamenti di testi e di monumenti degli ultimi decenni, cioè gli ormai famosi testi del Mar Morto o di Qumran o del deserto di Giuda, ritrovati in grotte situate nella parete rocciosa che sovrasta il Mar Morto e nella pianura adiacente. La storia del loro ritrovamento, che presenta diversi punti oscuri, e quella del modo in cui sono stati dispersi e studiati in vari centri, É stata fatta più volte, così come quella degli scavi. Il ritrovamento ha inoltre dato origine, com'era naturale, ad una copiosa letteratura, in libri - anche di divulgazione -, in articoli di riviste specializzate o in volumi raccoglienti scritti di studiosi diversi. Qui basterà dire che essi ci hanno dato manoscritti, completi o frammentari, di tutti i libri dell'Antico Testamento inclusi nel canone ebraico dell'epoca, nonch‚ di qualche altro - "Tobia" ed "Ecclesiastico" accolti nel canone alessandrino - e di pseudepigrafi, come "Giubilei", "Enoc", i "Testamenti dei Dodici Patriarchi"; inoltre inni (Salmi. religiosi e testi liturgici, commenti a libri biblici e scritti particolari della setta che si raccoglieva in quelle caverne - o comunque se ne servì - nonch‚ nei fabbricati ritrovati nelle vicinanze immediate (12.. Apparvero chiari i rapporti tra questi scritti e un testo ritrovato parecchi anni prima, contenuto in due manoscritti scartati dalla sinagoga del Cairo, e noto come Documento sadochita ("zadochita". o Documento di Damasco o della Setta di Damasco (per il riferimento a questa città.. Di esso furono inoltre trovati frammenti. Sulla datazione dei manoscritti, e persino sulla loro autenticità si É molto discusso. L'esplorazione ha dato materiali di epoche diverse, tra la fine del secondo secolo a C e il 70 e 135 d C , anni appunto delle distruzioni di Gerusalemme; e le indagini condotte sui manoscritti stessi confermano questa datazione; ma É chiaro che la data dei manoscritti n‚ corrisponde necessariamente a quella della composizione (ciò É evidente per alcuni, almeno, dei testi biblici., n‚ É necessariamente lontana da questa. Ma il fatto che la comunità da cui gli scritti provengono si chiamava spesso dei figli (nel senso di 'discendenti' spirituali, seguaci, membri della medesima comunità. di Sadoc non

significa che essa sia da identificare con i sadducei, e neppure che esista tra essa e questi ultimi un legame stretto, cosa che era stata già esclusa dagli studi sul "Documento di Damasco". Sotto diversi aspetti, anzi, le credenze dei Qumraniti si avvicinano a quelle dei farisei, di cui accettano, anzi accentuano, certe tendenze legalistiche: ma si tratta, a differenza dei farisei, di una comunità isolata e di carattere ascetico, che quindi presenta caratteri più simili a quelli di una setta vera e propria. Questa comunità, in breve, venerava la memoria di un Maestro di giustizia e sacerdote che era stato vittima di un sacerdote empio: dell'uno e dell'altro si É variamente proposta l'identificazione con personaggi storici dell'età dei Maccabei o posteriori. Avevano un noviziato, iniziazioni e purificazioni (bagni rituali, pasto sacro., una salda organizzazione gerarchica con prevalenza dei sacerdoti, e al di sotto di questi, dei leviti, ma senza esclusione assoluta dei laici dal governo della comunità; un regime di comunione dei beni, un calendario particolare, una propria liturgia. Avversi al sacerdozio di Gerusalemme, sentivano di costituire quel resto, quella parte eletta di Israele che, attraverso il rinnovamento del Patto (la Nuova Alleanza in senso escatologico., si conservava fedele a Dio, resistendo alle forze demoniache ed all'impulso malvagio contrastante col buono, nel cuore dell'uomo (o dell'Uomo-Messia?. e nel mondo, dividendo così l'umanità in due partiti o razze secondo una rigida predestinazione. Ma si tratta di un dualismo non metafisico, nel senso preciso del termine: il monoteismo rigoroso É fatto salvo: alla fine Dio distruggerà per sempre lo spirito della Vanità (stoltezza e malvagità.. Si accompagnavano a tali credenze, che esponiamo in maniera schematica, un'angelologia e una demonologia assai sviluppate e non scevre da speculazioni astrologiche. I membri della setta si impegnavano ad osservare rigorosamente, con tutte le norme morali (con una particolare ripugnanza per tutte le forme d'ipocrisia., la purità rituale e le feste, secondo la Legge, i Profeti e gli altri Scritti sacri, canonici o nonè che studiavano con cura, e nei quali ravvisavano riferimenti - la cui identificazione mette a dura prova gli studiosi - a fatti contemporanei o alla guerra finale dei Figli della Luce con i Figli delle Tenebre. In questa i malvagi sarebbero stati sterminati, all'avvento del Messia-Sacerdote e del Messia-Re, secondo la dottrina segreta del Maestro di giustizia. La loro pietà si esprimeva negli inni, affini ai salmi biblici e non di rado non inferiori a questi per valore poetico e profondità di sentimenti. h. Per tali caratteri questa setta di Qumran É ormai generalmente identificata con quella degli esseni, di cui, con qualche variante nel nome ("ess ioi", "ess‚noi". ci parlano Filone, Giuseppe Flavio e Plinio il Vecchio, e tace invece il Nuovo Testamento. Si sono rilevate anche differenze, non gravissime ma neppure trascurabili (presso gli esseni, più lungo noviziato, più rigido ascetismo, celibato più rigoroso e divieto del commercio, credenza nella natura celeste dell'anima immortale.; anche il passo di Plinio ("Nat. hist". 5, 17, 4. che permetterebbe di localizzarli in una località praticamente identica a quella in cui dimorarono i Qumraniti, É d'interpretazione controversa. Sono state proposte anche altre identificazioni (per esempio con gli zeloti, o con una corrente del fariseismo, eccetera.; quella con gli esseni ha però riscosso i maggiori consensi, e per sormontare le difficoltà si É pensato che i Qumraniti costituissero un ramo speciale di questa setta, o una delle fasi per cui essa potrebbe essere passata nel corso del tempo. i. Agli esseni, il cui nome (di altrettanto dubbia interpretazione sia ricorrendo al greco sia risalendo all'aramaico. non ricorre nei testi di Qumranè e che non vivevano (notiamo anche questo. soltanto nel deserto di Giuda ma, alcuni almeno (che inoltre ammettevano il matrimonio. anche nelle città, assomigliavano sotto vari aspetti i "terapeuti" d'Egitto, descritti (non senza qualche idealizzazione e nel tentativo di avvicinarli ai pitagorici. da Filone Alessandrino. Questi li presenta come una comunità di tipo monastico, anacoretico e cenobitico, maschile e femminile, dedita ad una vita ascetica severissima strettamente contemplativa (gli esseni di Qumran invece lavoravano., con feste, calendario e riti simili a quelli dei Qumraniti. k. Ancora a costoro vari studiosi hanno creduto di poter ricollegare la predicazione di un lavacro, battesimo di penitenza in vista dell'imminente avvento del regno dei Cieli

("malkuth Shamaim". cioè (Cieli É metonimia. la sovranità di Dio, il compiersi della sua volontà, nel presente e nel futuro escatologico: compiuta da quel Giovanni il Battista, dai cristiani venerato come precursore, da cui Gesù ricevette il battesimo e che a Lui si dichiarò inferiore. Ma Giovanni ebbe anche discepoli propri (sotto certi aspetti anch'essi affini agli esseni.: e da lui pretese poi di derivare la setta gnostica dei mandei. E tutto un movimento battista di sÉtte o gruppi designati appunto variamente come battisti, emerobattisti, masbotei (nome di derivazione aramaica che significa la stessa cosa, se pure non indica precisamente la medesima setta., esistette certo lungo il Giordano dove Giovanni predicava. Non mancavano dunque, nella stessa Palestina, le sÉtte o tendenze o correnti, dalle credenze difficilmente definibili. Di alcune, sulle quali abbiamo testimonianze tardive, si conoscono i nomi, o poco più: "genisti", termine equivalente a "minŒm" eretici; "meristi", separati - come i farisei? - ma non si comprende da chi o da che e perché‚; "nasarei", che Epifanio di Salamina distingue dai nazarei, che respingevano in tutto o in parte il Pentateuco; "elleniani", che M. Simon ritiene identificabili con gli ellenisti degli "Atti degli Apostoli", ma considera membri di una setta o gruppo già formato e confluiti poi nel cristianesimo; "galilei", di cui É cenno in una lettera di Simeone Bar Kocheba (13., il capo della ribellione del 132- 135, ed il cui nome si presta a differenti identificazioni, dagli zeloti ai cristiani stessi. Si tratta per lo più di gruppi isolati e dispersi su un territorio vasto ed impervio. Inoltre, alcune di queste sÉtte sono attestate da fonti posteriori cristiane, anche di epoca relativamente tarda (quarto secolo.. Ma ciò non deve rendere completamente scettici e considerare le notizie su di esse come frutto di fantasia o d'incomprensione ed errore. Quale, dunque, il rapporto di queste sÉtte con il cristianesimo? Per ognuna di esse - o almeno per quelle meglio conosciute - che ci sono presentate da fonti antiche come eresie cristiane ma le cui origini si possono far risalire ad un'epoca anteriore o contemporanea, si sono trovati, e più o meno sottolineati, elementi simili. Ma per ognuna si segnalano anche, più o meno accentuate dai vari studiosi secondo il loro indirizzo, differenze certo notevoli. D'altra parte, non solo la constatazione di queste differenze concrete, ma considerazioni generali, di metodologia storico-religiosa, impediscono di ammettere una derivazione propriamente genetica del cristianesimo sia da questa o da quella di esse, sia da parecchie confluite in un ipotetico sincretismo. NOTE ALL'INTRODUZIONE. N. 1. Su questo, e su quanto segue, si veda anche per es.: A. BRELICH "Introduzione alla Storia delle religioni", Roma 1966, pp. 3 sgg., 27 sgg., 15; sgg., 159 sgg., 261 sgg. e la bibliografia ivi indicata. N. 2. Si designa ormai generalmente con questo termine la religione degli israeliti nell'epoca seguente il ristabilimento del culto nel Tempio di Gerusalemme alla fine della deportazione in Babilonia; con l'ulteriore suddivisione generica in giudaismo biblico e post-biblico, o in periodi secondo criteri interni al giudaismo stesso. N. 3. Così si ritiene debba esser letto il nome divino scritto in ebraico con quattro lettere (onde la parola greca "tetragràmmaton" parola di 4 lettere. corrispondenti, secondo l'uso delle lingue semitiche, a consonanti e trascritte YHWH. Il divieto di pronunciare il nome sacro fece sì che ovunque lo si trovava esso venisse letto Adonay Signor mio; come risulta dal fatto che nella versione greca del Pentateuco YHWH É tradotto con "Kyrios" signore.

Dove nel testo si trovano i due termini, "adonay YHWH", il secondo veniva pronunciato "elohim" divinità, Dio. Quando vennero introdotti segni per indicare le vocali, a YHWH vennero apposte quelle di "adonay", così "YaHoWaH", onde la pronunzia e la grafia, in lingue moderne, "Jehovah" e in italiano GÉova. Segno esteriore del Patto É la circoncisione (che però non É pratica dei soli israeliti.. N. 4. Canone, e lat. "canon" continuano il greco "kan¢n" che significa in primo luogo la canna diritta che serviva di regolo e anche come misura onde il significato più generale di regola, norma , come i canoni grammaticali, artistici, quali norme dello scrivere e nelle arti figurative, in base alle quali giudicare del valore di un opera, quindi stabilire, come fecero i grammatici e retori ellenistici o romani, quali autori si dovessero proporre come modelli e si potessero ritenere migliori in ogni genere letterario o artistico, e cioè classici. Nella Scrittura canone É l'elenco dei libri riconosciuti come ispirati, nella Chiesa si ebbe il canone della fede o della verità - canoni furono chiamate anche le norme che la Chiesa stessa si diede nei concili o altrimenti e che costituiscono appunto il diritto canonico cioè della Chiesa stessa come società per s‚ stante, distinto dunque così dal diritto dello Stato, o civile in senso largo, e dal diritto ecclesiastico, ossia quello con cui lo Stato regola i suoi rapporti con la Chiesa. E ancora: il canone come elenco di martiri e santi, per cui il riconoscimento della santità di un servo di Dio É detto canonizzazione; il canone della Messa, cioè l'insieme delle preghiere e degli atti dopo il "Prefazio" e fino alla comunione; la regola in base alla quale si fissa la data della Pasqua di ogni anno. E ancora: il canone nella poesia liturgica bizantina, cioè insieme di nove o otto odi composte di più strofe; il canone musicale cioè l'imitazione rigorosa di una linea melodica compiuta da due voci o strumenti, seguendosi a intervalli di tempo regolari; i canoni come prestazioni o pagamenti regolari, eccetera. N. 5. Designato anche come Flavio Giuseppe, e Gioseffo, Giuseppe figlio di Mattia, nato nel 37-8 d C , esercitò funzioni importanti; pur essendo contrario alla ribellione contro i romani, dovette assumere un comando militare. Ma si presentò a Vespasiano e gli predisse l'assunzione a imperatore; verificatasi la profezia, fu liberato e condotto a Roma ove assunse il cognome di Flavio, in onore dei sovrani, e conseguì la cittadinanza. Per ottenere comprensione verso il giudaismo e promuovere la pacificazione scrisse, con intenti apologetici, opere storiche: la "Storia antica giudaica" ("Arkhaiologia", lat. "Antiquitates iudaicae". e la "Storia della guerra giudaica" ("Bellum". in cui presenta gruppi e tendenze del giudaismo come scuole filosofiche simili a quelle del mondo greco- romano; e la sua "Vita", per giustificare la propria condotta. N. 6. Col ritorno dall'esilio e il ristabilimento della Legge e del culto, da 538 a C in poi. Per altri punti qui accennati, si veda in seguito. N. 7. Questo termine greco (trascritto in ebraico e in qualche libro moderno "sanhedrin". significa senato, consiglio. N. 8. Anche questo É termine greco e significa adunanza corrispondendo all'ebraico "keneset", e passò poi a indicare anche il locale. Vi si dava istruzione religiosa, e la lettura e spiegazione della Bibbia divenne una vera e propria forma di culto, con preghiere regolari, eccetera, tanto più in quanto quello sacrificale prescritto dalla Legge si poteva celebrare soltanto nel Tempio di Gerusalemme. E' perciò importante che sinagoghe esistessero non soltanto nei centri della Dispersione, ma nella stessa Palestina. Alcune fonti (per esempio "Atti degli Apostoli" 16, 13. parlano di luoghi di preghiera designati anche semplicemente come preghiera ("proseykh‚"..

N. 9. "Mishnàh" ripetizione (l'equivalente greco É "deytÉrosis". in senso generale É la Legge non scritta, o tradizionale, all'infuori cioè del Pentateuco, e lo studio di essa. Comprendeva varie parti: "midràsh" (investigazione, ricerca. esegesi giuridica, studio della Scrittura in relazione con le norme tradizionali, "halakàh" (via, procedimento., la norma; "haggadàh" (insegnamento. cioè ogni insegnamento non giuridico (religioso, morale, storico. con un certo carattere omiletico. In senso più specifico, "mishnàh" indicò la codificazione di detto insegnamento, compiuta da uno dei grandi maestri del giudaismo, il patriarca ("Judah ha-Nasi" o Giuda il Santo. circa il 200 d C e le raccolte di altri maestri, costituenti cosi un enorme corpo di discussioni e conclusioni. Questo venne raccolto nel "Talmùd" (dottrine, in senso generico., nelle due redazioni: "T. Palestinese" (o di Gerusalemme. compilato verso il 425 dopo cristo e "T. Babilonese", verso la fine del quinto secolo o l'inizio del sesto. N. 10. "Deuteroisaia": cioè la seconda parte di quel libro profetico - capitoli 40-66 - per vari riguardi così diversa dalla precedente, da essere considerata da numerosi critici come opera di un profeta posteriore rimasto anonimo. In un manoscritto trovato a Qumran gli ultimi capitoli sono scritti dopo uno spazio vuoto alla fine del capitolo 33 in modo diverso dai precedenti (M. Michelini Tocci.. Alcuni critici distinguono un secondo Isaia (capitoli 40-55. e un terzo (tritoisaia.. N. 11. Dal greco "apokàlypsis", scoprimento, quindi rivelazione, specificamente di misteri divini. Si tratta di un numero ragguardevole di scritti che, sviluppando elementi già della letteratura profetica (per esempio nelle ultime parti di Isaia, in Ezechiele e Daniele. narrano visioni (per lo più interpretate da un angelo. del mondo celeste, con predizioni e addirittura descrizioni del futuro, e altre rivelazioni escatologiche. Sono, per le ragioni indicate, pseudepigrafici. Poco accetti ai dotti, anche farisei, furono invece diffusi nei ceti popolari. I cristiani, che nell'Antico Testamento ravvisavano profetato Gesù Cristo, accolsero largamente questo genere di letteratura e lo continuarono. N. 12. Particolarmente importanti sono, oltre i libri che parlano della setta stessa ("Regola della comunità", "Regola annessa", eccetera. alcuni scritti apocalittici: la cosiddetta "Regola della guerra" la cui appartenenza a questa categoria É però discussa; frammenti di un "Libro dei misteri", una "Descrizione della Nuova Gerusalemme" e, tra i commenti biblici, quello "Ad Abacuc", con affermazioni dottrinali e riferimenti e predizioni apocalittiche, che hanno dato origine ad ampie discussioni. Di un rotolo del Tempio si hanno notizie preliminari. Interessanti sono anche le speculazioni mistiche esoteriche sul carro di fuoco e trono divino (confronta "Ezechiele", 1., e le raccolte di "Testimonia". N. 13. E' questa la forma in cui É stato trasmesso il suo nome, del quale testi di Qumran (più precisamente del Wadi Murabà'at, ed estranei alla vera e propria comunità. ci hanno rivelato la vera: bar Kosebah. Le fonti giudaiche la davano come bar Kozibah; quelle cristiane come indicato nel testo, in base cioè alla modificazione compiuta da un celebre maestro del giudaismo, Rabbi Aqiba, che, seguendo entusiasticamente il capo della rivolta, lo volle designare come il figlio [cioè: uomo] della stella per applicargli la profezia di Balaam ("Numeri", 24, 17: una stella spunta da Giacobbe, uno scettro sorgerà da Israele. intesa in senso messianico. IL CRISTIANESIMO DALLE ORIGINI AL CONCILIO DI NICEA di Etienne Trocm‚. 1. INTRODUZIONE.

Tre secoli separano la vita di Gesù, profeta di Nazareth, dai fasti imponenti del concilio di Nicea (325., la prima grande espressione dell'alleanza tra l'Impero romano e la Chiesa cristiana. Non sempre questo lungo periodo ha avuto l'attenzione che merita, dal momento che gli specialisti si dedicano più volentieri allo studio del "Nuovo Testamento" o della grande letteratura teologica del quarto-quinto secolo che a quella degli uomini e degli scritti cristiani del periodo intermedio. Il pubblico colto si fa un'immagine semplificata di queste dieci o dodici generazioni, prendendone a prestito i tratti salienti, senza troppo discernimento, dal libro degli "Atti degli Apostoli", dai racconti dei martiri e dalle scoperte archeologiche, soprattutto dagli scavi di Roma: fervida vita comunitaria di gruppi semiclandestini, il cui eroismo di fronte alla persecuzione non aveva limiti. Senza essere falsa, quest'immagine lascia tuttavia sfuggire l'essenziale. Rende inspiegabile il contrasto tra l'esecuzione di Gesù come malfattore ad opera di un modesto funzionario romano e l'appassionata partecipazione dell'imperatore Costantino ai dibattiti dei vescovi sulla divinità di quello stesso Gesù. Una concezione del genere cancella le differenze tra generazioni e tra regioni. Dimentica che la quasi totalità dei cristiani erano Ebrei e di lingua semitica alla prima generazione e che, a Nicea, non si parlava se non il greco e un po' di latino. In breve: questa immagine non può soddisfare lo storico. Questi non potrà neanche limitarsi a delineare un parallelo con gli inizi di altre due grandi religioni: il buddhismo e l'islam. Certo, l'espansione rapida dell'una e dell'altra, la simbiosi istituita tra ciascuna di esse e un grande impero, la loro fioritura in un'area culturale nella quale non rientrava il loro paese d'origine, sono altrettanti fenomeni paragonabili con quel che É dato osservare nel cristianesimo dei primi secoli. Alcuni accostamenti sono, dunque, legittimi e possono servire a spiegare la storia delle generazioni cristiane prima di Nicea. Essi consentono, in particolare, di attribuire il suo vero significato alla presenza della cultura ellenistica e dell'Impero romano sul cammino della nuova religione: si tratta di ostacoli, certamente, se si pensa al disprezzo dei letterati greci e degli amministratori romani per una setta orientale molto strana dal loro punto di vista; ma soprattutto, si tratta di strutture d'accoglienza, che hanno plasmato la cera ancora duttile del cristianesimo e gli hanno fornito gli strumenti per una rapida crescita. Eppure, la storia dei primi tre secoli cristiani É molto diversa da quella delle altre due grandi religioni. Essa É stata molto più difficile, incerta, piena di minacce. Mentre l'islam si É immediatamente diffuso grazie agli eserciti arabi e ha goduto del sostegno di un grande Impero, ha avuto fin dall'inizio il suo libro sacro e ne ha imposto la lingua a milioni di persone, il cristianesimo É stato costretto alla clandestinità, frenato nella sua espansione da tutte le autorità possibili, destinato fin dall'origine a un doloroso sradicamento culturale, costretto a lunghe incertezze prima di riuscire a dotarsi di Sacre Scritture. Mentre il buddhismo, sorto in seno a un ampio e accogliente ambiente culturale, vi É cresciuto a proprio agio per più di due secoli prima di essere sospinto in missioni esterne da parte del re Asoka - che, internamente, se ne era fatto il propagandista più acceso e che cercava di applicarne personalmente la morale -, il cristianesimo ha dovuto lottare a lungo per farsi accettare come una componente della cultura greco-romana, dato che l'ambiente giudaico nel quale era nato era restio alla sua predicazione e costituiva per esso soltanto un campo d'azione troppo angusto; inoltre, lo sforzo missionario cristiano É stato diretto prestissimo verso paesi lontani e, quando Costantino aderì alla nuova fede, non ritenne però di essere obbligato a praticare le virtù da questa raccomandate, compromettendo in tal modo l'esito della causa cui, pure, accordava la propria protezione. Se la storia dei primi tre secoli cristiani ha costituito una battaglia rischiosa, non ci si sorprenderà del fatto che essa abbia conosciuto una serie di vicende alterne e non presenti la semplicità che spesso le si attribuisce. A parte il fatto che ad essa concorrono centinaia di situazioni locali, tra le quali si arriva a un'effettiva sincronizzazione solo a partire dalla metà del terzo secolo, essa comporta almeno tre grandi fasi, intorno alle quali si articolerà la nostra esposizione.

La prima, che va dal 30 al 125 circa, costituisce un periodo di rapida espansione e di progressiva emancipazione della setta cristiana nei confronti del giudaismo, dal cui seno si era originata; questa fase É dominata dai problemi della missione e dei rapporti con Israele. La seconda fase, che dura dal 125 al 250 circa, É caratterizzata dalla trasformazione della piccola setta in una Chiesa piuttosto numerosa, la cui dimensione di massa scoraggiava per la mediocrità molti intellettuali e credenti zelanti, ma incoraggiava i suoi rappresentanti a rivestire il cristianesimo delle spoglie della cultura ellenistica; É il periodo delle prime grandi eresie (gnosticismo, marcionismo, montanismo., degli apologeti, di Clemente Alessandrino, di Origene, ma anche quello della nascente ortodossia, il periodo in cui i vescovi, la confessione di fede, il canone delle Scritture e i fautori della tradizione (Ireneo, Ippolito, eccetera. contrastano sia gli eccessi della devozione popolare, sia le sistematizzazioni teologiche troppo sottili per essere limpide. Quanto alla terza fase, essa É caratterizzata dall'involontaria trasformazione del cristianesimo in un fattore politico di primo piano. E' quel che avviene nella Persia dei Sassanidi e in Armenia all'inizio del quarto secolo, dove la fede cristiana gode dei favori dello Stato fino a molto dopo il concilio di Nicea; ma É quel che accade molto più nettamente nell'Impero romano, nel quale si aprì nel 249 l'Éra delle persecuzioni generalizzate, che miravano alla completa eliminazione del cristianesimo, considerato come una minaccia per lo Stato, e dove, a partire dal 310 circa, la pace della Chiesa costituì per Costantino l'occasione per un'operazione politica di enormi dimensioni e per una presa di possesso straordinariamente rapida dell'apparato ecclesiastico da parte dello Stato. Non sorprende, dunque, che in queste condizioni, dal 250 al 325, la Chiesa cristiana si sia soprattutto preoccupata dei propri rapporti con lo Stato - comunque questo si mostrasse nei suoi riguardi, ben disposto o meno - e dei grandi problemi originati nel proprio seno dalla persecuzione sistematica. Non si capirebbe nulla del cristianesimo dei primi secoli se se ne trascurasse la figura del fondatore, Gesù di Nazareth. Senza pretendere di risolvere tutti i problemi che si pongono a chi voglia affrontare la vita di Gesù, noi cercheremo invece di indicare quegli elementi della biografia del Nazareno che preparano lo sviluppo successivo. Sono elementi tutt'altro che trascurabili. 2. GESU'. Si É tentato a volte di fare del cristianesimo un semplice prodotto del sincretismo ellenistico, descritto in altra parte di quest'opera. Certamente, l'apporto della religiosità greco-romana del primo e del secondo secolo alla pietà, alla teologia e alla morale cristiane É stato considerevole. Avremo molte occasioni per ripeterlo, ma non per questo É assolutamente possibile negare l'origine giudaica - e più esattamente palestinese - del cristianesimo, come fanno alcuni. Questa tesi presuppone un'interpretazione del tutto arbitraria dei quattro "Vangeli" e del libro degli "Atti", nei quali É evidente come gli autori abbiano utilizzato una quantità di tradizioni palestinesi molto antiche, senza parlare dei salti mortali che richiede una simile tesi per liberare le "Lettere" di Paolo e l'"Apocalisse" giovannea di tutti gli elementi ebraici che tali scritti racchiudono. Ma la sua debolezza fondamentale consiste nel fatto di basarsi su un postulato che tutto concorre a smentire sempre più decisamente: quello dell'incapacità del giudaismo palestinese del primo secolo di alimentare teorizzazioni messianiche o, se si vuole, cristologiche del tipo di quelle contenute in quasi tutti gli scritti del "Nuovo Testamento". Ci si configura la religione ebraica di allora attraverso il "Talmud", che É di molti secoli dopo, senza rendersi conto che questa raccolta ci fa conoscere un ebraismo epurato in seguito alle sciagure nazionali del 70 e del 135 e che corrisponde solamente ad una delle tendenze precedentemente esistenti, quella dei Farisei. Oggi sappiamo con sicurezza quello che da molto tempo era intuibile: l'ebraismo palestinese del primo secolo era molto diverso e alcune delle sÉtte che vi proliferavano avevano del Messia, o di altri personaggi incaricati da Dio di missioni analoghe, una altissima concezione speculativa. E' soprattutto quel che accade tra gli Esseni, la cui biblioteca É stata ritrovata a Khirbet Qumranè nei pressi del Mar Morto; per essi, il Maestro di Giustizia, riformatore del loro ordine, aveva assunto proporzioni quasi divine.

Così stando le cose, sarebbe ingenuo ostinarsi a negare l'evidenza e continuare a postulare l'origine extraebraica ed extrapalestinese del cristianesimo. Affermare che il movimento cristiano É nato in Palestina significa anche accettare implicitamente l'esistenza storica di Gesù di Nazareth, contestata da alcuni di coloro che collocano il cristianesimo al di fuori di questa provincia e dello stesso giudaismo. Infatti, la tradizione orale cui si rifanno san Paolo e soprattutto gli evangelisti comporta perlomeno un nucleo importante di racconti, e più ancora di detti, che intorno al 40-50 venivano attribuiti a un personaggio storico vissuto meno di una generazione prima. L'invenzione di un tal personaggio in così pochi anni É del tutto inverosimile, anche se si deve ammettere che la sua vita ed il suo insegnamento abbiano potuto essere profondamente reinterpretati in questo intervallo di tempo. Tra coloro che accettano la tesi dell'esistenza storica di Gesù di Nazareth, ve ne sono alcuni che considerano che la sua vita sia praticamente impossibile da conoscere, al di là di alcuni episodi, come la crocifissione ad opera delle autorità romane. Altri, invece, ritengono che una biografia di Gesù si possa scrivere e danno largo credito ai documenti disponibili, cioè soprattutto ai quattro "Vangeli" canonici. Noi ci collochiamo in un terzo gruppo, che giudica estreme entrambe le posizioni suddette e che pensa che, pur non essendo possibile ricostruire la vita e l'insegnamento di Gesù, si possano tuttavia rintracciarne alcuni elementi essenziali e coglierne l'orientamento generale. Certamente, la nostra documentazione sulla vita di Gesù É unilaterale e di difficile utilizzazione. Le fonti pagane, infatti, già molto scarse, si riducono ad alcuni accenni che provano solamente come nel secondo secolo nessuno mettesse in dubbio l'esistenza storica di Gesù. Tranne alcuni accenni antichi del "Talmud", le fonti giudaiche si limitano a un piccolo numero di passi delle opere dello storico Giuseppe Flavio, nei cui confronti si pongono numerosi problemi di autenticità e che non aggiungono granch‚ a quello che si sa dai "Vangeli". Quanto alle fonti cristiane del primo secolo, esse sono meno ricche e meno sicure di quanto sarebbe auspicabile: se si escludono i quattro "Vangeli" canonici, esse ci fanno conoscere soltanto poche parole e qualche episodio della vita di Gesù; i "Vangeli", da parte loro, hanno una preistoria complicata, che ne rende impossibile l'utilizzazione diretta come fonti biografiche e costringe lo storico a percorrere la strada della tradizione orale precedente, la cui ricostruzione e la cui critica dipendono largamente da congetture ipotetiche. Queste difficoltà esigono da parte del biografo di Gesù molta pazienza e molta modestia. Esse escludono ogni possibilità di accesso al pensiero e alla sensibilità intima di una figura che resterà sempre avvolta nel mistero. Esse lasciano, peraltro, un largo campo aperto all'indagine: quello dei rapporti che si sono andati stabilendo tra i vari ambienti della popolazione palestinese e Gesù in rapporto all'attività di quest'ultimo. - L'ambiente palestinese. Di tutti questi ambienti, il più noto nella storia dell'antichità É quello dell'esercito d'occupazione e dell'amministrazione romani. Saldamente insediata nella regione dopo l'occupazione di Gerusalemme da parte di Pompeo nel 63 avanti cristo, Roma si era decisa a ricorrere all'amministrazione diretta soltanto nel 6 dopo cristo E anche allora, il procuratore che aveva sede a Cesarea - una città ellenizzata sulla costa mediterranea - amministrava soltanto la Giudea e la Samaria, cioè la metà di sud-ovest della Palestina, e disponeva solo di forze debolissime. Si spiega così la scarsità dei contatti tra Gesù e i rappresentanti del potere romano, dal momento che il profeta di Nazareth aveva fatto solo brevi e discrete incursioni nella zona direttamente amministrata prima del suo arresto a Gerusalemme. La sua condanna da parte del procuratore Pilato dimostra, tuttavia, come la sua attività avesse finito per richiamare l'attenzione dei Romani. Nelle zone della Palestina rimaste, dopo il 6, in regime di protettorato, vi era un certo numero di città autonome profondamente ellenizzate, in particolare quelle che, da Damasco a Scitopoli e a Filadelfia, formavano la confederazione della Decapoli. Anche con questi ambienti ostili al giudaismo e alla cultura giudaica Gesù ha avuto soltanto rapporti molto occasionali.

Sembra invece che i rapporti siano stati un po' più frequenti con gli ambienti erodiani, legati ai lontani eredi di Erode il Grande (morto nel 4 avanti cristo., che detenevano allora il potere in Galilea, in Perea e nelle regioni situate ad est e a nord-est del lago di Tiberiade. Questi notabili, a volte molto influenzati dall'ellenismo, ma che si consideravano in maggioranza giudei, sono del resto difficilmente distinguibili dai grandi proprietari e dagli uomini d'affari che facevano gravare su dei contadini perlopiù miserabili un giogo economico assai pesante. In Giudea, i notabili erano per buona parte sacerdoti, e tra questi alcune famiglie straricche avevano trasformato il sacerdozio supremo del Tempio di Gerusalemme in loro riserva di caccia. La ricchezza e le imponenti dimensioni del santuario, frequentato in occasione delle festività giudaiche - soprattutto la Pasqua - da enormi folle, i notevoli capitali che vi si accumulavano mediante le imposte e le donazioni offerte dai fedeli, permettevano agli amministratori di questa istituzione centrale del giudaismo di occupare un rango sociale privilegiato, anche sotto la dominazione romana. Ad esempio, il sommo sacerdote presiedeva il sinedrio di Gerusalemme, un consiglio di notabili la cui autorità sembra si estendesse anche oltre i confini della città, contrariamente a quanto accadeva per i sinedri delle altre località. Pur non avendo Gesù frequentato quasi mai questi grandi notabili, ha però avuto dei rapporti costanti con ambienti che si possono definire di classe media: quelli cioè che svolgevano la parte principale nelle assemblee religiose settimanali note sotto il nome di sinagoghe e dedicate alla meditazione della Legge di Dio, assemblee che in quell'epoca si moltiplicavano in tutte le zone dove vivevano degli Ebrei e che rispondevano a un'esigenza religiosa individuale sentita da coloro che avevano una certa istruzione. Questi ceti, al cui interno erano numerosi gli artigiani, si raggruppavano spesso in confraternite, l'insieme delle quali costituiva il partito dei Farisei. Questo partito si opponeva spesso, nei sinedri come nelle scuole, al partito dei sacerdoti, ma il suo zelo pietistico lo separava ancora di più dalla massa del popolo, prevalentemente contadina. Gesù apparteneva per la sua origine sociale e per molti altri aspetti a questo ambiente, senza peraltro essere membro del partito fariseo; di qui i rapporti frequenti con quest'ultimo, a volte più cordiali di quanto i "Vangeli" non lascino supporre. La tendenza di un'‚lite religiosa a separarsi dalla grande massa e a relegarla al di fuori della cerchia degli eletti si ritrova anche altrove nel giudaismo palestinese degli inizi della nostra Éra, specialmente presso gli Esseni, che oggi conosciamo molto bene grazie alla straordinaria scoperta dei manoscritti cosiddetti del Mar Morto. Questa setta, che sembra aver avuto altri centri oltre quello di Qumranè aveva l'ossessione della purezza rituale e la convinzione di essere l'unica eletta da Dio tra gli altri gruppi di popolazione. E' certo che, nonostante i "Vangeli" non ne facciano parola, Gesù ha conosciuto questo gruppo e le sue idee. E' chiaro però che, piuttosto che verso questo o quel gruppo giudaico, Gesù ha rivolto la propria azione anche verso le masse palestinesi che si rifacevano più o meno direttamente al giudaismo. Nonostante esistessero nella Palestina di allora alcune città relativamente importanti, tra le quali almeno Gerusalemme era interamente ebrea, queste masse erano prevalentemente rurali e conducevano una vita precaria, minacciate continuamente dalla malattia e dall'indebitamento. La loro religiosità ne era fortemente influenzata e lasciava ampia presa all'elemento miracoloso, nonch‚ a un messianismo primitivo, molto più illuministico che politico. L'interesse di Gesù per queste vaste masse non É un fenomeno unico, in un'epoca nella quale si sono manifestati parecchi presunti messia, che hanno ricevuto notevole attenzione da parte del popolo minuto. Ma esso somiglia soprattutto a quello di cui ha dato prova Giovanni il Battista, suo contemporaneo, nel corso di tutta la sua vita di predicatore nel deserto giudaico e di battezzatore nel Giordano. Questa strana figura, che per i contatti con l'essenismo e per le origini sacerdotali avrebbe potuto divenire uno dei più rigorosi sostenitori dell'esclusivismo, conobbe per alcuni anni (tra il 26 e il 29. un notevole successo predicando a tutti gli Ebrei senza eccezione alcuna un pentimento seguito da un bagno purificatore, che avrebbe assicurato loro il perdono divino nel momento del Giudizio Universale, che era imminente.

Questa generale reintegrazione nell'Israele di Dio di folle sospette per qualsiasi settario rappresentava una novità considerevole rispetto a tutti i movimenti religiosi dell'epoca. - Origine e vita. E' significativo che Gesù si sia unito alle masse che sollecitavano il battesimo di Giovanni; che egli, come sembra, sia poi rimasto per qualche tempo con il seguito del Battista, fino al punto di essere considerato uno dei suoi discepoli; che, infine, egli abbia pronunciato sul suo maestro di un tempo giudizi molto favorevoli. Benché‚ egli avesse rotto con la cerchia dei discepoli di Giovanni Battista, sembra che abbia considerato la propria missione come la continuazione e l'allargamento di quella dell'asceta del deserto, tragicamente stroncata dall'arresto e dall'esecuzione, che hanno ispirato tanti artisti e scrittori. Non sorprende, dunque, il fatto che Gesù abbia predicato alle folle un pentimento sufficiente a consentire a chiunque di entrare nel regno di Dio. L'origine di Gesù É oscura. Un mistero impenetrabile, che la poesia dei racconti della Natività maschera a malapena, avvolge il luogo e le circostanze della sua nascita, che si collocano sicuramente tra gli Ebrei di Palestina e nel 4 avanti cristo Sembra che la sua infanzia e la sua giovinezza siano trascorse a Nazareth, un modesto borgo della Galilea, dove egli esercitò fin verso la trentina il mestiere di carpentiere edile. In questa città, egli ha certamente conosciuto dei Farisei e forse ha simpatizzato per alcune delle loro idee in quel periodo. Lasciando Nazareth, la sua famiglia, il suo ambiente per raggiungere Giovanni Battista nel deserto, Gesù ha rotto con tutti i modi di fare e di pensare che escludevano la massa dal popolo di Dio e riducevano quest'ultimo alle dimensioni di una setta. Questa scelta decisiva, che lo ha definitivamente separato dai Farisei, dagli Esseni e dal resto delle sÉtte, sembra essergli stata suggerita dalla predicazione del Battista sull'imminenza del Giudizio Finale e sulla grazia speciale elargita da Dio al penitente - chiunque egli fosse -, dal momento che nessuno poteva essere escluso dalla salvezza in un momento così cruciale. E tale scelta fu ben presto rafforzata da un'esperienza mistica che convinse Gesù, nel momento del suo battesimo, della fondatezza del suo riferimento a Giovanni e dell'importanza del suo ruolo personale nel dramma escatologico imminente. L'arresto di Giovanni Battista, verso l'anno 28, impresse una svolta alla predicazione di Gesù, che da allora cessò di battezzare. Se si intendono bene i "Vangeli", che ci danno di questa svolta decisiva una versione piuttosto deformata a causa di preoccupazioni successive, il profeta di Nazareth cominciò da allora a proclamare la presenza del regno di Dio che, da realtà attesa, diventava nella sua predicazione una realtà attuale che sconvolgeva l'ordine normale delle cose. Invece di far accorrere nel deserto le folle dei penitenti, Gesù recava loro a domicilio la predicazione liberatrice che, riducendo le esigenze della legge all'amore di Dio e del prossimo, offriva a tutti immediatamente la grazia divina e la possibilità di vivere in pace con Dio. Questo ardito messaggio, proclamato davanti a numerosissimi auditori popolari, era accompagnato da guarigioni spettacolari, che fecero una profonda impressione su quella gente semplice per la quale la malattia rappresentava una maledizione senza speranza. E' impossibile dire con un minimo di certezza come andassero le cose quando si presentava un malato. E' evidente però che Gesù aveva eccezionali doti di guaritore e ne faceva un uso disinteressato. In ciò si vide la conferma del suo messaggio e, in particolare, delle sue affermazioni sulla presenza del Regno di Dio. Alcuni ne trassero addirittura la conclusione che fosse lui il Re messianico atteso dal popolo. La missione di radunare folla all'insegna della grazia divina che Gesù poneva in tal modo al centro della sua attività É incompatibile con la carriera di fondatore di una nuova setta che spesso gli viene attribuita. Bisogna dunque, di fronte alle inevitabili deformazioni prodotte dal susseguirsi degli avvenimenti, ricordare con chiarezza che Gesù non ha fondato una Chiesa. Egli ha tentato di raccogliere Israele in orizzonti diversi, il che É molto diverso. La sua celebre apostrofe a Pietro ("Matteo" XVI, 18. non voleva originariamente significare altro, e l'equivalente semitico del termine "ecclesia" stava ad indicarvi, come nel "Vecchio Testamento", l'assemblea generale del popolo giudaico dinnanzi a Dio.

Per raccogliere tutto Israele entro nuovi orizzonti, Gesù ha combattuto i capi ebraici con l'accanimento di un buon rivoluzionario? Una lettura superficiale dei passi polemici dei "Vangeli" potrebbe indurre a pensarlo. Vari indizi, però, portano a ritenere che il profeta di Nazareth abbia conservato fino al termine della vita relazioni abbastanza strette con certi strati dirigenti del suo popolo, con quelli dei borghesi agiati e dei farisei zelanti in primo luogo. Egli ha accettato di essere accolto alla loro tavola, di conversare con loro, di esporre loro le proprie idee in forma gradevole e allusiva come quella delle parabole: vi É, infatti, qualche motivo di pensare che molte di queste piccole storie siano state originariamente delle conversazioni tra commensali avvenute presso alcuni dei suoi ospiti, fossero o meno suoi seguaci. Il loro impiego successivo come illustrazione della predicazione cristiana ha spesso deformato e caricato di un senso nuovo quelle che erano delle semplici narrazioni argute che approdavano a una morale molto cauta. Sarebbe tuttavia sbagliato immaginarsi Gesù come un complice subordinato dei dirigenti del suo popolo. Molti segni dimostrano una sua totale autonomia spirituale nei confronti dei grandi di questo mondo, ricchi, potenti o sacerdoti. Un episodio rilevante della sua vita ce lo mostra anche mentre ricorre alle vie di fatto per riformare l'istituzione centrale del giudaismo: si tratta della clamorosa espulsione dei mercanti dal Tempio, la cui storicità, nonostante le opinioni di alcuni, sembra provata ("Marco" XI, 15-8.. Scacciando con la forza i cambiavalute, i quali offrivano ai pellegrini la moneta senza effigie umana, che era l'unica con cui si poteva pagare l'imposta dovuta al Tempio, e i mercanti che offrivano ai fedeli animali per il sacrificio, Gesù attaccava le cerchie più potenti del popolo giudaico, quelle degli amministratori del Tempio, delle sue ricchezze, del suo culto, cioè, in ultima analisi, lo stesso sommo sacerdote. Egli lo faceva alla maniera degli zeloti, i fieri difensori dell'onore di Dio, che si attribuivano il compito di punire i peccatori che suscitassero scandalo, nel caso in cui le autorità non fossero intervenute contro di essi. Anche nel caso in cui - come vuole l'insieme del suo messaggio - ci si rifiuti di vedere in Gesù un agitatore nazionalista o un capo zelota, occorre ammettere che l'espulsione dei mercanti dal Tempio rivela in lui una ben decisa volontà di opporsi anche alle più elevate autorità ebraiche. Questo atteggiamento - che ha con tutta evidenza contribuito a rendere inevitabile la tragica fine di Gesù - pone il problema dell'autorità personale alla quale egli mirava. Purtroppo, É impossibile distinguere, nella tradizione pre-evangelica, quello che deriva dalle prime elaborazioni cristologiche della Chiesa primitiva da quello che risale al Gesù storico. Tutto quel che si può dire É che Gesù ha avuto la convinzione di svolgere un ruolo unico nel Regno di Dio già in atto e che questa certezza interiore non corrispondeva precisamente ad alcuna delle numerose concezioni correnti al suo tempo a proposito del Messia, del Figlio dell'Uomo, del Profeta escatologico, eccetera. Gesù, peraltro, ha accettato che si ricorresse all'uno o all'altro di questi titoli per definirlo nell'arco della sua vita. Questa apparente passività di fronte ad interpretazioni scarsamente compatibili tra loro va attribuita non all'indifferenza, ma alla convinzione che l'essenziale fosse che il maggior numero di gente rispondesse positivamente alla sua predicazione e non l'imposizione dell'ortodossia di una setta. Gesù, tuttavia, ha compiuto uno sforzo particolare per impartire ad alcuni un'istruzione più approfondita per quanto riguardava lui stesso, la propria missione e come bisognasse concepire la nuova obbedienza nel quadro del Regno di Dio. Egli ha reclutato alcuni discepoli, che ha accuratamente formato e ai quali ha chiesto grandi sacrifici, costringendoli a una vita nomade e comunitaria che li obbligava a rompere i rapporti con il loro ambiente. Ma questi uomini, tra i quali un gruppo di dodici costituiva una specie di nucleo, erano prescelti solo per continuare l'attività di Gesù e diffondere il più possibile l'Evangelo della presenza del Regno di Dio. Persino i tre o quattro intimi - Simon Pietro, Giovanni e Giacomo, e a volte Andrea - non formavano una cerchia esoterica, ma una semplice ‚quipe di pescatori di uomini, destinata a raccoglierne il maggior numero possibile nella rete della loro predicazione.

La vasta campagna iniziata da Gesù per raccogliere tutto il popolo nel Regno di Dio fu interrotta piuttosto presto. Al volgere di un periodo che si può valutare sia durato circa due anni, il profeta di Nazareth venne arrestato a Gerusalemme dalle autorità ebraiche, consegnato ai Romani come perturbatore dell'ordine pubblico, condannato dal procuratore Ponzio Pilato e crocifisso, sottoposto cioè a un supplizio infamante (primavera del 30.. Sembra che Gesù sia stato cosciente del pericolo che correva e che abbia fatto di tutto per evitare di trascinare con s‚ i compagni al supplizio. Infatti, dopo una resistenza più simbolica che reale al momento dell'arresto di Gesù, i discepoli fuggirono e si sottrassero alle ricerche nascondendosi in luoghi diversi. - La ripresa. Sembrava che Gesù avesse fallito completamente. Egli non lasciava dietro di s‚ n‚ scritti, n‚ gruppi organizzati e neppure un messaggio che si potesse trasmettere, dato che il suo paradossale "Vangelo" perdeva credito per l'irreparabile sconfitta subita dal suo principale araldo. Ma i discepoli, dispersi e scoraggiati, furono strappati ai loro rifugi da misteriose apparizioni del loro Maestro, a cominciare da pochi giorni dopo la sepoltura di questi. Gesù si presentava ad essi e li esortava a riprendere l'opera interrotta, assicurandoli di essere sfuggito alla morte e di disporre di un rango e di un potere divini che oltrepassavano di gran lunga le sue facoltà terrene. I racconti delle apparizioni del Risorto sono troppo vaghi perché‚ uno storico possa esprimere un giudizio sui fenomeni da essi riferiti. Quel che risulta chiaro, però, É che l'appello lanciato dal Maestro che aveva vinto la morte venne accolto da numerosi discepoli, tra cui i Dodici. L'opera missionaria iniziata da Gesù nei confronti della massa del popolo ebraico venne ripresa, non senza un certo successo, a quel che sembra. Era ormai partita la spinta da cui sarebbe nata la Chiesa cristiana. 3. ESPANSIONE ED EMANCIPAZIONE (DAL 30 AL 125 CIRCA.. La crocifissione di Gesù non era riuscita ad imporre il silenzio ai predicatori del Regno di Dio come presente e aperto a chiunque. Ma, anche quando le riapparizioni del Risorto riuscirono a sottrarli al loro scoraggiamento, essa continuò a porre loro problemi non indifferenti. Per comprendere e spiegare questo fatto, i missionari dovettero trasformarsi in teologi ed apologeti, ripiegarsi sui testi biblici, definire la loro fede di fronte alle diverse tendenze del giudaismo: si trattava di uno sforzo intenso di riflessione, che non avrebbe potuto andar disgiunto da un certo affievolimento dello slancio evangelizzatore. Tale ripiegamento fu ben presto criticato e combattuto da una minoranza, della quale qualche anno dopo Saulo di Tarso divenne l'esponente più geniale. La maggioranza riuscì, in capo a un mezzo secolo, a imporre le proprie convinzioni teologiche ed ecclesiologiche, in gran parte grazie a una serie di circostanze esterne; essa, infatti, era stata costretta dall'irrigidirsi del giudaismo, dopo la caduta di Gerusalemme nel 70, a prendere coscienza della propria indipendenza nei confronti della religione sorella. Da allora, quindi, non ebbe difficoltà a dare il tono in seno alla Chiesa cristiana, di fronte a una minoranza che aveva perduto il suo brillante slancio con la perdita dell'apostolo Paolo. Il cattolicesimo antico degli ultimi anni del primo secolo e del primo quarto del secondo secolo É l'erede di quella maggioranza, anche se ha avuto l'accortezza di non rigettare gli scritti nei quali la minoranza aveva espresso le proprie idee. La storia di questo secolo decisivo per le sorti del cristianesimo ci É nota molto imperfettamente, anche se alcune fonti di eccezionale valore ci permettono di studiarne da vicino alcuni importanti capitoli: le lettere di Paolo, pur escludendone parecchie in quanto non autentiche, ci fanno conoscere in modo diretto questa eccezionale personalità; i primi tre "Vangeli" offrono un modo di penetrare fin negli ambienti in cui sono stati redatti e in quelli in cui si É formata la tradizione orale a loro comune; il libro degli "Atti degli Apostoli", infine, ci presenta un quadro coerente dei primi trent'anni del cristianesimo, senza il quale ogni ricostruzione storica sarebbe impossibile. Lo storico dovrà semplicemente essere cosciente delle carenze di questa documentazione, la quale copre soltanto un campo limitato e non può essere utilizzata senza una seria

valutazione critica di quel che contiene, che É spesso deformato dai pregiudizi e dalle esigenze dell'apologetica. Così, i primi capitoli del libro degli "Atti" ci offrono preziosi ragguagli sugli inizi della Chiesa di Gerusalemme, collocandoli d'altro canto in un quadro cronologico estremamente arbitrario, che É necessario infrangere per ricostruire la successione degli avvenimenti. Un buio profondo ci nasconde i particolari di quanto É accaduto tra i discepoli nelle settimane successive alla Crocifissione. Gli ex compagni di Gesù si sono raccolti a Gerusalemme sicuramente a poco a poco, formandovi una comunità semimonastica, insieme a un certo numero di neoconvertiti, molti dei quali erano membri della famiglia di Gesù. L'esigenza di aiutarsi reciprocamente tra Galilei spaesati e di approfondire la cristologia spiegano questo sviluppo, che inizialmente apparve a tutti compatibile con la ripresa della campagna missionaria. Sembrerebbe si siano fatte sentire influenze esseniche. Ai prestiti in materia teologica contratti con la letteratura della setta del Mar Morto si aggiunge naturalmente l'imitazione delle sue istituzioni, almeno per quel che riguarda taluni aspetti: comunanza dei beni, sacra autorità dei dirigenti, disciplina rigorosa. Il nucleo in tal modo costituito non assorbì certo tutti coloro che erano stati convinti dalla predicazione dei discepoli; tuttavia, dato il suo ruolo centrale, impresse per la prima volta al moto suscitato da Gesù l'andamento di una setta giudaica tra le altre. In questo modo si spiegano le violente reazioni di cui dovremo riparlare e mediante le quali si espresse la diffidenza dei discepoli più decisi, per fedeltà al messaggio di Gesù, ad opporsi a qualsiasi esclusivismo. La comunità semimonastica, costituita a Gerusalemme anche prima della fine dell'anno 30, É descritta nei capitoli da I a V degli "Atti" come prevalentemente dedita alla predicazione rivolta verso gli Ebrei, sia quelli residenti nella capitale, sia i pellegrini. Non vi É alcun motivo per contestare l'importanza di questa attività missionaria, sia nei confronti della vita interna della comunità, sia per quel che riguarda la diffusione del messaggio cristiano. Le meditazioni di questo piccolo gruppo e la sua organizzazione erano orientate in modo da predisporre e agevolare lo sforzo di evangelizzazione. Sollevando i Dodici dalle responsabilità materiali, si intendeva permetter loro di dedicarsi al servizio della Parola ("Atti" VI, 4.. Nel formulare in modo preciso la cristologia, nel sondare le Sacre Scritture per trovarvi le prove del fatto che Gesù era il Messia, nel cercare gli argomenti contro questa o quella obiezione corrente dei dirigenti ebraici si approntavano materiali indispensabili per i missionari, di cui i discorsi di Pietro, in "Atti" II e III, mostrano quale uso si potesse fare di fronte ad ascoltatori estranei alla fede cristiana. L'autore del libro degli "Atti", che ha soprattutto appuntato l'interesse sull'opera missionaria, ha trascurato però di fornirci i particolari di altri aspetti della vita della comunità di Gerusalemme, nonostante l'importanza decisiva di molti di essi per l'avvenire del cristianesimo. E' di capitale importanza, ad esempio, il fatto che questa Chiesa nascente abbia elaborato una ricca cristologia ed abbia assegnato un posto centrale all'affermazione per cui Gesù era il Messia - o, per usare l'equivalente greco di questa parola ebraica ed aramaica, il Cristo -, anzich‚ il Profeta o il nuovo MosÉ. La tesi, del resto, era ardita all'indomani della Crocifissione, in quanto per i Giudei il Messia era un vincitore, non un vinto. Il fatto di aver avuto il coraggio di appropriarsi di questo titolo, in apparenza non molto adatto al caso, per designare Gesù, sta bene ad indicare la condizione di spirito della comunità di Gerusalemme, poco numerosa ma animata da una volontà di conquista. Il cristianesimo deve altresì all'originaria Chiesa di Gerusalemme il riadattamento del battesimo di Giovanni il Battista alla fede in Gesù Cristo e la trasformazione in rito ricorrente con valore sacramentale del pasto consumato da Gesù con i discepoli. Lasciando in seguito da parte l'orizzonte angusto che aveva visto la loro formazione iniziale, questi due sacramenti hanno mantenuto il posto centrale che essi avevano nella comunità semimonastica delle origini e hanno largamente contribuito alla solidità del cristianesimo, al di là di tutte le trasformazioni subite. I primi cristiani di Gerusalemme hanno anche creato un metodo e una tradizione esegetici molto vicini a quelli degli Esseni per l'ardimento con cui essi applicano alle situazioni

contemporanee tutte le profezie del "Vecchio Testamento", integralmente accolto come Sacra Scrittura. Essi hanno soprattutto posto l'accento su alcuni testi decisivi per loro: certi salmi, certi passi dei libri profetici, tratti per lo più dal profeta Isaia. Questi testi, da allora, sono rimasti al centro di tutta la teologia cristiana. La comunità di Gerusalemme ha trasmesso alla Chiesa di tutti i secoli che seguirono il racconto della Passione di Gesù, in cui si mescolano strettamente reminiscenze storiche e meditazioni ispirate alla Scrittura. Essa ha raccolto una parte importante dell'insegnamento impartito da Gesù ai suoi discepoli e ne ha organizzato la memorizzazione e l'impiego nella predicazione, nella catechesi o nella polemica. Infine, essa ha riconosciuto ai dodici principali discepoli di Gesù un'autorità particolare, quella cioè di rappresentanti incaricati ("shelihim", "apostoloi". dal Cristo, ai quali spettava un'obbedienza rispettosa. Essa ha così dotato il cristianesimo dei suoi apostoli e preparato il terreno perché‚ si costituisse una gerarchia. La natura precisa dell'autorità esercitata a Gerusalemme da questo gruppo resta per noi oscura, non meno della sua durata. Ben presto Pietro e Giovanni si staccarono dal gruppo dei Dodici. Altrettanto presto Giacomo, fratello di Gesù, occupò un ruolo eminente accanto a questi due discepoli della prima ora ("Lettera ai Galati" I e II.. Molto prima del 50, Giacomo era diventato il capo esclusivo della Chiesa di Gerusalemme, cosa che gli assegnava un notevole prestigio morale di fronte ai cristiani di tutto il mondo, mentre Pietro era ridotto al ruolo di missionario itinerante. E' impossibile dire se l'avvento di Giacomo alla testa della comunità della capitale abbia avuto un significato per l'orientamento di questo gruppo che si era già fatto numeroso. Esso ha corrisposto, tutt'al più a una riaffermazione del carattere pienamente giudaico che la Chiesa cristiana avrebbe conservato, nonostante l'afflusso di convertiti di origine pagana. La comunità semimonastica dei primi anni si era certamente fusa, ormai da un po' di tempo, nell'assemblea più vasta dei fedeli, ma Giacomo restava un asceta severo che obbediva a una regola rigorosa. - Gli ellenisti. Molto prima di questo periodo, la formazione della comunità di Gerusalemme aveva destato reazioni di opposizione in seno al gruppo dei convertiti. Bisogna, infatti, datare intorno all'anno 30 (o, a rigore, al 31. la ribellione degli ellenisti e la loro espulsione da Gerusalemme. L'autore degli "Atti degli Apostoli", che aveva serie riserve nei confronti di questi perturbatori dell'ordine, ci fornisce ragguagli molto incompleti e notevolmente distorti sugli avvenimenti ("Atti" VI-VIII.. Nulla prova che questo gruppo esistesse in seno al giudaismo prima della conversione dei suoi membri. Quale che sia l'origine della denominazione che gli "Atti" VI, 1 attribuiscono loro, l'elenco dei nomi contenuto in "Atti" VI, 5 mostra come i loro dirigenti fossero ebrei di lingua greca, sicuramente originari delle colonie della Diaspora e stabilitisi a Gerusalemme; lo stesso, probabilmente, valeva anche per la maggior parte del gruppo. Così, prima ancora di uscire dalle mura di Gerusalemme, il cristianesimo aveva cessato di essere un fenomeno solamente palestinese. E' noto che - contrariamente a un'opinione anche troppo diffusa - più di tre quarti del popolo ebreo viveva fuori della Palestina assai prima del tracollo di Gerusalemme nel 70. La colonia ebraica che viveva in Mesopotamia, la più antica e certamente la più numerosa, era di lingua aramaica e restava in rapporto stretto con la Palestina, dove si parlava la stessa lingua e dove essa aveva contribuito ad introdurre un certo numero di concezioni iraniche, in particolare un dualismo del tutto estraneo a una tradizione yahwista ed alcuni temi apocalittici. Ma, da oltre tre secoli, gli Ebrei si andavano stabilendo, in gruppi sempre più numerosi, attorno al bacino orientale del Mediterraneo, specialmente in Siria-Cilicia e in Egitto. Vi si concentravano soprattutto nelle grandi città e vi adottavano la lingua della cultura e dei traffici, cioè il greco, tanto che una traduzione della "Bibbia" in greco, la cosiddetta versione dei Settanta, deve essere stata redatta ad Alessandria d'Egitto a partire dal terzo secolo a C , essendo la colonia ebraica particolarmente numerosa e potente in quella città.

Si assistette anche, a partire da questo periodo, alla formazione di tutta una letteratura ebraica in greco, scritta a fini apologetici o per guadagnare proseliti. L'esempio più notevole di questa produzione letteraria É l'opera del filosofo Filone di Alessandria, pubblicata nella prima metà del primo secolo, nella quale un'autentica fede ebraica si salda strettamente con il pensiero platonico per reinterpretare il messaggio biblico. Questa sorprendente combinazione ha molteplici esempi analoghi, fino a certi scritti più sincretistici che giudaici come la letteratura posta sotto il patrocinio di Ermete Trismegisto. Il fatto É che, accanto alla penetrazione di idee greche nel pensiero ebraico della diaspora, vari temi ebraici si andavano progressivamente infiltrando tra non-Ebrei, provocando sia conversioni totali all'ebraismo, sia un'adesione intellettuale e morale della quale si hanno molteplici esempi, sia infine la costituzione di circoli sincretistici. Per difendere la purezza della dottrina e della vita ebraiche, minacciate di venire in questo modo contaminate, si erano create, dovunque le colonie ebraiche avessero una certa importanza, sinagoghe nelle quali si leggevano e si commentavano ogni settimana le Scritture. Ciononostante, il pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme restava l'atto religioso essenziale. Alcuni spingevano il loro zelo fino ad andare a stabilirsi nella capitale tradizionale del loro popolo, dove si raggruppavano in varie sinagoghe, la cui lingua corrente era il greco. Tra questi elementi pieni di fervore, dall'orizzonte più ampio di quello degli umili discepoli palestinesi, vennero reclutati gli ellenisti. Questo gruppo aveva, con tutta evidenza, una concezione offensiva della diffusione del "Vangelo". La disciplina della comunità diretta dai Dodici gli appariva pesante, certo più perché‚ frenava l'ardore di evangelizzazione degli animatori che per le ragioni concrete che mette in risalto l'autore degli "Atti degli Apostoli". Assorbiti dalla loro funzione di riflessione, di conservazione della tradizione, di elaborazione della confessione di fede, i dirigenti della comunità sembravano ai loro occhi mostrare un'eccessiva prudenza in materia di predicazione rivolta alla massa degli Ebrei. Persuasi di poter imporre il proprio punto di vista ai Dottori della Legge e ai Farisei con uno sforzo apologetico e con il ricorso alla Scrittura, i Dodici evitavano certamente di moltiplicare le occasioni di scontro con le autorità del Tempio. Occorreva, in breve, secondo questi intransigenti attivisti, riprendere l'opera di Gesù là dove questi l'aveva lasciata, con lo stesso spirito di trionfante sicurezza. Ogni tentativo di riflessione e di elaborazione dottrinale sembrava loro un arretramento di fronte a questo dovere fondamentale. A questi motivi, dettati da una completa fedeltà all'esempio missionario offerto da Gesù, se ne aggiungevano altri due: un'accanita avversione per il Tempio e un certo gusto per la persecuzione. L'avversione per il santuario di Gerusalemme, simbolo della ribellione di Israele contro il suo Dio, non É un fenomeno ricorrente nell'ambito del giudaismo contemporaneo, pur ricollegandosi a una lunga tradizione che ha lasciato tracce nella "Bibbia" ebraica e nella letteratura successiva. Tale tendenza si esprime con particolare vigore in "Atti" VII, che va molto al di là delle riserve che aveva potuto manifestare Gesù a proposito dell'amministrazione del Tempio. Piuttosto che scorgervi una derivazione da qualche setta ebraica, o un segno della fedeltà all'insegnamento di Gesù, sarà opportuno quindi attribuire questa brusca intransigenza a una reazione spontanea contro l'eccessiva importanza assegnata al Tempio dalla comunità diretta dai Dodici. In quel luogo, in cui questi ultimi collocavano con certezza un imminente ritorno del Cristo, gli ellenisti non intendevano più scorgere se non un covo di ladroni irrimediabilmente condannati da Dio. I discorsi provocatori tenuti da Stefano, uno dei capi degli ellenisti, per denunciare il Tempio, non tardarono a provocarne l'arresto e poi l'esecuzione, a prima vista illegali, da parte di alcuni che potrebbero essere degli zeloti. Gli altri membri del gruppo, fortemente minacciato, dovettero lasciare Gerusalemme senza speranza di potervi rientrare, mentre i Dodici - e certamente anche il resto dei membri della comunità - non venivano minimamente disturbati. Questa differenza di trattamento dà la misura della distanza che separava i due gruppi.

Mentre la comunità raccolta intorno ai Dodici era tollerata dalle autorità ebraiche che vi vedevano solo un'altra setta in più, accanto alle altre sette che esistevano in seno al giudaismo dell'epoca, gli ellenisti erano insopportabili per loro, vista la loro aggressività. Coscienti del rischio cui li esponeva la propria intransigenza, questi ultimi sembrano essere stati spinti da una certa sete di martirio, che si esprime con chiarezza in vari passi del "Vangelo secondo Marco" in particolare i capitoli VIII-X., un documento la cui prima edizione É probabilmente uscita dalla loro cerchia. Per gli ellenisti era un'esigenza fondamentale esortare alla saldezza nella testimonianza, così come Gesù la rivolgeva ai suoi discepoli: non era cristiano chi non avesse sofferto per il Cristo e per il "Vangelo". Quest'idea conobbe un successo a volte sconcertante nell'ulteriore sviluppo storico del cristianesimo antico. Cacciati dalla capitale, gli ellenisti non scomparvero affatto. Trovarono rifugio in regioni della Palestina in cui il Sinedrio di Gerusalemme e gli zeloti non potevano raggiungerli se non con molte difficoltà: la Samaria, che rifiutava con terrore il giogo di Gerusalemme, in nome di un'arcaica fede israelitica; le città della costa mediterranea, più o meno compiutamente ellenizzate. Alcuni di essi rientrarono ai rispettivi luoghi d'origine nella Diaspora, specialmente in Fenicia, in Siria, a Cipro. Dovunque passassero, tutti si trasformavano in ardenti propugnatori della loro fede, nelle sinagoghe e dovunque incontrassero degli Ebrei, dei Samaritani o dei proseliti di derivazione pagana. La loro predicazione ottenne un successo che bastò a sollecitare l'intervento del sommo sacerdote di Gerusalemme presso talune sinagoghe (Damasco. e quello dei Dodici, che desideravano evitare che si costituissero Chiese con tendenza ellenista (Samaria, città costiere.. Appunto in seguito alle campagne di recupero da essi condotte, i Dodici intrapresero un'attività missionaria al di fuori di Gerusalemme e fondarono intorno alla Chiesa-madre, in Palestina, un apprezzabile numero di Chiese dipendenti da questa ("Atti" VIII-X., mentre la loro attività si era inizialmente limitata alla sola capitale. Un altro sintomo del successo riportato dalla predicazione degli ellenisti, e soprattutto da quella di Filippo ("Atti" VIII., É il fatto che un quarto di secolo dopo il martirio di Stefano vi erano delle Chiese della loro tendenza lungo le coste della Fenicia e della Palestina e, forse, addirittura a Gerusalemme ("Atti" XXI.. Sembra che queste Chiese, di cui sappiamo ben poco, abbiano conosciuto fenomeni d'ispirazione profetica e mantenuto pochi rapporti con la Chiesa di Gerusalemme, sulla quale continuavano ad avere un giudizio molto severo. In breve, si conservava viva la fiamma ardente dei primi anni, il che lascia pensare che gli ellenisti continuassero a praticare un'evangelizzazione efficace, anche in zone dove si parlava poco il greco, come la Galilea e la Siria meridionale. Il "Vangelo secondo Marco" dimostra come quest'impresa rappresentasse per loro la continuazione della predicazione di Gesù, condotta con gli stessi metodi, comprese le guarigioni dei malati. Al di là di questi tentativi missionari in ambiente giudaico - l'unica cosa cui avessero inizialmente pensato - gli ellenisti cacciati da Gerusalemme vennero spinti dalle circostanze a predicare il "Vangelo" ai Greci di Antiochia di Siria ("Atti XI", 20.. Il successo ottenuto da quest'iniziativa piuttosto ardita diede diritto di cittadinanza nella Chiesa cristiana ai convertiti d'origine pagana. L'autore degli "Atti degli Apostoli" cerca, anticipando la data della conversione del centurione romano Cornelio e dei suoi amici (X., di attribuire a Pietro il merito di avere aperto la porta della Chiesa cristiana ai pagani. E' fuori di dubbio, però, che questo gesto decisivo sia stato opera degli ellenisti, anche se questi sono stati spinti a farlo un po' per caso e anche se qualche episodio della vita di Gesù poteva aver preparato il terreno in proposito. Alcune conversioni individuali di pagani si erano certamente verificate qua e là prima della grande svolta di Antiochia. Eccezioni del genere erano però servite fino a quel momento a confermare la regola secondo la quale il "Vangelo" si rivolgeva soltanto agli Ebrei. Di fronte a numerose adesioni, come quelle dei Greci di Antiochia, era necessario risolvere nuovi problemi, se non altro quello della convivenza di Ebrei e non-Ebrei nella stessa comunità, in particolare attorno alla tavola eucaristica.

I membri ebraici della Chiesa di Antiochia non correvano per caso il rischio di contaminarsi ritualmente dividendo il pane e il vino con tanti Greci? Il fatto che esistesse una maggioranza di ex-pagani non avrebbe provocato gravi deviazioni dottrinali e morali, finora evitate grazie all'eredità ebraica comune a tutti i cristiani? Di tutto questo ci si preoccupò meno ad Antiochia che non a Gerusalemme, di dove fu mandato un discepolo di vecchia data, un Ebreo originario di Cipro, di nome Barnaba, per partecipare alla vita della nuova Chiesa e mantenervi un minimo di ordine. Barnaba, piuttosto disorientato dall'ascesa continua dell'espansione tra i pagani, si recò ben presto a ricercare a Tarso, in Cilicia, l'uomo che egli riteneva l'unico in grado di mantenere sulla retta via questa fiumana crescente: Saulo, detto Paolo. Aveva così inizio la straordinaria carriera dell'apostolo dei Gentili (intorno al 40.. - Saulo di Tarso. Saulo di Tarso aveva sicuramente superato già la trentina, giacch‚ dal 58-60 parlava di s‚ come di un vecchio ("Lettera a Filemone", 9., ma ne ignoriamo l'esatta data di nascita. Egli era verosimilmente contemporaneo della maggioranza dei discepoli reclutati da Gesù durante la sua vita. Non sappiamo nulla del suo aspetto fisico, se non che era gracile e soffriva sicuramente di una malattia cronica con crisi più o meno acute. Gli sforzi compiuti per esprimere un'esatta diagnosi di questo male sono del tutto vani, data l'assenza di documenti clinici degni di questo nome. Paolo era membro di una famiglia ebrea che si vantava di appartenere alla tribù di Beniamino, da cui un tempo era uscito il re Saul; di qui veniva certamente il suo nome ebraico di Saulo, che deve essere stato affiancato fin dalla sua tenera età da quello romano di Paolo, secondo un'usanza allora largamente diffusa tra gli Ebrei della Diaspora. Pur restando ebrea, sembra che la sua famiglia godesse a un tempo del diritto di cittadinanza tarsiota e romana. Tutto ciò denuncia una condizione di confortevole agiatezza, tenuto conto del costo elevato della cittadinanza romana, e una residenza di vecchissima data nella città di Tarso, dove Paolo probabilmente É nato e ha trascorso la sua infanzia. Il suo triplice status personale gli procurerà molti vantaggi nella sua movimentata carriera. La qualità del greco paolino, l'uso frequente dei procedimenti retorici ellenistici (per esempio, la diatriba, la discussione fittizia. e di alcune nozioni filosofiche come quella di coscienza, sono la riprova del fatto che egli ha ricevuto un'istruzione greca. Tarso era, del resto, un attivo centro di vita culturale ellenistica e insieme di sincretismo religioso. Il pensiero di Paolo rimarrà costantemente segnato da queste due influenze, anche quando esse vennero relegate in secondo piano dalla sua formazione rabbinica e dalla sua vocazione cristiana. Sembra che Paolo, ancora adolescente, sia stato mandato a pensione presso un Dottore della Legge, o rabbino, di Gerusalemme: Gamaliele il Vecchio, un celebre dottore fariseo della scuola del lassista Hillel. Ripensando proprio agli anni passati presso questo maestro, Paolo si vanta di essere un Fariseo, figlio di Farisei. E fu proprio presso questo maestro che egli fece il suo apprendistato in fatto di esegesi, che egli condurrà costantemente - nonostante alcune influenze elleniste - alla maniera dei rabbini palestinesi. Come si usava allora, egli imparò un mestiere manuale, che avrebbe esercitato fino alla fine: quello di tappezziere. E' probabile che egli abbia incontrato Gesù in occasione di una delle visite di questi a Gerusalemme; egli, comunque, non si É mai unito a Gesù prima che questi fosse crocifisso. Paolo fu coinvolto nella persecuzione promossa contro Stefano e gli ellenisti di Gerusalemme negli anni 30-31. Questo É certamente un sintomo della sua inclinazione per gli zeloti e per i loro metodi violenti contro i peccatori suscitatori di scandali, un'inclinazione assai frequente nei Farisei. L'incredibile accanimento con cui egli verrà perseguitato da individui che hanno tutta l'aria di essere degli zeloti, dopo il suo arresto a Gerusalemme, fa persino supporre che questo partito lo considerasse come un rinnegato uscito dal proprio seno ("Atti" XXIII-V..

D'altra parte, Paolo ha spesso dato prova dell'acuto senso della propria eccezionale vocazione e dell'autorità che gliene derivava; É una caratteristica che egli condivide con questi vendicatori di Dio e che forse ha acquisito alla loro scuola. Paolo era ancora impegnato nella persecuzione contro gli ellenisti quando, sulla strada da Gerusalemme a Damasco, attraversò una crisi religiosa drammatica, della quale egli parla solamente per accenni, ma che il libro degli "Atti" racconta in tre diverse occasioni (IX, XXII e XXVI., in tre modi - del resto - piuttosto diversi. La causa immediata di questa crisi, che si concluse con la sua adesione alla fede cristiana, fu una visione di Gesù resuscitato, nella quale Paolo scorse la prova del suo errore nei confronti del Nazareno. Ormai convinto che quello che aveva considerato un impostore godesse dell'approvazione divina e occupasse un posto privilegiato presso il Padre celeste, egli mise immediatamente il suo eccezionale dinamismo al servizio della causa che aveva sino ad allora combattuta. Si É giunti a sostenere che tutto il suo pensiero teorico derivasse direttamente dalla sua repentina conversione. Questo É eccessivo, dal momento che il suo pensiero contiene elementi diversissimi e si É adeguato a ciascuna delle situazioni di missione in cui Paolo É venuto a trovarsi. Tuttavia, il radicalismo e l'intransigenza dimostrate dal tarsiota in parecchie occasioni sono sicuramente stati alimentati nel suo animo dall'impronta lasciata dal turbamento profondo subìto lungo la via da Gerusalemme a Damasco. Del pari, la sorprendente sicurezza con cui si attribuiva un'autorità pressoch‚ illimitata, pur umiliandosi di fronte a Dio, porta il segno della sua vicenda spirituale, di uno che ha ricevuto un appello personale dal Risorto. Non conosciamo con precisione la data della conversione di Paolo; questa, peraltro, dovrebbe sicuramente collocarsi a meno di un anno dopo la Crocifissione, verso la fine dell'anno 30 o l'inizio del 31. Sono trascorsi, quindi, una decina d'anni tra questo avvenimento e l'arrivo di Paolo in seno a una Chiesa a maggioranza non-ebraica, quella di Antiochia. Su questo periodo abbiamo scarse notizie, ma due cose sono certe: nel corso di questi dieci anni, Paolo ha soggiornato brevemente in Palestina una sola volta, tre anni dopo la sua conversione, per incontrarvi Pietro e Giacomo, il fratello del Signore; egli ha cominciato a predicare il "Vangelo" pochissimo tempo dopo l'evento occorsogli sulla via di Damasco, in questa città e nel regno d'Arabia prima, in Siria e in Cilicia poi ("Lettera ai Galati" I; "Atti degli Apostoli" IX.. Non si sa però se il Vangelo da lui predicato allora coincidesse con quello degli apostoli di Gerusalemme, vicino a quello degli ellenisti, o fosse già quasi uguale a quello che proclamerà in seguito. Probabilmente, Paolo ha cominciato a mutuare molte delle sue idee dalla Chiesa di Damasco; poi, di fronte all'insufficienza di questa tradizione derivata dagli ellenisti, si É rivolto a Gerusalemme, prima di orientarsi verso concezioni personali. Non É impossibile che in questo periodo, pur rivolgendosi spesso ai pagani, egli ne abbia preteso l'adesione all'ebraismo, e quindi la circoncisione, prima di ammetterli al battesimo ("Lettera ai Galati" V, 11.. Strappato da Barnaba all'oasi di pace che Tarso in Cilicia doveva rappresentare per lui, grazie al diritto di cittadinanza di cui godeva, Paolo si trovò ad Antiochia di fronte alla nuova situazione creata dall'audace iniziativa dei missionari ellenisti: una Chiesa composta soprattutto di ex-pagani, che non avevano aderito all'ebraismo. Come Barnaba, egli accettò il fatto compiuto e vi riconobbe un segno di Dio. Insieme, essi ottennero verso il 44 di convincere a quest'idea i dirigenti della Chiesa di Gerusalemme, che convennero anche di lasciare che i due personaggi intraprendessero una nuova opera missionaria che desse al maggior numero di pagani la possibilità di aderire al cristianesimo senza passare per la circoncisione ("Lettera ai Galati" II.. Una prima campagna condotta a Cipro, in Panfilia e nell'Anatolia centrale conobbe un aperto successo ("Atti degli Apostoli" XIII e XIV.; al loro rientro in Antiochia, però, Paolo e Barnaba trovarono una situazione gravemente compromessa dalle ingerenze dei Gerosolimitani, i quali avevano spezzato la reciproca comunione tra cristiani di origine ebraica e cristiani d'origine pagana, per salvaguardare la purezza rituale dei primi. Si raggiunse un compromesso, grazie al quale i cristiani d'origine pagana delle Chiese di Siria e di Cilicia accettavano di attenersi ad alcune norme rituali, soprattutto alimentari, per consentire che il reciproco rapporto si ristabilisse ("Atti degli Apostoli" XV..

Ma, quando giunse il momento di riprendere l'opera di missione presso i pagani al di fuori di queste province, Paolo, che si rifiutava di fare applicare ovunque il compromesso siro-cilicio, riprese la propria libertà e partì solo alla conquista del mondo ("Atti degli Apostoli" XV, 36-41.. Per dieci anni (48-58 circa. egli evangelizzò instancabilmente le città poste sulle coste del mar Egeo e impose la propria autorità ai collaboratori che si sceglieva e alle comunità che veniva fondando. E' il periodo meglio noto della sua vita, sia grazie agli "Atti" (XVI-XX., sia attraverso la maggior parte delle "Lettere", che risalgono a questi anni fecondi. Nonostante gli attacchi che fu costretto a subire da varie parti - colonie ebraiche della zona, autorità municipali o romane, sincretisti ribelli, emissari della Chiesa di Gerusalemme -, nonostante la concorrenza fattagli da un certo Apollo e da un tal Pietro, malgrado le delusioni inflittegli da alcuni dei suoi convertiti, Paolo riuscì a fondare un gruppo di alcune Chiese che, sotto la guida dei suoi collaboratori, restarono fedeli, dopo la sua partenza e poi dopo la sua morte, all'indirizzo che egli aveva impresso loro e garantirono che venissero conservati il suo ricordo e alcuni dei suoi scritti. Queste Chiese, É bene sottolinearlo, non comprendevano solamente convertiti di origine pagana. Liberatosi da qualsiasi obbligo verso la comunità di Gerusalemme, Paolo non si limitava ad evangelizzare i soli pagani. Dovunque trovasse una colonia ebraica, egli si recava nella sinagoga o alla riunione che suppliva all'assenza di quella, vi si rivolgeva agli Ebrei e ai simpatizzanti che assistevano al culto e cercava di conquistarli tutti all'idea che Gesù fosse il Cristo annunciato dalle Scritture. Sembra che egli non abbia costituito alcuna comunità organizzata prima che le autorità della sinagoga, stanche della sua insistenza e delle lamentele che la sua predicazione suscitava tra gli adepti, non lo avessero espulso più o meno violentemente, cosa che accadeva regolarmente entro qualche settimana o qualche mese. Variando a seconda dei luoghi, l'organizzazione delle Chiese così costituite non aveva nulla di ufficiale, ma poggiava in larga misura sulla collaborazione attiva della maggioranza, così come l'ispirava lo Spirito Santo. Ognuno possedeva un proprio dono spirituale ed era invitato a farne uso al servizio di tutti, si trattasse di ispirazione estatica o profetica, di doti pedagogiche o musicali, oppure del carisma dell'amore fraterno, decantato da Paolo con un'innegabile eloquenza ("I Lettera ai Corinzi" XIII.. Tutti, però, erano invitati a riconoscere l'autorità eccezionale di Paolo in quanto apostolo. Questo titolo che, nella Chiesa del tempo, faceva di coloro che lo rivestivano dei rappresentanti diretti del Risorto, dotati di diritti molto ampi, É stato costantemente rivendicato da Paolo con particolare forza, nonostante alcuni avversari lo abbiano accusato di averlo usurpato. Secondo lui, la sua vocazione personale ne faceva l'interprete infallibile della volontà del Cristo, che si imponeva ad ogni fedele fin nei minimi particolari della sua esistenza. Di qui deriva la conclusione a volte perentoria di dibattiti su ogni genere di questioni, dai problemi coniugali a quelli della provenienza della carne macellata mangiata dai fedeli. Tuttavia, l'impressione che si ricava dalle lettere di Paolo a proposito del modo di vivere delle Chiese fondate da lui e di quello dei membri di queste non É un'impressione di disciplina esigente e di rigidità morale. Era, invece, un'atmosfera di grande libertà nella ricerca etica, di rimessa in discussione di tutte le regole tradizionali, quella che regnava in queste comunità. Esclusi alcuni casi estremi, Paolo cerca non già di rimettere in discussione quella libertà, che gli appare come la base stessa della condizione del cristiano, ma di dirigerla verso l'umile e paziente servizio degli altri. I cristiani di origine ebraica, che continuavano a sentirsi legati dalla Legge mosaica, dovevano disporre anche loro della libertà di vivere secondo la propria coscienza; a questo fine, gli altri fedeli vengono invitati a limitare volontariamente la propria libertà, quando questa rischia di urtare troppo gravemente quei deboli. Ma, se i credenti che continuano ad obbedire a titolo personale alla Legge ebraica pensano di poter invitare gli altri a fare altrettanto per essere più sicuri, essi si trovano esposti alla violenta reprimenda di Paolo ("Lettera ai Galati" III; "Lettera ai Filippesi" III.. Questo orientamento dell'insegnamento morale di Paolo obbedisce ad alcune ragioni pratiche.

L'apostolo desidera che le Chiese abbiano una vita comunitaria sviluppata, cosa che incontrava gravi difficoltà, data l'estrema diversità dei convertiti. Egli attribuisce, in particolare, molta importanza alla celebrazione della cena del Signore nel buon ordine e nell'unione dei cuori, una cosa che i contrasti troppo violenti o i pregiudizi relativi alla purezza rituale degli altri partecipanti avrebbero reso impossibile. Ma Paolo É ispirato soprattutto da motivazioni teologiche. Certo, non ci si deve immaginare Paolo come un teologo in cattedra, che avrebbe meditato e redatto trattati concernenti diversi aspetti della fede cristiana. Benché‚ egli abbia meditato spesso e nonostante la sua eccellente formazione culturale, Paolo É stato innanzitutto un uomo d'azione, il cui pensiero si É formato ed espresso in occasione di eventi particolari e sempre in modo parziale. Non ci si deve perciò meravigliare se si trovano qua e là delle incoerenze o dei vuoti nell'esposizione delle sue idee teologiche più importanti. Ci si meraviglia, invece, nel leggerlo, per la genialità con cui egli riconduce ogni cosa all'essenziale e basa i consigli più pratici su alcune nozioni di fondo. Per molti riguardi, Paolo resta ebreo, come i discepoli di Gerusalemme e gli ellenisti stessi. La sua dottrina del Dio unico, personale, creatore, padrone della storia, che esige dagli uomini un determinato comportamento e che ha fatto di Israele il suo popolo eletto, potrebbe essere quello di un rabbino; la sua concezione della Sacra Scrittura e dell'esegesi che ne svela il senso recondito É anch'essa ebraica, pur contenendo alcuni elementi derivati dal giudaismo ellenistico o dall'essenismo, in fatto di esegesi allegorica o tipologica; la sua antropologia, la sua nozione del peccato, restano molto vicine a quelle degli scrittori biblici; le concezioni apocalittiche, che in lui restano in secondo piano, sono del tutto conformi agli schemi abituali della letteratura ebraica su questo tema. Va, d'altro canto, ricordato che Paolo non ha mai rinnegato la propria appartenenza al giudaismo, che ha continuato fino alla fine ad osservare alcune prescrizioni mosaiche quando le circostanze glielo consentivano ("Atti degli Apostoli" XXI., e che ha conservato, nonostante le vessazioni subite un po' dovunque da parte delle autorità delle sinagoghe, il desiderio ardente della salvezza finale di Israele ("Lettera ai Romani" IX-XI.. Questo Ebreo cristiano si É forse progressivamente ellenizzato ed É venuto gradatamente sostituendo gli aspetti ebraici del suo pensiero con delle nozioni greche? E' un'ipotesi che É stata avanzata, ma É una concezione semplicistica, che non ha quasi più seguito. Paolo, come molti Ebrei ellenisti, conosceva la filosofia popolare greca e vi attingeva all'occasione nozioni ignote al pensiero biblico, come quelle di coscienza, di natura, di utilità. Queste derivazioni restano però limitate e si combinano con un sensibile rigetto per la sapienza greca ("I Lettera ai Corinzi" I. e l'incapacità di capire la portata di certe sue concezioni, come quella dell'immortalità dell'anima (Ivi, XV.. Nei fatti, Paolo smette di essere ebreo quando riproduce i temi propriamente cristiani della tradizione proveniente da Gerusalemme e da Antiochia e quando, su questa base, egli compie uno sforzo personale di meditazione e di riflessione. E' certo, ad esempio, che la sua cristologia, tutta dominata dall'appellativo di Signore ("kyrios"., É sostanzialmente la rielaborazione ellenistica già corrente del pensiero gerosolimitano su Gesù: l'appellativo di Cristo, incomprensibile per un greco, diventa una specie di secondo nome proprio, mentre la designazione abituale applicata negli ambienti ellenistici al dio prescelto da ciascuno, Signore, É attribuita al Risorto per affermarne la potenza divina. Questa sostituzione di titoli era stata facilitata dall'uso occasionale del termine aramaico mar, per rivolgersi a Gesù nella preghiera, fin da un periodo molto antico ("I Lettera ai Corinzi" XVI, 22. e dal fatto che "kyrios" serviva ad indicare Dio nella versione greca del "Vecchio Testamento". In generale, si può dire che Paolo non abbia arrecato alla cristologia se non apporti modesti, contenuti soprattutto in due lettere, la cui autenticità viene contestata: la lettera agli "Efesini" e quella ai "Colossesi". Tali contributi vanno nel senso di un'affermazione più decisa della preesistenza del Cristo e del suo ruolo determinante dopo la Resurrezione; ma, anche su questi problemi, Paolo si limita spesso a riprodurre dei documenti già esistenti (per esempio, "Lettera ai Filippesi" II.. L'apporto principale di Paolo al pensiero cristiano si colloca nel campo dell'acquisizione della salvezza da parte del credente.

Con un linguaggio del tutto diverso da quello di Gesù, giacch‚ in lui l'espressione Regno di Dio, in particolare, non ha più molta importanza, Paolo ritrova le affermazioni fondamentali del Maestro. La proclamazione del Vangelo offre ad ogni uomo una salvezza immediata, che egli può acquisire senz'altra condizione che quella di accettare di ricevere la sua ricompensa dalla sola grazia di Dio e non dalle proprie opere. Grazie alla fede in Gesù Cristo, l'uomo può così rinunciare ad ogni garanzia e presentarsi in anticipo di fronte al tribunale di Dio per godere di un'immediata assoluzione, seguita da una vita libera, sgombera dalla pesante preoccupazione della giustificazione. In effetti, la crocifissione di Gesù, questa clamorosa negazione della giustizia, fornisce paradossalmente la prova che Dio non intendeva sopportare oltre il peccato degli uomini. Egli ha, quindi, colpito, per farla finita con la ribellione umana, l'unico giusto che esistesse, con un castigo così scandaloso che può avere un senso solamente se si tratta di una sostituzione. D'ora in poi, solamente la grazia opera a favore del Cristo, risorto e salito al trono, e di tutti coloro che accettano di considerarne la condanna a morte come il castigo che essi stessi meritano. Il modo per testimoniare agli occhi di tutti questo riconoscimento É il battesimo nel nome di Gesù Cristo, simbolo della morte insieme a lui ("Lettera ai Romani" I-VI.. Il problema del comportamento dei credenti dopo la loro assoluzione da parte di Dio si pone qui, più ancora che di fronte alla predicazione di Gesù, che si rivolgeva a degli Ebrei per i quali i grandi comandamenti della Legge di MosÉ restavano una norma di vita. Paolo ha riflettuto molto su questo problema e gli ha dato una soluzione che costituisce il suo secondo grande contributo alla teologia cristiana. L'individuo giustificato dalla grazia É incapace di vivere conformemente alla volontà divina, per quanto intensamente lo desideri ("Lettera ai Romani" VII.. L'unica via che gli sia aperta É ripiegare sulla comunità dei battezzati, nella quale opera la potenza dello Spirito di Dio e gli si offre per permettergli un'obbedienza spontanea alla volontà divina. Lo Spirito Santo, considerato fino ad allora come ispiratore dei profeti e degli estatici, diventa, dunque, la forza che anima l'intera vita dei cristiani, purché‚ essi non si isolino dal Tempio dello Spirito che É la Chiesa. Esso suscita una spontaneità di tipo nuovo, caratterizzata dall'amore verso gli altri e dalla mancanza di rigide regole etiche, nonch‚ dall'attaccamento per il gruppo. Paolo indica questa esistenza che sfugge alle categorie abituali con l'espressione in Cristo, che significa insieme partecipazione alla vita della Chiesa e comunione personale con il Signore risorto. Queste poche idee nuove che Paolo ha introdotto nel pensiero cristiano non hanno avuto, al di fuori della cerchia che gli era intorno, il successo che potremmo immaginare. La loro diffusione É stata assicurata solo quando la raccolta delle lettere dell'apostolo, rimaste fino ad allora nelle mani dei rispettivi destinatari, venne finalmente pubblicata, poco prima della fine del primo secolo. Anche in questo momento il pensiero di Paolo rimase sospetto agli occhi di molti cristiani ("II Lettera di Pietro" III, 15-6., a causa dell'influenza che esso esercitava sul nascente gnosticismo, che vi ritrovava alcuni dei suoi temi preferiti: conoscenza riservata ad alcuni perfetti, antinomismo, libertà morale, eccetera. Sembra, d'altra parte, che, fin da quando Paolo era in vita, alcune delle sue idee più o meno deformate abbiano incoraggiato le riflessioni di gruppi al margine delle Chiese cristiane e delle sinagoghe della Diaspora e abbiano facilitato la nascita di un pregnosticismo, di fronte al quale l'apostolo e diversi autori cristiani della seconda generazione hanno dovuto definire i primi lineamenti di un'ortodossia ("Lettere ai Colossesi" e agli "Efesini", "Lettere pastorali", "I Lettera di Giovanni".. Questo tentativo di tracciare dei confini corrisponde alla stessa intenzione che guida la politica ecclesiastica di Paolo, quale si va delineando non appena le Chiese della Macedonia, dell'Acaia e dell'Asia si sono solidamente impiantate. L'apostolo dei Gentili voleva ottenere dalla Chiesa di Gerusalemme il pieno riconoscimento dell'opera missionaria indipendente da lui iniziata separandosi da Barnaba. Egli organizzò quindi, a partire dal 56-57, una vasta colletta presso i fedeli delle Chiese che avevano preso le mosse da lui.

Si trattava di raccogliere aiuti per i poveri di Gerusalemme e di andare in delegazione a portarli alla Chiesa di quella città in segno di comunione spirituale, e forse anche per dimostrare che si riconosceva a quella comunità una specie di primato d'onore. All'inizio della primavera del 58 Paolo si mise in viaggio per la Palestina con i rappresentanti di parecchie Chiese e, giunto a Gerusalemme, depositò i proventi della colletta nelle mani dei dirigenti della Chiesa ("Atti degli Apostoli" XX, XXI.. L'accoglienza fu fredda e non É neppure sicuro che Paolo sia riuscito a ristabilire la confidenza tra le sue comunità e i cristiani di Palestina. Comunque, il problema si spostò presto, perché‚ gli avversari ebrei dell'apostolo, ricorrendo alla sommossa, ottennero l'arresto di Paolo e poi la sua detenzione da parte del procuratore romano. Quello che a prima vista poteva sembrare un incidente tra molti altri ("II Lettera ai Corinzi" XI. e che Paolo sperava di poter regolare facilmente, com'era avvenuto fino ad allora in occasione di altri interventi delle autorità romane (ad esempio, "Atti degli Apostoli" XVIII., si rivelò ben presto l'inizio di una grave crisi per tutte le Chiese cristiane. - La grande crisi degli anni 60-70. In meno di trent'anni, le Chiese si erano moltiplicate in modo impressionante, anche se gli effettivi della maggior parte delle nuove Chiese restavano molto deboli. In Palestina, molte comunità si collegavano alla Chiesa madre di Gerusalemme, mentre altre rimanevano fedeli alla tendenza degli ellenisti. In Siria, in Cilicia, a Cipro, molte città avevano una cellula cristiana formata da Ebrei e da pagani in proporzioni variabili; Antiochia ospitava la più importante di queste Chiese. Certi indizi lasciano supporre che vi fossero dei cristiani anche nel centro dell'Anatolia, nel nord della Mesopotamia e nel nord dell'Egitto, in particolare nella grande città di Alessandria. Oltre alla decina di Chiese d'origine paolina situate ai bordi del Mare Egeo, esistevano dei cristiani anche in varie città dell'Italia meridionale e soprattutto a Roma. Non si dovrebbero però immaginare queste Chiese tutte sullo stesso modello, fosse pure quello della Chiesa primitiva di Gerusalemme, o l'altro delle comunità paoline. Non solo i rapporti tra cristiani di origine ebraica e cristiani di origine pagana erano molto diversi, ma vi erano anche notevoli differenze di atmosfera da zona a zona. In molte località, come a Roma, non si era ancora giunti sicuramente allo stadio della costituzione di una comunità solidamente organizzata; la Chiesa vi rimaneva una specie di accessorio esterno della sinagoga o un semplice luogo di incontro per dei cristiani che continuavano a vivere come sempre ognuno per conto suo, il che consentiva loro di conservare il proprio statuto personale, particolarmente vantaggioso per quelli tra loro che erano ebrei. Scrivendo ai cristiani di Roma, Paolo si augura di sottrarli a questo livello, per lui preliminare, e li incita a costituire una vera Chiesa, sul tipo di quelle da lui fondate altrove. Tranne gli ellenisti e Paolo, i numerosi missionari cristiani, dall'apostolo Pietro agli oscuri fondatori della Chiesa romana, non si erano ancora imbattuti da alcuna parte in una opposizione massiccia e sistematica da parte delle autorità, sia ebraiche sia romane, abituate da tempo a una grande disparità di tendenze in seno al giudaismo. Non era ancora giunto il momento perché‚ queste autorità considerassero i cristiani come gli adepti di una nuova religione, privata del vantaggio dello statuto privilegiato di cui godeva il giudaismo sotto l'Impero romano. Le autorità municipali, più sensibili a certe pressioni locali, hanno avuto a volte la tendenza a reprimere più severamente l'attività dei missionari cristiani ("Atti degli Apostoli" XVI, 22.. Ma quest'attività e la vita delle Chiese non erano fino ad allora state sottoposte se non a sporadiche misure di repressione, ben presto sospese. Con l'arresto di Paolo a Gerusalemme, si apre un periodo molto più difficile. Il cambiamento prodottosi era in parte il frutto della crescita del numero dei cristiani e di maldestre iniziative da essi promosse; ma soprattutto, era il frutto del grande disagio che stavano allora attraversando il giudaismo e l'Impero romano. A mano a mano che progrediva il regno di Nerone, cominciato nel 54 sotto fausti auspici, l'opposizione si rafforzava e l'imperatore reagiva con una brutalità crescente, che disorganizzava l'Impero; rovesciato Nerone, la guerra civile infuriò per un anno e mezzo (68-9.; Vespasiano ebbe parecchio da fare, a partire dai primi giorni del 69, per ristabilire la situazione interna ed esterna, nonch‚ per placare un'opinione pubblica che conservava un'impressione molto triste del periodo dei disordini.

Questa crisi, per quanto seria sia stata, non ebbe però il carattere tragico delle convulsioni che, nello stesso periodo, agitarono il popolo ebreo. L'agitazione in Palestina aveva continuato a crescere fin dall'anno 50 circa; gli zeloti, in particolare, incrementavano sempre più il terrore dei benpensanti, che suscitava violente reazioni da parte delle cerchie dirigenti più avvertite. La febbre nazionalista guadagnò a poco a poco tutti gli ambienti, a partire dal 60 circa e, nel 66, fu la rivolta generale degli Ebrei contro Roma. Presto schiacciato nella Diaspora, il moto conobbe inizialmente un successo in Palestina. Ma i Romani, dapprima sorpresi, riuscirono a poco a poco a riprendere in mano il paese e si impadronirono di Gerusalemme, dopo un assedio di parecchi mesi; il Tempio fu distrutto, la popolazione massacrata o ridotta in cattività (estate del 70.. Alcune operazioni ai margini sud ed est del paese si protrassero fino al 73, ma la caduta di Gerusalemme e la rovina del Tempio avevano inferto al popolo e alla religione ebraica un colpo terribile, per risollevarsi dal quale dovettero penare molto. La loro prima reazione di fronte a un disastro del genere fu quella di un irrigidimento dottrinale e disciplinare, unitamente al fatto di raccogliersi attorno alle sinagoghe, di cui i cristiani dovettero subire il contraccolpo. Da tutti i punti di vista, la ripercussione della crisi romana e di quella ebraica ebbero un'importanza per il futuro del cristianesimo. L'arresto di Paolo a Gerusalemme, la sua detenzione a Cesarea per due anni, la ripresa del suo processo e il suo invio di fronte al tribunale imperiale di Roma ("Atti degli Apostoli" XXI-XXVIII. sono stati resi inevitabili dal terrorismo zelota e dall'accanimento che questo ispirava nel sommo sacerdote e nel suo seguito, preoccupati di venire accusati di debolezza di fronte a un rinnegato. E' sorprendente come, una volta giunto l'imputato a Roma, non si sia fatto nessun tentativo di attivare il processo da parte dei suoi avversari ebrei, fino al punto che Paolo pot‚ trascorrere due anni in residenza sorvegliata, in regime piuttosto liberale, in attesa che si riprendesse il processo contro di lui ("Atti degli Apostoli" XXVIII, 30-1.. La pressione degli zeloti non andava quasi oltre i confini della Palestina e ai circoli dirigenti di Gerusalemme bastava sapere che Paolo era trattenuto lontano. In ossequio alla norma osservata dal tribunale imperiale, sembra persino che l'apostolo sia stato rilasciato alla fine di questi due anni trascorsi a Roma, poich‚ la parte avversa non si era mai fatta viva (62.. Si É anche pensato che fosse ripartito per le sue vecchie zone di missione, ma É poco probabile. Ha per caso attuato il progetto di recarsi in Spagna ("Lettera ai Romani" XV, 23-4.? E' dubbio. E' più probabile che egli sia rimasto a Roma e vi abbia portato avanti per qualche tempo i suoi impegni di missione. Il terrore zelota potrebbe anche avere svolto una parte importante nella brutale soppressione di Giacomo, il fratello di Gesù, nonch‚ capo della Chiesa di Gerusalemme nell'anno 62. Il sommo sacerdote Anania approfittò delle poche settimane trascorse tra l'improvvisa morte del procuratore Festo e l'arrivo del successore per far condannare dal Sinedrio e mandare a morte questo personaggio, noto e rispettato per la sua pietà, nonch‚ altri individui sicuramente appartenenti alla Chiesa cristiana (Giuseppe Flavio, "Antichità giudaiche" XX, 9, 200-3.. Questo atto arbitrario, che gli creò ben presto delle difficoltà con i Romani, si spiega soltanto con l'ipotesi che Anania, un ricco sadduceo propenso, come tutta la sua cerchia, alla collaborazione con l'occupante, si sia trovato, in assenza del rappresentante dell'imperatore, sottoposto a forti pressioni senza riuscire a resistere ad esse. L'accusa inaspettata che si faceva a Giacomo, un austero personaggio rispettoso dei comandamenti mosaici, era di aver trasgredito la legge; ora, gli zeloti - sterminatori dei peccatori che suscitavano scandalo - avevano l'abitudine di ricattare i sommi sacerdoti per raggiungere i loro obiettivi. Vi sono quindi forti probabilità che Giacomo sia stato messo a morte per le loro insistenze, perché‚ questo o quell'aspetto del suo comportamento sembrava inaccettabile al partito degli zeloti, probabilmente scandalizzati per il fatto che egli non esigeva la circoncisione dei pagani convertiti al cristianesimo. Il colpo fu certamente duro per la Chiesa di Gerusalemme, anche se le riuscì di trovare un sostituto di Giacomo nella persona di un cugino di Gesù, Simeone, figlio di Cleofa.

Questi, pur appartenendo alla dinastia messianica, non aveva però personalmente l'autorità di Giacomo e non sembra che sia riuscito a fare svolgere una parte attiva alla Chiesa della capitale durante la rivolta ebraica contro Roma. Alcuni cristiani si associarono sicuramente alla sollevazione e subirono le conseguenze del loro comportamento. Altri fuggirono da Gerusalemme prima dell'assedio e si rifugiarono in Transgiordania per sfuggire alla brutalità degli zeloti. Qualunque sia stata la rispettiva entità dei due gruppi, la Chiesa di Gerusalemme perdette ogni incidenza a partire dal 70. Ormai il cristianesimo non aveva più un centro geografico e spirituale. L'unità mantenuta fino ad allora, non senza fatica, rischiava di scomparire a causa della dispersione delle comunità e della grande diversità delle situazioni in cui queste si trovavano. Il pericolo era ancora più grande, in quanto gli altri capi della più rispettata delle Chiese, Pietro e Paolo, erano morti anch'essi pochi anni dopo Giacomo. Il supplizio di questi due apostoli ebbe luogo a Roma prima della fine del regno di Nerone, senza che si possa affermare con certezza in quali circostanze entrambi siano stati condannati a morte e giustiziati dalle autorità imperiali. L'ipotesi più verosimile É che essi abbiano trovato la morte nel 64, tra la massa dei cristiani che subirono il supplizio dopo l'incendio di Roma (Tacito, "Annali" XV, 44; Svetonio, "Nerone" XVI ., sotto l'accusa calunniosa di aver provocato l'incendio che aveva devastato la città. In contrapposizione frequente nel corso della loro vita e fino alla loro ultima ora - poich‚ entrambi cercavano di raccogliere i cristiani di Roma ciascuno sotto la propria direzione esclusiva -, Pietro e Paolo furono forse avvicinati dalla morte. Il loro seguito rischiava di non sapere come tirarsi fuori, in loro assenza, dalla terribile confusione in cui li aveva gettati la persecuzione. Sulla scia di Tertulliano, che scriveva verso il 200, si É spesso sostenuto che Nerone, ben lungi dal limitarsi a perseguitare i cristiani di Roma, avesse anche emanato una legge che puniva con la morte il fatto di essere cristiano. L'esistenza di una legge di questo tipo É più che dubbia. Anche nel secondo secolo le autorità usarono qua e là contro i cristiani, considerati come atei pericolosi perché‚ si rifiutavano di associarsi alle cerimonie della religione di Stato, i loro poteri di polizia. Se la persecuzione subita dai cristiani sotto Nerone segna una svolta, É perché‚ essa sottolinea la scoperta da parte dei dirigenti romani della differenza tra il cristianesimo e il giudaismo. Fino a quel momento i cristiani erano stati, per gli amministratori romani, degli Ebrei come gli altri. Da allora, furono considerati come aderenti a una setta indipendente, che non poteva più godere dei privilegi concessi agli Ebrei. La loro propaganda religiosa e la loro stessa esistenza non potevano essere tollerate se non nella misura in cui non turbassero l'ordine pubblico. Bastava, dunque, che qualcuno ne denunciasse l'attività o il rifiuto di associarsi alle cerimonie religiose ufficiali come attentati alla pace civile perché‚ le autorità fossero indotte ad infierire contro di loro nella città o nella provincia dove era stata fatta la denuncia. E poich‚, dopo la caduta di Gerusalemme nel 70, gli Ebrei furono spinti a serrare le loro file e ad evitare qualsiasi scontro con le autorità civili, non c'É da stupirsi se le denunce contro i cristiani che turbavano l'ordine erano opera loro; poich‚ i cristiani minacciavano di trascinarli verso nuovi disastri, i dirigenti delle sinagoghe hanno fatto di tutto per differenziarsi chiaramente da loro. - Dopo la tempesta. Passata la grande tormenta, occorsero - a quanto sembra - degli anni perché‚ le Chiese cristiane si rimettessero in sesto. La loro storia, d'altra parte, resta avvolta nell'ombra per le due generazioni che si succedono dopo il 70. Ma l'abbondante letteratura in greco che esse cominciarono a produrre dall'80 testimonia, quanto meno, la grande vitalità delle comunità di lingua greca e consente di farsi un'idea delle principali tendenze tra le quali si suddividevano. E', purtroppo, molto difficile stabilire una cronologia esatta di questi scritti e localizzare con certezza la maggior parte di essi.

Il quadro che si può disegnare dell'evoluzione del cristianesimo servendosi di questa letteratura rimane, dunque, un semplice abbozzo, in cui abbondano le zone sfumate. Distrutta per tre quarti la Chiesa palestinese, decimata la Chiesa di Roma, molte altre minacciate quotidianamente, scomparsi i principali dirigenti cristiani: quest'accumulo di sciagure ha evidentemente indotto molte comunità alla prudenza in materia di testimonianze pubbliche e di manifestazioni collettive. Tale prudenza, un po' miope, ha suscitato negli ultimi venticinque anni del primo secolo alcune reazioni indignate e alcuni vigorosi appelli al risveglio dei cristiani assopiti. Così, il "Vangelo secondo Marco" - del quale gli ellenisti avevano redatto, da un quarto di secolo, una prima edizione - ha conosciuto verso il 75-80 una nuova diffusione e una seconda edizione che gli ha dato veste definitiva. Il messaggio vigoroso dell'evangelista che invitava i discepoli a rinunciare a tutto, a soffrire con il loro Maestro e a predicare il Vangelo dinnanzi a tutti e contro tutti, era più attuale che mai. Ed É forse a Roma che questa edizione definitiva ha visto la luce, nel momento in cui la Chiesa riprendeva qui un'esistenza più attiva, dopo l'eclissi successiva alla persecuzione di Nerone. La seconda e terza "Lettera di Giovanni", dei brevi biglietti che riflettono l'indignazione di un gruppo di predicatori itineranti di fronte alla concorrenza di altri missionari e alle difficoltà frapposte loro dai dirigenti di Chiese locali, ci mostrano come le campagne di evangelizzazione non fossero apprezzate da tutti, negli anni 80-90, negli ambienti cristiani della provincia d'Asia. Si temeva certamente - in questa provincia dove il culto del l'imperatore si era radicato da qualche tempo e conosceva un grande successo - una forte reazione pagana se i cristiani avessero fatto parlare troppo di s‚. L'"Apocalisse di Giovanni", i cui materiali sono in larga parte palestinesi, ha trovato la sua veste definitiva proprio in quella provincia asiatica, probabilmente tra i rifugiati dalla Palestina, stabilitisi in quella zona dopo il 70. Difficile da datare, essa sembra però precedente la fine del primo secolo e costituisce un appello vibrante alle Chiese un po' addormentate della provincia, perché‚ ritrovino il loro originario entusiasmo. A volte antiebraico, violentemente antiromano, l'autore intende restituire fiducia a dei cristiani che la persecuzione e il timore della persecuzione avevano indotto a un'eccessiva prudenza e rassegnazione. Questi richiami al risveglio e alla confessione coraggiosa della fede cristiana sono stati certamente completati da molti altri, insieme ai quali hanno esercitato un'influenza seria sulla capacità di resistenza e di espansione delle Chiese. Non sembra, tuttavia, che abbiano caratterizzato profondamente la storia del cristianesimo e gli sviluppi della sua teologia. Le idee un po' estremiste dei loro autori hanno ottenuto successo, in seguito, soprattutto presso gruppi marginali: ambienti gnostici, per quanto riguarda il "Vangelo secondo Marco"; ambienti millenaristi dall'escatologia molto materialista ed ingenua, per quanto riguarda l'"Apocalisse di Giovanni". Nel complesso, le principali Chiese sono state sensibili a tendenze più realistiche. In molti luoghi, il problema dei rapporti tra il cristianesimo e il giudaismo fu, per tutto l'ultimo quarto del primo secolo, il problema principale per i cristiani. Posto in termini molto diversi da una zona all'altra, ha anche avuto soluzioni le più disparate. La più sorprendente É quella suggerita dalla "Lettera di Giacomo", un documento che si può datare attorno al 75-80, ma il cui luogo di origine É sconosciuto. Questo scritto presenta il cristianesimo come una specie di giudaismo liberale e cerca di dimostrare che le Chiese di tradizione paolina praticano una forma degenerata di questa morale religiosa molto intransigente. Bisogna senz'altro prendere alla lettera l'indirizzo con il quale la lettera si apre e vedervi un testo destinato sia agli Ebrei della Diaspora, sia ai cristiani sparsi per il mondo. L'autore, rifacendosi a Giacomo, il fratello del Signore, un ebreo devoto e insieme un intrepido cristiano, vuole sicuramente raccogliere in una sinagoga cristiana il maggior numero possibile di Ebrei dispersi dalla rovina del Tempio. Per arrivare a questo, egli passa sotto silenzio la cristologia, che fino a quel momento li aveva tenuti lontani.

Un tentativo del genere, anche se É completamente fallito, dimostra come il confine tra cristianesimo e giudaismo fosse ancora indefinito mezzo secolo dopo la Crocifissione, perlomeno in certi ambienti. Un'analoga osservazione s'impone alla lettura della "Lettera agli Ebrei", uno scritto non meno isolato, nel ""Nuovo Testamento"", della "Lettera di Giacomo". Si tratta di una specie di trattato di cristologia, che si chiude con alcune pagine di esortazione morale e in cui Gesù viene presentato soprattutto come il sommo sacerdote ideale che celebra un culto perfetto, del quale i sacrifici della Legge mosaica non erano se non la prefigurazione. La dimostrazione, basata su una esegesi genericamente filoniana di vari passi del "Vecchio Testamento", si rivolge a dei cristiani colti di origine ebraica, che sembra siano stati tentati di rientrare nell'ambiente della sinagoga o di una setta importante del giudaismo. Per distoglierli da ciò che egli considera come un'apostasia, ma che invece, ai loro occhi, appariva molto più indifferente, l'autore anonimo, probabilmente alessandrino, É indotto a sottolineare la superiorità di Gesù Cristo su tutti gli altri esseri, sia celesti sia terrestri, e quindi quella del culto cristiano su ogni altro culto. Il pericolo contro il quale egli si batteva caratterizzava probabilmente il cristianesimo egiziano, che non ha lasciato alcuna traccia della sua esistenza alla fine del primo e all'inizio del secondo secolo e potrebbe aver rinunciato, dopo il 70, alla sua indipendenza di fronte al potentissimo ed attraentissimo giudaismo alessandrino. Come l'autore della "Lettera di Giacomo", anche l'autore della "Lettera agli Ebrei" avrebbe, dunque, fallito nella sua iniziativa. Il fatto É che i rapporti tra giudaismo e cristianesimo si sviluppavano meno per gli sforzi compiuti dai teologi che per un insieme di elementi, tra i quali avrebbe avuto un ruolo decisivo la psicologia sociale. Questo fatto risulta con particolare chiarezza dal modo in cui il "Vangelo secondo Matteo" affronta lo stesso problema. Questo libro, che si può datare tra l'85-95 e che É stato indubbiamente composto in Siria, É innanzitutto una raccolta di tutto quello che la tradizione delle Chiese palestinesi aveva conservato come insegnamento di Gesù; questa raccolta É calcata sul modello fornito dal "Vangelo secondo Marco", ma É anche disposta secondo un ordine metodico che si rivela nei cinque grandi discorsi pronunciati da Gesù nel corso del Vangelo. L'evangelista, tuttavia, non si limita a riprodurre dei documenti. Egli rispetta un disegno che É sicuramente il suo e insieme quello del suo ambiente. Di fronte a un giudaismo vigoroso e sicuro di s‚, di cui i Farisei rappresentavano l'‚lite e i Dottori della Legge i maestri del pensiero, egli intende dimostrare la superiorità della fede che anima le piccole Chiese cristiane: Gesù rappresenta il compimento di tutte le profezie bibliche; il comportamento dei cristiani É e deve essere più giusto, più coraggioso, più perspicace, più misericordioso e più disinteressato di quello degli scribi e farisei ipocriti. Il comportamento dei cristiani, il loro eroismo, sono il segno della loro elezione da parte di Dio, nonostante l'apparente superiorità delle sinagoghe. Non vi É qui alcuna tendenza a confondere giudaismo e cristianesimo, alcun tentativo di distinguerli l'uno dall'altro. La separazione É già avvenuta ed ammessa da tutti. Ma le due religioni sono in concorrenza tra loro e l'evangelista cerca di armare al confronto la più giovane delle due, assicurandola del suo diritto all'eredità nei confronti dell'altra. Paragonati a questi autori esclusivamente preoccupati dei rapporti tra giudaismo e cristianesimo, gli scrittori che nello stesso periodo sono al servizio delle Chiese di origine paolina sembrano più tradizionalisti nel campo culturale e più preoccupati dell'ordine e della legittimità nell'ambito della vita della Chiesa. I grandi problemi sono già stati sistemati dall'apostolo Paolo, di cui essi intendevano essere solamente i fedeli continuatori. Luca, il medico, autore del dittico "Vangelo secondo Luca - Atti degli Apostoli", pubblicato attorno all'80-5 in una delle province ai bordi del Mare Egeo, É uno scrittore con delle pretese, la cui opera si rivolge a un pubblico cristiano colto. Ai fedeli scossi nella loro fedeltà all'eredità paolina e forse tentati di ricollegarsi con la sinagoga, egli dimostra con molta abilità come il cristianesimo affondi le proprie radici nel giudaismo palestinese del buon tempo antico ("Luca" I, II. e non in quello della Diaspora, massicciamente ostile al Vangelo ("Atti degli Apostoli" XIII, 45..

Egli dichiara, inoltre, che Paolo É l'unico erede legittimo degli apostoli della Chiesa primitiva, in forza dell'appello eccezionale rivoltogli da Dio. Perciò, solo continuando a riferirsi a Paolo e rifiutando ogni accostamento con il giudaismo della Diaspora, le Chiese dell'Acaia, della Macedonia e dell'Asia saranno fedeli all'autentico Israele e al cristianesimo delle origini. E' un ragionamento di tipo vagamente giuridico, che tiene appena conto delle idee teologiche di Paolo, al punto che si É messo in dubbio il paolinismo di Luca. Ma il terreno sul quale egli collocava la sua dimostrazione rendeva impossibile qualunque esposizione del pensiero originale di Paolo, mentre la teologia della Chiesa di Gerusalemme era destinata ad apparire come una prefigurazione della teologia comune alla media delle Chiese dell'ultimo quarto del primo secolo ed É quindi stata oggetto di alcuni sviluppi. D'altro canto, Luca ha posto alla base delle sue due opere un pensiero relativamente nuovo, quello di una storia della salvezza che si iscrive nel quadro della storia delle origini cristiane e perviene per tappe successive fino al termine voluto da Dio; quest'idea ha dei precedenti in Paolo ("Lettera ai Romani" IX- XI.. Incoraggiate dal possesso della doppia opera dedicata da Luca a Teofilo, le Chiese di origine paolina ripresero un po' di sicurezza. Questo si tradusse, sul piano letterario, nella pubblicazione di molti scritti attribuiti a Paolo, ma certamente posteriori alla sua scomparsa, almeno nelle parti essenziali, quali sono certamente la "Lettera agli Efesini", le "Lettere a Timoteo" e la "Lettera a Tito", tradizionalmente note con il titolo di "Lettere pastorali". La "Lettera agli Efesini", stranamente ricalcata sulla "Lettera ai Colossesi", prolunga alquanto le linee del pensiero di Paolo sulla persona del Cristo e sulla Chiesa. Questa lettera testimonia come, a contatto con ambienti pregnostici in cui si teorizzava un po' a vanvera ispirandosi alle idee di Paolo, i dirigenti delle Chiese fondate dall'apostolo fossero in grado, all'occorrenza, di approfondire il contenuto delle formulazioni correnti della fede cristiana. Altrettanto non si può dire delle "Lettere pastorali", nelle quali il pensiero teologico É ancora più esile che nel "Vangelo di Luca" e nel libro degli "Atti". Alle ardite sistematizzazioni di alcuni, ancora considerati come membri della comunità dei credenti, gli autori non contrappongono il ragionamento, ma il rafforzamento della disciplina in seno alle Chiese. Si tratta di comunità di modesta portata, ma non più così piccole come un quarto di secolo prima; sono comunità costituite da gente semplice, buona parte della quale, peraltro, non priva di una certa agiatezza; delle comunità salde nella fede, ma per le quali questa fede era diventata una credenza conforme alla tradizione. L'organizzazione del culto, degli aiuti, dell'assistenza pastorale appare efficiente: anziani, vescovi e diaconi vigilano con coscienza, pur restando molto vicini al resto dei fedeli. I discepoli dell'apostolo, ai quali le lettere sono indirizzate in modo fittizio, conservano la direzione generale delle Chiese e garantiscono in queste la parte essenziale della predicazione. La necessità della missione, i pericoli di persecuzione, il tormento di un pensiero alla ricerca di se stesso, sono tutte cose scomparse dall'orizzonte di questa brava gente, che si gode in pace la soddisfazione di avere l'apostolo Paolo come padre spirituale. E' comprensibile come alcuni credenti dallo spirito più sottile abbiano avuto qualche difficoltà ad accontentarsi di questa onesta mediocrità e abbiano cercato di reintrodurre un po' di lievito in quella pasta. Quale migliore alleato avrebbero potuto trovare, se non Paolo, appunto, il cui nome era prestigioso, ma le cui lettere giacevano chiuse negli archivi delle Chiese che un tempo ne erano state le destinatarie? E' probabile che l'anonimo che verso il 95 prese l'iniziativa di raccogliere le lettere superstiti e di diffonderle non fosse soltanto un bravuomo preoccupato della condotta delle giovani vedove, alla maniera degli autori delle "Pastorali". Può anche darsi che fosse uno di quelli sospettati di avere la mania delle questioni oziose e delle dispute verbali ("I Lettera a Timoteo" VI, 4.. Non É affatto sicuro che egli sia riuscito a risvegliare parecchi dei membri delle Chiese fondate da Paolo, tanto queste avevano perso di slancio. Egli ha però restituito a molti altri cristiani dallo spirito più aperto il Paolo autentico che queste Chiese celavano completamente ai loro occhi ("Lettera di Giacomo" II-III..

Benché‚ il "corpus" delle lettere di Paolo sia stato più letto che compreso, per i teologi era ormai diventato impossibile trascurare completamente l'apporto dell'apostolo dei Gentili al pensiero cristiano. Contemporaneamente a questa reazione contro la mediocrità delle Chiese di tradizione paolina, se ne produsse un'altra che potrebbe avere avuto come teatro la provincia asiatica, anche se questa localizzazione É tutt'altro che certa. Un circolo che si richiamava - a quel che pare - all'apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo, si era organizzato intorno a dei rifugiati venuti dalla Palestina dopo il 70. Senza perdere il contatto con la vita delle Chiese, in questo circolo si rifletteva in piena autonomia sugli elementi essenziali della fede cristiana e ci si rattristava nel vedere i cristiani divisi e lacerati tra un'osservanza rigida della tradizione e rischiose speculazioni teoriche. Le ricerche di questo gruppo portarono alla pubblicazione della "I Lettera di Giovanni" e, sul finire del primo secolo, del "Vangelo secondo Giovanni". La prima lettera - tradizionalmente posta sotto il nome del figlio di Zebedeo -, difficile da datare, integra probabilmente materiali preesistenti. Nella sua attuale composizione, essa costituisce, però, una risposta al distacco di un gruppo che criticava la fede tradizionale in nome di una più esatta conoscenza della verità. Di fronte a una situazione più drammatica di quella che si riflette nelle "Pastorali", l'autore cerca di dare un fondamento dottrinale all'attaccamento alla grande Chiesa, anzich‚ limitarsi a rafforzarne l'organizzazione e la disciplina. A coloro che si vantavano di avere raggiunto una conoscenza superiore del Divino, egli contrappone l'idea della rivelazione e della giustificazione totali in Gesù Cristo, Figlio di Dio, e che É solo questione di approfondire. Con un linguaggio nuovo, lo scrittore riprende alcuni dei grandi temi cari a Paolo, dal cristocentrismo alla morale basata sull'amore reciproco. Con lui si afferma un'ortodossia alimentata da una vena teologica, nel momento in cui sembrava che il pensiero fosse divenuto appannaggio di minoranze scismatiche. Il "Vangelo secondo Giovanni", che proviene sicuramente dallo stesso ambiente della prima lettera, É uno scritto di una ricchezza e di una complessità straordinarie, di cui non É certo il caso qui di riprendere il contenuto. Si tratta, innanzitutto, di una riflessione sul significato dell'incarnazione e del mistero terrestre di Gesù, Figlio di Dio. Le pretese di ogni altro artefice della rivelazione vengono qui accantonate con atteggiamento sdegnoso, tramite l'attribuzione a Gesù di tutta una serie di titoli ricorrenti negli ambienti più svariati per indicare qualsiasi tipo di messaggio da parte della divinità. Le rivelazioni fornite dallo Spirito di Dio vengono presentate come semplicemente complementari all'insegnamento di Gesù, impartito solamente ai discepoli e volto a permettere loro di conquistare ad esso il mondo intero. Nei lunghi discorsi di commiato rivolti dal Maestro ai suoi prima della Crocifissione (XIII-XVII. questi vari temi sono subordinati a fervide esortazioni all'unità tra i discepoli. L'autore deplora evidentemente le tensioni e le rivalità che contrappongono tra di loro le Chiese che si rifanno all'uno o all'altro dei primi predicatori e vorrebbe che si ristabilisse un'intesa corretta, attraverso un ritorno alle fonti, perché‚ l'opera di evangelizzazione possa andare avanti. Ma, per uno di quei paradossi cui la storia É abituata, questo Vangelo dell'unità conobbe il successo maggiore nelle cerchie poste ai margini delle Chiese. Ecco un ulteriore sintomo della mediocrità intellettuale dei dirigenti ecclesiastici intorno all'anno 100, incapaci di uscire dall'orizzonte limitato della tradizione. Va detto che essi avevano altre legittime preoccupazioni. In seno al giudaismo - su appello dei rabbini di Jamnia, una cittadina della Giudea divenuta il centro del pensiero ebraico dopo il 70 - si era operato un consolidamento e un irrigidimento che non lasciavano più il minimo margine per un riavvicinamento tra questa religione e il cristianesimo. Le Chiese cristiane continuavano a moltiplicarsi e a guadagnare aderenti di origine pagana, la cui formazione morale era più difficile che ai tempi in cui la maggior parte dei fedeli proveniva dal giudaismo. Ci si dedicava particolarmente, dunque, all'insegnamento etico ("Lettera di Giuda, Didach‚" I-VI; "Lettera di Barnaba" XVIII-XX, eccetera., rispetto al quale ci si accontentava di cose generiche e sbiadite tratte dal giudaismo ellenistico, con l'aggiunta di qualche rinvio alle parole di Gesù.

Uno spazio importante si riservava anche all'affermazione dei diritti delle autorità ecclesiastiche, che ispiravano assai scarso rispetto ai fedeli di talune Chiese. La "I Lettera di Clemente Romano", scritta verso la fine del 96, sembra cerchi di trovare nel sacerdozio israelitico la prefigurazione dei ministeri cristiani e da questo accostamento trae argomenti per convincere la Chiesa di Corinto a conservare i dirigenti di cui aveva pensato di poter fare a meno. Verso il 110, le "Lettere" scritte da Ignazio, vescovo di Antiochia, durante il suo trasferimento a Roma (dove sarebbe stato giustiziato., fanno dell'unico vescovo con piena autorità sulla Chiesa locale una figura fuori del comune, cui si deve un rispetto che ricorda quello dovuto a Dio. Questi due modi di concepire le cariche dirigenti della comunità sono indipendenti l'uno dall'altro e rappresentano certo opinioni estreme, scarsamente diffuse alla fine del primo e agli inizi del secondo secolo; esse, però, indicano una tendenza a costruire una gerarchia in seno alla Chiesa locale. A poco a poco questa tendenza si preciserà e, prima della fine del secondo secolo, si troveranno quasi dovunque un vescovo, degli anziani e dei diaconi. Gli anziani o presbiteri avevano come principale funzione la celebrazione del culto, alla quale, progressivamente, venne sempre di più associato il vescovo. La varietà locale delle forme di questo culto, inizialmente contenuta per il fatto che ovunque si celebrava l'Eucarestia, venne diminuendo a mano a mano, nella misura in cui l'esuberante disordine che regnava qua e là cedeva il passo ad alcune imitazioni del culto della sinagoga. La lettura della Sacra Scrittura e una predicazione in funzione di commento e di applicazione alle situazioni attuali del passo letto si generalizzarono quasi ovunque. I canti della comunità, la recitazione dei testi di confessione di fede erano certamente molto diffusi, poich‚ ne restano tracce negli scritti dell'epoca. Ma É impossibile ricostruire con esattezza lo svolgimento del culto. La cena del Signore o Eucarestia, inizialmente celebrata come un vero e proprio pasto in comune, si andò progressivamente discostando da questo per diventare un pasto simbolico e entrò, così, a far parte integrante del culto settimanale della comunità, celebrandosi il più delle volte, a quel che pare, nella notte dal sabato alla domenica. Questa evoluzione, difficilissima da seguire in modo preciso, accostò l'Eucarestia ai sacramenti dei culti misterici, con i quali il battesimo - una cerimonia iniziatica da quando si rivolgeva a convertiti d'origine pagana - aveva già una parentela evidente. Fin dall'inizio del secondo secolo fa la sua comparsa, dunque, l'idea che l'Eucarestia rappresenti un rimedio d'immortalità operante in maniera quasi magica. Le adunanze cristiane, nonostante questi mutamenti, continuavano a tenersi in case private, come era accaduto fin dalle origini. La costruzione di speciali luoghi di culto era impossibile, vista la precarietà della condizione giuridica delle Chiese. La lettura regolare delle Scritture ebraiche durante le adunanze era insieme frutto e causa dell'autorità riconosciuta a questi testi dai cristiani. Abituati a trovarvi preannunci del Cristo, i dottori della Chiesa acquistarono sempre più l'abitudine a studiare queste opere, comprese quelle che figuravano soltanto nella versione dei "Settanta" e non nella "Bibbia" ebraica, i cui contorni precisi vennero fissati verso il 90 dai rabbini di Jamnia. Di fronte ai dottori ebrei, forniti di una tradizione esegetica già molto ricca, i predicatori e gli apologisti cristiani si trovavano in una situazione difficile, dal momento che erano costretti a dimostrare in che misura la Legge e i profeti di Israele li riguardassero. La loro principale risorsa consistette nel metodo allegorico, largamente usato intorno a loro per interpretare Omero o la mitologia in modo da renderli accessibili agli spiriti dell'epoca ellenistica. Questo procedimento, del resto, era stato applicato alla "Bibbia" ebraica da Filone Alessandrino, il quale, al di là delle narrazioni e delle frasi riportate dagli autori sacri, aveva scoperto gli elementi di un'antropologia e di una sapienza individuale. Dopo tre generazioni relativamente prudenti, durante le quali gli scribi cristiani si attennero quasi esclusivamente alla ricerca nella Scrittura dei tipi del Cristo e, in minor misura, della Chiesa, essi si abbandonarono a un allegorismo sfrenato, l'esempio più spinto del quale É quello offerto dalla "Lettera di Barnaba", pubblicata sicuramente intorno al 120.

Ci vorrà tutto il genio di Origene, un secolo dopo, per mettere un po' d'ordine in tutto questo proliferare, in cui il bizzarro e l'assurdo si contendono il campo. Di fronte a simili eccessi, si può capire il movimento delineatosi nel corso della generazione successiva per liberare la Chiesa cristiana dall'appesantimento del "Vecchio Testamento". Come abbiamo detto, accanto alle Scritture ebraiche esisteva, verso l'anno 100, tutta una letteratura cristiana di composizione relativamente recente. Dal momento che gli scambi tra le Chiese non erano molto sviluppati, queste opere avevano in genere una diffusione lenta al di fuori della regione dove erano state composte. Anche nel caso in cui fossero note agli eruditi delle principali Chiese, esse avrebbero raggiunto solo un'esigua minoranza, se non si fossero lette normalmente in occasione delle assemblee. Anche se alcuni "Vangeli" sono stati ritenuti degni di venir letti in pubblico nelle zone in cui erano stati composti, l'area di influenza di ciascuno di questi É stata limitata da quella degli altri. Inoltre, non sembra che li si commentasse in occasione di tali letture. Come spiegare questa condizione d'inferiorità della letteratura cristiana, tanto più che essa non poneva gli stessi problemi ermeneutici del "Vecchio Testamento"? Indubbiamente, con il prestigio di ciò che É antico e con la difficoltà che si incontrava a riconoscere carattere sacro a degli scritti recenti. Ma anche con il fatto che la tradizione orale conservava allora il suo peso e il suo prestigio in seno a quasi tutte le Chiese cristiane. Tale tradizione era nata con Gesù, che faceva imparare a memoria ai discepoli la parte essenziale dei suoi insegnamenti. La Chiesa di Gerusalemme aveva proseguito su questa strada, aggiungendo alle parabole del Gesù terreno alcuni racconti relativi al suo ministero - a partire dal racconto della Passione -, alcune rivelazioni trasmesse dal Risorto ai profeti e agli ispirati della comunità, nonch‚ varie formule liturgiche relative soprattutto alla confessione di fede. Sembra che le Chiese fondate dagli ellenisti e da Paolo, dopo una fase di rigetto di queste tradizioni troppo legate alla Chiesa di Gerusalemme, abbiano a poco a poco accolto la ricchezza di elementi che la tradizione stessa portava con s‚. Verso la fine del primo secolo e durante il primo quarto del secondo secolo, tutte le comunità locali ammettevano che la tradizione rappresentasse a un tempo lo strumento migliore per conoscere il Cristo e la garanzia più solida per l'ortodossia in materia di dottrina. Gli scritti cristiani, "Vangeli" compresi, risultavano dei complementi interessanti, ma inficiati da un certo carattere tendenzioso, dal momento che la loro influenza non era universale, al contrario di quanto accadeva per la tradizione. Anche questa, però, cominciava a mostrare, verso il 100, i segni di una certa strozzatura, a mano a mano che il cristianesimo si radicava più a fondo nell'ambiente ellenistico, dove la trasmissione a memoria non presentava la stessa fondamentale importanza che per i rabbini palestinesi. Vari gruppi cercarono di far penetrare in questa nebulosa dagli incerti confini temi e formulazioni che esprimevano le loro idee personali, per cui venne ben presto il momento in cui ci fu la necessità di introdurre criteri diversi di definizione dell'ortodossia. Accanto agli anziani, incaricati del culto, la maggior parte delle Chiese dell'inizio del secondo secolo avevano uno o più vescovi e dei diaconi, che si occupavano, in nome di tutti, degli affari materiali della comunità, a cominciare dall'organizzazione della carità. Benché‚ la rinuncia ad ogni bene personale si fosse limitata ai primi tempi della Chiesa di Gerusalemme, i cristiani del primo e del secondo secolo donavano con molta generosità per fornire gli indispensabili mezzi di sostentamento a quelli che provvedevano in nome di tutti al reciproco aiuto fraterno. Molti dei convertiti erano delle persone modeste, che la malattia, la vecchiaia e tutta una serie di altre disgrazie minacciavano in modo particolare. Pur essendovi delle eccezioni, del tipo di quelle denunciate dalla "Lettera di Giacomo", sembra che le Chiese si siano date parecchio da fare per i membri che si trovassero in condizioni d'indigenza; soprattutto, esse hanno assistito le vedove con particolare assiduità. L'aiuto reciproco rivestiva anche forme diverse dalle distribuzioni ai bisognosi: l'ospitalità veniva accordata con generosità ai fratelli in viaggio, al punto che alcuni ne approfittavano.

L'"episcopos" - una sorta d'ispettore, che É diventato per noi il vescovo - gestiva i fondi destinati a quest'opera di assistenza e amministrava l'ospitalità, rappresentando, al contempo, la Chiesa all'esterno; alcune Chiese ne avevano più d'uno, ma l'episcopato di tipo monarchico s'imponeva via via un po' dappertutto e, con esso, la funzione liturgica e dottrinale del vescovo, presidente dell'assemblea e custode dell'ortodossia. Si trattava di una funzione estremamente rischiosa, data l'assenza di qualunque garanzia ufficiale per le Chiese. Quando le autorità di una città o di una provincia erano spinte a infierire contro i cristiani, se la prendevano in primo luogo con il vescovo o con i vescovi, senza perciò mai rinunciare a far provare la repressione anche alla massa dei fedeli. Alcune persecuzioni locali si ebbero sotto il regno di Domiziano (81-96. - un imperatore molto attaccato alla religione romana tradizionale - ma non furono particolarmente sanguinose: morì solo qualche notabile, soprattutto a Roma. Verso il 110 É il vescovo di Antiochia di Siria, Ignazio, ad essere arrestato e condannato a morte. Nel 112-113, Plinio il Giovane, governatore della provincia di Bitinia-Ponto, si lasciò coinvolgere in un'operazione molto più spinta contro i cristiani del suo distretto, per i quali questa disgrazia non capitava per la prima volta. Grazie alla corrispondenza da lui scambiata al riguardo con l'imperatore Traiano, conosciamo non solo l'eroica ostinazione di molti cristiani, i quali si rifiutarono di sacrificare all'immagine dell'imperatore e di invocare gli dÉi per salvarsi, ma la stessa debolezza di altri che giunsero fino a maledire il Cristo per provare la serietà della loro abiura. Scopriamo anche le esitazioni e la ripugnanza delle autorità nel lasciarsi trascinare troppo oltre nella repressione: Traiano non voleva n‚ che si ricercassero i cristiani, n‚ che contro di essi si accettassero denunce anonime. Questo É un sintomo di come, in un paese come la Bitinia, le Chiese raccogliessero già degli effettivi relativamente numerosi, di come non si trattasse più di annientarle ma si puntasse soprattutto ad arrestarne il progresso, creando attorno ad esse un'atmosfera di terrore. Un altro vescovo subì il martirio sotto Traiano (98-117.: Simeone, vescovo di Gerusalemme, successore di Giacomo il Giusto, tornato a stabilirsi nell'antica capitale ebraica con quel che restava della sua Chiesa dopo anni di esilio, durante i quali l'autorità ecumenica da lui ereditata era completamente svanita. Il giudaismo palestinese, solidamente ricostituito e guadagnato alla collaborazione con Roma, ne ottenne agevolmente la condanna da parte del governatore romano, accusandolo di aspirare a un ruolo politico ostile all'occupante. Questo genere di accusa, che non si ritrova in altre persecuzioni dell'epoca, costituisce la prova non solo del carattere peculiare della situazione palestinese, ma anche della differenza esistente tra il cristianesimo semitico e il cristianesimo ellenistico, meglio noto attraverso la sua letteratura, di cui non abbiamo per quest'epoca l'equivalente in aramaico. Sembra che la Chiesa di Gerusalemme e le comunità palestinesi che ne derivavano abbiano condiviso l'antiellenismo e l'aspirazione a ripiegarsi su se stesse che caratterizzano il giudaismo palestinese dopo la catastrofe del 70. Quest'atteggiamento non le sottrasse all'ostilità sempre più netta dei rabbini della fine del primo secolo, i quali vedevano nei cristiani gli eretici per eccellenza; esso però le allontanò progressivamente dalle Chiese di lingua greca, soprattutto quando queste accettarono di fare dell'apostolo Paolo uno dei loro eroi postumi. Se va prestata fede alle scarse testimonianze di epoca più tarda che ci informano su questo ambiente, questi nazareni e questi ebioniti - come si chiamano loro stessi - professano in effetti un odio insormontabile contro il Tarsiota, nel quale vedono un Anticristo, responsabile dell'apostasia di tanti fratelli. D'altro canto, la loro preoccupazione di restare fedeli al monoteismo più rigoroso per rimanere in seno al giudaismo li induceva a respingere ogni sorta di cristologia eccessivamente speculativa, nonostante essa avesse le sue radici nel pensiero gerosolimitano più antico. Respinti dal giudaismo palestinese, separatisi volutamente dalle Chiese di lingua greca, gli Ebrei cristiani di Palestina, dall'inizio del secondo secolo, entrarono in alleanze con varie sÉtte ebraiche, le cui dottrine ci sono quasi completamente ignote.

Essi ne ricavarono una frammentazione in varie tendenze, la più nota delle quali si esprime negli antichi ambienti del "Romanzo pseudoclementino", uno scritto composito giunto alla sua stesura definitiva verso la metà del quarto secolo, una cui fonte, però, risale probabilmente alla prima metà del secondo secolo. Questa frangia del giudeo-cristianesimo indica Gesù come il vero Profeta, concepisce l'intera storia della salvezza come un susseguirsi di coppie contrastanti, costituite ogni volta da un inviato da Dio e da un inviato del Diavolo, non accetta l'autorità della "Bibbia" ebraica se non dopo averla epurata di un certo numero di passi che si presumono interpolati, respinge il culto sacrificale, eccetera. Altri gruppi del cristianesimo palestinese rimanevano più vicini al giudaismo rabbinico, ma, isolati nel loro rifiuto di qualsiasi dottrina greca, hanno finito a poco a poco per assumere, agli occhi delle Chiese ellenistiche, l'andamento di sÉtte ereticali, mentre in realtà erano gli eredi diretti della Chiesa primitiva, anche se non ne avevano più la vitalità e lo slancio. Uno di questi gruppi, certamente di lingua greca e impiantato in Transgiordania, si era dotato, prima della metà del secondo secolo, di un "Vangelo", ispirato ai tre "Vangeli" sinottici, ma riadattato in relazione alle proprie peculiarità dottrinali, il "Vangelo degli ebioniti", del quale ci sono noti solamente alcuni frammenti. Questi prestiti da quelle stesse Chiese, che pure si consideravano come rinnegate, costituiscono il sintomo di un singolare impoverimento della tradizione nella stessa regione in cui questa era nata, ma anche un sintomo dell'attrazione esercitata sugli animi, al di là delle barriere confessionali più invalicabili, dal nuovo genere letterario creato dagli ellenisti. Al di fuori della Palestina, l'espansione del cristianesimo nei paesi di lingua semita sembra sia proseguita alla fine del primo secolo e agli inizi del secondo, grazie alla presenza di numerose colonie ebraiche. Ad esempio, un certo Addai, giunto dalla Palestina, evangelizzò la remota Adiabene verso la fine del primo secolo. Non risulta che tutte le Chiese fondate nell'ampia zona di lingua aramaica dell'interno della Siria e della Mesopotamia siano appartenute alla medesima tendenza. Tutte, però, appaiono discretamente segnate da influenza giudaica, se le si paragona con quelle dei paesi di lingua greca. Esse sostituiscono le comunità palestinesi in declino, per mantenere viva la fiamma del giudeo-cristianesimo. La letteratura siriaca cristiana ha conosciuto il suo grande sviluppo solo dopo la metà del secondo secolo, ma un testo come il "Vangelo dei Nazareni", "targum" aramaico del "Vangelo secondo Matteo", conferisce già un taglio originale ai termini e ai racconti sinottici e rivela alcuni particolari del cristianesimo di Aleppo nella prima metà del secondo secolo. D'altra parte, la presenza nel nucleo antico del "Vangelo secondo Tommaso" di una forma arcaica di certe frasi di Gesù dimostra come la tradizione palestinese fosse conosciuta nel nord della Siria, attorno all'anno 100, senza essere passata per la mediazione dei "Vangeli" sinottici e neppure per quella di una versione greca delle parole del Signore. Infine, vari elementi di questo stesso "Vangelo secondo Tommaso" o degli "Atti di Tommaso" che hanno un sentore di gnosticismo - come il famoso "Canto della Perla", d'origine iranica - potrebbero risalire all'inizio del secondo secolo. In questo caso, dunque, il cristianesimo siriaco sarebbe servito di tramite tra l'Iran e la cultura greco-romana e avrebbe contribuito al formarsi dello gnosticismo e all'adattamento in ambiente cristiano di certe concezioni dualistiche provenienti dal mazdeismo. Vediamo come fosse considerevole l'importanza delle Chiese provinciali, allora contese tra l'Impero parto, da un lato, e l'Impero romano, dall'altro. 4. DALLA SETTA ALLA CHIESA (DAL 125 AL 250 CIRCA.. Con il suo zelo ardente, gli effettivi ancora ridotti, la sua mediocrità intellettuale, il suo atteggiamento verso le autorità, il cristianesimo É ancora una setta nei primi anni del regno di Adriano (117-38.. Nonostante continui a diffondersi in misura crescente e malgrado la coscienza acquisita della propria autonomia dal giudaismo, il cristianesimo non si presenta ancora come una forza che conti nella società e nello Stato romano o parto. Gli uomini di Stato e gli intellettuali non si sono ancora preoccupati di interessarsi di lui, n‚ il cristianesimo si É curato di rivolgersi ad essi.

Il periodo che va dall'inizio del secondo quarto del secondo secolo alla metà del terza, vede la setta maturare e diventare Chiesa, cioè un'istituzione fornita di un certo peso nella vita sociale, politica e culturale del tempo. I cristiani emergono a poco a poco dai loro ghetti intellettuali e sociali, osano proclamarsi eredi di tutto ciò che la cultura classica aveva di sano, rivendicando una serie di riforme in seno alla società. Tutt'intorno, ci si indigna per le loro pretese e le si respinge decisamente. Ma non si ha più il coraggio di trattarli con disprezzo. Verrà il giorno in cui, spaventati di fronte al loro incessante progredire, si tenterà di dare della questione cristiana la soluzione finale di qualsiasi Notte di san Bartolomeo. Al peso crescente delle Chiese cristiane in seno alla società corrisponde una sempre maggior pesantezza della massa inerte e dell'istituzione. Contro questo appesantimento sociale, alcuni cristiani insorgono, provocando in tal modo lotte intestine a volte feroci e quasi sempre accanite. Per tristi che siano state queste contrapposizioni tra cristiani, esse hanno almeno avuto un risultato salutare: quello di costringere i dirigenti delle Chiese ad organizzarsi e a riflettere, dando vita così alla teologia cristiana. - Nascita di una filosofia cristiana. Ancora scarsamente radicato in Occidente e sulla costa meridionale del Mediterraneo verso il 125, a parte qualche isola come Roma, il cristianesimo continuò la sua penetrazione in queste regioni nel mezzo secolo successivo. Venne di nuovo raggiunto l'Egitto, specie nella grande metropoli di Alessandria. L'Africa fu abbordata a partire da Cartagine. I progressi furono importanti in alcune città d'Italia, della Spagna, del Narbonese. Verso la metà del secondo secolo, la conquista era ben avviata. Le città della Gallia e della Spagna erano state raggiunte in gran numero, al pari di quelle della Babilonia. L'Egitto, la Siria, l'Asia, la Frigia, la Bitinia, la Macedonia e l'Acaia contavano molte comunità in città di scarso rilievo; l'Africa e la Numidia possedevano quasi cento Chiese. Nelle grandi città il numero dei fedeli stava diventando considerevole e raggiungeva le migliaia e le decine di migliaia di persone. La composizione sociale di questa massa non sembra esser molto cambiata in questo periodo. I contadini rimanevano poco numerosi, salvo in alcune zone in cui la popolazione cristiana era particolarmente densa, come in Anatolia o in Africa. Gli schiavi, gli artigiani, i salariati costituivano regolarmente il nucleo più esteso. Le famiglie agiate cominciavano a rappresentare una componente un po' più consistente, soprattutto a partire dall'inizio del terzo secolo, ma esse non davano ancora il tono al gruppo dei fedeli. L'istituzione ecclesiastica, per quanto rudimentale, funzionava molto bene: la carità e l'ospitalità si esercitavano rigorosamente; il culto veniva celebrato con molta dignità, come mostra per Roma intorno al 150 la descrizione di Giustino Martire ("I Apologia", capitoli 65-7.. Sembra che il livello morale dei fedeli fosse buono, nonostante le calunnie diffuse nell'opinione comune, esagerate al punto di dimostrarne l'infondatezza: incesti, orge collettive, assassinio di fanciulli non rientravano evidentemente nel modo di vivere dei cristiani. Il progresso della missione, la solidità dell'istituzione ecclesiastica e la serietà della condotta dei credenti ispiravano un sereno ottimismo a quei cristiani che riflettessero sull'avvenire della propria religione all'interno della civiltà greco-romana. Contemporaneamente, l'assurdità dei pregiudizi nutriti dalle masse pagane nei confronti del cristianesimo e il carattere disumano della repressione che ogni tanto si abbatteva su di esso apparivano loro profondamente sconvolgenti. Nacque così, verso il 125, un nuovo genere letterario, quello dell'apologia del cristianesimo, allo scopo di dimostrare all'opinione pagana colta come la religione cristiana rientrasse nel quadro della migliore tradizione greca e rappresentasse il più completo sistema filosofico. Sicuramente, non É a caso che le prime due apologie a noi note - quelle di Quadrato e di Aristide, composte entrambe prima della fine del regno di Adriano - siano state opera di cristiani ateniesi: in questo grande centro intellettuale, si poteva sperare di trovare un certo pubblico per argomenti del genere.

Senza essere ateniese, Giustino Martire apparteneva agli ambienti sui quali puntavano Quadrato e Aristide, quello dei Greci colti con abitudine alla filosofia. Nato in una famiglia pagana, egli si convertì al cristianesimo prima della fine del regno di Adriano, al termine di un lungo vagabondaggio che lo aveva portato di scuola filosofica in scuola filosofica. Dopo essere vissuto a lungo in Efeso, egli aprì verso il 150 una scuola a Roma e vi conobbe un discreto successo. Rimasto di tendenza platonica, cercò con perseveranza di far apprezzare i meriti del cristianesimo negli ambienti colti della capitale. Il cristianesimo, secondo lui, non rappresentava soltanto il punto d'arrivo della venerabile rivelazione biblica, a cui ha attinto lo stesso Platone, ma anche il coronamento di tutta l'ispirata ricerca condotta dai filosofi greci. Gesù Cristo É l'incarnazione del Verbo divino, che É sempre stato, presso i Greci come presso i Barbari, la fonte di ogni verità; la sua dottrina É perciò la sola filosofia sicura, perché‚ É integralmente conforme alla ragione e alla verità. Il giudaismo, come il politeismo pagano, rappresentano la più disastrosa corruzione di quella verità intravista dai filosofi e dai profeti. Il cristianesimo, invece, mette in piena luce la verità, sia attraverso la vita saggia dei suoi fedeli, sia attraverso la propria dottrina. Queste tesi fornirono a Giustino l'argomento per una vasta opera, della quale possediamo soltanto una piccola parte: il "Dialogo con l'ebreo Trifone" e le due "Apologie". Le opere più specificamente filosofiche sono andate perdute, anche se ne conosciamo i titoli grazie ad Eusebio di Cesarea. La campagna avviata da Giustino per rendere presentabile il cristianesimo agli occhi dei pagani colti sembra si sia conclusa con un completo fallimento. Essa suscitò reazioni brutali da parte di un filosofo cinico di Roma, Crescente, e contribuì a compromettere Giustino agli occhi dell'autorità imperiale, che lo fece giustiziare verso il 165. Questa campagna suggerì, probabilmente, il "Discorso della verità" di Celso, che, poco prima del 180, fu il primo scritto polemico anticristiano veramente pertinente. Essa non riuscì ad evitare n‚ il disprezzo di Marc'Aurelio n‚ i sarcasmi di Luciano di Samosata nel "De morte Peregrini", n‚ il protrarsi a sbalzi delle persecuzioni e neppure l'irrigidimento antigreco del miglior discepolo di Giustino, il siriano Taziano, il cui "Discorso ai Greci", scritto prima del 165, rappresenta un attacco violento contro l'ellenismo, compresa la filosofia. L'ottimismo filogreco e moralizzante della grande Chiesa, anche quando Giustino gli ebbe conferito una base intellettuale, appariva pericoloso e addirittura inaccettabile ad alcuni dei credenti più esigenti della massa. Troppo numerosa, ad alcuni sembrava che quest'ultima venisse trascinata verso una china rischiosa e che fosse incapace di reagire da sola. Un'inquietudine di questo genere si può riconoscere nel "Pastore del romano Erma", pubblicato nel 140. Questo profeta cristiano, il cui libro raccoglie visioni e rivelazioni da lui avute nel corso di lunghi anni di ministero, resta tipicamente giudeo- cristiano, per certi tratti del suo pensiero e della sua morale. Il carattere apocalittico di molte sue visioni ne dimostra l'opposizione ad ogni inserimento troppo stabile dei cristiani nel mondo. I richiami alla penitenza, di cui la sua opera É piena, costituiscono il sintomo del disagio da lui provato di fronte alla mediocrità morale di molti dei suoi fratelli nella fede. Egli avrebbe desiderato vederli mettere in pratica un'etica ascetica rigorosa del tipo di quella decantata in Oriente; visto però che essi si lasciavano andare, egli offriva loro da parte di Dio un'estrema occasione di pentimento e di perdono. La "II Lettera", cosiddetta "di Pietro", scritta nel secondo quarto del secondo secolo, fa sentire una voce più ufficiale e più ellenizzante. Essa si rivolge ad alcuni eretici, ai cui occhi la dottrina del Giudizio Finale e i richiami a mettere in pratica una morale onesta provocavano un insopportabile disgusto per la fede della maggioranza. Partendo da un punto di vista diametralmente opposto a quello di Erma, questi individualisti condannavano il conformismo della stessa massa. Però, invece di proclamare, come l'autore del "Pastore", la prossimità del Giorno del Giudizio, che nella grande Chiesa si attendeva tranquillamente, gli eretici combattuti nella

"II Lettera di Pietro" sostenevano la tesi dell'escatologia attualizzata, da cui traevano la conclusione che il cristiano era destinato a fruire di un'assoluta libertà etica. Alla pratica da parte della massa di una morale media, essi non contrapponevano un invito all'austerità, come Erma, ma l'affermazione dei diritti individuali di coloro che conoscevano il Signore Gesù Cristo. Pur essendo impossibile identificarli con esattezza, costoro appaiono, dunque, come degli gnostici, detentori della conoscenza ("gnosis". inaccessibile ai comuni fedeli. - Gli gnostici. In effetti, gli avversari dell'ottimismo concorde che regnava verso il 125-50 nella grande Chiesa sono inizialmente stati degli gnostici. Si può anche dire che essi si sono battuti dovunque contro l'ingabbiamento del messaggio cristiano nel quadro di un'organizzazione in Chiesa, in cui la regola fosse imposta dalle aspirazioni e dalle esigenze della massa. Per molti cristiani esigenti e colti, il movimento gnostico può essere apparso come la difesa intransigente dell'insegnamento di Gesù e di Paolo, con il suo radicalismo morale, contro le tentazioni dei cedimenti al secolo. Tuttavia, il suo individualismo e il suo rifiuto dell'universalismo lo differenziano di molto dal modello dei grandi adunatori di folle che avevano plasmato l'originaria forma del messaggio cristiano. Lo storico non può, quindi, pronunciarsi a favore o contro la legittimità dell'opera gnostica, ma si limiterà a dimostrare le radici molto varie del movimento, facendone risaltare l'ampiezza per tutto il secondo secolo e cercando di spiegarne le implicazioni prossime e remote. Le fonti disponibili per studiare questa tendenza variegata e complessa sono state a lungo molto imperfette, perché‚ si trattava esclusivamente di confutazioni dello gnosticismo composte da vari scrittori cristiani ortodossi, come Ireneo, Clemente, Ippolito ed Epifanio. Da qualche tempo si conoscono finalmente parecchi testi di autori gnostici, grazie alle scoperte fatte in Egitto, soprattutto a Nag-Hammadi nel 1945. L'edizione di questi manoscritti procede lentamente, a causa di molteplici difficoltà; fin da ora, però, gli studi gnostici si sono rinnovati, anche se permangono vaste zone d'ombra. Non si É più nelle condizioni in cui, per esempio, ci si limitava a definire lo gnosticismo come una versione radicalmente ellenistica del cristianesimo, alla maniera di A. Harnack. Il movimento ha certamente preso l'avvio in ambiente ellenistico. Ha mutuato dalla filosofia popolare cinico-stoica alcune concezioni ed alcuni termini importanti, come quello di "gnosis", un certo esclusivismo dai culti misterici, dallo spirito contemporaneo una profonda aspirazione alla salvezza individuale e alla fuga al di fuori del mondo materiale. Si tratta, però, di prestiti parziali, operati da un movimento che ha già in s‚ un suo dinamismo, che non si confonde assolutamente con il cristianesimo e che rimane decisamente esotico rispetto all'ellenismo, non foss'altro che per la sua mitologia. Sarebbe un po' esagerato affermare che il rapporto tra lo gnosticismo e il cristianesimo sia stato chiarito definitivamente dai testi di Nag-Hammadi. D'altra parte, le teorie che vedevano nello gnosticismo una religione autonoma, rivale del cristianesimo, non hanno trovato una conferma della loro ipotesi nella pubblicazione di questi scritti. Lo gnosticismo del secondo secolo É certamente stato, per l'essenziale, un movimento in seno al cristianesimo, anche se certi suoi precedenti del primo secolo si collocavano ai confini del cristianesimo stesso o addirittura al di fuori del suo terreno. Inoltre, le manifestazioni pregnostiche del primo secolo non hanno ancora le caratteristiche di una religione autonoma (al pari delle tendenze gnostiche combattute da Paolo o nella "I Lettera di Giovanni".; quando ci si trova di fronte a una religione autonoma, come il culto di Simone il Samaritano, noto attraverso Giustino Martire, essa non ha ancora nel primo secolo l'andamento dello gnosticismo. Si É talvolta ipotizzato che la mitologia gnostica, con il suo radicale dualismo, avesse rappresentato fin da prima delle origini del cristianesimo un sistema coerente, pur non avendo come supporto una religione organizzata. Si tratterebbe di un ampio mito iranico, staccatosi dal mazdeismo, ma ancora recante il marchio originario.

Questa tesi É senz'altro esagerata, dal momento che le fonti iraniane di questo fondamentale mito non appaiono chiaramente n‚ risultano più chiare le prove dell'esistenza di un simile mito nel primo secolo. E però fuori dubbio che un'influenza del dualismo iranico si sia esercitata su numerose cerchie ebraiche, come quella degli Esseni o di certi apocalittici, nonch‚ su alcuni circoli cristiani, soprattutto nella Mesopotamia settentrionale. Quest'influenza ha indubbiamente contribuito al formarsi dei vari sistemi gnostici del secondo secolo. Colpisce, al riguardo, il fatto che molti dei testi gnostici più antichi sembrino aver avuto origine in Siria o in Mesopotamia, benché‚ in seguito lo gnosticismo abbia riportato i suoi maggiori successi in Egitto. Sembra che il contributo prevalente per preparare la strada allo gnosticismo del secondo secolo sia venuto da una sorta di sincretismo ebraico. L'esistenza di un certo numero di gruppi sincretistici ai margini del giudaismo del primo secolo É un fatto ammesso da tempo, anche se resta difficile distinguere con chiarezza il fenomeno. Sembra però che, dopo la rovina del Tempio di Gerusalemme nel 70, nel momento stesso in cui a Jamnia si costituiva un'ortodossia giudaica, l'influenza di cui godevano questi gruppi presso alcuni Ebrei sia aumentata, nella misura in cui essi hanno optato per un dualismo che contrapponeva al Dio malvagio, lo Yahweh della "Bibbia" ebraica, un Dio buono che offriva una salvezza concepita in primo luogo come una liberazione dal mondo della materia. Un messaggio del genere corrispondeva, in effetti, allo spirito di ribellione e al radicale pessimismo da cui erano stati presi molti Ebrei in seguito al disastro subito dalla loro nazione, come testimonia, ad esempio, il "IV Libro di Esdra", sicuramente composto all'inizio del regno di Domiziano (81- 96.. L'esempio più evidente di questo risveglio del sincretismo a base giudaica É offerto dalla setta simoniana già ricordata. Sembra che già Menandro, un discepolo di Simone, stabilitosi ad Antiochia nell'ultimo quarto del primo secolo, avesse presentato il suo maestro come una manifestazione del Dio primordiale, contrapposto agli angeli, creatori del mondo e fondatori della Vecchia Alleanza. Egli stesso si faceva passare per il Salvatore inviato dal mondo di Lassù per strappare gli uomini dal mondo di quaggiù. Saturnino, successore di Menandro, precisò tra il 100 e il 130 circa la dottrina del predecessore ed osò fare di Yahweh il principe degli angeli creatori malvagi. D'altra parte, egli fu il primo a segnare un confine invalicabile tra due tipi di uomini, alcuni in grado di partecipare della luce celeste, altri eternamente ciechi nei confronti di questo dono del Dio nascosto. Con lui, le caratteristiche essenziali dello gnosticismo sono già tutte presenti, ma la coloritura giudaica resta ancora forte. Il movimento gnostico, dunque, rappresenta una crisi decisiva nello sviluppo del cristianesimo: esso esprime il rifiuto di certi credenti di fronte all'integrazione nella società greco-romana. Non si spiegherebbero, tuttavia, le forme assunte da questo rifiuto senza certe derivazioni dal pensiero ellenistico e dal pensiero iranico e, ancora meno, senza stretti rapporti con un sincretismo d'ispirazione ebraica, spinto a un dualismo sempre più radicale dal tracollo del 70. Dopo precursori quali Menandro, Saturnino o Cerinto, i principali dottori gnostici furono Carpocrate e Basilide, due alessandrini famosi verso la fine del primo quarto del secondo secolo; Isidoro, figlio di Basilide; Valentino, un alessandrino che visse a Roma tra il 135 e il 160 circa e fu un vero e proprio caposcuola; Teodoro, Eracleone e Tolomeo, discepoli di Valentino. Accanto a questi pensatori, che conosciamo individualmente, in seno allo gnosticismo esistevano altre tendenze: barbelioti e setiani, ad esempio, la cui derivazione spirituale si può seguire fino alla fine del secondo secolo; scuole da cui sono uscite la "Pistis Sophia" (terzo secolo. e molti degli scritti di Nag-Hammadi che non si possono attribuire ad alcuno dei dottori noti, ma che si ricollegano chiaramente al grande filone gnostico, come il "Vangelo secondo Tommaso" e "secondo Filippo" o la "Sophia Jesu Christi". Tra queste varie tendenze ci sono differenze notevoli, relative alla durata del movimento, alla sua vasta diffusione, dalla Siria alla Gallia passando per l'Egitto, e alla presenza

all'interno di numerosi pensatori di grande levatura, come Basilide, Valentino e Tolomeo, ognuno dei quali ha aggiunto apporti originali al fondo comune. Ma quel che É fondamentale in tutti gli gnostici e che stabilisce nonostante tutto una decisa affinità tra di loro É la conoscenza soprannaturale, la "gnosis", riservata a un ristretto numero di individui superiori assolutamente distinti dai comuni mortali, destinati a un'esistenza racchiusa nei limiti del mondo sensibile e incapaci di elevarsi al di sopra della fede, che costituisce un atteggiamento religioso inferiore. La gnosi, un dono del Cielo, É accessibile solamente a coloro che partecipano del mondo celeste, grazie alla presenza in essi di una scintilla divina. Essa però non ha nulla a che vedere con la conoscenza disinteressata o con la soddisfazione di una pura curiosità, ma corrisponde a uno stato d'angoscia, derivante dalla presenza della scintilla divina imprigionata nella materia, una realtà grossolana e cattiva. La gnosi arreca la libertà a questa entità interiore, rivelandole da dove viene e dove É destinata ad andare. In generale, questa rivelazione viene attribuita all'intervento di un essere mitico, il Salvatore, che penetra in questo mondo malvagio in veste umana, quindi risale presso il Padre, aprendo in tal modo la strada alle scintille divine che la conoscenza aiuterà a sbarazzarsi delle catene della materia. Questo personaggio viene di solito identificato con Gesù Cristo. Pur comportando elementi mitologici, questo schema rappresenta innanzitutto la descrizione della storia dell'anima individuale e dei suoi rapporti con il Salvatore. Esso esprime il disgusto di alcuni spiriti per la vita materiale, le sue limitazioni, le sue vicende occasionali, per il Male e la vanità degli sforzi per vincerlo tramite il ricorso alla saggezza pratica e alla morale. Vi traspare una profondissima aspirazione all'evasione e alla liberazione interiore, nonch‚ un disprezzo enorme per il mondo sensibile. Questo spinge gli gnostici a volte verso un ascetismo feroce, che rifiuta il matrimonio, il consumo di carne, eccetera, a volte a un assoluto libertinismo morale, entrambi volti ad affermare il loro disprezzo per il corpo. Per alcuni, la certezza di comprendere la realtà al di là delle apparenze spinge a praticare la magia. In sintesi, si tratta di comportamenti radicalmente diversi da quelli raccomandati dalla grande Chiesa e che tradiscono un pessimismo altrettanto profondo dell'ottimismo corrente all'interno di questa. Tuttavia, lo gnosticismo non si riduce a un puro e semplice esistenzialismo, ancorch‚ lo si sia inteso in questo senso da un certo numero di anni a questa parte. Esso implica tutta una sovrastruttura mitologica che sarebbe illegittimo trascurare. Ma le differenze specifiche al riguardo sono talmente grandi tra le varie tendenze gnostiche che É impossibile in questa sede esporre le dottrine di ognuna. La cosa più semplice É delineare un abbozzo del sistema più noto, quello di Valentino, così come perlomeno si presentava tra gli epigoni di questa concezione originaria, un po' prima della fine del secondo secolo. La nostra fonte principale É Ireneo di Lione ("Adversus haereses", I, 1, 1-I, 8, 4., completato da vari trattati di Nag-Hammadi, come il "Vangelo di Verità" e il "Trattato delle Tre Nature". Il Dio supremo, indicato come il Padre o l'Abisso, si raddoppia, come spesso succede nello gnosticismo, nel suo Pensiero ("Ennoia"., chiamato anche Silenzio, e con questo dà vita a una coppia che genera gli eoni, o realtà eterne. L'insieme di questi eoni, raggruppati in coppie rigorosamente distribuite in ordine gerarchico, costituisce il "Pleroma" o Pienezza. L'ultimo degli eoni, "Sophia" o la Saggezza, in cui si riconosce il principio di ogni filosofia, cerca di impossessarsi del Padre per capirlo e turba così l'intero equilibrio del pleroma, al cui interno fanno la loro comparsa, a questo punto, le passioni e il male. Per salvare il pleroma, ne viene esclusa la Sophia, insieme con gli altri elementi di turbamento derivanti dalla manifestazione del desiderio di questa. Essi costituiranno il materiale del mondo di quaggiù, il quale sarà perciò radicalmente cattivo, pur racchiudendo frammenti del mondo celeste, imprigionati al suo interno. Il mondo di quaggiù viene sottratto al caos che lo domina per l'intervento di un Salvatore, cui ha dato vita il pleroma una volta ricostituitosi.

Questo personaggio, dal nome di Gesù, prepara la creazione del mondo sensibile estraendo il Demiurgo da quel che resta della Saggezza. Questo piccolo dio creatore, che É anche il Dio degli Ebrei, organizza la materia ancora informe e ne ricava degli uomini ilici e psichici di un tipo più raffinato. Alcuni individui si trovano, a loro insaputa, a racchiudere "pneuma" o spirito, una specie di seme divino imprigionato nel loro corpo o nella loro anima. Per liberare questi semi, il Salvatore si introduce nel mondo di quaggiù celandosi all'interno di un corpo umano. Questa missione segreta si confonde con il periodo della vita di Gesù compreso tra la discesa dello Spirito su di lui nel momento del battesimo e l'allontanarsi dello Spirito nel momento della Crocifissione. La predicazione di Gesù, e poi quella dei suoi discepoli e dei loro continuatori, rivelano ai semi pneumatici racchiusi in certi individui la loro origine vera e la possibilità di ritornare presso il Padre. Quando la rivelazione avrà raggiunto tutti gli uomini che recano in s‚ questi semi, essi si reintegreranno nel pleroma e il mondo visibile verrà distrutto. Questo sistema, così come gli altri miti dello stesso genere diffusi dalle altre scuole gnostiche, ha conosciuto, a partire press'a poco dal 125, un notevole successo negli ambienti cristiani e paracristiani, nei quali si avvertiva il forte rischio di svuotamento del Vangelo insito nell'orientamento della grande Chiesa al tempo dei primi apologisti. Le persone coinvolte da queste teorizzazioni, in cui la doppia predestinazione raggiunge un sorprendente livello di rigore, non hanno mai costituito una maggioranza in seno alla Chiesa, anche se sembra che abbiano avuto un discreto ascendente intellettuale e spirituale, al punto di mettere in pericolo la coesione delle comunità locali in quasi tutto l'Impero romano. Inoltre, le Chiese non avevano saldi sistemi teologici da contrapporre alle grandiose costruzioni del pensiero gnostico, per cui giustamente temevano di perdere influenza su tutti quei membri che avevano sufficienti strumenti intellettuali per riflettere sulla loro fede. La reazione ecclesiastica allo gnosticismo fu, quindi, un po' lenta a venire, ma, non appena ebbe raggiunto una certa ampiezza, nella seconda metà del secondo secolo, divenne uno degli elementi propulsori che suscitarono la maturazione del cristianesimo dal punto di vista dell'impianto istituzionale ed intellettuale. - Lo scisma marcionita. Ma anche altre minacce interne hanno contribuito a suscitare la reazione dei difensori della Chiesa ufficiale. La più grave, al di là dello gnosticismo, fu quella rappresentata dalla rapida crescita di una Chiesa scismatica fondata da un tal Marcione. Marcione era originario della provincia del Ponto, dove sembra sia nato nell'85, da una famiglia cristiana di Sinope, probabilmente addirittura nella casa di un vescovo di questa Chiesa. Egli accumulò una fortuna come armatore e svolse in giovinezza un ruolo attivo nella vita delle numerosissime comunità cristiane che già il Ponto contava. Scomunicato a Sinope, certamente per le sue convinzioni teologiche, egli si stabilì nella provincia d'Asia, dove ottenne un certo successo, che gli valse l'ostilità del vescovo di Smirne, Policarpo. Venuto a stabilirsi a Roma, egli tentò, verso il 144, di farvi accettare le proprie idee dai preti di questa grande Chiesa, i quali però rifiutarono di seguirlo sul terreno scivoloso su cui intendeva trascinarli. Marcione si separò allora dalla Chiesa di Roma, fondò la sua comunità nella capitale e trovò rapidamente gli adepti necessari per istituire quasi dappertutto Chiese della sua obbedienza, di contro a quelle che già esistevano. Egli morì verso il 160, ma le Chiese marcionite gli sopravvissero per parecchi secoli, sia nell'Impero romano, sia in Mesopotamia, in Persia, in Arabia. Questo scisma rappresenta per molti aspetti uno degli avvenimenti più importanti della storia del cristianesimo del secondo secolo. Merita perciò che lo si studi piuttosto da vicino, per quanto lo consentono le fonti. Noi, infatti, lo conosciamo esclusivamente attraverso gli scritti degli avversari cristiani. Uno di questi, l'"Adversus Marcionem" di Tertulliano, É per fortuna molto esplicito sulla dottrina insegnata da Marcione, pur tenendo conto solo dello stadio finale della sua elaborazione, raggiunto - a quanto sembra - alla fine di una lunga evoluzione personale.

Marcione, inizialmente, É stato solamente uno che ha portato agli estremi gli insegnamenti paolini, traendo dall'opposizione fra la Legge e le lettere ai "Galati" e ai "Romani" la conclusione che il "Vecchio Testamento" era completamente tagliato fuori e senza più alcuna autorità per i cristiani. Solamente dopo aver rotto con la Chiesa romana, avendo subito delle influenze gnostiche, egli proclamò l'esistenza di due iddii, quello della Legge e quello del Vangelo. Il primo dio, per Marcione, É il Creatore e il Legislatore che esige dall'uomo, debole e mortale, cui egli ha dato vita, un'obbedienza rigorosa. Questo dio severo punisce 1'uomo caduto nel peccato, offre esclusivamente al popolo t'Israele le migliori promesse e assoggetta l'intera umanità alla Legge di MosÉ, che impedisce a chiunque di compiere il bene. Ma un altro dio, il dio buono completamente trascendente, prova pietà per un'umanità così bistrattata e invia suo figlio, Gesù Cristo, per farle conoscere la propria esistenza e il proprio amore. Gesù prega il dio buono, senza rivolgersi al dio severo, il quale però intuisce nelle sue parole un pericolo misterioso e lo fa perire. La Crocifissione di Gesù opera la redenzione dell'umanità, la quale resta però sottomessa, in attesa della Fine, alla meschina dominazione del Creatore. Fino all'ultimo giorno il mondo cospira, dunque, contro i credenti, che hanno per sorte la persecuzione e la sofferenza. Ma, quando i tempi saranno maturi, il dio buono stabilirà il suo Regno, vi farà entrare i suoi e abbandonerà alla distruzione gli uomini che non si saranno assoggettati a lui. Questa teologia, nonostante certi ardimenti, non ha il respiro dei grandi sistemi gnostici. Più ingenuamente dualista di questi ultimi, in quanto la superiorità del dio buono e nascosto non É per nulla spiegata in Marcione, essa contempla, per altro verso, un'antropologia assai rudimentale e lascia un ampio spazio a un sentimentalismo alquanto insipido. Tuttavia, essa ha conosciuto un successo anche maggiore di quello dello gnosticismo, perché‚ forniva una possibilità d'espressione alla fede emotiva e semplice e al pessimismo nutrito da molti cristiani di fronte alle persecuzioni, all'accanimento degli Ebrei contro le Chiese e all'urtante immoralità della società greco- romana. Marcione praticava, del resto, una morale severa, che implicava una rigorosa astinenza alimentare, la proibizione del matrimonio, la preparazione costante al martirio. Le Chiese marcionite praticavano, inoltre, un'impressionante fratellanza, particolarmente apprezzabile in presenza di un ambiente ostile. Ma uno dei principali motivi di attrazione del marcionismo consisteva nel fatto che esso possedeva delle Sacre Scritture molto più accessibili e semplici da spiegare di quelle delle Chiese cattoliche. Queste, infatti, avevano ancora come libri sacri semplicemente quelli del "Vecchio Testamento", letto quasi ovunque nella sua versione greca, detta dei Settanta. Questi testi, accanto ad alcuni passi direttamente riferibili a Gesù, comportavano una mole notevole di scritti difficilmente adattabili alla situazione di Chiese ormai completamente separate dal giudaismo. La letteratura cristiana era ancora considerata come un semplice serbatoio di letture edificanti, al cui interno soltanto i "Vangeli" cominciavano a godere di un particolare prestigio, in quanto lasciavano parlare direttamente Gesù e rafforzavano la tradizione orale. Di fronte a queste "Scritture" difficili, il marcionismo disponeva innanzitutto di un'arma polemica, le "Antitesi", l'unico testo redatto dal fondatore e in cui questi contrapponeva sistematicamente gli scritti e le concezioni del "Vangelo" a quelli del "Vecchio Testamento", di cui accettava soltanto l'interpretazione letterale. Dimostrata in tal modo la debolezza del concetto di Sacra Scrittura nella Chiesa ufficiale, Marcione riservava ad alcuni scritti della letteratura cristiana antica il posto e l'autorità sottratti al "Vecchio Testamento". Egli aveva appuntato la sua scelta sul "Vangelo secondo Luca", sicuramente quello che aveva conosciuto nella provincia del Ponto, e sulle "Lettere" di Paolo, dove la contrapposizione tra la Legge e il "Vangelo" si esprimeva con una chiarezza senza pari. Gli altri scritti cristiani, secondo lui, erano stati composti da discepoli ignari e infedeli a Gesù, che avevano confuso il Dio di Israele con il Dio del loro Maestro. Le stesse sgradevoli persone che erano state ostili a Paolo avevano interpolato, secondo Marcione, le sue "Lettere", nonch‚ il "Vangelo secondo Luca", per nascondere la radicale contrapposizione al "Vecchio Testamento" che vi si esprimeva.

L'araldo del Dio nascosto offriva dunque alle Chiese che lo seguivano un'edizione emendata di queste opere, da cui era scomparso qualsiasi accenno alla continuità tra le due Alleanze. Armato di queste Scritture chiare, di questa teologia semplice ed accetta al sentimento, di questa morale pessimistica ed eroica, il marcionismo rappresentava un avversario temibile per il cristianesimo tradizionale, poco organizzato, impacciato dal bagaglio di difficili Libri sacri e la cui teologia, ancora molto confusa, non bastava a proteggerlo dagli aggressivi tentativi di assimilazione dell'ambiente ellenistico. Soltanto a prezzo di uno sforzo notevole le Chiese ortodosse riuscirono a riprendersi e ad evitare questo pericolo. - Il montanismo. Un terzo movimento, nato dal rifiuto di allinearsi con la cultura greco-romana, sopravvenne a complicare ulteriormente i compiti dei dirigenti ecclesiastici del secondo secolo: il montanismo. In una data difficile da precisare - in quanto le fonti risultano contrastanti -, ma sicuramente vicina al 160, un certo Montano si mise a profetizzare ad Ardabu, un borgo della Frigia ai confini con la Misia. Egli annunciava la fine del mondo, l'imminente restaurazione di un regno messianico di mille anni, l'avvento della Gerusalemme celeste, e invitava i cristiani a vivere nella continenza per prepararsi a simili eventi. Due donne, Priscilla e Massimilla, furono anch'esse prese dall'entusiasmo profetico. Montano si presentò ben presto come il Paraclito annunciato dal Cristo del "Quarto Vangelo" e, dopo un inizio difficile, provocò un vasto movimento di risveglio - nell'accezione che questo termine ha assunto nel protestantesimo dopo il diciottesimo secolo - nelle Chiese della regione, malgrado l'ostilità dei dirigenti ecclesiastici. Si É spesso voluto fare di quest'esplosione una reviviscenza di antiche religioni frigie, nelle quali si praticava molto il delirio sacro, in onore di Cibele o di Dioniso. Pur se i progressi del montanismo sono stati facilitati dall'abitudine della popolazione alle manifestazioni di entusiasmo, le radici del movimento appaiono esclusivamente cristiane. Le Chiese dell'Asia Minore avevano avuto una lunga tradizione di profetismo, che risaliva perlomeno alle figlie di Filippo l'Evangelista, stabilitesi a Ierapoli alla fine del primo e agli inizi del secondo secolo, fino al veggente dell'"Apocalisse di Giovanni". I profeti, del resto, avevano svolto una importante funzione in tutte le Chiese delle due prime generazioni e un caso come quello di Erma dimostra che non avevano cessato di manifestarsi nel secondo secolo, anche in comunità della serietà di quella di Roma. Infine, la rapida espansione del montanismo fino in Occidente e nell'Impero parto, in seno a parecchie Chiese diverse tra loro, dimostra come la nuova profezia trovasse tra i cristiani un terreno predisposto e rispondente all'esigenza di rigore sentita da molti di fronte alla tendenza all'assimilazione e alla mediocrità della fede e dell'esistenza praticate dalla massa dei fedeli. Non conosceremmo il pensiero e la storia del montanismo se non attraverso gli scritti dei suoi avversari, se Tertulliano, il celebre polemista di Cartagine, non avesse aderito al movimento verso il 205 e non avesse, in tutte le sue opere ulteriori, assunto le difese di alcune delle concezioni del montanismo. Abbiamo però un buon numero di informazioni sui frigi, come li chiamavano, tanta era stata la loro influenza e tante le reazioni suscitate in seno al cristianesimo dell'ultimo terzo del secondo secolo e dell'inizio del terzo. Grazie alle considerevoli disponibilità assicurategli dalla generosità degli adepti, grazie al coraggio dei suoi missionari e all'eccellente organizzazione datagli da Montano, il montanismo penetrò a fondo in tutte le Chiese dell'Asia Minore, i cui vescovi - raccogliendo i loro sforzi - riuscirono a stento a scomunicare i seguaci del profeta e a costringerli nella condizione di una setta minoritaria, tranne in alcune località, come Tiatira in Lidia, dove l'intera comunità passò al montanismo. Prima del 177, Roma e la stessa Lione erano state raggiunte, data la presenza di colonie asiatiche in queste città. La Tracia, la Siria, la Mesopotamia furono raggiunte prima della fine del secondo secolo, mentre sembra che la provincia d'Africa sia stata toccata dopo il 200. Il riflusso, in Occidente, fu abbastanza rapido; fu però molto più lento in Asia Minore e in Oriente, dove la setta durò perlomeno fino alla fine del quarto secolo, sotto l'alta

direzione di un patriarca con sede a Pepuza, in Frigia, dove sembra che abbia preparato il terreno al manicheismo. La dottrina montanista rimaneva molto vicina a quella delle Chiese cattoliche di allora. Al di là delle affermazioni relative alla persona di Montano e alla prossimità del Regno messianico di un millennio - l'idea del quale era allora molto diffusa, sotto l'influenza dell'"Apocalisse di Giovanni" -, si trattava di una dottrina del tutto ortodossa, il che rendeva piuttosto difficile la lotta contro la sua influenza. Le differenziazioni erano molto più frequenti sul terreno della morale. I montanisti richiamavano i cristiani alla continenza assoluta e al martirio, che alcuni tra di essi hanno volontariamente provocato o ricercato. L'ostilità contro l'autorità imperiale era molto profonda presso di loro e li induceva a volte a compiere vere e proprie provocazioni, che mettevano in pericolo tutti i cristiani. Qui sta uno dei motivi più seri dell'ostilità dei dirigenti ecclesiastici nei loro confronti. Il loro femminismo, agli occhi della Chiesa ufficiale, non aveva lo stesso carattere urtante, se non probabilmente quando li spingeva ad assegnare elevati incarichi alle donne. Brevemente, malgrado tutte le calunnie sparse sul loro conto, i montanisti appaiono come dei cristiani tradizionalisti e rigoristi, ostili a qualsiasi compromesso con un mondo destinato a una fine vicina. Come i marcioniti, essi erano alla ricerca di una religione più soddisfacente per il sentimento di quel che non fosse il cristianesimo medio e ragionevole delle grandi Chiese in via di ellenizzazione. Come i marcioniti, anch'essi hanno saputo organizzare le proprie comunità in maniera efficace, lanciando in tal modo una sfida alle Chiese cattoliche ancora rinchiuse nel congregazionalismo. - Miglioramenti delle strutture ecclesiastiche. La sfida lanciata dagli gnostici alle Chiese tradizionali venne raccolta da queste ultime, attraverso un adeguamento alla mutata situazione e un'acquisizione dell'armamentario sociologico e intellettuale che era mancato fin lì. E' certo, in primo luogo, che la triplice minaccia gnostica, marcionita e montanista ha notevolmente rafforzato l'episcopato più o meno in tutte le Chiese. L'episcopato a più persone É scomparso prima della fine del secondo secolo, per far luogo all'episcopato unico, ancora scarsamente diffuso all'inizio del secolo. In ogni località, un'unica persona appariva ormai come custode della dottrina tradizionale e responsabile della disciplina ecclesiastica; la comunione con il vescovo del luogo diventava la miglior garanzia dell'ortodossia. Questo accentrarsi dell'autorità fu indubbiamente accelerato dalla tendenza a ridurre il numero dei luoghi di culto per evitare le conventicole, troppo permeabili alle influenze eretiche. Sempre più spesso si organizzò in ogni città un edificio piuttosto ampio, in cui il vescovo assicurava la presidenza del culto, radunando tutti i membri della comunità. La collaborazione tra il vescovo e i presbiteri - tra i quali, a quanto pare, il primo veniva scelto nella maggior parte dei casi - non fu sempre lineare, in quanto a volte il collegio presbiterale resisteva all'accaparramento dei poteri da parte di uno solo dei suoi membri. Conosciamo qualche conflitto di questo tipo, soprattutto a Roma verso la metà del secondo secolo. Tuttavia, la preminenza del vescovo si impose progressivamente ai suoi pari di prima e non fu quasi più contestata a partire dalla fine del secolo. Il collegio dei presbiteri costituì, da allora, il consiglio del vescovo, le cui principali decisioni continuarono a venir prese con il parere e d'accordo con questo gruppo. Al tempo stesso, i presbiteri diventavano sempre più dei professionisti, capaci di difendere e di giustificare la tradizione ecclesiastica di fronte alle critiche sollevate da contestatori del genere di coloro che avevano facilmente avuto la meglio sui dirigenti delle Chiese delle generazioni precedenti, grazie al dilettantismo di questi. I progressi dell'episcopato unico e del professionalismo dei presbiteri in seno a ciascuna comunità erano ben lungi dall'essere sufficienti ad allontanare dalle Chiese le minacce d'eresia e di scisma che pesavano su di esse. Scomunicati in un certo luogo, i pensatori gnostici, Marcione, i profeti montanisti raggiungevano un'altra località o un'altra provincia e vi trovavano nuovamente accoglienza nella Chiesa locale, non informata delle loro noie con la comunità sorella, n‚ legata alle decisioni di espulsione assunte da quella.

I vincoli stabiliti tra le Chiese per lo spostamento di alcuni fedeli non erano n‚ sufficientemente organici, n‚ abbastanza frequenti da consentire ai dirigenti ecclesiastici di rimediare a questa debolezza, insita nel congregazionalismo che aveva trionfato nell'organizzazione delle comunità, a partire dalla crisi del 60-70. L'inferiorità di questo sistema apparve in piena luce quando il marcionismo prima, il montanismo poi, si furono dotati di una solida organizzazione, in cui alcuni istituti centrali estendevano la propria autorità sull'insieme delle comunità aderenti al movimento. La prima modernizzazione apportata alle strutture inter-ecclesiastiche fu la convocazione di sinodi o riunioni regionali di vescovi, per coordinare, in Anatolia, la resistenza alla marea montanista, fin dal suo primo propagarsi. Queste assemblee si rivelarono molto efficaci ai fini della difesa dell'istituzione e aiutarono molto le Chiese locali a sbarazzarsi dei profeti frigi. Si continuò, quindi, a riunirli anche in altre occasioni e l'uso di essi si propagò in meno di un quarto di secolo fino alle province più lontane, come dimostra - prima della fine del secondo secolo - il gran numero di sinodi convocati in occasione della disputa pasquale, sulla quale ritorneremo. Strumento di coordinamento e di difesa che non minava affatto l'autonomia delle comunità locali, il sinodo - che i latini chiameranno concilio - fu da allora uno degli organismi essenziali del governo delle Chiese. Il carattere congiunturale e temporaneo del sinodo, peraltro, non gli consentiva di soddisfare tutte le esigenze. Il coordinamento regionale fra le Chiese esigeva maggiore continuità; questa si ottenne, a partire dal 180-90, mediante il riconoscimento di un ruolo preminente ai vescovi delle principali città, i quali esercitarono progressivamente una certa autorità nei confronti dei loro confratelli più vicini. Ciò accadde, per esempio, nel caso dei vescovi di Lione, di Cartagine, di Antiochia di Siria, di Alessandria d'Egitto. In quest'ultimo caso, a partire dagli ultimi anni del secondo secolo, il vescovo della metropoli provvide direttamente a insediare vescovi nel resto della provincia, dove fin lì non se ne contava neanche uno; la subordinazione dei nuovi titolari nei confronti del pastore della grandissima comunità di Alessandria restò particolarmente marcata e impresse una coesione amministrativa e dottrinale a questa provincia, che lo gnosticismo aveva quasi travolto. Anche il vescovo di Roma estese la propria autorità sui suoi confratelli della provincia italica e riuscì anche, talvolta, prima dell'inizio del terzo secolo, ad apparire come una specie di patriarca dell'Occidente, il cui primato - ancora molto vago, a dir la verità - si imponeva alle Chiese della Gallia, della Spagna e dell'Africa. Il rapido estendersi dell'influenza del vescovo di Roma É stato reso possibile dall'importanza politica ed economica della capitale dell'Impero e accelerata dalla crescente centralizzazione delle istituzioni imperiali che accompagnò il decadimento economico, iniziato sotto Marc'Aurelio (161-80. e precipitato durante la prima metà del terzo secolo. Esso, però, fu anche il frutto di una politica concreta e perseverante da parte dei vescovi di Roma. Costoro stabilirono, prima del 180, un elenco dei loro predecessori risalenti in linea diretta fino agli apostoli Pietro e Paolo, dei quali fecero arbitrariamente i fondatori della propria Chiesa. Essi quindi poterono vantarsi, più dei vescovi degli altri centri, di essere i successori degli apostoli e i legittimi custodi dei loro insegnamenti. L'argomento fece impressione soprattutto in Occidente, dove nessuna comunità aveva un'anzianità pari a quella della capitale. In Oriente erano numerose le Chiese che attribuivano la propria origine a un apostolo della prima generazione: Antiochia, Alessandria e Gerusalemme avevano degli elenchi di vescovi non meno imponenti di quelli di Roma. Le pretese romane, quindi, non ebbero qui lo stesso successo che in Occidente. Nonostante ciò, i vescovi di Roma, anche prima della fine del secondo secolo, hanno cercato di estendere la loro zona d'influenza all'Oriente, da cui provenivano tutte le eresie che erano costretti a combattere nella loro Chiesa. Sembra anche che la Chiesa di Alessandria, sparita per un secolo in seguito alla crisi del 66-70, abbia accettato agli inizi il patronato di Roma, che la richiamò in varie occasioni, fino alla metà del quinto secolo, al rispetto dovuto ai successori di Pietro e Paolo.

Siamo meglio informati sul modo in cui la sede di Roma si valse della disputa relativa alla data della Pasqua per tentare di imporre la propria autorità alle Chiese d'Asia e, sempre in quell'occasione, all'intero Oriente cristiano. Tra Roma e l'Asia esisteva una vecchia polemica sulla determinazione della data di questa festa, che gli asiatici celebravano nello stesso periodo della Pasqua ebraica, il 14 del mese di Nisan - donde il nome di rito quartodecimano -, mentre i Romani la spostavano alla domenica successiva. Poich‚ alcuni cristiani asiatici di Roma avevano reclamato, verso il 190, per voce di un tal Blasto, il diritto di conformarsi al proprio uso tradizionale, il vescovo Vittore radunò un sinodo italiano che, non contento di rifiutarla, condannò l'usanza in via generale. Vittore promosse il raduno di sinodi provinciali un po' dovunque, dalla Gallia alla lontana Osroene, e ottenne l'accordo di questi con la tesi di Roma. Solo il sinodo asiatico si pronunciò in favore del rito quartodecimano basandosi sulla sua tradizione antica, fatta risalire dal vescovo Policrate agli apostoli Filippo e Giovanni. Vittore avrebbe voluto replicare scomunicando per eresia tutti i cristiani d'Asia, ma dovette rinunciare a una misura così radicale. Se vi rinunciò fu perché‚ il vescovo Ireneo di Lione, anch'egli di origine asiatica, e molti altri vescovi di città importanti gli fecero presente la loro riprovazione per l'accanimento con cui tentava di imporre il suo punto di vista. Malgrado lo scacco finale, l'operazione tentata da Vittore aveva mostrato l'uso che il vescovo di Roma avrebbe potuto fare della sua autorità morale per stabilire il proprio primato sulla Chiesa universale. La monarchia papale É già in germe nel comportamento imperioso di questo difensore di un'ortodossia rigorosa. In realtà, essa maturerà solamente molto più tardi. - I libri sacri. Il rafforzamento delle strutture ecclesiastiche reso necessario dalla minaccia delle grandi eresie del secondo secolo non sarebbe bastato ad allontanare il pericolo. La tradizione - un'autorità indistinta, su cui si basava, all'inizio del secondo secolo, il consenso tra le Chiese cristiane - aveva urgente bisogno di essere ridefinita per resistere all'estensione che le imponevano gli gnostici e al ridimensionamento marcionita. Di fronte al proliferare in seno allo gnosticismo di discorsi segreti fatti dal Risorto ai suoi discepoli, i difensori della grande Chiesa misero più che mai l'accento sulle parabole pronunciate da Gesù nel corso della sua vita e note a tutti ormai da tempo, in quanto si usavano largamente nella vita della comunità per la predicazione, la catechesi, l'apologetica, eccetera. Le opere di Giustino Martire sono un buon esempio dell'uso costante di una simile tradizione, che ha già subito l'influenza dei tre "Vangeli" sinottici, ma conserva una sua specifica autorità. Tuttavia, dal momento che l'evidente antichità della tradizione non costituiva più una garanzia sufficiente di autenticità, ci si spinse fino a sostenere che essa risalisse agli apostoli, in quanto testimoni assolutamente legittimi della vita di Gesù. Ogni tradizione non apostolica veniva con ciò a trovarsi fuori giuoco. D'altra parte, il rischio di una corruzione della tradizione o di una arbitraria riduzione del suo contenuto esisteva. Inoltre, gli scritti gnostici si andavano moltiplicando, mentre la Sacra Scrittura di Marcione esercitava il proprio fascino su chi aspirava alla chiarezza e alla semplicità. Si imponeva una reazione delle Chiese cattoliche in campo letterario. Ben presto, essa portò, nella seconda metà del secondo secolo, alla formazione di una raccolta di opere cristiane che riflettevano il contenuto della tradizione apostolica e costituivano un parallelo della "Bibbia" ebraica: il "Nuovo Testamento". I quattro "Vangeli" ("Marco", "Matteo", "Luca" e "Giovanni"., che godevano di un prestigio particolare ognuno in una delle grandi Chiese e nella zona circostante, andarono man mano avvicinandosi tra di loro e vennero utilizzati insieme per la lettura pubblica. La tradizionale attribuzione di ognuno di essi a un singolo autore era ormai troppo antica e troppo nota per essere rimessa in discussione, anche se solo Matteo e Giovanni si possono considerare degli apostoli. Si precisò però il rapporto che collegava Marco a Pietro e Luca a Paolo, si attribuì al "Vangelo secondo Matteo" una specie di primato e si contrappose il "Vangelo" nelle sue quattro stesure, in cui si era raccolto l'intero contenuto della tradizione, al "Vangelo"

abbreviato di Marcione e alla proliferazione di "Vangeli" apocrifi, gli scritti esoterici che le sÉtte più varie, in particolare gli gnostici, collocavano alla base del loro insegnamento. A cominciare da Ireneo di Lione, si trovarono anche dei teologi che considerarono l'esistenza di quattro "Vangeli" come una prova di più dell'autorità attribuita da Dio a questa raccolta, dal momento che il numero corrispondeva a quello degli animali che acclamavano l'Onnipotente nell'"Apocalisse", capitolo quarto. Questo ricorso ad un sottile simbolismo numerico può apparire assurdo a noi moderni, ma rappresentava un'arma efficace contro gli gnostici, molto sensibili a questo tipo di argomenti. Vi furono, però, dei cristiani che rimasero insensibili a queste sottigliezze e che intesero ricavare le conseguenze dell'accostamento operato nella seconda metà del secondo secolo tra i "Vangeli" delle principali Chiese. Raccogliendo i quattro libri in uno, essi intesero dotare teologi e fedeli di un "Vangelo" al tempo stesso completo e ben redatto, alla cui autorità nessuno potesse sottrarsi. Il tentativo meglio noto, che non fu certamente l'unico, fu, verso il 180, quello di Taziano, il discepolo siriano di Giustino Martire, il cui "Diatessaron" (Vangelo redatto per mezzo di quattro. conobbe, almeno nella sua versione siriaca, una lunga fortuna nelle Chiese della sua provincia originaria. Questa soluzione, nonostante la sua elegante semplicità, non fu quella che si impose. Ciò significa che i quattro "Vangeli" avevano già la caratteristica di libri sacri, che non si possono modificare senza compiere sacrilegio. Marcione aveva collocato accanto al suo "Vangelo" la raccolta delle "Lettere" di Paolo, che gli gnostici consideravano con molto favore. Le Chiese cattoliche non potevano essere da meno, nonostante le riserve espresse da alcuni ("Seconda Lettera di Pietro" III, 15-6.. Verso il 150, Policarpo di Smirne considerava un passo paolino ("Lettera agli Efesini" IV, 26. come parte della Sacra Scrittura; si tratta del primo esempio di canonizzazione degli scritti del grande apostolo. Le "Lettere pastorali", scartate da Marcione, vennero definitivamente integrate nella raccolta, di cui accentuavano l'orientamento ecclesiastico. La "Lettera agli Ebrei", uno scritto anonimo aggiunto al "corpus paulinum" in Oriente, venne invece respinta dalle Chiese occidentali, che non le riconobbero diritto di cittadinanza nel canone se non nel quarto secolo. Il prestigio di Paolo, poi il successo ottenuto dalla raccolta delle sue lettere fin dalla fine del primo secolo, avevano suscitato numerosi imitatori. L'esigenza di controbilanciare l'autorità del "corpus paulinum" provocò a mano a mano il formarsi di raccolte di lettere attribuite a vari altri apostoli o dirigenti della Chiesa primitiva. Ognuna delle grandi Chiese, ad eccezione di quella di Siria, si trovò così, prima della fine del secondo secolo, a disporre di una piccola raccolta di scritti che rientravano più o meno nel genere epistolare; il contenuto di questo gruppo di testi venne unificato solamente nel corso del quarto secolo. Nel secondo secolo, gli unici scritti che figurassero dappertutto erano la "Prima Lettera di Pietro" e la "Prima Lettera di Giovanni". Alcune Chiese includevano nella raccolta opere in seguito scartate, come le due "Lettere di Clemente", la "Lettera di Barnaba", la "DidachÉ" e il "Pastore" di Erma. Al di là di queste importanti differenze, l'intenzione comune a tutte le Chiese era quella di basarsi sull'autorità del maggior numero possibile di apostoli o di dirigenti della prima generazione, per non apparire come continuatori del solo paolinismo. Per lo stesso motivo, queste Chiese fecero posto nel loro canone al libro degli "Atti degli Apostoli". Certo, quest'opera si imponeva ad esse fino ad un certo punto, dal momento che costituiva la prosecuzione del "Vangelo secondo Luca". Il suo inserimento nella raccolta dei libri sacri fu però meno rapido di quello del "Vangelo" in questione perché‚, per esempio verso il 200, le Chiese d'Africa esitavano ancora in proposito. Se, comunque, quest'inserimento s'impose, ciò É avvenuto in parte grazie al nesso che istituiva tra Paolo e gli apostoli di Gerusalemme, cosa che consentiva alle Chiese, preoccupate di basarsi sull'intera tradizione apostolica, di proclamarne l'unità.

Ai "Vangeli", alle "Lettere" e al libro degli "Atti" molte Chiese della seconda metà del secondo secolo hanno aggiunto alcune rivelazioni profetiche sulla fine dei tempi o apocalisse. Oltre al "Pastore di Erma", che abbiamo già citato, si tratta il più delle volte dell'"Apocalisse di Giovanni" e "di Pietro", lette soprattutto in Occidente e in Egitto. E' noto che solamente l'"Apocalisse di Giovanni" É riuscita a rimanere nel canone, nonostante le riserve manifestate da molte Chiese orientali nei suoi confronti, fino alla fine dell'antichità ed oltre. Nel secondo secolo, la raccolta di opere così costituita non aveva ancora l'unità materiale che le attribuirono i grossi "codices" dei secoli seguenti. Si trattava piuttosto di una piccola biblioteca di base proposta ad ogni Chiesa, le cui opere erano le sole raccomandate per la lettura pubblica, accanto a quelle della "Bibbia" ebraica. Furono, del resto, le esigenze della lettura pubblica a determinare, all'inizio del terzo secolo, la comparsa delle prime traduzioni dei libri del "Vecchio" e del "Nuovo Testamento" in latino, in copto e in siriaco. In questa fase, il canone non É altro, ancora, se non un elenco definito di opere antiche e ortodosse a un tempo, che risalgono direttamente o indirettamente ai primi apostoli. E' noto un esempio di questo genere di elenchi, in cui si aggiungono alcune note ai titoli dei singoli libri citati, per giustificarne la presenza nella raccolta: il canone di Muratori, che É quello della Chiesa di Roma verso il 200 e che reca il nome dello studioso che lo ha ritrovato nel diciottesimo secolo. A poco a poco, l'elenco portò alla raccolta, e il "Nuovo Testamento" acquistò la consistenza fisica che la "Bibbia" ebraica, ormai definita "Vecchio Testamento" (dal greco "diatheke": alleanza, testamento., andava anch'essa assumendo nella misura in cui i rotoli cedevano il posto ai "codices" nelle biblioteche ecclesiastiche. Contemporaneamente, il doppio canone diveniva oggetto di commentari e fonte di dottrina, alla stregua dei libri della Legge mosaica nel giudaismo. Così, si escludevano i libri eretici, ma anche l'impiego eccessivamente unilaterale di questa o quell'opera o gruppo di opere, come le "Lettere" di Paolo o il "Quarto Vangelo". Il canone andava così progressivamente acquistando lo statuto di norma di dottrina. - Le confessioni di fede. Il canone, però, era stato preceduto in questa funzione dalla confessione di fede ("homologia"., le cui dimensioni ben più ridotte ne rendevano più pratico l'uso nella catechesi e nella polemica. Come tutte le religioni - in particolare il giudaismo e un buon numero delle religioni d'epoca ellenistica - il cristianesimo, fin dai suoi primi anni, era ricorso in varie occasioni a formule sintetiche per esprimere la propria fede e soprattutto le convinzioni relative a Gesù. Gli scritti del "Nuovo Testamento" citano una quantità di testi di questo tipo, riconoscibili per lo stile più o meno ritmato e per il loro vocabolario speciale, anche quando non si presentino espressamente come confessione di fede. Le formulazioni più semplici si riducevano ad affermazioni del tipo Gesù É il Cristo ("Vangelo secondo Marco" VIII, 29; "Prima Lettera di Giovanni" II, 22., o Gesù É il Signore ("Lettera ai Romani" X, 9; "Prima Lettera ai Corinzi" XII, 3.. Sembra che l'impiego di queste formule sia stato di vario genere, dalla confessione culturale degli estatici ispirati dallo Spirito divino, all'adesione individuale del battezzato al momento dell'ingresso nella Chiesa, passando per la polemica contro le prime manifestazioni del culto imperiale, nel corso delle quali l'imperatore veniva acclamato come Signore. Il "Nuovo Testamento" cita anche numerose formule relative al Cristo e nelle quali l'opera del Cristo stesso É esposta in modo più dettagliato, a volte con un normale stile narrativo (libro degli "Atti" II, 22-4; X, 37-41., a volte con antitesi ardite ("Lettera ai Romani" I, 3-4, III, 25-6; IV, 25., a volte ancora con uno stile da inno che suggerisce un impiego liturgico ("Lettera ai Filippesi" II, 5-11; "Prima Lettera a Timoteo" III, 6; "Apocalisse di Giovanni" V, 12.. Accanto a tali formule, nelle quali si parla solo del Cristo, se ne incontrano altre consacrate alla persona di Dio ("Lettera agli Efesini" IV, 6; "Apocalisse di Giovanni" IV, 8. o contemporaneamente a Dio e al Cristo ("Prima Lettera ai Corinzi" VIII, 6.. Si trovano anche, a volte, fin dal primo secolo, delle formulazioni che preannunciano la futura struttura delle confessioni di fede classiche ("Vangelo secondo Matteo" XXVIII, 19; "Prima Lettera ai Corinzi" XII, 4-6; "Seconda Lettera ai Corinzi" XIII, 13..

C'era ormai il terreno pronto, quindi, per il formarsi di confessioni di fede che riassumessero l'insegnamento della Chiesa e definissero lo spartiacque tra l'ortodossia e l'eresia, che le formule cristologiche più semplici non consentivano di individuare. Del resto, queste ultime non scomparvero per questo, come dimostra il frequente ricorso al simbolismo del Pesce, il cui nome greco, "ichthus," era composto dalle iniziali dei termini della confessione "Iesus Christos Theu Yios Soter" (Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore.. Esse però assunsero un valore di testimonianza all'indirizzo dei pagani, mentre le confessioni più articolate prevalsero nell'uso liturgico, catechetico e polemico. L'avvio dello sviluppo della semplice formula trinitaria fece la sua comparsa a metà del secondo secolo nel simbolo (o confessione di fede. battesimale, a cui si riferisce a più riprese nei suoi scritti Giustino Martire. Verso lo stesso periodo, la Chiesa di Roma usava una confessione un po' più articolata ancora, dal momento che i tre articoli vi avevano assunto ciascuno una struttura ternaria: "Io credo in Dio, Padre, Onnipotente, E in Gesù Cristo, suo Figlio Unico, nostro Signore, E nello Spirito Santo, nella Santa Chiesa, nella resurrezione della carne". Verso la fine del secolo, Ireneo di Lione afferma a più riprese l'esistenza in Occidente di una versione di questa confessione di fede in cui il secondo articolo É notevolmente sviluppato e il terzo arricchito con il riferimento alla remissione dei peccati. Lo stesso testo, con qualche piccolissima variante, É citato all'inizio del terzo secolo da Tertulliano di Cartagine e da Ippolito di Roma. Si tratta del simbolo noto sotto il nome di simbolo degli apostoli che É rimasto in uso fino ai nostri giorni. Se lo si indica come apostolico É perché‚ esso rappresenta la sintesi della tradizione apostolica, così come la concepiva la Chiesa di Roma attorno al 180. Accanto a questa confessione di fede romana, o occidentale, esisteva, verso la fine del secondo secolo, un simbolo orientale che si può ricostruire tramite un esame comparativo dei principali simboli del quarto secolo. Questo testo, che aveva la stessa struttura ternaria del corrispondente occidentale, se ne distingueva per l'estrema concisione del terzo articolo, ridotto a una semplice menzione dello Spirito Santo, per una maggiore insistenza sull'attività creatrice di Dio Padre e per l'affermazione, nel secondo articolo, della preesistenza del Cristo e del ruolo nella creazione. Alcune di queste caratteristiche si spiegano con le esigenze dell'apologetica antignostica. La differenza principale tra l'Oriente e l'Occidente in materia di confessione di fede sta nel fatto che il simbolo occidentale, sin dalla fine del secondo secolo, era considerato come un enunciato immutabile, mentre nelle Chiese orientali si accettava l'idea dell'adattamento del simbolo ogniqualvolta le circostanze richiedessero un nuovo enunciato della fede ortodossa. Questo É il sintomo più chiaro dell'intensità delle discussioni teologiche in Oriente, mentre in Occidente si dibattevano soprattutto problemi di disciplina e di organizzazione della Chiesa. - I primi teologi dell'ortodossia. Migliorare le strutture ecclesiastiche, mettere insieme una raccolta di libri sacri, fissare la fede ortodossa in una formulazione precisa: ecco altrettanti strumenti efficaci d'azione per arginare l'ondata delle eresie. Ma gli avversari della Chiesa tradizionale - fossero brillanti teologi, come i dottori gnostici, o terribili semplificatori come i marcioniti e i montanisti - avrebbero finito per travolgere tutti gli argini che gli si frapponevano, se la resistenza e il contrattacco non si fossero collocati anche al livello dell'elaborazione intellettuale. Costringendo la Chiesa a riflettere, per la prima volta dopo Paolo e Giovanni, essi hanno permesso la rinascita della teologia cristiana. Nulla ha contribuito di più al rafforzamento del cristianesimo, che, a metà del secondo secolo, ci si mostrava ancora alla ricerca di s‚ e del suo ruolo nel mondo. I primi teologi fedeli all'ortodossia furono, fin verso la fine del secondo secolo, orientali, così come lo erano stati i grandi eretici, nonch‚ lo stesso Giustino Martire. La Chiesa occidentale accolse molto male la maggior parte di essi, perché‚ ne temeva la duttilità spirituale. Taziano, un discepolo di Giustino, era siriano e non riuscì ad imporsi a Roma.

Teodoro di Bisanzio e Prassea, originario della provincia d'Asia, vennero in Occidente verso la fine del secondo secolo e vi difesero, ciascuno per proprio conto, dottrine cristologiche molto avanzate rispetto a quelle del tempo, ma furono energicamente combattuti dai dirigenti ecclesiastici sospettosi di queste sottigliezze. All'inizio del terzo secolo, Noeto di Smirne, fondatore del monarchianismo - che sottolineava l'unità del Padre e del Figlio - ebbe un grande successo in Asia e poi a Roma, ma non riuscì ad imporre la sua dottrina alle autorità ecclesiastiche. Un orientale, però, riuscì ad imporsi in Occidente come teologo: Ireneo. Nato a Smirne intorno al 140, prete a Lione al momento della persecuzione del 177, divenne vescovo di questa città nel 178. Di lui si conoscono due opere, una "Dimostrazione della predicazione apostolica", che contiene un'esposizione delle verità fondamentali della fede, e soprattutto il trattato "Contro le eresie", la cui punta polemica É diretta contro lo gnosticismo. Il pensiero del vescovo di Lione non sempre É chiaro; i suoi metodi d'esposizione e di polemica sono spesso troppo semplicistici. Egli però sostiene, di fronte agli gnostici e alle loro spesso sfrenate elaborazioni, il partito del buon senso. Il suo linguaggio piuttosto terra terra ha perlomeno il pregio della coerenza. Egli era, tra l'altro, molto adatto al pubblico a cui si rivolgeva e che era lo stesso di quello dei dottori gnostici: i cristiani, sempre più numerosi, che appartenevano per condizione sociale e per cultura alla classe media. Si spiega in tal modo la fortuna della sua opera. Ireneo attribuisce una grande importanza all'autorità della Scrittura e alla chiarezza delle affermazioni fondamentali che vi si enunciano dall'inizio alla fine. La "Bibbia" É sufficiente per conoscere Dio e la sua opera. Ogni speculazione supplementare É vana, sia essa fondata sull'esegesi di qualche testo isolato o su rivelazioni particolari del genere di quelle utilizzate dagli gnostici. Per esempio, É evidente ai suoi occhi che il Dio del "Vecchio Testamento" É quello di Gesù e del "Nuovo Testamento". E' anche perfettamente chiaro che Gesù Cristo, uomo e Dio insieme, non può coesistere con un altro Cristo, come pretendevano gli gnostici. Occorre riconoscere che su queste questioni il buon senso esegetico É dalla parte di Ireneo. Quando il vescovo di Lione afferma l'unità della fede e quella della Chiesa, quando egli sostiene che la Scrittura rivela l'esistenza di un piano divino per la salvezza degli uomini, si può ugualmente dargli ragione, anche se le sue dimostrazioni sono molto semplicistiche. Il tema della ricapitolazione attraverso la Nuova Alleanza di tutto il contenuto dell'Antica É molto più discutibile, benché‚ si basi su elementi di esegesi allegorica del "Vecchio Testamento" che si incontrano già nel "Nuovo". E' però un modo abile di evitare il rifiuto di un "Vecchio Testamento" in cui non si vedrebbe se non una contrapposizione al "Nuovo". Nel complesso, l'impresa di Ireneo ha il grandissimo merito di aver dato alla fede tradizionale la sua prima espressione sistematica, pur sottolineandone con vigore la dipendenza rispetto alla "Bibbia". Fu, peraltro, in Oriente che la battaglia contro le eresie diede maggiori frutti sul piano teologico. Laddove l'Occidente non conosceva se non tentativi infelici o molto conservatori, Alessandria d'Egitto vide la creazione di una vera e propria scuola di teologia, alla cui testa si susseguirono maestri famosi, il cui pensiero, audace e essenzialmente conforme alla fede tradizionale a un tempo, esercitò un'influenza decisiva su tutto l'avvenire del cristianesimo. Il primo capo di questa scuola, di cui conosciamo il nome e che fu probabilmente il fondatore di quest'istituzione, É un certo Panteno, maestro di Clemente Alessandrino. Vecchio stoico, a quanto pare, sembra abbia insegnato attorno al 175, ma la sua opera non ci É stata conservata. Il suo discepolo e successore, Clemente, sicuramente d'origine ateniese, divenne celebre durante l'impero di Commodo (180- 92.; sembra che abbia abbandonato Alessandria per ritornarvi solamente al momento della persecuzione del 202-3. Morì nel 216. Contemporaneo di Ireneo, Clemente Alessandrino se ne discosta per quanto É possibile. Di fronte al polemista di Lione, egli si presenta come filosofo e moralista.

Per il suo stile elegante ma semplice, per la sua abilità retorica, per il suo interesse per la morale di ogni giorno, egli rassomiglia ai sofisti. Egli É il primo autore cristiano i cui libri rispecchino i canoni letterari dell'epoca. Del lungo elenco delle sue opere non rimangono se non pochi frammenti, oltre l'omelia "Sulla salvezza dei ricchi" e soprattutto a una specie di trilogia destinata a guidare l'uomo dall'adesione al cristianesimo alla conoscenza più perfetta: il "Protreptico", il "Pedagogo" e gli "Stromata". Nel "Protreptico" Clemente ricorre al genere classico dell'esortazione a prendere una decisione e lo applica all'adesione alla fede cristiana. Pur polemizzando contro gli dÉi pagani, egli cerca di mostrare la grandiosa unità della rivelazione divina nell'opera dei filosofi, dei poeti e dei loro comuni maestri, i profeti del "Vecchio Testamento". Tutte queste voci convergono sotto la guida del "Logos" divino, manifestato in tutta la sua gloria nella persona del Cristo, per innalzare un cantico armonioso in onore del Dio Padre. Un'eloquenza calorosa e il ricorso a cento argomenti diversi cercano di convincere il lettore ad unirsi a quest'ampio concerto per trovare la strada della deificazione individuale. Nel "Pedagogo", che fa seguito al "Protreptico", Clemente afferma contro gli gnostici che ogni cristiano É uno spirituale in grado di percepire le verità divine. Il Cristo, pedagogo ed esempio perfetto, gli insegna la morale ragionevole che É prescritta a un tempo dal "Logos" e dalla Sacra Scrittura - cioè, in realtà, una morale stoica ammantata da un po' di biblicismo, in cui i consigli pratici occupano altrettanto spazio delle esortazioni morali. Come nell'omelia sulla salvezza dei ricchi, Clemente si rivolge qui a cristiani della classe media per proporre un'etica adeguata alle loro esigenze e che non ha più molto a che vedere con quella di Gesù. La difesa dell'ortodossia si trasforma in una grande e bella operazione di seduzione dei borghesi spaventati dagli eccessi degli gnostici. Con gli "Stromata" si va ancora un po' più in profondità. L'opera, benché‚ divisa in sette libri, non si presenta minimamente come un'opera organica e sfugge alla possibilità di una analisi. Clemente vi sostiene con forza i diritti del pensiero teologico, che la fede popolare spesso e volentieri confondeva con la gnosi eretica. Con lo studio della filosofia greca, il dottore cristiano non fa se non armarsi per difendere e propagare la verità raggiunta attraverso la fede. L'opera, infatti, É in larga misura una confutazione delle eresie e un'esposizione della vera gnosi, culminante nell'unione mistica con Dio. Le dimostrazioni si basano spesso su un'esegesi che vuol essere più ragionevole di quella degli gnostici, ma che resta di un allegorismo così spinto da lasciare intimiditi i dotti cristiani dei secoli successivi. Così, indubbiamente, si spiega la scomparsa delle "Ipotiposi", la principale opera esegetica di Clemente, di cui non resta se non qualche frammento. Nonostante la cultura, il genio letterario e la condizione di privilegio di cui godeva per la presenza di una classe media piuttosto numerosa nella Chiesa di Alessandria, Clemente non É riuscito a operare quella sistematizzazione dell'ortodossia che egli si proponeva ambiziosamente di presentare in un'altra opera che non vide mai la luce. Le circostanze che lo hanno allontanato precipitosamente da Alessandria nel 202 non lo hanno certamente favorito; egli però avrebbe indubbiamente faticato molto, artista e moralista qual era, a imporsi quella rigida disciplina che l'esposizione di un sistema di pensiero richiede. L'onore di essere il primo dogmatico cristiano doveva essere riservato al suo successore, il grande Origene. Origene nacque nel 185 da una famiglia cristiana di Alessandria che godeva di una certa agiatezza. Giovane notevolmente dotato, egli perdette il padre ed i suoi beni durante la persecuzione del 202, quando egli stesso rischiò di morire. Si mise ad insegnare per vivere e conobbe un successo smagliante, a cui reagì con un ascetismo personale così rigido da arrivare al punto di autocastrarsi. Egli aveva sicuramente seguito i corsi di Clemente, ma non si considerò mai suo discepolo. Egli si richiamava a Panteno e soprattutto ad Ammonio Sacca, un filosofo neoplatonico di Alessandria che fu anche maestro di Plotino.

Indubbiamente, molti dei tratti del pensiero di Origene provengono dal neoplatonismo, in quell'epoca molto fiorente. Il giovane maestro rimase stabilmente ad Alessandria fino al 230, tranne alcuni viaggi abbastanza prolungati. Si stabilì quindi a Cesarea di Palestina, dove visse per circa vent'anni. Egli subì terribili prove durante la persecuzione del 249-50 e morì a Tiro nel 254. Gli scritti di Origene sono il riflesso diretto del suo insegnamento, di cui conosciamo metodi e contenuti tramite un suo allievo: Gregorio il Taumaturgo. I principianti ascoltavano dapprima un protreptico inteso a convincerli dell'utilità della filosofia, poi passavano per uno stadio preparatorio durante il quale le loro attitudini venivano messe alla prova e la loro autonomia intellettuale era stimolata dal ricorso a una maieutica di stampo socratico. Un certo tempo veniva poi dedicato allo studio della logica, della dialettica e delle scienze naturali. Si passava quindi all'etica, concepita sia come un tema di riflessione razionale, sia come una forma di educazione dello spirito. Infine, l'insegnamento della teologia coronava quest'imponente "curriculum". Si esaminava e criticava la dottrina di Dio esposta dai filosofi e dai poeti e si concludeva infine con lo studio approfondito della "Bibbia". La filosofia e l'esegesi della Sacra Scrittura sono strettamente collegate in questo programma. Altrettanto vale per la grande opera composta da Origene circa vent'anni dopo l'inizio dell'insegnamento ad Alessandria, il "Trattato dei princìpi" ("Peri archon"., che resta il capolavoro di tutta la teologia cristiana dell'antichità. E' la prima dogmatica in cui il sostrato neoplatonico non impedisca minimamente di tenere nel massimo conto l'insegnamento biblico. La dottrina su Dio che vi si esprime traduce in linguaggio filosofico i concetti scritturali dell'Assolutamente Altro, dell'Eterno, del Creatore. La cristologia pone l'accento sull'eterna generazione del Figlio dal Padre e sul ruolo di tramite tra Dio e il mondo che É quello del Figlio o "Logos", sia nella creazione, sia nella rivelazione. La dottrina dello Spirito resta ancora piuttosto sommaria, ma essa rappresenta un primo tentativo di classificare e sistematizzare i dati biblici. Tutte le creature dotate di ragione partecipano della luce divina e godono del libero arbitrio, grazie al quale possono volgersi verso Dio e verso il nulla. Optando per il secondo di questi atteggiamenti, esse hanno scelto di cadere nell'animalità, già notevole nell'uomo, attratto dal corpo verso il basso. L'anima umana può risalire al regno degli spiriti se si orienta verso il bene, ma può anche scendere fino al regno animale se fa la scelta opposta. Dio non vuole costringerla, per cui ricorre all'educazione per mezzo del "Logos", i cui agenti sono stati i filosofi, ma soprattutto MosÉ e i profeti, nel quadro del popolo ebraico, e Gesù, nel quale si É incarnato il Figlio di Dio. L'anima di Gesù É servita di nesso tra il suo corpo e il "Logos", fino al giorno della Resurrezione, in cui essa si É unita a questo "Logos", una volta sparito il corpo. Ogni cristiano É chiamato a seguire la stessa strada. La croce di Cristo non ha in s‚ alcun valore di redenzione; essa costituisce semplicemente il simbolo della vittoria sui demoni per i comuni credenti che non possono accedere alla conoscenza di Dio e che restano, dunque, allo stadio della fede. Il vero ideale, perciò, É questa conoscenza completa, che i filosofi hanno solamente intravisto, ma che il cristiano può acquisire pienamente se si distacca dalla materia. Essa comprende tutti i misteri del mondo creato, tutti quelli divini, della storia della salvezza che si compirà con la restaurazione universale nella sottomissione a Dio, nonch‚ i misteri degli altri mondi e degli altri cicli storici di caduta e di ritorno a Dio delineati da Origene. Questo vasto sistema, che attinge alla gnosi e al neoplatonismo, É tuttavia compenetrato di linfa biblica, molto più delle opere di Clemente, ad esempio. Origene, infatti, era un esegeta della Scrittura, perlomeno nella stessa misura in cui era un sistematizzatore. Egli fornì un'edizione della "Bibbia" in cui, di fronte al testo ebraico e alla sua trascrizione in caratteri greci, stavano le quattro traduzioni in greco esistenti: quelle dei Settanta, di Aquila, di Simmaco e di Teodozione.

Questa monumentale opera É conosciuta con il nome di "Esapla", per il fatto che si presentava su sei colonne. Ne rimangono soltanto delle copie frammentarie, recanti il più delle volte il testo dei Settanta, con note che riportano le principali varianti delle altre versioni. Questa opera ha costituito il punto di riferimento utilizzato da tutti gli esegeti dell'antichità greca. A questo grande lavoro d'erudizione, che realizzò solamente a Cesarea, Origene aggiunse dei commentari che riguardavano più o meno tutti i libri della "Bibbia", alcuni in forma di omelie dirette a un pubblico vasto, altri molto più approfonditi. L'esempio principale di questi ultimi lavori É il "Commentario sul Vangelo di Giovanni", che per molti secoli rimase un modello di esegesi a un tempo ispirata e dotta. I frammenti superstiti di questi commentari - molto ampi nel caso del "Commentario sul Vangelo di Giovanni" - ci mostrano come Origene seguisse il metodo allegorico, sia per l'interpretazione del "Nuovo Testamento", sia per quella del "Vecchio". Nell'ambiente alessandrino del tempo la cosa era del tutto normale: lo studio dei classici greci, infatti, e soprattutto quello di Omero, avveniva trasponendone allegoricamente il contenuto delle opere, e gli gnostici avevano imposto la loro lettura allegorica di molti libri del "Nuovo Testamento". Il merito di Origene É quello di aver fissato regole precise per il ricorso a tale metodo e di aver mantenuto un legame stretto tra i vari significati che scopriva in ogni testo e il suo sistema teologico, molto più ispirato dalla "Bibbia" che non quello degli gnostici. Dogmatico, esegeta, il grande alessandrino fu anche un'apologista e un polemista di valore. I suoi "Stromata", in cui cercava di mostrare la verità del cristianesimo con argomenti tratti dai filosofi, sono purtroppo scomparsi. A questo scritto, composto in Alessandria, aggiunse nel 248 un "Contro Celso", che ci É stato conservato. Lo scritto di Celso intitolato "Discorso della verità", a cui Origene rispondeva, aveva ormai quasi settant'anni e non aveva, a quanto pare, suscitato molta eco. Restava, tuttavia, l'attacco più penetrante rivolto contro il cristianesimo. La confutazione di Origene, di cui torneremo a parlare a proposito dei rapporti tra il cristianesimo e il mondo circostante, si pone anch'essa a un livello elevato e testimonia la maestria del vecchio teologo di Cesarea. E' comprensibile come un genio della portata di Origene abbia suscitato passioni contrastanti. Egli suscitò ostilità in Alessandria, anche da parte del vescovo Demetrio, che cercò di impedire al teologo di avere contatti con la popolazione cristiana e, a tal fine, gli negò costantemente l'ordinazione sacerdotale. Quando Origene riuscì ad ottenerla in Palestina (verso il 230., Demetrio riunì un sinodo che bandì Origene dall'Egitto e poi un gruppetto di vescovi cristiani che presero a pretesto gli errori di dottrina di Origene per destituirlo dal sacerdozio: una misura che venne approvata da un gran numero di vescovi delle regioni più disparate, ma che venne considerata nulla da quelli di molte delle province orientali, a partire dalla Palestina, dove Origene pot‚ stabilirsi. Il fatto É che Origene, accanto agli odi, aveva suscitato, tra gli allievi soprattutto, straordinari entusiasmi, che in molti casi si trasformarono in amicizie indistruttibili, grazie alle quali il teologo evitò di essere ridotto al silenzio e conservò anche dopo la morte un'influenza molto ampia sull'alto clero d'Oriente. Non É un'esagerazione affermare che si deve ad Origene l'elevato livello di elaborazione teologica di molti dirigenti delle Chiese dell'Oriente greco nel terzo e quarto secolo. Di fronte al gigante di Alessandria e di Cesarea, gli altri teologi dell'epoca appaiono senza importanza. Eppure, tre nomi di pensatori cristiani contemporanei di Origene meritano una certa attenzione: quello del siriano Bardesane, del romano Ippolito e dell'africano Tertulliano. Con loro termina il monopolio teologico degli orientali di lingua greca ed inizia una differenziazione. In effetti Bardesane - nato verso il 155 ad Edessa, dove trascorse la sua lunga vita - era uno scrittore di lingua siriaca (o aramaica, il che equivale., anche se conosceva il greco. Egli ha difeso l'ortodossia, così come la concepiva, contro Marcione e altri eretici. A parte vari frammenti, di lui si conserva un "Dialogo sul destino", nel quale egli sostiene vigorosamente la libertà morale del cristiano nei confronti delle usanze nazionali e dei condizionamenti terreni.

Permanevano sicuramente in lui tracce di dualismo, il che provocò verso il 200 la rottura con il vescovo di Antiochia e l'insediamento ad Edessa di un vescovo scismatico. Ma Bardesane, autore di inni in siriaco molto apprezzati dal popolo, conservò la fiducia della maggioranza. Solo molto più tardi i suoi compatrioti lo annoverarono tra gli eretici, accusandolo di gnosticismo. Si tratta di una semplificazione arbitraria, ma corrisponde al fatto che Bardesane, pur combattendo Marcione, non ha polemizzato contro gli gnostici, diversamente da tutti i confratelli di lingua greca, e certamente non considerava la dottrina di alcuni di loro come incompatibile con la fede cristiana tradizionale. Ippolito di Roma, nato verso il 170, sembra non sia un orientale, pur avendo scritto in greco. Egli É un testimone importante del sorgere di una teologia specificamente romana, che si basa sulla catechesi tradizionale della Chiesa della capitale. La sua biografia, a lungo misteriosa, costituisce ancora oggetto di discussione tra gli specialisti. Presbitero della Chiesa di Roma, Ippolito vi difese vivacemente la cristologia del "Logos" contro il monarchianismo, il quale, confondendo al pari della pietà popolare Dio e Gesù Cristo, creava insolubili problemi teologici, senza neppure averne la consapevolezza. Nel 217, Ippolito ruppe con la Chiesa della capitale, in occasione dell'avvento all'episcopato di Callisto e nonostante la condanna da questi lanciata contro il monarchianismo e il suo esponente principale, il libico Sabellio. Seguito da una parte della comunità, Ippolito venne proclamato vescovo di una comunità scismatica. Nel 235, egli fu deportato in Sardegna insieme con il vescovo della comunità rivale, Pontiano, e vi morì. Continuatore di Giustino Martire e di Ireneo, Ippolito fu un autore fecondo, le cui opere, a lungo perdute o non attribuite a lui, sono state riscoperte nel diciannovesimo e ventesimo secolo e sono sopravvissute per larga parte. Dopo due scritti di sapore apocalittico, "Sull'Anticristo" e il "Commentario su Daniele", suggeriti dalla persecuzione di Severo (202., e accanto a varie opere esegetiche pregevoli per l'assenza di qualsiasi ricorso all'allegoria, egli pubblicò soprattutto la "Tradizione apostolica" (verso il 217., la "Cronaca" e vari trattati teologici, il più importante dei quali É la "Confutazione di tutte le eresie", noto anche sotto il titolo greco di "Philosophumena". La "Tradizione apostolica" É la più antica raccolta liturgica cristiana che conosciamo e ci informa molto esaurientemente sulla vita cultuale della Chiesa romana agli inizi del terzo secolo. La "Cronaca", un quadro di storia universale il cui principale intento era quello di convincere i cristiani che la fine del mondo non era imminente, era solo un'opera di mediocre compilazione, sicuramente ispirata a modelli alessandrini. Quanto alla "Confutazione", che ci informa in modo interessante sullo gnosticismo e sulle altre tendenze teologiche cristiane, essa brilla piuttosto per il vigore polemico e per l'erudizione che la permeano che non per l'originalità del pensiero. Essa mette però in luce quale difficile battaglia dovessero condurre i teologi, coscienti della complessità dei problemi sollevati dagli eretici, di contro all'ingenuo imperialismo della religiosità popolare e degli ecclesiastici che se ne facevano i portavoce. Ippolito cadde ben presto nell'oblio a Roma, dove la Chiesa smise, a partire dalla metà del terzo secolo, di usare la lingua greca, il che corrispondeva, d'altra parte, a un'attenuarsi della vitalità teologica che gli immigrati orientali avevano tenuto desta nella capitale dopo la metà del secondo secolo. Il ricordo dell'ardente polemista romano e l'influenza delle sue opere rimasero vivi solamente in Oriente. La teologia latina dei secoli successivi non vide in lui il precursore cui ricollegarsi e attribuì questo ruolo al contemporaneo Tertulliano. Tertulliano era nato a Cartagine verso il 160, da una famiglia pagana. Egli intraprese in Roma una carriera molto promettente di giurista. Lo si ritrova a Cartagine, diventato cristiano e forse prete, verso il 195. Dopo aver vigorosamente difeso l'ortodossia contro le tendenze eretiche, aderì egli stesso al montanismo nel 205. La sua attività letteraria si protrasse fin verso il 220, ma la fine della sua vita É avvolta nelle tenebre.

Tertulliano, formatosi alla retorica e all'uso del termine preciso, É stato il creatore del latino letterario cristiano, laddove le versioni latine della "Bibbia" che cominciavano a fare la loro comparsa ai suoi tempi non erano ancora se non un modesto calco dell'originale greco. E' stato lui a forgiare termini quali "trinitas" e ad attribuire a "persona" un significato nuovo in funzione di un impiego teologico. In questo compito egli fu sorretto da un personalissimo talento, che eccelle nella formulazione lapidaria e nell'ironia. Queste doti brillanti sono state poste al servizio della causa cristiana con uno zelo senza pari. Tertulliano ha inizialmente svolto opera di apologista. Sin dal 197 egli pubblicò un "Alle nazioni" e un "Apologetico", rivolti l'uno all'opinione pubblica e l'altro ai magistrati, in cui questo giurista sosteneva con forza la causa cristiana. Egli dimostra in queste opere l'assurdità della procedura impiegata contro i cristiani e confuta le accuse lanciate contro di loro, soprattutto quelle di ateismo, di lesa maestà e di sedizione. A questi due trattati apologetici aggiunse, verso il 200-203, un libro "Contro gli Ebrei" e, nel 212, un "A Scapola", che costituisce un violento attacco a un magistrato romano persecutore dei cristiani. Il taglio aggressivo di questa apologetica si ritrova in opere nelle quali egli attacca i costumi pagani: l'indossare la toga ("De pallio"., gli spettacoli pubblici ("De Spectaculis"., il servizio militare ("De corona"., la moda ("De cultu foeminarum"., eccetera. Il secondo aspetto saliente della sua opera consiste nella difesa della vera fede contro gli eretici o gli ecclesiastici colpevoli ai suoi occhi di tradimento. I suoi cinque libri "Contro Marcione" rappresentano la fonte più esauriente di cui disponiamo sul grande eretico, ma costituiscono anche un'energica difesa in favore del cristianesimo. Il trattato "Della prescrizione degli eretici" cerca di mettere fuori giuoco quanti pretendano di restare cristiani pur rompendo con la tradizione e nega loro il diritto di far uso della Scrittura; egli dimostra in tal modo un'accesa ostilità contro la filosofia, fonte di tutte le eresie. Il trattato "Contro Prassea", che risale al 213, É una difesa molto originale del nascente dogma trinitario contro la moda monarchianista che imperava allora a Roma. Verso la fine della sua carriera letteraria, Tertulliano attacca in vari scritti i compromessi accettati dalle autorità ecclesiastiche e in particolare, nel suo "Della penitenza", l'atteggiamento indulgente assunto da Callisto, vescovo di Roma, verso i pubblici peccatori; egli intende conservare un cristianesimo rigoroso, in cui il martirio sia considerato come lo sbocco logico della fede. Tertulliano non É un teologo della profondità di Origene, ma É un oratore di rilievo, di notevole originalità e con una influenza che É stata decisiva sulle sorti del pensiero cristiano latino. Di fronte alla teologia orientale, profondamente caratterizzata dal platonismo e dallo gnosticismo, con nette accentuazioni mistiche e pronta a integrare l'apporto della cultura ellenistica nel pensiero cristiano, egli rappresenta una tendenza molto più critica nei confronti della cultura pagana, molto più diffidente verso la filosofia, tranne forse lo stoicismo, e molto più intrisa di spirito giuridico. La differenza tra le tradizioni greca e latina É già presente in germe in questo contrasto fra la scuola di Alessandria e Tertulliano. Ma tutti i teologi della fine del secondo e della prima metà del terzo secolo sono in anticipo sulle Chiese dei loro tempi. E' uno spettacolo strano vedere questi difensori del cristianesimo tradizionale nel campo del pensiero cadere regolarmente in disgrazia rispetto all'istituzione di cui assicurano le sorti future. - I cristiani all'inizio del terzo secolo. Che cos'erano, dunque, queste Chiese della prima metà del terzo secolo, così ribelli nei confronti del pensiero teologico? Non torneremo sulla loro organizzazione, di cui abbiamo parlato ora, se non per sottolineare la relativa efficacia del sistema a livello locale ed anche, se pur in minor misura, a livello regionale, ma anche per accennare all'assenza di ogni autorità centrale degna di questo nome nelle Chiese cattoliche, mentre

marcioniti e montanisti coordinavano la propria attività per il mondo attraverso un'accentuata centralizzazione. L'unità delle Chiese cattoliche continuava a basarsi sulla fedeltà che tutte mostravano verso la tradizione derivante dagli apostoli e sulla grande rassomiglianza della confessione di fede e del canone di ciascuna di esse con quelli delle altre. Accadeva anche che, di fronte ai pericoli esterni, il sentimento dell'unità cristiana assumesse un respiro ancora più ampio e cancellasse le divergenze di dottrina tra cattolici, gnostici, marcioniti, montanisti ed altri. Di fronte ai persecutori, al fascino della cultura pagana o all'ardore di conquista del giudaismo, l'autore alessandrino della "Lettera a Diogneto" (fine del secondo secolo., molto ben disposto nei riguardi della cultura ellenistica, adotta lo stesso linguaggio dell'estremista Tertulliano alcuni anni dopo: n‚ Ebrei, n‚ pagani, i cristiani costituiscono una nazione nuova e paradossale, la cui presenza in tutti i luoghi offre al mondo una dimensione supplementare e prepara una trasformazione radicale della società. Se i cristiani potevano dunque presentarsi, verso il 200, come l'anima di quel grosso corpo che era la società pagana, ciò É stato possibile per l'espansione del cristianesimo prodottasi per tutto il secondo secolo e approdata a un radicamento molto ampio della nuova fede. Come abbiamo mostrato all'inizio di questo saggio, prima della metà del terzo secolo vi erano cristiani dovunque nell'Impero romano, nei paesi suoi tributari orientali e nell'Impero persiano, che aveva soppiantato nel 226 il vecchio Impero parto. Probabilmente maggioritario in alcune province dell'Asia Minore, con una presenza dappertutto consistente, il cristianesimo aveva cessato di essere una setta piuttosto irrilevante e godeva ormai di un peso notevole dal punto di vista sociale. Le scelte che esso operava avevano ripercussioni sull'intera società. Ma i margini di manovra concessi ai dirigenti ecclesiastici risultavano relativamente ridotti, dal momento che non era più possibile mantenere saldi una serie di princìpi rigorosi fin lì considerati immutabili. Un Clemente Alessandrino, un Tertulliano sono testimoni di questa attenuazione del rigorismo morale tradizionale dei cristiani. Essi condannano il lusso nel vestire, nel mangiare, nelle suppellettili, ma sono costretti ad ammettere come legittime alcune ricercatezze al riguardo. I bagni pubblici non sembrano loro più assolutamente vietati per i cristiani, nonostante essi esprimano ancora parecchie riserve. Gli sport sono considerati utili; gli spettacoli, invece, sono condannati. La ricchezza, la pratica del commercio presentano, agli occhi di questi moralisti, i loro gravi rischi, ma non sono incompatibili con la fede cristiana quando non conducano all'idolatria. Il medesimo rischio incombe, secondo loro, sui cristiani che servano lo Stato come magistrati o come soldati; ma i magistrati e i soldati, assolvendo a una funzione utile, non sono affatto tenuti a rinunciare alla propria attività per diventare cristiani. Del resto, le virtù civiche dei cristiani sono presentate come il sostegno più valido per lo Stato romano. Nella sfera familiare, la fedeltà, la castità, il rifiuto del divorzio, della poligamia, dell'aborto sono altrettanti apporti del cristianesimo alla restaurazione della famiglia romana. L'istruzione dei fanciulli deve essere affidata ai maestri della scuola pubblica, nonostante vi domini l'idolatria; ma l'esercizio della funzione d'insegnante É sconsigliato ai cristiani. In breve, i cristiani non sono chiamati a vivere separati dai pagani che li circondano, ma a mescolarsi con essi nella misura del possibile, per contribuire a quel rinnovamento della società che il paganesimo non É capace di operare. La stessa attenuazione del rigore di un tempo si nota sensibilmente nella prima metà del terzo secolo in fatto di disciplina ecclesiastica. Il problema della remissione dei peccati successivi al battesimo É il più delle volte risolto, in quell'epoca, per via negativa ("Lettera agli Ebrei".. Nella prima metà del secondo secolo, questo problema aveva assunto un'importanza fondamentale agli occhi di Erma, che predicava uno speciale perdono offerto eccezionalmente da Dio ai peccatori cristiani. Esso conservò, successivamente, una particolare acutezza in Roma.

Sembra che un po' dappertutto, agli inizi del terzo secolo, si usasse attenuare nei confronti dei peccatori pentiti il rigore degli antichi princìpi, accettando di intercedere per essi presso Dio direttamente e di riammetterne alcuni nella Chiesa. Il vescovo Callisto di Roma compì un gran passo in avanti poco dopo aver assunto le sue funzioni, nel 217, pubblicando un editto che codificava queste pratiche e affermava con rinnovata chiarezza il potere dei dirigenti ecclesiastici di accordare essi stessi il perdono da parte di Dio. Benché‚ il testo esatto di quest'editto non si sia conservato, sappiamo che esso si applicava innanzitutto ai peccati legati alle questioni del matrimonio o del concubinaggio, dell'aborto, della bigamia. Probabilmente esso prevedeva di impartire un secondo battesimo ai peccatori riconosciuti degni di venire riammessi nella Chiesa. L'editto di Callisto provocò l'appassionata opposizione di Tertulliano e di Ippolito di Roma. Il primo, nel suo trattato "De Pudicitia", sostenne che la fornicazione, l'assassinio, l'apostasia non potevano essere perdonati dagli uomini e che i cristiani colpevoli di tali peccati dovevano essere invitati alla penitenza permanente e dovevano restare fuori della Chiesa fino all'ultimo giorno, nella speranza che Dio concedesse loro misericordia nel giorno del Giudizio Finale. Quanto a Ippolito, egli denunciò nei suoi "Philosophumena" il rovinoso lassismo del suo rivale Callisto, in nome di un'intransigente tradizione che somigliava molto a quella difesa da Tertulliano. Si trattava di una battaglia di retroguardia, che il moltiplicarsi dei cristiani rendeva sempre più vana, finch‚ le persecuzioni sistematiche aumentarono il numero delle apostasie a una cifra tale che la tesi dell'indulgenza finì con l'imporsi completamente (a partire dal 250 circa.. Nonostante questo sviluppo in senso relativamente lassista, la vita dei cristiani degli anni 200-50 restava caratterizzata da un ascetismo e da un'intransigenza fortissimi. Essi praticavano il digiuno in preparazione del battesimo e della celebrazione della Pasqua, ma anche il mercoledì e il venerdì di ogni settimana. Si vestivano semplicemente, evitavano il trucco e i gioielli, rinunciavano ad andare al circo o al teatro. Anche se il matrimonio e la vita di famiglia costituivano la strada da essi seguita nella maggior parte dei casi, il matrimonio con i pagani veniva scoraggiato con tanta forza in ambiente cristiano che alcune dame preferivano contentarsi di un rapporto di concubinaggio con uno schiavo piuttosto che consentire al matrimonio. Il celibato e la verginità per gli uomini e per le donne venivano caldeggiati sempre di più. Le vergini rivestivano, a partire dal terzo secolo, un posto d'onore nella Chiesa e formavano un gruppo a parte. Alcuni estremisti e la quasi totalità dei cristiani dell'interno della Siria esigevano anche l'assoluta continenza dei candidati al battesimo. Infine, i cristiani respingevano ostinatamente qualsiasi atto d'idolatria. Di qui derivava in larga misura la loro ripugnanza per il mestiere di soldato, che i battezzati intraprendevano raramente e di cui vedevano tra l'altro con dispiacere l'aspetto violento. Il rifiuto di associarsi al culto imperiale rendeva loro altrettanto difficile l'esercizio di cariche ufficiali e a volte procurò loro il martirio. Alcuni cristiani estremisti arrivarono a volte a cercarselo, abbandonandosi a vere e proprie provocazioni contro le autorità romane. Per concludere, questi cittadini, leali ma scomodi, la cui personale disciplina e il cui reciproco aiuto in seno alla comunità compensavano l'assenza di organizzazione, nel complesso si preoccupavano molto di più della morale che non della teologia, di testimoniare attraverso le azioni che non di approfondire la dottrina. E' quindi facilmente comprensibile che abbiano potuto fraintendere quegli spiriti audaci che, per la prima volta, provvedevano a sistematizzare gli elementi sparsi della tradizione. - Pietà e spiritualità. Sarebbe, del resto, erroneo considerare i cristiani della prima metà del terzo secolo come dei moralisti aridi e di ristrette vedute. Come i Farisei del primo secolo della nostra Éra o i puritani del diciassettesimo secolo, anch'essi accusati della medesima colpa, questa gente era mossa soprattutto da un'intensa pietà, le cui manifestazioni individuali hanno lasciato tracce importanti. La spiritualità degli individui É la meno facile da cogliere.

Abbiamo detto che il digiuno si praticava due volte la settimana, il mercoledì e il venerdì; la preghiera si recitava più volte al giorno, ad esempio cinque volte, come presso gli Ebrei, al mattino, alle nove, a mezzogiorno, alle quindici e alla sera. Al mattino e alla sera si recitava una preghiera in comune, da parte di quanti potevano riunirsi. La recitazione del Padre nostro rivestiva spesso il valore di preghiera individuale o familiare. Gli scarsi residui della poesia cristiana del tempo - del resto più vicina alla prosa ritmica che alla metrica dotta - ci rivelano un lirismo cristocentrico di qualità abbastanza elevata, sia che abbia per autore Bardesane, Clemente Alessandrino o Melitone di Sardi ("Omelia sulla Pasqua" 100-3.. Le inscrizioni funebri cristiane di quest'epoca parlano soprattutto della vita e della pace che l'unione con il Cristo procurerà ai defunti. L'epitaffio di Abercio, ritrovato a Ierapoli di Frigia, e che risale al 200 circa, contiene anch'esso delle lodi del Cristo, ma si diffonde prevalentemente sulla gioia che si prova ad appartenere alla vasta fratellanza del popolo cristiano, sparso dappertutto. Quest'inscrizione eccezionalmente lunga É scritta in una lingua esoterica destinata ad evitarne la distruzione in caso di persecuzione. Essa ricorre particolarmente ai simboli del Pastore e del Pesce per indicare il Cristo, a quello del sigillo splendente per parlare del battesimo, a quello della regina vestita d'oro per fare allusione alla Chiesa di Roma. L'arte cristiana, che nasce verso la stessa epoca nei cimiteri sotterranei di Roma, ricorre abbondantemente a questi stessi simboli e a un certo numero d'altri, quali il pavone, la colomba, l'ancora, la barca, il pescatore, l'orante. L'origine di queste rappresentazioni É certamente palestinese, per una parte, ma molte di esse presentano un legame con motivi impiegati da pittori e scultori pagani o ebrei non palestinesi. Fanno la loro comparsa scene ispirate al "Vecchio" e al "Nuovo Testamento": le avventure di Giona, di NoÉ, di Daniele; battesimo di Gesù, incontro di Gesù con la samaritana, resurrezione di Lazzaro, eccetera. Esse hanno tutte in comune il fatto che non raccontano una storia sacra riportata di per se stessa, ma episodi nei quali i credenti si sentivano direttamente coinvolti trovandovi la conferma della resurrezione, della liberazione nella persecuzione, della comunione con il Cristo. Insomma, si tratta piuttosto di un'arte devota che di un'arte didascalica, come quella che in seguito le Chiese incoraggeranno. D'altra parte, le catacombe romane - per dare a queste necropoli sotterranee il nome tradizionale che hanno ereditato da una di esse - sono state dapprima scavate in proprietà private, poi affidate ad associazioni funerarie che raggruppavano famiglie che vi celebravano cerimonie commemorative in memoria dei loro morti. Vi si esprimeva, dunque, una pietà privata, al riparo da sguardi indiscreti, ma soprattutto sfruttando il rispetto superstizioso che avevano i Romani per le sepolture. La Chiesa non penetrò ufficialmente nelle catacombe se non in occasione del culto dei martiri, introdotto a Roma molto tardi, nella prima metà del terzo secolo, mentre in Oriente e in Africa esso esisteva già da circa mezzo secolo. Nonostante i rapporti di derivazione di questa nuova devozione dalle commemorazioni domestiche in onore dei normali defunti, essa cessava di appartenere alla sfera della pietà privata. I documenti che ci permettono di conoscere le varie forme del culto celebrato nelle Chiese sono più ricchi di quelli ai quali siamo costretti a ricorrere per farci un'idea della spiritualità individuale. A partire da Giustino Martire, a metà del secondo secolo, abbiamo descrizioni o liturgie delle cerimonie che raccoglievano i cristiani di uno stesso luogo sotto la presidenza del loro vescovo o, in mancanza del vescovo, sotto la presidenza di uno dei presbiteri. Il culto settimanale, celebrato la domenica mattina, era una combinazione tra la cena sacramentale dell'eucarestia e una liturgia ispirata a quella delle sinagoghe. Inizialmente collegata a dei banchetti veri e propri che raccoglievano di frequente la sera i membri della Chiesa locale, l'eucarestia se ne era discostata dappertutto nel corso del secondo secolo. I pasti fraterni erano rimasti nella maggior parte delle Chiese con il nome di agapi, a volte in forma di raduni amichevoli inframmezzati da canti, da letture bibliche e ogni tanto da un'allocuzione, a volte, come a Roma all'inizio del terzo secolo, sotto forma di un pasto o

di una distribuzione di viveri offerti ai poveri da un ricco cristiano e accompagnati da qualche forma di devozione. La domenica mattina, la comunità che si riuniva ascoltava la lettura di passi dei "Vangeli", qualche volta anche dei libri profetici, poi una predica, esattamente come i fedeli che si riunivano nella sinagoga la mattina del sabato, con l'unica differenza che per questi ultimi la lettura della Legge stava al posto di quella dei "Vangeli". Il canto dei salmi accompagnava e alleggeriva questa parte piuttosto didascalica del culto. Poi, allontanatisi i catecumeni e i non cristiani che si trovavano ad assistere, i battezzati celebravano l'eucarestia sotto la guida del vescovo o di un presbitero. Dopo una prima preghiera in comune, la colletta, si scambiavano il bacio della pace, si univano in coro nella risposta alla grande preghiera di rendimento di grazie (in greco "eucharistia". recitata dall'officiante e ricevevano infine dalle mani dei diaconi il pane e il vino allungato con acqua offerti a Dio appena prima. La preghiera eucaristica costituiva il punto culminante del rito. Al di là di variazioni locali di un certo rilievo, quasi ovunque nel terzo secolo la liturgia implicava gli elementi seguenti: il ringraziamento a Dio per aver inviato Gesù Cristo; il ricordo delle parole con cui Gesù aveva istituito la sacra cena nel momento in cui stava per essere arrestato e condotto al supplizio; la presentazione del pane e del vino come offerta del popolo eletto a Dio; la richiesta dell'invio dello Spirito Santo sugli elementi costitutivi del rito e sui fedeli. Offerta fatta a Dio, accompagnata da preghiere che erano sentite come il sacrificio per eccellenza, e consacrata dalla discesa dello Spirito Santo, il pane e il vino eucaristici vennero progressivamente intesi come gli elementi costitutivi del sacrificio cristiano. Fin dall'inizio, la devozione popolare attribuì ad essi un'efficacia quasi magica, allo stesso modo che per tutti i sacrifici pagani. I membri del clero ponevano soprattutto l'accento sulla continuità tra i sacrifici del "Vecchio Testamento" e l'Eucarestia, il sacrificio della Nuova Alleanza. Ciò permetteva loro di evitare gli ambigui accostamenti con le cerimonie pagane, senza con ciò contrastare le convinzioni della gente semplice sull'efficacia soprannaturale del cibo d'immortalità. Ciò facilitava, inoltre, l'assimilazione delle funzioni sacerdotali al sacerdozio dell'Antica Alleanza: il vescovo venne sempre più accostato al sommo sacerdote, i presbiteri ai sacerdoti, i diaconi paragonati ai leviti della legge mosaica. La sacra reverenza di cui cominciavano ad essere oggetto nel terzo secolo il pane e il vino eucaristici costituisce un sintomo abbastanza sicuro del ruolo preminente da essi occupato nella pietà cristiana del tempo. Il problema del rapporto tra questo sacrificio e la morte del Cristo, un tempo presentata nella "Lettera agli Ebrei" come l'unico sacrificio efficace, non sembra si sia posto in questo periodo. Accanto al rito collettivo dell'Eucarestia, i cristiani praticavano fin dalle origini un bagno iniziatico, il battesimo, che segnava per ogni nuovo credente l'ingresso nella Chiesa. Amministrato un tempo a partire dal momento in cui il convertito aveva dichiarato la propria fede nel Cristo, nella seconda metà del secondo secolo il battesimo veniva preceduto da una preparazione dottrinale piuttosto sviluppata. Sin dalla Prima metà del terzo secolo, Ippolito documenta l'esistenza di un periodo di prova di tre anni, durante i quali sicuramente si impartiva ai battezzandi un approfondito insegnamento catechistico. E' l'indice di un afflusso di candidati per i quali era indispensabile un periodo di tirocinio. La cerimonia del battesimo aveva assunto alla fine del secondo secolo i suoi tratti definitivi. Essa si celebrava generalmente nella notte tra il sabato e la domenica, onde permettere al battezzato di partecipare immediatamente all'eucarestia della domenica mattina. Alcune Chiese concentravano tutti i battesimi dell'anno nella notte di Pasqua o nel periodo compreso tra la Pasqua e la Pentecoste. I proseliti digiunavano un giorno o due in preparazione al rito. Vari riti esorcistici allontanavano dall'acqua e dal candidato gli spiriti maligni che eventualmente vi risiedessero. Dopo aver vegliato e digiunato tutta la notte, l'adepto riceveva di primo mattino il battesimo propriamente detto, sempre amministrato in acqua corrente, tranne in caso di impossibilità materiale, ma secondo un cerimoniale piuttosto variabile.

A Roma, all'inizio del terzo secolo, il candidato, svestitosi, rinunciava solennemente ai suoi legami con Satana, veniva unto con un olio sul quale si erano compiuti riti di esorcismo e scendeva in acqua, dove recitava la confessione di fede battesimale che lo obbligava verso il suo nuovo Padrone, e veniva quindi immerso nell'acqua per tre volte da un diacono. All'uscita dall'acqua, egli riceveva ancora un'unzione da un presbitero e si rivestiva per entrare nella vicina Chiesa. Il vescovo gli imponeva subito le mani, lo ungeva e faceva su di lui il segno della croce, per impartirgli lo Spirito Santo, quindi lo accoglieva nella Chiesa. Il nuovo membro veniva ammesso a partecipare immediatamente all'eucarestia in quello stesso giorno e vi riceveva, oltre al pane e al vino, una coppa di latte arricchito con miele, come simbolo del nutrimento celeste che ormai gli era stato promesso. Come i riti di esorcismo, questo rito finale era una derivazione dai misteri pagani, la cui influenza É stata, come vediamo, notevole sullo sviluppo di una cerimonia così semplice come era in origine quella del battesimo. Oltre alla domenica, riservata per tutto l'anno al culto settimanale, la Chiesa cristiana celebrava fin dal secondo secolo varie feste annuali. Essa aveva ereditato dal giudaismo la Pasqua e la Pentecoste, due feste primaverili a distanza di sette settimane considerate più o meno sante. I cristiani di origine ebraica, prima del 70, avevano continuato a celebrare queste festività secondo l'usanza israelita, pur aggiungendovi a Gerusalemme, per l'occasione pasquale, una commemorazione della morte e della resurrezione di Gesù Cristo. Alcune Chiese al di fuori della Palestina avevano adottato fin dal primo secolo questa stessa usanza, pur evitando di associarsi alle cerimonie della sinagoga. L'usanza di celebrare una Pasqua e una Pentecoste cristiane prevalse ovunque prima della fine del secondo secolo. Il carattere gioioso della Pentecoste e delle settimane che la precedevano non É mai stato messo in discussione, dal momento che oggetto della commemorazione erano le manifestazioni del Risorto e la discesa dello Spirito Santo sui discepoli. La disputa pasquale menzionata sopra, invece, mise in luce, tramite la polemica relativa alla data, una divergenza profonda sul significato della festa di Pasqua: commemorazione della morte di Gesù per i quartodecimani, che la celebravano il giorno della Pasqua ebraica, essa aveva invece per le Chiese che la collocavano nella domenica successiva il significato di una rievocazione della resurrezione, preceduta semplicemente da un digiuno il venerdì, che sottolineava il cordoglio provocato dalla Crocifissione, e, in alcuni luoghi, da un digiuno il sabato, su cui ancora si sta discutendo parecchio. Alla devozione un po' cupa e rivolta al passato manifestata dai cristiani dell'Asia Minore, la maggior parte delle Chiese contrapponeva in tal modo una spiritualità più ottimistica e rivolta al presente e all'avvenire. A queste due feste annuali alcune Chiese avevano aggiunto, dopo la metà del secondo secolo, la commemorazione dell'anniversario della morte dei loro martiri. Sembra che quest'usanza sia stata introdotta a Smirne dopo il martirio del vescovo Policarpo, nel 156, ma forse risaliva a un'epoca precedente in Antiochia e data dalla fine del secondo secolo in Africa. A Roma essa compare solo poco prima della metà del terzo secolo. Il calendario delle feste dei martiri di ciascuna Chiesa si venne arricchendo, da allora, di elementi sempre più ampi mutuati dai martirologi delle altre Chiese, il che portò al moltiplicarsi delle commemorazioni di anniversari e alla sovrapposizione, al ritmo settimanale dell'originario anno liturgico, di un andamento irregolare senza rapporti con la settimana. Verso la fine del secondo secolo, avevano cominciato a fare la loro comparsa alcuni santuari cristiani appositamente costruiti ed attrezzati per la celebrazione del culto. Sembra che essi siano andati moltiplicandosi nella prima metà del terzo secolo, senza perdere - nella maggioranza dei casi - l'apparenza esteriore e la disposizione interna delle case private. La pianta basilicale, affermatasi successivamente e derivante dalla struttura architettonica degli edifici pubblici romani, sembra sia stata impiegata raramente prima dell'epoca di Costantino. La decorazione delle chiese, senz'altro modo sobria di norma, consisteva innanzitutto in affreschi dello stesso genere di quelli delle catacombe romane.

Ne conosciamo un esempio particolarmente ricco nella Siria orientale, a Dura Europos, nella chiesa-abitazione che vi venne allestita nel 232. L'affinità di questi affreschi con quelli della vicina sinagoga É molto stretta e dimostra la profondità dell'influenza dell'arte ellenistica profana sulla pittura religiosa ebraica e cristiana. - Culti tradizionali e anticristianesimo. Le Chiese cristiane della fine del secondo secolo e della prima metà del terzo, avendo riportato una vittoria sulla minaccia costituita dall'eresia, sicure di s‚, divenute numerose, con ormai qualche bene al sole e in grado di prender parte al dibattito intellettuale dell'epoca, cominciavano ad avere un peso nella società romana, nonch‚ in quella dei paesi confinanti sulla parte orientale dell'Impero romano. Si comprende, quindi, come i difensori della tradizione culturale e le autorità abbiano a volte reagito energicamente al progresso della fede in Cristo, non diversamente, del resto, da come si erano comportate nei confronti dell'avanzare del giudaismo e di varie altre religioni orientali. Il tradizionale politeismo, che Augusto aveva cercato di rianimare, rimaneva la religione ufficiale dell'Impero romano, ma non aveva più la minima vitalità, nonostante la fusione dei pantheon greco e romano e l'aggiunta, alle sue antiche forme di devozione, del culto degli imperatori divinizzati di Roma e di divinità astratte come la Fortuna, la Speranza, la Concordia, la Vittoria. Gli ambienti colti si limitavano per lo più a una specie di fede filosofica ispirata allo stoicismo, e poi al neoplatonismo, che, quando approdava ad affermazioni di ordine religioso, sosteneva l'unità del Divino, al di là dei vari nomi degli dÉi e di tutti i culti particolari. Questo monoteismo naturista culminò nel culto del sole che, dopo un tentativo infelice ai tempi dell'imperatore Elagabal o Eliogabalo (218-22., divenne in seguito l'ultima forma di un certo vigore della religione greco-romana. Possiamo anche citare la venerazione religiosa di cui fu oggetto nel terzo secolo, dopo che all'inizio del secolo ne era apparsa la biografia, Apollonio di Tiana, filosofo e mago del primo secolo: questo pitagorico, imbevuto di tutta la saggezza orientale, veniva presentato come un adoratore del Sole. Press'a poco in tutte le province dell'Impero, i culti locali conservavano la loro attrattiva per la maggioranza della popolazione. Ma solo alcune religioni orientali erano riuscite ad uscire dal loro orizzonte originario e ad adattarsi agli ampi spazi aperti dal rimescolamento delle popolazioni provocato dall'imporsi della "pax romana": il culto di Cibele, proveniente dalla Frigia, quello di Iside, originario dell'Egitto e quello di Mitra, proveniente dalla Persia, sono i più importanti. Ad essi va aggiunto il giudaismo, che esercitava sicuramente un'attrazione su molti non-Ebrei di quell'epoca. In genere tollerate, talvolta sottoposte a persecuzioni locali, queste religioni furono oggetto, una dopo l'altra, di temporanei favori imperiali. Le autorità, infatti, non potevano trascurare l'appoggio che una religione ancora vigorosa poteva conferire alla loro forza. Questi vari tentativi incontrarono enormi difficoltà e vennero lasciati cadere dopo pochi anni. La situazione non era ancora matura. Questo vale anche per l'inizio di avvicinamento che si delinea tra cristianesimo e potere imperiale sotto Filippo l'Arabo (244-49., fosse egli cristiano o non lo fosse. Era ancora troppo presto per sostituire una religione venuta dall'Oriente al vecchio politeismo classico nella sua funzione di cemento dell'unità dell'Impero. E' quanto, d'altro canto, conferma - in assenza di qualunque reazione organizzata da parte dei sostenitori dei culti tradizionali - la violenza delle polemiche sollevate contro il cristianesimo dagli adepti della fede filosofica cui abbiamo accennato sopra. Evitando lo sdegno di un Marco Aurelio e i sarcasmi di un Luciano, un alto funzionario romano dotato di buona preparazione filosofica, Celso, aveva pubblicato verso il 180, con il titolo di "Il discorso della verità", una confutazione in piena regola del cristianesimo. Il suo trattato, che É andato perduto, si può oggi ricostruire interamente grazie alle citazioni che ne ha fatto Origene nel suo "Contro Celso".

Assai ben documentato, anche rispetto allo gnosticismo, Celso criticava in primo luogo il "Vecchio Testamento", un insieme di leggende primitive, che non si potevano salvare con un'interpretazione allegorica. Se la prendeva, quindi, senza alcuna indulgenza con Gesù, un bastardo e un volgare mago privo di coraggio; poi con la Resurrezione, una favola assurda; infine, con i predicatori cristiani, nemici della sapienza e seduttori degli ignoranti. In conclusione, egli faceva appello alla lealtà dei cristiani, invitandoli a dar prova di senso civico nei confronti dell'Impero. Circa settant'anni dopo, Origene cominciò a replicare a Celso, il cui scritto del resto non aveva suscitato una grossa eco, ma le cui accuse diventavano fastidiose nel momento in cui, grazie all'imperatore Filippo, il cristianesimo poteva sperare di guadagnare alla sua causa le classi dirigenti. Il suo "Contro Celso" comincia col riaffermare la validità della fede dei semplici e della saggezza cristiana che concorda con essa. Origene difende poi con foga i profeti, i "Vangeli" e il ritratto che essi forniscono di Gesù, la Resurrezione del Cristo. L'espansione del cristianesimo e la profondità del cambiamento provocato dalla fede nei convertiti dimostrano come Dio operi per questa via nel mondo. Perseguitati ma protetti da Dio, come potrebbero i cristiani non mantenere un atteggiamento di riserva nei confronti dell'Impero pagano? In attesa della conversione dell'Impero, essi continueranno a diffondere la parola di Dio e a fare il bene. Con Plotino e Porfirio, la resistenza filosofica alla minaccia cristiana si fece ancora più intransigente. Plotino, nato in Egitto verso il 205, allievo del filosofo Ammonio Sacca ad Alessandria dal 233 al 244, stabilitosi poco dopo a Roma, dove visse fin verso il 270, É l'esponente più importante del neoplatonismo. La sua filosofia presenta una forte coloritura religiosa ed apparve ben presto come l'espressione compiuta della spiritualità degli ambienti colti che si rifiutavano di rompere con la religione classica. Il monismo ottimistico che contraddistingue il suo pensiero lo pose fin dall'inizio in conflitto con il cristianesimo, soprattutto nella sua forma gnostica, profondamente dualista. Plotino si rifiutò a lungo di mettere per iscritto le sue idee, poi provò a farlo a partire dal 255 circa. Nel 264 - sembra - egli pubblicò un trattato "Contro gli gnostici", nel quale sosteneva con forza la bellezza, l'equilibrio e l'eternità del mondo sensibile, unitamente a una morale basata sull'accettazione da parte dell'uomo del suo posto nella natura e sulla conoscenza dell'etica filosofica classica. Pur non essendo attaccato direttamente, il cristianesimo ortodosso veniva anch'esso toccato da alcune di queste critiche. Nell'opera di Porfirio, discepolo di Plotino ed editore delle opere di quest'ultimo (234-305 circa., la polemica contro il cristianesimo ortodosso É più diretta, soprattutto nel trattato "Contro i cristiani", pubblicato verso il 275 e di cui restano purtroppo soltanto dei frammenti. Ben prima di questa data e prima ancora dell'incontro con Plotino nel 263, Porfirio aveva però assunto la difesa del paganesimo tradizionale nelle sue forme più discusse, contro gli attacchi cristiani: i suoi trattati sulla "Filosofia degli oracoli" e sulle "Immagini degli dÉi" sono interamente rivolti a giustificare filosoficamente gli oracoli e gli idoli, che i filosofi avevano fin lì criticato senza pietà. Di fronte ai progressi del cristianesimo, i sostenitori della cultura tradizionale serravano i ranghi. Le reazioni popolari suscitate dalla rapida espansione della fede cristiana erano di un altro ordine. Dopo il primo secolo, una diffusa ostilità nei confronti del cristianesimo si era andata aggiungendo all'ostilità al giudaismo già notevole ovunque si fossero stabilite colonie ebraiche importanti. L'autonomia comunale ancora piuttosto ampia che si conservava nei paesi di lingua greca nel secondo secolo e nella prima metà del terzo secolo permetteva spesso che tali agitazioni portassero alla comparizione dei cristiani di fronte all'assemblea del popolo, la cui sovranità non si curava troppo di sottigliezze giuridiche quando si trattava di punire dei non conformisti così impopolari.

Difficilmente i governatori romani potevano cassare sentenze evidentemente approvate da tutta l'opinione popolare, o anche solo resistere alla pressione di questa, quando la questione veniva direttamente rimessa nelle loro mani. Eppure, ancora non esisteva alcuna legislazione imperiale contro i cristiani, nonostante le affermazioni in contrario ad esempio di un Tertulliano. Sembra che vi fosse semplicemente una certa giurisprudenza, alla quale gli imperatori, perlopiù, rinviavano i funzionari: quando essi venivano indotti ad agire contro i cristiani dalla pressione dell'opinione pubblica o dalla molteplicità delle denunce, essi dovevano sottoporre a un'inchiesta i sospetti di appartenere alla religione del Cristo e, in caso di confessione, esigere da essi un sacrificio davanti alle immagini degli dÉi e dell'imperatore; il rifiuto poteva provocare la pena di morte, dal momento che costituiva un atto di ribellione aperta, che i responsabili dell'ordine pubblico avevano il dovere di punire senz'alcuna pietà. Si spiega così la strana situazione dei cristiani nell'Impero romano fino all'inizio del terzo secolo: impopolari, ma generalmente tollerati; mai sistematicamente perseguitati, ma esposti in ogni momento al rischio di subire il supplizio mortale, se fosse venuto in mente a qualcuno di denunciarli alle autorità locali. Siamo ben lontani dal conoscere tutti gli incidenti di questo genere che si sono verificati nelle varie province dell'Impero e che hanno puntualmente provocato alla Chiesa locale perdite crudeli, a causa di supplizi, condanne al lavoro nelle cave, apostasie. Grazie alla consuetudine, che le Chiese adottarono a poco a poco, di onorare i propri martiri (testimoni., trascrivendo il resoconto del loro processo e della loro morte, ci sono noti un certo numero di casi particolarmente drammatici: martìri di Policarpo, vescovo di Smirne, nel 156; di Giustino il filosofo, a Roma, verso il 165; di Carpo e Papila, a Pergamo, sempre verso il 165; di numerosi cristiani di Lione e Vienne, in Gallia, nel 177 (il vescovo Potino, l'umile schiava Blandina e tanti altri.; di molti cristiani di Scilli in Africa, nel 180; di Perpetua, Felicita e quattro loro compagni, nel 202 a Thuburbo Minus, in Africa. Gli "Atti" di questi antichi martiri, pur conformandosi a certe usanze letterarie già stabilite, presentano ancora un'eccezionale freschezza. Essi lasciano trasparire in modo fantastico l'entusiasmo con cui i martiri affrontavano il supplizio, anche quando questo assumeva la forma particolarmente degradante della morte nell'arena sotto gli assalti delle belve e di fronte a una folla scatenata. Essi consentono anche di capire di quale singolare prestigio e autorità godessero, prima e dopo la loro uccisione, questi testimoni della fede, che i loro fratelli cristiani consideravano come i beneficiari di un'eccezionale ispirazione divina, paragonabile a quella dei profeti e degli estatici del primo secolo. Dopo il secondo secolo, nonostante la mancanza di qualsiasi legislazione imperiale, le disposizioni dirette dell'imperatore o dei membri del suo "entourage" immediato hanno talvolta contribuito ad aggravare o a facilitare la situazione dei cristiani. Marc'Aurelio, imperatore dal 161 al 180, non sembra abbia fatto qualcosa per attenuare gli effetti delle persecuzioni promosse in parecchie province contro le Chiese. Commodo, che gli succedette dal 180 al 192, graziò alcuni cristiani spediti nelle miniere della Sardegna; la sua favorita, Marcia, aveva difeso presso l'imperatore la causa di costoro. Ma il problema cristiano all'inizio del terzo secolo cominciava a richiedere uno sforzo più coerente da parte dell'autorità imperiale. Vennero adottate una serie di misure legislative; a poco a poco, alle misure locali di polizia si sostituì lo scontro tra il potere e le Chiese. Nel 202, l'imperatore Settimio Severo promulgò un editto che vietava qualsiasi proselitismo agli ebrei e ai cristiani. La scuola catechistica di Alessandria fu costretta a chiudere e Clemente dovette lasciare definitivamente la metropoli egiziana. Origene, che aveva ripreso in mano la fiaccola, sfuggì alla morte per un pelo. Ad Alessandria, in Africa, in Cappadocia, probabilmente in Frigia, in Gallia e a Roma si ebbero persecuzioni contro numerosi catecumeni, un certo numero dei quali fu messo a morte negli anni successivi alla promulgazione dell'editto. Una nuova fiammata di persecuzioni si manifestò in Africa nel 211-3, sotto il proconsole Scapula, combattuto da Tertulliano, e si estese fino alla Numidia e alla Mauritania. Senza essere espressamente abrogate, le misure di Settimio Severo cessarono di essere applicate sotto i regni di Eliogabalo (218-22. e di Alessandro Severo (222-35., la cui

propensione per il più largo sincretismo mal si sarebbe accordata con delle iniziative anticristiane. Le Chiese cristiane si videro anche riconoscere dal secondo di questi imperatori la facoltà di stare in giudizio e di disporre di beni. L'imperatore Massimino, salito al trono nel marzo del 235 in seguito a un colpo di Stato militare, adottò un atteggiamento opposto e cercò di travolgere le Chiese cristiane, perseguitandone i capi e i luoghi di culto. Venivano presi di mira soprattutto i vescovi, ma tutti i presbiteri e i diaconi che occupassero una posizione di primo piano vennero anch'essi a trovarsi sotto la minaccia di morte. Sembra che l'editto di Massimino sia stato applicato con una certa elasticità. I vescovi delle due Chiese rivali tra le quali si suddividevano i cattolici di Roma, Ponziano ed Ippolito, vennero spediti nelle miniere della Sardegna, dove morirono non senza essersi prima riconciliati. Pare che pochi altri vescovi siano stati raggiunti dalla persecuzione. In alcune province vennero incendiate delle chiese e alcuni ecclesiastici noti furono imprigionati e in qualche caso messi a morte. Ma la repressione non fu rigida se non in Cappadocia e nel Ponto; il legato della prima di queste province approfittò delle circostanze per moltiplicare le esecuzioni capitali di cristiani che non rivestivano incarichi ecclesiastici. Massimino fu assassinato nel 238 e i suoi successori lasciarono cadere in desuetudine l'editto. Uno di essi, Filippo l'Arabo (244-9., si mostrò addirittura molto favorevole nei confronti dei cristiani. Ma l'avversione popolare per il cristianesimo non per questo aveva ceduto le armi. Accadde così che Alessandria conobbe verso la fine del 248 e l'inizio del 249 violenti moti anticristiani, durante i quali molti fedeli vennero assassinati dopo essere stati orribilmente maltrattati, mentre molti altri dovettero la propria salvezza alla fuga. Numerosissime case di cristiani vennero saccheggiate durante questa crisi, che rimase circoscritta e nel cui svolgimento le autorità svolsero inizialmente un ruolo molto modesto. Se la prima metà del terzo secolo vide soltanto timidi interventi imperiali contro i cristiani, essa però non arrecò alcun miglioramento stabile alla delicata situazione di questi in seno alla società romana. Da un giorno all'altro avrebbe potuto scatenarsi la persecuzione più brutale contro di essi in una qualsiasi città o provincia. Ma il numero sempre crescente dei cristiani trasformava queste esplosioni in problemi di Stato, che le autorità non potevano più prendere alla leggera senza mettere in pericolo la pace civile. Sviluppandosi, salvaguardando perlopiù la loro unità, combinando la loro intransigenza di fondo con un certo sforzo di assimilazione, le Chiese erano progressivamente diventate una potenza di cui l'imperatore sarebbe stato costretto a tenere il massimo conto. Esse non rivestivano la medesima importanza nell'Impero parto, ormai in declino. Disturbate dai loro rapporti con la cultura greca e dalle divisioni interne tra marcioniti, gnostici, ortodossi di diversa osservanza, le Chiese cristiane conducevano allora una vita precaria, verso il 220, dalla Mesopotamia alla Battriana. Il sostituirsi della dinastia sassanide agli imperatori parti, a partire dal 226, permise ad esse di uscire un po' dalla clandestinità e di accrescere la propria influenza. Ma si scontrarono ben presto con la nuova religione fondata da Mani (216-77., a cui andò completamente il favore di Sapore Primo, imperatore dal 241 al 272. La rapida espansione del manicheismo - una sorta di gnosticismo - non pose, peraltro, fine al progresso del cristianesimo in tutto l'Impero persiano, al punto che, verso la metà del terzo secolo, anche questo Stato cominciava ad essere costretto a definire una propria politica nei confronti della religione cristiana. I due Imperi che si contendevano il Vicino Oriente riuscirono ad assumere una posizione definitiva nei confronti del cristianesimo solo dopo tutta una serie di gravi scombussolamenti. La seconda metà del terzo secolo e i primi decenni del quarto furono caratterizzati, in entrambi gli Imperi, dai mutamenti più repentini in proposito, ma anche, in ultima analisi, dai mutamenti più decisivi per il futuro delle Chiese. 5. LA CHIESA E LO STATO (DAL 250 AL 325..

Fin dall'inizio del terzo secolo, lo Stato romano cercava di risolvere quello che cominciava a delinearsi come il problema cristiano. Ma le prime iniziative in proposito, favorevoli o meno che fossero per il cristianesimo, erano ancora ben lungi dal costituire una politica in grado di risolvere i problemi posti dalla diffusione di questa religione, difficilmente assimilabile. Era necessario distruggerla o integrarla nel sistema, pena dover assistere al crollo di questo, già scosso per la mancanza di un cemento ideologico capace di giustificarne la stessa esistenza. L'imperatore Decio, vincitore e successore nel 249 di Filippo l'Arabo, ebbe il grande merito di rendersi conto di questo e di ricavare tutte le implicazioni dalla sua analisi della situazione. Energico capo militare, nato in Pannonia inferiore da una famiglia romana, egli volle essere il restauratore dell'Impero e l'intransigente difensore delle tradizioni nazionali. Appena tre mesi dopo la sua vittoria su Filippo, egli promulgò (alla fine di dicembre del 249 o agli inizi di gennaio del 250. un editto drastico contro i cristiani. Benché‚ il testo sia andato perduto, se ne può agevolmente ricostruire il contenuto. In ogni località dell'Impero, una commissione, composta a quanto pare di cinque persone, aveva il compito di convocare tutti gli abitanti, comprese le donne e i fanciulli, e di imporre loro, tranne forse gli stranieri, di compiere un gesto di culto sugli altari degli dÉi ufficiali, fosse anche semplicemente un'offerta d'incenso davanti alla statua dell'Imperatore. Tutti coloro che si piegavano a questa formalità ricevevano un certificato, un "libellus", un certo numero di esemplari del quale ci É stato conservato dalle sabbie del deserto egiziano. Coloro che non si presentavano alla data prevista, o che rifiutavano per un verso o per l'altro di associarsi ai culti ufficiali, erano richiamati all'ordine e sottoposti dalla commissione responsabile a ogni sorta di pressioni: minacce varie, prigionia ed anche torture. Le autorità puntavano piuttosto ad ottenere l'abiura dei cristiani - ai quali la disciplina ecclesiastica vietava ogni partecipazione a un culto pagano - che non ad imporre un vero e proprio conformismo religioso o a soffocare le Chiese in un bagno di sangue. Quest'abile manovra condusse a dei successi straordinari. Da un capo all'altro dell'Impero si videro innumerevoli cristiani accettare di sacrificare agli dÉi ("sacrificati". o di bruciare l'incenso di fronte alle immagini degli dÉi o dell'imperatore ("thurificati".. Altri si fecero iscrivere nei registri o rilasciare certificati. dalle commissioni competenti, vuoi per compiacenza, vuoi per danaro (libellatici.. Vi furono anche dei vescovi che accondiscesero ad atti così incompatibili con la fede cristiana; si conoscono due casi del genere, uno in Spagna e uno in Asia. Tutti coloro che accettavano questi cedimenti o queste ritirate si trovavano automaticamente espulsi dalle Chiese, i cui effettivi subirono per questo una riduzione impressionante in pochi mesi. Ma la brutale ed abile offensiva lanciata da Decio incontrò alcuni ostacoli difficili da superare. In certe regioni, come l'Egitto, alcuni cristiani se ne fuggirono sulle montagne e nel deserto, o vennero nascosti dai contadini, oppure, come il vescovo Dionigi di Alessandria, vennero liberati di prigione da squadre armate. Altrove, le autorità esitarono a giustiziare i cristiani che non erano stati piegati n‚ dalla prigionia n‚ dalla tortura: fu questo il caso di Origene, a Cesarea di Palestina, per esempio. Altrove, ancora, numerosi cristiani preferirono la morte all'abiura che si richiedeva loro e, con il loro sacrificio eroico resero delicata la posizione delle autorità nei confronti di un'opinione pubblica che spesso finiva per essere turbata dal sangue. Accanto a molti martiri sconosciuti di questo anno 250, molte delle vittime della persecuzione di Decio hanno lasciato un nome nella storia, grazie soprattutto ai numerosi "Atti" dei martiri conservati devotamente dalle Chiese dopo questa terribile crisi. Anche se i cristiani della Gallia sono stati - a quanto pare - relativamente risparmiati, i vescovi Dionigi di Parigi e Saturnino di Tolosa furono messi a morte. In Spagna, non si conosce neppure un martire sotto Decio; ma in Africa vi furono vittime che soccombettero sia per la tortura sia per la fame nelle prigioni. A Roma, il vescovo Fabiano fu giustiziato fin dal 20 gennaio del 250; il prete MosÉ morì poco dopo in prigione e vari laici furono messi a morte nel corso dell'estate dello stesso

anno (Calogero e Partenio, membri della famiglia imperiale; i persiani Abdon e Sennenè eccetera.. Nel resto d'Italia, come pure in Epiro, in Grecia, nelle isole greche vi furono certamente dei martiri, anche se gli accenni o i racconti che li segnalano mancano purtroppo di attendibilità storica. In Anatolia si ebbero numerose vittime in tutte le province: le più note furono: a Smirne, il prete Pionio; a Efeso, i Sette Dormienti murati vivi; a Pergamo, il vecchio Carpo; a Mitilene, l'impetuoso Poliuto. I vescovi Babila di Antiochia e Alessandro di Gerusalemme morirono in prigione. In Egitto fu soprattutto la gente semplice a pagare con la vita, con supplizi crudeli, la propria fedeltà al cristianesimo. Non É possibile elencare con certezza i martiri di questo anno 250: furono parecchie centinaia, forse qualche migliaio. Intorno alla fine del 250, l'eroismo dei martiri e la fermezza dei confessori imprigionati determinarono un attenuarsi della persecuzione. Vari prigionieri vennero rilasciati senza che avessero ceduto e, non essendo stato rinnovato l'ordine di fare i sacrifici, la pressione sui recalcitranti diminuì a poco a poco, per sparire completamente verso la fine dell'estate del 251. La morte di Decio durante una battaglia contro i Goti portò a liberare, in quella circostanza, molti degli ultimi detenuti cristiani, tra i quali Origene. Una terribile epidemia di peste indusse, d'altro canto, l'imperatore Gallo a ordinare ovunque grandi sacrifici per placare la collera degli dÉi. Poich‚ i cristiani si rifiutarono, ancora una volta, di associarsi a cerimonie che consideravano come atti di idolatria, l'opinione pubblica si sollevò da varie parti contro di essi. Si ebbero dei torbidi, verso l'inizio del 252, in Africa, ad Alessandria e forse anche altrove, nel corso dei quali alcuni cristiani vennero sottoposti ad angherie. Ma le autorità si comportarono in modo molto meno duro del 250: il vescovo di Roma, Cornelio, venne semplicemente esiliato a qualche lega da Roma; quando morì, un anno dopo, il suo successore, Lucio, subì la medesima pena, piuttosto mite. E' vero che i cristiani della capitale avevano manifestato in massa davanti al tribunale che giudicava Cornelio. Non poteva esserci miglior sintomo del fallimento del grande attacco lanciato da Decio contro il cristianesimo. La nuova fiammata di persecuzioni non durò, del resto, oltre l'inizio del 254, anno in cui Lucio pot‚ rientrare a Roma. L'imperatore Valeriano, giunto al potere durante l'estate del 253, si mostrò, infatti, relativamente ben disposto verso i cristiani nei primi quattro anni del suo impero. Ma le difficoltà politiche, militari e finanziarie che andavano aumentando lo sospinsero, a partire dal 257, verso una politica di repressione anticristiana del tipo di quella di Decio, con il quale, del resto, questo aristocratico romano molto attaccato alla tradizione nazionale aveva parecchi punti in comune. Come nel 250, le Chiese cristiane dovettero far fronte a un'offensiva generale mirante ad eliminarle completamente in tutto l'Impero romano. Ma, questa volta, le misure adottate vennero studiate in modo da non violentare troppo apertamente la libertà di coscienza; si trattava piuttosto di rovinare le Chiese senza suscitare l'intransigente resistenza della gente semplice e la simpatia dell'opinione pubblica, che avevano determinato l'insuccesso di Decio. Nell'agosto del 257, un primo editto prescrisse ai vescovi, preti e diaconi, di sacrificare agli dÉi dell'Impero, pena il bando, e proibì a tutti i cristiani, pena la morte, le assemblee di culto e le riunioni nei cimiteri. Abbiamo informazioni imprecise sull'applicazione di questo testo. Vi furono in Numidia e in Africa dei cristiani condannati a morte o ai lavori forzati nelle miniere per aver tenuto assemblee; Cipriano e Dionigi vescovo di Alessandria, furono esiliati per essersi rifiutati di compiere sacrifici. Dal momento che queste misure non bastarono a scardinare le Chiese, venne promulgato un secondo editto verso la metà del l'anno 258: i vescovi, i sacerdoti e i diaconi che si fossero rifiutati di offrire un sacrificio agli dÉi sarebbero ormai stati passibili della pena di morte; i senatori e i cavalieri cristiani avrebbero subito la confisca dei beni e non avrebbero potuto salvare la propria testa, se non avessero abiurato; le donne di questa stessa classe avrebbero perduto il proprio patrimonio se fossero appartenute alla Chiesa e

sarebbero inoltre state esiliate se non avessero abiurato; quanto ai dipendenti imperiali, sia a corte, sia nei domini dell'Impero, essi sarebbero stati condannati ai lavori forzati in quegli stessi domini e privati di ogni loro bene se avessero fatto professione di fede cristiana. Questo secondo editto venne applicato rigorosamente. A Roma, il vescovo Sisto secondo e vari diaconi, tra cui Lorenzo - reso celebre dalla leggenda della sua morte su una graticola -, vennero giustiziati ai primi di agosto del 258, senza aver consegnato i tesori della Chiesa. Altri sacerdoti e alcune donne dell'aristocrazia subirono in seguito la stessa sorte. La Gallia ebbe sicuramente qualche martire, ma i testi che potrebbero permetterci di accertarlo sono poco sicuri; l'unico martirio accertato sicuramente É quello di Proclo, a Troyes. La Spagna vide perire il vescovo Fruttuoso di Tarragona e molti dei suoi diaconi. In Africa, la persecuzione fu particolarmente sanguinosa. A partire dal 24 agosto del 258, si ebbero delle esecuzioni in massa, una a Lambesa in Numidia, dove occorsero al boia parecchi giorni per mettere a morte tutti i compagni del diacono Giacomo, e l'altra ad Utica, dove il vescovo Quadrato perì attorniato da un gruppo nutrito di fedeli, la "Massa Candida", che la leggenda fa morire in una fossa di calce viva. Vi furono anche molte altre vittime, le più note delle quali furono Cipriano, vescovo di Cartagine, giustiziato il 14 settembre del 258, Lucio e Montano, messo a morte a Cartagine il 23 maggio 259 insieme a molti compagni. La persecuzione si protrasse molto attivamente fino a gran parte dell'anno 260. Disponiamo di meno notizie sull'applicazione dell'editto del 258 in Oriente: vi furono martiri in Palestina, in Egitto, in Licia, in Cappadocia e forse in altre province. La cattura dell'imperatore Valeriano ad opera dei Persiani (nell'estate del 260. condusse sul trono il figlio Gallieno, già affiancato al potere, che dovette patire tutte le pene di questo mondo per far fronte alla terribile crisi che la sconfitta del padre aveva provocato nell'Impero, e che non era un uomo da adottare misure troppo rigide. Non c'É da meravigliarsi che egli abbia ordinato prestissimo che si interrompessero le persecuzioni contro i cristiani e che poi, tramite vari rescritti, abbia concesso ai vescovi che glielo chiedevano la restituzione dei beni ecclesiastici confiscati e l'autorizzazione a rientrare dall'esilio per tornare ad assumere le proprie funzioni alla testa della Chiesa. La tolleranza di fatto di cui il cristianesimo aveva goduto durante quasi tutta la prima metà del terzo secolo assumeva, dunque, una veste ufficiale, che si mantenne per più di quarant'anni. Il duplice tentativo promosso dalle autorità imperiali durante il decennio 250-60 per eliminare completamente il cristianesimo dall'Impero romano finiva paradossalmente con un certo rafforzamento della posizione morale e legale delle Chiese. Esse, però, avevano sofferto molto per i due attacchi subiti. Come abbiamo accennato sopra, il numero dei cristiani che cedettero durante il terribile anno 250 fu considerevole. Questi "lapsi", sia che avessero sacrificato agli dÉi, sia che avessero semplicemente ottenuto un certificato compiacente che consentiva loro di sfuggire alla persecuzione, si erano posti al di fuori della comunione cristiana. Alcuni - soprattutto quanti avessero una fortuna o una carriera da salvaguardare - vi rimasero definitivamente. Ma la maggioranza tornò a battere alle porte della Chiesa, appena fu chiaro che questa non avrebbe completamente ceduto all'assalto scagliatole contro. Si pose, perciò, un difficilissimo problema disciplinare a delle Chiese stremate, la cui tradizione d'altra parte aveva sempre respinto la riammissione degli apostati pentiti, che venivano messi ai margini in uno stato di penitenza perpetua. Ma si potevano lasciare i tre quarti dei cristiani fuori della porta di una Chiesa ormai priva dei suoi membri più attivi? In effetti, le persecuzioni di Decio e di Valeriano, pur avendo provocato poche migliaia di vittime, avevano decapitato le Chiese. Erano periti parecchi vescovi, insieme ad alcuni sacerdoti e diaconi. Numerose comunità locali si trovarono completamente disorganizzate per due o tre volte nel giro di dieci anni. Anche nel caso in cui il vescovo fosse solamente in esilio o nascosto, gli era difficile comunicare con il suo gregge completamente sbandato. Insomma, il suo posto come responsabile della disciplina e del culto andava rimpiazzato, specie se il suo esilio si protraeva e se la sua successione, in caso di morte, avrebbe potuto provocare delle rivalità.

Al centro di questa confusione, aggravata ulteriormente dalla confisca dei beni delle Chiese e di molti fedeli, i confessori imprigionati assunsero un'importanza imprevista. Essi venivano in genere messi in prigione sul posto o nel capoluogo più vicino alla loro residenza. Essi pativano in nome della loro fede e rischiavano in ogni momento di essere messi a morte. Sembra che fosse possibile comunicare con loro, soprattutto quando ci si fosse rassegnati a compiere il sacrificio: le autorità speravano che tali contatti li avrebbero indotti a piegarsi, dopo le lunghe settimane di prigione, senza altre prospettive se non la morte o la prosecuzione della detenzione. In generale accadde, invece, il contrario. Le visite fatte ai confessori in prigione suscitavano nei "lapsi" dei rimorsi e facevano rinascere in essi un poco del vecchio coraggio, soprattutto quando la persecuzione rallentava. In Africa e sicuramente anche altrove, i prigionieri per fede si assunsero il compito di rilasciare ai fratelli che venivano a chiederne il perdono dei "libelli pacis" che li reintegravano nella Chiesa, senza imporgli quel periodo di penitenza che fin lì era stato considerato indispensabile. Inoltre, i confessori imprigionati trasmisero ai loro fratelli rivelazioni divine di ogni sorta. Quando vennero liberati, essi conservarono gran parte dell'autorità così acquisita, e a volte entrarono in concorrenza con il clero ordinario che si era ricostituito. Questo indebolimento del clero, insieme ai numerosi contrasti locali, provocò due gravi scismi in seno alle Chiese. In Africa, Cipriano di Cartagine, uscito dalla clandestinità nella primavera del 251, dopo più di un anno di assenza durante il quale la sua autorità era stata seriamente intaccata, ritenne di dover sostenere che le vecchie norme relative agli apostati dovessero restare in vigore, nonostante le iniziative prese da alcuni confessori. Egli ottenne l'appoggio del concilio provinciale del 251, il quale ammise la reintegrazione - previa penitenza - soltanto di quegli apostati che avevano mancato di coraggio o ottenuto un certificato di comodo, senza prendere realmente parte ai sacrifici. Gli altri, quelli che avevano effettivamente sacrificato, potevano essere ammessi soltanto alla penitenza a vita e non potevano ridiventare membri della Chiesa se non in punto di morte. Questo atteggiamento relativamente rigido provocò uno scisma, sotto la guida del sacerdote Novato e del diacono Felicissimo, scomunicati dal concilio, che conservavano però numerosi seguaci in seno alla Chiesa ufficiale. Un nuovo concilio provinciale, nel 252, sentì talmente il pericolo che addolcì l'atteggiamento tradizionale e concesse di reintegrare nella Chiesa tutti gli apostati che avessero fatto penitenza dopo il loro cedimento. Era ormai troppo tardi: prima della fine della primavera del 252, i sacerdoti di Cartagine che si opponevano a Cipriano elessero un altro vescovo, Fortunato, il quale venne riconosciuto da circa venticinque vescovi della regione. Lo scisma si consumava nel momento stesso in cui la causa dell'indulgenza sostenuta dai confessori prevaleva dovunque. Si ignora se sia durato a lungo, ma sembra che in Africa e in Numidia esso abbia preparato, insieme ai residui del montanismo, la strada al donatismo del quarto secolo. A Roma, la sede episcopale era rimasta vacante dalla morte di Fabiano (20 gennaio 250. ai primi di marzo 251, a causa dell'accanimento delle autorità imperiali contro la Chiesa. Il prete Novaziano aveva assicurato l'interim con coraggio e in modo meritorio. Egli era diventato, nei confronti degli apostati, l'esponente di una tendenza rigorista e sembra abbia avuto l'appoggio di almeno alcuni dei confessori della capitale. Quando, all'inizio del marzo del 251, la maggioranza del clero romano ebbe eletto vescovo Cornelio, Novaziano si fece eleggere anche lui e tentò con molta energia di farsi riconoscere dalle altre Chiese dell'Impero. Quasi dovunque egli si scontrò con le riserve o con l'ostilità dei vescovi locali, ma suscitò, con l'appoggio di alcuni confessori, un vasto moto di contestazione che denunciava il lassismo dei capi della Chiesa sopravvissuti alla persecuzione di Decio. Ben presto si giunse alla scissione, all'abbandono di una Chiesa che si giudicava compromessa e integrata nel mondo e ad eleggere vescovi per le comunità nelle quali si raggruppavano gli intransigenti.

Lo scisma si diffuse in tutto l'Impero e durò almeno fino al quinto secolo, sia in Oriente sia in Occidente. Colpite da questi scismi, le Chiese ebbero anche difficoltà, negli anni successivi al 250, a trovare un "modus vivendi" soddisfacente nelle relazioni reciproche, soprattutto da provincia a provincia. Le beghe di Cipriano di Cartagine con i suoi colleghi di Roma tra il 251 e il 258 sono al riguardo particolarmente sintomatiche. Nato all'inizio del terzo secolo, retore di formazione e di professione, questo cartaginese convertito al cristianesimo in età matura e dedito da quel momento all'austerità, divenne rapidamente sacerdote e venne eletto vescovo a partire dal 249. Al momento in cui si scatenò la persecuzione di Decio, egli si nascose fuori Cartagine, e questo gli valse qualche critica. Al suo rientro a Cartagine, egli si comportò come capo della Chiesa d'Africa e mantenne una corrispondenza continua con vari vescovi che svolgevano ruoli eminenti in altre province. Nella primavera del 251 comunicò a Cornelio, il nuovo vescovo di Roma alla cui affermazione avrebbe contribuito, i suoi due piccoli trattati "De lapsis" e "De unitate ecclesiae", scritti durante il suo ritiro forzato. Egli evidentemente contava che a Roma ci si sarebbe ispirati alle sue idee sull'atteggiamento da assumere verso i "lapsi" e sul fondamento dell'unità della Chiesa, che per lui consisteva nell'unità di tutto l'episcopato, erede "pro indiviso" della promessa fatta da Gesù a Pietro. Le sue lettere a Cornelio non vanno, del resto, esenti da qualche condiscendenza. Dopo l'episcopato molto breve di Lucio, Roma si dette come vescovo Stefano (maggio 254., con il quale Cipriano ebbe parecchi scontri. Nell'affare del vescovo di L‚on e Astorga, poi in quello di Marciano, vescovo di Arles (254., Cipriano indicò a Stefano la condotta da seguire. Ma nel 255, Stefano, avendogli il concilio provinciale africano richiesto di ammettere la necessità di ribattezzare gli eretici quando questi avessero richiesto di rientrare nella Chiesa, replicò con durezza; Cipriano fece ripetere la richiesta nel 256 da due nuovi concili provinciali, il che gli valse una minaccia di scomunica da parte di Stefano. L'Oriente partecipò alla disputa, prendendo alcuni partito per Roma, altri per Cartagine; Dionigi di Alessandria cercò, senza grande successo, di comporre il contrasto. La morte di Stefano (agosto 257. e la sua sostituzione con Sisto, lo scatenarsi della persecuzione di Valeriano e l'esecuzione di Cipriano (settembre 258. misero provvisoriamente fine ad una controversia che dimostra con chiarezza come nessun vescovo, in questa fase, fosse in grado di imporre alle Chiese delle varie province di uniformare le loro rispettive usanze. Era ancora lontano il tempo in cui il papa di Roma avrebbe potuto dettar legge su tutta la Chiesa d'Occidente. L'episcopato di Dionigi di Alessandria (247-64., non meno agitato di quello di Cipriano a Cartagine, anche se non finì così tragicamente, dimostra come le Chiese d'Oriente fossero state poste dalle persecuzioni degli anni 250-60 di fronte agli stessi problemi di quelle d'Occidente. Nato verso l'inizio del secolo, retore quanto alla sua formazione, convertitosi giovanissimo al cristianesimo, Dionigi assunse nel 231 la guida della scuola catechistica di Alessandria e si fece una discreta reputazione di filosofo, con la pubblicazione di un "Sulla natura", in cui confutava Epicuro. Venne eletto vescovo di Alessandria nel 247. Un anno dopo (alla fine del 248. dei terribili moti anticristiani misero alla prova la sua Chiesa: molti dei membri di questa vennero messi a morte, ma essa non conobbe apostasie, nonostante i maltrattamenti e i saccheggi inflitti a molti cristiani dalla popolazione scatenata. La Chiesa si stava appena riprendendo da questa prova, quando scoppiò la persecuzione di Decio (inizio del 250.. Fu un disastro; innumerevoli cristiani, che avevano sopportato coraggiosamente l'ira della folla, cedettero immediatamente sotto la pressione delle autorità ufficiali; altri cedettero dopo aver resistito per un po' alle minacce, alle torture, alla prigionia; la percentuale di apostati fu alta soprattutto tra i notabili. Fortunatamente, vi furono dei cristiani di ogni rango che salvarono l'onore, o accettando la morte, o resistendo in prigione a tutte le pressioni, o nascondendosi.

Dionigi stesso sfuggì alla morte senza aver fatto nulla per questo, ma fu costretto a rifugiarsi nella clandestinità, fuori d'Egitto. Quando pot‚ rientrare ad Alessandria, i confessori avevano già risolto la questione della sorte degli apostati pentiti, nel senso dell'indulgenza. Dionigi ritenne più prudente ratificare quest'iniziativa, pur contrastante con tutta la tradizione, e fece del suo meglio per far trionfare questo punto di vista in tutte le Chiese d'Oriente, dove il rigorismo di Novaziano aveva inizialmente trovato seguaci. Nella controversia che contrappose dal 255 al 258 le Chiese di Cartagine e quella di Roma a proposito del battesimo degli eretici, Dionigi si comportò da conciliatore e, pur attenendosi al punto di vista piuttosto largo dei Romani, difese la legittimità dell'atteggiamento più intransigente di molte Chiese orientali ed occidentali. Gli sembrava poco auspicabile l'unificazione della prassi rivendicata dalle Chiese di Cartagine e di Roma, ciascuna a modo suo. Nel pieno di queste vicende, la persecuzione di Valeriano (257. determinò per Dionigi e per il suo clero l'esilio, mentre poneva fine ai culti pubblici. Dionigi non venne giustiziato in applicazione del secondo editto di Valeriano (258. per ragioni che ignoriamo, e pot‚ rientrare ad Alessandria nel 260, dove trovò una situazione difficile. La peste e la guerra civile vi facevano strage, ponendo i cristiani di fronte a soverchianti compiti di carità, nel momento in cui cominciavano a recuperare i loro beni. Dionigi fu costretto a combattere un rigurgito millenarista, incoraggiato da alcuni suoi colleghi egiziani e basato su un'interpretazione letterale dell'"Apocalisse di Giovanni"; egli dedicò a questo due libri "Sulle promesse", i cui frammenti pervenuti fino a noi contengono osservazioni assai pertinenti appunto sull'"Apocalisse". Del resto, Dionigi dovette battersi per molti anni contro la concezione dell'unità divina che aveva conquistato la Chiesa della Libia orientale e che trovava appoggi fino ad Alessandria. Essendo riusciti i suoi avversari a fare intervenire i vescovi italiani - che presero posizione con una punta d'astio contro il permanere dell'influenza di Origene tra gli alessandrini -, Dionigi dovette anche pubblicare una "Confutazione e difesa", in cui sosteneva fermamente il suo punto di vista relativo alla Trinità e si limitava ad alcune concessioni secondarie alle tesi romane. Anche su questo terreno, l'ora dell'uniformità non era ancora venuta, mentre si protraeva quella della diffidenza nei confronti del pensiero teologico. - Situazione dell'Impero romano. Scatenata da un imperatore che voleva restaurare uno Stato e una società vacillanti, bloccata dieci anni dopo in seguito a una rotta militare dalle incalcolabili conseguenze, l'offensiva del 250-60 contro il cristianesimo era strettamente connessa alla congiuntura politica. La quarantina di anni di tolleranza che, a partire dal 261, permise alle Chiese di riorganizzarsi e di riprendere la loro espansione É a sua volta connessa allo stato dell'Impero romano nel corso di questi decenni. E' dunque necessario esaminare questo stato, di cui balza agli occhi la gravità. La minaccia persiana, allontanata per un attimo con la pace del 244-5, si era di nuovo aggravata a partire dal 256, con la ripresa delle ostilità in Mesopotamia. L'imperatore Valeriano cadde nelle mani del suo avversario, Sapore Primo, nell'estate del 260 e l'esercito persiano si spinse fino in Cilicia, dove si riuscì comunque a contenerlo. Il principe di Palmira, Odenath, sconfisse Sapore, si proclamò re e si ritagliò in Siria e in Mesopotamia un vasto regno, cui l'alleanza con Roma non impediva di essere indipendente e che tale rimase fino al 272, raggiungendo una notevole prosperità e tenendo a bada l'esercito dei Sassanidi. Per altri venticinque anni le ostilità continuarono episodicamente in Mesopotamia, finch‚ Diocleziano non riuscì a conseguire, nel 297, vittorie decisive e a imporre ai Persiani una pace equilibrata che durò per mezzo secolo. Meno organizzata di quella persiana, la minaccia che i Goti facevano pesare sui confini del Basso Danubio fu, d'altronde, più o meno altrettanto temibile per un certo numero di anni. Comparsi in quella zona nel 238, essi saccheggiarono a più riprese la Mesia e l'imperatore Decio morì combattendo contro di essi durante una delle loro scorrerie, nel 251.

A partire dal 256, i Goti aggiunsero alle loro incursioni per terra anche delle spedizioni per mare che gli permisero di saccheggiare tutte le province costiere del Mar Nero e poi quelle delle rive del Mar Egeo. Nel 269, l'imperatore Claudio inflisse loro una serie di sconfitte decisive, ma non per questo la pace si ristabilì nella regione, poich‚ altri barbari erano sopraggiunti a sostituire i Goti, tanto che nel 275 ci si dovette rassegnare a evacuare la Dacia. La frontiera del Reno e dell'Alto Danubio, consolidata nel 235-6 dalle vittorie dell'imperatore Massimino, nuovamente minacciata a partire dal 250 circa da altre tribù germaniche da poco stabilitesi sulla riva destra del fiume, i Franchi e gli Alamanni, crollò nel 258. I Franchi si spinsero attraverso la Gallia e la Spagna fino alla Mauritania Tingitana; gli Alamanni occuparono per tre anni la vallata del Rodano e di là promossero scorrerie in Alvernia e in Italia. L'esercito del Reno, in quello stesso anno, proclamò imperatore il suo generale, Postumo, e gli affidò il governo della Gallia, che egli resse per dieci anni ed amministrò secondo le forme romane, ma con un'indipendenza totale. Postumo cacciò i Barbari, fortificò le città, provvide alla manutenzione delle strade. Dopo di lui, un aristocratico gallo-romano, Tetrico, governò la Gallia fino al 273, data in cui rimise il proprio potere ad Aureliano, il restauratore dell'Impero romano. Gli Alamanni ripartirono all'attacco nel 267-8, occuparono la Rezia e furono sconfitti solo sulla riva del lago di Garda. Insieme ad altre tribù, essi riprovarono negli anni successivi e invasero l'Italia settentrionale, mentre i Vandali minacciavano la Pannonia. Dopo la morte di Aureliano, nel 257, la Gallia venne nuovamente invasa dai Franchi e dagli Alamanni, che vennero ricacciati solo nel 277. Per un'altra ventina d'anni, la frontiera del Reno fu molto irrequieta e soltanto negli ultimissimi anni del secolo una politica intelligente permise ai Romani di ristabilire la situazione in questa zona. Se a questa triplice minaccia esterna si aggiungono le gravi incursioni dei Blemi in Egitto (280-96. e quelle di varie tribù della montagna e del deserto in Mauritania e in Africa (285-97., ci si renderà conto delle ragioni per cui le autorità romane abbiano dato, dal 260 alla fine del terzo secolo, la priorità ai problemi della difesa. La maggior parte degli imperatori di questo periodo, tutti impegnati a far fronte alle necessità immediate per evitare il tracollo militare dell'Impero, avevano trascurato i problemi interni e lasciato deteriorare la situazione politica, amministrativa, monetaria ed economica a tal punto che Diocleziano (284-305. fu costretto a intraprendere una generale riorganizzazione dello Stato e della società. Così, egli fu anche spinto, a partire dal 303, ad occuparsi anche della questione cristiana, lasciata in sospeso dai suoi predecessori. L'urgenza dei problemi militari assegnava un'importanza crescente all'esercito, abituato da molto tempo a fare politica. Gallieno (260- 8. lo colmò di favori, ma ciò nonostante fu ucciso dai suoi ufficiali. La stessa sorte colpì Aureliano (270-5., Tacito (2755-6., Floriano (276., Probo (276-82., probabilmente Caro (282-3., Numeriano (283-4. e Carino (283-5.; la maggior parte di essi, peraltro, era stata portata sul trono dai militari - il che accadde anche per Diocleziano nel 284. Contemporaneamente, avvenivano innumerevoli sollevazioni militari che, senza riuscire ad abbattere l'imperatore in carica, si assicuravano per un certo periodo il controllo di una o due province e costringevano gli eserciti rimasti fedeli a dare battaglia. L'Impero gallo (dal 258 al 273. di Postumo e di Tetrico - ricordato sopra - costituisce il caso più sorprendente al riguardo; si può citare, però, anche la ribellione di Carausio, il quale riuscì ad occupare dal 289 al 296 la provincia di Bretagna e a controllarne gli sbocchi al mare. Di fronte a questa crescente intrusione dei militari nella vita politica e ai costanti disordini che ne derivavano, il Senato romano andava progressivamente perdendo tutte le prerogative che gli rimanevano. La restaurazione politica operata da Diocleziano non pot‚, dunque, basarsi sulla vecchia assemblea e si orientò verso un assolutismo estraneo alla tradizione romana. L'amministrazione delle province, un tempo divise tra magistrati espressi dal Senato e legati imperiali, limitati sia gli uni che gli altri dalle ampie autonomie di cui godevano molte città, passava sempre più frequentemente nelle mani di agenti del potere imperiale.

Le province senatorie sparirono a partire dal 260 e Aureliano generalizzò l'assegnazione della tutela delle città a "correctores" nominati dall'imperatore. Ma le quaranta e più province tradizionali erano troppo vaste per permettere un'efficace gestione centralizzata e i governatori troppo presi dai loro compiti militari per far fronte a tutti i problemi che spettava loro risolvere. Diventava quindi urgente una riforma. La moneta romana aveva subito molte manipolazioni dall'inizio del terzo secolo. I pezzi più diffusi, gli "Antoniani" coniati da Caracalla, che originariamente contenevano il 50% d'argento puro, sotto Gallieno ne avevano ormai dal 2 all'11%. Bisognava costringere i banchieri ad accettarli e il loro potere d'acquisto diminuiva costantemente, il che comportava un aumento continuo dei prezzi e dei salari. Notevolmente ostacolata da queste difficoltà monetarie, ma anche dal moltiplicarsi delle guerre in quasi tutte le regioni e dall'instabilità politica, la vita economica languiva. Molte terre restavano incolte, l'industria e il commercio erano in crisi, le città erano spopolate da una terribile epidemia di peste (250-65. e si cingevano dispendiosamente di mura massicce, per evitare di essere saccheggiate dai barbari o da soldati in rivolta. Non sorprende che, in simili condizioni, si siano verificati gravi disordini sociali. L'episodio più tipico al riguardo É la comparsa in Gallia, dal 268, di bande di Bagaudi (un termine di origine celtica e di significato incerto., formate di schiavi e di coloni fuggiaschi, di debitori insolventi e di piccoli proprietari rovinati, contro le quali, nel 285, si resero necessarie vere e proprie spedizioni militari. La borghesia urbana, da parte sua, era fortemente depauperata per il rallentamento degli affari e per le pesanti imposizioni fiscali che le gravavano addosso. La vita intellettuale della seconda metà del terzo secolo aveva perduto molto del suo precedente splendore: la grammatica, le scienze naturali, il diritto sono in piena decadenza; la storia É ormai rappresentata dal solo ateniese Dessippo, morto sotto Aureliano e autore di una "Storia Universale" e di "Scythica", di cui restano solo alcuni frammenti; la retorica É professata da Longino, morto nel 273; solo la filosofia brilla di una qualche luce con Plotino e Porfirio. La decadenza della religione tradizionale si protrae parallelamente al rallentamento del ritmo della vita intellettuale. Le vecchie divinità greco-romane, ancorch‚ rivitalizzate attraverso l'assimilazione di vari dÉi orientali - come era accaduto spessissimo nella prima metà del terzo secolo - rispondevano piuttosto male alle aspirazioni inquiete di un'epoca che vedeva profondamente scosso il proprio assetto sociale. Quanto al culto imperiale, il moltiplicarsi dei colpi di Stato militari lo rendeva piuttosto risibile. La devozione per il Sole, dio supremo e simbolo di vittoria, venne incoraggiata da Gallieno e da Claudio Secondo, ma soprattutto da Aureliano, che innalzò a questo dio un magnifico tempio nel Foro romano, gli assegnò uno specifico corpo sacerdotale e istituì in suo onore dei giuochi quadriennali (274.. Contemporaneamente, l'imperatore pretese di venire onorato come rappresentante in terra del "Sol invictus" e come "deus", un titolo fin lì riservato ai sovrani defunti, e sfoggiò in pubblico il diadema e le vesti scintillanti dei sovrani orientali, posti da tempo al pari degli dÉi. Dall'inizio del suo regno, e al più tardi nel 290, Diocleziano istituì anche il rito dell'"adoratio", che consisteva nel fatto che i sudditi si prosternavano devotamente davanti al re, ormai così interamente divinizzato che tutto ciò che si riferiva alla sua persona era considerato sacro. Ma solo alla fine di quasi vent'anni di regno lo stesso Diocleziano si impegnò in un'attiva politica religiosa: la repressione contro i cristiani, appunto. In quel momento, infatti, la società e lo Stato romano erano stati ricostruiti e la questione delle basi ideologiche dell'Impero romano, caduto in letargo durante la crisi del 260-97, non poteva più essere elusa. In uno Stato autoritario come l'Impero restaurato da Diocleziano, una Chiesa autonoma non poteva essere tollerata; occorreva una religione ufficiale sottomessa al potere, e il cristianesimo non sembrava disposto a svolgere questa funzione, malgrado il numero dei fedeli, mentre i culti tradizionali non vi riuscivano più. Lo scontro tra le autorità imperiali e le Chiese cristiane era dunque inevitabile. Prima di passare ad esporre quest'aspra battaglia bisogna, però, presentare gli avversari, a cominciare dall'attaccante, cioè il restaurato Impero romano.

Diocleziano, giunto al potere nel 284, era un dalmata di modesta estrazione, nato verso il 245 e soldato di mestiere fin dagli anni giovanili. Rozzo, economo, a volte brutale, egli non amava la violenza e dette prova fin dall'inizio del suo impero di un notevole senso politico, nonostante la sua mancanza di cultura. Appena sbarazzatosi del rivale Carino, egli divise il potere con il compatriota Massimiano, un rude soldato di poco più vecchio di lui, al quale affidò l'Occidente, tenendo per s‚ l'Oriente. I primi anni di questa diarchia furono dedicati a ristabilire una situazione militare molto difficile. Poi arrivarono le riforme, che dettero talmente da fare ai due imperatori che, spinti anche da tutta una serie di esigenze difensive, si associarono ciascuno un secondo, nel 293: Massimiano si associò Costanzo, detto Cloro, un Macedone di alto lignaggio; Diocleziano si mise al fianco Galerio, un nativo della Dacia, senza grandi raffinatezze; entrambi, militari di carriera come i loro protettori, ricevettero il titolo di Cesari e la promessa che sarebbero succeduti ai rispettivi Augusti. Diocleziano, pur rispettando l'autonomia degli altri tetrarchi, continuava a dominare il gruppo. Quattro o cinque anni dopo, i pericoli esterni erano ormai definitivamente allontanati e la pace saldamente stabilita su tutte le frontiere, mentre le riforme progredivano rapidamente. Il sistema di governo escogitato da Diocleziano aveva ormai fatto la sua prova. Il Senato non aveva più alcun potere. I due prefetti del pretorio, assistiti da un'amministrazione molto numerosa ed efficiente, erano i principali esecutori della volontà imperiale, cui non si frapponeva più alcun ostacolo. La legislazione e le decisioni esecutive - che sono note in gran numero per quest'imperatore - sono ispirate dalla volontà di restaurare l'antico diritto e la gerarchia sociale da questo sorretta, ma rispettano la maggior parte delle innovazioni liberali dell'inizio del terzo secolo. Le antiche province, o troppo grandi o troppo piccole per essere amministrate efficacemente, furono suddivise di nuovo e divennero quasi il doppio; ma Diocleziano raggruppò le nuove circoscrizioni in dodici diocesi, che comprendevano da quattro a sedici province ciascuna. L'amministrazione venne completamente riorganizzata a questi due livelli e le province cominciarono ben presto a sentire il beneficio dei miglioramenti così ottenuti. L'esercito venne colmato di favori da Diocleziano e dai colleghi di lui, che erano usciti dalle sue file e dipendevano dalla sua lealtà. Ma non lo si lasciò languire nell'ozio. Oltre a condurre ininterrottamente campagne fino al 297-8, esso fu profondamente ristrutturato. Da circa mezzo secolo, il suo armamento, il suo reclutamento, il suo inquadramento e la sua tattica erano cambiati radicalmente, per rispondere ai bisogni della lotta contro i Persiani e contro i Goti. Diocleziano aumentò considerevolmente gli effettivi, ricorrendo soprattutto al reclutamento massiccio dei Barbari, ma si preoccupò di assicurare la fedeltà di questi inserendoli nei limiti del possibile in legioni all'interno delle quali venivano saldamente inquadrati da cittadini romani. Le truppe di frontiera furono notevolmente rafforzate e si costruì un embrione di corpo di riserva, che stazionava al centro dell'Impero: era il dispositivo adatto a uno Stato forte, sul quale ormai non pesava altra minaccia esterna se non l'irruenza depredatrice delle tribù barbare, sempre pronte alla razzia. Per far fronte alle spese dello Stato, aumentate ulteriormente dalla ripresa di una politica edilizia e di grandi lavori pubblici, Diocleziano riorganizzò radicalmente le imposte dirette, dopo un censimento integrale delle persone e dei beni; ne risultarono molto migliorate la resa e la ripartizione dei gravami fiscali. Anche il conio di moneta fu oggetto di una radicale riforma, che mise fine alla scarsità di numerario e alla generale diffidenza verso la moneta. Questo consentì la ripresa degli affari, ma comportò anche un certo aumento dei prezzi, al quale Diocleziano cercò di ovviare col suo editto sul calmiere (301.. Nel 303, saranno dunque uno Stato forte e una società ormai ben ristrutturata a cercare di dare al problema cristiano una soluzione definitiva. - Situazione del cristianesimo.

Da parte sua, il cristianesimo del 300 aveva avuto il tempo di rimediare i tremendi guasti subiti al momento della grande crisi del 250-60. Il numero degli aderenti era stato ridotto dalla grave prova, non tanto per il numero dei martiri, quanto per quello degli apostati. Tuttavia, dal momento che - nonostante gli sforzi di Novaziano - l'indulgenza aveva trionfato quasi ovunque, molti degli apostati vennero ben presto reintegrati nelle Chiese, il cui ridimensionamento numerico venne così contenuto in proporzioni modeste. D'altro canto, l'espansione riprese ben presto, grazie all'ammirazione e alla simpatia suscitata in alcuni dall'eroica resistenza dei confessori e dei martiri, ma anche perché‚, in quel periodo così penoso della vita dell'Impero che va dal 260 al 290 circa, la fede cristiana offriva un incoraggiamento e un conforto che le vecchie religioni non davano più a nessuno. In mancanza di documenti precisi, É difficile seguire esattamente il progresso del cristianesimo in questo periodo. Alcuni dati, d'altra parte, lo testimoniano in modo certo. In Egitto, le campagne - già toccate prima del 250 - ne furono pervase nei cinquant'anni successivi al punto che, all'inizio del quarto secolo, vi erano numerosi villaggi cristiani e verso il 320 vi era un buon centinaio di vescovi egiziani. La vicina Cirenaica aveva cinque vescovi nella seconda metà del terzo secolo, il che presuppone un certo concentramento di cristiani. In Siria, nello stesso periodo, le campagne venivano largamente raggiunte dal cristianesimo, come dimostra l'esistenza di due vescovi delle campagne o "chorepiscopoi" verso il 325. L'interno della metà orientale dell'Asia Minore, ancora poco interessato all'inizio del terzo secolo, venne metodicamente evangelizzato nel corso del secolo, soprattutto da due fratelli, entrambi discepoli di Origene, Atenodoro e Gregorio, detto il Taumaturgo, durante gli anni 240-270. Solo nella seconda metà del terzo secolo appaiono delle Chiese in Dalmazia e nelle province lungo la riva destra del Danubio. Si può collocare in questo stesso periodo la fondazione di Chiese organizzate a Parigi, Reims, Treviri, quindi a Clement, a Rouenè a Sens, a Soissons, a Chalons, a Bourges, a Bordeaux, mentre quelle di Tours e di Limoges sembra risalgano solamente all'inizio del quarto secolo. La Bretagna, già raggiunta all'inizio del terzo secolo, aveva tre vescovi prima del 314, a Londra, York e Lincoln. Il concilio di Elvira, tenuto verso il 300, radunò trentacinque vescovi della penisola iberica, mentre nel 250 questi erano molti di meno; ma era soprattutto la Betica - l'attuale Andalusia -, più urbanizzata, ad avere una considerevole presenza di cristiani. In Africa settentrionale, la conversione delle campagne, ivi compresa quella delle tribù maure e getule, ha fatto - sembra - seri progressi durante la seconda metà del terzo secolo. In Italia, dove la Chiesa di Roma poteva contare circa quarantamila fedeli verso la metà del terzo secolo, vi erano da sessanta a settanta vescovi in questo periodo; la seconda metà del secolo vide aumentare questa cifra, soprattutto nell'Italia settentrionale, senza però che si avesse una vera e propria evangelizzazione delle campagne. Verso il 300, il vantaggio ottenuto dalle Chiese d'Oriente, in Egitto, in Siria e in Asia Minore in particolare, rispetto alle Chiese d'Occidente, tranne quelle dell'Africa settentrionale, restava notevole. Mentre in Occidente i cristiani costituivano delle minoranze molto deboli, in Oriente essi erano a volte maggioranza e costituivano spesso delle minoranze non trascurabili, il cui comportamento aveva un peso sociale e politico assolutamente determinante. Pur cominciando i contadini a contare nelle Chiese di alcune province, il cristianesimo restava, però, un fenomeno principalmente urbano. I suoi adepti erano sempre, per la maggior parte, gente di condizione modesta, ma la borghesia urbana, allontanata a poco a poco dagli affari pubblici in seguito al rafforzarsi dell'assolutismo e per la preminenza dei militari, cominciava a rivolgersi verso la fede cristiana. La stessa corte imperiale e l'alta burocrazia si stavano progressivamente aprendo al cristianesimo. In breve, il colpo di freno che Decio e Valeriano avevano preteso di imporre alla nuova religione non era, di tutta evidenza, servito a niente. L'espansione cristiana non si limitava, del resto, al territorio romano. A parte qualche tribù di Mauri a cavallo della frontiera meridionale dell'Impero, l'ora dell'evangelizzazione dei barbari d'Occidente non era ancora suonata.

Ma i Goti della regione del basso Danubio avevano portato con s‚ dalle loro incursioni degli anni 250-70 sulle rive del Mar Egeo un certo numero di prigionieri cristiani, compresi alcuni membri del clero, che predicarono il Vangelo e determinarono alcune conversioni; il futuro apostolo dei Goti, Ulfila, discendeva da una coppia di cristiani della Cappadocia stabilitasi forzatamente tra questi barbari nel 265. Sembra che la Georgia sia stata raggiunta dalla predicazione cristiana verso la fine del terzo secolo, mentre l'Armenia, toccata sicuramente a partire dall'inizio del terzo secolo, si convertì in massa nel periodo 300-10. Questa massiccia adesione di un'intera popolazione al Vangelo, un fenomeno ancora eccezionale per quei tempi, fu opera di Gregorio l'Illuminatore, un Parto nato verso il 257, la cui origine aristocratica gli consentì di raggiungere e di convincere, attorno al 300, il re Tiridate e la famiglia di questi. L'esempio della famiglia reale non tardò ad essere seguito. In Persia, i cristiani della Mesopotamia, già convertiti da tempo, servirono di base per la propagazione del cristianesimo in tutto l'Impero sassanide, nella seconda metà del terzo secolo. Vi erano, inoltre, dei cristiani tra i prigionieri catturati da Sapore Primo e a lungo internati in varie province; sembra che essi abbiano svolto una certa attività evangelizzatrice. Questi sforzi convergenti non rimasero senza frutto, giacch‚ verso il 270 vi erano cristiani persiani in grado di polemizzare contro i manichei; tra il 275 e il 300 il vescovo della capitale imperiale di Seleucia-Ctesifonte, l'Aramaico Papa bar-Aggai, tentava di imporre il proprio primato a tutte le Chiese dell'Impero sassanide; e infine, verso il 338 l'imperatore Sapore Secondo considerò talmente grave la minaccia cristiana da cercare di eliminarne violentemente le Chiese. Purtroppo, la storia del cristianesimo persiano di questo periodo rimane molto poco conosciuta. Si può dire altrettanto della storia dell'evangelizzazione dell'Etiopia, dell'Arabia e dell'India. L'Etiopia sembra sia stata raggiunta, al più tardi, all'inizio del quarto secolo dal vescovo Frumenzio. L'Arabia romana aveva molti vescovi fin dalla prima metà del terzo secolo e ha potuto contribuire all'evangelizzazione delle regioni situate più a sud. Sembra, però, che l'Arabia meridionale sia stata raggiunta soprattutto per via di mare, forse già da Pantene, il primo maestro della scuola di Alessandria, nella seconda metà del secondo secolo e sicuramente dall'ariano Teofilo nel secondo quarto del quarto secolo, ma certamente anche da altri, nel frattempo, dal momento che questa regione intratteneva un intenso commercio con l'Egitto. Quanto all'India, che probabilmente É stata raggiunta piuttosto presto, anche se le leggende relative all'apostolo Tommaso sono prive di valore, essa contava certamente alcune Chiese prima della fine del terzo secolo, lungo la costa occidentale e nelle regioni prossime alla Persia, in particolare nell'isola di Diu. All'interno di questo corpo cristiano in pieno sviluppo, vi erano divisioni profondissime. Le comunicazioni tra le Chiese sorte nell'Impero romano e quelle che si erano costituite al di fuori dei suoi confini, e che dovevano far fronte a problemi diversissimi, erano precarie. Ad esempio, le Chiese della Persia e dell'India dovettero resistere, nella seconda metà del terzo secolo, all'ondata del manicheismo, che non costituiva ancora una preoccupazione per la cristianità romana. In Armenia, la Chiesa cristiana si confuse con la nazione fin dall'inizio del quarto secolo, più di mezzo secolo prima che un simile fenomeno si producesse nell'Impero romano e in un modo, del resto, meno integrale. All'unità della Chiesa armena si contrapponeva la varietà delle Chiese persiane, alcune di origine e di lingua aramaica, altre di origine greca. Anche all'interno dell'Impero romano, le differenze di lingua rendevano difficili le comunicazioni tra gruppi di Chiese e provocavano il sorgere di usanze e di concezioni divergenti. Se, per quanto riguarda molte delle Chiese egiziane, l'uso del copto non le isolava eccessivamente, ciò dipendeva dal fatto che altre Chiese della stessa provincia, a cominciare da Alessandria, erano di lingua greca e provvedevano ai contatti con l'esterno.

Viceversa, la prevalenza del siriaco (o aramaico. nelle Chiese dell'interno della Siria ne rafforzava notevolmente il particolarismo dottrinale, liturgico, morale, orientandole al tempo stesso verso la cristianità mesopotamica sotto la dominazione persiana. Le Chiese di lingua latina, alle quali si era aggiunta la Chiesa di Roma prima della metà del terzo secolo, una volta che aveva rinunciato progressivamente all'impiego del greco, sentivano aumentare di giorno in giorno il sentimento della propria originalità e della propria importanza di fronte alle Chiese di lingua greca, ancora largamente maggioritarie. Tra queste ultime esistevano accentuati particolarismi provinciali, che solo a prezzo di una semplificazione molto arbitraria si possono ricondurre a una contrapposizione tra le due metropoli di Alessandria, capofila dei discepoli di Origene, e di Antiochia, centro della resistenza contro i seguaci di questi. Nonostante queste grandi differenze e a dispetto delle incomprensioni che ne derivavano, tutte queste Chiese custodivano, nella seconda metà del terzo secolo, il sentimento della loro profonda unità, manifestata con il mutuo riconoscimento della validità delle istituzioni ecclesiastiche e del battesimo, con gli scambi reciproci, con la pratica dell'ospitalità e delle consultazioni reciproche. Tutte si sentivano in comunione con la Chiesa di un qualsiasi altro luogo, con la Chiesa cattolica. Al tempo stesso vi erano, però, diverse Chiese e diversi gruppi che restavano ai margini della grande Chiesa, nonostante quasi tutti avessero le stesse pretese universalistiche della comunione cattolica. Nessuno degli scismi del primo e del secondo secolo era rientrato. Il giudeo-cristianesimo, che aveva raccolto l'eredità di almeno alcune delle tendenze della prima Chiesa di Gerusalemme, permaneva in Transgiordania e in Siria con il nome di Chiesa dei poveri o ebioniti. Il segno più eloquente del vigore che conservava nel terzo secolo É la composizione da parte di uno dei suoi membri, in una data che si può situare tra il 220 e il 300, del romanzo pseudoclementino, che conosciamo solo attraverso due recensioni successive, le "Omelie" e i "Riconoscimenti", anch'esse attribuite a Clemente di Roma. Gesù vi viene presentato come il vero profeta; vi si afferma senza reticenze una religione della salvezza tramite le opere e Pietro e Giacomo vi appaiono come gli interpreti supremi del messaggio cristiano, mentre vi si conduce una larvata ma virulenta polemica contro Paolo. L'utilizzazione del genere letterario del romanzo, in forma vicina a quella del romanzo greco e latino dell'epoca, dimostra come l'ebionitismo non fosse sganciato dalla cultura dell'ambiente circostante sul quale, quindi, poteva esercitare un'influenza maggiore di quella che non gli riconoscono gli scrittori ortodossi del quarto e quinto secolo. Lo gnosticismo non costituiva più per le Chiese della seconda metà del terzo secolo quella terribile minaccia che aveva rappresentato per un secolo. Tuttavia, esso non era scomparso. Il neoplatonico Plotino rivolgeva contro di esso la propria polemica anticristiana verso il 264. Vari scritti di tendenza gnostica sembrano risalire al terzo secolo: il "Vangelo secondo Filippo", la "Pistis Sophia", gli "Atti di Giovanni", gli "Atti di Tommaso". La biblioteca gnostica scoperta a Nag-Hammadi verso il 1945 prova come nel quarto o anche nel quinto secolo esistessero ancora comunità di questo tipo in Egitto, mentre l'origine siriana di alcuni degli scritti citati dimostra come in Siria ne esistessero perlomeno alcune nel terzo secolo. Del pari, i numerosi prestiti dallo gnosticismo ad opera di Mani fanno pensare che vi fossero degli gnostici in Mesopotamia verso la metà di quello stesso secolo. E' d'altro canto verosimile che lo gnosticismo, diviso e indebolito dalla resistenza del cristianesimo ortodosso, sia stato gradatamente riassorbito dal manicheismo nel quarto e quinto secolo. Il marcionismo si era dato, nella seconda metà del secondo secolo, un'organizzazione solida ed era riuscito un po' dovunque a istituire una Chiesa scismatica. Questa Chiesa, peraltro, aveva cessato prima della metà del terzo secolo di fare una concorrenza pericolosa alla Chiesa ufficiale. Esso, però, continuava ad esistere, ed ebbe i suoi martiri nei terribili anni 250-60: se ne vantava, e gli scrittori cattolici dell'antichità, poco propensi a fare le lodi dei marcioniti, ne segnalano almeno uno sotto Decio a Smirne e quattro in Palestina, sotto Valeriano.

Sembra, d'altra parte, che da quel momento il marcionismo abbia avuto il suo centro di gravità in Oriente e che abbia esercitato un'influenza decisiva sul pensiero di Mani, tramite le comunità mesopotamiche. Questo ne ha probabilmente facilitato il progressivo assorbimento da parte del manicheismo nel quarto e quinto secolo. Anche il montanismo continuava ad esistere un po' dovunque, accanto alle Chiese cattoliche, e nuove ondate di proselitismo tornavano a sospingerlo periodicamente all'assalto della Chiesa ufficiale. I suoi adepti frequentemente si consegnavano al martirio sotto l'azione dello Spirito ed ebbero una parte gloriosa nelle sofferenze degli anni 250- 60. La persecuzione sofferta insieme, però, non li avvicinò affatto ai cattolici, i cui confessori si rifiutarono di avere a che fare con i montanisti in molte prigioni romane e adottarono spesso un atteggiamento indulgente verso gli apostati, mentre i montanisti li trattavano con estrema severità. Negli anni che seguirono le persecuzioni di Decio e di Valeriano, i frigi arrecarono il loro appoggio al partito degli intransigenti, che finì per separarsi dalle Chiese cattoliche. Può darsi che in qualche luogo si siano fusi con le Chiese collegate al movimento rigorista di Novaziano. Fatto sta che essi restarono saldamente radicati in Asia Minore fino al quarto secolo, nonostante la repressione che si abbatt‚ su di essi a partire dall'Impero di Costantino. Accanto a questi gruppi, che risalivano al primo e al secondo secolo, la seconda metà del terzo secolo vide nascere due movimenti che le Chiese cattoliche combatterono energicamente. Abbiamo accennato sopra allo scisma di Novaziano, un fatto allora del tutto nuovo e che interessò un gran numero di Chiese in tutto l'Impero romano. Si trattava, in sostanza, di un ritorno alla setta ristretta, riservata ai puri, quale il cristianesimo era stato per quasi due secoli. Rifiutandosi di seguire Novaziano, le Chiese cattoliche aprivano invece la strada dell'avvenire e preparavano il cristianesimo a diventare la religione delle masse. Nonostante questa differenza decisiva, il disaccordo in termini di dottrina restava irrilevante. Con il manicheismo le cose andavano in modo del tutto diverso, anche perché‚ di esso non si può, d'altra parte, parlare come di un movimento cristiano, se non si dà del cristianesimo una definizione così larga da comprendervi tutte le manifestazioni dello gnosticismo. La storia tormentata del manicheismo si estende per circa dieci secoli e comprende episodi gloriosi; il cristianesimo troverà spesso sul suo percorso quest'avversario, pericoloso per lui non meno dell'islam, ma che non ha avuto la fortuna di essere appoggiato da un grande Impero. Malgrado gli sforzi compiuti per riassorbire le divisioni di cui soffriva nella seconda metà del terzo secolo, il corpo cristiano rimaneva un corpo senza testa. Di fronte alle Chiese marcionite, montaniste, novaziane e manichee, tutte e quattro efficacemente centralizzate, di fronte a uno Stato sempre più autoritario, i cattolici dell'Impero romano non avevano ancora cominciato a raccogliersi attorno a un capo unico. Ogni provincia importante godeva di una completa autonomia, mitigata soltanto dalla fedeltà alla tradizione e dalle consultazioni che si avevano con i dirigenti degli altri grandi gruppi di Chiese ogni volta che si proponeva un problema imbarazzante. Il vescovo di Roma aveva ogni tanto la tendenza a ingerirsi un po' arbitrariamente negli affari delle Chiese italiane, come abbiamo visto a proposito della controversia sorta ad Alessandria sul problema della Trinità nel 260. Ma il suo intervento, d'altronde basato spesso sul punto di vista del concilio italiano, aveva solo un'autorità limitata, analoga a quella dell'esponente di qualsiasi altra provincia. E se l'imperatore Aureliano, nel 272, risolse la controversia relativa al possesso dei beni della Chiesa di Antiochia a favore del contendente riconosciuto dai vescovi di Roma e d'Italia, lo si dovette al fatto che quel sovrano voleva evitare di lasciarsi trascinare nella disputa propriamente ecclesiastica che la questione di Antiochia aveva suscitato in tutto l'Oriente; egli vedeva nel vescovo della capitale un punto di riferimento lontano e politicamente sicuro, che permetteva di eliminare quello dei due contendenti di cui era discutibile la fedeltà verso Roma. E', del resto, significativo che i quattro vescovi di Roma succedutisi dal 268 al 304 siano dei personaggi oscuri, di cui conosciamo solamente i nomi (Felice, Eutichiano, Gaio e

Marcellino., la cui cronologia É molto incerta e l'ultimo dei quali non sembra aver avuto una parte molto brillante in occasione della persecuzione di Diocleziano. Non era neanche giunto il momento dei concili universali. Tuttavia, nel 264 e nel 268, si videro riunire ad Antiochia i primi concili interprovinciali. Si trattava, É vero, di giudicare il vescovo della metropoli siriana, Paolo di Samosata, cosa che i vescovi della sua provincia non avrebbero potuto arrischiarsi di fare, data la situazione politica degli anni 260-72. Antiochia era, di fatto, sotto la dominazione palmireniana e Paolo era strettamente legato ai padroni del momento. Il concilio del 264 riunì vescovi venuti dal Ponto, dalla Cappadocia, dalla Licaonia, dalla Cilicia, dalla Palestina e dall'Arabia, mentre il vescovo di Alessandria di Egitto giustificava la propria assenza. Quello del 268 riunì dai settanta agli ottanta vescovi di varie province d'Oriente. Ma solo il secondo osò condannare Paolo, il quale, del resto, non volle sottomettersi. Nessuno dei due concili prese decisioni in materia di dottrina, certamente perché‚ non credevano di averne il diritto. D'altro canto, le province d'Africa, della Numidia, della Mauritania tenevano, dalla metà del terzo secolo, sinodi comuni, come quelle d'Egitto e di Cirenaica; le province spagnole fecero altrettanto nel 300 (concilio di Elvira.. Ma le regioni indicate presentavano una chiara unità geografica e si raggruppavano - tranne per quanto riguarda la Spagna - attorno a una metropoli incontestata: Cartagine, nel primo caso, Alessandria nel secondo. Questi sinodi regionali sono di poco diversi, quindi, da quelli delle grandi province. Quanto al concilio italiano, visto il particolare regime della penisola fino alla fine del terzo secolo, si estendeva a parecchie circoscrizioni amministrative, senza che in questo caso si potesse parlare di raggruppamento di diverse province. Le sedi vescovili di Antiochia, di Alessandria, di Cartagine e di Roma sembrano godere di un prestigio morale che andava oltre i limiti della propria provincia, ma che era ancora ben lontano dall'istituzionalizzazione di quelli che si chiameranno in seguito i patriarcati. I concili provinciali, invece, erano diventati ovunque un'istituzione importante. Alcuni si riunivano annualmente, e talvolta anche più spesso, quando se ne faceva sentire il bisogno. Si preoccupavano di richiamare e interpretare le tradizioni provinciali in materia di disciplina, di liturgia e di dottrina; di adottare in questi campi decisioni da applicare in tutte le Chiese della provincia; di formulare il parere collettivo dei vescovi su quella questione controversa su cui un'altra delle province li avesse consultati. La collegialità di tutte le decisioni importanti era considerata una necessità evidente, come, del resto, l'accettazione da parte dei vescovi di una stessa provincia delle regole elaborate di comune accordo nel concilio provinciale. Questa democrazia, semplice ma vigorosa, si ritrovava anche all'interno delle Chiese locali. Vi era stata rinvigorita dalle persecuzioni del 250-60. Tali persecuzioni, infatti, avevano procurato ai confessori imprigionati per la loro intransigente fedeltà un'eccezionale autorità. Questi credenti coraggiosi, spesso assai umili, venivano considerati come degli ispirati alla stessa stregua dei profeti. Consultati in massa dai cristiani su tutte le questioni, essi avevano risolto nel corso della loro detenzione degli affari molto delicati, a partire dai numerosi casi di apostasia. Una volta rimessi in libertà, essi continuarono a fare altrettanto e le loro decisioni s'imposero spesso all'autorità ecclesiastica. La loro divisione in rigoristi e lassisti rese inevitabile lo scisma di Novaziano. L'orientamento della maggioranza di essi a favore dell'indulgenza nei confronti degli apostati avviò le Chiese sulla via di un futuro orientato verso le masse. Essi costituirono da parecchie parti un gruppo di pressione che impedì che si rafforzasse il potere del clero e, ancora nel 300, i vescovi spagnoli dovettero intervenire per far fronte all'abuso da parte di alcuni del titolo di confessore. Il terzo secolo vide, comunque, un certo consolidamento delle funzioni istituzionali in seno alle Chiese.

Cipriano di Cartagine aveva riformulato con vigore le concezioni relative alla figura del vescovo, anima della comunità locale e portavoce della sua "unanimitas": "Ecclesia in episcopo". Il vescovo veniva eletto dal popolo cristiano, consacrato quindi da un collega, una volta che i vescovi della provincia ne avessero approvato la nomina. Egli era il capo incontestato della Chiesa locale. Ma, insieme ai progressi fatti nelle cittadine e nelle campagne, cominciò a porsi il problema dei limiti di ciascuna delle Chiese. Nella maggior parte delle regioni, si crearono nuove Chiese locali, ciascuna delle quali elesse il proprio vescovo, con la conseguenza che questi si moltiplicarono e i concili provinciali divennero indispensabili per coordinarne l'azione. Altrove, si fece marcia indietro di fronte a un aumento giudicato eccessivo del numero dei vescovi e si mantennero i piccoli nuclei di fedeli costituitisi al di fuori del centro episcopale sotto la dipendenza della Chiesa rispettiva. Le esigenze pastorali di questi nuclei vennero allora garantite da sacerdoti itineranti - come nel Basso Egitto attorno al 300 e nella regione di Laodicea in Siria, poco più tardi -, o residenti nella città da assistere, come nel caso della Gallia in molte delle città dove in seguito si insediarono dei vescovi, e probabilmente nel caso della zona attorno ad Alessandria d'Egitto. In altri casi ancora si adotto una soluzione di compromesso: in molte province dell'Asia Minore e della Siria si assegnarono vescovi per ognuna delle città in cui erano sorti dei nuclei cristiani, ma questi modesti capi della Chiesa vennero subordinati al vescovo della città principale e li si chiamò con il nome garbato di vescovi dei campi o di campagna ("chorepiscopoi".. In parecchie regioni, dunque, il vescovo cominciava, verso la fine del terzo secolo, a dirigere varie Chiese locali, mentre dei semplici sacerdoti assumevano un ministero più indipendente, che potremmo quasi definire come parrocchiale, e in ogni caso funzionariale e personale. La stessa evoluzione avveniva contemporaneamente all'interno delle grandi Chiese urbane. Luoghi di riunione creati nei vari quartieri assicurarono a tutti i fedeli la possibilità di assistere agevolmente a sedute di istruzione religiosa e di edificazione presiedute da un sacerdote. Queste sedute si trasformarono a poco a poco in culti, con celebrazione dell'Eucarestia da parte del sacerdote, mentre fino ad allora solo il vescovo poteva presiedervi. Verso la fine del terzo secolo, perlomeno a Roma e ad Alessandria, si erano costituite delle vere e proprie parrocchie urbane in vari quartieri. Chiamate a Roma "tituli", esse probabilmente avevano già il nome di "paroikiai" in altre città, anche se questo termine nel quarto secolo significa piuttosto diocesi. Accanto ai preti incaricati di seguire un quartiere, altri continuavano a stare con il vescovo e ad aiutarlo nelle funzioni liturgiche, catechistiche e pastorali, a quanto pare senza esercitare regolarmente il ministero a tempo pieno. Le grandi città contavano un numero abbastanza considerevole di sacerdoti: quarantasei a Roma dopo il 250, diciassette ad Antiochia, più diciannove in periferia, verso il 320. I diaconi erano a un tempo preposti alla liturgia, amministratori dei beni ecclesiastici, incaricati della distribuzione dei sussidi ai poveri e del mantenimento dell'ordine nelle assemblee. Collaboratori diretti del vescovo, impiegati a tempo pieno nella Chiesa, essi potevano acquistare un'influenza notevole in seno alla comunità, soprattutto quando quest'ultima fosse ben fornita. Erano meno numerosi dei preti e le maggiori Chiese, ad esempio quella di Roma, non ne contavano più di sette. Dopo la fine della prima metà del terzo secolo, vi erano a Roma sette zone affidate ciascuna a un diacono, ma il primo di essi esercitava una certa autorità sugli altri. Questo diacono rivestiva, quindi, un ruolo elevato in seno alla comunità e spesso raggiungeva la carica episcopale. Oltre a questi ministeri principali, le Chiese del terzo secolo moltiplicarono altre funzioni più modeste, associando così numerosi fedeli alla vita della comunità: lettori - documentati a partire dal secondo secolo -; sottodiaconi; accoliti, aggiunti in Oriente ai sottodiaconi; esorcisti; portieri; becchini; catechisti, nelle città importanti.

Queste funzioni così disparate non rientravano evidentemente in un "cursus honorum" sacerdotale, come sarebbe accaduto in seguito; si trattava di affidare degli incarichi, concreti e precisi, a persone qualificate, per assolvere permanentemente a questa o quella esigenza. Pur tralasciando i confessori, di cui si É già detto, vi erano comunque nelle Chiese del terzo secolo dei gruppi di fedeli votati a un particolare sistema di vita e che godevano di un particolare prestigio. Di entrambi i sessi, costoro avevano fatto professione di ascetismo e si imponevano rinunce di vario genere, a cominciare dalla continenza completa. Essi continuavano a vivere nella propria famiglia, ma sembra che a volte si siano riuniti in gruppi separati. La loro esistenza É documentata un po' ovunque, dalla Siria- Mesopotamia all'Occidente, e alcune Chiese scismatiche riconoscevano loro la qualifica di cristiani a pieno titolo. Si tratta, evidentemente, dei precursori del monachesimo, alla cui rapida diffusione si assistette nel quarto secolo. Tra di essi, a volte, si insinuavano elementi piuttosto sospetti: alcuni continenti contraevano con una vergine un matrimonio bianco; ma la coabitazione volgeva talvolta in concubinaggio, tanto che nel corso dell'ultimo terzo del terzo secolo vediamo due concili regionali preoccuparsi degli abusi provocati da tale abitudine, praticata anche da vescovi e preti. Le Chiese cristiane della seconda metà del terzo secolo - sempre più numerose, con aderenti generosi e spesso dotati di ingenti patrimoni - avevano accumulato un certo capitale e disponevano di rendite apprezzabili, che del resto distribuivano largamente ai membri più bisognosi. Esse ottennero, dopo il 260, la restituzione degli immobili confiscati nel corso della persecuzione e si preoccuparono ovunque, in seguito, di salvaguardare questi beni, di cui avevano bisogno per garantire il culto e l'alloggio dei principali ministri. Lo statuto legale di questo capitale immobiliare restava precario anche nei periodi di tolleranza. Le Chiese, quindi, erano costrette ad avere certi riguardi nei confronti delle autorità e non avevano ormai più la stessa limpida indipendenza del primo e secondo secolo. Si stava avvicinando il momento del compromesso tra la Chiesa e lo Stato. Soltanto pochi capi della Chiesa, lucidi e preveggenti, se ne potevano rendere conto. La massa dei cristiani, confortata nel proprio atteggiamento dalla difficile vittoria conseguita tra il 250 e il 260, continuava a vivere noncurante di questi problemi e a concentrare la propria attenzione sul culto e sulla vita privata, esattamente come all'inizio del secondo secolo. I principali esponenti del cristianesimo che, ammaestrati dalla tremenda esperienza del 250-60, avrebbero forse potuto volgere l'attenzione verso nuovi orizzonti, erano scomparsi nella tormenta, o poco dopo: Origene era morto nel 253, Cipriano nel 258, Dionigi Alessandrino nel 264. Essi non avevano avuto successori del loro stampo, n‚ tra i teologi n‚ tra i vescovi, per i quali la mediocrità sembra costituisca la norma fino all'inizio del quarto secolo. Le due uniche eccezioni degne di essere ricordate, alla metà del secolo che seguì la fine della persecuzione di Valeriano, sono collettive: riguardano il gruppo dei discepoli di Origene e poi quello dei discepoli di Luciano di Antiochia. I primi - numerosi e ben formati - occuparono fino alla fine del terzo secolo tutta una serie di posti importanti, soprattutto seggi episcopali, nelle province asiatiche dell'Impero romano e in Egitto. Grazie a questo, essi esercitarono una notevole influenza, favorendo l'approfondimento del pensiero cristiano e un atteggiamento di conciliazione nei confronti delle autorità imperiali. Gregorio il Taumaturgo, evangelizzatore del Ponto interno dal 243 al 270 circa, dopo cinque anni di studi con Origene (233-8., fece pesare la propria influenza in direzione della fedeltà a Roma, come si deduce dalla sua a lettera canonica del 252. Dionigi Alessandrino sembra abbia cercato fin dalla fine del 260 il sostegno delle autorità imperiali perché‚ venissero restituiti alla sua Chiesa i luoghi di culto e altri beni confiscati durante la persecuzione di Valeriano; le sue polemiche contro il millenarismo potrebbero essere state motivate in parte dal carattere violentemente antiromano spesso assunto da quella dottrina.

Quando, nel 264, poi nel 268, i vescovi di varie province asiatiche si riunirono ad Antiochia per prendere in esame il caso di Paolo di Samosata, vescovo della capitale siriaca, l'affare fu condotto soprattutto dai discepoli di Origene. L'accanimento di costoro contro Paolo non era solo indotto dalla vita disordinata e dalla ricchezza di questo singolare personaggio, ma anche dai gravi limiti della sua cristologia, che non identificava Gesù con il "Logos", e dai suoi stretti rapporti con la dinastia di Palmira, che allora dominava la Siria: l'eretico condannato nel 268 era anche un nemico di Roma e pot‚ essere liquidato solo quando l'imperatore Aureliano, abbattuta Palmira, restituì al vescovo designato nel 268 dai seguaci di Origene la Chiesa usurpata da Paolo (272.. Nello stesso periodo, due brillanti discepoli di Origene, alessandrini, Eusebio e Anatolio, si susseguirono nella sede episcopale di Laodicea in Siria; entrambi avevano, qualche anno prima, svolto in Alessandria una funzione politica importante in senso filoromano. Non si può tuttavia attribuire a tutti i discepoli di Origene un analogo impegno politico. Teognosto, ad esempio, famoso catechista alessandrino - la cui attività si colloca specialmente tra il 265 e il 280 - É noto esclusivamente per la sua dottrina esposta nei sette libri delle "Ipotiposi", di cui esistono solo dei frammenti. Pierio, che ha sostituito Teognosto fin verso il 310, conservò la tradizione ispirata da Origene nell'insegnamento e nella predicazione; egli era anche un asceta ammirato. Il suo allievo, Panfilo, riaprì una scuola di teologia a Cesarea di Palestina, redasse un'apologia di Origene e fondò una magnifica biblioteca, prima di morire martire verso il 309. Nella tradizione di Origene si collocava anche Ieraca, che dirigeva a Leontopoli, sul delta del Nilo, verso il 300, una comunità di asceti di entrambi i sessi e professava una strana dottrina dello Spirito Santo, di cui Melchisedec sarebbe stato la manifestazione. L'insegnamento di Origene, dunque, continuava a dare dei frutti all'inizio del quarto secolo. Ma da qualche tempo si andavano levando parecchie voci di critica all'indirizzo di alcuni suoi aspetti e di proposta di altri indirizzi per il pensiero cristiano. Il caso più caratteristico É certamente quello di Metodio, vescovo di Olimpia in Licia. Questo teologo, di notevole cultura, scrittore fecondo e dotato, cominciò col presentarsi come un seguace di Origene, ma diventò poi sempre più critico nei confronti del maestro. Di lui si É conservato un "Trattato sul Libero arbitrio", dedicato soprattutto a un dibattito con i neoplatonici sull'origine del male; un "Banchetto delle Dieci vergini", che mira a sostituire l'elogio platonico dell'amore con un elogio della verginità che, peraltro, non si conclude con la condanna del matrimonio; un "Trattato della resurrezione", che contiene innanzitutto una confutazione delle idee di Origene su tale questione e su quella della preesistenza delle anime, ma anche l'esposizione di un moderato millenarismo. Metodio, la cui attività letteraria si colloca verso la fine del terzo secolo e i primi anni del quarto, morì verso il 311, ma lasciò un certo numero di discepoli. La sua influenza, però, rimase più limitata di quella di Luciano di Antiochia, suo contemporaneo, che insegnò nella metropoli siriaca per una quarantina d'anni, prima di morire a Nicomedia il 7 gennaio del 312. Luciano É un tipico esponente dell'ambiente degli intellettuali cristiani di Antiochia, in cui si coltivavano la retorica, le lingue e la letteratura più della filosofia, un ambiente che hanno illustrato, oltre a lui, due sacerdoti impegnati nella vita pubblica: l'ebraicizzante Doroteo, posto da Aureliano alla testa dei tintori di porpora di Tiro, e il retore Malcione, che insegnava la sua arte nelle scuole di Antiochia. Luciano, le cui opere purtroppo sono andate perdute, era innanzitutto un esegeta e non accettò mai il metodo allegorico di Origene, che gli appariva contrario alle buone norme ermeneutiche. Sembra che la sua teologia comportasse una cristologia riduttiva, in cui non si ammetteva la divinità del Cristo. Egli É stato accusato di aver ripreso in proprio l'eresia di Paolo di Samosata, ed É probabile che abbia optato per lui dopo la scomunica del 268 e sia rimasto a lungo ai margini della Chiesa ufficiale di Antiochia. Questa derivazione intellettuale, però, non permetterebbe di definirlo con esattezza, quand'anche fosse provata, perché‚ lo stesso pensiero di Paolo di Samosata É conosciuto molto male.

Comunque stiano le cose, Luciano ebbe numerosi ed eminenti allievi, che occuparono, alla fine del terzo secolo e all'inizio del quarto, posti ecclesiastici di primo piano in tutto l'Oriente. Le sedi episcopali di Nicomedia - la capitale imperiale - di Calcedonia, di Nicea, di Tarso, di Antiochia, la maggior parte di quelle di Palestina, contarono numerosi seguaci di Luciano tra i principali titolari di quest'epoca. Ario, il famoso sacerdote di Alessandria, era anch'egli un ex allievo di Luciano, ed É probabile che dovesse al maestro alcune delle sue idee. Tuttavia, la teologia di Luciano non aveva acquisito diritto di cittadinanza in Egitto, come avrebbe dovuto scoprire poco dopo Ario a proprie spese. Anche le idee dello stesso Origene vi erano violentemente attaccate da un tale di nome Pietro, che nel 300 divenne vescovo di Alessandria e che rimase in carica fino al 25 novembre del 311, la data del suo martirio. Questo personaggio ha pubblicato molte opere di teologia, in particolare un libro contro la preesistenza delle anime e un trattato sulla divinità; non ne rimangono che pochi frammenti, molto caratterizzati dalla polemica contro Origene. Sembra che Pietro si sia proclamato portavoce dei cristiani pii, turbati dalla ricerca teologica. In loro nome, egli combatteva senza remissione l'insegnamento del catechista Pierio e del suo predecessore Teognosto, nonostante la reputazione di questi due maestri. Si veniva così preparando il terreno per il grande problema ariano, nel corso della cui discussione i seguaci di Luciano e di Origene si ritrovarono ben presto fianco a fianco nel difendere i diritti del pensiero teologico, di fronte alla sorprendente coalizione dei sostenitori della devozione popolare con l'autorità imperiale. Press'a poco nell'epoca in cui la Chiesa di Alessandria precipitava in un oscurantismo pietistico, il cristianesimo occidentale dava prove letterarie del fervore e dell'ingenuità della sua fede, non turbata da nessuna preoccupazione teologica. Tre autori latini di origine africana, tutti e tre pagani convertitisi in età matura, hanno infatti lasciato ai posteri degli scritti composti verso la fine del terzo o il principio del quarto secolo. Arnobio, di Sicca in Numidia, un retore di grido, compose al momento del suo ingresso nella Chiesa (verso il 300-5. un'"Apologia contro i pagani" nella quale si esprimeva una fede sincera, ma poco informata. Lattanzio, un vecchio discepolo di Arnobio, stabilitosi a Nicomedia verso l'età di quarant'anni come professore di retorica latina, convertitosi verso la cinquantina (intorno al 300., continuò ad essere, dopo la conversione, quell'autore fecondo che era stato fin dal momento del suo arrivo in Oriente. Più aggiornato di Arnobio sugli insegnamenti della Chiesa, pubblicò parecchi scritti religiosi: "Sulla creazione" (verso il 300- 5.; "Le istituzioni divine" (tra il 304 e il 313.; "La collera di Dio"; infine, poco dopo l'interruzione della persecuzione, scrisse un libro sulla "Morte dei persecutori", nel quale, sotto la fredda veste retorica che gli É abituale, traspare la passione più accesa e, soprattutto, l'odio contro i sovrani persecutori. Infine, un altro africano, senza la minima cultura classica o teologica, un certo Commodiano - la cui biografia ci É completamente ignota - pubblicò tra il 260 e il 313 due poemi popolari destinati a propagare la fede e la morale cristiane, le "Istruzioni" e il "Poema apologetico". In essi, la dottrina É confusa, la metrica inesistente, la grammatica É fantasiosa, gli intenti edificanti; l'apocalittica millenaristica vi fa sfoggio, soprattutto nella seconda delle due opere. Ora, l'attesa di un regno di mille anni dei cristiani su questa terra si trova anche in Arnobio e in Lattanzio, insieme a un odio antiromano che solo il secondo, che ha avuto alla fine della sua vita rapporti con Costantino, riesce a mitigare un poco. Cosi, la pietà popolare sfociava in un'escatologia millenaristica e in una rottura morale con Roma, la cui conseguenza logica avrebbe dovuto essere la rivolta armata. Contemporaneamente, però, i cristiani progredivano rapidamente sulla via dell'integrazione completa nella società romana. Mentre sognavano la sostituzione di un miracoloso regime messianico al potere imperiale, essi cominciavano, in concreto, a prendere parte attiva nella gestione degli affari pubblici. Negli ultimi anni del terzo secolo e fino allo scatenarsi della persecuzione di Diocleziano, c'erano cristiani che occupavano posti elevati presso la Corte imperiale o che

governavano province e ai quali non si imponeva più l'obbligo di partecipare ai sacrifici della religione ufficiale. Nell'esercito, nonostante tutte le obiezioni dei moralisti, si trovavano in quell'epoca soldati e ufficiali cristiani, visto che a partire dal 298 Galerio cominciò ad allontanarli dalle unità poste sotto il suo comando. Essi dovevano accettare gravi compromessi per essere ammessi e tollerati in un corpo così rigidamente disciplinato, in cui l'idolatria collettiva non consentiva in genere alcuna eccezione. Al livello municipale, dei cristiani erano numerosi nelle curie, in particolare nelle province dell'Asia Minore, dove i loro confratelli nella fede formavano, alla fine del terzo secolo, la maggioranza o una minoranza molto rilevante della popolazione. Anche in Spagna, dove le Chiese restavano piuttosto piccole, c'erano verso il 300 dei cristiani come duumviri, cioè come incaricati della funzione municipale più elevata, e addirittura come flamini, ossia come responsabili del culto ufficiale, almeno in teoria. Il concilio di Elvira adottò alcune misure contro coloro che si compromettevano eccessivamente nell'esercizio di tali funzioni, ma non pot‚, pur nel suo estremo rigore, vietarle puramente e semplicemente ai fedeli. Al livello privato, i cristiani, continuavano, nel complesso, a praticare una morale austera. L'ascetismo di alcuni, continenti ed astinenti, non veniva consigliato alla massa dei fedeli, tranne in alcune Chiese scismatiche e in parte della Siria-Mesopotamia. Ma la fedeltà coniugale e il rispetto della gerarchia familiare erano raccomandati con successo dai predicatori cristiani, mentre in genere si sconsigliava di frequentare le feste e gli spettacoli. Nel campo degli affari, i cristiani praticavano frequentemente il prestito a interesse, nonostante la disapprovazione dei moralisti, che cercavano almeno di distoglierli dall'usura. Vi erano ormai dei cristiani anche nell'insegnamento e andava diminuendo il numero di quanti si rifiutavano di accedere al mondo della cultura avendone la possibilità. La letteratura cristiana, in precedenza spoglia di artifici, acquista con un Metodio di Olimpia o un Lattanzio la patina retorica allora di rigore per raggiungere il pubblico colto; É la prova dell'allineamento dei lettori cristiani al gusto dell'epoca. Si può, infine, sottolineare il declino della propensione per il segreto come un sintomo dell'adeguamento dei cristiani all'ambiente circostante. L'esistenza di ampi luoghi di culto nel pieno centro di grandi città, nel terzo secolo, dimostra come, approfittando della tolleranza ottenuta, il culto si considerasse sempre più come una pratica pubblica, tranne per quanto riguardava la celebrazione dell'Eucarestia. Insomma, di fronte a uno Stato rafforzato e di nuovo sicuro di s‚, si ergevano, attorno al 300, delle Chiese in rapida crescita, le cui dimensioni di massa acceleravano il processo di inserimento nella società, ma che avevano alcune difficoltà ad andare oltre la propria rudimentale democrazia interna e a prendere coscienza delle nuove responsabilità imposte dalla loro espansione nella sfera civica e in quella intellettuale. Da alcuni decenni, questo Stato e queste Chiese avevano scelto di ignorarsi a vicenda, dopo essersi violentemente scontrati. Una situazione del genere non poteva prolungarsi indefinitamente. - La battaglia decisiva. Anche se lo Stato romano aveva deciso, dopo il 260, di tollerare l'esistenza delle Chiese cristiane e aveva altresì accettato di facilitarne il recupero dei beni, nel 261-2, poi nel 272, come abbiamo già visto, lo statuto legale del cristianesimo rimaneva precario. Lo stato di cose di prima del 250 si era ristabilito e non garantiva ai cristiani una sicurezza maggiore che nel secondo secolo o nella prima metà del terzo. Vi fu un martire - un soldato - in Palestina verso il 261; ve ne furono probabilmente altri in Italia verso il 267-70, anche se la cosa resta dubbia. E' possibile che vi siano stati dei martiri anche sotto Aureliano (270-75. in Gallia e nell'Illiria; questo imperatore aveva sicuramente in animo di adottare misure anticristiane quando venne assassinato. Sembra però che, in seguito, i cristiani abbiano goduto di una completa tranquillità per più di vent'anni. La calma venne turbata dalle misure di epurazione messe in atto dal Cesare Galerio a partire dal 298.

Un numero ingente di ufficiali e soldati cristiani preferirono abbandonare l'esercito nelle circostanze più spiacevoli, piuttosto che piegarsi all'ordine di sacrificare, che si aveva la pretesa di imporre loro all'improvviso in modo rigido. Alcuni abiurarono, altri subirono il martirio nell'esercito del Danubio, sicuramente in unità i cui comandanti si mostrarono zelanti. Non sappiamo con sicurezza se le truppe comandate da Galerio furono le uniche colpite da tali misure, del resto conformi alle leggi vigenti. Conosciamo, per questo periodo, tre martiri nell'Africa settentrionale, ma pare si trattasse di casi di obiezione di coscienza senza alcun rapporto con l'epurazione generale dell'esercito. E' tuttavia verosimile che le misure adottate da Galerio, un Cesare autoritario e morbosamente attaccato al paganesimo, fossero del pari applicate negli altri corpi dell'esercito romano che non erano alle sue dipendenze, soprattutto in Occidente. Per un certo periodo, Diocleziano resistette alle esortazioni di Galerio, che lo spingeva a generalizzare le misure anticristiane. Ma nel 302, in seguito a un sacrificio celebrato in sua presenza e durante il quale i cristiani presenti a Corte si erano fatti ostentatamente il segno della croce, egli estese alle truppe sottoposte al suo comando le prescrizioni imposte alle sue da Galerio. Contemporaneamente, egli ordinò la flagellazione di tutti i servi del palazzo che si rifiutassero di sacrificare. Su istigazione di alcuni alti funzionari, come Ierocle, governatore della Bitinia nonch‚ discepolo di Porfirio, di alcuni esponenti della religione ufficiale e di Galerio, Diocleziano si decise, alla fine, nel febbraio del 303, a pubblicare un editto contro i cristiani, del resto meno severo di quello del 297 contro i manichei. Con molta accortezza, questo testo riguardava i beni e i diritti acquisiti dai cristiani per effetto della tolleranza, che si era gradatamente consolidata, ma che il loro rifiuto di associarsi alla religione dello Stato privava di qualsiasi solida base giuridica. Le Chiese dovevano essere distrutte e i libri sacri bruciati; le assemblee cristiane venivano vietate; i fedeli che rivestivano cariche o dignità pubbliche ne venivano destituiti; i cristiani perdevano il diritto di stare in giudizio, anche in caso di adulterio, di furto o di ingiuria; se accusati, potevano essere sottoposti alla tortura, quale che fosse il loro rango; gli schiavi domestici o affrancati che prestavano servizio nella casa imperiale sarebbero ricaduti nella condizione di schiavi ordinari, qualora avessero perseverato nel loro cristianesimo. Per sottolineare chiaramente la volontà di applicare rigorosamente tali misure, Diocleziano aveva fatto radere al suolo la Chiesa di Nicomedia alla vigilia della promulgazione dell'editto. In effetti, l'editto venne diffuso senza indugi in tutto il territorio dell'Impero e le autorità locali procedettero ben presto alla distruzione delle Chiese e dei libri o dei documenti che vi si trovassero. Solamente in Gallia e in Bretagna la nuova legge venne applicata in modo mite, dal momento che Costanzo Cloro, che governava queste province, disapprovava le misure adottate: qualche Chiesa fu distrutta, ma fu evitato qualsiasi incidente. Lo zelo dimostrato dovunque, altrove, dalle autorità mise i dirigenti delle Chiese in una situazione difficile, soprattutto per quanto riguardava i libri sacri. Alcuni li consegnarono o li lasciarono prendere dalla polizia, cosa che li screditò agli occhi di molti fedeli. Altri cercarono di nasconderli, cosa che ne provocò a volte l'esecuzione: fu questo il caso di Felice, vescovo di Tibica, nella provincia d'Africa, e di un intero gruppo di cristiani della Numidia. Accanto a questa resistenza passiva, vi furono azioni ben più ardite di rivolta contro un editto giudicato iniquo. A Nicomedia, un cristiano strappò il manifesto che conteneva le nuove disposizioni; fu condannato per lesa maestà e giustiziato sul rogo. L'atmosfera della capitale era così tesa, che i cristiani vennero accusati di avere appiccato il fuoco al palazzo imperiale e una sanguinosissima repressione si abbatt‚ sulla Corte e sull'intera città. Il vescovo Antimo, molti alti dignitari imperiali, tra cui Doroteo, Paolo e Gorgonio, numerosi fedeli vennero messi a morte dopo essere stati atrocemente torturati. Altri, tra i quali la moglie e la figlia di Diocleziano, sfuggirono al supplizio accettando di sacrificare.

In vari luoghi scoppiarono dei torbidi, nei quali sembra fossero coinvolti i cristiani; ciò accadde soprattutto nella regione di Mitilene e in Siria. Di fronte a questi tumulti, Diocleziano si spaventò e pubblicò di seguito due altri editti anticristiani nella primavera o nell'estate del 303. Il primo di questi editti ordinava l'arresto di tutti i capi delle Chiese e venne applicato in modo estensivo a tutti i cristiani che esercitassero un qualche ministero nelle comunità. Il secondo prescriveva la liberazione degli apostati e l'applicazione della tortura a tutti gli altri fedeli prigionieri. Un'amnistia concessa dall'imperatore a tutti i prigionieri nel corso dell'autunno del 303 sembra non sia stata estesa ai prigionieri cristiani, sui quali continuarono a gravare le peggiori minacce. Infine, un quarto editto nel 304, probabilmente strappato da Galerio a Diocleziano mentre era malato, rese obbligatori per tutti i cittadini i sacrifici o le libagioni necessari a provarne la lealtà nei confronti della religione ufficiale. Questo testo, che riprendeva le disposizioni dell'editto di Decio, era chiaramente rivolto in primo luogo contro i cristiani. La pena prevista per coloro che non obbedivano era la morte sul rogo o i lavori forzati a vita nelle miniere. La battaglia decisiva era ormai cominciata. Essa fu tremenda, tranne in Gallia e in Bretagna, dove l'influenza di Costanzo Cloro riuscì ad evitare ogni spargimento di sangue. Le province dell'Asia Minore, vicine alla capitale di Diocleziano, soffrirono in modo particolare; il Ponto conobbe una persecuzione assolutamente feroce e i cristiani di questa provincia fuggirono in gran numero, alcuni sulle montagne, altri in Armenia o fino in Persia, dove furono bene accolti e finirono per stabilirvisi. La Siria e la Palestina furono anch'esse colpite duramente ed ebbero molti martiri, i quali subirono i più svariati supplizi. Siamo particolarmente informati su questa regione, grazie al libro consacrato ai martiri di ciascuna Chiesa dall'eccellente testimone oculare, il vescovo di Cesarea, Eusebio, di cui parleremo in seguito. L'Arabia e la Mesopotamia non furono risparmiate. L'Egitto ebbe centinaia di martiri, che vennero trattati in modo così feroce che la popolazione si commosse e nascose un gran numero di cristiani sopravvissuti. Nelle regioni governate da Galerio, sulle quali abbiamo meno informazioni, la repressione fu altrettanto dura del resto del l'Oriente. La Tracia, la Mesia, la Macedonia, la Dalmazia, la Pannonia, il Norico ebbero i loro martiri, una parte dei quali sono noti, mentre molti di essi restano sconosciuti; in quelle regioni morirono molti vescovi. In Occidente, il vescovo di Roma, Marcellino, sembra sia scampato al supplizio, ma la sua Chiesa fu colpita senza risparmio e vide perire molti dei propri membri; altre Chiese d'Italia ebbero anch'esse i loro martiri, come Imola e Siracusa. La Rezia non venne risparmiata e l'Africa settentrionale cristiana conobbe nuovamente esecuzioni in massa, per non parlare dei supplizi individuali. La Spagna, infine, subì anch'essa gli effetti della persecuzione; noi conosciamo soltanto alcuni martiri delle sue Chiese principali, ma ve ne furono sicuramente parecchi altri. E' legittimo chiedersi quanto a lungo il cristianesimo avrebbe potuto resistere a un'aggressione di tale virulenza, guidata da uno Stato ricostituito, per il quale questa religione inassimilabile era diventata l'avversario da abbattere. Fortunatamente per le Chiese, l'Impero romano, a partire dal 306, fu indebolito da una nuova crisi intestina. Diocleziano e Massimiano avevano abdicato contemporaneamente il primo maggio del 305, in modo inaspettato. Costanzo Cloro e Galerio si trovarono così collocati come augusti alla testa dell'Impero. Al loro fianco, divennero cesari due uomini nuovi, creature di Galerio: Severo in Occidente e Massimino Daia, il nipote di Galerio, in Oriente. Massenzio, figlio di Massimiano, e Costantino, figlio di Costanzo Cloro, si trovarono estromessi, con loro grande irritazione. La tetrarchia, che sembrava essersi stabilizzata ed essere entrata nella tradizione, stava per essere sconvolta. La morte di Costanzo Cloro, nel luglio del 306, consentì a Costantino di accedere alla carica di Cesare, dopo un periodo di grave tensione con Galerio.

Massenzio si fece proclamare "princeps" a Roma nell'ottobre dello stesso anno e suo padre Massimiano venne a raggiungerlo e vi riprese le funzioni di Augusto, lasciate a malincuore diciotto mesi prima. Era la guerra civile. Essa non fu particolarmente accanita, ma vide ugualmente la morte di Severo (307., poi quella di Massimiano (310., quella di Domizio Alessandro, che nel 308 aveva usurpato il governo dell'Africa settentrionale (311. e, infine, quella di Galerio (maggio 311.. A metà dell'anno 311, l'impero era suddiviso tra quattro Augusti: Massimino Daia in Egitto e nelle province asiatiche; Licinio, un illirico amico di Galerio, dalla Grecia al Danubio; Massenzio in Italia e in Africa settentrionale; Costantino in Spagna, in Gallia e in Bretagna. Ma il regime della tetrarchia, che poggiava sull'ordinamento gerarchico dei sovrani e sulla loro intesa, era ormai in rovina e la guerra civile, sopita per un momento, stava per riprendere con più violenza di prima. In breve, dal 306 al 311 i governanti, tutti presi dalle loro manovre e dalle battaglie tra loro, non ebbero quasi la possibilità di portare avanti la campagna di sterminio lanciata da Diocleziano contro i cristiani. Inoltre, l'appoggio di questi non era trascurabile in certe circostanze, e questo contribuì in varie regioni a far cadere nell'oblio gli editti persecutori del 303 e del 304. La Spagna, duramente colpita per due anni, vide cessare la persecuzione nel 305, quando passò sotto il governo di Costanzo Cloro; malgrado le numerose vicissitudini politiche della penisola negli anni successivi, sembra che i cristiani non vi abbiano subito nuovi attacchi. In Italia, l'ascesa al potere di Massenzio nell'autunno del 306 segnò la fine della persecuzione attiva, già rallentata da un anno. La situazione, però, si andò normalizzando lentamente; soltanto nel 308 pot‚ essere eletto un nuovo vescovo di Roma, dopo un vuoto di quattro anni, e Massenzio intervenne con rudezza nelle lotte interne che agitarono questa Chiesa fino al 311. In Africa, la tempesta cominciò a calmarsi dal 305, ma numerosi cristiani furono coinvolti nell'usurpazione di Domizio Alessandro (308-11., il che provocò la morte di alcuni di essi quando le truppe di Massenzio riconquistarono la regione. La situazione dei cristiani rimase molto più difficile nella metà orientale dell'Impero. Nelle province danubiane vi furono esecuzioni almeno fino al 307. Sembra che Licinio abbia poi messo fine assai presto alla persecuzione, almeno nelle province corrispondenti all'attuale Jugoslavia, alle quali si limita il suo dominio fino al 311. In Grecia, in Tracia e in Asia Minore, Galerio perseverò nella repressione anticristiana e un certo numero di esecuzioni avvennero anche dopo il 305; siamo purtroppo male informati su questi martiri. In Siria, infine, e nelle province adiacenti, per esempio in Egitto, Massimino Daia dette prova di un particolare accanimento nell'applicazione degli editti anticristiani, soprattutto di quello del 304. I martiri furono numerosi ad Alessandria, a Gaza, a Cesarea di Palestina; si segnala in particolare il supplizio del giudice supremo d'Egitto, Filoromo, nel 306, e quello di Panfilo, il continuatore di Origene a Cesarea, nel 309. Nel 308 la persecuzione conobbe un momento di tregua per ragioni politiche, ma riprese con maggior vigore dopo pochi mesi in tutte le regioni sottoposte a Massimino Daia. Con tutto ciò, lo scacco della grande offensiva anticristiana era palese. Fin dal 307 o 308, l'editto del 304 rimase inoperante in oltre la metà dell'Impero; dovunque, l'appoggio dei cristiani appariva un importante elemento politico nelle lotte per il potere. Galerio, colpito dopo l'inizio del 310 da una misteriosa e incurabile malattia, si decise, sotto la pressione di Licinio, a riconoscere la propria disfatta. Nell'aprile del 311, egli promulgò a suo nome e in nome di Licinio e di Costantino (nonch‚, sicuramente, di Massimino Daia, il cui nome É scomparso dal testo che ci É stato conservato. un editto che concedeva ai cristiani il diritto di esistere e la libertà del culto, il che comportava la restituzione delle Chiese e dei beni ecclesiastici non ancora alienati dopo la confisca. Il tono era sdegnoso: alcune perifrasi restrittive e l'annuncio di testi complementari per stabilire le modalità di applicazione lasciano ancora sospese certe minacce sul capo dei cristiani. Ma, per la prima volta, l'autorità imperiale romana concedeva al cristianesimo lo statuto di "religio licita".

Dopo aver rischiato di sparire, le Chiese cristiane si vedevano infine riconoscere ufficialmente il diritto di vivere. L'Italia e l'Africa del Nord erano, però, governate da un Augusto dissidente, la cui indulgenza verso il cristianesimo, dopo il 308, era stata intaccata da alcuni incidenti, sia a Roma sia in Africa. Queste due regioni, quindi, non furono toccate dall'editto dell'aprile del 311, anche se la situazione dei cristiani si stava avviando verso una tolleranza di fatto. Inoltre, la morte di Galerio, il 5 maggio del 311, valse a Massimino Daia l'annessione dell'Asia Minore al suo dominio e gli fornì un pretesto per non applicare l'editto dell'aprile precedente. Anzi, Massimino Daia rilanciò la persecuzione, appoggiandosi sistematicamente sull'opinione pubblica pagana, mal disposta verso quell'editto. Egli creò, sul modello delle Chiese cristiane, una contro-Chiesa pagana dotata di considerevoli mezzi e autorizzata ad infierire contro i cristiani - cosa che gli era facilitata ulteriormente dal fatto di essere diretta da alti funzionari ed eminenti magistrati. Egli incoraggiò le città a sollecitare l'espulsione dei cristiani, molti dei quali vennero così banditi. Fece diffondere gli "Atti di Pilato", un libello contro Gesù Cristo. Moltiplicò le vessazioni di ogni sorta e fece procedere a un certo numero di esecuzioni, tra cui quelle dei vescovi Silvano di Emesa e Pietro di Alessandria, insieme al celebre teologo Luciano di Antiochia. L'applicazione dello storico editto dell'aprile del 311 incontrava, dunque, seri ostacoli, che vennero abbattuti in due anni, grazie a due decisive campagne militari. Costantino invase l'Italia verso la fine della primavera del 312 e schiacciò l'esercito di Massenzio sotto le mura di Roma, al Ponte Milvio, il 25 ottobre del 312. L'Italia e l'Africa si sottomisero ben presto. Costantino ordinò la restituzione alle Chiese di tutti i beni confiscati e il versamento di un contributo dell'erario pubblico per la costruzione di alcune Chiese, indubbiamente a compenso delle distruzioni seguite all'editto del 303. Queste misure si risolvevano nel fare applicare in Italia e in Africa le disposizioni dell'editto del 311 che erano rimaste lettera morta. Poco dopo l'inizio del 313, Costantino e Licinio si incontrarono a Milano. Le decisioni prese insieme a proposito delle Chiese cristiane, contrariamente a quanto si É spesso affermato, non costituirono oggetto di un nuovo editto, ma consistettero nel richiamare l'applicazione dell'editto del 311 in tutto il territorio romano. Tutto ciò riguardava direttamente Massimino Daia, al quale Costantino aveva scritto fin dall'autunno precedente per ordinare la fine della sanguinosa persecuzione e che aveva ritenuto prudente obbedire, senza peraltro concedere ai cristiani altro che una libertà di coscienza piuttosto formale. Esasperato, Daia invase la Tracia, dove venne sconfitto da Licinio (30 aprile 313., batt‚ in ritirata fin in Cilicia e si affannò a ristabilire una situazione molto complicata. Una delle misure da lui adottate fu un editto che ripeteva le disposizioni di quello del 311 e si esprimeva nei confronti delle Chiese esattamente negli stessi termini di Costantino e di Licinio. In seguito a nuovi rovesci militari, egli si suicidò poco dopo (estate 313. e Licinio si impadronì senza fatica di tutto il suo dominio. L'editto del 311 pot‚ così essere messo in vigore da un capo all'altro dell'Impero romano. Questo giorno tanto atteso, che le Chiese cristiane avevano meritato resistendo a così terribili prove, le trovava in una condizione disastrosa. Certo, i beni venivano loro restituiti e lo Stato romano concedeva compensi molto generosi per quelli che erano stati distrutti. Ma le perdite umane erano pesanti. Migliaia, forse alcune decine di migliaia di cristiani erano morti; fra di essi figurava la maggior parte dei vescovi e dei teologi, molti notabili, preti, diaconi, senza dire delle intere folle di gente semplice che, almeno in certe zone, aveva accettato di morire per la fede. Quasi tutte le Chiese si trovavano decapitate e molte decimate o quasi ridotte a zero. Oltre ai morti, vi erano gli innumerevoli apostati, molti dei quali, avendo sacrificato solo per aver salva la vita, intendevano essere reinseriti nella Chiesa, con grande indignazione di alcuni dei fedeli più rigidi.

Il prestigio dei vescovi, dei preti e dei diaconi che, nel 303, avevano tergiversato per cercare di evitare il peggio, era seriamente compromesso, come Mensurio, vescovo di Cartagine, che aveva consegnato alle autorità dei libri eretici in luogo di quelli sacri, doveva sperimentare personalmente fin dal 305-6. Il prestigio di cui godevano i confessori imprigionati tra la massa dei credenti permetteva a questi cristiani, coraggiosi ma spesso dalle idee molto semplici, di decidere su parecchie questioni rifacendosi all'autorità divina. Insomma, in varie Chiese si erano riprodotte tutte le condizioni perché‚ si riproponessero le controversie e gli scismi del 250-60. Queste difficoltà interne delle Chiese ci sono note in modo preciso solamente per quanto riguarda l'Egitto, Roma e l'Africa settentrionale. Dal momento che il vescovo Pietro di Alessandria, poco dopo il 304, aveva adottato misure molto indulgenti per il reinserimento dei "lapsi", il vescovo Melezio di Licopoli, nell'Alto Egitto, avviò un'ampia campagna contro di lui, approfittando del fatto che Pietro si era nascosto per sfuggire alle ricerche. Visto poi che egli aveva collocato in varie Chiese egiziane uomini della sua tendenza, Melezio venne scomunicato da Pietro e questo rese lo scisma inevitabile. La morte di Pietro, nel 311, non riuscì a rimediare in alcun modo, poich‚ Melezio, tornato dai lavori forzati nelle miniere, riprese la lotta contro i partigiani dell'ex-vescovo di Alessandria. Si consolidò, così, lo scisma meleziano, che caratterizzò la storia della Chiesa egiziana fin verso la metà del quarto secolo. Il calo del prestigio dei vescovi cattolici della regione É confermato dalla polemica che vide, dopo il 313, scontrarsi il vescovo di Alessandria, Alessandro, e un prete chiamato Colluto, che aveva cominciato ad ordinare per proprio conto sacerdoti e diaconi. Il clima piuttosto pesante che dominava le Chiese d'Egitto contribuì ad avvelenare gli avvii della crisi ariana, all'avvicinarsi dell'anno 320. A Roma, il vescovo Marcello, eletto nel 308, dopo una vacanza quadriennale del seggio vescovile, ebbe molto da fare per ristabilire la propria autorità. Relativamente severo nei confronti dei "lapsi" che chiedevano il reinserimento nella Chiesa, egli dovette far ricorso alla forza per ristabilire la disciplina; scorse il sangue e Marcello fu bandito dall'imperatore Massenzio. Egli morì in esilio (309. e i due partiti che si contrapponevano in seno alla Chiesa elessero ciascuno un proprio vescovo. Dopo quattro mesi di gravi torbidi, l'imperatore bandì i due rivali, che scomparvero poco dopo. Sembra che la sede sia rimasta di nuovo vacante per più di un anno, fino all'elezione di Milziade, con il quale alla fine si riuscì a ristabilire l'unità delle Chiese cattoliche di Roma, tranne la Chiesa novaziana (luglio 311.. In Africa settentrionale, lo scisma successivo alla persecuzione di Diocleziano fu infinitamente più grave ed ebbe ripercussioni più stabili. Abbiamo detto che il vescovo Mensurio di Cartagine era sospetto ai confessori e ai rigoristi della sua Chiesa fin dal 303; egli riuscì, tuttavia, ad evitare la rottura fino al momento della sua morte, nel 311. Però, c'era una grave tensione in tutta la regione tra i vescovi che resistevano e quelli sospetti di compromessi con i persecutori, anche se essi continuavano a convivere senza urti eccessivamente duri. L'elezione del diacono Ceciliano come successore di Mensurio appiccò il fuoco alle polveri. Il nuovo vescovo, infatti, era autoritario e poco incline all'indulgenza verso gli abusi del partito dei confessori, con il quale si scontrò subito senza troppi riguardi. I suoi avversari fecero appello ai vescovi della Numidia, i quali si riunirono nel 312 a Cartagine e sostituirono Ceciliano con un tal Maggiorino. Costui, a propria volta, nominò vescovi della sua tendenza là dove il titolare della sede si rifiutava di appoggiarlo. In pochi mesi, l'Africa settentrionale cristiana fu divisa in due e la lotta assunse un tono molto aspro tra la Chiesa cattolica e quella dei santi, fieri di non aver consegnato i libri sacri alle autorità durante la persecuzione, a differenza dei "traditores", come essi qualificavano i loro avversari. Maggiorino morì verso la fine del 312 o l'inizio del 313 e fu sostituito da colui che fin dall'inizio era stato l'anima dell'opposizione a Ceciliano, Donato, fino ad allora vescovo di Casae Nigrae, in Numidia, la città dove egli era nato verso il 270.

Questo personaggio dal temperamento vigoroso e dall'eloquenza travolgente, eccellente scrittore per giunta, fu per gli scismatici un capo considerevole ed É quindi giusto che gli storici parlino di donatismo per indicare il movimento, in parte religioso e in parte politico, che nacque dallo scisma del 312. Fu indubbiamente Donato a prendere la decisione di appellarsi alle autorità romane quando, nel marzo 313, l'imperatore Costantino prescrisse al proconsole d'Africa di versare ingenti sovvenzioni alla Chiesa diretta da Ceciliano. Questa decisione É di grande rilevanza storica, perché‚ essa spinse Costantino a superare lo stadio della generosa applicazione dell'editto del 311 e a lanciarsi in una politica ecclesiastica destinata a trasformare profondamente i rapporti tra le Chiese cristiane e lo Stato. Per capire in quali condizioni si É verificato questo radicale mutamento, É necessario conoscere in maniera più ampia la figura dell'imperatore Costantino. - Costantino. Flavio Valerio Costantino, nato verso il 280, era, come abbiamo visto, figlio di Costanzo Cloro e di un'inserviente d'albergo, Elena, che rimase la concubina di quest'ultimo fino al 289, quando dovette cedere il posto a una figliastra dell'imperatore Massimiano. Costantino fu perciò allevato alla Corte di Nicomedia ed entrò nella carriera militare, distinguendosi in operazioni contro i Sarmati (305.. Diventato Cesare alla morte del padre (306. grazie a un'accorta mescolanza di audacia e di realismo, egli continuò negli anni successivi a far avanzare con ogni mezzo la propria fortuna. Fin dal 310, riconosciuto come Augusto dai suoi colleghi, era il padrone esclusivo della Bretagna, della Gallia, della Spagna, una volta sbarazzatosi di Massimiano, del quale peraltro tre anni prima era diventato il genero. Nel 312, le sue qualità militari gli permisero di sconfiggere Massenzio e di annettere al suo dominio l'Italia e l'Africa settentrionale. Il nuovo signore dell'Occidente aveva dato prova, negli anni della sua rapida ascesa, di essere un generale eccellente e un politico ambizioso, che non si lasciava bloccare facilmente dagli scrupoli. Ma l'uomo era ancora più complesso. Nel fisico, egli era robusto e imponente. La sua propensione per la solennità era mitigata da un tratto affabile, che spesso gli permetteva di conquistare i cuori. Sembra lo animasse un sincero desiderio di agire secondo giustizia, e di ciò reca traccia la sua legislazione. Egli però rimase sempre superstizioso e soggetto a collere tremende che lo trascinavano a commettere i peggiori delitti; la sua vanità, inoltre, lo espose ben presto alle insidie degli adulatori. Si spiega così il miscuglio di arbitrio e di crudeltà, da un lato, e di riformismo umanitario, dall'altro, che ne caratterizza la politica dopo la vittoria su Massenzio. Costantino, nato pagano, aveva, come il padre, manifestato ben presto un'inclinazione in favore del sincretismo solare. Dal 307 al 310, le testimonianze letterarie o numismatiche documentano un suo attaccamento ad Ercole, che sembra sia stato imposto dall'esigenza di collaborazione con Massimiano, seguace di questo semidio. Con la morte di Massimiano, nel 310, Costantino rivolge il proprio ossequio al Sole, sotto il nome di Apollo, in seguito a un'apparizione concessagli da questo dio verso la metà di quell'anno in un tempio della Gallia. Questa scelta di un santo patrono appartenente al "pantheon" classico continua ad ispirare le leggende e le immagini di molte monete fino al 320. Ma le rappresentazioni religiosamente neutre ed anche cristiane, a partire dal 315, si moltiplicano sulle monete costantiniane negli anni successivi al 312, rimanendo le uniche a partire dal 320-2. I documenti ufficiali celebrativi della vittoria del 312 (Panegirico del 312, arco di trionfo innalzato in Roma. l'attribuiscono, in modo stranamente neutro, all'intervento divino, senza precisare il nome della divinità e senza fare menzione di una cerimonia in Campidoglio all'atto dell'ingresso solenne in Roma. Questa insolita discrezione, seguita dalla progressiva cancellazione dei segni di adesione al culto del "Sol invictus", richiede una spiegazione.

Si tratta forse di una scelta puramente e semplicemente politica in favore del cristianesimo, nel quale Costantino avrebbe visto una forza da utilizzare a proprio vantaggio? O bisogna prestar fede, con gli autori cristiani dell'antichità, al fatto che Costantino si sia convertito nel 312, in seguito all'apparizione del Cristo in suo appoggio poco prima della battaglia di Ponte Milvio? Il problema É stato, e resta, molto discusso. La tesi della scelta politica, per quanto possa apparire seducente, urta contro varie difficoltà. E' chiaro, infatti, che - nonostante la sua eroica resistenza alla persecuzione - il cristianesimo restava nel 310 una minoranza statisticamente poco rilevante in Occidente. L'esercito, in particolare, era quasi interamente devoto ai culti pagani; e si sa quale importanza decisiva avesse. Dal punto di vista politico, l'opzione in favore del cristianesimo non poteva se non rappresentare, in Occidente, una avventura rischiosa, soprattutto nel momento in cui molte Chiese erano ancora in piena confusione a causa delle lotte intestine conseguenti alla persecuzione di Diocleziano. La sola spiegazione soddisfacente della svolta inattesa del 312 É la seguente: in quell'anno si É avuta una conversione personale di Costantino e l'imperatore, da abile politico, ha evitato di renderla pubblica e di trarne tutte le implicazioni immediate, per timore di suscitare opposizioni pericolose. Soltanto nel 320 Costantino lasciò cadere ogni riserva e, di fronte a un Licinio così imprudente da lasciarsi coinvolgere in un conflitto aperto contro le Chiese, in quell'Oriente così cristianizzato, si presentò apertamente come soldato di Cristo. Resta da stabilire che cosa si debba intendere per conversione personale. Il solo racconto di quest'avvenimento che sembri degno di fede É quello di Lattanzio nel suo "De mortibus persecutorum", composto pochi anni dopo la vittoria di Costantino su Massenzio. Costantino, poco prima della battaglia di Ponte Milvio, avrebbe udito nel sonno una voce ordinargli di far incidere sugli scudi dei soldati una "X" ("chi" greca., traversata - sembra - da un tratto verticale con la sommità ricurva e che poteva quindi leggersi come una "P" ("rho" greca.. Questo segno celeste gli avrebbe garantito la vittoria. Ci si É posti una serie di domande sull'origine e sul significato di quest'emblema. Sembra probabile che Costantino vi abbia scorto il crisma utilizzato da tempo per indicare Gesù Cristo. Molto superstizioso, come tutti i suoi contemporanei, egli ha accettato l'ordine ricevuto e ha interpretato la vittoria come la prova della superiorità del Dio dei cristiani su tutti quelli che Massenzio invocava assiduamente: non gli restava altra via che diventare un seguace di questa divinità per consolidare il proprio successo. Ma certamente Costantino si É ben guardato dallo spiegare ai suoi soldati la propria interpretazione del segno, che si poteva anche intendere come rappresentazione del sole o del fulmine. Solamente da cinque a dieci anni più tardi il "labarum", lo stendardo delle truppe di Costantino, recò ufficialmente impresso il crisma. La conversione di Costantino del 312 sembra fosse, dunque, sincera, anche se non molto chiara. Essa consente di chiarire meglio il calore con cui l'imperatore intervenne alla fine del 312 e all'inizio del 313 per ottenere una larga applicazione del l'editto del 311, sia in Oriente sia in Occidente. Ma soprattutto spiega la prontezza con cui Costantino coglie l'occasione fornitagli dalla polemica donatista per lanciarsi nella politica ecclesiastica. Egli vi fu, d'altro canto, esortato dal vescovo Ossio di Cordova, che ne era appena diventato il consigliere per gli affari religiosi e che avrebbe continuato a svolgere questa funzione almeno fino al concilio di Nicea. Il ricorso depositato dai donatisti contro il vescovo Ceciliano di Cartagine chiedeva l'arbitraggio dei vescovi della Gallia, la cui imparzialità nei confronti dei "lapsi" sembrava garantita, dal momento che le loro Chiese non avevano subito la recente persecuzione. Costantino designò cinque arbitri, tra cui tre Galli e il vescovo di Roma, Milziade. Quest'ultimo convocò una quindicina di vescovi italiani, trasformando così la commissione di arbitraggio in un concilio straordinario riunito per occuparsi di un affare

affidatogli dall'Imperatore; in tal modo, senza volerlo, si stabiliva un precedente pericoloso. Il parere emesso dal concilio fu piuttosto favorevole a Ceciliano, ma cercò di trovare una soluzione di compromesso per lo scisma africano (ottobre 313.. I donatisti interposero appello all'Imperatore, che convocò tutti i vescovi dell'Occidente per un nuovo concilio destinato a decidere definitivamente la questione. Così, fin dalla fine del 313, Costantino rimetteva in discussione una decisione conciliare che non gli era gradita e si arrogava il diritto di convocare direttamente un concilio generale dei vescovi dei suoi Stati. Nessuno - a quanto pare - se ne preoccupò, nell'ambito delle Chiese. E' vero che il 313 era stato un anno di generose elargizioni alle casse ecclesiastiche e che le donazioni imperiali erano ben presto andate oltre le somme necessarie alla ricostruzione. Questi inauditi favori bloccavano anche i vescovi più ribelli. D'altra parte, la riunione del concilio di Arles fu facilitata dall'imperatore, che non si limitò a convocare i vescovi, ma li fece trasportare a sue spese dalla posta pubblica e concesse le stesse agevolazioni al loro seguito, previsto di cinque persone per ciascun vescovo. Il concilio, che riunì quarantasei vescovi o loro rappresentanti, si tenne nell'agosto del 314. Esso condannò i donatisti e, in due dei canoni (decreti., rigettò alcune usanze africane che risalivano a un'epoca molto remota: l'imposizione di un nuovo battesimo impartito agli eretici convertiti; la nullità delle ordinazioni conferite da peccatori. Ciò equivaleva a fornire ai donatisti l'occasione di presentarsi come i difensori della tradizione africana, come si affrettarono a fare con grande successo. Le altre decisioni prese ad Arles furono decisioni di ordine disciplinare; esse riguardavano in buona parte il clero. Le disposizioni riguardanti i laici sono ispirate al tradizionale rigorismo, ma due di esse meritano di richiamarvi l'attenzione: i soldati che si ribellino all'autorità sono passibili di scomunica; i cristiani che accedano ad incarichi elevati nelle città e nelle province meritano la stessa pena solo se contravvengano alle norme della disciplina cristiana. In altri termini, il prestar servizio negli incarichi statali cessava di essere considerato sospetto o addirittura empio. Il cristianesimo accelerava la sua marcia verso l'inserimento nella società. Anche la società, del resto, si sarebbe cristianizzata ben presto. A partire dal 315-6, l'abbondante legislazione promulgata da Costantino reca tracce dell'influenza cristiana, soprattutto per la protezione accordata ai contadini poveri, agli orfani, alle vedove, agli schiavi, ai prigionieri, ma anche là dove accentua la severità del diritto matrimoniale, punisce i rapporti sessuali extraconiugali e sopprime le leggi di Augusto contro il celibato. Nel 320-1, la domenica, considerata ancora come giorno del Sole, diventa giorno festivo, soprattutto per i tribunali. Tale trasformazione cristiana, ancora indiretta e mascherata, si accompagnò, a partire dal 318, con misure destinate ad assegnare alle Chiese uno statuto privilegiato nella società: nel 318, la giurisdizione episcopale ricevette un primo riconoscimento; nel 321, le Chiese furono autorizzate a ricevere eredità; nel 321 e nel 323, ai preti venne accordato il diritto di affrancare i propri schiavi senza formalità e di fungere da testimoni alle dichiarazioni con cui venivano affrancati gli schiavi da parte di altri in seno alle Chiese. Questa duplice tendenza, alla cristianizzazione del diritto e all'attribuzione di uno statuto speciale al clero, si rafforzerà dopo la conquista dell'Oriente da parte di Costantino nel 324, ma era già ben chiara molti anni prima. Il riavvicinamento così attuato tra la Chiesa e la società rese inconcepibile ogni resistenza ecclesiastica alla crescente ingerenza dell'Imperatore negli affari interni del cristianesimo. E' vero che l'assenza di qualsiasi organismo di collegamento e di coordinamento tra le Chiese delle varie regioni avrebbe in ogni caso lasciato campo libero a Costantino, mentre le controversie tra cristiani richiamavano l'intervento esterno per il modo in cui si acutizzavano e si manifestavano.

Nella questione che agitava l'Africa settentrionale, ad esempio, la sentenza del concilio di Arles costituì immediatamente l'oggetto di un appello all'imperatore da parte dei donatisti. Costantino rinviò i vescovi nelle rispettive Chiese così come li aveva convocati e annunciò la sua intenzione di decidere personalmente la controversia. Ceciliano e Donato, fatti chiamare a Corte, vi giunsero con qualche ritardo (315 o 316. e furono messi in domicilio sorvegliato a Brescia, mentre l'imperatore inviava due vescovi a Cartagine per insediarvi un nuovo pastore in grado di ricostruire l'unità di questa Chiesa, profondamente divisa. Fu un fallimento totale, e Donato, poi Ceciliano, riuscirono a raggiungere Cartagine e a riprendervi le rispettive funzioni. Adirato, l'Imperatore pronunciò nel novembre 316 una sentenza totalmente favorevole a Ceciliano e ordinò che venissero consegnati ai seguaci di questi tutte le Chiese occupate dai donatisti, i cui capi venivano condannati all'esilio e alla confisca dei beni. Quando vollero eseguire tali decisioni, le autorità imperiali dell'Africa settentrionale urtarono contro un'accanita resistenza dei donatisti, saldamente radicati negli ambienti popolari. L'esercito dovette intervenire e commise orribili eccessi, da Cartagine fino all'estremo lembo della Numidia. I morti furono numerosi. Restituite le Chiese ai cattolici, ci si accorse che la questione non era affatto chiusa. Sotto la direzione di quell'eccellente animatore che era Donato, gli avversari dei cattolici condussero un'intensa campagna d'opinione, contro cui le autorità cercarono di reagire, senza grande successo. Alla fine, l'imperatore si rassegnò, nel 321, ad accordare ai donatisti libertà di coscienza e di culto. Da allora, di fronte a una Chiesa cattolica ispirata e protetta dalle autorità romane, si vide sorgere in ogni località dell'Africa settentrionale una Chiesa donatista libera da qualsiasi rapporto con il potere, popolare e in forte espansione. Non sorprende il fatto che, in seguito, il donatismo sia apparso come l'espressione del particolarismo africano ed abbia assunto una coloritura politica di cui sembra fosse privo in origine. Questa evoluzione, che consolidò lo scisma in Africa settentrionale e costrinse i cattolici di questa regione sulla difensiva, impedì d'altra parte l'espansione del movimento nel resto dell'Impero, all'infuori di Roma, dove si costituì una Chiesa donatista nel cuore della colonia nordafricana. I tentativi di Costantino di risolvere la crisi donatista lo avevano portato, dal 316, a sostenere la parte di legittimo difensore delle Chiese cattoliche dagli avversari provenienti dalle file cristiane. Ma soltanto dopo aver conquistato l'Oriente, nel 324, egli intervenne direttamente contro le altre Chiese considerate eretiche o scismatiche dai cattolici (marcioniti, montanisti, gnostici, novaziani., in particolare con una legge del 326 e una lettera del 322. Sicuramente, il suo silenzio precedente si spiega con la debole diffusione di tali eresie in Occidente. Potrebbe, in parte, derivare anche da una cautela politica, di cui un'ulteriore manifestazione É la tolleranza concessa ai donatisti nel 321. Pur avendo chiaramente mostrato da che parte si rivolgessero i suoi favori, Costantino ci teneva a mantenere in equilibrio la bilancia tra le varie religioni cui si richiamavano i suoi sudditi. Le poche leggi relative al paganesimo tradizionale da lui promulgate prima del 324 riguardano solamente gli abusi già riprovati dagli imperatori pagani: magia, esercizio dell'aruspicina in case private. Su quest'ultimo punto, del resto, vennero introdotte nel 320 e nel 321 delle attenuazioni a una legge troppo rigida del 319; É la prova di una certa volontà di conciliazione con i cittadini che restavano fedeli a tale pratica. Tutti i riti pagani continuavano ad essere celebrati nei santuari, non più così dotati come prima, ma che ancora nessuno pensava di chiudere. Nei confronti degli Ebrei, Costantino approvò una legge che impediva qualsiasi propaganda (315., ma concesse loro la tolleranza nel 321, riconfermando tale disposizione nel 330 e nel 335.

Si può, dunque, parlare, per il periodo dell'impero di Costantino che va dal 312 al 324, di una politica di tolleranza religiosa temperata da un crescente favoritismo verso il cristianesimo nella sua forma cattolica. - Le Chiese d'Oriente. Le Chiese d'Oriente, più numerose di quelle d'Occidente, erano, come abbiamo visto, uscite dal periodo delle persecuzioni violente solo nel corso del 313, con la vittoria di Licinio su Massimino Daia. Esse ottennero da Licinio l'applicazione dell'editto del 311, insieme alla restituzione dei beni confiscati. Ma l'intervento del nuovo padrone d'Oriente in favore del cristianesimo, al quale non sembra abbia mai pensato di aderire, si fermò qui. Furono direttamente le Chiese ad assumersi l'onere dell'indispensabile ricostruzione degli edifici e delle istituzioni. Un po' dovunque vennero restaurate le chiese distrutte nel corso della persecuzione, si celebrarono grandi cerimonie di consacrazione dei luoghi di culto restituiti dopo la confisca, si costruirono e inaugurarono solennemente nuovi santuari. I grandi raduni di cristiani che ebbero luogo in queste occasioni furono insieme manifestazioni di forza e di ottimismo delle Chiese. L'eloquenza sacra vi si profuse a fiumi; Eusebio di Cesarea ci ha conservato un saggio del sermone pronunciato da lui in una di queste cerimonie ("Storia ecclesiastica" X, 4, 2-72.: si tratta di un vero e proprio inno di trionfo, in uno stile arzigogolato. Queste stesse cerimonie costituirono anche l'occasione di incontri tra vescovi, che si mutarono a più riprese in concili interregionali, due dei quali ci sono noti per i loro decreti: quello di Ancira, riunitosi nel 314 e che raggruppava i vescovi di quasi tutte le province asiatiche dell'Impero, e quello di Neocesarea, che si tenne tre o quattro anni dopo e in cui furono rappresentate più o meno le stesse province. Il primo di questi concili adottò una serie di misure riguardanti il reinserimento dei "lapsi" nella Chiesa; stabilendo un sapiente dosaggio del periodo di penitenza che andava inflitto a questi ultimi, sembra che il concilio sia riuscito ad evitare nell'Asia romana le contestazioni e gli scismi che stavano conoscendo in quel periodo le Chiese d'Egitto, di Roma e dell'Africa. Le altre decisioni prese ad Ancira e quelle di Neocesarea includono alcune norme penitenziali per vari peccati gravi (assassinio, peccati sessuali, magia. e un certo numero di regole disciplinari e amministrative concernenti i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Le Chiese di Palestina, di Siria, e dell'Asia Minore superavano così il livello della collaborazione transitoria volta a cancellare le conseguenze della grande crisi del 303-13 e si impegnavano per la prima volta sulla strada dell'omogeneizzazione della disciplina ecclesiastica, assegnandole contemporaneamente un preciso carattere giuridico. Si tratta di Chiese che raccolgono masse che si organizzano autonomamente, senza ricevere aiuto o stimolo da parte dello Stato, come avviene in Occidente. Questo spirito d'iniziativa sembra non facesse piacere a Licinio, il quale, a partire dal 320, adottò un atteggiamento sempre più ostile nei confronti del cristianesimo. Egli cominciò col proibire le riunioni dei vescovi, che evidentemente temeva potessero assumere un carattere politico; ogni vescovo doveva rimanere in permanenza all'interno della propria Chiesa. I membri del clero vennero privati del diritto di visita nelle prigioni. Sembra che siano state regolamentate severamente le celebrazioni dei matrimoni e dei funerali. Non contento di arginare gli sconfinamenti del clero nel campo delle prerogative statuali, Licinio attaccò anche la partecipazione dei cristiani agli incarichi pubblici: tutti i funzionari imperiali vennero invitati o a sacrificare o a dimettersi. Infine, atteggiandosi a difensore dell'ordine e della moralità pubblica, l'imperatore limitò drasticamente la libertà del culto cristiano: divieto di assemblee miste, le donne dovevano riunirsi a parte e ricevere l'insegnamento religioso da persone dello stesso sesso; divieto delle riunioni tenute nelle case private e all'interno della città. Questo comportava la disorganizzazione della vita liturgica e la chiusura delle chiese appena ricostruite. I cristiani dell'Oriente romano accolsero molto male simili misure; vi furono resistenze che provocarono sanzioni rigorose. Alcune chiese vennero distrutte, chierici e fedeli vennero arrestati e furono loro confiscati i beni.

Come ogni volta che si sfidava l'autorità imperiale, si ebbero anche torture ed esecuzioni, i cui particolari ci sfuggono per la mancanza di documentazione. Si citano casi di martirio a Amasia nel Ponto, a Edessa in Mesopotamia e a Sebaste nella Piccola Armenia, dove sembra che quaranta soldati abbiano subito la pena capitale per essersi rifiutati di rinnegare la fede cristiana. Vi furono anche, soprattutto tra i funzionari, un certo numero di apostati. Per una coincidenza per nulla casuale, l'anno 320 segnò anche la rottura tra Costantino e Licinio. Un breve conflitto sveva già contrapposto i due imperatori nel 314 e si era chiuso con un consistente arretramento da parte di Licinio, che era stato costretto a cedere a Costantino la Dalmazia, la Grecia e la maggior parte delle province danubiane. Ma la conciliazione che ne era seguita era apparsa totale e i cristiani d'Oriente avevano preso l'abitudine di elogiare a una voce i due imperatori, ai quali la loro religione doveva la pace e la libertà. La rottura del 320, come quella del 314, fu provocata, almeno in parte, dall'ambizione dinastica di Costantino. E' quasi certo, però, che l'Imperatore d'Occidente, di cui era ormai palese l'atteggiamento di favore verso i cristiani, si fosse risentito per le misure adottate da Licinio contro le Chiese, quasi si trattasse di un affronto personale. Inoltre, Costantino era abbastanza abile politicamente da approfittare di tutto il vantaggio che poteva ricavare dall'errore commesso dal suo rivale, nei cui Stati i cristiani costituivano una minoranza piuttosto consistente ed erano addirittura la maggioranza in alcune province. La guerra scoppiò nel 322. Ben più di quella del 312 tra Costantino e Massenzio, essa ebbe il carattere di una guerra di religione: l'esercito dell'Imperatore d'Occidente combatteva all'insegna del "labarum", mentre Licinio espresse il giuramento solenne di sradicare il cristianesimo. Dopo una dura campagna, Costantino ebbe la meglio all'inizio dell'autunno del 324, fece prigioniero Licinio - che sei mesi dopo fece uccidere - e divenne il signore unico di tutto l'Impero. Il 16 dicembre egli abrogò tutte le disposizioni di Licinio. Ma egli aveva già adottato tutti i provvedimenti indispensabili a cancellare anche le più piccole tracce della repressione: liberazione dei detenuti, restituzione di tutti i beni confiscati, ritorno alla piena libertà di culto. Inoltre, tutti i vescovi d'Oriente avevano ricevuto da lui lettere che promettevano terreni, materiali e fondi per la costruzione di nuove chiese. Insomma, prima della fine del 324, il cristianesimo orientale godeva dello stesso regime di privilegio delle Chiese d'Occidente. Le altre religioni rimanevano tollerate e conservavano una piena libertà di culto, ma con delle clausole così sprezzanti che mostravano chiaramente da che parte pendesse il favore dell'Imperatore. Nella nuova capitale, l'antica Bisanzio, scelta nel 324 perché‚ diventasse "Costantinopolis", i templi pagani rimasero in piedi e vennero anche ampliati, ma l'imperatore curò personalmente la costruzione di parecchie Chiese cristiane. L'Impero non rompeva con il proprio passato pagano, ma il sovrano si impegnava per collocare il cristianesimo in una situazione di privilegio. Dal 325, ingenti dotazioni di fondi vennero per sua cura destinate ad alimentare un vero e proprio bilancio del culto cristiano, che servì soprattutto a finanziare la costruzione di alcune grandi chiese alle quali si interessava in modo particolare la famiglia imperiale. Questa politica incontrò tra i cristiani d'Oriente la stessa accoglienza entusiastica che aveva avuto tra quelli d'Occidente. Sembra che Eusebio di Cesarea interpreti fedelmente l'opinione dei cristiani allorch‚, nei suoi scritti, adula Costantino senza nessuna riserva. Nato nel 265, questo Palestinese aveva già riscosso una grande fama di erudito, quando scoppiò la persecuzione di Diocleziano, nel 303. La sua "Cronaca", una specie di compendio della storia universale, risaliva già a qualche anno prima e, oltre a questa, egli aveva appena scritto una "Storia ecclesiastica", in cui si valeva di un'abbondante documentazione e con la quale dava vita a un nuovo genere nell'ambito della letteratura cristiana. Imprigionato nel corso della persecuzione, egli riuscì però a sopravvivere, a differenza del maestro, Panfilo, che gli aveva trasmesso l'eredità di Origene.

Divenuto vescovo di Cesarea verso il 314, Eusebio fu, in seguito, uno dei principali difensori delle idee di Origene contro gli eccessi dei teologi che identificavano in modo troppo completo il Cristo e Dio, e questo gli provocò molte difficoltà al momento della disputa ariana, su cui torneremo. Egli non abbandonò mai la sua attività di erudito; impegnò soprattutto grossi sforzi per migliorare i manoscritti della Bibbia e commentò parecchi libri del "Vecchio" e del "Nuovo Testamento". Il resto delle pubblicazioni teologiche É abbondante, ma di valore molto diseguale. Egli ripubblicò, tra l'altro, nel 325, la sua "Storia ecclesiastica", che aggiornò fino al trionfo di Costantino nel 324, e pubblicò alla fine della sua vita (poco prima del 340. una "Vita di Costantino", che contiene alcune interessanti notizie e soprattutto fornisce la testimonianza di uno stato d'animo. Lo straordinario entusiasmo che Eusebio nutre per il sovrano, malgrado le colpe e i crimini di questi, É particolarmente rivelatore. Ciò che riesce ad esprimere un intellettuale fornito di spirito critico e che non si ridusse mai a un volgare cortigiano non va certamente al di là di quel che provava la massa dei cristiani. Se la politica di Costantino É riuscita a suscitare un simile entusiasmo, lo si deve al fatto che l'inserimento del cristianesimo nella società era già molto avanzato, nonostante nel 303 la persecuzione fosse ripresa. Di tale crescente assimilazione dei cristiani rispetto all'ambiente abbiamo anche un'altra prova, questa volta negativa: la nascita del monachesimo, un movimento minoritario di rifiuto della vita sociale, direttamente ispirato dalla fede cristiana. Questa corrente ascetica nacque in Egitto e impresse nuovo vigore alla tradizione di austerità e di rinuncia presente nel cristianesimo a partire dalle origini e intiepiditasi alquanto dopo l'inizio del terzo secolo. Verso il 250-70, un certo numero di anacoreti cristiani si ritirarono ai bordi del deserto, nell'Alto Egitto, per condurvi in capanne isolate un'esistenza di preghiera e di meditazione individuale. Il modello di questi precursori É un personaggio del tutto leggendario, Paolo di Tebe, ma l'esistenza in s‚ del movimento e la sua data approssimativa sono incontestabili. Verso il 270, un certo Antonio, di circa vent'anni, rampollo di una famiglia cristiana agiata del Medio Egitto, si ritirò nel deserto, dopo aver distribuito tutto quel che aveva ereditato. Per circa trent'anni egli visse in penitenza e in rigorosa solitudine. Poi, nei primi anni del quarto secolo, egli si avvicinò alle zone abitate, raccolse intorno a s‚ dei discepoli, visitò i confessori nelle prigioni dove erano rinchiusi. Verso il 312, egli ritornò da solo in pieno deserto, dove visse fino al 356. Antonio rimane l'esempio classico dell'anacoreta in lotta contro i demoni che lo assalgono da tutte le parti, ma che non rinuncerebbe per alcun motivo alla solitudine pur di sfuggire a una simile lotta. Altri gruppi di asceti, riuniti attorno a un maestro, senza peraltro condurre vita in comune, si andarono formando ai margini del deserto d'Egitto all'inizio del quarto secolo. Un ex centurione, Pacomio, nato attorno al 292, dopo esser vissuto per molti anni in un gruppo del genere, cominciò nel 323 a dar vita a un nuovo tipo di monastero, dove si sarebbe praticata la vita in comune secondo una regola precisa. Dopo avvii molto lenti, egli riuscì a organizzare prima della sua morte (346. nove monasteri maschili e due femminili. Ciò significa che l'Egitto cristiano, già colpito dallo scisma meleziano, contava un buon numero di credenti che non erano in alcun modo attratti dall'inserimento nella società. Il movimento raggiunse la Palestina e la Siria prima del 325. In Palestina fu un certo Ilarione a stabilirsi nella solitudine, non lontano da Gaza, verso il 307, al ritorno da una visita ad Antonio. Venti anni dopo, egli era famoso, attorniato da numerosi anacoreti, sollecitato a consigliarne molti altri che si erano stabiliti in altre parti della Palestina: anche qui, dunque, vi erano dei cristiani per nulla contenti dell'inserimento nella società. In Siria, sembra che sia stato proprio l'esempio di Ilarione a stimolare la sistemazione nel deserto di un certo numero di anacoreti molto prima della metà del quarto secolo. L'immensa popolarità di cui godevano questi asceti tra i contadini costituisce un ulteriore sintomo del fatto che l'assimilazione alla cultura greco-romana non andava a genio a tutti i cristiani.

La diffusione rapidissima del monachesimo in tutto l'Impero romano, in Armenia e nell'Impero persiano, tra il 325 e il 400, sta a confermare come il rifiuto del mondo restasse una componente importante della spiritualità cristiana, anche là dove le Chiese avevano lasciato cadere ogni riserva nei confronti delle autorità civili e si orientavano in misura crescente verso un'identificazione tra cristianesimo e civiltà. - La controversia ariana e il concilio di Nicea. Nonostante il trionfo dell'autunno del 324, le Chiese orientali avevano da risolvere perlomeno altrettanti problemi di quelle occidentali dieci anni prima. Tuttavia, il più urgente di tali problemi non era n‚ il rifiuto monastico del mondo, n‚ lo scisma di Melezio, n‚ l'esistenza di Chiese scismatiche o eretiche, peraltro numerose. Il problema più urgente da risolvere era la controversia ariana. Ario era un prete di Alessandria, la cui origine e i cui inizi rimangono oscuri, ma che sembra sia stato allievo di Luciano di Antiochia. Uomo di una certa età, rispettato per la sua scienza e per la sua austerità, egli era stato ordinato sacerdote dal vescovo Achillas, ex capo della scuola catechistica di Alessandria, nel 312. La sua predicazione e il suo insegnamento ebbero grande successo fino al giorno in cui Alessandro, il successore di Achillas, gli vietò di continuare a diffondere la sua dottrina (verso il 318.. La controversia riguardava la teologia trinitaria. Ad Ario premeva innanzitutto salvaguardare il ruolo del Padre, l'unica persona increata ed eterna, principio di tutti gli esseri. Il Figlio o "Logos" non veniva con ciò identificato con il resto delle creature, perché‚ la sua creazione era precedente a qualunque secolo e non pativa i limiti di quella delle creature non divine. Egli, però, era nettamente subordinato al Padre, l'unico Dio nel senso pieno del termine. Come Origene, come Dionigi Alessandrino, come Luciano di Antiochia, Ario cercava di combattere le formulazioni semplicistiche della devozione popolare che identificava quasi completamente il Cristo e Dio Padre, cosa che contrastava con l'intera Bibbia e rendeva impossibile qualsiasi elaborazione teologica della fede cristiana. Convinto di sostenere una dottrina condivisa da tutti i seguaci di Origene e di Luciano, Ario non volle sottomettersi. Il vescovo Alessandro riunì allora a concilio tutti i vescovi d'Egitto e della Cirenaica ed ottenne la condanna e la destituzione di Ario e di tutti i suoi sostenitori, vescovi, sacerdoti e diaconi: una ventina in tutto. Qualche tempo dopo, senza che si sia in grado di precisare la data, ritroviamo Ario a Cesarea di Palestina, presso il vescovo Eusebio, di cui abbiamo parlato sopra. Con l'appoggio di questo famoso erudito, egli intraprese una campagna epistolare in difesa delle proprie tesi ed ottenne l'appoggio di Eusebio di Nicomedia, per cui lo raggiunse nella capitale imperiale. Questo Eusebio, già allievo di Luciano di Antiochia, quindi vescovo di Berito, si era conquistato a Nicomedia la fiducia dell'imperatrice Costanza, sorella di Costantino e moglie di Licinio. Per suo tramite, dopo la vittoria di Costantino, egli sarebbe entrato in rapporto con l'imperatore e ne avrebbe guadagnato il favore. Eusebio di Nicomedia concesse ad Ario il suo incondizionato appoggio, riunì nella sua città un concilio provinciale, che lo riabilitò e lo esortò a inviare, insieme ai suoi seguaci egiziani, un'esposizione della loro dottrina ad Alessandro; questo testo, che ci É stato conservato, É del tutto ortodosso. Ma Alessandro negò ugualmente il perdono e si scagliò in una campagna epistolare contro Ario. Per nulla intimidito, questi scrisse un'esposizione popolare delle sue idee, la "Thalìa", di cui rimangono solo alcuni frammenti, in parte in versi, quindi rientrò ad Alessandria con i suoi compagni. Una volta tornato, egli ritrovò buona parte del suo pubblico di fedeli. La città si riempì delle discussioni dei sostenitori delle due parti e i pagani ironizzarono abbondantemente su questi strani dibattiti, in cui la teologia più astratta veniva tradotta in inni. Nel frattempo, Costantino entrò da vincitore a Nicomedia.

Informato sulle ultime novità della cristianità egiziana, inviò ad Alessandria il proprio consigliere ecclesiastico, Ossio di Cordova, il quale, al pari di lui, considerava con stupore ed impazienza queste disquisizioni tra orientali. Informato dal suo emissario e sollecitato da varie parti ad intervenire, Costantino convocò allora a Nicea, una città vicinissima a Nicomedia, un concilio ecumenico, cui erano invitati i vescovi di tutto il mondo: la posta imperiale avrebbe provveduto al loro trasporto. Era un modo di riprendere, riadattandola alla nuova situazione creatasi dopo la caduta di Licinio, l'idea che aveva guidato l'Imperatore allorch‚ aveva convocato ad Arles, nel 314, un concilio di tutto l'Occidente per risolvere la questione donatista. Ma l'avvenimento era destinato ad avere un'altra dimensione e a rappresentare per l'intera storia del cristianesimo un precedente importantissimo, non solo perché‚ le Chiese si vedevano dotate di un organo supremo di natura collegiale, ma anche perché‚ il concilio ecumenico assumeva fin dall'inizio una funzione dottrinale. La confessione di fede, fino ad allora strettamente connessa al culto, e la riflessione teologica, ancora pochissimo controllata dall'autorità ecclesiastica, avrebbero perso in tal modo la loro autonomia e si sarebbero fuse in un dogma di carattere formale, la cui esistenza era destinata a modificare profondamente le condizioni dell'unità cristiana e la vita di ognuna delle Chiese locali. Il concilio di Nicea, che si aprì il 20 maggio del 325, riunì dai duecentocinquanta ai trecento vescovi, un numero mai raggiunto fino ad allora. La maggior parte dei capi delle Chiese riuniti a concilio proveniva dall'Asia Minore, dall'Egitto, dalla Siria-Palestina. Le province greche d'Europa avevano delegazioni molto più ristrette. Tutte le altre grandi regioni dell'Impero erano rappresentate da uno e a volte due vescovi, tranne la Bretagna e alcune province danubiane occidentali. Il vescovo di Roma aveva mandato due sacerdoti, che si aggiunsero a un vescovo della Calabria in rappresentanza dell'Italia. Le Chiese dell'Oriente non romano erano rappresentate dal vescovo del regno del Bosforo, da quello di Pitionte nel Caucaso, da due vescovi del regno d'Armenia e da uno della Persia. Tra questa schiera abbastanza variegata, i teologi di valore non erano molto numerosi e rappresentavano la duplice tradizione che faceva capo ad Origene e a Luciano, poco apprezzata dalla maggior parte dei colleghi, presso i quali prevaleva una mentalità di ex militanti delle grandi persecuzioni. Sembra che i partecipanti fossero unanimi nell'ammirare indiscriminatamente Costantino, il protettore delle Chiese. Il concilio, riunitosi nella sala principale del palazzo imperiale di Nicea, fu appunto aperto da un'allocuzione dell'Imperatore, la cui maestosa semplicità produsse una viva impressione sui presenti. Costantino assistette di persona a una parte delle deliberazioni e probabilmente vi prese ogni tanto la parola. La controversia ariana fu uno dei principali oggetti di discussione. Alle formulazioni troppo ardite usate da Ario in certi suoi scritti popolari, i vescovi di ogni tendenza intesero contrapporre qualcosa di diverso dalle tradizionali confessioni di fede, alle quali alcuni avevano inizialmente ritenuto che ci si dovesse attenere. Il concilio, dunque, cominciò ad elaborare, sulla base della confessione battesimale di Cesarea di Palestina, un simbolo che enunciava la cristologia ortodossa. Agli attributi di Dio da Dio, luce da luce, venne aggiunto soprattutto quello di consostanziale al Padre ("homoousios"., che in passato era stato l'espressione del monarchianismo di Sabellio e di tutti coloro che annullavano la distinzione tra il Cristo e il Padre. Questa aggiunta sorprendente, certamente suggerita da Ossio di Cordova, fu accolta solo dietro personale richiesta di Costantino, al quale il concilio non poteva rifiutare nulla. Quando si trattò di sottoscrivere il testo così compilato, l'imperatore fece sapere, tra l'altro, che tutti i prelati che avessero rifiutato di farlo sarebbero stati immediatamente esiliati dalle autorità imperiali. Solo Ario e i suoi seguaci egiziani, già comunque compromessi, resistettero a questo inaudito ricatto e furono immediatamente costretti a mettersi in viaggio verso remoti borghi delle province danubiane.

Per il gusto dell'umanità, per rispetto verso l'imperatore o per semplice pavidità, tutti gli altri presenti si allinearono, pur considerando l'"homoousios" come un'"espressione" eretica. Peraltro, il concilio adottò disposizioni accomodanti nei confronti di Melezio di Licopoli e della sua Chiesa scismatica, nella speranza di farli rientrare nell'unità cattolica. Dopo un'iniziale applicazione promettente, questo tentativo era destinato a fallire, come era fallita la repressione di fronte allo scisma donatista. Il concilio stabilì anche un'unica modalità di calcolo per la data della Pasqua, il che avrebbe determinato proteste in Siria, e prese varie decisioni di ordine disciplinare: venne incoraggiato, con disposizioni molto liberali, il rientro nella Chiesa cattolica dei novaziani e dei seguaci di Paolo di Samosata; analogamente, venne disciplinato il rientro degli apostati in occasione della persecuzione di Licinio; vari decreti fissarono norme generali relative al clero e alla gerarchia. Il 19 giugno del 325 il concilio si sciolse, dopo un banchetto solenne offerto da Costantino in suo onore e che fece sui vescovi una grande impressione: alcuni di loro si domandavano se non fossero già nel regno di Dio. L'imperatore terminò il banchetto con un discorso che esortava i vescovi all'unità, alla modestia, allo zelo missionario e con doni per ciascuno di essi e lettere che ordinavano ai funzionari imperiali di distribuire annualmente grano ai poveri e al clero delle varie Chiese. I vescovi se ne partirono, dunque, ammirati, entusiasti e più che mai disposti alla sottomissione. Costantino li aveva definitivamente guadagnati alla propria causa e poteva ritenersi soddisfatto dei risultati raggiunti con il concilio. Per la prima volta, l'unità della Chiesa cattolica aveva assunto una forma visibile. Gli scismatici venivano invitati ad associarsi a questa unità senza condizioni umilianti. I pochi spiriti malvagi che avevano respinto la confessione di fede comune avevano preso la via dell'esilio. Tutto ciò era in larga misura opera sua e gli consentiva ormai di intervenire direttamente negli affari ecclesiastici per coordinare e rafforzare l'azione dei vescovi. Si può capire, a questo punto, come questo non- battezzato (compirà questo passo solo alla vigilia della morte. abbia da allora potuto parlare di s‚ come del vescovo esterno e come di un eguale degli apostoli, quale che fosse l'esatto significato da lui attribuito a tali espressioni. I vescovi più perspicaci si resero conto, appena rientrati nelle rispettive sedi, di come, avendo ceduto con eccessiva facilità all'imperiosa seduzione esercitata da Costantino, essi si fossero lasciati sfuggire il dato certo della libertà nella speranza della collaborazione con lo Stato. Poco dopo che il concilio si sciolse, i vescovi Eusebio di Nicomedia, Mario di Calcedonia, Teognide di Nicea fecero sapere ufficialmente di aver firmato la confessione di fede per timore dell'imperatore e che desideravano ritrattare. Costantino li spedì immediatamente in Gallia e pretese dalle Chiese di Nicomedia e di Nicea l'elezione di nuovi vescovi; ottenne immediatamente che gli si obbedisse. Il vescovo di Laodicea in Siria, sospettato di voler imitare i tre colleghi ribelli, ricevette una letteraccia dall'imperatore, che l'invitava a meditare sulla triste vicenda di Eusebio e di Teognide; se lo tenne per detto e non mosse ciglio. Così, dall'autunno del 325, Costantino esercitava una funzione poliziesca nei confronti della fede all'interno del corpo episcopale. Numerosi furono allora i vescovi che cominciarono a nutrire un certo timore e si comunicarono con discrezione le reciproche apprensioni. Non avevano torto, dal momento che, nel corso dei successivi decenni, le autorità imperiali avrebbero fatto del potere così acquisito l'uso più imprevedibile e più pregiudizievole ai reali interessi delle Chiese che essi pretendevano di difendere. La Chiesa aveva creduto di trovarsi un amico altolocato e si era invece data un padrone. Essa avrebbe dovuto darsi parecchio da fare per sfuggire alla dorata prigione che le era stata bruscamente imposta. Il vanto della Chiesa del quarto secolo É di esserci quasi completamente riuscita, nonostante il passo falso iniziale e molte difficili peripezie, a prezzo di uno sforzo gigantesco. BIBLIOGRAFIA. - Fonti accessibili in traduzione. "La Sacra Bibbia", tradotta sotto la direzione di S. Garofalo, 3 volumi, Marietti Torino 1960. "La Sacra Bibbia", trad.

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riforma, sempre all'ordine del giorno, costantemente abortita e alla fine realizzata attraverso lo scisma, al di fuori del cattolicesimo stesso. Altro insuccesso: quello al livello dell'espansione geografica e sul piano culturale. Se il cattolicesimo medievale ritrova (tranne nell'Africa settentrionale. e va oltre (nelle zone germanica, scandinava, baltica, slava e ungherese. i confini del vecchio impero romano latino, non riesce a scalfire il mondo greco, fallisce in Africa e in Asia e, in fondo, fallisce anche il tentativo di esportare la cristianità in Terra Santa, liquidato dopo due secoli, tranne alcuni brillanti residui, quali Cipro o la Morea dei Franchi. Certamente, anche il successo può apparire sorprendente. Ideologia dominante, il cristianesimo si É imposto agli Stati, alle società, alle classi, agli individui e ha imposto la propria visione totalitaria. Dalla nascita (alla quale il battesimo si va avvicinando sempre di più. alla morte, l'uomo occidentale É diventato un cristiano, la cui vita É scandita, almeno esteriormente, dalla somministrazione dei sacramenti. Dall'alba al crepuscolo, e ancora durante la notte, in cui l'‚lite vigile di coloro che pregano protegge l'intera comunità cristiana dagli assalti del Diavolo, la giornata, per gli stessi laici, segue il ritmo delle ore canoniche: il tempo della Chiesa modella qualsiasi cosa. Dall'inizio alla fine dell'anno, il calendario liturgico regola tutto: il lavoro e il riposo, la vita quotidiana e la festa, la gioia e il dolore. Eppure, anche qui, si mostrano i limiti del successo: il calendario cristiano non riesce a mascherare del tutto la persistenza di un calendario tradizionale e, ogni tanto, deve lasciarlo convivere parallelamente. Mentre, ad esempio, l'inizio dell'anno cristiano ufficiale si colloca, in date variabili a seconda dei paesi, ma in genere attorno alla Pasqua, il popolo continua a celebrare il nuovo anno il primo gennaio con usanze tradizionali che la Chiesa combatte nell'alto Medioevo (mascherate e riti di passaggio. e tollera nel basso Medioevo, quando la loro origine pagana non si coglie quasi più (strenne, vischio di capodanno.. Infine, agli occhi di molti, l'annata apparirà essenzialmente come il rituale, con su una patina di cristianesimo, che vede scontrarsi e alternarsi la penuria e l'abbondanza, il digiuno e l'eccesso di cibo, Quaresima e Carnevale. I principali interpreti dell'animo medievale nel sedicesimo secolo lo mettono bene in risalto: Rabelais, Breughel. Successo anche per quel che riguarda le istituzioni e gli individui che incarnano più precisamente il cristianesimo e ne assicurano un'attività efficace: la Chiesa e il clero. Sul piano economico, la Chiesa diviene la maggior proprietaria di terre - un elemento fondamentale in un mondo in cui tutto si basa sulla terra -, la maggior detentrice di ricchezze - in forma di oggetti di oreficeria o di moneta -, la maggiore proprietaria di manodopera. Sul piano sociale, la Chiesa, rispetto ai laici, supera la divisione interna tra monaci e preti e fa degli ecclesiastici, numerosissimi, il primo ordine sociale - soprattutto nello schema (indoeuropeo. della società tripartita che si impone a partire dall'undicesimo secolo: "oratores", coloro che pregano, prima dei "bellatores" e dei "laboratores", coloro, cioè, che combattono e coloro che lavorano. Sul piano politico, la chiesa si costituisce in monarchia, la più centralizzata e la meglio alimentata da una fiscalità pesante e regolare fin dal tredicesimo secolo. Peraltro, se dinnanzi all'Imperatore e ai re il Papato É costretto a venire a patti, ciò nondimeno esso afferma la superiorità e il diritto di ossequio del potere spirituale che essa esercita sul potere temporale dei governi laici. Sul piano culturale, infine, per quanto lacerata dall'oscillazione di numerosi ecclesiastici dotti tra la Sacra Scrittura e i Padri da un lato, l'antica cultura pagana dall'altro, la Chiesa detiene a lungo il monopolio della cultura e dell'insegnamento, ha l'esclusiva della lingua della cultura e del potere, il latino, la priorità nel campo artistico, grazie al numero, la grandezza, la ricchezza, la carica contenutistica ed affettiva dei suoi monumenti e dei suoi tesori. La Chiesa, la religione, la società complessivamente in quanto società religiosa: sono, questi tre elementi, i protagonisti della storia che stiamo per tratteggiare. Il filo conduttore della nostra esposizione sarà dato dallo sviluppo della funzione esercitata dai primi due in seno al terzo elemento. 2. IL CRISTIANESIMO NELL'IMPERO ROMANO CRISTIANO (325-476..

"Simili imperatori cristiani, noi li proclamiamo fortunati nella speranza qua in terra, e un giorno nella realtà, quando sarà giunto quel che noi aspettiamo" (Sant'Agostino, "La città di Dio", V, 24.. - Le risorse del cristianesimo. All'indomani dell'editto di Galerio (311., della conversione di Costantino (313. e del concilio di Nicea (325., non bisogna n‚ esagerare la portata di questi avvenimenti - il cristianesimo non passa improvvisamente dalle tenebre delle catacombe all'aperto nelle basiliche, dall'inferno delle persecuzioni al paradiso del potere -, n‚ sottovalutarne il peso: per l'impero romano, cambiare la religione ufficiale o l'ideologia dominante non É un affare da nulla e, per il cristianesimo, lasciare una situazione di tolleranza costantemente rimessa in discussione per assumere una posizione privilegiata e poi addirittura di esclusiva equivale a compiere un passo di estrema importanza. Il periodo di apprendistato in qualità di religione stabilita che il cristianesimo ha fatto nell'impero romano, dal 325 al 476, É stato decisivo per il resto della sua storia. Al di là delle soluzioni congiunturali, si sono compiute delle scelte decisive, che hanno rappresentato degli elementi vincolanti per molti secoli. Non É facile definire cosa abbia assicurato il successo del cristianesimo, in questo secolo e mezzo. Sono state esaminate in modo perspicace le ragioni psicologiche di tale successo. Gibbonè due secoli or sono, attribuiva a cinque fattori caratteristici l'attrazione nuova del cristianesimo primitivo: lo zelo dei cristiani, la loro dottrina circa la vita futura, i loro miracoli, la loro moralità schietta e severa, infine lo sviluppo di un sistema di governo all'interno della Chiesa mentre lo Stato andava scomparendo. Gerhart Ladner, riprendendo sinteticamente Gibbonè insiste sull'originalità del rapporto stretto tra morale e religione, laddove il pensiero antico la legava, piuttosto, alla filosofia, e sottolinea altri due elementi di forza del cristianesimo nei confronti del paganesimo: il suo atteggiamento esclusivo nei riguardi della verità, in contrapposizione al pluralismo della mentalità religiosa greco-romana e, soprattutto, il suo atteggiamento verso il tempo: rompendo con la concezione del tempo ciclico, circolare, dell'eterno ritorno, introduceva una dottrina del tempo lineare, che va dalla creazione verso la parusia attraverso l'incarnazione. Sottolineiamo, in proposito, che questo tempo lineare può andare sia in avanti sia indietro. La storia cristiana procede verso l'eternità tenendo gli occhi fissi al passato, o meglio alle origini. Essa É ritorno alle fonti, sogno di un ritorno in seno ad Isacco e, al livello ecclesiologico, di un ritrovamento della primitiva comunità cristiana. Questa escatologia rivolta al passato corrispondeva (É possibile parlare di qualcosa di più di una corrispondenza?., probabilmente meglio di qualunque altro sistema religioso, a quel grande periodo di involuzione - materiale, economica, politica, intellettuale - che fu la bassa antichità e l'alto Medioevo. Sant'Agostino sostiene la teoria delle sei età dell'uomo che sono anche quelle del mondo: l'infanzia, la fanciullezza, l'adolescenza, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia ("infantia, pueritia, adolescentia, iuventus, gravitas, senectus".. Ora, con l'impero romano, il mondo, secondo la sua teoria, É pervenuto alla vecchiaia. "Mundus senescit". Dimenticando tutti gli insegnamenti neotestamentari e paolini sui sepolcri imbiancati e l'uomo nuovo, il cristianesimo postcostantiniano si fissa in un'ottica di avanzata decrepitezza che sfocia nella prossima parusia. Il cristianesimo medievale si distaccherà a fatica da questa concezione del declino della storia, rosa dal cancro del peccato originale e dall'idea che l'Incarnazione possa offrire la salvezza solamente attraverso un salto escatologico. Dodds, dopo aver ricordato come il successo del cristianesimo derivi in primo luogo dalla debolezza del paganesimo e come l'esempio dei martiri debba avere scosso gli animi, elenca anch'egli quattro motivi psicologici della superiorità del cristianesimo nel quarto secolo: la sua intolleranza, derivante da una visione totalitaria attraente in un momento di turbamenti profondi; la sua apertura verso tutti, schiavi compresi, dimostrata dal fatto che alla fine del terzo secolo esso costituiva ancora un esercito di diseredati; la superiorità della sua dottrina relativa all'aldilà, che incuteva più paura ed attrazione a un tempo (un bastone più grande e una carota più saporita.; la forza della solidarietà che univa i cristiani e ispirava loro un forte senso comunitario nel momento in cui le comunità tradizionali si andavano disgregando.

Non si tratta di negare l'importanza di questi aspetti psicologici. Tuttavia, al di là delle motivazioni, la ricerca delle cause deve insistere su due ordini di mediazioni: le mediazioni sociali e quelle politiche. All'inizio del quarto secolo - come ha dimostrato A. H. M. Jones - il cristianesimo era diffuso soprattutto tra le classi urbane medie ed inferiori, mentre le masse contadine e l'aristocrazia ne erano appena sfiorate. Ora, l'arresto dell'espansione economica e lo sviluppo della burocrazia comportano la promozione sociale di quelle classi medie e inferiori delle città, tra le quali il cristianesimo era già radicato. Questa promozione determina la penetrazione del cristianesimo. Ma quando il trionfo del cristianesimo si delinea in modo più preciso, le classi che ne sono state portatrici sono in pieno declino, dal momento che l'economia monetaria e urbana É in crisi e lo Stato si va disintegrando. Il cristianesimo sfugge al tracollo delle fragili sovrastrutture del Basso Impero, ma sganciandosi da quelle classi che ne hanno garantito il successo e delle quali gli sviluppi storici determinano la scomparsa. Il ricambio sociale ad opera dell'aristocrazia, poi delle masse contadine, radica il cristianesimo, ma a prezzo di molteplici distorsioni. Ad ogni modo, in questo mondo che va trasformandosi in un mondo prevalentemente agricolo, il cristianesimo dispone di serie risorse culturali e psicologiche. Figlio delle città, esso troverà nelle campagne il suo seguito meglio predisposto verso certe credenze e pratiche cristiane sempre più invadenti: il culto delle reliquie e la credenza nei miracoli. L'elemento meraviglioso del cristianesimo gli permette di penetrare tra gli strati popolari. La traduzione barbarica della religione permetterà la - relativa - democratizzazione culturale ed ideologica di cui esso É lo strumento. Infine, fu fondamentale la conversione del potere politico: gli imperatori cristiani misero a disposizione del cristianesimo i loro mezzi di coercizione e di persuasione. Rimproverare al cristianesimo di aver tradito se stesso per essersi affidato a Costantino significa dimenticare che, senza Costantino, non É affatto certo che il cristianesimo avrebbe potuto trionfare. La Chiesa medievale, la quale riterrà che la conversione dei popoli e delle nazioni avvenga normalmente dall'alto verso il basso, a partire dalla conversione dei capi politici, non lo dimenticherà. Il caso di Clodoveo É esemplare. D'altra parte, la conversione imperiale mise in evidenza una convergenza, o meglio un parallelismo sempre più stretto tra la teologia cristiana e il pensiero politico del Basso Impero. All'idea monarchica, che era sempre stata forte ma che, nonostante le invenzioni astute dei diarchi e dei tetrarchi, si andava imponendo in misura crescente in Occidente, corrispondeva, attribuendole un fondamento sovrannaturale, la monarchia cristiana. Nonè dunque, la monarchia ecclesiastica, pontificale, visto che il vescovo di Roma ancora non si ergeva al di sopra degli altri vescovi (solo a poco a poco si avvantaggerà dell'immagine imperiale., ma la monarchia divina. Il monoteismo era il pegno della monarchia terrestre. - La vittoria del Galileo: la fine del paganesimo antico. Il cristianesimo che aveva tenuto a Nicea (325. le sue prime grandi assise generali, pubbliche ed ufficiali, era prevalentemente orientale. Sui duecentocinquanta, trecento vescovi che vi presero parte, ce n'erano solo tre o quattro occidentali, tra i quali Osio di Cordova, consigliere religioso di Costantino. Il papa Silvestro aveva inviato a rappresentarlo solamente due preti. Tuttavia, già a quest'epoca, non É possibile considerare il cristianesimo latino come un'appendice pura e semplice di quello greco. Come economicamente, politicamente, culturalmente, la parte occidentale dell'Impero si andava rapidamente distaccando da quella orientale, rimasta del resto più vitale, così dal punto di vista religioso la frattura era destinata ad allargarsi. Se, ancora per un lungo periodo, non sarà possibile parlare del cristianesimo latino senza riferirsi al cristianesimo greco, trattarne a parte É legittimo non solo per quello che

lo storico conosce di come siano andate in seguito le cose, ma per quello che conosce di certe realtà del Basso Impero e del Medioevo. Se pochi dei partecipanti al concilio di Nicea potevano sospettare che il simbolo imposto da Costantino non solo alla minoranza ma a quelli che, assai numerosi, ritenevano eretica la definizione di "homo-usios" (consustanziale al Padre. attribuita al Cristo, sarebbe diventato il "credo" stabile del cristianesimo occidentale, tutti erano stati soprattutto colpiti dal ruolo di primo piano giuocato da Costantino nel concilio, la maggior parte sicuramente compiacendosene, alcuni forse con una certa inquietudine per i futuri rapporti tra la Chiesa e lo Stato, la religione e l'imperatore. Eppure, la partita era ben lungi dall'essere vinta da parte del cristianesimo, di fronte al paganesimo e al potere imperiale. A prescindere dalle battaglie tra imperatori ortodossi e imperatori ariani su cui torneremo, da parte imperiale il cristianesimo fu minacciato solo durante il breve regno di Giuliano, detto l'Apostata (361-363., il quale tentò piuttosto di ravvivare un politeismo - accentuatamente filosofico - che non di attaccare direttamente il cristianesimo. La frase apocrifa che gli attribuisce un secolo dopo Teodoreto di Ciro: Galileo, hai vinto esprime, effettivamente, la realtà delle cose. La resistenza pagana (dove pagano indica la religione romana tradizionale e ufficiale. riguardò solo alcuni gruppi aristocratici, specie a Roma. Il più illustre di questi conservatori militanti fu Simmaco, prefetto di Roma. La questione che ne cristallizzò i tentativi fu l'eliminazione dalla curia senatoriale dell'altare della Vittoria, secolare simbolo della religione romana. Tale sconsacrazione del Senato avvenne nel 382 per ordine dell'imperatore Graziano. Solo dopo la morte di questi (384., Simmaco e i suoi amici osarono chiedere a Valentiniano Secondo che l'altare della Vittoria tornasse al suo posto. Simmaco pronunciò un appello alla tolleranza degno di esser tramandato ai posteri: Rivendichiamo il rispetto per gli dÉi dei padri nostri, gli dÉi della nostra patria. E' giusto credere che quel che tutti gli uomini adorano É l'Uno. Guardiamo le stesse stelle; lo stesso cielo É sopra di noi; lo stesso universo ci circonda. Che importa con quale mezzo ciascuno di noi raggiunge la verità? Non si può giungere a un così vasto mistero per un'unica via. Arringa vana. Valentiniano, rimproverato da sant'Ambrogio, non cedette. La richiesta venne ripresentata, sempre senza successo, a più riprese fino al 403. L'ultima grande occasione per i pagani d'Occidente di levare la loro voce fu offerta dal sacco di Roma da parte di Alarico e dei suoi Goti nel 410. Essi accusarono il cristianesimo di esserne responsabile, per aver sottratto a Roma la protezione dei suoi dÉi tradizionali. Accusa vana, anche questa. Essa, tuttavia, suscitò una replica chiamata a svolgere un ruolo importante nel pensiero cristiano medievale: la "Città di Dio" di sant'Agostino. Nell'aristocrazia romana, l'ambiente più ostile, o perlomeno più reticente, era quello dei letterati, spaventati dall'incultura dei cristiani, dalla rozzezza dei loro scritti - in primo luogo della "Bibbia" e soprattutto dei "Vangeli" -, dal loro disprezzo per la cultura greco-romana. L'intellighentsia degli ultimi tempi del paganesimo romano fu ultraconservatrice. Un testo della fine del quarto secolo ci ha trasmesso l'atmosfera che regnava in quest'ambiente: i "Saturnales" di Macrobio. Giuliano aveva giustamente colto il terreno favorevole ai propri progetti: aveva proibito ai cristiani di insegnare altro al di fuori dei commentari dei rozzi evangelisti. Ma già il cristianesimo cominciava a far presa su quest'ambiente, così come la faceva sull'aristocrazia. Verso il 355, il famoso retore Mario Vittorino si convertiva a Roma. Nel 374, il giovane aristocratico Girolamo porta con s‚ in Oriente, nel suo ritiro eremitico di Calcide, la sua biblioteca pagana di Roma e si fa apostrofare in sogno dal Dio cristiano: Non sei cristiano, sei ciceroniano. Nel 386, un giovane brillante professore, retore ufficiale della città di Milano, a cui viene raccontata la conversione di Vittorino, cede infine alla voce che gli ripete Prendi, leggi!: Agostino. Nel frattempo, il cristianesimo soppiantava gradatamente, e alla fine completamente, il paganesimo come religione ufficiale.

Il momento essenziale É stato il regno di Teodosio (379-395., un secondo Costantino e vero protagonista dell'instaurazione del cristianesimo come religione di Stato. Nel 391, il paganesimo viene vietato, i templi vengono chiusi o smantellati. A partire dal 409, i vescovi hanno l'incarico di scegliere, insieme ai notabili, i difensori delle città, a sostegno degli umili. Nel 412, le Chiese e il clero ottengono esenzioni fiscali. Nel 419, le chiese ottengono il diritto d'asilo. Tra il 429 e il 439 circa, vennero promulgate centocinquanta leggi in difesa e a maggior gloria del cristianesimo. In compenso, venivano proibiti i combattimenti dei gladiatori e, nel 435, si emanava la pena di morte contro i pagani. - Dio e Cesare: il cristianesimo e il potere imperiale. Tuttavia, questo Stato, questo potere imperiale che in un secolo aveva innalzato il cristianesimo agli onori supremi, non aveva avuto con lui solo buoni rapporti. Non ci furono solo le difficoltà sorte tra un clero maggioritariamente ortodosso e gli imperatori ariani: Costanzo, imperatore unico dal 351 al 361, Valentiniano Secondo, sotto la reggenza della madre Giustina (373-387.. Ci fu soprattutto la resistenza dell'alto clero di fronte alla tutela imperiale e al nascente cesaropapismo. Indubbiamente, Hugo Rahner ha esagerato la forza e la continuità di tale resistenza. Quel che prevalse nella Chiesa rispetto all'imperatore fu la riconoscenza, l'ammirazione e la docilità. Ma, sia in teoria sia concretamente, si andavano affermando atteggiamenti di presa di distanza del clero rispetto al potere imperiale, che si sarebbero ritrovati, complicati, inaspriti, nel Medioevo. Tre momenti consentono di definire come siano stati impostati in quell'epoca i rapporti tra il cristianesimo e l'Impero, la Chiesa e lo Stato. Il primo fu, nel 355, il sinodo di Milano, in cui Costanza impose ai vescovi cattolici d'Occidente la condanna del vescovo di Alessandria, Atanasio, il grande avversario di Ario. Certamente, il fatto che Costanza, ariana, fosse ai loro occhi eretica, ha largamente facilitato la resistenza dei vescovi, ma, su questa questione, i vescovi cercarono di porre delle pregiudiziali di principio: Non mescolate - le dissero - la giurisdizione della Chiesa e quella dell'Impero romano, perché‚ l'Impero non lo avete per virtù vostra, ma da Dio. Ancor più interessante la risposta di Costanza: Quel che io voglio deve essere considerato come legge in seno alla Chiesa. I vescovi di Siria non protestano quando io parlo in questi termini. All'affermazione di quel che prenderà il nome di cesaropapismo, cioè il diritto dell'imperatore di essere alla testa della Chiesa, si aggiunge il dato di fatto che l'Oriente É propenso ad accettarlo. Si tratta di una discriminante, tra le altre, fra le due forme di cristianesimo. Un tratto specificamente bizantino si delinea in questo e l'Occidente si definisce già rispetto ad esso. Secondo momento: É legato all'operato di Ambrogio, vescovo di Milano dal 374 al 397. Ambrogio ha cominciato col coprire di elogi il giovane imperatore Graziano, il primo a non avere più il titolo pagano di "pontifex maximus". Egli gli dedica il suo trattato "Sulla fede" e gli assegna, per la prima volta, i titoli di sacro imperatore e di imperatore cristianissimo. Ma quando, nel 386, un decreto imperiale emanato in nome di Valentiniano Secondo dall'imperatrice madre Giustina, un'ariana, gli ingiunge di restituire agli ariani la Basilica della Porta, e quando poi egli rischia di perdere il trono episcopale a vantaggio di un ariano e gli viene minacciato l'esilio, egli resiste e proclama: L'Imperatore É all'interno della Chiesa e non al di sopra di essa. Un buon imperatore cerca di aiutare la Chiesa e non di combatterla. E aggiunge: La Chiesa appartiene a Dio, e l'imperatore non ha alcun diritto sul Tempio di Dio!. Nel 390, É il cattolicissimo Teodosio a dover subire i suoi fulmini. Per vendicare l'assassinio di uno dei suoi rappresentanti, l'imperatore, in un momento di collera, fa massacrare qualcosa come settemila persone nel circo di Tessalonica.

Per espiare questo crimine, questo peccato, Ambrogio esige ed ottiene da Teodosio che questi faccia pubblicamente penitenza, confessando la propria colpa di fronte alla folla nel Natale del 390. Un atto spettacolare, che colpì i contemporanei e colpirà anche in seguito. A metà del quinto secolo, lo storico orientale Teodoreto di Ciro, nella sua "Storia ecclesiastica", conferisce all'episodio un alone di leggenda. Attraverso la narrazione fattane da Cassiodoro nella sua "Historia Tripartita", l'immagine di un imperatore che si umilia pubblicamente verrà consegnata agli uomini del Medioevo. E' il modello che verrà imposto all'imperatore Enrico Quarto a Canossa, a Enrico Secondo d'Inghilterra dopo l'uccisione di Thomas Becket. Il terzo momento si colloca all'indomani della presa di Roma da parte di Alarico e dei suoi Goti, il 24 agosto del 410. L'aristocrazia pagana accusa immediatamente il cristianesimo di aver privato Roma dell'appoggio degli dÉi nazionali. Agostino, vescovo di Ippona in Africa, risponde a tale accusa con "La Città di Dio", composta tra il 412 e il 427. Occorre distinguere due città, la città celeste, inaugurata da Abele, continuata attraverso Israele e poi attraverso la Chiesa, e la città terrestre, fondata da Caino e approdata negli imperi che si susseguono, da Babilonia a Roma. La vera patria É la città celeste. C'É dunque, in Agostino, uno sganciamento dall'impero romano, che diventerà, nell'alto Medioevo, l'atteggiamento della Chiesa e del cristianesimo. A questo proposito, il timore dei tradizionalisti pagani É divenuto realtà. Ma Agostino, assegnando ad ogni città un potere specifico, quello spirituale per la città celeste, quello temporale per la città terrena, pur proclamando la superiorità del potere spirituale su quello temporale, predica l'obbedienza verso quest'ultimo potere, anche quando fosse malvagio: Anche a mostri simili a Nerone, il potere sovrano É attribuito soltanto dalla provvidenza del Dio supremo, quando giudica gli uomini degni di un tale signore. Questa separazione tra le due città, tra la Chiesa e lo Stato, É lungi dall'avere un valore assoluto per Agostino. Infatti, quel che egli auspica sono i buoni imperatori, gli imperatori fortunati, che pongano la città terrestre al servizio della città celeste e favoriscano la realizzazione degli obiettivi escatologici dell'umanità, il compimento delle due città nella Gerusalemme celeste. Agostino, inoltre, essendo impegnato in una lotta accanita contro gli eretici, soprattutto i donatisti, assegna ai buoni imperatori il compito di intervenire contro gli eretici: É, in germe, la teoria del ricorso al braccio secolare. Così, se l'agostinismo politico del Medioevo ha deformato il pensiero di sant'Agostino, c'É comunque nella "Città di Dio" la giustificazione di atteggiamenti - dalla supremazia dello spirituale identificato con la Chiesa, al ricorso al principe contro gli eretici - che genereranno, nel Medioevo, parecchie difficoltà e contrasti. - Il cristianesimo guadagna terreno: progresso, organizzazione, contestazione nel suo seno. Il cristianesimo che trionfa sotto Costantino É ancora, da un punto di vista quantitativo, molto limitato: salvo rare eccezioni, É riuscito soltanto a toccare gli strati medi e inferiori della popolazione urbana all'interno dell'Impero romano, di preferenza in Oriente o nelle città occidentali in rapporto con l'Oriente. Tra il 325 e il 476, uno dei suoi primi compiti É quello di espandersi geograficamente tra i pagani, socialmente verso i due estremi della società: l'aristocrazia e i contadini. Al di fuori dell'Impero, il cristianesimo conquistò complessivamente le popolazioni germaniche, tranne i Franchi e una parte dei Longobardi. Ma il ruolo principale fu svolto da un vescovo missionario, Ulfila (attorno al 318-383., egli stesso d'origine visigotica, i cui nonni materni erano dei Greci fatti prigionieri dai Goti nel corso di un'incursione in Cappadocia. Ulfila tradusse la "Bibbia" in lingua gotica. Ma Ulfila era ariano. Il mondo germanico era destinato a sfuggire alla presa del cattolicesimo? Ma all'interno dell'Impero i progressi del cristianesimo erano spettacolari.

Il numero dei vescovi, nel corso del quarto secolo, passò da cinque o sei a una cinquantina in Italia, da ventidue a settanta in Gallia. Tuttavia, la conquista delle campagne al cristianesimo procedette molto lentamente. Essa avvenne tramite la parola (predicazione., la taumaturgia (miracoli. e la violenza (distruzione, spesso con l'incendio, delle statue, dei templi, degli alberi e dei boschi sacri.. Essa fissò, perlopiù, i nuovi luoghi di culto (altari, cappelle, chiese. là dove prima sorgevano quelli antichi, non per stabilire con questi un rapporto di continuità, ma, al contrario per cercare di cancellare completamente il ricordo del passato. Essa privilegiò l'atto che segnò il trionfo - spesso superficiale - del cristianesimo, il battesimo, il più delle volte imposto collettivamente. Gli scritti di Sulpicio Severo (fine del quarto, inizio del quinto secolo. su Martino, vescovo di Tours, morto nel 397, offrono un buon esempio di quest'evangelizzazione rurale. Quanto agli strati superiori - se si eccettua la resistenza di certi ambienti letterari di cui abbiamo parlato - essi si collegarono più rapidamente al cristianesimo. Essi avevano capito che l'esempio imperiale andava seguito e che il potere passava ormai per il cristianesimo. Anche l'aristocrazia non si limitò a convertirsi, ma fornì ben presto il grosso dei quadri del clero e mandò una parte delle sue figlie nei conventi. Questo vale per Roma, ma vale anche nelle province. Così, l'aristocratico Paolino di Bordeaux viene a stabilirsi a Nola presso la tomba di san Felice e diviene il vescovo di questa città nel 409. Agli inizi del quarto secolo, la Chiesa aveva già fissato i princìpi fondamentali della propria organizzazione. Tre grandi regole: la separazione del clero e dei laici; l'esclusione delle donne dal sacerdozio e dalle attività superiori (insegnamento ed amministrazione dei sacramenti.; la preminenza dei vescovi. Le norme che fissano una divisione netta o una gerarchia tendono a rafforzarsi con il trionfo del cristianesimo. I legami di solidarietà stretti nel periodo di illegalità o nel corso delle prove attraversate e che avevano avvicinato gente inizialmente distinta se non addirittura divisa, si allentarono. I laici vennero a poco a poco esclusi dall'elezione dei vescovi. Il clero locale svolse un ruolo determinante, come a Roma, a volte con la collaborazione di notabili laici, mentre la partecipazione popolare si riduceva, in genere, all'acclamazione, un atto, sempre meno netto, di ratifica. L'elezione episcopale andò sempre più tendendo ad avvenire nel quadro provinciale e regionale, con i vescovi della provincia e della regione che acquistavano un peso crescente nella nomina del nuovo vescovo, sotto un'autorità sempre maggiore del metropolitano. Tuttavia, per questo periodo, la costituzione delle metropoli rimane ancora molto poco conosciuta. Il quadro regionale e provinciale si ritrova al livello dei sinodi e dei concili, raduni di vescovi o di rappresentanti dei vescovi che prendevano disposizioni valide per l'insieme della vita religiosa di una provincia o di una regione. Più dei grandi concili ecumenici - che si preoccupavano soprattutto delle dispute teologiche e dei contrasti tra tendenze dominanti o ortodosse e tendenze battute o eretiche, disfacendo ogni volta quel che avevano fatto i precedenti e, per l'Occidente, ancora con un'influenza limitata dato che si tenevano in Oriente e dato il peso della maggioranza orientale dei partecipanti - questi sinodi o concili provinciali e regionali assicurarono, a partire da Costantino, il quadro normativo della cristianizzazione in Occidente. Un correttivo assai limitato a questi elementi di frammentazione viene offerto dai progressi registrati, tra il 325 e il 476, dall'autorità della sede episcopale di Roma. In realtà, le pretese romane ebbero soprattutto lo scopo di rispondere alle pretese della nuova sede episcopale della nuova Roma, Costantinopoli. Il secondo concilio ecumenico di Costantinopoli, nel 381, al quale il vescovo di Roma Damaso Primo non venne invitato, decise che il vescovo di Costantinopoli dovesse occupare il primo posto dopo il vescovo di Roma. Damaso reagì facendo proclamare da un sinodo romano, nel 382, che la chiesa di Roma doveva il proprio primato non a un concilio, ma ai poteri rimessi dal Cristo a san Pietro. Damaso, per primo, definì la sede di Roma apostolica, impiegò il plurale di maestà e chiamò il resto dei vescovi miei figli e non miei fratelli.

Siricio (384-399. fu il primo ad assumere il titolo di papa, cioè di padre, che derivava dall'uso precedentemente adottato da Damaso nei confronti degli altri vescovi. Leone Primo (440-461. riprese il titolo pagano, abbandonato dagli imperatori, di "pontifex maximus" ed elevò di un grado le pretese della sede romana, instaurando la concezione di una chiesa monarchica con alla testa il papa, rappresentante di san Pietro. Il concilio di Calcedonia, nel 451, consacrò insieme il successo e il fallimento di Leone Primo. Se per l'essenziale nel simbolo che proclamò riprendeva il "Tomo a Flaviano" inviato da Leone al vescovo di Costantinopoli per definire la dottrina cristologica ortodossa, esso decideva peraltro che Costantinopoli avrebbe goduto in Oriente lo stesso primato di Roma in Occidente. Questa sconfitta in Oriente, però, consacrava una promozione in Occidente. Gli imperatori, aspirando a vedere la Chiesa sottoposta a un'autorità superiore sia allo spirituale sia al temporale, avevano del resto appoggiato i vescovi di Roma. Nel 380, Teodosio e i suoi due colleghi imperatori avevano decretato che soltanto coloro che avessero adottato le dottrine del vescovo di Roma avrebbero avuto diritto al titolo di cristiani cattolici. Nel 445, mentre Leone Primo era in contrasto con il vescovo di Arles, Ilario, Valentiniano Terzo proclamò che ciò che sanziona o sanzionerà il seggio apostolico avrà forza di legge e ingiunse al capo della milizia, il patrizio Ezio, di costringere i vescovi ad obbedire all'appello del papa, se questi li invitava a comparire al suo cospetto. Ma i due fenomeni essenziali dell'organizzazione interna della Chiesa, nel quarto e quinto secolo, riguardano due atteggiamenti opposti nei confronti dell'inserimento nel secolare, rappresentati, da un lato, dall'accrescimento della sua potenza temporale, dall'altro, dallo sviluppo del monachesimo. Prima di Costantino, la Chiesa disponeva di beni mobili e immobili, ma questi suoi possedimenti erano clandestini. A partire da Costantino, la ricchezza aperta, riconosciuta, protetta, privilegiata della Chiesa si accrebbe rapidamente, senza che se ne potesse valutare l'entità, e ci fu bisogno di tenere registri dei conti a partire dal pontificato di Libero (352-366.. Alla fine del quinto secolo, la Chiesa di Roma dispone di proprietà e di rendite in Italia, in Sicilia, in Corsica, in Sardegna, in Dalmazia, in Gallia, in Africa, in Egitto, in Siria. Le offerte, le concessioni imperiali, le donazioni dei privati accumularono nelle mani della Chiesa edifici, rendite e terre in misura crescente. La legislazione romana venne modificata a vantaggio della Chiesa. I legati erano autorizzati solo a favore di una singola persona fisica. Dal 321, Costantino aveva autorizzato i lasciti alle chiese e Marciano, nel 455, riprende, conferma e completa queste disposizioni. Così, per la Chiesa si apriva l'ampia risorsa delle disposizioni testamentarie. Il vescovo aggiunse alle sue funzioni quella sempre più importante di amministratore di beni. La Chiesa, tra l'altro, fu favorita da alcune esenzioni dalle imposte. Ma l'immunità effettiva dei beni della Chiesa venne limitata dagli imperatori del quinto secolo, a causa della sempre più grave crisi economica. Il problema della divergenza degli interessi della Chiesa e dello Stato É ormai posto. La Chiesa intraprende una lunga trafila di resistenza all'imposta pubblica. Mentre la chiesa episcopale si impiantava nel mondo temporale, un movimento di critica del mondo si stava sviluppando al suo interno. La contestazione monastica, il rifiuto del mondo, aveva allora il suo avvio e determinava una dimensione utopistica in seno alla Chiesa, come ha di recente dimostrato Jean S‚guy. Nato in Oriente, il monachesimo sospinge verso i deserti e i monti d'Egitto, di Palestina, di Siria e d'Asia Minore un nuovo tipo d'uomo che raggiunge i ribelli moltiplicati dalla crisi del mondo romano: banditi, debitori insolvibili, asociali. Il monaco, volontario fuggiasco, prefigura il povero volontario del Medioevo. Ma la sua contestazione É più ampia, complessiva. Egli fugge il mondo, non solamente la ricchezza. E' la "fuga mundi". Se ci sono eremiti solitari, sempre più gli anacoreti si vanno raggruppando, sospinti da una certa esigenza comunitaria o dal desiderio della Chiesa di sorvegliare meglio questi franchi tiratori del cristianesimo, di evitare loro le tentazioni della solitudine. Partiti per il deserto per ricercarvi Dio, essi vi trovano, il più delle volte, il diavolo.

E' la storia del padre dei monaci, sant'Antonio, di cui il famoso Atanasio, vescovo di Alessandria, si affretta a scrivere l'agiografia per definire, nei limiti dell'ortodossia, il modello della santità eremitica. Stabilitosi a Calcide, poi a Betlemme, san Girolamo fa propaganda all'eremitismo presso alcuni cristiani di Roma. Sul modello orientale (o meglio i modelli, poich‚ il monachesimo antoniano É diverso da quello pacomiano o basiliano., o seguendo aspirazioni originali, il monachesimo occidentale si sviluppa in Italia, in Spagna, in Gallia, dove si distaccano tre fondazioni: il monastero di Ligug‚, fondato da san Martino verso il 360: L‚rins, fondato da sant'Onorato attorno al 400; Marsiglia, dove il romano Giovanni Cassiano, dopo un lungo soggiorno nel deserto egiziano, fonda due monasteri, uno maschile e uno femminile, nel 415. Queste tre fondazioni illustrano l'originalità del monachesimo occidentale. Il suo deserto É l'isola o, più spesso, il bosco. L'eremita si ritroverà con il mondo medievale degli uomini dei boschi. Ma il monachesimo occidentale, più ancora di quello orientale, non teme di installarsi in città, ad esempio a Marsiglia, o vicino alle città, come fece san Martino a Marmoutiers, vicino Tours. Infine, il monachesimo fu spesso episcopale, sia nel caso che dei vescovi, come Eusebio a Vercelli verso la metà del quarto secolo, o Agostino a Cartagine all'inizio del quinto secolo, imponessero al rispettivo clero un'organizzazione monastica, sia che, come nel caso di san Martino, essi abbinassero la direzione di una comunità monastica con una carica episcopale. Ma, anche in questo caso, essi mostrano chiaramente la tensione che sta ormai montando all'interno della Chiesa, nel cristianesimo d'Occidente, tra il polo clericale, episcopale, e il polo monastico. Stando al suo biografo, Sulpicio Severo, quando san Martino si accorgeva che la sua "virtus" - fatta di vita interiore e di potere taumaturgico a un tempo - si andava esaurendo sul seggio episcopale, si recava nel chiuso del monastero a ricaricarsi di forze spirituali. Attività tra gli uomini e ritiro spirituale: la vita religiosa dell'Occidente medievale si svolgerà tra questi due poli. - Ortodossia ed eresie. Garantito da numerose scelte fondamentali in materia di organizzazione e in fatto di atteggiamento verso la società, il cristianesimo del quarto secolo non lo era affatto in materia di fede e di disciplina. Il quarto e quinto secolo sono pieni di scontri con le eresie - o meglio, tra correnti teologiche e disciplinari tra le quali si determineranno le distinzioni tra i rappresentanti dell'ortodossia e coloro che verranno respinti nel mondo dell'eresia e dello scisma. Cinque grandi movimenti scuotono la futura ortodossia e minacciano l'essenza stessa del cristianesimo all'indomani della sua vittoria: il manicheismo, il donatismo, l'arianesimo, il priscillianesimo, il pelagianesimo. Il manicheismo É una religione distinta dal cristianesimo, sorta in Iran nel terzo secolo. Essa, tuttavia, ha rafforzato alcune correnti interne del cristianesimo primitivo, specie in Siria. Questo gnosticismo dualistico che contrappone due princìpi, quello del Bene e quello del Male, posti sullo stesso piano e sommati a un ascetismo molto rigoroso in materia sessuale ed alimentare, appartiene alla storia del cristianesimo occidentale, dal momento che attrae alcuni intellettuali dell'Occidente - ad esempio, Agostino prima della sua conversione -, dal momento che ha contaminato certi ambienti popolari - e il catarismo medievale costituirà, se non una ripresa del manicheismo antico, quanto meno una sorta di manicheismo -, e dal momento che Agostino, polemizzando contro di esso, ha precisato al riguardo la posizione cristiana di fronte al dualismo (il Male É inferiore al Bene, il Diavolo a Dio, e l'Incarnazione ha permesso di vincere il peccato. e gli strumenti della lotta contro l'eresia. Lo scisma donatista ha consentito ancor meglio ad Agostino di presentarsi come il grande maestro del Medioevo in fatto di lotta contro l'eresia. Uscito da una posizione intransigente nei confronti di vescovi che avevano ceduto di fronte alla persecuzione di Diocleziano (consegna dei libri sacri ai magistrati., il donatismo dilaniò fino alla conquista vandalica (429. il cristianesimo africano, proclamando la non validità dei sacramenti amministrati da sacerdoti ordinati dai vescovi malvagi, unendosi al moto di rivolta sociale dei circoncellioni e provocando uno scisma.

Di fronte ai manichei, ai donatisti (e ai pelagiani, di cui tratteremo dopo., Agostino sostiene l'unicità della Chiesa e il fondamento cristologico dei sacramenti. La Chiesa non esercita un potere ("potestas"., ma un servizio ("ministerium". in fatto di sacramento. E' il Cristo, non la Chiesa, ad amministrare il sacramento. Tuttavia, la mediazione della Chiesa É necessaria. Al di fuori di essa non c'É salvezza. Coloro che ne restano al di fuori saranno fatalmente dannati. E Agostino fornisce anche la lista, in ordine crescente di malvagità, dei futuri dannati: 1. i pagani (tra questi il Medioevo collocherà i musulmani.; 2. gli scismatici; 3. gli Ebrei; 4. gli eretici; il precetto per agire nei loro confronti É condurli, dapprima con la persuasione, a entrare o a rientrare nella Chiesa, poi con la violenza, se si mostrano restii. "Compelle intrare" (Costringili ad entrare.. Certamente, ancorch‚ sostenitore del ricorso al braccio secolare, di cui richiede l'intervento contro i donatisti, Agostino distingue tra due Chiese, la Chiesa di quaggiù e la Chiesa futura - quella a cui tutti debbono essere condotti. Ma, se a volte lui stesso ha difficoltà a operare la distinzione tra le due, il Medioevo, perlopiù, non ne sarà in alcun modo capace. La crociata, la guerra religiosa, la persecuzione degli Ebrei e degli eretici - "pogrom" e roghi compresi - sono contenuti in germe in questa soluzione del "compelle intrare". L'arianesimo É la questione teologica più importante del quarto secolo. L'aspirazione di Ario, prete di Alessandria all'inizio del quarto secolo, a salvaguardare in seno alla Trinità l'originalità e le prerogative del Padre lo porta a subordinare il Figlio al Padre e, alla fine, a vedere soprattutto l'uomo, a non vedere probabilmente che l'uomo nel Cristo. Ora, se questa concezione eliminava alcune delle difficoltà della teologia trinitaria, svuotava però di significato il mistero centrale dell'Incarnazione. Per molti - a quanto pare - il messaggio cristiano attingeva l'essenza della sua validità proprio nella discesa di Dio in una persona umana, come pegno della salvezza. Il trionfo dell'arianesimo avrebbe sicuramente modificato in profondità quello che É stato l'umanesimo medievale, basato sulla teologia trinitaria di Nicea. Non seguiremo qui gli sviluppi della vicenda dell'arianesimo. Si noterà, con Michel Meslinè l'ampiezza che assunse in Occidente (e non soltanto in Oriente. e l'evoluzione che portò anche l'arianesimo al dualismo e al rifiuto assoluto del mondo. Un vescovo ariano dell'Illiria, Massimino, a cavallo tra il quarto e il quinto secolo, proclama: Che non vi sia alcunch‚ in comune tra noi e il mondo. Alla fine del quarto secolo, l'arianesimo É senz'altro sconfitto dal punto di vista della dottrina. Ma la conversione di una parte dei Germani all'arianesimo alla vigilia delle Grandi Invasioni fornirà una seconda vita a tale movimento. Se il priscillianesimo - dal nome del vescovo spagnolo Priscilliano - rimase estremamente contenuto nello spazio (la Spagna e l'Aquitania. e nel tempo, tuttavia esso presenta tre caratteristiche che gli conferiscono una certa importanza. Anch'esso, indipendentemente dal fatto che comportasse o meno una teologia gnostica, costituì un movimento ascetico estremistico che sicuramente approdava al dualismo, se non era partito di lì. Come il donatismo, esso si mescolò con una serie di rivendicazioni sociali e prefigurò il carattere combinato, socio-religioso, di numerosi movimenti ereticali del Medioevo. Priscilliano, condannato a morte dall'imperatore Massimo e trucidato a Treviri nel 385, fu il primo eretico che cadde sotto i colpi del braccio secolare. Infine, un monaco inglese, Pelagio, che era rimasto a Roma fino al momento dell'invasione di Alarico (410., quando la lasciò per recarsi prima a Cartagine, poi in Palestina, diffondeva con successo una dottrina che raccomandava, anch'essa, un ascetismo molto spinto. Si tratta del primo tecnico dell'ascetismo venuto dalle isole britanniche. Egli coronava i suoi appelli all'ascetismo con una teologia che riservava il posto centrale all'individuo dotato di un ampio potere sulla natura malvagia, capace di eroismo ascetico in quanto libero e quasi immune dalle tracce del peccato d'origine. Pelagio, aspramente combattuto insieme al suo discepolo Celestio da Agostino, introdusse in Occidente il grande dibattito sul libero arbitrio e sulla grazia. - Elementi basilari della personalità culturale e religiosa cristiana: l'uomo nuovo.

Nel campo delle idee e dell'arte, il periodo cristiano del Basso Impero É stato d'importanza vitale: al patrimonio iniziale della "Bibbia" esso aggiunse il bagaglio ideologico del quale si sarebbe alimentato tutto il Medioevo. In Occidente come in Oriente, il quarto secolo rappresentò l'età d'oro dei Padri della Chiesa. Allora si forgiarono gli elementi costitutivi dell'arsenale medievale in fatto di teologia, di etica e di pastorale, ma anche in fatto di conoscenze profane. Ilario di Poitiers (morto nel 367. fu soprattutto il campione occidentale dell'antiarianesimo. La dottrina ortodossa della Trinità fu esposta per la prima volta nel suo "De Trinitate". Egli commentò i "Salmi", per secoli il libro più popolare del "Vecchio Testamento", espose il sistema simbolico della tipologia - che sarebbe diventato nel Medioevo un vero e proprio metodo di pensiero - nel "Tractatus mysteriorum" e, nel campo importantissimo del canto, compose vari inni. Ambrogio di Milano (morto nel 397. stabilì, attraverso il suo modo di agire e le sue dichiarazioni, l'atteggiamento della Chiesa nei confronti del Principe, traspose Cicerone adattandolo al cristianesimo nel "De officiis ministrorum", nel quale, ad esempio, sostituisce le nuove virtù cardinali a quelle antiche, con la Carità al posto della Giustizia e con la Fede al posto della Sapienza. In numerosi trattati egli ha trasmesso al pensiero occidentale testi e idee del cristianesimo orientale, soprattutto di quello alessandrino. L'idea del matrimonio mistico tra l'anima e il Verbo, emersa dall'esegesi del "Cantico dei Cantici", diventerà uno degli elementi di fondo della devozione e dell'ascesi medievali. Girolamo, morto verso il 420 a Betlemme, fu in primo luogo colui che fornì al Medioevo il suo testo latino della "Bibbia", la "Vulgata", quale base di tutto. Dai vari punti di vista, esegetici, morali, spirituali, fu lui ad introdurre in Occidente diverse tradizioni orientali: ebraiche, siriache, greche. Le sue "Lettere" trovarono ancora innumerevoli destinatari nel Medioevo. Il modo in cui egli, nella lettera dove racconta il sogno in cui Dio gli rimproverò di essere ciceroniano e non cristiano, pose la questione dei rapporti tra il pensiero cristiano e quello pagano esercitò un'influenza su tutti gli intellettuali del Medioevo: tutti, a vari livelli, condivisero il suo tormento interiore. Il suo "De viris illustribus" schiude, di fronte alle grandi figure dell'Antichità, una galleria di grandi autori cristiani, da san Pietro allo stesso Girolamo. Infine, Agostino, vescovo di Ippona, morto nel 430, fu la massima autorità patristica del Medioevo. In fatto di esegesi, di etica, di scienza, di politica, non vi É alcun pensatore o dignitario ecclesiastico del Medioevo che possa evitare, in misura maggiore o minore, di essere agostiniano. Solo una delle sue opere non É riuscita ad avere nel Medioevo le ripercussioni che ebbe invece più tardi: le "Confessioni". L'anima ardente e fervida, lo spirito contorto e sensibile, lo scrittore ispirato che si rivelano in quest'opera sfuggirono in larga misura al Medioevo barbarizzato per ritrovare in epoca moderna la via d'accesso a cuori la cui sensibilità e psicologia meglio corrispondevano a questa espressione di slancio verso la fede cristiana che costituì, al tempo stesso, l'ultimo grande capolavoro letterario dell'antichità latina. Altri retaggi intellettuali e mentali raccolti dal Medioevo si formarono all'epoca dei Padri della Chiesa. Nacque allora la tradizione agiografica, molto influenzata dal modello di Atanasio, ma anche dai biografi greco-latini. La "Vita di san Martino" (completata dai "Dialoghi"., ad opera di Sulpicio Severo (396-399., quella di "sant'Ambrogio", ad opera di Paolino di Nola (attorno al 422., quella di "san Germano di Auxerre", ad opera di Corneille di Lione (attorno al 475., già più barbara, costituiranno - specie la prima - dei modelli. Il poeta spagnolo Prudenzio pubblicò nel 405 una raccolta di poemi in cui, più degli attacchi a Simmaco, valgono la descrizione di Roma, nuovo modello urbano i cui ornamenti sono le chiese innalzate sulle tombe dei martiri, e soprattutto la "Psychomachia", il primo poema allegorico dell'Occidente in cui le Virtù e i Vizi avviano la loro battaglia, che continuerà per tutto il Medioevo. Prospero d'Aquitania (verso il 390-463., probabilmente monaco a Marsiglia e poi a Roma, al di là delle sue opere antipelagiane e narrative, offrirà soprattutto al Medioevo, per un errore consueto in quest'epoca, un prestanome al posto del retore africano Giuliano Pomerio, il cui "De vita contemplativa", un altro libro caro ai chierici del Medioevo, di

fronte all'immagine della vita attiva, in quel periodo di recessione, pone il grande principio medievale della superiorità della vita contemplativa. Nel primo terzo del quinto secolo, le "Nozze di Mercurio con la Filologia" dell'avvocato Marziano Capella, tratta, in forma mitologica ed allegorica, della classificazione delle scienze, delle sette arti liberali. Quest'opera costituirà, a partire dall'epoca carolingia, il principale quadro intellettuale e pedagogico di riferimento per i chierici medievali. Liberato da ogni riferimento religioso pagano, questo schema perpetuerà nella cultura cristiana il sistema intellettuale dell'antichità. Analogamente, in campo artistico si delineano progetti di forme e di idee destinati ad avere un prolungato successo nel corso del Medioevo. Nell'architettura si delineano due orientamenti. Quello, su pianta rettangolare, della basilica, il cui esterno severo contrasta con un interno nel quale l'adeguamento del cristianesimo al mondo accoglie una decorazione sempre più fastosa. Tutto vi É ordinato in profondità: l'orientamento delle navate, la posizione delle colonne, le aperture sui muri, la concavità dell'abside attirano l'occhio e lo spirito verso il centro di gravità dell'edificio, l'altare. Un altro elemento traduce il trionfalismo nascente del cristianesimo: l'arco di trionfo con cui si apre il coro. Di questo tipo sono le basiliche romane a partire da Costantino: San Giovanni in Laterano, San Pietro, San Paolo fuori le mura, Santa Maria Maggiore (352-366. e, posteriore e più armoniosa, Santa Sabina (sotto il pontificato di Celestino Primo, 422-432.. Tuttavia, su pianta centrale, un altro tipo di chiesa, centrata sul culto crescente delle reliquie dei martiri, faceva concorrenza al modello della basilica. Questo tipo di chiesa, oltre ad avere un diverso sistema di focalizzazione della vista e della meditazione, riprendeva l'antica ideologia dello spazio rotondo, immagine dell'universo e della perfezione. Si veda ad esempio, a Roma, Santa Costanza, attorno al 320, Santo Stefano Rotondo, verso il 475 e, in tre fasi, l'ottagono a deambulatorio del Battistero di San Giovanni in Laterano (325/435/465. e, a Milano, San Lorenzo (tra il 450 e il 470.. Una scelta importante É la rinuncia alla volta. Sembra derivi da un'opzione di ordine spirituale: Una religione, tutta spirituale - ha scritto Nikolaus Pevsner - non sapeva che farsene di questo appesantimento schiacciante. Si rivelerà adatta al regresso tecnico del Medioevo. Si apprestano, dunque, strutture che serviranno per il periodo più nero. I progetti pittorici si ritrovano nell'affresco e soprattutto nel mosaico. Essi imboccano - come ha dimostrato Pierre Francastel - le due vie maestre dell'iconografia cristiana: racconti e simboli. Racconti, come a Santa Maria Maggiore, in Roma, dove i mosaici eseguiti sotto il pontificato di Sisto Terzo (432-440. narrano delle storie riprese dal "Vecchio" e dal "Nuovo Testamento", dall'"Apocalisse" e dalla vita del Cristo: simboli, come a Santa Costanza, dove il simbolismo floreale, e animale, quello delle stagioni e della vendemmia in primo luogo, viene piegato a esprimere un contenuto cristiano, o come nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (prima metà del quinto secolo.: il Cristo in veste di Buon Pastore, la tunica e le chiavi, la croce e il libro, la colomba, il cervo, il pavone. Tra questi due poli, un'ulteriore tendenza resta aderente soprattutto alle figure e alle scene d'insieme. Si tratta di una tendenza dottrinale, della quale il miglior esempio É offerto dal mosaico di Santa Prudenziana in Roma (pontificato di Innocenzo Primo, 401-417.. Il Cristo, troneggiante in Maestà, vi appare al centro degli apostoli e della Vecchia e Nuova Legge, ergendosi dinnanzi alla Gerusalemme celeste, con la croce e i simboli degli evangelisti. Per finire, i progetti relativi alla scultura che adorna i sarcofagi subiscono un'evoluzione. Il simbolismo si attenua e si esprime soprattutto in segni di vittoria o di trionfo: la croce, la corona d'alloro, le porte di città. L'ammasso disordinato cede il posto a una sistemazione sempre più precisamente ordinata. Il Cristo perde il suo aspetto bucolico giovanile per diventare redentore, taumaturgo, sovrano. Egli non ha più il posto centrale.

Si va delineando la figura umana, che esprime più chiaramente la somiglianza tra l'uomo e Dio, rende visibile il tema dell'uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio. Agli uomini del quarto secolo, il cristianesimo si presentava, ancor più che come un dogma, come una teologia o un'istituzione, come uno stile di vita, l'ideale di un uomo nuovo. Il culto, la liturgia, la devozione furono le espressioni e gli strumenti di questa trasformazione della psicologia, della sensibilità e del comportamento. Così come il fasto ornamentale conquistò l'interno delle chiese, la stessa musica cristiana si fece più ricca. Essa restava contraria all'impiego di qualsiasi strumento, e utilizzava soltanto la voce umana. Il quarto secolo rappresentò, dunque, la grande epoca del canto dei salmi e degli inni "a capella". I nomi di Ilario di Poitiers e di Ambrogio di Milano si ricollegano a questa vicenda. Sant'Agostino ha parlato dell'impressione che producevano in lui i canti della chiesa di Milano al tempo di Ambrogio: Quanto ho pianto a Milano nell'ascoltare i vostri inni, i vostri cantici, gli accenti soavi di cui risuonava la vostra chiesa! Quale emozione ho provato! Essi scendevano nelle mie orecchie, distillando la verità fin nel mio cuore. Mi sentivo preso da un grande slancio di devozione e le lacrime scendevano lungo le mie gote, ma mi facevano bene. La liturgia si caricava di richiami al rituale imperiale, i cui principali oggetti erano Dio e i vescovi. Baci, genuflessioni si moltiplicavano. Il culto eucaristico del banchetto si trasformava sempre più in una cerimonia in cui si approfondiva il fossato tra i vari "ordines" dei partecipanti: catecumeni, penitenti ed energumeni congedati dopo la parte preliminare della messa, laici che sostavano tra le navate, clero isolato nella parte del coro. Il sacerdote che celebrava di fronte al popolo cominciò a volgersi verso Est: Ormai l'intera assemblea costituisce una sorta di ampia processione guidata dal sacerdote e in cammino verso il sole, verso il Cristo Signore (Josef Jungmann.. Al di là del culto e addirittura fuori dalle chiese, il cristianesimo operò una radicale trasformazione negli stessi parametri cronologici dell'esistenza umana. Il riposo domenicale venne imposto, un nuovo calendario scandì il ritmo annuale, centrato attorno a due principali momenti: Natale, ricollocato, nel corso del quarto secolo, dal 6 gennaio al 25 dicembre, e Pasqua, che, nonostante un'iniziativa del papa Leone Primo che accoglieva per il 455 la data del 24 aprile indicata dal computo alessandrino, resta non solo una festa mobile, ma una festa la cui data varia all'interno del mondo cristiano. Un lungo periodo di penitenza precede la Pasqua: É il periodo della Quaresima, con le sue restrizioni. Un adattamento a un periodo di penuria, che si ritrova nella pratica del digiuno e, in accordo con la trasformazione agricola dell'economia e del sistema di vita, la celebrazione, al fine di pregare Dio per ottenere messi feconde, di Rogazioni per tre giorni prima dell'Ascensione (usanza introdotta in Gallia alla fine del quinto secolo da Mamerto di Vienne.. L'istruzione si andava estinguendo. Il cristianesimo trascurava i giovani, ancor più l'infanzia. L'insegnamento, sempre più ridotto all'insegnamento religioso, si limitava all'ascolto della lettura della Scrittura e dei canti devoti. Tranne per il clero, tendeva a generalizzarsi l'insegnamento orale. Al di fuori del culto eucaristico e delle festività liturgiche, due pratiche tendevano ad assorbire la nuova vita religiosa: i pellegrinaggi e, soprattutto, il culto dei martiri e delle reliquie. I pellegrinaggi, che combinano una tendenza penitenziale e regressiva (ritorno alle fonti. con tradizioni di mobilità, connesse al viaggio e all'instabilità, sospingono folle sempre più numerose verso Gerusalemme e i luoghi santi d'Oriente. Ma già alcuni luoghi sacri diventano, in Occidente, mete di pellegrinaggio: ad esempio, a Roma, i paraggi di San Pietro e, dal quinto secolo, a Tours, quelli di San Martino. Infine, il culto delle reliquie dei martiri conosce un favore straordinario. Ogni chiesa se ne procura nei luoghi prescelti: Roma, l'Oriente. Vittorio di Rouen racconta in mezzo a quale delirio popolare le sacre reliquie avessero fatto il loro ingresso a Rouen verso il 396.

Le reliquie di santo Stefano, primo martire, scoperte a Gerusalemme nel 415, fecero il giro del Mediterraneo, suscitando passioni, dispute, concorrenze, ma anche fervore e miracoli, come testimonia sant'Agostino. A Roma, fin dal 354, su ventiquattro giorni festivi, ventidue sono giorni di festa per dei martiri. Agostino denuncia i mercanti ambulanti che vendono parti del corpo di martiri, se pure si tratti di quelle dei martiri. La Chiesa cerca invano di opporsi allo smembramento dei corpi dei martiri, alla riduzione a pezzi separati degli scheletri. Il successo della devozione lo impone. Il culto dei martiri e delle loro reliquie, testimonianza di un'involuzione barbarica della mentalità sempre più attaccata alla materia, all'oggetto, rivela e sviluppa tre principali correnti relative alla credenza e al comportamento. Dapprima il terrore della malattia, accresciuto dall'arretratezza della scienza medica. Ai martiri si chiede in primo luogo di essere dei guaritori miracolosi. Quindi la ricerca di salvezza, per intercessione dei corpi santi: sempre di più si aspira a venir seppelliti vicino alla tomba di un martire e i martiri attirano all'interno delle città il mondo dei morti che l'antichità teneva lontano dai luoghi abitati, lontano dal centro urbano. Infine, l'ossessione del diavolo e dei demoni, i nuovi nemici del genere umano, che le reliquie mettono in fuga. Il cristianesimo non indusse cambiamenti rilevanti nelle strutture socio-economiche. Nonostante certe diffidenze, assestamenti, modifiche di argomentazioni, esso non intaccò i tre grandi princìpi della vita economica romana: il rispetto della proprietà privata, l'osservanza degli impegni, la legittimità del profitto (Jean Gaudemet., e neppure il principio della schiavitù n‚ quello del servizio militare. Esso tuttavia modificò profondamente i costumi e la psicologia. Nuovi valori, nuovi comportamenti si imposero. La tendenza ascetica che portava alla scomparsa dei giuochi, delle terme, del teatro trasformava radicalmente le tecniche fisiche e spirituali. L'accento posto sul digiuno, sulla castità, persino sulla verginità, rivoluzionava il costume alimentare, sessuale e psichico. Le pratiche di penitenza, di mortificazione, di carità (dall'amore fraterno all'elemosina. determinavano nuovi rapporti sociali. Subordinazione e solidarietà all'interno dei rapporti d classe assumevano forme nuove, quelle del Medioevo. 3. IL CRISTIANESIMO DURANTE I REGNI BARBARICI (476-754.. "O Gesù Cristo, che Clotilde proclama figlio del Dio vivente.... se mi concedi la vittoria su questi nemici e se esperimento la virtù miracolosa che il popolo votato al tuo nome dichiara di aver messo alla prova, crederò in te e mi farò battezzare nel tuo nome" (Clodoveo, cit. secondo Gregorio di Tours, "Storia dei Franchi", II, 30.. - I Barbari diventano cattolici. Se i letterati cristiani hanno accolto con amarezza, spavento e addirittura con disperazione i popoli barbari - soprattutto tedeschi - insediatisi nell'impero d'Occidente, nel corso del quinto secolo (tranne il sacerdote Salviano, di Marsiglia, il quale, verso il 450, nel suo "De gubernatione Dei", non solo trova giusta la punizione dei Romani corrotti, ma pone molto al di sopra di essi i Barbari, per la purezza dei loro costumi., i rapporti tra i nuovi dirigenti, la Chiesa e le popolazioni cristiane che vi abitavano da prima sono stati piuttosto buoni. Lo stesso arianesimo dei conquistatori ha provocato conflitti violenti solo in rare occasioni, tranne in Africa, dove, però, la drammaticità della persecuzione dei cattolici ad opera dei Vandali É stata ridimensionata da Christian Courtois. Le invasioni, tuttavia, hanno posto alla Chiesa nuovi problemi, innanzitutto al livello della conversione. Parte degli invasori erano ancora pagani: i Franchi, i quali, alla fine del quinto secolo e agli inizi del sesto secolo conquistarono l'intera Gallia, eccetto la Provenza.

La maggior parte degli altri erano ariani: Visigoti insediati in Aquitania e poi sospinti in Spagna, Burgundi incorporati nel regno dei Franchi nel sesto secolo, Ostrogoti stabilitisi in Italia e in Provenza, Longobardi che li sostituiscono a partire dal 568. Infine, ai margini dell'Impero romano, delle zone da tempo ma superficialmente convertite al cristianesimo erano ritornate al paganesimo: la piana danubiana della Rezia, il Norico e la Pannonia travolta dagli Avari, i Bavari e gli Alamanni, la Frisia; l'Inghilterra occupata dagli Anglo-Sassoni. Tutte queste situazioni sarebbero state portate per la prima volta, o riportate, al cattolicesimo. Dovunque i missionari cristiani, tenendo conto della struttura dei popoli germanici, cercarono di ottenere delle conversioni collettive conquistando i capi, i prìncipi, spesso attraverso alcune principesse già convertite al cristianesimo. E' logico che si sia di solito considerata la conversione di Clodoveo e dei Franchi come quella più importante. Clodoveo fu, infatti, il primo sovrano germanico che abbia abbracciato la fede cristiana. L'appoggio che i Franchi cattolici avrebbero fornito al papato nell'ottavo secolo, la restaurazione imperiale da essi realizzata nell'800 con Carlo Magno, il loro contributo alla conversione di altri popoli fanno, in effetti, del battesimo di Clodoveo (verso il 498 o il 506. uno degli avvenimenti più importanti della storia medievale. Se la conversione di Clodoveo ricorda quella di Costantino (Gregorio di Tours lo chiamerà novello Costantino. per l'accenno di certi testi del sesto secolo al ruolo assunto dall'aver conseguito una vittoria militare, essa tuttavia se ne discosta per alcuni elementi che consentono di rendersi conto dei cambiamenti intercorsi nel frattempo. Se la pressione di un ambiente circostante già cattolico É stata importante, con tutta probabilità É stato decisivo l'effetto di certi miracoli: mutata atmosfera psicologica. Le dichiarazioni di Avito, vescovo di Vienne, in una lettera da lui inviata a Clodoveo all'indomani del battesimo debbono aver sia rafforzato, sia suggerito al re idee che avrebbero cominciato a farsi strada. La vostra fede - dichiara il vescovo - É la nostra vittoria. Le prospettive dischiuse da questa stretta identificazione tra il regno e la Chiesa significavano anche la possibilità, per il sovrano, di imporsi nelle faccende ecclesiastiche. Clodoveo non mancò di farlo e, con più fortuna di Costantino, vi riuscì anche meglio. Nel 511, egli convocò ad Orl‚ans quello che É stato definito il primo concilio nazionale franco. In un altro passo, Avito dichiara che un sol levante splende sull'Occidente e che l'Oriente non É più il solo a possedere un imperatore cattolico. Questo equivale a risvegliare un'ambizione, se non proprio a delineare un programma. In compenso, É vero, la Chiesa sottolinea come, divenendo cristiano, il re sia sottoposto a Dio, ma anche alla Chiesa stessa che lo rappresenta in terra. Se anche Clodoveo non avesse pronunciato a Reims la frase che gli attribuisce, quasi un secolo dopo, Gregorio di Tours - Piega umilmente il tuo fiero capo, Sicambro - tuttavia essa rendeva efficacemente il pensiero dell'episcopato. Per decisiva che possa essere stata l'influenza della conversione di Clodoveo rispetto ai suoi sudditi, la conquista dei Franchi al cristianesimo fu in ogni caso un lavoro di lungo respiro. Attraverso le tombe, gli archeologi non vedono effettivamente compiuta questa conquista se non nel settimo secolo. Il complesso del territorio sottoposto al dominio dei Franchi fu guadagnato alla fede cristiana solo all'inizio dell'ottavo secolo. Le ultime zone ad essere evangelizzate furono la parte orientale dell'attuale Belgio (a partire dal vescovato di Tongres-Maastricht-Liegi., la diocesi di Treviri e, alla fine, quella di Colonia. L'Inghilterra fu convertita, a partire da due basi molto diverse tra loro. Degli Irlandesi, Aidano e Finana, residenti nell'isola scozzese di Iona, si recarono ad evangelizzare, rispondendo all'appello del principe di Northumbria Osvaldo, la Northumbria stessa e poi la Mercia. La loro base fu Lindisfarne. Ma, nel 597, il monaco romano Agostino fu inviato dal papa Gregorio Magno nel sud dell'Inghilterra ed egli si stabilì a Canterbury.

Dopo vari successi, questa missione ed altre che la seguirono portarono all'evangelizzazione del Kent e della Northumbria, dove vennero a contatto con i Celti - mentre a loro volta, venivano conquistati alla fede cristiana l'Essex e l'Anglia orientale. Ma il computo della Pasqua, la liturgia, le usanze del culto e le regole disciplinari differivano presso i due gruppi. Al sinodo di Whitby (664., soprattutto per la pressione di Vilfrido, abate di Riponè che era andato a Roma in pellegrinaggio, le usanze romane finirono per affermarsi. Si inaugurò, allora, una lunga collaborazione tra la Chiesa inglese e Roma. L'arianesimo dei Burgundi, dei Goti e dei Vandali scomparve sotto i colpi che fecero perire questi popoli: dei Franchi, per i primi, dei Bizantini per gli altri. Diversa fu la vicenda dei Visigoti e dei Longobardi. La conversione degli Svevi al cattolicesimo (verso il 561., nel nordest della penisola iberica, precede ed annuncia quella dei Visigoti. Essa fu soprattutto opera di Martino di Braga, fondatore del monastero di Dumio, autore di una "Formula vitae honestae", una specie di specchio dei prìncipi, e di una "De correctione rusticorum", destinata all'evangelizzazione dei contadini pagani. La conversione di questa popolazione derivò da quella del principe e fu indubbiamente influenzata dall'aspirazione ad appoggiare i Bizantini contro i Visigoti ariani. La conversione dei Visigoti dall'arianesimo al cattolicesimo avviene nel 587-589 in un contesto drammatico: la rivolta di Ermenegildo contro il padre, l'ariano Leovigildo, l'assassinio di Ermenegildo, la conversione di Recaredo, successore del padre Leovigildo. Una conversione preparata grazie alla superiorità culturale del clero cattolico, alla conversione progressiva al cattolicesimo delle famiglie dell'aristocrazia urbana, al trauma del tentativo bizantino di riconquista. Una conversione politica, anche in questo caso, di un sovrano; ma, anche qui, si coglie un clima psicologico particolare, il riflesso nell'animo del sovrano di "signa", di miracoli operati dai cattolici. Presso i Longobardi, la conversione dall'arianesimo al cattolicesimo, avviata sotto il pontificato di Gregorio Magno (590-604. con l'appoggio della bavarese Teodolinda, regina cattolica dei Longobardi, avvenne nel corso del settimo secolo. Il mondo germanico, infine, cominciò ad essere intaccato dall'evangelizzazione. I missionari più illustri vennero dall'Inghilterra e dall'Irlanda. A partire dal 678, Vilfrido di Riponè e poi, dal 690, il suo discepolo Villibrordo, ripresero ad evangelizzare la Frisia. A partire dalla fondazione di Reichenau (724., Pirmino, che probabilmente non era Irlandese, come si É creduto a lungo, ma spagnolo, intraprese l'evangelizzazione degli Alamanni. In appoggio alla sua opera di missionario egli scrisse un manuale, lo "Scarapsus", che riecheggia il "De correctione rusticorum" di Martino di Braga. Soprattutto a partire dal 716, in Frisia, e poi nell'Assia, in Turingia e in Baviera, Winfrido, formatosi nei monasteri dell'Essex, nominato vescovo da Gregorio Secondo a Roma nel 722 con il nome romano di Bonifacio, poi arcivescovo da Gregorio Terzo nel 732 come titolare della Germania con sede a Magonza, dispiega un'attività prodigiosa. Questo missionario, fondatore di arcivescovati (Wrzburg. e di abbazie (Fulda., riformatore in Baviera e in Gallia, in corrispondenza con le principali personalità di tutto il mondo cristiano, molto legato a Roma, anticipatore dei tempi carolingi, subì il martirio in Frisia nel 754. - Le chiese nazionali barbariche. Mentre il cattolicesimo trionfava in tutto l'Occidente e il papato romano faceva sentire la propria influenza e segnava dei punti nella maggior parte del mondo cristiano occidentale, la formazione dei regni barbarici comportava una frammentazione della cristianità in Chiese dalle tendenze nazionali sottoposte all'ingerenza dei rispettivi sovrani. In Gallia, ad esempio, la Chiesa divenne una Chiesa regionale, poi territoriale, di cui il re garantiva direttamente il governo. Era il re a convocare i concili, a nominare i vescovi. Alcuni di questi, in compenso, erano i principali consiglieri del sovrano - anche se, il più delle volte, l'episcopato si riduceva a ricambiare piuttosto i servigi ottenuti. Ad esempio, i collaboratori di Dagoberto (629-639. divennero Ouen vescovo di Rouenè Desiderio vescovo di Cahors, Eligio vescovo di Noyon. Lo Stato e la Chiesa si compenetravano a vicenda. Dei simoniaci comperavano delle cariche, come Eusebio, che comperò il vescovato di Parigi nel 592.

I sovrani si sbarazzavano con l'assassinio di vescovi importuni, come fece Fredegonda con Pretestato, vescovo di Rouenè nel 586, e il maestro di palazzo della Neustria, Ebroino, con L‚ger, vescovo di Autunè nel 678. In Spagna, dopo la conversione di Recaredo (587., si formò uno Stato nazionale cattolico, con due teste: il re, sacro come i re del "Vecchio Testamento", e l'arcivescovo di Toledo, capo della Chiesa. Il governo era controllato da un'assemblea di vescovi, di abati, di preti e di personalità laiche; il concilio era presieduto dal re e diretto dall'arcivescovo di Toledo. Il concilio legiferava su tutte le questioni religiose e civili e, a partire dal 653, si arrogò il diritto di designare i sovrani. La cristianità visigotica si costituì in gruppo chiuso ad imitazione dell'Israele del "Vecchio Testamento". Particolarmente ostile a tutti gli stranieri, essa costrinse gli Ebrei a convertirsi o a fuggire. Nel 654, il re Recesvindo promulgò un codice, il "Liber judiciorum", comune per tutti i suoi sudditi, qualunque fosse la loro origine etnica. La tendenza della Chiesa a costituirsi in Chiesa nazionale si manifestò in Germania, ancorch‚ questa fosse priva di un'unità politica e non ancora completamente convertita da Bonifacio. Dal 742, un sinodo riunì i vescovi tedeschi. Senza dar vita a delle chiese nazionali, il cristianesimo celtico e, in particolare, quello irlandese, sorto nel 430 con l'inglese Patrizio, di famiglia romano-bretone, si contraddistinse per la sua marcata originalità. Gli aspetti più appariscenti di tale originalità furono indubbiamente la ricchezza di iniziative missionarie che si manifestò in Gran Bretagna e sul continente, fino in Italia, e l'eccezionale produzione artistica. Si pensi ad altri due tratti caratteristici: il primo, consiste nell'accanita resistenza al modello romano, in materia liturgica (data della Pasqua, tonsura particolare, riti specifici per l'amministrazione del battesimo e la consacrazione dei vescovi., istituzionale (scelta di una Chiesa monastica al posto di una Chiesa episcopale, primato della vita contemplativa., politica (rifiuto di riconoscere l'autorità della sede di Canterbury.; l'altro, consiste nell'esercizio ascetico: digiuni reiterati (due giorni alla settimana, il mercoledì e il venerdì., tre quaresime all'anno, privazione di sonno, mortificazioni severe (immersione nell'acqua fredda, preghiere con le braccia incrociate., lunghezza delle preghiere, infinite genuflessioni. Come É stato sottolineato, il monachesimo orientale primitivo ha trovato un suo prolungamento in Irlanda. Due avvenimenti di grande importanza intervenivano, però, a modificare dal di fuori la situazione del mondo cristiano occidentale. Il primo fu la riconquista bizantina di parte dell'Italia (e di parte della Spagna. sotto Giustiniano (533.. Il governo bizantino tese a considerare il papato romano come un avamposto dell'Impero romano di lingua greca in Occidente. L'elezione dei papi dovette venir ratificata da Costantinopoli o da Ravenna. Su tredici papi succedutisi tra il 678 e il 752, undici erano greci o siriaci. Geoffrey Barraclough ritiene che il papato sia stato salvato dai Longobardi e dall'islam, che arrestarono l'aggressività bizantina. Il secondo fenomeno, ad ogni modo, trasformò profondamente la situazione del cristianesimo occidentale. L'occupazione della Terra Santa non fu la cosa più grave, poich‚ non impedì i pellegrinaggi. La conquista della Spagna da parte degli Arabi (711. introdusse nel mondo cristiano germi di irredentismo. I due cunei introdotti nella cristianità latina, dai Bizantini in Italia e dai musulmani in Spagna, accrebbero indubbiamente le forze frenanti all'interno del cattolicesimo occidentale. Di fronte alle prove da affrontare, la cristianità latina ripiegava su se stessa. Ad ogni modo, anche il papato era assorbito in primo luogo da problemi di ordine regionale. Gelasio Primo (492-496. aveva scritto all'imperatore Anastasio per fargli presente la separazione dei due poteri e la superiorità del potere spirituale detenuto dal papato. Gregorio Magno (590-604. sembrava aver mantenuto l'iniziativa pontificia.

La missione in Inghilterra, la sua opera pastorale di governo nonch‚ quella letteraria avevano dato lustro al suo pontificato. Eppure, il suo orizzonte era già limitato da tre ordini di fattori: la recessione tecnologica ed economica, che tagliava fuori l'Italia dal mondo orientale e costringeva Roma a cercare delle fonti di rifornimento più vicine, in Italia stessa e in Sicilia; i Longobardi, che minacciavano la dominazione pontificia nella stessa Roma; la peste nera, ricomparsa a varie riprese a partire dal 524 e, soprattutto, nel 590, che sembrava annunciare imminente il Giudizio Finale e sospingeva il pontefice a dimostrare lo zelo pastorale e missionario. Il pericolo longobardo non scomparve con la conversione di questo popolo al cattolicesimo e il pericolo bizantino si accrebbe con l'operato di Leone Terzo, a partire dal 727, a favore dell'iconoclastia. La ferma condanna dell'iconoclastia da parte di Gregorio Terzo (731-741. impose al cattolicesimo due decisioni capitali. La prima fu quella del distacco ancor più accentuato dall'Oriente e da Bisanzio sul piano religioso e culturale. La seconda fu quella di cercare un protettore del papato in Occidente. Solo i Franchi apparivano in grado di svolgere un simile ruolo. Carlo Martello lo evitò; Pipino il Breve stabilì un'intesa col pontefice Stefano Secondo (752-757.. Dal 751, Zaccaria, predecessore di Stefano Secondo, aveva acconsentito all'ascesa di Pipino sul trono dei Franchi e alla consacrazione del nuovo re, che ebbe luogo a Soissons nel novembre del 751, alla presenza di Bonifacio. Nel 754, Stefano Secondo ripet‚ di persona la consacrazione di Pipino, estesa ai figli, Carlomanno e Carlo. In compenso, Pipino promise al papa di ottenergli dai Longobardi una serie di territori nell'Italia centrale, cosa che avvenne nel 756. Era sorto lo Stato pontificio. Il papato, a propria volta, si costituiva in Chiesa territoriale. Ne derivava un'accresciuta ambiguità. - Barbarizzazione del cristianesimo. La barbarizzazione costituita dall'integrazione delle Chiese nel quadro delle rispettive nazioni venne accresciuta da una traduzione barbarica dello stesso contenuto della religione e della sua pratica. E' possibile definire questo fenomeno considerando la crescente partecipazione della Chiesa alla violenza, lo sviluppo delle primitive forme di giustizia ("ordalie". e di penitenza ("penitenziali"., la penetrazione di gusti e mentalità barbarici nell'arte e nella letteratura. Nel mondo pieno di brutalità e di crudeltà descritto da Gregorio di Tours nel sesto secolo, c'É tutta una galleria di cattivi vescovi e preti malvagi che dimostrano come la Chiesa affondi nella violenza. Ecco la coppia diabolica costituita da Bad‚gesil, maestro di palazzo del re Clotario Primo, divenuto, per il favore del re, vescovo di Le Mans, e da sua moglie: "Accanto a quest'uomo dal cuore aspro e duro, c'era la sua sposa, ancor più crudele, che lo spingeva con l'odioso stimolo dei suoi consigli a compiere dei crimini. Non passava giorno o momento che non si scatenasse a spogliare gli abitanti o fomentare liti di tutti i generi. Ogni giorno, non la finiva mai di discutere affari con i giudici, di svolgere funzioni secolari, di infierire contro gli uni, di maltrattare gli altri e addirittura di colpire la gente con le sue stesse mani, di mandarne in rovina moltissimi e di affermare: Non sarà che io non mi vendichi delle ingiurie subite perché‚ sono diventato un prete [...] Quanto alla moglie, era di una malvagità inaudita. Così, ella tagliò spesso a degli uomini le parti genitali addirittura con la pelle del ventre. Quanto alle donne, ella bruciava loro le parti più intime del corpo con delle lame arroventate e commise ben altre malvagità che ho ritenuto preferibile non riferire." Giustizia divina e giustizia terrena tendevano a confondersi in un'unica barbara forma. Per giustificarsi, si ricorreva in misura crescente o al duello o all'ordalia o a prove di vario genere: con l'acqua bollente, in cui affondare senza conseguenze la mano; un corso d'acqua, uno stagno, un bacino in cui uno viene gettato con una pietra al collo e riesce a galleggiare; carboni ardenti che si tengono in mano senza essere bruciati.

Ecco ancora, in Gregorio di Tours, un vescovo di Tours, Brizio, accusato di essere il padre di un figlio che egli non riconosceva: "Per giustificarsi agli occhi della popolazione, egli mise nella sua casacca dei carboni ardenti e, stringendoli contro di s‚, si recò presso la tomba del beato Martino seguito da folle di gente e, quando ebbe scagliato i carboni dinnanzi alla tomba, i suoi abiti risultarono intatti da bruciature. Egli allora riprese a dire: Come quest'abito - lo vedete - non É stato toccato dalle fiamme, così il mio corpo non É stato contaminato dal contatto e dal coito con una donna." Questo periodo conosce la formazione della lista dei peccati mortali. Si esita ancora circa il loro numero e la loro natura. Gli Irlandesi, campioni della penitenza, danno il tono. Cummean mette a punto una classificazione di otto peccati principali: ghiottoneria, lussuria, cupidigia, collera, tristezza, pigrizia, iattanza, orgoglio. Egli fa di questi la base di un catalogo di penitenze concepito sul modello delle leggi barbariche, che fissano una scala di pene proporzionali alla condizione sociale del colpevole. Il laico É punito meno severamente del prete, il prete meno del vescovo. La riparazione É di norma: cinque buoi per un bue rubato, quattro montoni per un montone rubato, due maiali per un maiale rubato. Quanto alle pene spirituali, esse comprendono prove corporali (genuflessioni, preghiere a braccia incrociate., ritiri, astinenze e canto di salmi. Verso la fine del sesto secolo, i monaci irlandesi introdussero queste forme di penitenza nel continente. Colombano compila un penitenziale a Luxeuil. In esso le pene fisiche sono numerose: una falsa testimonianza comporta, se la si fa in buona fede, cento colpi di cinghia sulle mani; se invece É in mala fede, merita settecento colpi di frusta, un semidigiuno e il canto di centocinquanta salmi. I più puniti sono anche i meglio protetti. Colui che ferisce un vescovo viene crocifisso o paga l'equivalente di sette schiave, se cola del sangue. Gli si taglia la mano o paga metà tariffa se la ferita non sanguina. Non tutto É segno di barbarie nei penitenziali. Si É detto che essi corrispondevano alle usanze dell'alto Medioevo senza tradire gli ideali cristiani. Richiedendo una certa delicatezza nella psicologia del peccato come nella scelta della pena, essi sono serviti ad educare clero e laici, hanno contribuito al progresso della coscienza morale in Occidente (Gabriel Le Bras.. L'influenza barbarica sull'arte e la letteratura, che sembra deformare o lasciar cadere il messaggio cristiano, non É, del pari, completamente negativa. Vi traspaiono altre forme di bellezza e la rozzezza ha retto il messaggio. Certo, il repertorio tracciato da E. Salinè in base agli oggetti ritrovati nelle tombe merovinge, dimostra sia la persistenza delle credenze e dei simboli pagani sia la rozzezza delle rappresentazioni e della devozione cristiane. Le tombe sono piene di amuleti e di filatteri. Il simbolismo solare si ritrova in tutta una serie di segni, dal circolo con l'occhio alla croce uncinata. Sono numerose le raffigurazioni animalesche e soprattutto mostruose (grifoni, serpenti e draghi.. L'uomo appare timidamente in forme semipagane, semicristiane: in preghiera, tra due animali uno di fronte all'altro; Cristo appare in veste militare romana (più raramente, in realtà, del Cristo benedicente o con in mano la legge.. Tuttavia, nella cappella funebre di Jouarre, le sculture - Giudizio finale - della tomba di Agilberto, della fine del settimo secolo, testimoniano, accanto a modelli orientali (bassorilievo della parte superiore della tomba., l'emergere di un nuovo sistema figurativo che volge le spalle al realismo, e di una nuova sensibilità orientata verso l'espressionismo. L'arte visigotica, in Spagna, l'arte longobardica, in Italia, testimoniano del pari questa influenza barbarica per cui il carattere prezioso dell'oggetto, accentuato in tutti i modi, sovrasta la qualità dell'immagine (Andr‚ Chastel.. Si É graditi a Dio per la ricchezza (elementi antichi incorporati, materiali preziosi. più che per la raffinatezza. Accanto ai tesori dei prìncipi si costituiscono i tesori delle chiese.

L'oreficeria diventa una delle arti principali. Sant'Eligio, non a caso, É uno dei principali personaggi dell'epoca. Con gli Irlandesi, la raffinatezza prevale sull'elemento barbarico. Il loro trionfo consiste nella miniatura e i grandi evangeliari miniati penetrano nel continente al seguito dei monaci evangelizzatori. Quest'arte in cui predomina l'ornamento a intreccio forma un vero e proprio sistema, col suo gusto preistorico di coprire la superficie, col suo rifiuto di qualsiasi realismo, il suo rigoroso modo di trattare astrattamente la figura umana o animalesca. Nel campo letterario, la moda dell'agiografia, spesso scritta in una lingua ibrida, testimonia il riflusso intellettuale. Quel che conta, É il miracolo: la santità É taumaturgia. Cosi credono Gregorio di Tours e Fortunato, i due più fecondi ed ambiziosi agiografi dell'epoca. - I fondatori del Medioevo. I tre secoli che conducono dalla caduta dell'Impero romano alla morte di san Bonifacio e alla costituzione dello Stato pontificio hanno visto alcune grandi figure fornire, dopo i Padri della Chiesa, alcuni elementi basilari e i parametri culturali e intellettuali agli uomini del Medioevo. E. K. Rand li ha chiamati i fondatori del Medioevo. Si tratta degli italiani Boezio (morto nel 524., Cassiodoro (morto verso il 580., Gregorio Magno (papa dal 590 al 604., dello spagnolo Isidoro di Siviglia (morto nel 636., dall'inglese Beda (morto nel 735.. Boezio, discendente da una famiglia di senatori, fu il consigliere cattolico di un re ariano, Teodorico. E' l'ultimo dei filosofi dell'antichità. La sua influenza sul Medioevo É triplice. Egli ha, innanzitutto, fornito le basi di quel che sarà il "quadrivium" (tranne l'astronomia., con tre trattati sulla musica, l'aritmetica e la geometria (quest'ultimo É andato perduto.. Egli É stato, inoltre, il primo grande logico del Medioevo, il quale gli É debitore delle versioni latine di parte delle opere logiche di Aristotele ("logica vetus"., di una traduzione dell'"Isagoge" di Porfirio, eccetera, in cui l'influenza neoplatonica di Plotino É fondamentale. Infine, con il "De consolatione philosophiae", egli ha fornito al Medioevo la sua prima argomentazione sulla riconciliazione della ragione e della fede, della filosofia e della religione. M. C. W. Laistner ha sottolineato come egli abbia lasciato agli intellettuali del Medioevo la definizione di alcuni dei termini centrali da essi impiegati: la persona (sostanza individuata della natura razionale., la provvidenza (questa ragione divina costituita in principio superiore di ogni cosa, che ordina ogni cosa., l'eternità (il possesso completo e perfetto della vita senza fine.. Cassiodoro, anch'egli alto funzionario dei re goti ariani, finì con il ritirarsi in un monastero fondato nei suoi territori a Vivarium, nell'Italia meridionale. Egli raccolse soprattutto una ricca biblioteca, a cui si deve la conservazione di manoscritti di numerose opere antiche e paleocristiane. Più che come storico ("Cronaca", "Storia dei Goti". o come esegeta, egli fu conosciuto per il suo programma d'insegnamento, che conciliava antichità e cristianesimo ("Institutiones"., e per la raccolta dei suoi atti ufficiali precedenti il ritiro a Vivarium ("Variae".. Gregorio Magno scrisse opere legate alle sue funzioni pontificali: di carattere esegetico e parenetico come le "Omelie sui Vangeli" e "su Ezechiele", di carattere pastorale come il "Liber Regulae Pastoralis" e i "Dialoghi" il cui libro secondo É interamente dedicato ai miracoli di san Benedetto, di carattere morale come i "Moralia in Job", commentario allegorico e morale del "Libro di Giobbe", che costituirono il suo più grande successo in tutto il Medioevo. Isidoro di Siviglia É stato contrapposto da Jacques Fontaine a Gregorio Magno.

Laddove Gregorio appariva schiacciato dalle sciagure dell'Italia contemporanea, spesso animato da una fede nell'Apocalisse, che ne fa già un autentico esponente dell'alto Medioevo, Isidoro di Siviglia era sereno e addirittura ottimista. Questo deriva dall'ambiente familiare e nazionale che circonda Isidoro. Isidoro, vescovo di Siviglia, compie opera di storico ("Storia dei Goti"., attività pastorale ("Trattato sui doveri dei chierici" e "Regola monastica". e soprattutto produce compilazioni enciclopediche ("Allegorie", "Questioni", "Differenze", "Sentenze", "Sinonimi", e, in primo luogo, la vasta enciclopedia delle "Origini" o "Etimologie", in cui Isidoro riassume per il Medioevo l'intero sapere dell'antichità.. Entrambi, tuttavia, uno in modo più grossolano, l'altro in modo più raffinato, impostano decisamente la cultura cristiana su una linea di ripiegamento che salvaguarda parte del patrimonio e editato dall'antichità. Beda, infine, prodotto delle scuole monastiche inglesi, più che come esegeta ha esercitato un'influenza attraverso i suoi trattati scientifici, parecchi dei quali consacrati al calcolo, all'astronomia, alla misurazione del tempo e attraverso la sua "Storia ecclesiastica degli Angeli" che ebbe un grande successo anche nel continente. Ma, con Beda, si apre un altro capitolo della storia religiosa e intellettuale del Medioevo: il rinnovamento, ad opera degli Anglo- Sassoni, della pedagogia, della scienza, della cultura, basato sull'antichità classica. Questi autori non devono eclissare le tendenze teologiche del periodo. L'eresia non rappresenta più, come nel periodo precedente o come in Oriente, un pericolo per il mondo cattolico. Sui cadaveri dell'arianesimo e del pelagianesimo, si delineò una dottrina media, assai tipica del tono a occidentale e a cattolico in materia di dogma cristiano. Il secondo concilio di Orange (529. ispirato da Cesario, vescovo di Arles, una delle grandi figure di preti evangelizzatori di questo periodo, stabilì un equilibrio tra il libero arbitrio e la grazia, all'insegna di un agostinismo relativamente riservato (Henri Marrou.. Il papato e la Chiesa avrebbero ripreso le definizioni d'Orange una prima volta all'indomani del concilio, nel sesto secolo, una seconda volta, dieci secoli dopo, nel concilio di Trento. - Episcopalismo e monachesimo. I tre secoli di cui ci stiamo occupando qui hanno conosciuto uno sviluppo delle due contrastanti tendenze del cristianesimo occidentale sorte nella fase precedente: episcopalismo e monachesimo. Il potere e il prestigio dei vescovi si ampliarono. Provenienti quasi tutti da grandi famiglie, dando vita a nuove grandi famiglie ecclesiastiche (quale quella di Gregorio di Tours che popola le sedi episcopali della Gallia centrale: Tours, Clermont, Autunè Langres, Lione., i vescovi non si limitano ad essere i veri capi della Chiesa. La scomparsa dei poteri pubblici ne fa dei capi politici, i cui centri sono le città che si svuotano delle loro funzioni di un tempo, ma conservano il loro valore di basi di appoggio del potere sotto tutti gli aspetti. Capo e protettore della città, il vescovo vi garantisce il rifornimento, la carità, la giustizia. La dignità episcopale, rafforzando o equilibrando il suo prestigio di monaco, ha notevolmente contribuito a fare di Martino di Tours il primo grande santo popolare che non fosse un martire. In questa prospettiva, il papa, in qualità di vescovo di Roma, una Roma disertata dall'imperatore, ne diventa il capo a tutti i livelli. Nel caso di un Gregorio Magno (590-604. - che É stato prefetto della città, incaricato dell'approvvigionamento di questa, che vi combatte peste e inondazioni fin dal momento del suo avvento, organizzando in tutta la città processioni, che vi realizza un equilibrio tra monaci, clero e laici - il titolo di "consul Dei", assegnatogli nel suo epitafio, É veramente meritato.

Nel frattempo, il monachesimo si sviluppa in tre direzioni: un proliferare più o meno anarchico e due movimenti coronati da successo - quello irlandese e, in misura crescente, quello benedettino. Non si dovrebbe confondere il monachesimo con il ritiro nel deserto. Il monachesimo ha avuto aspetti molteplici. Accanto a dei casi estremi di un eremitismo veramente isolato e individuale, si incontrano modelli monastici che vanno dalla peregrinazione itinerante al cenobitismo nei luoghi non frequentati, passando per il monastero urbano o periferico.

Quest'ultimo tipo si É diffuso o per l'introduzione di modelli orientali (esempio di Giovanni Cassiano e di san Vittore di Marsiglia., o per il bisogno di preti locali di vivere comunitariamente (esempio di sant'Agostino., o ancora per l'esigenza, di fronte alla violenza, alle invasioni, di rinchiudersi all'interno di città-rifugi racchiuse in se stesse. E' il caso di Cesario ad Arles (503-542., il quale fondò due comunità, una di uomini, un'altra di donne, dando ad esse una regola vicina a quella di sant'Agostino; regola adottata da santa Radegonda, moglie di Clotario Primo, per il suo convento di Sainte-Croix a Poitiers (verso il 556.. In Gallia e in Spagna si moltiplicarono le regole impartite da vescovi-monaci: Ferr‚olo di UzÉs, accanto a Cesario di Arles, Leandro di Toledo, Isidoro di Siviglia e Fruttuoso di Braga. Nella penisola iberica proseguì la tradizione del monachesimo itinerante, la "peregrinatio pro Christo", inaugurata all'inizio del quinto secolo ad opera di Bachiario ed Egeria. Un'altra usanza originale É quella che legò il padre abate ai monaci attraverso un contratto, il "pactum", come nel caso di Isidoro e Fruttuoso. Se due delle correnti monastiche vanno considerate a parte, É perché‚ una di esse si diffuse in gran parte del continente e l'altra elaborò una regola destinata a costituire il principale testo monastico del Medioevo, soprattutto nell'alto Medioevo. Dalla missione irlandese sul continente emergono un nome ed alcune fondazioni prestigiosi. Partito da Bangor, Colombano, dal 590, passa, di seguito, nell'Armorico, in Borgogna (fondazione principale: Luxeuil., in Germania meridionale (Bregenz. - di dove il suo discepolo, san Gallo, fonderà, in Svizzera, il monastero che ne porta il nome -, infine in Lombardia (Bobbio, dove muore nel 615.. Il suo penitenziale, le sue regole, i suoi sermoni, le sue lettere, i suoi poemi, i manoscritti usciti dagli "scriptoria" dei suoi monasteri sono altrettante appendici della sua attività di fondatore. Egli diffonde e radica un cristianesimo originale, che non differisce in alcun modo da Roma per quel che riguarda la dottrina, ma che, sul piano dell'organizzazione, della liturgia, dello stile di vita, se ne distacca chiaramente. E' la scuola della severità, dell'eroismo cristiano. Ma altri Irlandesi o altri monaci, per impulso degli Irlandesi, contribuiscono a moltiplicare l'impronta dello scotismo sul continente: ad esempio, Filiberto (a JumiÉges e a Noirmoutier., Renano (in Bretagna., Fiacrio (nel Brie., Amando (in Belgio. ed altri altrove. Nei confronti del fiero monachesimo irlandese, il monachesimo benedettino sembra quello moderato e del giusto mezzo. Nato da una buona famiglia della provincia dell'Italia centrale Benedetto da Norcia diventa ben presto eremita, a Offida poi a Subiaco nel Lazio, infine più a sud, a Montecassino. Allo scopo di istruire la sua comunità, egli si ispira a una regola precedente di cui non conosciamo n‚ l'autore, n‚ la data, n‚ il luogo di provenienza: la "Regola del Maestro"; una regola severa che egli ammorbidisce. Certo, il suo ideale consiste nella fuga dal mondo, al modo orientale. Ma, in questo monastero in cui accoglie Romani (spesso di origine aristocratica. e Goti, egli organizza una comunità retta da un padre abate, investito di una effettiva autorità, ma mitigata sul modello del "pater familias" romano. L'ideale É bastare a se stessi, ma questo microcosmo autarchico che É il monastero finisce per realizzare piuttosto un modello urbano anzich‚ un modello eremitico. Ad ogni modo, ad imitazione della città romana, si tratta di una città rurale. Michel Meslin vi ha scorto, con l'introduzione di un'aspirazione alla stabilità, un momento importante per la storia dell'intero Occidente: In quest'epoca di invasioni, di migrazioni forzate di popolazioni in cerca di terre e che fuggono di fronte alla fame, esso contribuisce a stabilizzare una società fluida. D'altro canto, incitando i monaci al lavoro manuale, pur considerandolo come una forma di penitenza e un mezzo per resistere al diavolo, il monachesimo benedettino contribuisce a valorizzare un'attività ritenuta degradante da un'aristocrazia permeata dall'idea dell'"otium" romano, abituata dalla pratica militare barbarica a disprezzare il contadino, portata dalla lettura del "Vangelo" ad aspettarsi dalla provvidenza o dallo sfruttamento degli umili il cibo degli uccelli del cielo e le vesti dei gigli dei campi.

Una regola ed una pratica equilibrate, che ammettevano delle eccezioni, degli elementi di mitigazione. Uguale peso per la vita attiva e per quella contemplativa. Adattamento alla sussistenza, senza escludere tentativi di espansione, anche se si É esagerata la portata dell'attività economica, dell'iniziativa di dissodamento dei benedettini dell'alto Medioevo. Verso il 673, il probabile trasferimento delle reliquie di san Benedetto da Montecassino a Fleury-sur-Loire (il futuro Saint-BenoŒt-sur-Loire., vicino Orl‚ans, crea un secondo focolaio benedettino. A partire dalla seconda metà del settimo secolo, la regola benedettina compenetra il monachesimo occidentale, finisce lentamente ma decisamente per predominare, in primo luogo rispetto alla regola di Colombano. Quest'epoca di involuzione barbarica ha visto formarsi un linguaggio - un linguaggio complessivo, in quanto fondeva insieme parole, riti e cerimonie - portatore e creatore di una sensibilità nuova, in cui Henri Marrou scorge l'ultimo, non il meno importante, capolavoro della civiltà classica. O piuttosto, con il cosiddetto canto gregoriano, l'introduzione solenne e profonda al Medioevo? Nel frattempo, una nuova società dominante si andava formando. Composta di un'aristocrazia di militari, grandi proprietari terrieri, essa completava il proprio predominio su un mondo diventato ormai prevalentemente agricolo disponendo del nuovo potere religioso del cristianesimo. Mentre le città si vuotavano, si impiantava una rete di parrocchie rurali. Ora, l'aristocrazia laica espandeva in misura crescente la sua ipoteca sui centri religiosi nelle campagne: fondazioni di chiese demaniali cui il grande proprietario assegnava dotazioni e delle quali nominava e controllava il curato ("Eigenkirche".; fondazioni monastiche che danno vita e mantengono il culto dei santi nobiliari. La Baviera cristiana si distingue in questo con Benedikteuernè Kochel, Scharnitz-Schlendorf, Tegernsee, Schliersee, Ilmmunster, Schaftlarn. Tuttavia, il fenomeno É generale. L'agiografia merovingia dal settimo secolo all'ottavo diviene aristocratica. Dal 476 al 754, il cristianesimo occidentale si É diffuso, radicato, ma, con il complesso della società occidentale, É soprattutto sopravvissuto. Tuttavia, esso ha cominciato ad elaborare, tra il libero arbitrio e la grazia, la vita attiva e quella contemplativa, l'ascesi e la trascuratezza, una terza via, quella dell'umanesimo cristiano. Ora, il rigurgito iconoclasta che esplode a Bisanzio sotto Leone Terzo minaccia questa costruzione ancora fragile. A un Dio troppo esplicitato, adorato nelle immagini, Leone Terzo intende sostituire un Dio celato, discosto dall'uomo. Il papato, resistendo senza averne sicuramente coscienza, contribuisce a far pendere il piatto della bilancia cristiana a favore dell'Occidente. Nel 732 o 733, l'imperatore bizantino toglie al vescovo di Roma la giurisdizione su tutte le province greche in Italia meridionale, Sicilia, Illiria, Grecia e confisca le terre e le rendite che egli possiede in questi luoghi. Contemporaneamente, un Beda si accorge che il latino non viene più capito n‚ dai laici n‚ da molti dei preti e dei monaci. Si sta preparando un nuovo tipo di rapporti sociali in tutto il vasto campo in cui si va formando una feudalità che fornirà il modello dei rapporti dell'uomo con Dio. L'antichità É finita. Il cristianesimo romano É ormai pronto a riprenderne la funzione ideologica in Occidente. 4. IL CRISTIANESIMO NEL MONDO CAROLINGIO (754-987.. "Che egli sia signore e padre, Che egli sia re e sacerdote, Che egli sia il grande temperatore e pilota di tutti i cristiani." (Rendimento di grazie dei vescovi a Carlo Magno, dopo il concilio di Francoforte, 794.. - Cesaropapismo e ierocrazia. Nel 754, il pontefice Stefano Secondo, un italiano che veniva dopo una lunga schiera di pontefici greci (dal 685 al 752., consacrava re dei Franchi Pipino, in Gallia. Nell'800, papa Leone Terzo consacrava il figlio di Pipino, Carlo Magno, imperatore in San Pietro, a Roma.

L'alleanza del papato con il regno franco sembrava dischiudere un'Éra nuova al futuro destino dell'Occidente. Benché‚ il papato abbia tratto da quest'alleanza una serie di vantaggi (come la costituzione del patrimonio di San Pietro in virtù di una presunta donazione di Costantino, un falso costruito in questa seconda metà dell'ottavo secolo dalla curia pontificia; la distruzione ad opera dei Franchi del regno dei Longobardi, che costituiva una minaccia permanente contro Roma e i possedimenti pontifici; l'iniziativa nell'incoronazione imperiale che poteva far apparire la dignità imperiale come un incarico che si riceve dietro volontà del pontefice., l'Imperatore É il principale beneficiario della mutata situazione. Ma, se Carlo Magno si considera in primo luogo re dei Franchi e, per non suscitare le ire dell'imperatore bizantino, si presenta come governatore dell'Impero romano e non come imperatore dei Romani, ben presto egli tese ad arrogarsi un potere imperiale supremo e ad attribuire al suo dominio una coloritura religiosa, sacerdotale, sacra. L'espressione "a Deo coronatus", incoronato da Dio, pone direttamente l'imperatore in rapporto con Dio e riduce il ruolo del pontefice a quello di un tramite più o meno trascurabile. Sempre di più, l'espressione "Imperium christianum" fa la sua comparsa nei testi liturgici. "La dignità imperiale rafforza ulteriormente il magistero spirituale e morale di Carlo Magno, che vediamo assumere, più che in passato, la protezione e la cura del popolo di Dio. Ci si incammina, così, verso la realizzazione dell'agostinismo politico: lo Stato concepito come il regno della saggezza e preliminare alla Città di Dio, compenetrato dalla sfera spirituale, la confusione tra la Chiesa e l'Impero nell'ambito di un unico mondo cristiano occidentale. L'idea imperiale di Carlo Magno É, dunque, in primo luogo, la visione religiosa dell'ordine universale" (R. Folz.. Carlo Magno É il novello Davide. Egli É re e sacerdote, "rex et sacerdos", come proclama il concilio da lui riunito a Francoforte nel 794 per annullare le decisioni prese, in accordo con Costantinopoli e con Roma, dal settimo concilio ecumenico di Nicea a proposito delle immagini. Teodulfo di Orl‚ans proclamava che san Pietro, in possesso delle chiavi del cielo, aveva affidato a Carlo Magno analoghe chiavi per governare la Chiesa, il clero e il popolo. Alcuino chiedeva all'imperatore, da lui chiamato Davide, di predicare la legge di Dio come un vescovo, un maestro, un dottore. Egli lo chiamava cattolico per la fede, re per il potere, pontefice per la predicazione, e ne faceva il capo del popolo cristiano, scelto da Dio per governare la sua Chiesa. Carlo Magno, ancor più dei sovrani merovingi, promulga leggi in materia ecclesiastica - ad esempio, per far rispettare il riposo domenicale -, convoca e presiede concili e sinodi. Tuttavia, questo monismo imperiale osservava una certa distinzione tra i due poteri, spirituale e temporale. Anche in quest'epoca in cui l'Occidente si avvicinò di più al cesaropapismo, le due sfere rimasero distinte. Al sinodo di Francoforte, Carlo Magno evitò di prendere parte alle discussioni in materia di dottrina e non cercò di imporre il proprio punto di vista al riguardo, come aveva invece fatto Costantino a Nicea. Lo stesso Carlo Magno e i suoi consiglieri ritenevano che fosse loro dovere difendere la religione, non sostituirsi ai vescovi e al papa. Paolino di Aquileia riconosceva che all'imperatore spettava la sottomissione dei popoli pagani (ed É quel che fece Carlo Magno, specie con i Sassoni., la difesa della Chiesa, la protezione del clero. Carlo Magno doveva, secondo lui, combattere i nemici visibili con armi materiali, mentre i vescovi dovevano combattere i nemici invisibili con armi spirituali. In realtà, se confusione c'era, questa riguardava meno un'ingerenza del potere imperiale nelle questioni religiose che non la mancanza di confini precisi tra i due poteri. A seconda della congiuntura politica, mutò anche la natura degli abusi di potere. Sotto Carlo Magno, il potere imperiale forte si occupò di questioni religiose e si intromise negli affari della Chiesa. Sotto i suoi successori, più deboli, furono invece ¡ vescovi ad intromettersi nelle faccende dello Stato, non per limitarsi a dare consigli al principe, ma per imporgli certe soluzioni politiche.

Espliciti riferimenti a Teodosio che si umilia dinnanzi a sant'Ambrogio (in Giona d'Orl‚ans, ad esempio. ispirarono le pubbliche penitenze inflitte dai vescovi a Ludovico il Pio (Attigny, 822; Saint- M‚dard di Soissons, 833.. I vescovi franchi formulano e praticano una teoria conciliare che tenta di instaurare una vera e propria ierocrazia. Il concilio di Parigi (829. si tiene senza l'imperatore, rivendica la "libertas" dei vescovi (cioè, non solo la libertà di elezione dei vescovi, ma la loro indipendenza., proclama che il re non ha poteri sul clero, mentre questo può giudicare il re. Il concilio di Meaux- Parigi (845-846. fece del re il figlio della Chiesa; quello di SavoniÉres (859. sostenne che i vescovi governano e correggono i re, i nobili e il popolo affidati loro da Dio. Nell'857, i vescovi riconfermano a Carlo il Calvo il possesso della corona, minacciato da Ludovico il Germanico. Per la verità, contro le minacce del cesaropapismo, i vescovi sostengono soprattutto una teoria dualistica, quella della necessaria separazione tra l'"Ecclesia" e la "Respublica", tra la Chiesa e lo Stato. Un giurista, Benedetto Levita, un prelato, Incmaro, arcivescovo di Reims dall'845 all'882, una compilazione canonica intitolata o "Falsi Decretali" o "Pseudo-Isidoro", perché‚ messa insieme verso l'850 da falsari che si coprivano dietro l'autorità di Isidoro Mercator, insistono su questa distinzione. - Progresso e declino del papato. Se il conciliarismo episcopale era rivolto soprattutto contro il cesaropapismo imperiale, esso limitava anche i poteri del papa. Il concilio di Parigi (829. dichiarò che tutti i vescovi erano i vicari di Pietro. Ad ogni modo, anche il papato trasse profitto dalle difficoltà e dalle debolezze dei successori di Carlo Magno. Il papa consacrò per due volte e incoronò per tre volte Ludovico Secondo, figlio di Lotario (844/850/872.. Il pontefice Giovanni Ottavo (872-882. offrì a Carlo il Calvo la corona imperiale come "beneficium Dei" conferito dal privilegio della sede apostolica. E' Nicola Primo (858-867 . ad affermare con più forza, al momento del contrasto con Lotario Secondo, che il Cristo ha concesso ed affidato a Pietro il diritto del regno celeste e del regno terreno. Nell'879, Giovanni Ottavo rivendicò per la prima volta il diritto del papa a confermare l'elezione imperiale, perché‚ colui che É a capo dell'Impero deve essere chiamato ed eletto da noi. Nella pratica, tuttavia, il papato andava perdendo terreno: in primo luogo, dal punto di vista del prestigio. Nel 799, Leone Terzo fu accusato di adulterio e di fellonia e l'esigenza di cancellare quest'accusa dovette contribuire alla sua decisione di incoronare Carlo Magno. Nell'882, Giovanni Ottavo fu il primo papa che venne assassinato. Anche dal punto di vista del potere, il papato era in declino. Quando Nicola Primo volle convocare un concilio generale dei vescovi d'Occidente, i re vietarono ai rispettivi vescovi di rispondere alla convocazione e il concilio non si tenne. I papi, d'altra parte, erano incapaci di far riconoscere la loro autorità temporale nei loro Stati. I duchi longobardi di Spoleto ne sfidavano con successo il potere. - Una civiltà biblica. Si É definito l'ideale carolingio come quello di una civiltà biblica e il cristianesimo di questa civiltà come una religione consacrata (Y. Congar.. E' probabile che questo ideale si sia ispirato a un concreto modello, il modello ebraico. Gli Ebrei erano numerosi nel mondo carolingio ed erano potenti nei centri urbani. Nonostante il vescovo Agobardo di Lione li avesse attaccati e il concilio di Meaux-Parigi (845-846. avesse reclamato delle misure contro di essi, non vennero disturbati e mantennero con i cristiani degli scambi che non si limitarono alla sfera economica. Abbiamo già visto la prima caratteristica di questa società che si ispira al "Vecchio Testamento": la stretta alleanza tra la religione e la vita pubblica, tra la Chiesa e l'Impero, tra Dio e il Principe.

La seconda consiste nelle immagini della società irrigidita in ordini ("ordines". con carattere sacro, in quanto istituiti da Dio e destinati a rendergli un certo tipo di servigio, a fornire una testimonianza religiosa in seno alla società. Questa concezione ministeriale dell'individuo e del gruppo sta alla base di quel che Etienne Delaruelle chiama il moralismo carolingio, basandosi su uno dei suoi principali teorici, il vescovo Giona d'Orl‚ans. Queste immagini della società sono, in genere, di tipo binario o ternario. Le immagini di tipo binario concretizzano delle situazioni gerarchiche e conflittuali della società: chierici e laici, cioè laici contro chierici, potenti e poveri ("potentes et pauperes"., cioè poveri contro potenti. Gli schemi ternari rappresentano soprattutto una concezione gerarchicamente cristallizzata della società, una scala di valori incarnata in categorie sociogiuridiche. Ad esempio, la società dei monaci, chierici e laici e quella di vergini, continenti e sposati, in ordine di perfezione decrescente. Quest'ultimo schema, che ha parecchio successo presso gli intellettuali e i pastori dell'epoca carolingia, fonda la società su basi completamente estranee alla socializzazione e secondo un criterio che consacra i tabù sessuali. Infine, questa civiltà carolingia É liturgica e sacramentale. L'essenziale nella vita religiosa, al di fuori della quale non esiste nulla, É partecipare a certi riti e praticare i sacramenti, che si definiscono, si ritualizzano e, ormai, sono destinati ad inquadrare tutta la vita sociale. Sarà il battesimo, d'ora in poi, ad introdurre nella società, la quale nel corso del nono secolo prenderà il nome di cristianità ("christianitas", fin lì, indicava l'insieme di ciò che É in Cristo, la qualità di cristiano.. Del pari, la Chiesa, l'"ecclesia", indica l'insieme dei battezzati, il che spiega come mai l'imperatore sia chiamato "rector ecclesiae", reggitore della Chiesa. Il matrimonio comporta ormai un momento essenziale: la consegna dell'anello nuziale. Anche il fatto di prendere la veste assume un'importanza nuova nella professione monastica. Dei laici potenti vorranno, alla fine della loro vita, morire coperti dalla tonaca, pegno di un più agevole ingresso nel regno dei cieli. L'imperatore Lotario fu uno dei primi a diventare "monachus ad succurrendum". L'eucarestia guadagna naturalmente il primo posto nella devozione carolingia, nonostante quest'epoca poco incline alla teologia veda scatenarsi proprio su questo terreno eucaristico uno dei pochi dibattiti dottrinali di questo periodo. Questa discussione vede alle prese Pascasio Radberto, Ratramno di Corbie e Floro di Lione. Divisi su questo o quel punto del dogma, tutti concordano nel glorificare il banchetto in cui, ogni giorno, il re di tutta la creazione si unisce alla sua sposa. La messa diventa, insieme, l'atto comunitario fondamentale di tutti gli abitanti dell'Impero e una cerimonia sempre più appesantita da una liturgia in cui la frattura tra chierici e laici diventa sempre più marcata. L'insistenza di Carlo Magno sul rispetto del riposo domenicale ha indotto a definire il regno come Carlo Magno lo concepisce, quasi un raggruppamento di parrocchie in cui, ogni domenica, il popolo cristiano riacquista coscienza della sua profonda unità in seno a un'unica Chiesa e a un unico Impero, attorno allo stesso altare. Molti degli arricchimenti liturgici sono dovuti all'aggiunta, compiuta sotto Carlo Magno, di elementi franchi e romani. Compaiono il "Confiteor", le incensazioni, le prose e i tropi. I fedeli, ai quali l'officiante volge ormai le spalle, non recano più le offerte ("oblata". all'Offertorio e non si associano più al Canone della Messa recitato dal prete a bassa voce. Il pane naturale É sostituito dal pane azimo, come se la messa divenisse estranea alla vita quotidiana. Biblico sacramentale, il cristianesimo carolingio É anche, ormai, e forse soprattutto, feudale. I sacerdoti, a partire dal nono secolo, possono celebrare la messa con intenzioni particolari, per i vivi, i defunti, coloro che lasciano un'elemosina e per qualsiasi altra occasione. Nella chiesa non c'É più un solo altare, ma gli altari si moltiplicano nelle navate laterali per consentire la celebrazione di messe più frequenti e remunerate. Il messale fa la sua comparsa, mettendo a disposizione di un solo sacerdote il complesso delle preghiere fin lì ripartite fra più d'uno. Questo infeudamento della preghiera si ritrova nei gesti.

L'ampia elevazione delle braccia dell'orante É sostituita dalla preghiera a mani giunte, copia del gesto del vassallo che mette le proprie mani tra quelle del signore. L'investitura dei vescovi avviene ormai con la consegna del pastorale e dell'anello. Il fedele indica sia il cristiano, sia il suddito dell'Imperatore, sia il vassallo del signore. La nuova alleanza che la Chiesa e l'Impero carolingio intendono promuovere, simboleggiata dall'arca dell'alleanza del "Vecchio Testamento" che il vescovo Teodulfo d'Orl‚ans fa rappresentare agli inizi del nono secolo nella sua chiesa demaniale di Germigny-des-Pr‚s e che Rabano Mauro fa collocare in forma di reliquiario, nell'835, a Fulda sulla tomba di san Bonifacio, É quella della confusione tra spirituale e temporale. - Successive vicende del cristianesimo. Questa cristianità rituale non É, però, una cristianità chiusa. Qui il modello biblico trova un limite nell'applicazione - a meno che non si faccia appello all'idea di un proselitismo giudaico. L'espansione della cristianità continua anche sotto Carlo Magno con un preciso ricorso alla violenza. Mai il "compelle intrare" si era manifestato con tanta forza come nelle guerre contro i Sassoni (772-782.: massacri e distruzioni, battesimi obbligatori, traumi psicologici a colpi di miracoli, legislazione che puniva con la pena di morte gli atti di ostilità contro le chiese, i chierici, il cristianesimo. La raccolta delle decime mantenne fino alla metà del nono secolo un clima di avversione e di ribellione tra i Sassoni. L'ultima grande rivolta fu repressa da Ludovico il Germanico nell'842. Alla fine del nono secolo la Sassonia, vale a dire la Germania tra l'Elba e il Reno, a nord dell'Assia e della Turingia (che sconfinava anche a nord-est al di là dell'Elba in Nordalbingia. era diventata terra cristiana. Non v'É nulla di più chiaro, circa le forze in atto nel mondo cristiano del nono secolo, dell'evangelizzazione della Boemia-Moravia. A partire dai vescovati di Salisburgo e di Passau, i missionari franchi penetravano nella regione. Preoccupato dall'ondata sostenuta da Ludovico il Germanico, re di Baviera, il principe moravo Ratislao chiese nell'862 all'imperatore di Bisanzio Michele Terzo di mandargli una missione evangelizzatrice. Due fratelli, Costantino (che, facendosi monaco prima della morte, prese il nome di Cirillo . e Metodio, originari di Tessalonica e che parlavano il dialetto slavo della Macedonia, vennero inviati dal "basileus". Essi ottennero un grande successo, consolidato da Metodio che morì nell'885, molto dopo Cirillo, morto a Roma nell'869. Benché‚ portatori di tradizioni assai poco cattoliche (liturgia in volgare., Cirillo e Metodio furono appoggiati dal papato e la loro opera continuò sotto il regno di Svatopluk (871-894., il quale costituì un impero della Grande Moravia, che comprendeva la Moravia, la Slovacchia, la Boemia, parte del territorio dei Serbi polabi, la Slesia, la regione di Cracovia e quella del lago Balaton in Pannonia. Dopo la morte di Metodio, però, i compagni dei due fratelli furono costretti ad abbandonare la zona e il cristianesimo originale che vi avevano impiantato cedette a poco a poco sotto i colpi del papato romano, divenuto ostile, e, soprattutto, del clero cattolico germanico. In compenso, rifugiatisi in Bulgaria, essi contribuirono a ricondurre all'ortodossia questo paese che il cristianesimo romano aveva conquistato all'inizio del nono secolo. Si concretizzava, dunque, l'esistenza, al centro dell'Europa, di una frontiera non politica ma molto concreta, che n‚ il cristianesimo romano, da una parte, n‚ il cristianesimo ortodosso, dall'altra, riuscivano a sormontare. Ciò nonostante, l'opera di Cirillo e di Metodio era destinata a durare. Essa lasciò in eredità agli Slavi una cultura espressa in lingua dialettale, in slavonico, aprendo tra l'altro la strada alla civiltà bizantina e alla concezione per cui ogni nazione É consacrata al servizio di Dio attraverso l'uso della sua lingua dialettale. Come ha scritto Dom David Knowles, l'opera missionaria dei santi Cirillo e Metodio venne intrapresa in un ambiente cristiano che, nonostante la tensione crescente tra l'Oriente e l'Occidente, aveva ancora la sensazione di costituire un corpo unico. Essa apparve come un fattore di riconciliazione tra i tre principali elementi, bizantino, romano e slavo, che costituivano la civiltà dell'Europa medievale.

Accanto agli Slavi, i Sassoni, convertitisi al cristianesimo, adottarono dapprima una politica da trincea, ma Ottone Primo riprese, a partire dal 955, la politica di evangelizzazione di Carlo Magno: la conversione forzata. Questa politica fu sancita dalla creazione, nel 968, dell'arcivescovato di Magdeburgo. Nel frattempo, i Polacchi, insieme al loro duca Mieszko, si erano convertiti nel 966. La cristianità polacca, che ricacciò lentamente indietro i costumi pagani, ebbe inizialmente buoni rapporti con l'Impero e costituiva, alla fine del decimo secolo, la nuova frontiera del cristianesimo verso est. I Polacchi erano stati preceduti dai Cechi di Boemia, il cui primo duca cristiano fece appello verso 1'895 a dei missionari germanici. Nel 973 venne creato l'arcivescovato di Praga, ma anche qui, il paganesimo si conservò ostinatamente. Dal 925, i Croati erano entrati nell'ambito della cristianità latina in seguito alla concessione della corona regia a Tomislao Primo da parte del papa Giovanni Decimo. Verso nord, verso la Scandinavia, si spinsero delle missioni che partivano dai vescovati di Brema e, soprattutto, di Amburgo. Anscario, vescovo di Amburgo, si recò nell'830 fino a Birka, vicino all'attuale Stoccolma. Nell'826, un principe danese, Harald, cacciato dal suo regno, aveva ricevuto in gran pompa il battesimo a Magonza, alla presenza di Ludovico il Pio. Ma un risveglio scandinavo che portò al rinnovarsi del paganesimo, a delle forme politiche federative e alle spedizioni dei Normanni nel mondo cristiano bloccò l'evangelizzazione della Scandinavia. Prima che questa venisse ripresa e condotta a termine, i Normanni stabilitisi in Normandia si erano fatti battezzare nel 912. Contemporaneamente, al di fuori dell'Impero, due ambienti cristiani conoscevano sviluppi ben diversi della loro esistenza. A nord, in Gran Bretagna, le invasioni scandinave, nonostante i Danesi immigrati si fossero convertiti rapidamente, favorirono un profondo regresso del cristianesimo malgrado gli sforzi del re Alfredo (878- 900., animatore di una brillante ma effimera rinascita di tipo carolingio. La ripresa si delineò a partire dal 940, anno in cui risorse il monastero di Glastonbury. Dei vescovi-monaci - Dunstano a Londra, poi a Canterbury, Etelvoldo a Winchester, Osvaldo a York e Worcester -, influenzati dalle riforme monastiche del continente (Gorze, Cluny, Brogne. ricostruirono il tessuto cristiano in Gran Bretagna. A sud, in Spagna, dove Carlo Magno aveva fallito nel suo tentativo di impiantare più di una marca esposta alle pericolose incursioni dei musulmani, sopravvivevano delle comunità cristiane nell'emirato di Cordova, favorite dalla relativa tolleranza degli Arabi. Ma, attratti dalla superiorità culturale dell'islam, molti cristiani tendevano ad esserne influenzati, senza abbandonare la propria religione e davano vita a un tipo di cristianesimo originale, largamente aperto alle influenze musulmane: il cristianesimo mozarabico. - Aspetti religiosi della rinascita carolingia. In uno Stato così compenetrato dalla religione come l'Impero carolingio, era naturale che il movimento culturale che É stato chiamato Rinascita carolingia presentasse innanzitutto degli aspetti religiosi. Questa rinascita consistette in primo luogo in una riforma scolastica. Certamente, si trattò di una riforma limitata, che puntava soprattutto alla formazione del clero, in particolare dell'alto clero e della cerchia imperiale. Venuti dall'Italia o dall'Inghilterra, dei pedagoghi come Paolo Diacono e soprattutto Alcuino furono alla testa di uno sviluppo dell'insegnamento delle arti liberali, della riforma della scrittura con l'adozione della minuscola carolina, elegante e leggibile, del ritorno al latino classico. Delle scuole episcopali e soprattutto dei laboratori per la copiatura e la miniatura dei manoscritti all'interno dei monasteri, gli "scriptoria" (che proseguivano l'opera di quelli dell'alto Medioevo., salvarono un gran numero di opere dell'antichità e diedero vita a una nuova arte pittorica. Bibbia, evangeliari, sacramentari, salteri costituiscono la parte fondamentale di questa lussuosa produzione, i migliori esemplari della quale sono destinati alla famiglia imperiale (dall'evangeliario di Carlo Magno ad opera di Godescalco, alla Bibbia di Carlo il Calvo miniata a Saint-Amand e donata a Saint-Denis..

Le influenze orientali, mediterranee e insulari, sono travolte da uno spirito creativo che dà vita a un nuovo repertorio di forme, di colori, di espressione attraverso l'immagine. Per Pierre Francastel É in questo momento che i monaci degli "scriptoria" carolingi scoprono che tutto può conservarsi e manifestarsi in testi e in immagini, che la civiltà occidentale ha trovato la strada del suo avvenire sorprendente, ha capito la forza del fissare il fatto e della esposizione sensibile della verità o di quel che passa come verità. Non vanno esagerate le ripercussioni di questo pensiero aristocratico. Elaborato da una cerchia ristretta per una cerchia ristretta, esso É ancora un pensiero embrionale. Il libro É per ora solamente un tesoro. Analogamente, il grande modello dell'epoca in campo architettonico, la chiesa ottagonale del palazzo di Aix-la-Chapelle, "martyrium" e cappella palatina insieme, É un monumento che appartiene a un "potens". Nell'architettura carolingia vanno certamente riconosciuti anche, con Henri Focillonè lo spirito di ricerca (la tipologia É ricca., l'abilità tecnica che caratterizza un'architettura da muratori, la comparsa di elementi, come il deambulatorio, che consentiranno di erigere costruzioni per le folle dei pellegrini. Del pari, le riforme ecclesiastiche carolinge, pur preparando sviluppi futuri, sono spesso, inizialmente, un'operazione che separa l'‚lite dalla massa. La restaurazione di una corretta lingua latina accentua il fossato tra la minoranza dei "litterati" che la conoscono e la usano e la maggioranza degli "illitterati", sospinti nell'inferno delle lingue volgari. Il bilinguismo della cristianità medievale comincia qui, ed É segno e strumento del predominio dei potenti, dei chierici soprattutto, ma anche, per loro tramite, dei grandi laici ancora illetterati. Una riforma dei capitoli, avviata dalla metà dell'ottavo secolo da Crodegango di Metz (715-766. e completata dal concilio di Aix-la- Chapelle dell'816-817, crea "l'institutio canonicorum", impone ai canonici la vita in comune e ne riforma i costumi. Questo stesso concilio di Aix-la-Chapelle riforma il monachesimo occidentale e, sotto l'influenza di Benedetto di Aniano, impone il modello benedettino. Ma, orientando la vita benedettina verso un'accentuazione ipertrofica dell'"opus Dei", della preghiera e del servizio liturgico, chiudendo (forse solo teoricamente. le scuole al di fuori dei monasteri, Benedetto isolava il monachesimo benedettino più di quanto non avesse previsto la Regola. Quando si guarda la pianta del nono secolo conservataci dal monastero di San Gallo, si É colpiti dall'aspetto di compiutezza e di chiusura in s‚ dell'enorme complesso. Il monastero tende a diventare la monade di Leibniz, senza finestre sull'esterno. Tuttavia, questo superbo isolamento del cristianesimo carolingio non va esagerato. Sotto vari riguardi - enciclopedie come quella di Rabano Mauro, abate di Fulda; trattati tecnici; trasformazioni del tema poetico e artistico dei lavori dei vari mesi che si liberano della loro bizzarra veste simbolica per rappresentare le scene realistiche dell'uomo, del contadino al lavoro; comparsa del tema delle "artes mechanicae", le arti tecniche (costruzione, tessitura, agricoltura, ecc.., che si collocano accanto alle arti liberali (per la prima volta nel nono secolo in Scoto Eriugena . - la religione carolingia trova un fondamento intellettuale, religioso, per gli sforzi faticosi degli uomini, che le chiese e soprattutto i monasteri regolavano attraverso nuovi tipi di contratti: precariato, mezzadria, che favorivano migliorie nelle culture, la piantagione di vigneti o di alberi, il dissodamento, i lavori ripetitivi. Questa chiesa carolingia, che appare così attaccata al rito, É quella stessa chiesa che condanna i penitenziali irlandesi, non solo in quanto rappresentano una tradizione romana, ma in quanto attribuiscono una validità oggettiva alla penitenza. Rabano Mauro, nel suo trattato "De modo poenitentiae", cerca di interiorizzare le pratiche penitenziali, di instaurare una teologia e una devozione del pentimento. Si É scritto spesso che, nel semideserto teologico dell'epoca carolingia, si ergeva un gigante che sembrava appartenere all'avvenire: Giovanni Scoto Eriugena questo scopritore occidentale del vasto mondo della teologia greca, travolto da un patrimonio così incredibilmente ricco da non avere il tempo per scegliere, abbagliato da troppe idee nuove per esser capace di essere critico (Etienne Gilson.. Probabilmente, però, É stato in seguito che si É scelto di impoverire il pensiero carolingio, scorgendovi solamente quel che approda a una tradizione d'impronta occidentale - laddove la sua creatività probabilmente si alimentava costantemente ad altre fonti.

Infine, Carol Heitz, studiando un fenomeno architettonico dell'epoca carolingia, lo sviluppo delle chiese con portico, con un imponente avancorpo occidentale ("Westwerk". da cui emergerà la facciata romano- gotica, ha messo quest'architettura in rapporto con lo sviluppo di una nuova liturgia. Liturgia della Gerusalemme celeste e della Resurrezione. Anche in questo caso erede della Spagna e dell'Inghilterra, il cristianesimo carolingio ha rappresentato una religione escatologica, apocalittica. In questo santuario dell'Apocalisse nasceva un culto fondamentale, il culto del Salvatore, destinato a mobilitare le masse. - Il cristianesimo del decimo secolo: regresso e riforma. Con i suoi aspetti grandiosi e la sua fragilità, il cristianesimo carolingio É stato prevalentemente il cristianesimo del nono secolo. Il cristianesimo del decimo secolo appare di nuovo in regresso. Laddove permane una normale vita religiosa, l'elemento che caratterizza questo periodo va ricercato, apparentemente, nel peso dell'ingerenza dei laici sulla Chiesa. Lo sviluppo del patronato e del conferimento di benefici ad opera di patroni laici, l'intromissione nelle elezioni dei vescovi, le dinastie episcopali dei membri sposati delle grandi famiglie laiche, le violenze dei potenti contro i chierici e le chiese, la prassi della commenda di abbazie a beneficio dei laici costituiscono altrettanti aspetti di questa subordinazione della Chiesa al mondo laico. Il papato É coinvolto in tale decadenza. La maggior parte dei pontefici appartengono a grandi famiglie romane, molte delle quali non godono di buona fama. Secondo Liutprando di Cremona, Giovanni Dodicesimo (955-964., papa a 18 anni, si consuma nella depravazione e muore facendo l'amore. Nel 962, Giovanni Dodicesimo aveva consacrato imperatore Ottone Primo. Il papato non ebbe quasi nulla da guadagnarvi. Gli imperatori della dinastia degli Ottoni tentarono di imporre papi tedeschi, o comunque dei pontefici a loro fedeli, e di accaparrarsi il possesso della Santa Sede. Ciononostante, si andava sviluppando all'interno del monachesimo un movimento riformatore. Si distinsero soprattutto tre centri: Brogne, nel Brabante (914., la cui iniziativa si estese alla diocesi di Liegi; Gorze, vicino Metz, in Lorena (933. e, in particolare, Cluny, fondato nel 909 in Borgogna dal duca d'Aquitania e conte di Mƒconè Guglielmo il Pio. Cluny si porrà, a partire dal 951, alla testa di un ordine che, ispirandosi alla regola benedettina, imporrà una riforma che conquista parecchi monasteri in Francia, nell'Impero e in Italia (mille e duecento centri fondati alla fine del decimo secolo. Alcuni abati di spiccata personalità, quali Oddone (927-942. e, soprattutto, Maiolo (963-994., contribuiscono a far diventare Cluny una potenza nell'ambito del cristianesimo. Quel che colloca Cluny a parte, nel mondo religioso del decimo secolo, É il fatto che l'abbazia É esente, cioè indipendente, da qualsiasi autorità civile o religiosa. Cluny É proprietà degli apostoli Pietro e Paolo e ha un unico difensore, il papa. Se, grazie a ciò, Cluny si sottrae al dominio dei laici, costituisce, per altro verso, la più alta espressione del monachesimo feudale. Alla testa di immensi domini terrieri, di schiere infinite di servi, l'abbazia di Cluny preannuncia una civiltà della liturgia, che volge le spalle alle nuove forze economiche. sociali, intellettuali. Cluny non ha operato la riforma della Chiesa, ancor meno quella della società cristiana. 5. IL CRISTIANESIMO NEGLI SVILUPPI ROMANICI (987-1159.. "Si sarebbe detto che il mondo stesso si scuotesse per togliersi di dosso la sua vetustà." (Raoul Glaber, "Histoires", III, 4. - I cristiani dell'anno Mille: paura, penitenza, slancio. Nel 987, l'ultimo dei Carolingi, Luigi Quinto, re della Gallia occidentale, vale a dire del territorio che diventa la Francia, muore. Gli succede un potente signore, il cui antenato ha regnato su questa Francia, Ugo Capeto. Questa vicenda sembra scarsamente rilevante per la storia del cristianesimo. La si É presa in considerazione solamente in quanto segna la scomparsa di una famiglia che ha espresso, per un momento, la formula del mondo cristiano occidentale, quella di un'"ecclesia" con alla testa un imperatore laico, ma consacrato, cui erano concesse larghe incursioni nella sfera religiosa, grazie alla sua qualità di difensore della Chiesa.

Ormai, nonostante la loro pretesa all'universalismo cattolico, gli imperatori si ridurranno ad essere imperatori del Sacro Impero Romano-Germanico, anche se tale espressione É sancita solo nel quindicesimo secolo. Certamente, il mondo cristiano dell'anno Mille si presenta con due teste; Ottone Terzo e la sua creatura, il papa francese Gerbert d'Aurillac, che aveva assunto il nome di Silvestro Secondo in relazione al primo Silvestro che era stato papa al momento di Costantino, vagheggiavano una "renovatio imperii". Per meglio dire, l'Impero appariva sempre, agli occhi di parecchi intellettuali, l'unico quadro in cui potesse svilupparsi la storia del mondo cristiano. Nel 954, Adsonè abate di Montier-en-Der, aveva scritto nel suo "Trattato sull'Anticristo" che la fine del mondo sarebbe arrivata solo dopo che i regni sottoposti all'Impero si fossero distaccati da questo. Alcuni cronisti raccontano come, nell'anno Mille, Ottone Terzo fosse stato avvertito in sogno di dover riesumare il cadavere dell'imperatore Carlo Magno, simbolo del rinnovamento imperiale. Due miniature di Reichenau mostrano Ottone Terzo nell'atto di ricevere l'omaggio di quattro regni in rappresentanza di tutta la cristianità: Italia, Germania, Gallia e Sclavinia (il paese degli Slavi.. L'imperatore e il papa favoriscono l'espansione della sfera cristiana attraverso un certo numero di eventi significativi. Nell'anno Mille, Silvestro secondo crea in Polonia l'arcidiocesi di Gniezno e, in Ungheria, quella di Esztergom (Grau., mentre invia la corona reale al principe Vajk, convertitosi di recente e battezzato con il nome di Stefano. La cattedrale di Esztergom prende, d'altra parte, il nome da Adalberto, vescovo di Praga martire in Prussia nel 997 e sepolto nella cattedrale di Gniezno, che assume anch'essa il nome del santo martire. In questo stesso anno Mille, mentre la Danimarca e la Norvegia erano appena entrate nell'ambito del cristianesimo, una missione inviata dal re norvegese Olaf Tryggvason otteneva dall'Althing islandese il riconoscimento del cristianesimo come religione ufficiale in Islanda. Anche la Svezia si sarebbe inserita nel mondo cristiano nel corso dell'undicesimo secolo. Ormai, dal punto di vista territoriale, la sfera cristiana era praticamente completata. Se si eccettua la "Reconquista" spagnola (perseguita fino alla fine del quindicesimo secolo., restano ormai fuori dalla "Christiana Respublica" latina solo la Prussia (che vi entrerà nel tredicesimo secolo. e la Lituania (nel quindicesimo secolo.. Dietro questa facciata, però, il cristianesimo dell'anno Mille, se lo si guardi a fondo, offre un volto notevolmente contrastato. Una faccia solcata dalla paura, mentre l'altra si volge all'avvenire. La paura dei cristiani dell'anno Mille non É specificamente connessa con questa data o con il ricorrere del millennio della Passione del Cristo nel 1033. Le sue radici affondano nella vita quotidiana dell'epoca, assillata dalle epidemie (il fuoco di sant'Antonio nel 997: un flagello tremendo, un fuoco nascosto che, quando si attaccava a una parte del corpo, la consumava e la staccava dal resto, un'incalcolabile numero di uomini e di donne ebbero il corpo consumato da un fuoco invisibile e dappertutto il pianto riempiva la terra., dalle carestie: la carestia cominciò a infierire su tutta la terra e si pot‚ temere che il genere umano scomparisse completamente. Compaiono dei prodigi, dei segni si accendono in cielo, abbondano i presagi: la luna subisce frequenti sconvolgimenti, divenendo ora color sangue, ora di un azzurro cupo e ora scomparendo; si videro due stelle che cozzarono tra di loro per tutto l'autunno. Il diavolo É dappertutto ed ha anche l'ardire di mostrarsi. Il monaco borgognone Raoul Glaber, all'inizio dell'undicesimo secolo, lo ha visto tre volte, di notte. Era "una specie di nano orribile a vedersi... Aveva una statura modesta, con un collo gracile, un viso emaciato, degli occhi nerissimi, la fronte rugosa e crespata, le narici appuntite, la bocca prominente, le labbra gonfie, il mento sfuggente e molto dritto, una barba da capro, le orecchie villose ed affilate, i capelli ritti, i denti canini, il cranio appuntito, il ventre rigonfio, la schiena ingobbita, le natiche cadenti". I cristiani, tuttavia, conoscono la ragione di queste spaventose calamità: i loro peccati.

Conoscono anche i rimedi: il digiuno, il ricorso ai santi e alle loro reliquie. La comunità cristiana dell'anno Mille É una comunità di penitenti. Ecco come si spegne il fuoco di sant'Antonio: Si trovò nella memoria di numerosi santi il rimedio a questa pestilenza tremenda; le folle si accalcarono soprattutto nelle chiese dei tre santi confessori, Martino di Tours, Ulrico di Bayeux, infine il nostro venerando padre Maiolo (di Cluny. e trovarono per loro benefico intervento la guarigione auspicata. A Limoges, il vescovo e l'abate di Saint-Martial si misero d'accordo con il duca Guglielmo e ordinarono agli abitanti di Limoges un digiuno di tre giorni... I corpi e le reliquie dei santi vennero solennemente portati da tutte le parti; il corpo di san Marziale, patrono della Gallia, fu tirato fuori dalla tomba; tutti furono presi da una gioia immensa e dovunque il male cessò completamente di infierire.... Eppure, l'indomani dell'anno Mille costituisce una nuova primavera del mondo (Georges Duby.. Dapprima, É il bianco abito di chiese che ricopre quasi tutta la terra, ma soprattutto l'Italia e la Gallia. Quasi tutte le chiese delle sedi episcopali, i santuari ecclesiastici dedicati ai vari santi, nonch‚ i piccoli oratori dei villaggi vennero ricostruiti in veste più bella da parte dei fedeli. In questo c'É solo uno slancio di ordine estetico. C'É inizialmente la reazione a una ripresa demografica. I progressi dell'agricoltura hanno moltiplicato il numero dei cristiani, i quali hanno bisogno di chiese più numerose e più grandi. La bellezza di queste chiese testimonia il risveglio del gusto. Questo risveglio corrisponde a una ripresa della sensibilità. Raoul Glaber ne fornisce un'ulteriore testimonianza: "Nell'anno Mille dopo la Passione del Signore, dopo la suddetta disastrosa carestia, le piogge di nugoli si placarono, obbedendo alla bontà e alla misericordia divine. Il cielo cominciò a sorridere, a schiarirsi... Tutta la superficie terrestre si coprì di un gradevole verde e di frutti abbondanti... Numerosissimi malati recuperarono la salute in quelle riunioni in cui si erano portati tanti santi... L'entusiasmo era così ardente che coloro che assistevano tendevano le mani verso Dio gridando a una sola voce: Pace! Pace! Pace!" Ma, come in epoca carolingia, la nuova gioia si ripercuote e si esprime nei termini del "Vecchio Testamento". La comunità cristiana si rappresenta costantemente attraverso gli schemi biblici: Scorgevano il segno del patto finale della promessa stretta tra loro e Dio... Era come al vecchio tempo del grande giubileo di MosÉ. Eppure, un fenomeno nuovo e promettente si diffonde nel mondo cristiano: le istituzioni di pace. Di fronte alla debolezza del potere regio, la Chiesa decise di assumersi la protezione dei deboli, contro la violenza dei laici. Laddove c'era un potere ufficiale forte, la pace di Dio fu sostituita dalla pace del principe: per esempio, la pace del duca in Normandia a partire dall'undicesimo secolo; la pace del re in Francia nella metà del dodicesimo secolo. Il fatto più notevole, probabilmente, consiste nella protezione della vita economica, del contadino e del mercante. La pace rappresenta la soluzione religiosa dei problemi di un'economia in espansione.

Promosso a partire da Charroux, nel Poitou, e da Narbona nel 989-990, nell'undicesimo secolo il movimento conquista l'intera Francia. A volte si trattava di un giuramento che stabiliva le eccezioni alla violenza che occorreva rispettare; a volte si trattava dell'impegno a rinunciare, in certi periodi dell'anno, a qualsiasi forma di violenza (tregua di Dio.. Il giuramento di pace stabilito dal vescovo Gu‚rin di Beauvais nel 1023 può servire d'esempio: "Non invaderò in alcun modo una chiesa... Neppure invaderò le cantine che si trovano nel recinto di una chiesa... Non attaccherò il prelato o il monaco che non portino armi mondane, n‚ chi va con loro senza lancia o scudo; non porterò via il loro cavallo... Non prenderò il bue, la vacca, il maiale, il montone, l'agnello, la capra, l'asino, il fagotto che porta, la giumenta e il suo puledro non domato. Non colpirò n‚ il contadino n‚ la contadina, n‚ i sergenti n‚ i mercanti; non gli porterò via il denaro; non li taglieggerò... Il mulo o la mula, il cavallo o la giumenta e il puledro che sono al pascolo, non li sottrarrò a nessuno dai primi di marzo fino a Tutti i Santi... Non incendierò n‚ distruggerò le case... non taglierò, n‚ sradicherò n‚ devasterò le vigne d'altri... Non distruggerò il mulino n‚ ruberò il grano che vi si trova... Non attaccherò n‚ il mendicante n‚ il pellegrino... non catturerò il contadino". - Lo slancio si istituzionalizza: la riforma gregoriana. Al di là del movimento di pace, il periodo dell'anno Mille conobbe l'emergere di vari tentativi di riforma religiosa. Soprattutto in Italia, si sviluppò un movimento eremitico, che esercitò un'influenza sulle idee di riforma di Ottone Terzo. Ad esempio, san Nilo di Grottaferrata, vicino Roma, formatosi in un monastero greco, basiliano, dell'Italia meridionale; san Romualdo, che fondò nel 1012, a Camaldoli, vicino Arezzo, una comunità da cui derivarono i camaldolesi e, un po' più tardi, san Giovanni Gualberto, che istituì verso il 1039 l'eremitaggio di Vallombrosa, vicino Firenze. Si tratta di una riforma ambigua, che si riduce soprattutto a una fuga di fronte ai concreti progressi della cristianità, a un rifiuto. Ancora per lungo tempo il progresso materiale susciterà, come ha dimostrato Robert Bultot, una condanna. E' il tema del "contemptus mundi", del disprezzo del mondo. I tentativi della Chiesa di limitare la violenza e cristianizzare i costumi si manifestarono anche nel campo delle nuove istituzioni feudali. In una famosa lettera, nel 1020, il vescovo di Chartres, Fulberto, ricorda al duca di Aquitania, Guglielmo Quinto, i doveri reciproci del signore e del vassallo. Sembra che il duca abbia sollecitato il parere del prelato. Pure, uno studio preciso ha dimostrato come egli fosse lontano dal mettere in pratica le virtù feudali, così come le aveva stabilite per lui Fulberto.

La cristianità dell'undicesimo secolo continua ad essere quella in cui i laici hanno accampato il diritto alla loro intromissione negli affari della Chiesa, di fronte al crollo dell'organizzazione carolingia e al declino del papato. La simonia, cioè il traffico delle cariche ecclesiastiche, si generalizza. I re capetingi non sono gli ultimi a vendere i vescovati. Gli imperatori si sono accaparrati nell'Impero il diritto di investitura attraverso il pastorale e l'anello. Dopo la conquista dell'Inghilterra (1066., i re normanni distribuiscono ai loro fedeli i seggi episcopali inglesi. Il matrimonio dei preti, il nicolaismo, si generalizza del pari in Germania, in Francia, in Italia. Pier Damiani, nel "Libro di Gomorra" che egli indirizza nel 1049 al papa Leone Nono, delinea un quadro, forse esasperato ma impressionante, dei vizi del clero italiano. Tuttavia gli imperatori, e soprattutto Enrico Terzo (1039-1056., cercavano - e spesso ci riuscivano - di imporre dei papi tedeschi a loro devoti. Questo stato di cose suscitò una reazione che approdò a una profonda riforma del papato e della Chiesa. Ma tale riforma, cosiddetta gregoriana dal nome del papa che svolse in essa un ruolo determinante, va ricondotta al movimento ben più ampio che, tra il 1050 e il 1150 circa, cercò di adeguare il cristianesimo al nuovo clima della comunità cristiana, quello dell'attività di dissodamento, dell'ondata di costruzione di chiese e di castelli fortificati, dello sviluppo urbano, del progresso di un commercio di ampio raggio e di un'economia monetaria. Costruitasi in un quadro generale di miseria e di penuria che approdava all'escatologia, la cristianità dell'epoca romanza cercò di adeguarsi attraverso due correnti contrapposte: l'integrazione nel secolo e il rifiuto del secolo, in particolare di quello nuovo. La riforma gregoriana cercò di praticare una via di mezzo: disimpegnare la Chiesa dal secolo, cioè dal laicato, per consentirle di padroneggiare più efficacemente il nuovo mondo. Un avvenimento grave - ma che, sul momento, apparve semplicemente come un episodio forse transitorio nel quadro di una vecchia polemica - servì di premessa alla riforma abbozzata inizialmente dal papa Leone Nono (1048-1054. e dai suoi collaboratori, quali il cardinale Umberto di Moyenmoutier e due monaci italiani, Pier Damiani e Ildebrando: la rottura con Bisanzio, lo scisma del 1054. Nata da polemiche a prima vista secondarie (uso del pane azimo, matrimonio dei preti eccetera., questa rottura era destinata a diventare definitiva. Consapevolmente o meno, gli Occidentali che presero l'iniziativa della rottura avevano resa indipendente dall'Oriente la Chiesa romana che volevano riformare. Leone Nono riunì concili in Francia, in Germania e in Italia per condannare simonia e nicolaismo. Nicola Secondo, con un decreto del 1059, riservò ai cardinali il diritto di eleggere il pontefice, vietò l'investitura laica delle chiese e che si assistesse a messe celebrate da preti sposati o concubini. Ildebrando, eletto papa sotto il nome di Gregorio Settimo nel 1073, cominciò a promuovere energicamente la riforma, appoggiato dai legati da lui designati in modo temporaneo o stabile nei vari paesi. Nel 1074, nel concilio di Roma, egli decise la destituzione dei preti simoniaci, sposati o concubini, e fece appello ai fedeli per incitarli a sottomettersi. Nel 1075 pubblicò una raccolta di ventisette brevi proposizioni, il "Dictatus Papae". Queste non si limitavano a proclamare l'indipendenza del papato e della Chiesa di fronte ai poteri laici, ma tendevano ad instaurare una teocrazia pontificia. "1. La Chiesa romana É stata fondata unicamente dal Signore. 2. Solo il romano pontefice sia detto, legittimamente, universale. 9. Il papa É l'unico uomo cui tutti i principi bacino i piedi. 12. A lui É permesso deporre gli Imperatori.

16. Nessun sinodo può convocarsi senza suo ordine. 19. Egli non deve essere giudicato da nessuno. 22. La Chiesa romana non ha mai sbagliato; e, secondo la testimonianza della Scrittura, non sbaglierà mai. 23. Il pontefice romano, canonicamente ordinato, É oltre ogni dubbio santificato per i meriti del beato Pietro. 24. Dietro ordine e col consenso del papa, É permesso ai sudditi di formulare un'accusa. 27. Il papa può sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà agli ingiusti." Nel sinodo di Roma dello stesso anno, 1075, egli vietò qualsiasi investitura laica. Una larga parte del clero vide di malocchio queste decisioni, soprattutto l'alto clero, e così pure quasi tutti i prìncipi. Ma la resistenza più aspra si ebbe in Germania e da parte dell'Imperatore. Nel 1076, Gregorio Settimo scomunicò l'imperatore Enrico Quarto, deponendolo e sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà. L'imperatore se la cavò con la penitenza di Canossa (1077., che lasciò il pontefice disarmato. Canossa contiene in s‚ sia i germi della secolarizzazione e dell'indebolimento dell'impero umiliato, sia la dimostrazione della fondamentale impossibilità di mettere in atto la teocrazia pontificia (J. Ch‚lini.. Nonostante tutte le resistenze, la riforma riuscì. La pratica dell'investitura laica nelle cariche più elevate scomparve. Vennero abbozzate delle soluzioni di compromesso, ad opera di esperti canonisti come Yves di Chartres (1040-1116 circa.. Si distingue tra l'investitura spirituale, che viene sottratta ai prìncipi, e l'investitura temporale, costantemente conferita da questi. Enrico Primo d'Inghilterra l'accettò dal 1105; il re di Francia, pur avendo evitato scontri di gravi proporzioni, vi si rassegnò solo con Luigi Settimo (1137-1180., ma il testo fondamentale - su queste basi - fu il concordato di Worms (1122. tra il papa e l'imperatore. Ad ogni modo, la polemica tra Sacerdozio e Impero era ben lungi dall'essere conclusa, ma era ormai piuttosto un giuoco d'illusioni che un problema di fondo del cristianesimo e della cristianità. La libertà della Chiesa era praticamente garantita. Il papa Callisto Secondo la fece ratificare dal primo concilio ecumenico del Laterano (1123., il primo concilio della Chiesa romana da sola, ormai separata dall'Oriente. - Appetiti e immaginazione della cristianità: la crociata. Tuttavia, la giovane cristianità in espansione non era ancora abbastanza forte da essere in grado di assorbire al proprio interno l'accumularsi delle nuove energie. Di qui il ricorso all'espansione esterna, alla crociata. Certamente, se l'espansione demografica deve aver giuocato un ruolo fondamentale nel lancio della crociata, le motivazioni furono però esclusivamente religiose. Come hanno dimostrato C. Erdmannè P. Alphand‚ry e A. Dupront, alla crociata si É giunti dopo una lunga preparazione psicologica. Una storia della crociata, per quel che riguarda gli aspetti del suo significato e della spiritualità collettiva, deve partire da un inventario delle esperienze, delle immagini, delle tradizioni insite nell'inconscio collettivo dell'Occidente cristiano. La crociata si colloca al termine della tradizione del pellegrinaggio e della psicologia della penitenza. Essa emerge dal prolungato vagheggiamento della Gerusalemme celeste; si basa sull'idea che gli infedeli che detengono i Luoghi Santi sono proprio i carnefici del Cristo e meritano una punizione. Essa si alimenta di una prospettiva escatologica, della credenza nella specifica vocazione dei poveri, che svolgeranno un ruolo preminente nella crociata - si vedano i Tafuri, i

"Gueux" (pezzenti., che marciano a piedi nudi, nutrendosi d'erbe e di radici, protagonisti della "Chanson d'Antioche". Se da una parte la crociata offre l'immagine di una cristianità ormai sicura di s‚, dall'altra ce la presenta, tuttavia, diventata allergica agli altri. Solo marginalmente essa cerca di convertire, e invece massacra. Tale aggressività si É dapprima manifestata in Europa e contro un bersaglio diverso dai musulmani, gli Ebrei. "Pogrom" e crociate sono connessi. Raoul Glaber ci mostra come fin dall'inizio dell'undicesimo secolo il meccanismo sia ben montato: voci di atti ostili ai cristiani ad opera dei musulmani di Palestina, velleità cristiane di crociate, "pogrom" in Occidente. La via materiale della prima crociata sarà disseminata di "pogrom", dalla Lorena alla Boemia. La "Reconquista" spagnola aveva indubbiamente costituito il terreno sperimentale della crociata. Nel 1054, aveva già ottenuto dal papato il riconoscimento di speciali privilegi per i combattenti (soprattutto francesi, attratti e inquadrati dai cluniacensi., che ne facevano una sorta di precrociata. Già in questo essa aveva palesato il suo duplice risvolto di attrazione religiosa e di fascino materiale agli occhi di cavalieri senza averi e della popolazione indigente. Non É provato che il pontefice Urbano Secondo, lanciando nel 1095 a Clermont un appello di cui non É neppure certo se costituisse un invito a un'effettiva crociata, avesse altre recondite intenzioni oltre all'idea di soddisfare l'esigenza di penitenza e di fame escatologica che sollevò decine di migliaia di cristiani. Stornare contro i musulmani la violenza dei cavalieri, realizzare all'interno di un'impresa comune l'unità di una cristianità dilacerata? Se era questo lo scopo, il risultato fu un fallimento. Certo, i crociati conquistano Gerusalemme nel 1099 e si insediano in Terra Santa per circa due secoli. Ma questo non comportò alcun vantaggio. La cristianità ne ricavò semplicemente il risultato di aggravare le proprie divisioni in Oriente. La Terra Santa non reca alcuna soluzione ai problemi dei Latini. I vantaggi culturali e commerciali non si dovettero a questa occupazione, che comportò più scontri e fratture che non occasioni d'intesa, ma agli scambi pacifici che la cristianità e l'islam ebbero altrove, nelle città portuali, in Sicilia, in Spagna. La crociata impoverì l'Occidente. Restano solo i sogni nutriti da molti giovani e poveri per più di un secolo e il fatto che, perlomeno per tutto il dodicesimo secolo, il passaggio oltre mare rientrò nella visuale d'obbligo dell'intero Occidente cristiano. - Diversificazione della Chiesa. Nel 1150, nei suoi "Dialoghi", un canonico di tipo nuovo, un premostratense, Anselmo di Havelberg, esclama: Perché‚ tante novità nella Chiesa di Dio? Perché‚ al suo interno sorgono tanti 'ordini'? Chi potrebbe contare quanti sono gli 'ordini' del clero? Chi non si stupirebbe dell'esistenza di tanti tipi di monaci?.... Un po' prima, tra il 1123 e il 1130, uno sconosciuto, forse un canonico della zona tra la Senna e la Mosa, aveva scritto un trattato rimasto incompiuto: "De diversis ordinibus et professionibus quae sunt in Ecclesia" (Diversi ordini e professioni presenti nella Chiesa.. Quale diversità, in effetti! Quanta strada percorsa dal tentativo carolingio di ricondurre tutto all'uniformità! Certamente, dopo la sua comparsa in Inghilterra alla fine del nono secolo, in un'opera del re Alfredo, un nuovo schema sociale tende a diffondersi nell'undicesimo secolo, allorch‚ un Adalberone di Laon (verso il 1027. e un Gerardo di Cambrai (verso il 1044. lo introducono nella letteratura polemica e narrativa. Si tratta in primo luogo di un addio alla perduta unità del popolo cristiano: la casa di Dio, che si credeva unita, dice Adalberone con rimpianto, É, in realtà, divisa in tre. Diventa poi un appello a un nuovo tipo di società, la cui coerenza deve risultare dall'armonia fra tre ordini: coloro che pregano, coloro che combattono, coloro che lavorano ("oratores, bellatores, laboratores"..

Questo schema, d'origine indoeuropea, esprime una ristrutturazione della società: un clero dominato dal modello monastico e dall'"opus Dei"; un'aristocrazia militare; un'‚lite economica di contadini dissodatori che acquisiscono attraverso il lavoro il diritto a un'ascesa sul piano ideologico. La realtà, tuttavia, evidenzia una differenziazione molto maggiore, in primo luogo in seno alla Chiesa. Il primo fenomeno clamoroso É dato dal proliferare dell'eremitismo. Dalla Polonia in via di cristianizzazione, dove Bruno di Querfurt ripercorre la strada di cinque santi eremiti, alla Catalogna, dove per un poco si ritira san Romualdo, e alle isole britanniche e irlandesi, dove rifiorisce il tradizionale eremitismo celtico, i boschi si popolano di figure in cerca di solitudine. Molti escono dal loro isolamento, anche perché‚ l'attrazione da essi esercitata come gente che compie miracoli e impartisce consigli attira parecchi visitatori presso i loro rifugi. La predicazione itinerante É in voga in molte zone attorno al 1100. Un prelato di Chartres, un po' più tardi, si lamenta in quanto vede le città invase da orde di irsuti eremiti che abbandonano la solitudine. La verità É che, per molti di essi, l'apostolato itinerante É connesso al loro stile religioso. La loro influenza si protrae attraverso la lettura delle agiografie consacrate a molti di essi: É quanto accade, ad esempio, per fermarci al solo Limosino nella metà del dodicesimo secolo, per Gaucher d'Aureil e Stefano d'Obazine e per i conventi o anche gli ordini fondati da alcuni di essi come Roberto d'Arbrissel a Fontevrault nell'Angiò all'inizio dei dodicesimo secolo o Stefano di Muret, fondatore, alla fine dell'undicesimo secolo, dell'ordine di Grandmont, nel Limosino. Il movimento eremitico ebbe anche degli appoggi importanti, ad esempio, in Italia, in Pier Damiani, uno dei precursori della riforma gregoriana presso la corte romana. Un altro movimento di notevole rilievo É il movimento canonicale. Accanto ai canonici secolari dei capitoli delle cattedrali, esistevano canonici regolari, dei quali si era soprattutto interessata la legislazione carolingia. A partire dalla fine dell'undicesimo secolo, cominciarono a pullulare le collegiate. Esse adottarono la regola cosiddetta di sant'Agostino (donde, il più delle volte, il loro nome di canonici di sant'Agostino., che imponeva una vita comune molto austera, la pratica della povertà e della castità, un ascetismo severo, una vita attiva che combinava l'apostolato attraverso la predicazione o l'insegnamento con il lavoro manuale. Le comunità canonicali contribuirono al successo della riforma gregoriana, della quale costituirono uno degli aspetti principali. Esse presero parte, spesso, anche alla rinascita intellettuale del dodicesimo secolo, come avvenne, brillantemente, nel caso dei canonici di Saint-Victor a Parigi. Legati in genere all'ambiente urbano, i canonici furono attivi anche in quello rurale. Così avvenne per i canonici stabilitisi nel 1120 a Premontr‚ su iniziativa di Roberto di Xanten e che si diffusero rapidamente. Severi cultori della povertà, del lavoro manuale (i premonstratensi, in particolare i conversi, furono dei grandi dissodatori. e della predicazione, i canonici di Premontr‚ costituirono la più importante e la più illustre congregazione canonicale. Altri due ordini erano destinati ad occupare nel dodicesimo secolo, insieme ai premonstratensi, un posto di primo piano sulla nuova scena monastica: i certosini e i cistercensi. In uno straordinario posto di montagna, un nobile renano, Bruno, fonda nel 1084 un convento, la cui originalità consiste nella presenza una accanto all'altra di piccole celle individuali o, meglio, di casette con al piano inferiore un giardinetto e un locale per il lavoro manuale, e sopra una stanza per il riposo e la meditazione. In effetti, nonostante sia retta dalla regola benedettina, la Certosa rappresenta una versione originale dell'eremitismo, un'istituzione d'eremitismo stabile. L'ordine, tuttavia, rivestirà un proprio carattere stabile e si diffonderà solo con Guigo Primo, priore dal 1109 al 1136, che l'orienta verso la vita contemplativa, nella quale lo impegna ancora di più Guigo Secondo, priore dal 1173 al 1180, che definì, nelle sue "Lettere sulla vita contemplativa (La scala dei monaci.", la tecnica cartesiana dell'ascesi: Un giorno, durante il lavoro manuale, cominciai a pensare all'esercizio spirituale dell'uomo e improvvisamente si offrirono alla riflessione del mio spirito quattro gradi spirituali: lettura, meditazione, preghiera, contemplazione.

E il cistercense Guglielmo di Saint-Thierry, scrivendo ai confratelli della Certosa del Mont-Dieu, li ammira in quanto arrecano la luce dell'Oriente e resuscitano l'antico fervore religioso dell'Egitto nelle tenebre occidentali e nei freddi delle Gallie. Tra queste fondazioni, quella che ebbe maggior successo É quella realizzata nel deserto acquitrinoso di Citeaux, vicino Digione (1098., da un nobile della Champagne, Roberto di Molesme, dopo una serie di esperienze cenobitiche. Le caratteristiche dei cistercensi consistettero nel rigetto di ogni forma tradizionale di ricchezza monastica e nella cura assidua del lavoro manuale. Il successo della formula fu assicurato dalla personalità di san Bernardo, un monaco di Citeaux, il quale fondò la succursale di Clairvaux nel 1115, di cui fu abate fino alla morte, nel 1153. San Bernardo dà vita a un duplice paradosso: quest'eremita interviene in tutte le vicende della cristianità - quelle della curia romana, dove sostiene i papi Innocenzo Secondo ed Eugenio Terzo (1145-1153., strumento nelle sue mani; quelle della crociata, che egli proclama a V‚zelay nel 1146; quelle dottrinali, in cui fa condannare le elaborazioni di Abelardo e si indigna contro i maestri e gli studenti parigini; quella dell'eresia, che egli combatterà con la predicazione nel Mezzogiorno. Questo adepto di una delle forme più sorprendenti, rispetto al monachesimo tradizionale, del nuovo monachesimo É il campione di tutte le forme dell'ordine stabilito, a parte il monachesimo cluniacense - una forma di inquisizione "ante litteram" - e, a parte l'uso della violenza, di ogni forma di audacia. Un secondo elemento paradossale É dato dal fatto che, tranne per quel che concerne l'esaltazione dell'ordine cistercense - il quale conosce una diffusione notevole, grazie soprattutto a un'organizzazione del rigore di quella di Cluny attorno all'abate generale di Citeaux e al capitolo generale di tutti gli abati che si riuniva annualmente - san Bernardo fallì su tutta la linea, nella crociata contro la scolastica e l'eresia. Ma, tramite la sua opera - capolavoro del pensiero mistico e della letteratura latina medievale -, tramite le sue lettere - testimonianza della sua onnipresenza nella sfera cristiana - si può capire quale potesse essere l'impressione suscitata da quell'eccezionale personalità. Andrebbero ancora ricordati altri ordini, la cui fondazione dimostra che bisognerebbe ormai ammettere che ci sono parecchie case nella dimora del Padre. Ad esempio, gli ordini ospedalieri, connessi allo sviluppo del pellegrinaggio e dell'interessamento per i malati - ad esempio, gli antoniani, apparsi alla fine dell'undicesimo secolo nel Delfinato - e gli ordini militari, connessi con la crociata e che, ripiegando nel tredicesimo secolo dalla Terra Santa in Occidente, vi svolgeranno un ruolo importante nell'evangelizzazione (ordine Teutonico., nella vita rurale (grandi domini delle commende. e nelle operazioni finanziarie (ruolo dei Templari.. Occorre anche riflettere sul ruolo sociale e culturale svolto dai nuovi ordini - con certe differenze - nei paesi entrati di recente a far parte del mondo cristiano. In Polonia, ad esempio, dopo i benedettini (impiantatisi vicino Cracovia, a Tyniec, nel 1044., accanto ai canonici regolari (come quelli che vengono istituiti a Cerwinsk., appaiono i premonstratensi (canoniche di Strzelno, alla fine del dodicesimo secolo. e i cistercensi (Jedrzv¢w, tra il 1240 e il 1250., che svolsero un ruolo molto importante nel tredicesimo secolo. Tutto questo fervore monastico e clericale costituisce una risposta a uno sviluppo socio-economico. Risposta complessa, che combina atteggiamenti di rifiuto - nella tradizione eremitica - con aspirazioni a un adattamento. In questa prospettiva, É legittimo pensare che l'anacoretismo dell'undicesimo secolo si presenti in parte come un adattamento a un'economia di transizione, che non É più esclusivamente rurale, ma che non É ancora realmente commerciale (L‚opold G‚nicot.. Citeaux scopre, con il sistema dei fienili, lo sviluppo dei pascoli e dell'allevamento del montone, il ricorso alla manodopera dei conversi, una soluzione che va nel senso dello sviluppo dell'economia agricola. Certosini e cistercensi ospitano anche nei loro conventi i mulini e le relative applicazioni industriali, diventano esperti in fucine. Ma questo, sempre, nel quadro delle intenzioni tradizionali del monachesimo, che si interessa al macchinismo nella misura in cui lasci al monaco tempo libero per la preghiera, l'"opus Dei".

Nella polemica che vede nel dodicesimo secolo scontrarsi vecchio e nuovo monachesimo e che si incentra sul lavoro manuale dei monaci - polemica che simboleggia la controversia tra san Bernardo e l'abate di Cluny, Pietro il Venerabile, irritato, come lo fu l'abate benedettino Ruperto di Deutz, da questa mania del lavoro, questo zelo dei monaci-contadini o dei monaci-operai - non va dimenticato che, pur presentando aspetti più decisamente positivi, la passione per il lavoro nei nuovi ordini resta essenzialmente una forma di penitenza. Il nuovo monachesimo coltiva il lavoro in quanto coltiva la penitenza. Il nesso tra le forme economiche e sociali nuove e la riforma gregoriana É altrettanto complesso. Pur discostandosi dall'empirismo dei laici, il movimento cercava di adeguarsi alla nuova società. Gregorio Settimo, nella tradizione delle istituzioni di pace, prendeva i mercanti sotto la propria protezione. Cinzio Violante ha dimostrato come i vescovi dell'Italia centrale e settentrionale, nel dodicesimo secolo, avessero sempre maggiori legami con gli ambienti dirigenti dei comuni urbani e come le loro attività temporali si inserissero nel rapido sviluppo dell'economia monetaria e mercantile. Un ultimo contrasto, un ultimo paradosso. I riformatori religiosi ambiscono a separare la Chiesa, il monachesimo, dallo sfruttamento feudale. Ma la presenza di "famuli", di domestici, accanto agli eremiti, il ruolo dei conversi, che sostituivano i servi nei monasteri, dimostra il persistere di modelli gerarchici in seno alla contestazione religiosa. - La contestazione religiosa: laicato ed eresie. Ancora più nuovo É, in età romanica, il ruolo crescente dei laici nella società cristiana. In un contesto già arcaico, quello della società degli ordini, essi sono inseriti non solo nella forma tradizionale dei "bellatores", dei guerrieri, più o meno potenti, ma anche in quella, nuova, dei lavoratori - "laboratores" - che si tende ad identificare con l'insieme dei contadini, prima di includervi anche, nel tredicesimo secolo, la manodopera artigianale ed operaia delle città. Nessun movimento meglio della "Pataria" milanese dimostra l'intervento dei laici nella vita della Chiesa; viene in mente come Gregorio Settimo, nel "Dictatus Papae", facesse appello all'intervento dei laici in certi casi di abuso di potere o di disobbedienza dei potenti. Si tratta di un atteggiamento che non É acquisito da parte della Curia romana. Come É dimostrato da Pietro Zerbi, Pasquale Secondo, papa dal 1099 al 1118, che sogna di spingere la riforma gregoriana fino alla rinuncia della Chiesa ad ogni potere temporale, anzich‚ essere un innovatore É un tradizionalista. Il suo ideale di povertà della Chiesa É chiuso, aristocratico, ristretto ai monaci e ai preti. E' sintomatico che, nonostante un'evidente promozione, i laici esprimano i loro progressi soprattutto attraverso il loro ruolo nei movimenti anti-ecclesiastici e, a volte, apertamente ereticali. La "Pataria", un movimento di straccivendoli ("patteri"., non ebbe alcunch‚ di eterodosso. Essa raccolse, nella metà dell'undicesimo secolo, degli elementi laici, e clericali, popolari, a Milano e in Lombardia, levatisi contro il clero, in particolare l'alto clero, simoniaco e concubino. Essi negavano il valore dei sacramenti somministrati da quei cattivi chierici dai quali pretendevano o che facessero penitenza o che rinunciassero alle loro cariche. In una certa misura, la rivoluzione democratica che, quasi un secolo dopo, nel 1144, proclamò la fine del potere temporale dei papi a Roma ed istituì una repubblica diretta da un senato e un patrizio, ed ebbe poi a capo un canonico regolare, Arnaldo da Brescia, ex allievo di Abelardo a Parigi, si colloca in questa prospettiva. Ma, quel che qui si prende di mira É il potere temporale dei papi, non un problema specificamente religioso, e l'episodio va piuttosto inserito nel quadro del movimento dei comuni. C'erano però delle implicazioni di dottrina, che portarono alla condanna di Arnaldo da Brescia come eretico. L'unione del papa e dell'imperatore Federico Barbarossa mise fine nel 1155 all'avventura romana di Arnaldo da Brescia, che venne impiccato. L'emergere dei laici si espresse soprattutto nei moti ereticali, ai quali essi fornirono sia la massa dei seguaci, sia alcuni capi.

Questi movimenti, che cominciarono a manifestarsi a partire dall'anno Mille, non costituiscono n‚ un'appendice n‚ un rigurgito di antiche eresie, anche se a volte la Chiesa si accanisce a battezzarle come ariane o manichee, per riuscire più facilmente a condannarle. Del pari, se anche certe influenze orientali, in particolare quelle dei Bogomili macedoni, giunte insieme ai mercanti dei Balcani, avessero svolto un loro ruolo, la sostanza di questi fenomeni É altrove. Come ha sostenuto Raffaello Morghenè queste eresie si ricollegano "alle condizioni sociali e spirituali tipiche del grande moto spirituale della Chiesa nell'undicesimo secolo... Le eresie medievali sono state completamente diverse dalle antiche eresie, perché‚ sono state ispirate da motivi morali e si sono soprattutto diffuse tra gli strati più umili e incolti, mentre le antiche eresie esprimevano prevalentemente preoccupazioni di ordine intellettuale e teologico e si erano diffuse in ambienti ecclesiastici colti". Se É vero che queste eresie ci aprono tutto un nuovo mondo, e se l'interpretazione di R. Morghen É in ultima analisi valida, non va tuttavia dimenticato che dei chierici vi hanno svolto un ruolo importante e che, se l'eresia medievale ha avuto molteplici aspetti, essa rappresenta, a partire dall'anno Mille, una contestazione dell'ideologia dominante, che aspira del resto, il più delle volte, a ritornare a un vecchio stadio, reale o immaginario, della società, a un cristianesimo più severo e più puro. L'eresia - le eresie - del Medioevo non sono mai rimaste immuni dall'utopia e sono sempre state, nelle loro motivazioni, reazionarie. Il primo eretico dell'Occidente É un contadino della Champagne, Liutardo, il quale, verso la fine dell'anno Mille, dopo un sogno in un campo, abbandona la sua donna, si reca nella chiesa del villaggio per spezzare la croce e l'immagine del Cristo, si proclama ispirato da Dio e si mette a predicare, fa appello al rifiuto del pagamento delle decime e all'esame critico della Bibbia. Seguito, e poi abbandonato, da numerosi discepoli, egli si butta in un pozzo. Eresie dotte o popolari si accavallano ormai dappertutto, a Orl‚ans, in Aquitania, ad Arras, a Monforte in Piemonte, a Chƒlons-sur-Marne, nei Paesi Bassi soprattutto con Tanchelmo, a Le Mans con Enrico di Losanna, nelle Prealpi con Pietro di Bruys, infine in Renania. Nel 1163, un canonico di Bonn che si era fatto monaco, Ecberto di Sch”nau, chiama per la prima volta degli eretici catari, cioè puri. Questi stessi eretici tengono nel 1167 un concilio a Saint-F‚lix-de- Caramanè vicino Tolosa. Non si tratta ormai più di piccoli gruppi, ma di un ampio movimento. L'eresia del bene e del male, la religione dualista, che non É più una eresia del cristianesimo ma un'altra religione, si rivela. E' aperta la massima sfida al cristianesimo medievale. Siamo ormai in un'altra epoca. - Il cristianesimo romanico: testimonianze artistiche e letterarie. Il mondo dell'arte e della letteratura segue delle strade proprie. E' un'impresa delicata servirsene come testimonianza di una società, di un'epoca, ancorch‚ ciò sia necessario. Dall'anno Mille alla metà del dodicesimo secolo, la produzione culturale - pur se ci si limiti a ciò che si É conservato fino a noi - É notevole. Condensarla É impossibile, ridicolo riassumerla. Ci si deve rassegnare solo ad alcuni sondaggi. Nella ricchezza di un mondo intellettuale in piena espansione, alcune prospettive attirano l'attenzione. Sant'Anselmo (morto nel 1109. É potuto apparire come il teologo del feudalesimo. Il suo Dio É un signore feudale supremo. Ma egli si fa uomo. E, in una formulazione che incoraggerà parecchi ardimenti futuri, egli rivendica la necessità per la fede di andare insieme all'intelligenza razionale: "fides quaerens intellectum". Le arti liberali sono coltivate sistematicamente. Due di esse conoscono un particolare successo: la grammatica e la dialettica. La grammatica, come base di qualsiasi pensiero. I nostri semiologi contemporanei vi si riconoscerebbero.

Il maestro che imprime alla scuola cattedrale di Chartres, nel dodicesimo secolo, un impulso decisivo, Bernardo di Chartres, fonda tutto sulla grammatica. Ma la grande moda É data dalla dialettica. Già un prete di Tours, Berengario (morto nel 1088., aveva introdotto, grazie ad essa, delle innovazioni nella teologia dell'eucarestia e impostato su basi nuove le controversie carolingie. Egli viene condannato come eretico: un eretico molto dotto. Il suo successo, che va oltre la cerchia delle scuole, raggiunge la pubblica piazza, fa supporre che occorra ricercare, al di là delle sue stesse dottrine, un metodo che non rispetta la tradizione, che affascina. Seduttore ancora più grande, Abelardo (1079-1142., attraverso varie vicissitudini, rimette in discussione la teologia a partire dal linguaggio, attira nuove schiere di studenti delle città, offre il modello di un intellettuale diverso dalla tradizione monastica e clericale. Il diciannovesimo secolo ha deformato la fisionomia di questo personaggio, facendone un razionalista "ante litteram", ma Michelet non ha del tutto torto allorch‚ scrive: La filosofia di Abelardo suona la libertà, mentre i comuni piccardi segnano la libertà. La rinascita del dodicesimo secolo si rivolge verso l'Antichità per lanciare nuovi messaggi. La passione per la vita profana, per il vino, per le donne, l'amore semplicemente, si alimentano di Ovidio (il dodicesimo secolo, "aetas ovidiana".. Chierici vaganti, che errano di scuola in scuola, cantano in un latino assai dotto valori difficilmente compatibili con il cristianesimo - voluttà, se non addirittura lussuria - in attesa di passare dalla parte della società costituita: i Goliardi. Il pensiero simbolico trionfa, dominando i maestri di Saint-Victor di Parigi e molti altri. Si dischiude un'altra via, del pari religiosa, quella della natura: Un intero mondo sovrannaturale, che proiettava il proprio messaggio sulle cose e sugli uomini, nell'arte romanica come nei costumi sociali, sfuma nelle immaginazioni; É per altre vie che la natura, scoperta nella sua realtà profana, acquisterà il proprio valore religioso e condurrà a Dio (M. D. Chenu.. Il pensiero agostiniano continua ad essere dominante. Il vescovo tedesco Ottone di Frisinga, zio di Federico Barbarossa, che scopre con stupore il mondo artigianale dei comuni italiani, vede la storia ferma alla conversione di Costantino. Le due città, la celeste e la terrena, si sono ricongiunte. La storia viene meno. Nello stesso momento, un po' dovunque nella cristianità, la si rimette in moto. Fanno il loro ingresso le lingue volgari. Il latino dei chierici non É più la lingua esclusiva della cultura. Si può immaginare, con Eric Koehler, che la pressione della nuova piccola e media aristocrazia dei cavalieri ("milites"., non più disposti, come la vecchia nobiltà carolingia, e postcarolingia, a ricevere la cultura elaborata dalla Chiesa, dia vita a una specifica cultura Questa affonda largamente le sue radici nella tradizione orale del folklore, popolare o dotta, indiana o autoctona, celtica o germanica. Per quanto battezzata in fretta, questa nuova letteratura É portatrice di valori fondamentalmente estranei, se non ostili, al cristianesimo. Gli eroi delle "chansons de geste" inseguono o la gloria o l'annientamento. L'amore cortese irride all'amore divino. Con il "Merlino" di Goffredo di Monmouth, a metà del dodicesimo secolo, irrompe l'uomo selvatico, nato dall'unione di una mortale e di un demone, un modello di antiumanesimo, o di un umanesimo diverso da quello cristiano romanico. L'arte romanica É così diversa, così piena d'inventiva che É difficile ridurla a una sola ispirazione fondamentale, o anche ad alcuni pochi motivi d'ispirazione. Essa, tuttavia, rimane ancorata al passato, per quanto riguarda i suoi progetti ideali. Nei maestri dell'epoca romanica si fondono l'epopea dei tempi biblici e l'epopea della fine del mondo (Henri Focillon.. Essi danno vita a un universo di dialettici e simbolisti... L'irrealismo romanico É epico, da un lato, sillogistico, dall'altro.

Quel che soprattutto colpisce É il senso della gerarchia: nel tendere o nello schiacciare le figure, nell'ordinare le masse architettoniche, nell'inquadratura della miniatura, dell'affresco o della scultura. Il principale capolavoro di questo ordine romanico É la colossale basilica di Cluny Terza. Se si cerca di individuare alcuni criteri di classificazione, si É meno attirati dalle analogie regionali che hanno determinato i concetti di scuola della Normandia, della Borgogna, dell'Alvernia, della Linguadoca, catalana, provenzale, lombarda, eccetera - anche se É innegabile l'importanza di un quadro regionale delle dimensioni dei principati feudali -, che non dalle corrispondenze estetiche, che si sviluppano lungo le direttrici dei pellegrinaggi. Lungo le vie del grande pellegrinaggio romanico, quello di San Giacomo di Compostella, che si parta da Poitiers, o da V‚zelay, da Puy, da Saint-Gilles, si ritrova ad ogni tappa un'unica ispirazione fino al Portico della Gloria. Arte di una cristianità in movimento, i cui modelli procedono lungo i diversi itinerari. Ma il repertorio iconografico si svolge tra poli ben distanti - tra i quali impera una tensione drammatica. Da un lato, sta il deforme, l'orrido, il mostruoso, lo spaventoso, l'infernale. L'universo del diavolo. Un diavolo, in ultima analisi, più attraente che respingente. San Bernardo ha ragione quando scaglia le sue diatribe contro simili stravaganze. Cosa significano questi ridicoli mostri, questa strana bellezza oscena o questa bella oscenità? E questi segni disgustosi? E questi feroci leoni? E questi orribili centauri? E questi semiuomini? E queste linee chiazzate? ... Qui si vede un quadrupede con coda di serpente e là un pesce dalla testa di quadrupede; qui una bestia É davanti un cavallo, dietro una capra.... Dall'altro lato, accanto a Dio, al Cristo trionfante, compare una figura che rappresenta un rifugio, una consolazione: la Vergine. Tra l'anno Mille e la metà del dodicesimo secolo, si compie una notevolissima trasformazione della devozione e della sensibilità. La Vergine, fin lì relegata nell'ombra dal cristianesimo occidentale, viene in primo piano, invade tutto. Vergine madre in maestà. L'Occidente medievale ha forse compiuto la scoperta del suo Edipo? Tra la bellezza del diavolo e il grembo della Vergine Madre, il cristiano del 1150 scopre per caso una via intermedia? Probabilmente, quella del diritto. Al di là delle stratificazioni del costume, dell'anarchia o della moda di tradizioni giuridiche, nasce una mentalità giuridica, che risponde, in certa misura, al "Sic et Non" di Abelardo. Alle contraddizioni rilevate essa contrappone la necessità di convergenze e compromessi armonici. Verso il 1140, a Bologna, nuova metropoli del diritto, il "Decretum" di Graziano, base del diritto canonico, si presenta come la concordanza di canoni d¡scordanti. Nel 1159, mentre il sistema romanico lascia il passo al nuovo sistema gotico, un celebre giurista sale sul trono di San Pietro, il cardinale Rolando Bandinelli, divenuto papa Alessandro Terzo. L'esuberanza romanica É destinata ad essere disciplinata all'interno del nuovo ordine cristiano gotico. 6. IL CRISTIANESIMO NELLA FIORITURA GOTICA (1159-1311.. "Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature, spezialmente messer lo frate sole, lo qual'É jorno, et allumini noi per lui." (San Francesco d'Assisi, "Cantico di Frate Sole". - Città, povertà, mendicanti. Nella metà del dodicesimo secolo, il cristianesimo occidentale si trova ormai a dover fare definitivamente i conti con un fenomeno che investe l'intero mondo cristiano: lo sviluppo urbano. Si tratta, sulla base della divisione del lavoro e del diffondersi dell'economia monetaria, del sorgere di una nuova società organizzata in nuove cellule - una famiglia ristretta e una

comunità di abitanti vicino alla parrocchia -, in nuove classi: manovali-artigiani, borghesi da cui si distacca uno strato superiore, il patriziato. Quale chiesa, quale cristianesimo per questa nuova società? La prima risposta É la povertà - l'integrazione della nuova società tramite la promozione della povertà attraverso la povertà volontaria, nobilitazione degli umili, dei veri poveri, omaggio dei ricchi e dei potenti a Madonna Povertà. Su questa strada si impegnano decisamente due movimenti alla fine del dodicesimo secolo: i valdesi e gli umiliati. Nel 1173, un ricco mercante di Lione, Pietro Valdo, dona i suoi beni ai poveri, raccoglie rapidamente dei seguaci e il gruppo si mette a professare la povertà volontaria. Alcuni chierici aderenti al movimento traducono per Pietro ValdÉs e per i laici la "Bibbia" in volgare. L'arcivescovo di Lione, un cistercense, vieta sia la mendicità sia la predicazione. ValdÉs e i suoi discepoli si recano a Roma per il terzo concilio del Laterano nel 1179, scalzi, coperti di lana, senza bagagli, con tutti i loro averi in comune come gli apostoli, seguendo spogli il Cristo spoglio. Nel 1184 il papa Lucio Terzo scaglia l'anatema contro una serie di eretici, tra i quali i Poveri di Lione, i valdesi. Verso lo stesso periodo, in Italia, alcuni gruppi praticano anch'essi la povertà e la manifestano vestendosi di abiti rappezzati e scoloriti. Sono gli umiliati. Anch'essi vengono condannati da Lucio Terzo nel 1184. All'inizio del tredicesimo secolo, il papa Innocenzo Terzo riconcilierà con la Chiesa una piccola frazione valdese e una parte importante degli umiliati. Questi fondano nelle città italiane dei conventi-laboratori, in cui lavorano la lana. La seconda risposta É la casistica, che affronta i problemi in forma di casi che possono avere soluzioni differenti, essa moltiplica le distinzioni e le eccezioni alla regola. Per questa via riformista, essa prepara l'inserimento della nuova società nel quadro tradizionale del cristianesimo. Soprattutto due gruppi di intellettuali preparano questa operazione di adattamento, sul piano della dottrina: i maestri parigini e i maestri bolognesi. Questi ultimi sviluppano ed arricchiscono il "Decretum" di Graziano, soprattutto attraverso l'introduzione al diritto romano come Uguccione di Pisa nella sua "Summa" del 1188 circa, e; "Commentari" connessi a casi concreti, come quelli di Bernardo di Pavia, nel 1191. La curia romana, attraverso la pubblicazione di decretali, garantisce la diffusione e l'applicazione di questo lavoro giuridico. A Parigi, specie nella scuola cattedrale di N“tre-Dame e a un livello più teologico che giuridico, la giustificazione dottrinaria della nuova società viene elaborandosi parallelamente. Pier Lombardo scrive verso il 1150 i suoi quattro libri di "Sentenze", la prima somma teologica che presenti per tutti i problemi della fede cristiana i testi biblici, quelli dei Padri, dei concili, le opinioni dei maestri e i punti di vista dell'Autore. Si tratta dell'equivalente teologico del "Decretum" di Graziano. Fino alla Controriforma, resterà il manuale per la laurea in teologia. I suoi ardimenti contenuti, la sua apertura verso l'evoluzione del mondo, non ingannano gli spiriti tradizionalisti. Il conservatore Gautier di Saint-Victor attacca violentemente il Lombardo in un opuscolo polemico: "Contra quatuor labyrinthos Franciae". Innocenzo Terzo cerca di contenerne il prestigio. John Baldwin ha dimostrato come attorno a un altro maestro parigino, Pietro Cantore, morto nel 1197, si sia sviluppata una riflessione teologica che ha fornito un nuovo statuto religioso ai protagonisti della nuova società: i maestri delle scuole urbane, i prìncipi laici e i loro funzionari, i mercanti. Pietro Cantore e la sua cerchia legittimano, attraverso la remunerazione del lavoro, il salario del maestro e il profitto del mercante. Lavoratori e produttori intellettuali ed economici sono giustificati. Si definisce la legittimità del loro uso del danaro. Il lavoro non É più una penitenza, ma un'attività positiva. Da questa corrente nascerà una critica della povertà, che troverà nel "Romanzo della Rosa" una sua formulazione letteraria. Chi É povero, dovunque si trovi, É sempre triste e ombroso.

Sia maledetta l'ora in cui venne concepito il povero, ch‚ non sarà mai ben nutrito, n‚ ben vestito, n‚ ben calzato! E neppure sarà amato e curato. Facendo eco a Guillaume de Lorris, Jean de Meung delinea la via di mezzo della nuova morale cristiana. Nella grande povertà, l'anima É sottoposta agli stessi attacchi che nell'opulenza... Il giusto mezzo si chiama sufficienza..., perché‚ il ricco s'inebria talmente di ricchezza da dimenticare con questo il proprio creatore; e chi É costretto a mendicare, come potrà preservarsi dal peccato?. Un grande movimento era destinato a cercare di conciliare la tendenza rivoluzionaria della povertà con lo sforzo riformistico della casistica: quello degli ordini mendicanti. Partiti da analoghi spunti, san Domenico e san Francesco pervengono per due strade diverse a risultati convergenti. Il castigliano Domenico di Calaruega, figlio di un ricco personaggio, nato al momento della costituzione dei comuni della Vecchia Castiglia, passato per la scuola di Palencia, dove verrà istituita la prima università spagnola, intraprende una tradizionale carriera di canonico. Ma, nel corso di viaggi, il contatto con le eresie della Linguadoca lo spinge ad abbracciare un apostolato che presenta aspetti originali. Praticando la povertà, egli porterà la predicazione ed aprirà contraddizioni tra gli eretici. Egli fonda a Prouille un convento femminile nel 1206 e, nel 1215, si stabilisce con sette confratelli in una casa di Tolosa. L'umbro Francesco d'Assisi, figlio di un mercante, dopo aver condotto la vita della gioventù dorata e aver preso parte alle lotte politiche e militari dei comuni italiani, si converte, cerca la solitudine e la povertà assoluta e con un piccolo gruppo di chierici e di laici intende offrire l'esempio della vita apostolica. Ma il quarto concilio del Laterano, nel 1215, vieta l'istituzione di nuove regole monastiche. Una lunga pazienza, da entrambe le parti, porta Domenico a fondare un ordine che adotta la regola di sant'Agostino e uno statuto simile a quello dei canonici premonstratensi, e Francesco, che pensava solo a una fraternità esemplare che raggruppasse chierici e laici, ad accettare un ordine per cui la curia romana lo costringe a rivedere una prima regola che, fittiziamente, risalirebbe a prima del 1215. Domenico muore tra i suoi confratelli a Bologna nel 1221; Francesco, dopo un ritiro in solitudine in cui riceve le stigmate, si spegne ad Assisi, alla Porziuncola, nel 1226. Le nuove comunità e il Papato si affrettano entrambi a fare dei fondatori dei santi. La canonizzazione di san Francesco ha luogo nel luglio del 1228; quella di san Domenico, nel luglio del 1234. I due ordini, diretti da un maestro (domenicano. o ministro (francescano. generale e da un capitolo generale, praticano la povertà ed operano attraverso la predicazione. I francescani, che insistono di più sulla prima, si chiamano frati minori; i domenicani, che si rifanno soprattutto alla seconda, si chiamano frati predicatori. Entrambi si impiantano nelle città, allargano la propria presa sulla società urbana, dando vita, accanto agli ordini dei frati e delle suore, a un Terzo Ordine costituito da laici. Entrambi (i francescani, sul modello di san Francesco, con maggiori riserve. basano la propria predicazione su una cultura solida acquisita nelle università, nelle quali alcuni di loro occupano specifiche cattedre di teologia. Entrambi, pur sottolineando il valore preminente della povertà, lavorano per fornire uno statuto spirituale alle nuove attività intellettuali, giuridiche, artigianali, commerciali. Nei sermoni rivolti alle varie categorie socio-professionali ("Sermones ad status"., nei manuali per confessori, nei quali si sviluppa la casistica, essi sostengono che qualunque mestiere svolto coscienziosamente può portare alla salvezza. Essi legittimano il profitto del mercante e, di conseguenza, alcune forme d'usura. Giustificando la pratica dell'usura da parte dei cristiani, mentre fin lì si tollerava fra gli Ebrei, essi testimoniano come la società cristiana - come ha sostenuto Benjamin Nelson - sia passata dalla concezione biblica di una fraternità tribale, chiusa in se stessa, alla nuova concezione di una società universale aperta verso gli altri. Dietro domenicani e francescani pullula, nel tredicesimo secolo, una serie di piccoli ordini mendicanti, uno dei quali, quello dei Sacchetti ("Saccati", così soprannominati per il

loro abito grossolano, simile a un sacco. arriva ben presto a comprendere più di cento conventi. I mendicanti, tuttavia, hanno nemici potenti, in primo luogo nel clero secolare, sconvolto da questo nuovo tipo di apostolato, colpito nei suoi interessi materiali e spirituali dal successo dei frati tra i fedeli (doni, eredità, sepoltura nei cimiteri degli ordini mendicanti. e gli studenti. L'attacco scagliato contro di essi nel secondo concilio di Lione (1274. fallisce nei confronti dei due ordini principali. Ma domenicani e francescani abbandonano la zavorra. Gli ordini mendicanti minori sono condannati a sparire. Due riescono a sopravvivere: i carmelitani e gli agostiniani. Questi quattro ordini costituiranno ormai una combinazione che darà l'impronta alle città cristiane del basso Medioevo. La presenza di conventi dei quattro ordini contraddistingue la grande città. Dalla metà del tredicesimo secolo, i capi degli ordini mendicanti sottolineano il legame profondo tra questi stessi ordini e la città. Il maestro generale dei domenicani, Umberto de Romans, vede nella città il luogo dei grandi raduni di gente, il terreno d'elezione per la lotta contro il peccato, il focolaio d'elaborazione delle idee, dei modelli che poi si affermano nelle campagne. Il maestro domenicano Alberto Magno, in una serie di sermoni pronunciati ad Augsburg nel 1257 o 1263, formula una teologia della città come modello morale, sociale, politico, estetico. I mendicanti, dei religiosi che non sono monaci, che non vivono nella solitudine ma a contatto con gli uomini, hanno rotto con l'idea di redenzione tramite la penitenza e i pianti. San Francesco chiede ai suoi frati di conservare sempre il viso allegro, gaio, sorridente. - La grande contestazione eretica. I domenicani e, nella loro maggioranza, i francescani sono rimasti all'interno della Chiesa e dell'ortodossia. Accanto ad essi, si sviluppa una grande contestazione eretica, che presenta aspetti molteplici, si incontra in tutti gli ambienti sociali, anche se prevalentemente tra gli strati popolari, si diffonde pressoch‚ in tutto il mondo cristiano, anche se le zone più toccate sono quelle di maggiore sviluppo urbano (Renania, Paesi Bassi, Italia settentrionale., che o presentano maggiori difficoltà ad adattarsi alla nuova economia e alla nuova mentalità (Linguadoca., oppure (e si trattava spesso delle stesse zone. si trovano lungo le principali vie di traffico. Due correnti principali possono, ad ogni modo, attirare soprattutto l'attenzione, grazie al numero dei loro aderenti, l'opinabilità della loro persistenza, la coerenza e la serietà della loro dottrina che, in un caso, minaccia l'ortodossia della Chiesa e, nell'altro, lo stesso cristianesimo in quanto tale. Questa seconda minaccia, la più grave per la cristianità romanica, fu costituita dal fenomeno cataro. Il catarismo riprende molte delle correnti ereticali manifestatesi a partire dall'undicesimo secolo: tendenza anticlericale e antisacramentale, tendenze ascetiche che rispettano tabù sessuali e alimentari, rifiuto del latino come lingua liturgica, aspirazione a un contatto personale con Dio, o tramite il verbo evangelico, o direttamente. Esso, tuttavia, si spinge più in là. Rifiutando il giuramento, mette in discussione uno dei princìpi basilari della società feudale. In particolare su due piani, quello istituzionale e quello della dottrina, esso si contrappone radicalmente al cattolicesimo. E' retto da una vera e propria organizzazione ecclesiastica, che implica una categoria inferiore di "fedeli", un clero di "perfetti" e di "vescovi". Poggia su di una credenza dualistica, l'esistenza di un principio del male e di un principio del bene in lotta continua e universale tra di loro, benché‚ nel pensiero della maggior parte dei catari il dio del male sia indubbiamente stato inferiore al dio del bene. Il Dio del "Vecchio Testamento", creatore della materia, può essere identificato con il principio del Male che si incarna nella Chiesa. I catari tengono raduni di insegnamento e di preghiera (ammettono solo un "Pater" lievemente modificato. e praticano una specie di battesimo, il "consolamentum", amministrato da un "perfetto" tramite l'imposizione delle mani.

Incapace di trionfare sul catarismo con mezzi normali, il papato organizzò contro i catari della Linguadoca una crociata che si concluse con la sconfitta degli eretici e del loro protettore politico, il conte di Tolosa, che fu costretto a firmare il trattato di Parigi (1229.. All'indomani della crociata, tuttavia, la Chiesa si rivelò nuovamente incapace di far scomparire l'eresia attraverso il normale apostolato o anche attraverso quello, nuovo ed eccezionale, della predicazione dei mendicanti. Il papato fece allora ricorso a una nuova forma di violenza: l'Inquisizione. In tutto il mondo cristiano vennero istituiti tribunali speciali (1232., direttamente dipendenti dalla Curia romana, diretti dagli ordini mendicanti, soprattutto dai domenicani. Essi avevano il compito di ricercare i sospetti di eresia, di fare un'inchiesta sul loro conto, interrogarli (a partire dal 1254 venne autorizzata la tortura., assolverli o condannarli e, nel caso non si piegassero, abbandonarli al braccio secolare, cioè al potere laico, che li avrebbe condannati al rogo. Numerosissime furono le incarcerazioni, frequenti le esecuzioni sul rogo. Il catarismo scomparve dalla Linguadoca, dalla Provenza e dall'Italia soltanto nel primo quarto del quattordicesimo secolo, meno del resto per i colpi dell'Inquisizione che non piuttosto per il fatto che era mutato il contesto sociale e politico che ne aveva favorito la diffusione. La seconda grande corrente eretica fu quella che si sviluppò attorno all'ansia di assoluta povertà e andò spesso insieme con delle idee millenaristiche più o meno riprese dai trattati composti da un cistercense calabrese, Gioacchino da Fiore. Questi distingueva tre periodi nella storia della salvezza. L'età del Padre, dominata dai laici, era quella della Legge e della materia. L'età del Figlio, che era quella in cui si trovava allora la cristianità, era un'età intermedia, retta dalla Chiesa. Questa sarebbe scomparsa per lasciar posto alla terza età, quella dello Spirito Santo, in cui si sarebbe instaurato il regno di un Vangelo eterno diffuso da un nuovo ordine monastico, l'ordine dei Giusti. La grande avversaria É la Chiesa e, all'interno della Chiesa, Roma. Esse incarnano la Bestia dell'Apocalisse, Babilonia, la grande prostituta. Parecchi francescani rigoristi, contrari all'evolvere dell'ordine verso un'istituzionalizzazione nel quadro delle strutture mondane, alimentarono le loro speranze di sogni gioachimiti. Nel 1254, uno di questi, Gerardo di Borgo San Donnino, nella sua "Introduzione al Vangelo eterno", identificò l'ordine francescano con l'ordine dei Giusti. Dal 1260 - anno che, secondo certe profezie, avrebbe dovuto segnare l'ingresso nella terza età - al 1262, processioni di penitenti che si abbandonavano alla flagellazione percorsero l'Italia e le terre di Germania. In occasione della Peste Nera, nel 1348-1349, si sarebbero rivisti coloro che Norman Cohn ha chiamato un'‚lite di redentori sacrificali. Tali passioni millenaristiche, talvolta mantenute nell'ambito della Chiesa, il più delle volte spinte fino all'eresia, animarono dei gruppi di eretici laici, soprattutto nei Paesi Bassi e nei territori germanici (fratelli e sorelle del Libero Spirito, sciolti da qualsiasi legame con la Chiesa, beghine e begardi che fiorivano ai margini dell'ortodossia., e dei gruppi francescani rigoristi o eterodossi, specie in Provenza e in Italia: "spirituali", guidati da Pietro Olivi (1248-1298. e Ubertino da Casale (verso il 1260-1328.; "fraticelli", scismatici capeggiati da Angelo Clareno (1247-1337.. Crociata contro gli Albigesi e Inquisizione mettono in evidenza la frattura interna alla cristianità gotica e l'incapacità della Chiesa, persino in un'epoca di adattamento e di apertura, a sfuggire all'integralismo cristiano. Contemporaneamente, la società cristiana inaspriva il proprio atteggiamento nei confronti di altri reietti: lebbrosi ed Ebrei. Se il bacio al lebbroso rimaneva il simbolo di un elevato ascetismo (o penitenza?. - si pensi a san Francesco d'Assisi o a san Luigi -, i lebbrosi erano sempre più obbligati alla reclusione nei lazzaretti, a portare obbligatoriamente la raganella, a restare fuori dalle città. Quanto agli Ebrei, in un periodo di piena rinascita spirituale ( movimenti sefardita, della kabhala, ashkenazi, hassidim., essi sono costretti, dopo il quarto concilio del Laterano (1215., a portare un abito speciale (un pezzo di stoffa rotondo cucito davanti e cappello a punta..

Fanno la loro comparsa i ghetti: Filippo il Bello ne crea uno, il primo, per gli Ebrei della zona di NŒmes, nel 1294. - La monarchia pontificia. Il papato della seconda metà del dodicesimo secolo aveva provocato e vinto due scontri con il potere temporale: contro l'imperatore Federico Barbarossa (trattato di Venezia, 1177. - ma si trattava piuttosto del potere temporale in Italia che non di un principio generale di autorità, e i veri vincitori erano i comuni lombardi -; contro Enrico Secondo d'Inghilterra all'indomani dell'assassinio di Thomas Becket (1170. - ma il fatto di aver accettato anche lui la sua Canossa consente al re di mantenere in parte la Chiesa d'Inghilterra sotto la sua tutela. Mentre fanno la loro comparsa, nel 1160, il termine e il concetto di Chiesa militante, emersa dalle lotte che la Chiesa doveva affrontare contro l'eresia e contro l'islam, e mentre la tradizionale antitesi città terrena - città celeste tende a identificarsi con il nuovo binomio Chiesa militante - Chiesa trionfante, l'ecclesiologia del tredicesimo secolo fa passare in primo piano l'idea della Chiesa come un corpo, che implica unità e ordine. Nel corpo ecclesiastico, come in ogni corpo, l'essenziale, per i maestri del tredicesimo secolo, É la testa. Sul piano dottrinale, in questo modo si giustifica la monarchia pontificia. Essa tendeva a concretizzarsi nella pratica; meno nell'atteggiamento nei confronti dei prìncipi mondani che non nell'istituzione ecclesiastica in quanto tale. La fama di Innocenzo Terzo può trarre in inganno. Egli non spinge troppo lontano le pretese pontificie in materia temporale. Da un lato, egli si limita ad approfittare della sudditanza puramente feudale di certi Stati nei confronti della Santa Sede - Sicilia, Aragona, Ungheria -; dall'altro, fa un uso cauto del concetto di diritto di intervento del papa laddove esista peccato, "ratione peccati" (i contrasti con Filippo Augusto e Giovanni Senza Terra non sono stati aspri sul piano dottrinale.. Quanto alla realizzazione della "plenitudo potestatis" all'interno della Chiesa, essa viene limitata, sotto il suo pontificato, dalla ristrettezza di mezzi. Gli strumenti materiali per il governo monarchico della Chiesa si vanno precisando nel corso del tredicesimo secolo. Il papato espresse il proprio potere legislativo in materia di diritto canonico: cinque libri di "Decretali" di Gregorio Nono nel 1234, che furono poi integrati dal "Sextus" di Bonifacio Ottavo, dalle "Clementinae" ed "Extravagantes" di Clemente Quinto e di Giovanni Ventiduesimo all'inizio del quattordicesimo secolo. Esso istituzionalizzò il proprio potere giudiziario istituendo il tribunale della Rota sotto Urbano Quarto (1261-1264.. Il papato reperì dei fondi stabilendo delle imposte per la crociata (decime, a partire dal 1228. e una tassa sul clero (regolarizzata da Nicola Quarto nel 1291.. Stabilì la sua influenza finanziaria e politica sulla Chiesa attraverso il sistema della riserva dei benefici (vescovati e benefici maggiori, alla fine riservati tutti alla Santa Sede verso il 1305 da Clemente Quinto; riserva di benefici minori, i cui titolari fossero morti, alla Curia romana, ad opera di Clemente Quarto nel 1265.. I cardinali, ormai dotati del cappello rosso, aiutano in misura crescente il papa nell'esercizio del governo. Questa centralizzazione monarchica comporta un notevole incremento della burocrazia romana, che appesantisce il papato ma insieme lo consolida. Tuttavia, sul piano temporale, la situazione non era poi così brillante. Innocenzo Quarto (1243-1254. si era esaurito e screditato nello scontro con Federico Secondo. Clemente Quarto (1265-1268. si compromette, diventando uno strumento della politica italiana e mediterranea nelle mani di Carlo d'Angiò. Bonifacio Ottavo (1294- 1303., nell'intento di richiamare con formule ad effetto (essere sottomessi al romano pontefice resta per qualsiasi creatura indispensabile per la salvezza. la superiorità spirituale della Santa Sede, urta contro lo scoglio di Filippo il Bello. All'inizio del quattordicesimo secolo, la situazione, sul piano temporale, É chiara per il mondo cristiano d'Occidente. Dei due poteri che rivendicano in materia una suprema autorità in nome di Dio, l'uno, quello imperiale, non si ristabilirà mai dopo il Grande Interregno, l'altro, quello pontificio, non si riprenderà più dopo il colpo di Anagni (1303..

La cristianità, rispetto al potere temporale, É sconsacrata. - Sapere e potere universitario. Un nuovo potere si manifesta nel mondo cristiano del tredicesimo secolo. Accanto al Sacerdozio e al Regno, il Sapere: "Sacerdotium", "Regnum" (o "Imperium"., "Studium". "Studium" indica una forma nuova di sapere, il sapere universitario. Esso viene dispensato in alcuni centri: Bologna, Montpellier, Parigi, Oxford, Cambridge, Tolosa, Palencia, Salamanca, Coimbra, Padova, Pavia, Siena, la Curia romana e, alla dipendenza stretta di Federico Secondo, Napoli. Si tratta di un campo riservato agli specialisti, ai professionisti, maestri e studenti, che costituiscono una corporazione, "universitas", che gode di suoi specifici privilegi, di sue libertà. Questo sapere ha una funzione sociale non meno che intellettuale: formare i quadri dei nuovi Stati, dei nuovi corpi politici, in primo luogo quelli del papato e della Chiesa. Le università sono dei vivai di alti funzionari ecclesiastici e civili. E' una questione che riguarda la Chiesa. Anche gli universitari sono dei chierici. L'università ha un proprio metodo, la scolastica, una forma razionale di pensiero che viene elaborata consapevolmente e volontariamente partendo da un libro che si ritiene faccia testo (M. D. Chenu.. Lo strumento, quindi, É il libro, che assume gradatamente valore profano diventando uno strumento di lavoro. L'università ha una propria gerarchia nell'ordine delle varie discipline. Alla base, stanno le vecchie arti liberali, l'insegnamento generale delle lettere e delle scienze, i cui maestri e studenti, artisti della facoltà delle Arti, sono i più irrequieti, i più esigenti. In cima sta la teologia, divenuta anch'essa una scienza. Un po' al margine, le discipline che arrecano lucro, pronte a divenire scienza profana: la medicina e soprattutto il diritto. Il diritto invade tutto: diritto civile, diritto canonico, chiavi del potere politico. Il cristianesimo si copre di veste legale. La casistica rende umani, ma porta a un livello terra terra. Il sapere universitario immette nel mondo cristiano un sistema promozionale fin qui ignoto all'Occidente: l'esame. Certo, i figli della nobiltà o della borghesia hanno più carte di quelli dei contadini o degli artigiani se vogliono diventare degli universitari. Ma, ben presto, un sistema di collegi, di borse di studio, consente l'ascesa sociale di alcuni "pauperes scolares". Anche all'università, esser poveri non costituisce una colpa. Ha cominciato a funzionare una valvola di compensazione. Sapere prevalentemente formale, l'insegnamento universitario non É indifferente rispetto al contenuto. Grosse dispute si accendono sugli autori in programma. Nel tredicesimo secolo c'É una richiesta pressoch‚ generale: Aristotele, solo Aristotele. Ma la Chiesa vigila, accorda un brano di Aristotele, lo rifiuta, lo lascia passare, lo ammette qui e lo vieta là. Egli svolge alla fine il suo ruolo, che É permettere nel modo migliore di realizzare quell'equilibrio intellettuale cui questo secolo aspira: l'equilibrio della ragione e della fede. Sono in molti, e fra questi parecchi importanti, a ricercarlo per strade diverse: un po' più agostiniani presso il francescano Bonaventura, un po' più scientifici presso gli inglesi Grossatesta, con il pallino della matematica, e Ruggero Bacone, affascinato dall'esperienza, naturalisti soprattutto presso il domenicano Alberto Magno. Nessuno meglio del domenicano italiano Tommaso d'Aquino, professore a Parigi e, soprattutto, a Napoli e Roma, riuscì a realizzare tale disegno - in parte anche grazie ad Aristotele. Un esempio delle implicazioni dello spirito razionalistico del tomismo É dato dalla sua influenza in fatto di esegesi biblica. L'accento calcato sull'interpretazione letterale della Scrittura comportò un interesse per lo studio dell'ebraico e una rottura tra la teologia e l'esegesi (R.

M. Grant.. Certi, però, vogliono andare oltre questo punto di equilibrio, ricercare una verità specifica del mondo della ragione, essere filosofi più che teologi, praticare una virtù suprema, ben lontana dall'umiltà cristiana, la magnanimità. Due esponenti insigni a Parigi: Sigieri di Brabante, Boezio di Dacia. Altri ardimentosi spiriti si agitano nel mondo universitario. In questo secolo, l'Inquisizione, la Chiesa, veglia. A Parigi, principale centro della produzione intellettuale, fucina di novità filosofiche, il colpo arriva tra il 1270 e il 1277. Il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, condanna indistintamente materialisti, aristotelici, averroisti, epicurei, miscredenti... Le affermazioni che egli cataloga in un sillabo medievale sono state veramente professate? L'ignoranza, l'evidente malafede di Tempier e dei suoi consiglieri incoraggia il dubbio. Se ha detto il vero, a Parigi tra il 1270-1277 c'erano già le premesse delle moderne inquietudini. Se ha esagerato di molto, ha favorito senza volerlo il progresso intellettuale. Arginato il tomismo, le università, dopo il 1277, cercheranno strade diverse dall'aristotelismo. Se ci rimetterà la filosofia, ci guadagnerà la scienza, la quale progredirà nel quattordicesimo secolo in larga misura proprio in quanto antiaristotelica o non aristotelica. La religione ne trarrà scarso vantaggio. I censori, alla lunga, sono perdenti. - Cristianesimo e ordine gotico. Erwin Panofsky ha sostenuto brillantemente la tesi secondo la quale scolastica ed arte gotica procedono nello stesso spirito, costruiscono con gli stessi metodi, seguono gli stessi orientamenti. Le somme teologiche, cattedrali dello spirito? In questa forma banale, l'accostamento É deludente. Altre considerazioni, però, possono portare a capire come il gotico rechi testimonianza degli sviluppi del cristianesimo. In primo luogo, soprattutto in architettura, esso consiste in una messa in opera organica. Come la Chiesa ideale costituisce un corpo, la chiesa materiale É un'entità organizzata. Essa esprime quello spirito comunitario che Pierre Michaud-Quantin ha dimostrato presente nel linguaggio, nelle istituzioni, nei modi di pensare del tredicesimo secolo. Nel diritto romano, le istituzioni ecclesiastiche, i fenomeni urbani, la vita economica e sociale, il gruppo compatto e organizzato costituiscono i tratti emergenti: "collegium, congregatio, conventus, conjuratio, concilium, communio, communa, commenitas, confraternitas"... E, a coronamento di tutto, "universitas": del pari, l'architettura gotica consiste, innanzitutto, nella cattedrale. Sono inoltre significativi: il carattere didascalico e narrativo di quest'arte - soprattutto nella pittura e nella scultura. Storia del Cristo, della Vergine, dei santi. Enciclopedia della natura, del sapere, dei mestieri. Emile Male aveva giustamente colto questa tendenza dell'iconografia gotica. Gli sviluppi delle tematiche. Il Cristo, da maestoso si fa sofferente, senza per questo cessare di essere regale. Un modello esprime questa fusione della sofferenza e della maestà: il Cristo in croce incoronato. La Vergine, sposa e madre contemporaneamente, incoronata dal Cristo. Il fanciullo che si emancipa, l'angelo che sorride. Una preoccupazione estetica immediata: il Bel Dio. La ricerca di proporzioni fedeli, del realismo, senza riferimento simbolico o sacro, benché‚ il simbolismo tipologico in cui il "Vecchio Testamento" preannuncia il "Nuovo" costituisca anch'esso, dopo Saint- Denis e Suger, una dimensione del gotico.

La promozione - attraverso la vetrata o la scultura - delle tecniche e dei mestieri si fa strada all'interno del santuario. Lo spirito giuridico trasforma l'atmosfera del Giudizio finale, che diventa processo, non sentenza. N‚ vanno dimenticati i risvegli, le sopravvivenze del romanico - mostri, bizzarrie, incubi - all'interno di quest'arte gioiosa: Jorge Baltrusaitis ha rivelato questi sogni, questi deliri gotici. Dunque, svalutazione dell'elemento teologico e di quello mitico a vantaggio di quello descrittivo e moralistico. Questo vale a maggior ragione nella letteratura, dove, in latino come nelle lingue volgari sempre più diffuse, le preoccupazioni morali invadono tutto, il sermone con le sue storie edificanti, gli esempi, il romanzo, la poesia. La "Bibbia" diviene un intreccio di aneddoti: una "Bibbia" in chiave moralistica. Enciclopedica ed edificante, al tempo stesso democratizzata, la letteratura gotica si esprime in modo eccellente nella volgarizzazione. Due grandi successi, in materia, dovuti ai domenicani: gli "Specula" di Vincenzo de Beauvais, della cerchia di san Luigi; la "Legenda aurea", di Jacopo da Varazze, genovese, un piccolo saggio dell'agiografia, dove i santi passano di aneddoto in aneddoto, dove i miracoli vengono visti in chiave morale. Un santo appare come colui che sintetizza ed esprime il suo secolo: san Luigi, una incarnazione monarchica del perfetto cristiano del periodo gotico. Anche lui É protagonista di piccole storie - graziose, poich‚ sono di Joinville. Arte volgarizzatrice, il gotico É anche un'arte aperta e luminosa. Vedervi, oltre la concretezza artistica, un fenomeno di sensibilità significa, così si potrebbe pensare, scambiare una metafora per una spiegazione. Eppure, É proprio così. Il cristianesimo É meno pesante, meno opprimente. La liturgia si fa più limpida, la musica polifonica fa trasalire l'anima, il culto eucaristico - che s'impoverisce dal punto di vista del rito (i fedeli non prendono più la comunione sotto le due specie. - si arricchisce dal punto di vista della devozione (con l'insistenza sulla transustanziazione e con la pratica dell'elevazione.. Il "Corpus Domini", la festa istituita da Urbano Quarto nel 1264, si celebra dovunque nel quattordicesimo secolo. La confessione auricolare, obbligatoria almeno una volta l'anno dal 1215, offre sfoghi alle coscienze. Il rosario rende automatica, ma popolare, la preghiera. Il presepio rende più scialba la liturgia del Natale, ma questa diventa più familiare. Il teatro esce dalla Chiesa sulla pubblica piazza. Quando il cammino verso la luce diventa sublime, siamo alla "Divina Commedia" di Dante, rivolta, va detto, più al passato che all'avvenire, l'ultima grande sintesi del Medioevo. Dopo, si troverà ormai solamente un cristianesimo frammentato. - Laicizzazione e aggiornamento. Dal pensiero politico alla vita quotidiana, l'esistenza del cristiano assume una dimensione laica. Si amplia una parte dell'esistenza nella quale il riferimento a Dio non É n‚ immediato n‚ costante. Si comincia a misurare il tempo al suono di campane laiche, in attesa degli orologi che segnano le ore tutte eguali e che non tarderanno a fare la loro comparsa. L'uomo comincia a contare, cosa che, fin lì, non faceva piacere a Dio; all'inizio del quattordicesimo secolo si moltiplicano i censimenti, in relazione alle scadenze fiscali. L'uomo comincia a misurare lo spazio: fornito di bussola, di timone, di carte più dettagliate, non lascia più alla sola Provvidenza il compito di guidarlo. Egli comincia a guardare con i propri occhi e non con quelli di Dio: per vederci meglio, inventa gli occhiali, intorno al 1300. Non bisogna con questo pensare che la Chiesa abbandoni l'esistenza quotidiana. Essa, al contrario, si preoccupa di adeguarsi ai nuovi bisogni del cristiano. Nel corso di questo periodo, una serie di concili ecumenici passano in rassegna i problemi della cristianità. Sulle questioni apparentemente più importanti, ma insolute o già risolte: la crociata, la lotta contro l'imperatore, l'Unione delle Chiese, essa fallisce. In compenso, il terzo (1179. e il quarto (1215. concilio del Laterano, il primo (1245. e il secondo (1274. concilio di Lione, il concilio di Vienne (1311. riassestano felicemente la vita

della Chiesa e dei fedeli in materia di insegnamento, di confessione, di giustizia (divieto delle ordalie., di matrimonio (maggior duttilità sulla consanguineità.. Essi, però, mancano completamente il problema della riforma della Chiesa, che resta sempre all'ordine del giorno e, presentandosi come aggiornamento continuo, dimostra come, ben lungi dal guidare la cristianità, la Chiesa si affanni a cercare di rincorrerla. A dire il vero, essa É sfuggita alla grande tentazione reazionaria. Nel 1294, in un momento di distrazione, il collegio dei cardinali elesse papa un eremita calabrese, Pietro da Morrone, che prese il nome di Celestino Quinto. Sembrò che si stesse per realizzare quel che aveva predicato Gioacchino da Fiore e che, come ha scritto Eugenio Frugoni, l'"Ecclesia spiritualis" fosse destinata a trionfare sull'"Ecclesia carnalis". Ma i cardinali dovettero ricredersi dopo appena quattro mesi. Si fece capire a Celestino Quinto che un eremita era fuori posto sul trono di Pietro. Egli abdicò, per ritornare al suo eremitaggio. Gliene fornirono un altro, la prigione, dove egli sarebbe morto di lì a poco. Il gran rifiuto di Celestino Quinto rappresenta l'addio della Chiesa medievale all'utopia gioachimita, la sua rassegnazione a sostituire l'eternità con il futuro. 7. IL CRISTIANESIMO NELL'AUTUNNO DEL MEDIOEVO (1311-1500.. "Quando l'uomo desidera smodatamente qualcosa, ben presto l'inquietudine si produce dentro di lui". ("L'imitazione di Cristo", I, 6. - L'esilio li Avignone. L'autunno della Chiesa medievale comincia con l'esilio del papato ad Avignone. Una serie di coincidenze casuali portano prima Clemente Quinto, poi il successore, Giovanni Ventiduesimo, a stabilire la loro sede ad Avignone. Gli avvenimenti italiani, con il ghibellinismo acceso da Luigi di Baviera che solleva una parte degli Stati Pontifici contro Giovanni Ventiduesimo, prolungano il soggiorno avignonese. D'altro canto, Avignone É molto meglio collocata che non Roma rispetto alla cristianità nel suo complesso. Allorch‚ Benedetto Dodicesimo vi fa costruire, a partire dal 1336, un palazzo adeguato alle esigenze dell'amministrazione pontificia, che non si adatta più n‚ alla precarietà n‚ alla ristrettezza, questo aggancio materiale contribuisce a trattenere i pontefici ad Avignone. Una parte dell'opinione cristiana nel quattordicesimo secolo e, di conseguenza, un filone storiografico, hanno considerato il soggiorno avignonese dei papi (1309-1377. come un esilio, una cattività babilonese, una delle ragioni del discredito del papato alla vigilia della Riforma. E' vero che alcune voci autorevoli supplicarono o intimarono, nel quattordicesimo secolo, al papato di ritornare a Roma. E' il caso del Petrarca e di due figure mistiche femminili: santa Brigida, svedese, fondatrice dell'ordine femminile del Salvatore, stabilitasi a Roma dove proclamava le sue profezie; santa Caterina da Siena, terziaria di san Domenico, una visionaria anch'essa, la cui popolarità era grandissima in Italia. Il papa era il vescovo di Roma. Il fatto di non risiedervi costituiva un cattivo esempio per gli altri vescovi. Roma era a un tempo capitale del mondo e, data la memoria di san Pietro, della Chiesa. Il successo dei giubilei del 1300 e del 1350 aveva manifestato l'importanza di un rapporto stretto tra il papato e la città eterna. Più dei rimproveri di alcuni personaggi, per eminenti che fossero, e dell'attrazione degli Stati Pontifici, fu un certo modello ideale di Roma diffuso negli animi che fece sentire ai papi come un esilio il soggiorno di Avignone e li indusse alla fine a rientrare a Roma. Si spiega, così, come il periodo avignonese abbia contribuito ad indebolire l'immagine del papato. Eppure, quel che venne rimproverato al papato avignonese -al di là del fatto stesso della residenza - sono certi aspetti che esso avrebbe manifestati dovunque si fosse trovato e che, in effetti, manifestò in seguito in Roma: l'abuso del sistema delle imposte, una centralizzazione esasperata, delle forme sfarzose. La subordinazione ad influenze francesi - la maggior parte dei cardinali di Avignone sono stati dei francesi - aggravò questi motivi di risentimento.

Il fiscalismo pontificio si accrebbe tanto più in quanto gli Stati Pontifici, travolti dalla guerra, non versavano quasi più nulla e lo stesso protrarsi della guerra costava considerevolmente. Il censo dei regni vassalli, il denaro di San Pietro, i diritti di cancelleria e per gli atti giudiziari costituivano una parte con incidenza sempre minore delle rendite pontificie rispetto alle tasse sui benefici. Complessivamente, i papi erano al quarto posto nella scala dei redditi principeschi del mondo cristiano, dopo i re di Francia, d'Inghilterra e di Napoli. Il fatto più grave É il modo in cui queste tasse venivano prelevate. Gli incaricati della riscossione si comportavano, in genere, senza alcun riguardo e abusavano delle armi spirituali per fini fiscali: scomunica, interdetto, rifiuto della sepoltura ecclesiastica. Ora, le esigenze aumentavano, mentre la recessione economica, il calo demografico, il salasso crescente delle tasse regie e principesche riducevano le possibilità delle chiese. La peste nera del 1348 apparve agli occhi di molti come una punizione dei peccati dei pontefici. La camera apostolica, che aveva il controllo delle finanze, la cancelleria che si occupava della corrispondenza sempre più voluminosa, la penitenzieria apostolica che esercitava la facoltà di assolvere che spettava al pontefice, la Rota, la zecca e lo "studium" che si occupavano della giustizia, della moneta e dell'insegnamento della Curia, l'alloggio del papa, in tutto simile a quello dei prìncipi contemporanei tranne che, accanto alla normale abitazione, erano particolarmente sviluppate la cappella e la cappellania, e per finire il corpo di polizia (il papa disponeva di cento, centocinquanta tra portieri, sergenti e scudieri.: tutta questa corte destinata al governo, al servizio e al lustro del papato, contava parecchie centinaia di persone. Anche qui, il male É che questa gente prestava il fianco alle critiche, soprattutto ai livelli più alti. I cardinali, parecchi dei quali appartenevano alle famiglie dei papi che svilupparono una politica fortemente nepotista, erano spesso assetati di potere, di denaro, di prestigio. Essi si raggruppavano in clanè si perdevano in tutta una serie di intrighi. Lo splendore della corte di Avignone fu, poi, particolarmente sfarzoso. Certamente, alcuni papi, come ad esempio Benedetto Dodicesimo o Urbano Quinto, conservarono abitudini severe, ma la maggior parte furono dei sovrani fastosi, soprattutto Clemente Sesto, dissoluto al massimo, il cui motto era: Prodigare i benefici e prodigare le spese. La costruzione e la decorazione del Palazzo dei papi, il tenore di vita dei cardinali crearono in Avignone, un piccolo centro in cui tutto questo lusso risultava più visibile e più sconvolgente che non a Roma, un'atmosfera di munificenza che non giovò al prestigio del papato. Le operazioni finanziarie della Curia, le esigenze dei papi, dei cardinali e dei prelati trasformarono Avignone in un grosso centro finanziario, dove si insediarono numerose compagnie commerciali, dove la banca e il cambio vennero praticati su larga scala. Un tanfo di danaro, d'usura e d'affarismo contribuì a deteriorare ulteriormente l'atmosfera della Curia. Il peggio, in definitiva, fu che il papato non si distinse più da una corte laica. I fraticelli e gli altri eretici ebbero un ottimo pretesto per denunciare più che mai in esso la meretrice scarlatta di Babilonia. - Il grande scisma. Prove ancora più grandi attendevano il papato: il Grande Scisma. Per quarant'anni (dal 1378 al 1417. il papato fu diviso e dilaniato tra due e, a volte, tre papi. In teoria, ogni papa nominava titolari per ciascun beneficio, che avrebbe così dovuto essere occupato da due concorrenti. Di fatto, dal momento che ogni principe si pronunciò in favore della sottomissione a uno dei pontefici rivali, solamente il papa prescelto poteva provvedere alle cariche dello Stato in questione. Ma non sempre i prìncipi osservarono costantemente l'obbedienza al medesimo pontefice, per cui questi riconoscimenti tolti e passati all'altro papa complicarono notevolmente la situazione. Per uscire fuori dallo scisma, la Chiesa fece ricorso al concilio. Il concilio di Pisa (1409. fallì e diede vita a tre papi.

Quello di Costanza (1414-1418. riuscì, dopo molto tempo, a por fine allo scisma e, l'11 novembre 1417, elesse un pontefice, di nuovo un unico pontefice, nella persona di Martino Quinto. Per la Chiesa e il papato la crisi era stata grave, anche se la concorrenza tra i papi rivali aveva provocato un'emulazione non sempre dannosa ai fini religiosi. Due pericoli più grandi, tuttavia, avevano dilaniato il papato. Il primo consistette nel fatto che si sarebbe potuto lasciar pensare a un'inutilità dell'istituzione. Nel complesso, questo non si verificò. In tutti gli strati della società cristiana si deplorò lo scisma e si auspicò il ritorno a una Chiesa con un unico capo. Tuttavia, si sentiva dire da alcuni, ad esempio da uno dei portavoce dell'università di Parigi: Poco importa quanti siano i papi, se due, tre o dieci, o dodici; ogni regno potrebbe avere il proprio. In realtà, l'università di Parigi fu una delle istituzioni che ricercarono con maggior fervore una soluzione per porre fine allo scisma e questo ha consentito di affermare che essa organizzò una specie di referendum che contò più di diecimila risposte. Il secondo pericolo - il maggiore - fu che il concilio apparve a molti come il mezzo migliore per governare la Chiesa e che si formò una teoria conciliare per giustificare, se non la sostituzione del pontefice da parte del concilio, almeno la limitazione del suo potere attraverso il ricorso al concilio. Contrariamente a quanto era accaduto nel tredicesimo secolo, in cui, rispetto al corpo ecclesiastico, l'accento era stato posto sul capo, ora si insisteva sulle membra. Una situazione singolare si verificò dal 26 luglio all'11 novembre del 1417. Per tre mesi e mezzo la Chiesa fu retta dal concilio in assenza di un papa. Si concretizzava una delle idee dei conciliaristi: In assenza di un papa riconosciuto, la Chiesa universale rimane integra. Yves Congar ha sottolineato come a Pisa, Costanza e Basilea fosse costantemente ricorsa l'espressione: concilium universalem ecclesiam repraesentans (il concilio che rappresenta la Chiesa universale.. Il concilio, dunque, É l'"Ecclesia". E l'espressione evangelica (Matteo XVIII, 17. dic ecclesiae (dillo alla Chiesa., diventa dic concilio (dillo al concilio., laddove Innocenzo Terzo aveva interpretato in un suo decretale questa espressione nel senso di sottomettilo al giudizio del papa. Prendeva, dunque, corpo una Chiesa che non derivava dal papa, come quella dei gregoriani e degli ierocrati, ma che costituiva essa stessa la realtà e il concetto di base, in dipendenza dal suo capo infallibile, il Cristo. Il concilio di Costanza, tuttavia, non osò affrontare la Riforma della Chiesa da solo, prima di aver eletto un papa. Esso si limitò, il 9 ottobre 1417, a proclamare cinque decreti di riforma, i due più importanti dei quali decidevano: uno, la periodicità del concilio (entro cinque anni, poi entro sette e, in seguito, ogni dieci anni. e l'altro, la riunione assolutamente legittima del concilio e la sospensione automatica di tutti i papi nel caso di un nuovo scisma. Appena eletto, Martino Quinto fece ciò che facevano tutti i prìncipi del suo tempo: cercare di sbarazzarsi di tutti gli ostacoli frapposti durante il periodo di crisi al potere monarchico, distruggere le forme di monarchia costituzionale istituitesi nel frattempo. Egli accettò una limitazione del potere pontificio solo nel conferimento dei benefici e nel prelievo delle imposte. Alla fine del concilio, egli fece una dichiarazione ambigua, destinata a consentirgli di sbarazzarsi delle decisioni del concilio, qualora lo avesse ritenuto opportuno.

Regolarmente convocato da Martino Quinto nel 1423, il concilio vide lo svolgimento dei suoi lavori ostacolato dall'assenteismo dei vescovi e dalla peste. Il concilio successivo venne riunito da Eugenio Quarto a Basilea nel 1431. Esso entrò quasi subito in conflitto con il papa. Per quasi vent'anni, la lotta si protrasse, con la parte intransigente del concilio che rimase a Basilea, eleggendo un antipapa e impantanandosi, mentre la frazione moderata veniva trasferita dal papa a Ferrara, poi a Firenze e, infine, in Laterano. Nonostante un quinto concilio si riunisse in Laterano nel 1512 e il concilio di Trento abbia dovuto elaborare, dal 1545 al 1563, una Controriforma, si può pensare che il conciliarismo sia morto verso la metà del quindicesimo secolo.

Si É rimproverato al papato di aver sabotato l'istituto conciliare e di essersi in tal modo privato della migliore carta per evitare la Riforma. Si tratta di una supposizione che É impossibile verificare. Tuttavia, É legittimo dubitare della sua pertinenza, se si osserva come nessuna istituzione rappresentativa sia riuscita ad imporsi in quel momento nel mondo cristiano. Altrettanto accadde per quanto riguarda la monarchia pontificia. - Devotio moderna e devozioni nuove. Papato e concilio, nonostante tutto, sono ancora due aspetti formali; quel che importa É riuscire a cogliere la vita più profonda dei cristiani. Studiando la vita parrocchiale nella Francia del quattordicesimo secolo, Paul Adam ne ha tracciato un quadro pessimistico, pur cogliendo dei segni di vitalità. Egli insiste sulla desolazione delle chiese a causa della guerra, delle epidemie, delle violenze di ogni genere. Il potere temporale delle chiese É in parte andato in rovina. Egli, però, nota anche le carenze del clero: ignoranza e immoralità del basso clero, incuria dei vescovi, e si sofferma sull'azione a suo avviso deleteria dei religiosi, soprattutto degli ordini mendicanti, che, costituendo una specie di clero parallelo, mettono in ombra il ruolo dei curati e disgregano la vita della parrocchia. Egli osserva, infine, i cedimenti dei fedeli nella pratica. Se guardiamo le cose dall'alto, quel che soprattutto colpisce É la rottura dell'equilibrio tra la fede e la ragione. Ne risulta lo sviluppo di un fideismo che cade facilmente nell'anarchia o nell'arbitrario, l'approfondirsi dello scollamento tra la devozione di un'elite e la fede degli umili, il formarsi di un terreno ideale per le inquietudini e il disordine. Un fideismo che si erge a dottrina. Per diverse che siano, le teologie di un Ockham, di un Duns Scoto, Bradwardine costringono l'uomo ad operare un salto per raggiungere Dio ed eliminano tutto ciò che potrebbe limitarne la volontà. Gordon Leff ha osservato quanto questi sistemi favoriscano lo sviluppo della "virtus" individuale, lo scatenarsi delle passioni. Condottieri e tiranni possono più facilmente di quel che non si creda combinare insieme la loro rabbia e la fede cristiana. Un'‚lite di devoti si distacca dalla massa dei cristiani; ad esempio, all'inizio del quattordicesimo secolo, i mistici tedeschi, attorno a nomi insigni quali Meister Eckhart (m. verso il 1382., Tauler (m. nel 1361., Suso (m. nel 1366.. La loro fede culmina nell'indescrivibile. Il Dio senza nome - dice Eckhart - É ineffabile, e l'anima, nel suo fondo, É altrettanto ineffabile. Sarà questa, alla fine del quattordicesimo secolo, la via della "devotio moderna. Ruysbroek" (m. nel 1381. e la comunità di Groenendale, Geert Groote (m. nel 1384. e la fraternità dei Fratelli della vita comune di Deventer, preparano il terreno all'"Imitazione di Cristo" (1424-1427. Questa versione medievale dell'"Ecclesiaste", questo lamento dell'anima individuale che grida la propria miseria e la propria infermità a Dio, ha conosciuto un successo straordinario. L'incontro dell'anima con Dio che si produce nell'intimo della coscienza individuale É alla portata di qualunque condizione e, soprattutto, del laico devoto, aristocratico della pietà: se, dopo un Gersonè un dotto universale quale il cardinale Niccolò Cusano ostenta in parte una religione della dotta ignoranza, una devozione semplice e pura può animare una Giovanna d'Arco, certamente eccezionale, in ogni caso incomprensibile agli occhi dei chierici, che la giudicano secondo gli schemi di una religione dottrinaria, dogmatica e sclerotizzata. In compenso, l'elemento popolare (e può anche trattarsi di un personaggio elevato - si pensi alle superstizioni di un Luigi Undicesimo. sembra affondare nel sottofondo religioso. Certamente, dei predicatori sfruttano per questo dei manuali pieni di allegorie, di storielle e di ricette mnemoniche e pratiche quali la "Bibbia dei poveri" e lo "Specchio della salvezza". Alcuni predicatori popolari, che in genere appartengono agli ordini mendicanti, il catalano Vincenzo Ferreri (m.

nel 1419., il toscano Bernardino da Siena (m. nel 1444., ricorrono agli effetti più grezzi, alle forme di devozione più meccaniche (quelle del nome di Gesù, per esempio., alla taumaturgia più demagogica per conquistare il volgo. Essi non fanno altro che alimentare un clima favorevole a una serie di superstizioni che con il cristianesimo hanno ben poco a che fare. L'autunno del Medioevo vede dischiudersi la grande epoca della stregoneria. Il diavolo guida la danza tra i posseduti e i loro persecutori. Si scatenano baraonda e repressione. Quando la scomparsa delle eresie gli avevano ormai tolto lavoro, gli inquisitori ritornano a caccia di streghe. In tutti - ricchi e poveri, devoti e semplici credenti - si manifesta un atteggiamento nuovo verso la morte. La morte fisica assilla l'immaginazione. L'immagine del corpo aggredito dalla putrefazione, dello scheletro, si diffonde nell'arte. Il principale problema della vita diventa quello di prepararsi alla morte. Una serie di incisioni, fin dai primi tempi della stampa, conosce un successo notevole: l'"Ars moriendi", l'Arte di morire. Quest'arte si sviluppa parallelamente al tema della danza macabra, cui, in qualche modo, costituisce una risposta. L'uomo si prepara affinché‚ l'ineluttabile danza lo conduca in paradiso e non all'inferno. L'uomo di prima del quindicesimo secolo temeva meno la morte dell'inferno. Ormai, la preoccupazione si fissa sul momento del trapasso. Il fatto É che, pur esitando ancora ad esprimersi chiaramente, ma sempre più sentito, l'amore per la vita si sta facendo un varco nell'animo umano, in mezzo alle crisi, alle calamità, ai terrori. Per la prima volta, nella pittura del senese Giovanni di Paolo, il Paradiso É meglio riuscito dell'Inferno ("Giudizio universale", Pinacoteca di Siena, attorno al 1460-1465.. L'uomo comincia a saper esprimere e rappresentare la felicità. La felicità, come la disgrazia, É un fatto individuale. Nonostante sia ancora impegnato in gruppi comunitari, l'uomo del Quattrocento pensa in misura crescente alla propria salvezza individuale. Alberto Tenenti, analizzando l'iconografia del giudizio universale nel quindicesimo secolo, ha costatato come si venisse affermando l'attesa di un giudizio individuale e ha colto come si incontrino gli sguardi che si scambiano il Cristo assiso sull'arcobaleno e il fedele resuscitato. Sembra, d'altro canto, che un malinteso si frapponga tra la devozione e l'arte. Huizinga lo ha scoperto nella cultura olandese del quindicesimo secolo, scissa in due filoni contrastanti: quello degli uomini di corte, pomposi, ambiziosi, cupidi, divisi, ardentemente appassionati e quello degli uomini austeri e delle donnette del popolo, che cercavano un rifugio nelle confraternite e nei conventi di Windesheim. Egli colloca in quest'ultima corrente il misticismo devoto e sereno dei Van Eyck, ma assicura, a ragione, che i seguaci della "devotio moderna" devono aver considerato la grande pala dell'"Adorazione dell'Agnello Mistico" (inaugurata nel 1432. come un'opera di sterile orgoglio, dal momento che condannavano la musica di Dufay, una delle espressioni più alte di quella grande scuola borgognona e fiamminga che, alla maniera delle sculture di Digione o di Brou, sapeva cantare altrettanto bene le lodi del piacere profano che la meditazione di una tristezza devota e mesta. Se si volesse ancora abbandonarsi al giuoco dei significati dell'arte attraverso il giuoco delle parole, si potrebbe definire la psicologia dei cristiani del quindicesimo secolo come dilaniata tra due poli. Da un lato, la pietà fiammeggiante che si contorce e fa smorfie di dolore. Dall'altro lato, la fiducia nell'uomo che padroneggia il mondo, prendendone le misure e inventando la prospettiva. Il Quattrocento significa anche Masaccio, Paolo Uccello, Brunelleschi. Una certezza prematura: Savonarola tornerà a mettere in discussione queste acquisizioni e turberà Botticelli. - Le ultime eresie prima della Riforma. Alcuni grandi movimenti ereticali percorrono ancora l'autunno del Medioevo, spesso molto diversi da quelli del periodo precedente. Due paesi, che non avevano partecipato molto ai movimenti dei secoli precedenti, rappresentano i principali focolai di questi nuovi fermenti: l'Inghilterra e la Boemia.

ln Inghilterra, si tratta di un'eresia di natura dotta, in primo luogo, quella di un maestro di Oxford, Wycliff. Si tratta di una critica radicale della Chiesa. Non c'É nulla da aggiungere alla Scrittura. Clero e sacramento sono inutili. Per favorire questa religione puramente aderente alla Scrittura, Wycliff fa tradurre la "Bibbia" in inglese. In un trattato, "De ecclesia", egli definisce la Chiesa come la comunità dei predestinati, sia laici sia chierici. Annegate in un'opera ridondante e difficile, queste idee avevano suscitato discussioni, ma non avevano comportato condanne. Ma Wycliff negò anche la transustanziazione e si attirò i fulmini della Chiesa, che condannò la sua dottrina nel 1382. Morì senza incorrere in altri incidenti nel 1384. Gli si attribuirono influenze su alcune rivolte sociali o politiche dell'epoca: ribellioni dei lavoratori del 1381, agitazione dei lollardi nel quindicesimo secolo. Ma questa sua influenza non É dimostrata. In compenso, la sua incidenza sul movimento hussita e soprattutto sul protestantesimo anglosassone, sul successivo non conformismo, É sicura. Il movimento hussita comprende, perlomeno, due aspetti distinti. Il primo É dato dalla predicazione di un maestro dell'università di Praga, Giovanni Huss. Come Wycliff - che aveva letto - egli vedeva nella Scrittura l'unica base della fede, ma accettava la gerarchia ecclesiastica. Oggi si dubita del fatto stesso che sia mai stato un eretico. La sua influenza deriva dal fatto che egli É ricorso all'uso del volgare. E' popolare a Praga. Ispira la riforma dell'università attuata dal re Venceslao, che, attraverso il decreto di Kumà Hora, determina la partenza dei maestri e degli studenti tedeschi. Una dimensione nazionale che si ritrova anche altrove nella problematica religiosa del quindicesimo secolo. Condannato a Praga, egli pensa di potersi far riabilitare dal concilio di Costanza, dietro incoraggiamento dell'imperatore Sigismondo, che prima gli promette la propria protezione, poi lo abbandona. Condannato dal concilio, muore sul rogo nel 1415. Dopo la sua morte, si sviluppa una seconda fase in Boemia. Si tratta di un fenomeno popolare, nazionale, sociale, politico non meno che religioso, che leva contro la Chiesa e l'imperatore i Cechi, suddivisi in vari raggruppamenti: alcuni moderati, che rivendicano innanzitutto il diritto per i laici di comunicarsi sotto le due specie (utraquisti.; altri estremisti (taboriti., che fondono insieme rivendicazioni sociali e una critica più radicale della Chiesa. Da parte sua, la Chiesa proclama contro di loro la crociata. Le operazioni militari si protraggono a lungo. Gli estremisti vengono schiacciati, gli utraquisti raggiungono un compromesso. L'elemento nazionale conferisce al movimento hussita un carattere particolare. Per il resto, questa espressione religiosa di un fenomeno sociale rientra perfettamente nel quadro tipico del Medioevo. In compenso, va notato che nel quindicesimo secolo numerose rivolte non presentarono alcuna coloritura religiosa ( ad esempio la "Jacquerie" contadina in Francia., o qualche tenue coloritura (ad esempio il tumulto dei Ciompi a Firenze.. La veste laica delle rivolte sociali costituisce un ulteriore segno dei tempi. La religione ha cessato di costituire una mediazione indispensabile. - Opinione sul cristianesimo attorno al 1500. Al momento di lasciarci alle spalle il cristianesimo medievale, può essere opportuno vederlo in rapporto a ciò che seguirà: l'Umanesimo e la Riforma. E' un'ottica possibile? Certo, non É privo d'interesse osservare come la Chiesa del quindicesimo secolo e soprattutto il papato si siano impegnati, in prima linea, nel Rinascimento. Restaurazione dell'antica Roma, fondazione della Biblioteca Vaticana, affreschi della Cappella Sistina; i papi non sono in ritardo.

Due di loro, del resto, sono dei grandi letterati, Nicola Quinto (1447-1455. e Pio Secondo (1458-1464.. Si può anche misurare l'inevitabilità della Riforma osservando, ad esempio, da un lato come la vita religiosa fosse notevolmente decaduta in seno al cristianesimo, a giudicare da quel che accadeva in Fiandra secondo Jacques Toussaert, e come, se la Riforma c'É stata, questo sia accaduto perché‚ ad alcuni É parsa indispensabile; dall'altro lato, però, il favore suscitato dal Giubileo romano del 1500 sotto un pontefice, Alessandro Sesto Borgia, dai costumi corrotti e dalla reputazione ormai logora, spinge a non trarre conclusioni eccessivamente affrettate. Altrettanto vale se si guarda alla tarda Scolastica, che ci dicono sclerotizzata e morta alla fine del quattordicesimo secolo, al punto di disgustare così tanto un Erasmo. Ma gli storici polacchi della filosofia ci garantiscono che essa era ben viva e arricchente a Cracovia nel quindicesimo secolo. Si può pensare, con Eriksonè che il Rinascimento abbia rappresentato, di contro al ciarpame comunitario del Medioevo, la rivoluzione dell'Io per eccellenza o, con Tawney e Max Weber, che il cattolicesimo fosse destinato a cedere il posto al protestantesimo, laddove la sua etica economica rappresentava un ostacolo allo sviluppo del capitalismo, o ancora, con Lucien Febvre, rifiutare di prendere in esame queste grandi macchine, vere e false a un tempo, il Medioevo, il Rinascimento. Si vede, in effetti, come, in quest'ambito della sfera religiosa, sia difficile applicare delle etichette: Luigi Undicesimo, un re moderno, presenta una religiosità tutta impregnata di superstizione e di scorie tradizionali: medaglie, eremiti e reliquie. Pensiamo magari a due fenomeni di fondo. Il primo É dato dalla realtà sempre crescente dell'elemento nazionale. La Francia É in larga misura gallicana, l'Inghilterra già anglicana. Quel che andrà bene ai prìncipi, farà pendere spesso il piatto della bilancia in un senso o in un altro. "Cujus regio ejus religio". Certo, nella storia dell'Occidente la comparsa di una seconda religione ufficiale costituirà una svolta considerevole, anche se si tratta solo di una variante della stessa religione: sarà la fine del monopolio cattolico. Ma, al di là della scelta tra cattolicesimo e protestantesimo (o dell'obbligo di abbracciare o l'uno o l'altro, perché‚ ancora non c'É chiaramente spazio per il libero pensiero., non É forse qualcosa di diverso dall'incapacità da parte del cattolicesimo di evitare la Riforma che sorprende in questo inizio del sedicesimo secolo? Non É forse l'irrompere di tutto un patrimonio folclorico religioso, di tutto un vecchio sfondo di credenze tradizionali? Non É forse la processione che si organizza qua e là di Carnevale di fronte alla Quaresima? Anzich‚ domandarci: perché‚ il cattolicesimo medievale non ha operato la propria riforma? non c'É piuttosto da stupirsi per il fatto che il cristianesimo medievale non sia riuscito, o sia riuscito così male, a cristianizzare l'Occidente? La Cristianità, attorno al 1500, É quasi una terra di missione. BIBLIOGRAFIA - Opere di carattere generale. Storie generali e panoramiche complessive: Bihlmeyer K. - Tchle H., "Storia della Chiesa", trad. it., volumi I e II, Morcelliana, Brescia 1963. Ch‚lini J., "Histoire religieuse de l'Occident m‚di‚val", Paris 1968. Congar Y., "L'Eglise de saint Augustin à l'‚poque moderne", Paris 1970. Id., "Deux facteurs de la sacralisation de la vie sociale au Moyen ƒge (en Occident.", in Concilium, XLVII, 1969, p.p. 53-63. "Histoire de l'Eglise depuis les origines jusqu'à nos jours", a cura di A. Fliche e V. Martinè poi di J. B. Duroselle e E.

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vero uomo, figlio unico del Padre, nato dalla Vergine Maria, cosa che consentiva di chiamare quest'ultima "Theotokos", Madre di Dio. Il problema che allora occupò prepotentemente gli animi fu quello dei rapporti intercorrenti tra le due nature - divina ed umana - in seno all'unica persona del Cristo. Rispetto a un problema del genere, potevano darsi tre atteggiamenti dialettici. Uno di questi, il cui esponente era Nestorio patriarca di Costantinopoli, riconosceva il sussistere di due nature nel Cristo, così nettamente indipendenti da non consentire di attribuire all'una le proprietà dell'altra; per questo, non si può dire che la Vergine abbia generato un dio: donde il rifiuto da parte di Nestorio della definizione di "Theotokos", cui egli sostituì quella di "Christotokos". Questa tesi venne condannata dal concilio di Efeso (431., che accolse quella sostenuta dal patriarca di Alessandria, Cirillo, secondo cui la natura del Cristo É unica: le differenti nature hanno trovato il loro punto di incontro in una effettiva unione e, di due, egli si É fatto un solo Cristo. Dottrina sostanzialmente corretta, se la si accoglie insieme alle argomentazioni fornite dal suo autore, ma ambigua e fonte di confusioni, che non tardarono a sorgere; si vedano, in particolare, quelle del monaco Eutiche, che provocarono la risposta del pontefice romano, Leone, il cui "Tomo a Flaviano" servì di base per le decisioni assunte nel concilio di Calcedonia (451.: Il Cristo É in due nature, senza confusione n‚ mutamento, senza separazione n‚ divisione; la diversità delle nature non viene in alcun modo soppressa dalla loro unione, ma, al contrario, le proprietà di ognuna delle due nature rimangono intatte e si incontrano in una sola persona ("prosopon". o ipostasi. La dottrina ufficiale contrasta, quindi, sia con Nestorio, che considera le due nature quasi come entità personali, sia con Eutiche, che sostiene la tesi di un'unica natura nata dalla fusione delle due. Dietro ognuna delle chiese orientali tuttora esistenti si profilano queste sfumature o questi contrasti. Ogni comunità separata assume come base di dottrina l'uno o l'altro degli atteggiamenti esaminati sopra. I fedeli che accettano la dottrina calcedonese costituiscono la Chiesa melchita; i seguaci della dottrina delle due nature ("physis". costituiscono la Chiesa nestoriana; quanto ai monofisiti, sostenitori della natura unica nel senso condannato a Calcedonia, essi si diramano in varie Chiese: giacobita, copta, etiope, armena. La Chiesa maronita presenta delle caratteristiche specifiche, come anche la Chiesa delle Indie, come vedremo in seguito. Teologicamente parlando, questa linea di divisione che attraversa gli animi É piuttosto formale che non effettiva. Essendo sorta in un'epoca in cui la terminologia costituiva ancora un terreno di ricerca, essa esprime piuttosto una confusione che non una contrapposizione delle concezioni, e alcuni studi recenti hanno chiaramente dimostrato come il più delle volte quello che gli uni chiamavano natura non differisse in alcun modo da quello che altri chiamavano persona o ipostasi, e viceversa. Un atteggiamento di comune buona volontà avrebbe potuto arrecare rimedio a una simile confusione terminologica, se non fossero intervenute anche delle ragioni politiche che approfittavano come base di lancio di questo vuoto di un'intesa religiosa. Se si esaminano gli avvenimenti storici che hanno presieduto alla nascita delle Chiese d'Oriente, ci si accorge subito di come, dietro ai rifiuti teologici, se ne nascondesse un altro, quello di riconoscere l'autorità dell'imperatore. Come ha scritto un autore copto contemporaneo, lo scisma ebbe, di religioso, solamente lo spunto (Thager.; esso fornì ai popoli racchiusi entro i confini dell'Impero l'occasione per recuperare una certa indipendenza nazionale, ormai perduta da secoli. Gli imperatori intuirono così bene il pericolo, che tutta la loro politica, in questo periodo agitato, fu quella di trattenere gli inquieti nell'ambito del proprio dominio o con dei compromessi, come l'"Henot kon" dell'imperatore Zenone (482., o ricorrendo alle persecuzioni: due metodi che, lungi dal reintrodurre la pace ottennero l'effetto di accrescere la confusione e le divisioni. Profonda per quel che riguarda la dottrina cristologica, la separazione prodottasi rispetto all'Ortodossia di Bisanzio risulta meno precisa se si guardi all'insieme delle pratiche, al complesso della fede. L'ecclesiologia di queste Chiese rispetta la tradizione.

Sono tutte Chiese gerarchicamente strutturate, fornite di un capo supremo cui sono sottoposti dei vescovi, dei sacerdoti, un laicato, al cui interno i monaci occupano un posto di rilievo e svolgono una funzione fondamentale, legata al fatto che essi forniscono i vescovi, che non devono essere sposati, mentre lo sono i sacerdoti semplici. Tutte queste comunità riconoscono il valore dei sacramenti, il cui numero varia, anche se non di molto. Le loro devozioni verso la Vergine e i santi non differiscono da quelle dell'Ortodossia e sono frequenti, in materia, gli scambi letterari e artistici. Su un unico punto si rivelano particolarmente suscettibili: nell'impiego ciascuna della propria specifica liturgia. Le varie liturgie sono costantemente risultate molto refrattarie di fronte al contrattacco di cerimonie o di preghiere nuove, dal momento che le comunità considerano la salvaguardia del loro patrimonio cultuale come un indice e uno strumento della loro interna unità. Le liturgie sono così importanti, ai loro occhi, in quanto ne definiscono la personalità: si parla indifferentemente di Chiesa copta o di rito copto, di Chiesa armena o di rito armeno e così via, per indicare un'unica identica realtà. Quel che colpisce in queste Chiese É il loro carattere etnico. Ognuna di esse costituisce un'etnia religiosa. Un cristiano giacobita o copto si presenterà come tale prima ancora di riconoscersi come siriano o egiziano. Questo elemento É piuttosto sconcertante per delle mentalità occidentali, per le quali la religione costituisce un fatto di natura personale. I responsabili di questo, però, non sono i fedeli delle Chiese orientali. La coscienza di appartenere a una comunità religiosa prima ancora che a una qualsiasi altra associazione É una conseguenza della loro storia. Abbiamo già indicato le circostanze della loro nascita. Ad esse occorre aggiungere, dopo l'invasione musulmana, la condizione imposta ai cristiani (come del resto agli Ebrei. dall'islam. Come genti del Libro, fin dall'inizio dell'occupazione dei loro paesi d'origine da parte degli Arabi, essi hanno ottenuto un statuto speciale che assicurava loro la protezione del potere centrale e la libertà di culto a condizione di versare l'imposta, "djizya". La possibilità di esercitare i diritti ottenuti dall'occupante presupponeva, fra i cristiani, che essi si raccogliessero strettamente attorno al loro patriarca riconosciuto come loro rappresentante ufficiale. Ogni Chiesa costituiva, dunque, una specie di gruppo autoctono, che viveva in mezzo ai musulmani ed era costretto ad affermare la propria coesione per paura di venire riassorbito. Questa coesione si consolidò ulteriormente nel periodo ottomano, allorch‚ i sultani istituirono le "Millet" o nazioni. Da capi religiosi, i patriarchi divennero capi civili. Questa tradizione si É conservata tanto meglio in quanto questi gruppi dispongono costantemente di propri tribunali, le cui sentenze in certi casi vengono riconosciute dal potere civile. Va altresì aggiunto che, con il crearsi degli Stati moderni (Siria, Egitto, Iraq, eccetera. nati dalla disgregazione dell'impero ottomano in seguito alla guerra del 1914-1918, questa coscienza di far parte di un gruppo religioso É oggi venata, in molti fedeli, di spirito nazionalistico. Creando un distacco tra s‚ e la Chiesa ufficiale di Bisanzio, queste Chiese si sono trovate "ipso facto" separate dalla stessa Roma. Da allora, a varie riprese, i papi hanno cercato di riportarle in seno alla Chiesa di Roma, ma l'unità, quando si É realizzata - in particolare al concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439. - non É mai durata molto a lungo. Dalla fine del sedicesimo secolo, invece, sono avvenute unificazioni con gruppi dissidenti rispetto a ognuna di queste comunità. Sono quindi nate a loro volta nuove Chiese ricollegate a Roma, i cui seguaci prendono per questo il nome di Uniati. Spesso queste Chiese aggiungono a tale denominazione anche quella di cattoliche. Esiste una Chiesa sirio-cattolica, costituita da ex giacobiti; si parla di copti cattolici, di Etiopi e di Armeni cattolici.

La Chiesa nestoriana ha dato origine alla Chiesa caldea. Ognuna di queste nuove comunità dispone di una gerarchia modellata su quella delle Chiese d'origine. Tutte sono sotto la guida di un patriarca; il loro clero É in genere composto di gente sposata e le loro rispettive liturgie sono le stesse delle Chiese madri, pur con talune modifiche connesse a una ricerca di latinizzazione nonch‚ a certi aggiustamenti, spesso maldestri, volti a far scomparire dai testi in uso da secoli ogni traccia di eresia. Come i cattolici, i protestanti hanno svolto tra i cristiani d'Oriente un costante lavoro missionario, che ha avuto come risultato la creazione di Chiese orientali protestanti. 2. LA CHIESA NESTORIANA. Dal punto di vista cronologico, la più antica delle Chiese orientali É la Chiesa nestoriana, la cui dottrina cristologica si esprime nettamente nella tesi delle due nature. Ancora prima delle controversie emerse al concilio di Efeso, essa si era costituita in Chiesa indipendente, con sede nella Persia sassanide, nella Mesopotamia propriamente detta, e nel nord dell'Iran. Le leggende delle origini fanno risalire l'evangelizzazione di queste plaghe all'apostolo san Tommaso e ai suoi discepoli Addai, Aggai e al vescovo Mar Mari. Pur non essendo possibile misconoscere completamente l'apostolato di san Tommaso, la critica moderna fa risalire l'espansione del cristianesimo in questa zona a non oltre il terzo secolo. Esso vi penetrò rivolgendosi dapprima alle colonie ebraiche, fiorentissime sul posto. Probabilmente, non vi fu una comunità strutturata prima dell'insediamento dei Sassanidi (226.. Le leggende che avvolgono le origini mettono questa prima evangelizzazione in rapporto con la città di Edessa (allora Urhai, oggi Urfa., capitale del piccolo regno di Osroene che, nel circostante mondo ellenizzato, conservò costantemente la propria indipendenza e la lingua nazionale, il siriaco. Questa lingua - una diramazione dell'aramaico - costituì fin da quest'epoca la lingua liturgica della Chiesa persiana e continua ad esserlo ancora oggi. A partire dall'avvento dei Sassanidi, questa Chiesa si presenta sotto una luce sempre più smagliante. E' in questo periodo che essa si organizza per far fronte a due pericoli, derivanti il primo dal manicheismo - che si diffonde in queste zone fin dalla seconda metà del terzo secolo -, l'altro dallo zoroastrismo, la religione di Stato rappresentata da un clero ufficiale costituito di Magi (o "Mobed". raccolti attorno all'autorità del Mago supremo, il Mobed dei Mobed. La potenza di quest'ultimo fu sempre così grande da impedire che il cristianesimo potesse arrivare a diventare religione ufficiale, come avvenne nell'Impero romano all'epoca di Costantino; essa scatenò anche a più riprese contro i cristiani una serie di persecuzioni, tra cui quelle di Sapore Secondo (310-379. e di Yazdagard Secondo (438-457. furono le più sanguinose. Al momento di Nicea (325., il cristianesimo era abbastanza radicato in Persia da essere rappresentato al concilio. Gli "atti" del concilio ci trasmettono un solo nome di vescovo, quello di Giovanni, ma le fonti locali, soprattutto le "Passioni" dei martiri, consentono di affermare che i seggi episcopali fossero più numerosi. La Chiesa persiana manteneva rapporti strettissimi con l'Occidente, cioè con il patriarcato di Antiochia, da cui dipendeva anche Edessa. In varie occasioni, l'episcopato locale si rivolse ai vescovi d'Occidente per regolare talune difficoltà interne. Questo avvenne, ad esempio, nel 420, allorch‚ si riunì il concilio di Seleucia- Ctesifonte su richiesta del patriarca di Antiochia. La Chiesa, disgregata dalla persecuzione di Sapore, si diede una struttura organizzativa che si ritrova pressoch‚ immutata fino ai giorni nostri, con alla testa il "katholikos", in qualità di rappresentante del patriarca di Antiochia e capo dei vescovi raccolti in sedi metropolitane che costituiscono il tramite tra il centro e le diocesi in cui vivono i fedeli, soprattutto i monaci. Quattordici anni dopo, nel 424, un nuovo sinodo riunitosi nella stessa città decise che non si sarebbe più fatto ricorso al patriarca di Antiochia e che il "katholikos" avrebbe avuto piena facoltà di affrontare qualsiasi problema.

La Chiesa persiana compì in tal modo il suo primo passo verso l'indipendenza, con il "katholikos" che si trovò così ad essere il depositario dei diritti del patriarca; il movimento fu fortemente favorito dalle circostanze politiche del momento. Le guerre incessanti tra i Persiani e i Romani, cioè i Bizantini, creavano infatti reciproci sospetti di tradimento e di spionaggio. Parve quindi preferibile la politica del ciascuno per s‚ Non c'É alcun motivo dottrinale apparente in questa separazione, che diventò definitiva al volgere del secolo, per motivi questa volta specificamente religiosi. Nel 489, la famosa Scuola di Edessa, una specie di università-convento in cui si formavano i più insigni ecclesiastici delle province orientali dell'Impero bizantino, fu costretta a lasciare la sua sede d'origine a causa dell'insegnamento della dottrina delle due nature che vi impartiva Ibas, basandosi sulle dottrine di Diodoro di Tarso (m. verso il 392. e di Teodoro di Mopsuestia (m. nel 428., dai quali lo stesso Nestorio mutuava la propria impostazione. La Scuola trovò un rifugio in territorio sassanide, a Nisibi. Sotto la guida del grande teologo Narsai (m. verso il 507., la dottrina delle due nature riuscì a diffondersi in tutta la Mesopotamia senza alcuna difficoltà, grazie ai vescovi usciti dalla scuola di Nisibi. Il nestorianesimo da essi professato trovò anche degli eccellenti propagandisti tra i monaci, specie quelli del grande convento del monte Izla, fondato da Abramo di Kashkar (m. nel 588.. Uno degli abati di questo convento, Babai il Vecchio (settimo secolo., nominato dal metropolitano visitatore generale delle diocesi fu, per una ventina d'anni, la vera guida spirituale della Chiesa in Persia, che diventò così la Chiesa nestoriana. La conquista del paese da parte degli Arabi all'inizio del settimo secolo non determinò molti mutamenti nella vita interna di questa Chiesa, ormai totalmente separata da Bisanzio e da Roma. Il "katholikos", mutando residenza, lasciò Seleucia-Ctesifonte, andò a stabilirsi nella nuova capitale degli Abbasidi e mantenne con il califfo gli stessi rapporti che aveva con il sovrano sassanide: rapporti in genere amichevoli, che non evitarono le apostasie e le conversioni all'islam, determinate soprattutto dalle condizioni sociali e finanziarie imposte alla parte cristiana della popolazione. In varie occasioni la Chiesa nestoriana mise alcuni dei suoi membri più colti a disposizione dell'amministrazione araba, che mancava di quadri. Essa si attirò in tal modo la benevolenza dell'autorità civile. Tranne sotto Harum al-Rashid (786-809. e al-Muttawakil (847- 861., la comunità cristiana non conobbe persecuzioni. Da questo punto di vista, quindi, la sua condizione fu molto più favorevole che sotto i Sassanidi. Questo periodo di relativa pace favorì due movimenti che contraddistinguono la storia della Chiesa nestoriana di Persia in epoca medievale. All'interno si assiste, specie nei secoli nono e decimo, a una attività intellettuale di carattere scientifico, già avviata del resto sotto i Sassanidi, che avrà come effetto principale quello di trasporre dal greco al siriaco quasi tutto il patrimonio scientifico dell'antichità. Le opere filosofiche e scientifiche di Euclide di Tolomeo, di Ippocrate, di Galeno, di Aristotele e dei loro commentatori, come pure i "Dioscorides", trovano tra i nestoriani dei traduttori, i più celebri dei quali sono membri della famiglia di Hunain ibn Ishaq. Tramite queste traduzioni - cui d'altro canto collaborarono anche dei monofisiti - gli Arabi ebbero subito accesso al pensiero e alla scienza greci, prima che l'Occidente li conoscesse a propria volta servendosi delle traduzioni arabe fatte sulla base del siriaco. Quest'importante lavoro ricevette un incoraggiamento notevole da parte degli stessi califfi, soprattutto da parte di al-Mamum, il quale fondò verso l'829 a Bagdad la Casa della Sapienza ("Dar al- hikma".. Parallelamente a questo moto intellettuale, se ne sviluppa un altro all'esterno, caratterizzato da un'intensa attività missionaria, paragonabile a quella dei Bizantini nei territori slavi. Non limitandosi alla realizzazione della conversione dei Tayayˆ (Arabi della pianura mesopotamica., la Chiesa nestoriana rivolge le sue missioni verso i territori confinanti con la sua patria d'origine e le spinge ben presto verso l'Asia centrale e la Cina. All'inizio del quinto secolo si incontrano comunità cristiane stabilitesi nel Seistanè Merv e Herat e dai due lati del Golfo Persico.

Gli Eftaliti della Battriana vengono convertiti nel 498 e richiedono un vescovo nel 549. Samarcanda diventa sede vescovile verso il sesto-settimo secolo. Nel 781, alcuni cristiani innalzano a Si-ngan-fu una stele, scritta in cinese e in siriaco, che ci fornisce notizia dell'organizzazione di una comunità in Cina e testimonia l'introduzione del cristianesimo nell'impero di Gau-sung (659-683.. Dunque, É l'Asia intera, fino ai suoi estremi lembi, che il "katholikos" Timoteo Primo (780-823., organizzatore delle missioni, offre all'attività dei missionari nestoriani. Sufficienti schiarimenti sui risultati ottenuti da questi all'epoca ci vengono dalla voluminosa corrispondenza del patriarca. Fin da questo periodo la Chiesa persiana ha disseminato in tutto il centro dell'Asia, in Cina e in Tibet, vescovi direttamente legati al "katholikos", e non con la mediazione dei metropoliti come nel caso dei vescovi persiani. In questa organizzazione c'É evidentemente una volontà di centralizzazione, confermata dall'uso del siriaco come lingua liturgica, che svolge così il ruolo assegnato in Occidente al latino nell'ambito delle missioni cattoliche. Questo attaccamento al siriaco, laddove le Chiese orientali hanno costantemente avuto il privilegio di tradurre le rispettive liturgie nelle lingue volgari dei popoli cristiani, costituisce un fatto di notevole importanza. Esso si spiega innanzitutto con il desiderio di mantenere l'unità e la purezza della fede nestoriana. E' ben difficile sapere, infatti, fino a che punto questi popoli convertiti abbiano conservato l'ortodossia della Chiesa madre, dal momento che i pochi documenti locali scritti in sogdiano, turco antico, uiguri, eccetera, sono troppo frammentari perché‚ se ne possa trarre un'indicazione generale sulla fede delle Chiese asiatiche. Si può, perlomeno, dire che la penetrazione della cultura e della dottrina nestoriana ha marcato abbastanza profondamente certi spiriti da far sì che la Chiesa non esitasse a scegliere a volte i suoi capi tra i membri di questo clero missionario. E' stato, ad esempio, quanto É avvenuto nel 1281, allorch‚ i vescovi elessero come loro "katholikos" un monaco Marco, meglio noto sotto il nome di Mar Yahballaha Terzo (m. nel 1317., che ha lasciato la sua impronta nella storia d'Occidente. Nel novero delle popolazioni asiatiche convertite al cristianesimo nestoriano, ce n'erano di quelle, come gli Uiguri, i Turchi ed i Mongoli, che costituirono immediatamente una minaccia per l'Europa. Quando i Mongoli posero fine al califfato e si installarono sulle rovine di Bagdad (1258., la parte notevole di cristiani che era tra di loro, in specie fra le principesse, facilitò rapporti amichevoli e fiduciosi tra la Chiesa nestoriana e il nuovo potere. La migliore dimostrazione É fornita dalla scelta di Mar Yahballaha come ambasciatore del re Argun presso il re d'Inghilterra, Edoardo Primo, e di Francia, Filippo il Bello, per trattare con loro un'alleanza che avrebbe sconfitto la potenza islamica in Oriente. Ma questo tentativo fallì e i Mongoli ne trassero motivo di rancore. Nel 1292, il giovane Il-Khan-Ghazan si convertì all'islam. Per la Chiesa nestoriana, questo segnò l'avvio della decadenza. Il numero dei credenti cala in Mesopotamia e in Iran. La Chiesa perde i propri avamposti in Cina. L'arrivo di Tamerlano, (1370-1405., accompagnato da tremendi massacri e da innumerevoli devastazioni, impartisce il colpo di grazia a questa comunità un tempo così forte. I fedeli che sopravvivono si rifugiano nell'Adiabene, nei dintorni di Mossul, nei monti dell'Hakkiari o presso i Kurdi del Lago d'Urmia, nonch‚ nell'India meridionale. Su questa comunità così ridimensionata regna, dal 1450, un membro della famiglia Mar Mama, che assume tradizionalmente il nome di Simone e che viene chiamato patriarca. Quello attuale É Simone Ventitreesimo. Questa carica É ereditaria, e si trasmette di zio in nipote o cugino, visto che il patriarca non può essere sposato. Il nepotismo che dominò tale funzione ne attenuò fortemente il carattere sacro. Il patriarca non É ormai se non il capo della nazione nestoriana, i cui membri si chiamano Assiri. Questa etnia, fortemente decimata nel secolo scorso e all'inizio del ventesimo secolo per i massacri operati dai Kurdi e dai Turchi, conta circa ottantamila fedeli che vivono in parte nel nord dell'Iraq, in parte lungo la costa del Malabar e in parte ancora in America, dove il patriarca ha fissato la propria residenza, a Chicago, a partire dal 1940.

A questa Chiesa nestoriana ridimensionata fa da contrappeso la Chiesa cosiddetta caldea, costituita da fedeli raccolti a Roma dal 1552. In effetti, la Chiesa nestoriana non ha mai avuto in precedenza rapporti con Roma se non tramite il patriarca di Antiochia. Nel tredicesimo secolo, alcuni missionari domenicani riuscirono a stabilire qualche contatto, ma la cosa non ebbe un seguito duraturo, come pure, del resto, l'unità stabilita al concilio di Firenze con tutti gli Orientali: unità per niente durature, ma che preparavano quella da cui ha avuto origine la Chiesa degli Uniati. Quest'ultima É sorta da alcuni membri della comunità nestoriana che si rifiutarono di accettare come patriarca Simone Ottavo Denha, nipote di Simone Ottavo Bar Mama (m. nel 1551.. I voti degli oppositori riunitisi a Mossul designarono Sulaqa, abate del convento di Rabban Hormuzd, perché‚ si recasse a Roma, dove giunse nel novembre del 1552. Il papa, in concistoro, lo riconobbe come patriarca caldeo. Egli si stabilì a Diyarbakir, in territorio turco, dove morì martire nel 1555, vittima delle macchinazioni dei sostenitori di Simone Denha; una prima dimostrazione delle difficoltà avute dalla Chiesa caldea a impiantarsi nel paese. Oggi la cosa É realizzata. La Chiesa caldea, nella quale sopravvive la Chiesa nestoriana, conta circa duecentomila fedeli (più un milione e mezzo nelle Indie., organizzati sotto l'autorità del patriarca di Babilonia, il cui rappresentante attuale, Mar Paul Sheiko, risiede a Bagdad. Il monachesimo nestoriano, un tempo così vitale, É ormai rappresentato solamente dal monastero caldeo di Nostra Signora delle Semenze, in Iraq. 3. LA CHIESA GIACOBITA. La Chiesa giacobita costituisce, in Oriente, un raggruppamento direttamente contrapposto alla Chiesa nestoriana, con la quale É in rapporto immediato geograficamente, dal momento che ha avuto la propria diffusione nelle zone poste ad ovest dell'Eufrate. Per questo, certi storici non esitano a chiamarla Chiesa siriana occidentale, in contrapposizione con la Chiesa orientale, una distinzione basata non soltanto sull'area geografica occupata da entrambe, ma anche sui loro strumenti di espressione. Entrambe, infatti, usano il siriaco come lingua teologico-liturgica, ma ciascuna ha inventato una sua particolare pronuncia e scrittura. Alla definizione di giacobita, che gli fu data alla fine del sesto secolo, questa Chiesa preferisce oggi quella di siriano-ortodossa, una formula alquanto ambigua se ci si ricorda che questa comunità religiosa si É precisamente formata in contrasto con l'Ortodossia bizantina, ma che ha il vantaggio di delimitarla chiaramente rispetto alla Chiesa siriano-cattolica costituita da ex giacobiti. Questa Chiesa ha impiegato un secolo buono per nascere e organizzarsi in comunità monofisita autonoma. La scissione non É avvenuta subito dopo il concilio di Calcedonia. Quest'ultimo, affermando la dottrina delle due nature, suscitò l'opposizione dei seguaci di Dioscoro, patriarca di Alessandria, deciso ad attenersi alla formula di Cirillo una sola natura del Verbo incarnato, che si era imposta nel concilio di Efeso vent'anni prima. L'Egitto ne venne scosso fortemente, come anche la Siria, soprattutto al tempo degli imperatori Zenone (474-491. e Anastasio (491-518., che avevano tendenze monofisite ma erano soprattutto preoccupati di ristabilire la pace con dei compromessi. Si tratta, appunto, degli orientamenti che si profilano dietro l'"Henotikon" di Zenone, una formula ibrida che cercò di conciliare le dottrine ortodosse e quelle monofisite. Queste ultime trovarono il loro teologo più insigne nella persona di Filosseno (m. nel 523., ex allievo della scuola di Edessa, divenuto nel 485 vescovo di Mabbug (oggi Membidj.. Le sue numerose opere costituiscono la base della dottrina monofisita, in particolare di quella dell'Incarnazione che i successivi giacobiti hanno sintetizzato nelle formule: una natura duplice e una natura composta di due. A questa produzione letteraria, Filosseno accompagnava un'azione diretta sia presso gli imperatori, sia presso i vescovi di Siria, azione che portò nel 512 a far salire sul trono patriarcale di Antiochia il monaco Severo, di cultura greca e oratore di talento.

Dopo il concilio, il seggio veniva occupato ora da un ortodosso, ora da un partigiano del monofisismo, e si sarebbe potuto credere che ormai, dopo Severo, sarebbe appartenuto a quest'ultima tendenza. Ma quel che si verificò fu il contrario. La morte di Anastasio portò sul trono imperiale Giustino Primo (nel 518., quindi suo nipote Giustiniano (527.. Per reazione personale non meno che per ragioni politiche (desiderio di riavvicinarsi al papa., questi due imperatori proclamarono ufficialmente la propria adesione al concilio di Calcedonia. Ne derivò un periodo di dure persecuzioni nei confronti dei seguaci del monofisismo; Severo venne esiliato e i vescovi della sua tendenza vennero cacciati dalle rispettive cariche. Arrestatasi un attimo per l'influenza dell'imperatrice Teodora, la caccia ai vescovi monofisiti riprese, specie a partire dal 536. Fu in queste circostanze che ebbe realmente origine la Chiesa giacobita. Il ruolo decisivo nella sua creazione spettò a un monaco, nominato vescovo su istigazione di Teodora, con il compito di occuparsi soprattutto delle tribù arabe gassanidi al servizio dell'impero di Bisanzio lungo le frontiere sassanidi. In effetti, Giacomo, soprannominato Baradai (siriaco "Burde'ana", cioè coperto di stracci. divenne rapidamente il vescovo monofisita di tutta la Siria, dell'Armenia e dell'Asia Minore. Sotto le vesti di un venditore ambulante costantemente in movimento, sfuggendo alla polizia imperiale che non riuscì mai a mettergli le mani addosso grazie alle connivenze della popolazione e dei monaci, i sostenitori più attivi della tendenza monofisita, egli organizzò un clero che, al momento della sua morte, si riteneva formato da due patriarchi, ventisette vescovi e più di diecimila preti. Fu lui il vero fondatore della Chiesa monofisita ed É per questo che essa prende il nome da lui. Le origini hanno impresso a questa Chiesa dei tratti particolari, che essa ha conservato fino ad ora. Si É trattato di una Chiesa costituita in contrasto con lo Stato. Si É anche trattato di una Chiesa clandestina, diffusa in una società già cristianizzata e in province in cui il cristianesimo ufficiale era profondamente radicato. La gerarchia giacobita visse, dunque, accanto o al margine della gerarchia esistente ed É per questo che ad ovest dell'Eufrate, in Siria-Palestina, la comunità giacobita ha sempre costituito un agglomerato di diocesi e di fedeli che vivevano in un mondo ortodosso. Essa non ha mai raggiunto l'unità nazionale di altre Chiese monofisite, come quella d'Egitto, di Armenia, d'Etiopia, n‚ ha mai potuto garantire una sede stabile al proprio patriarca, che pure porta il titolo di Patriarca d'Antiochia e di tutta la Siria. A parte un breve periodo, sotto Ignazio Secondo (1222-1252., che visse per un po' ad Antiochia, i capi hanno trasferito la loro sede di volta in volta ad Aleppo, Edessa, Diyarbakir, Mardinè eccetera. Lo zelo missionario di Giacomo Baradai non si limitò ai soli territori bizantini e la Chiesa giacobita, andando oltre l'Eufrate, si impiantò in zona nestoriana, soprattutto nel nord dell'Iraq. La creazione di vescovati in Mesopotamia richiese che venisse istituita una carica specifica, quella del "Maphriano" (siriaco "Maphrejono", fecondatore., connessa con la sede episcopale di Tagrit (Tikrit.; a questa figura il patriarca affidava l'amministrazione delle diocesi d'Oriente. Questo sdoppiamento del patriarcato lo fece considerare in Occidente come il Patriarca d'Oriente, un titolo che, d'altro canto, alcuni non esitarono ad attribuirsi benché‚ non avesse alcun valore canonico. Oggi, il Maphriano vive accanto allo stesso patriarca. All'inizio del settimo secolo, l'occupazione della Siria da parte dei musulmani, accolti come liberatori dalla tirannia bizantina, ebbe un effetto positivo sulla Chiesa giacobita, benché‚ gli Omayyadi avessero fatto appello piuttosto ai melkiti perché‚ si occupassero dell'amministrazione civile del paese. Ormai i monofisiti videro riconosciuta la loro Chiesa allo stesso titolo delle altre confessioni religiose. La pianta della Siria ne risultò più chiara: mentre le città della costa mediterranea si riempirono soprattutto di comunità melkite, l'hinterland armeno divenne feudo del giacobitismo.

Nel nord della Mesopotamia monofisiti e nestoriani trovarono un "modus vivendi", in genere pacifico, il che tuttavia non impedì che nascessero rivalità e contrasti. All'inizio del nono secolo, la Chiesa giacobita contava una sessantina di diocesi, e ve ne erano fino in Arabia. Non sembra, invece, che il monofisismo siriano si sia mai radicato nell'Asia centrale, almeno nella forma di grandi unità strutturate. D'altronde, nonostante una fervida attività letteraria, i giacobiti ebbero una parte minima nel lavoro di traduzione delle opere greche. Indubbiamente, questa differenza va attribuita al fatto che gli scrittori non trovarono in Siria lo stesso appoggio che i califfi di Bagdad concessero ai nestoriani. Non sempre la Chiesa giacobita ha avuto da rallegrarsi per i suoi padroni musulmani. A parecchie riprese, essa ha subito da parte loro delle persecuzioni, di rado sanguinose, ma di natura sociale ed economica (a proposito dei matrimoni e delle eredità., che hanno portato a una diminuzione del numero dei fedeli. Ma i rischi più gravi cui dovette far fronte nacquero al suo stesso interno: conflitti teologici e lotte intestine per ottenere il patriarcato. Queste rivalità negli affari interni della Chiesa derivarono sia dalle ambizioni personali, sia dal ruolo rilevante assunto dai laici che esercitavano un'influenza in forza della loro ricchezza o del loro peso politico. Nonostante tutto, questa Chiesa É rimasta vitale fino ai nostri giorni. I buoni rapporti da essa intrattenuti con i Crociati le giovarono notevolmente e favorirono quel che viene chiamato il Rinascimento siriano, iniziato verso l'anno Mille. Il punto culminante si situa all'epoca del patriarca Michele il Grande (1166- 1199.. Questo rinascimento É contrassegnato non solo da una riorganizzazione delle strutture della Chiesa, ma anche da una grande attività letteraria nella quale brillano insigni storici, come Michele il Grande e Gregorio Abu'l-Farag, meglio noto sotto il nome di Bar Hebraeus (1226-1286.. La sua opera costituisce una collezione enciclopedica delle conoscenze umane della sua epoca. Come per i nestoriani, l'arrivo dei Mongoli, e poi quello di Tamerlano, fu catastrofico per la Chiesa giacobita, che tentò a varie riprese di entrare in contatto con Roma (sotto i Crociati nel 1169, 1237, 1247 e poi al concilio di Firenze. Al di là di questi avvenimenti, noti attraverso fonti soprattutto occidentali, i documenti sono troppo scarsi per permetterci di seguire attendibilmente lo sviluppo storico dei monofisiti. In linea generale, tale sviluppo É contrassegnato da un calo progressivo del numero degli aderenti. Oggi i siro-ortodossi raggiungono a stento la cifra di duecentomila fedeli, sparsi nel nord dell'Iraq, in Siria-Libano e a Cipro, cui vanno aggiunti quelli delle Indie, che si valutano a più di un milione. Il più grande contingente del Vicino Oriente si trova in Turchia, nel Tur 'Abdin (Gebel Tur., un massiccio montuoso non molto elevato ad est di Mardin. Stabilitisi lì a partire dall'alto Medioevo, questi giacobiti vivono confusi in mezzo ai Turchi ed ai Kurdi, conservando la loro fisionomia etnica e religiosa grazie ai loro sacerdoti, sottoposti a un metropolita che risiede a Miydat, capoluogo della regione, e grazie soprattutto alla loro lingua, il "turani" o "turoyo", un siriaco dialettale. Un forte movimento di emigrazione li sospinge verso gli Stati Uniti, dove dispongono di otto chiese rette da un vescovo. Dei numerosi monasteri, che costituirono un tempo il vanto e la ricchezza della Chiesa giacobita, non restano oggi che quelli di Deir Zapharan vicino Mardinè di Qartamin nel Tur 'Abdinè di Mar Mattai vicino Mossul, e di San Marco di Gerusalemme. L'attuale patriarca, Mar Yaqub Terzo Severio, eletto nel 1957 dal sinodo dei vescovi, risiede a Damasco. La Chiesa siriana degli uniati, retta del pari da un patriarca di Antiochia per i Siriani, non raggiunge il numero dei giacobiti. Si tratta di appena cinquantamila fedeli. Questo piccolo gruppo ha come nucleo i fedeli convertiti al cattolicesimo dai missionari latini di Aleppo nel 1662, attorno al quale si sono venuti raccogliendo altri convertiti e i loro discendenti. Ma É solo dal 1830 che questa comunità cristiana ha ottenuto dal governo ottomano la sua separazione civile e religiosa rispetto ai giacobiti. Nel 1843 il patriarca venne riconosciuto come capo civile dei suoi fedeli.

Il lungo periodo che intercorre tra queste date limite mostra le difficoltà che ebbero da vincere questi uniati per ottenere la propria indipendenza rispetto alla Chiesa madre, per passare sotto la giurisdizione romana. A partire da quest'epoca, il patriarca É vissuto in Libano, dapprima a Sharf‚, dove ha sede il seminario patriarcale, poi a Mardin in Turchia. Oggi risiede a Beirut. 4. LA CHIESA ARMENA. Le origini della Chiesa monofisita armena, di cui parliamo ora per ragioni geografiche, somigliano molto a quelle della Chiesa nestoriana persiana. Essa era già saldamente strutturata e organizzata quando É diventata una Chiesa indipendente dall'Ortodossia. Alcune leggende ricollegano l'evangelizzazione del massiccio armeno all'apostolo Addai, il che pone fin dalle origini questa Chiesa in rapporto con Edessa, e quindi con il patriarcato di Antiochia. E', infatti, a partire dal terzo secolo solamente che la storia assicura con certezza la presenza di comunità cristiane presso una popolazione di lingua indoeuropea, arricchita di elementi iraniani, siriaci e greci, e radicata in una zona limitata ad ovest dalla Cappadocia e dal fiume Halys, a nord dalla Georgia, ad est dall'Albania caucasica e dalla Persia, a sud dalla Mesopotamia. Questi gruppi convertiti al cristianesimo si radicarono nel regno arsacide, che risale a Tigrane il Grande (94-56 a C... Una serie di persecuzioni segnalate nel 230, 287 e 301 dimostrano come fin da quest'epoca il cristianesimo potesse apparire come una minaccia per lo Stato. Ma esso assunse veste ufficiale solo sotto Tiridate Terzo (294-324., grazie all'iniziativa del primo vescovo, Gregorio, detto l'Illuminatore (240-332., che ricevette la consacrazione episcopale a Cesarea di Cappadocia, con il titolo di "katholikos" per l'Armenia (il titolo armeno, "K'ahanayapet", ricorda quello del sommo sacerdote degli Ebrei.. La sede di tale carica venne stabilita nel monastero di Ecmiadsinè a circa venticinque chilometri a sud-ovest di Erivan. L'opera di san Gregorio l'Illuminatore, appoggiato da Tiridate Terzo, fu garantita dall'ascesa al trono pontificio di un personaggio particolarmente dinamico, Narsete il Grande, che riunì nel 365 un sinodo ad Astisat, in cui venne stabilita l'organizzazione giuridica della Chiesa; il figlio Sahak, che si era formato a Costantinopoli, continuò a dare l'impulso fornito inizialmente da Narsete. All'inizio del quinto secolo, la Chiesa armena era ben impiantata, con una gerarchia composta, oltre al "katholikos", da circa una dozzina di vescovi. L'unione stretta tra il regno e il pontificato supremo (Gregorio ed i suoi successori erano di famiglia reale. faceva della Chiesa uno dei meccanismi fondamentali dell'organizzazione feudale del paese. Ma la popolazione era ben lungi dall'essere tutta cristiana. La conversione della popolazione venne facilitata nel quinto secolo, che É stato salutato come l'età d'oro della Chiesa armena, dall'invenzione dell'alfabeto armeno da parte del monaco Mesrop Maschtotz, un'invenzione che consentì sia l'evangelizzazione della popolazione nella sua stessa lingua, sia la creazione di un culto originale. Il patriarca Sahak fu anche colui che costituì delle "‚quipes" di traduttori per trascrivere in armeno le Sacre Scritture e le principali opere dei Padri della Chiesa greca. Egli fondò scuole specificamente armene, destinate ad educare e istruire la popolazione, collegandola alla civiltà cristiana. La creazione di una Chiesa armena monofisita indipendente dall'Ortodossia bizantina non É, come per le altre Chiese orientali, il risultato di una scelta teologica, e neppure il frutto di un esasperato nazionalismo: la Chiesa nacque soprattutto dalla situazione politica dello Stato; essa, d'altro canto, aveva già preso le distanze rispetto alla sede di Cesarea quando Narsete rivestiva la carica di "katholikos". Le lotte tra i Persiani sassanidi e i Romani, delle quali abbiamo visto gli effetti sulla Chiesa di Persia, posero ben presto anche l'Armenia in una specie di isolamento che spinse la Chiesa a svilupparsi al proprio interno Così, essa venne rappresentata al concilio di Nicea nel 325; ma nessun vescovo assistette a quelli di Efeso e di Calcedonia.

Rispetto alle dottrine cristologiche discusse nel concilio di Calcedonia, quest'isolamento si fece sentire notevolmente. In linea generale, il pensiero teologico armeno, formatosi attraverso testi biblici e patristici d'origine siriaca e greca in traduzione, vide dapprima nella definizione ortodossa delle due nature solamente una specie di nestorianesimo che respinse immediatamente, senza con ciò decidersi direttamente per la dottrina avversa del monofisismo. Addirittura per un attimo, all'epoca dell'"Henotikon" di Zenone, l'Armenia parve decisa ad unificarsi con Bisanzio, e fu solo al sinodo di Dvin (551. che essa si schierò nel campo del monofisismo. Va altresì aggiunto che essa non accettò la dottrina dell'unica natura nel senso dei giacobiti severiani, ma piuttosto in quello dei giulianisti, rappresentati da Giuliano d'Alicarnasso. Un nuovo tentativo di riavvicinamento all'Ortodossia si delineò sotto il regno di Eraclio (610-641., di fronte al monotelismo, la dottrina della volontà unica nel Cristo in due nature. La conquista del paese da parte dell'islam interruppe nuovamente ogni possibilità di rapporto con Bisanzio. A partire da quest'epoca, la Chiesa armena si costituisce in Chiesa indipendente. La storia politica dell'Armenia, perlopiù drammatica, ha sempre fortemente influito sulle vicende di questa Chiesa. A parte due periodi della sua esistenza (all'epoca del regno di Cilicia, 1071- 1375, e ai nostri giorni, in cui l'Armenia É una repubblica in seno alla federazione sovietica., il paese non ha mai goduto di un riconoscimento della propria fisionomia nazionale: esso É sempre stato oggetto di divisioni tra padroni stranieri ostili tra di loro: Parti e Romani; Bizantini e Persiani sassanidi; Bizantini e musulmani, Turchi, Persiani e Russi. Probabilmente, varrebbe la pena di parlare, in questo caso, non di una Chiesa nazionale, ma di una Chiesa del popolo armeno, dal momento che questo in realtà É sparso per il mondo intero in una diaspora paragonabile solo alla Diaspora ebrea. La religione funge da legame per tutti questi membri dispersi. Essa É tenuta in piedi e rappresentata da un clero numeroso, generalmente molto colto, composto di vescovi, di "vardapeti" o preti celibi colti, collegati a un convento o incaricati di un'importante funzione pastorale, e di preti sposati addetti alle varie chiese d'Armenia e della diaspora. Purtroppo, due "katholikos" si contendono l'autorità sull'insieme della gerarchia e dei fedeli, rivendicando ciascuno per s‚ la legittimità della successione a san Gregorio l'Illuminatore. La cattedrale di Ecmiadsin nell'Armenia sovietica É la Chiesa madre riconosciuta di tutte le chiese armene. E' lì che san Gregorio l'Illuminatore fissò la sua sede e i suoi successori non se ne sono mai allontanati. Ma, in seguito a tremende invasioni dei Selgiuchidi, Turchi e Mongoli, dalla Grande Asia verso l'Asia Minore attraverso l'altipiano armeno, i "katholikos" furono costretti insieme alla loro popolazione a cercare rifugio lontano dall'Armenia caucasica, verso l'ovest, nei monti del Tauro e, dopo essersi stabiliti a Hromgla, si insediarono infine a Sis, vicino alla capitale del regno armeno di Cilicia. Nelle varie fasi di quest'esodo, che durò tre secoli, il complesso dei vescovi armeni continuò a considerare il "katholikos" di Sis come l'Altissimo Patriarca e "Katholikos" di tutti gli Armeni. Ma nel 1441 i vescovi dell'Armenia caucasica ingiunsero al "katholikos" di tornare a risiedere a Ecmiadsin. Legato a numerosissime popolazioni stabilitesi nelle province occidentali e meridionali della Turchia asiatica, il "katholikos" scelse di rimanere a Sis. Un secondo "katholikos" venne quindi eletto dai vescovi dell'Armenia caucasica, con sede a Ecmiadsin. Da allora la chiesa armena ha due capi. Attualmente, altri due patriarchi minori, costituitisi per ragioni politiche, uno a Gerusalemme nel 1311, l'altro nella capitale dell'impero ottomano nel 1461, rimangono ancora in carica, ma entrambi nell'obbedienza alla sede di Ecmiadsinè alla quale si ricollegano anche alcuni vescovi della diaspora delle due Americhe e dell'Europa.

Il "katholikos" di Sis, rifugiatosi ad Aleppo nel 1915, poi stabilitosi dal 1920 a Antelias, vicino Beirut, conta numerosi seguaci nella diaspora. Nelle ultime elezioni del "katholikos" nel 1963, si potevano vedere riuniti ad Antelias i delegati del Libano, della Siria, di Cipro, dell'Iran (tre diocesi., della Grecia, degli Stati Uniti e del Canada. Questo sdoppiamento della carica di "katholikos" crea frizioni tanto più gravi in quanto vengono alimentate da un elemento laico molto politicizzato, che svolge un ruolo determinante nella Chiesa, in conseguenza della confusione che domina tutta la mentalità armena tra nazione e religione. Si contano attualmente quattro milioni di Armeni sottomessi a una trentina di vescovi dell'una e dell'altra obbedienza. Tutti questi membri danno vita alla Chiesa armena gregoriana, un termine coniato nei secoli scorsi dai Russi. L'unico vantaggio che ha É quello di distinguere gli Armeni della Chiesa monofisita dagli Armeni cattolici e protestanti. La Chiesa armena cattolica É costituita dai fedeli che vivono sotto la giurisdizione del "katholikos" armeno cattolico titolare di Cilicia, residente oggi in Libano (Beirut e convento di Bzommar.. Il primo ad assumere questo titolo, Abramo Ardzivianè fu riconosciuto da Benedetto Quattordicesimo, l'8 dicembre 1742. Egli non era "patrik" (patriarca. nell'accezione ottomana, perché‚ non aveva l'autorità civile di cui godeva il patriarca armeno di Costantinopoli. La sua giurisdizione era semplicemente spirituale e amministrativa, limitandosi ai soli fedeli della sua confessione. Essa si estendeva allora sui cattolici armeni di Cilca, della Siria settentrionale, dell'Alta Mesopotamia e dell'Egitto. Attualmente, raggiunge tutti i fedeli cattolici della diaspora. Il costituirsi di una comunità armena cattolica accanto alla Chiesa tradizionale corrisponde, ma solamente al livello individuale, ai numerosi tentativi fatti prima dall'Ortodossia greca, poi da Roma, di ricollegare l'Armenia alla dottrina del concilio di Calcedonia. Fra questi tentativi, vanno sottolineati quelli compiuti nel Medioevo, in occasione dei sinodi latini tenuti ad Antiochia e a Gerusalemme (1140., ai quali assisterono dei vescovi armeni, quelli di papa Celestino Terzo (1191-1198., quelli soprattutto del concilio di Firenze (1439.. Nessuna delle riunificazioni sorte da questi tentativi ebbe lunga durata ed É solo con dei riavvicinamenti personali, dovuti soprattutto all'evangelizzazione di missionari occidentali che si É realizzata la formazione di un ramo cattolico, che conta attualmente duecentoventicinquemila fedeli, diretti da dodici vescovi. Di tutte le Chiese orientali non ortodosse, quella armena É quella che ha raggiunto il più elevato livello di cultura, caratterizzato da lavori architettonici saldamente costruiti in cui certi storici hanno voluto vedere le origini dell'arte romanica, un notevole numero di manoscritti miniati e una letteratura dottrinale che É perfettamente all'altezza delle antiche letterature cristiane. Vale d'altro canto la pena di aggiungere che questa cultura, che corrisponde all'attività naturale di questo popolo, É sorretta da istituzioni sia laiche, sia religiose, che scorgono nell'istruzione e nella conoscenza del passato un nesso ineguagliabile per affermare in un'Armenia dislocata e sparsa nel mondo intero la coscienza nazionale. Da questo punto di vista, conviene sottolineare l'opera notevole dei padri mechitaristi di Venezia e di Vienna, che si possono considerare come i fondatori della storia armena concepita scientificamente in uno spirito moderno. 5. LA CHIESA MARONITA. La Chiesa maronita deve il proprio nome al monaco Marone, un asceta della zona di Antiochia, del quarto secolo. Essa ebbe come culla il convento omonimo del santo, sito nelle vicinanze di Apamea. Costruito all'indomani della morte del santo, il convento venne ingrandito nel 452 dall'imperatore Marciano e, dopo un terremoto, ricostruito da Giustiniano (527-565.. Esso venne visitato da Eraclio nel 623 e colmato di elargizioni che ne spiegano il florido stato nei secoli ottavo e nono; nel decimo secolo, però, esso scompare. Nell'epoca in cui si costituiva la Chiesa giacobita, perseguitata da Giustiniano, il monastero di san Marone svolgeva già un ruolo importante in Oriente.

Se non fu presente a Calcedonia, un tal Paolo, apocrisiario del monastero del beato Marone, monastero che comanda i santi conventi della Siria seconda, firma al concilio di Costantinopoli del 536. Il monastero, dunque, svolge allora la funzione di guida di congregazioni di monaci e di fedeli raccolti intorno ad esso. Tutti costoro sono, in quel tempo, in lotta con i monofisiti, come testimonia una lettera rivolta al papa Ormisda (514- 523., in cui si accenna a trecentocinquanta monaci uccisi dai sostenitori dell'unica natura. Più tardi, nel nono secolo, un testo accosta parallelamente i melchiti maroniti e i melchiti greci, il che conferma l'ortodossia perpetua cui questa Chiesa fa appello spesso e volentieri, volendo dire con ciò che, siriaca di lingua ed antiochena di rito, essa non ha mai respinto la dottrina del concilio di Calcedonia sulle due nature e che non va classificata fra le Chiese nate dall'opposizione al concilio. Con questa tesi ufficiale contrastano alcuni storici che ritengono che i maroniti siano degli ex monoteliti (eresia che professa un'unica volontà nel Cristo. distaccatisi dal monofisismo. Quest'ipotesi, che ha dalla sua un testo dello storico delle Crociate, Guglielmo di Tiro, e una bolla del papa Innocenzo Terzo, dell'anno 1215, resta molto discussa e bisogna riconoscere che la scarsezza di fonti relative alla storia delle origini dei maroniti non consente di fornire a questo problema una soluzione sicura. Va perlomeno tenuto per certo che, fin dal loro incontro con i Crociati, essi si sono professati d'accordo con la Chiesa di Roma. In seguito, essi non hanno mai rinunciato a questo rapporto. La Chiesa maronita si presenta, quindi, come la prima delle Chiese degli uniati. Essa si presenta ben presto anche come una Chiesa nazionale, al punto che nessun'altra delle comunità separate dopo Calcedonia presenta con altrettanta nettezza e forza il concetto di nazione che l'autorità ottomana riconosceva alle Chiese orientali. Ben prima della creazione dei "Millet", la comunità maronita si comportava come una comunità etnica, organizzata sotto l'autorità di un capo venerato, il patriarca, assistito da un numeroso clero nel cui seno predominavano i monaci. Da quando li si vede costituirsi in un raggruppamento autonomo, i maroniti presentano una coesione tale che ha permesso loro di vincere il tempo e divenire il nerbo dell'attuale Repubblica Libanese. La Chiesa maronita ne costituisce uno dei pilastri. Pur non essendo, in seno a una comunità nazionale caratterizzata dal pluralismo religioso, la religione di Stato, essa gode di privilegi speciali, il più notevole dei quali non É quello di vedere assegnata la funzione di Presidente a uno dei suoi membri, ma di ottenere il rispetto e l'attenzione dell'intera nazione di fronte alla voce del patriarca, allorch‚ questa si leva nei momenti di gravi crisi. Uno degli elementi di questa coesione sta nell'isolamento di cui sono stati vittime i maroniti per tutta la loro storia. Fin dal nono secolo, le difficoltà da essi incontrate a vivere a contatto con i giacobiti li ha costretti a rifugiarsi in gran numero a Cipro e, nel secolo successivo, la rovina del loro monastero di origine li ha obbligati ad emigrare in massa dalle rive dell'Oronte, nelle gole della Qadisha che taglia la montagna libanese, all'altezza dei Cedri, da Bsharre fino a Tripoli. Profonda duecento metri, attraversata da parte a parte da caverne adatte alla vita eremitica, questa vallata costituì il centro della Chiesa maronita e continua ad esserlo almeno nella coscienza popolare, pur avendo perduto i suoi monasteri oggi abbandonati, tranne quello di Qozhaia. L'ha lasciata anche il patriarca, che si É spostato da Qannubin a Bekorki, nel Kesruan. Durante l'estate, però, egli rinnova per qualche mese i legami con la Montagna Santa vivendo a Dimanè un villaggio che domina l'intera vallata. Questo ridotto fortificato ha contribuito notevolmente a dare alla popolazione maronita il senso della propria unità. Per lunghi secoli la Chiesa maronita ha offerto l'immagine di una comunità sulla difensiva, specie nell'epoca degli Ottomani. Eppure, i maroniti sono usciti dal ghetto proprio sotto la dominazione di questi ultimi, grazie alla relativa autonomia che il paese riuscì ad ottenere verso la fine del sedicesimo secolo, sotto la guida della famiglia dei Ma'anè poi dei Sheab, alcuni dei cui membri abbandonarono nel 1770 la loro religione drusa e si fecero battezzare.

Per la Chiesa maronita si apre una grande epoca di espansione territoriale che si protrarrà fino alla metà del diciannovesimo secolo. Verso il 1850 i fedeli costituivano la grande maggioranza degli abitanti del Libano settentrionale, ma se ne trovavano anche in gran numero nel meridione del Libano, dove predominavano i drusi. Un simile successo É in gran parte dovuto alla protezione degli emiri. Esso fu altresì favorito dai rapporti intrecciati ben presto con l'esterno da parte dei maroniti. E' strano, in effetti, notare come questa Chiesa, racchiusa tra le sue montagne, sia nello stesso tempo quella più aperta al mondo esterno. Fin dal nono secolo, si trovano maroniti a Damasco, ad Aleppo, a Edessa e addirittura in Iraq. Più tardi, nel quattordicesimo secolo, essi si diffondono in Europa, a Roma, Firenze, Pisa e anche a Madrid. Una forza di espansione, che non si É ancora esaurita, li sospinge al di là delle loro naturali frontiere. Essi, d'altronde, entrano piuttosto facilmente in contatto con i paesi in cui si stabiliscono, grazie al loro cattolicesimo, del quale non dubita più nessuno dalle Crociate in poi. E' allora che si stabilisce il destino della comunità maronita, che si latinizza in misura crescente. Latinizzazione imposta da Innocenzo Terzo nel 1215, e inizialmente molto superficiale, ma che divenne più sistematica nel sedicesimo secolo, con le missioni degli inviati di Roma, Dandini ed Eliano, dei gesuiti la cui iniziativa rispetto alla liturgia e alla disciplina fu particolarmente incisiva, senza con ciò far perdere ai maroniti i tratti tipici della loro tradizione religiosa. I rapporti stabiliti tra la Sede di Roma e la Chiesa maronita ebbero anche altri risultati. Uno dei più importanti fu la fondazione, nella stessa Roma, di un collegio nel 1584 ad opera del papa Gregorio Tredicesimo. Ormai c'era un andirivieni costante tra la capitale del mondo cattolico e gli ecclesiastici libanesi inviati annualmente per compiere i loro studi. Molti di questi borsisti romani, entrando in contatto con la mentalità occidentale e l'insegnamento superiore impartito dai gesuiti, concepirono una vera e propria passione per lo studio delle loro tradizioni e della loro storia. Il più perfetto esemplare di eruditi maroniti fu senza dubbio Stefano Duaihi, nominato patriarca nel 1672, morto nel 1704. Egli É il fondatore della storiografia maronita. Quanti hanno interesse per il passato di questa formazione debbono per forza attingere all'insieme di notizie raccolte da lui. L'Occidente subì di riflesso il beneficio di questo movimento intellettuale suscitato da Duaihi. Grazie a degli studiosi maroniti stabilitisi a Roma, l'Europa ha cominciato a conoscere in modo scientifico gli svariati documenti della letteratura siriaca, ortodossa nonch‚ giacobita e nestoriana, e i manoscritti che ci hanno trasmesso le opere. Nel diciottesimo secolo, gli Assemani, Giuseppe Simone, il nipote Giuseppe Luigi e Stefano Evodio, cugino di quest'ultimo, si sono conquistati in questo campo una fama durevole. La prima grammatica siriaca conosciuta in Occidente venne pubblicata a Roma (1596. da parte del futuro patriarca, Amira. Quanto al Collegio di Francia che, fin dalla sua fondazione, lasciò largo spazio alle lingue orientali per compensare l'insegnamento retrogrado della Sorbona, esso fece appello a dei maroniti per l'insegnamento dell'arabo e del siriaco, in particolare ad Antonio Gabriele Sionita, primo titolare della cattedra (1614.. E' stato soprattutto attraverso l'orientalismo, dunque, che la Chiesa maronita ha gettato un ponte tra l'Oriente e l'Occidente, aprendo in tal modo la strada agli scambi intellettuali, politici e religiosi, che avvengono oggi con tutto il Libano e non solamente con i fedeli della comunità di san Marone. L'Oriente (Libano, Siria, Cipro. ne conta più di un milione, ai quali bisogna aggiungere altrettanti maroniti sparsi in tutto il mondo, soprattutto in Africa e nell'America meridionale.

Questa diaspora, però, ha un carattere molto particolare: essa É costituita da fedeli che lasciano momentaneamente il proprio paese non per ragioni religiose, ma per ragioni commerciali. Tutti questi dispersi, una volta fatta fortuna, ritornano nel paese natale. Tutti, in Oriente o per il mondo, sono sottoposti alla giurisdizione di un patriarca eletto dall'assemblea dei vescovi e che porta il titolo di Patriarca d'Antiochia e di tutto l'Oriente. Egli É aiutato da arcivescovi e da vescovi nominati da lui, nel governo della Chiesa. La vita religiosa, sempre molto attiva, É alimentata da un gran numero di monasteri che conservano uno dei tratti tradizionali di questa Chiesa. Di tutte le Chiese orientali nate dopo il concilio di Calcedonia, la Chiesa maronita É quella in cui l'istituto monastico É il più vitale. 6. LA CHIESA COPTA. Con la Chiesa d'Egitto, lasciamo il Vicino Oriente propriamente detto per l'Africa, ed É per ragioni geografiche che la Chiesa copta figura a questo punto dell'esposizione, mentre, dal punto di vista cronologico, si colloca immediatamente a fianco della Chiesa giacobita, della quale si potrebbe dire che sia la sorella. Entrambe, infatti, sono nate quasi contemporaneamente e per effetto di situazioni politiche e religiose analoghe. La Chiesa copta É quella degli antichi Egiziani convertiti al cristianesimo. Il nome deriva dal termine con cui gli Arabi indicano gli abitanti dell'Egitto, "qibt", deformazione della parola greca "Aigyptos", con apocope della prima sillaba. Da "qibt", gli Occidentali hanno ricavato "copto", scritto "cophto" fino al diciottesimo secolo. Attualmente, questo aggettivo si applica solamente ai cristiani indigeni, monofisiti, raccolti sotto l'autorità del patriarca, che prende il nome di Altissimo Santo Padre, patriarca d'Alessandria, di tutto l'Egitto, della Nubia, dell'Etiopia, della Pentapoli e di tutto il paese evangelizzato da san Marco. I suoi fedeli preferiscono attribuirgli il nome di papa, come il papa di Roma al quale obbediscono i copti cattolici. Contrariamente a quel che lascia capire la definizione del patriarca, l'evangelizzazione dell'Egitto non risale a san Marco. La leggenda, sulla quale si basa questa tradizione ufficiale, non va oltre i primi anni del terzo secolo, ma É difficile ipotizzare che il cristianesimo abbia aspettato una data così tarda per prender piede ad Alessandria, se si pensa all'importanza di questa città, la quale godeva nell'ambiente mediterraneo di una situazione mai raggiunta da altri centri, neppure da Antiochia; nell'ambito dell'Impero, essa veniva immediatamente dietro Roma. Ben precise ragioni culturali, nonch‚ le sue ricchezze commerciali e la sua posizione geografica, attribuivano a questa città un simile posto unico e incontestato. Alessandria era il principale centro intellettuale del periodo ellenistico, concretizzato nella sua celebre biblioteca. Essa era del pari la capitale del giudaismo ellenizzato, di cui Filone fu, all'inizio della nostra Éra, l'esponente più insigne, e che trova nella traduzione greca della "Bibbia", avvenuta sotto Tolomeo Filadelfo (285-247 avanti cristo., la sua espressione più efficace. Dal mondo ebraico, la "Bibbia dei Settanta" fu trasferita ai cristiani, che la adottarono come il loro testo sacro. E' poco probabile che, in condizioni del genere, il cristianesimo non sia penetrato in Egitto fin dall'epoca degli apostoli. Ma l'organizzazione della Chiesa sopraggiunse molto tardi, sotto Demetrio (189-231., il primo vescovo che si conosca. Quel che va soprattutto segnalato É il tratto specifico intellettuale che contrassegnò la nuova religione, non solo per conquistarsi un posto nella società colta, ma per combattere il giudaismo ed affrontare le tendenze sincretistiche che sembra abbiano trovato in Egitto un terreno più fertile che in qualsiasi altro luogo. Perlomeno, questo É quanto lascia pensare il successo dello gnosticismo, che si É a volte voluto vedere come un tipico prodotto egiziano, il che É sbagliato. Ad ogni modo, non É possibile non riconoscere questo tratto al movimento intellettuale suscitato da Clemente Alessandrino, a Origene e al suo discepolo Dionigi d'Alessandria. Primi nella storia della Chiesa, essi cercarono, con maggiore o minor successo, di operare la saldatura tra lo spirito scientifico greco e il cristianesimo ortodosso, di arricchire

quest'ultimo di tutto l'apporto che potesse venire dal paganesimo, senza tradire la purezza della dottrina cristiana. Questo tratto intellettualistico permane in Atanasio, l'avversario di Ario, sacerdote di Alessandria, e in Cirillo (m. nel 444., il quale rappresentò la principale autorità nel concilio di Efeso contro Nestorio.

Nel 451, la Chiesa d'Egitto si presentò nuovamente al concilio, questa volta sotto la guida di Dioscoro, successore di Cirillo, non solo con il prestigio assicuratogli dalle antiche reminiscenze, ma anche con il vanto di rappresentare la terra d'elezione del monachesimo, che allora contava più di mezzo milione di monaci, poco colti, fanatici e pronti a difendere le prerogative della sede di Alessandria di fronte a quelle di Roma e di Costantinopoli. La loro influenza ebbe un peso enorme nel costituirsi di una Chiesa copta indipendente. Le decisioni prese a Calcedonia a proposito delle due nature apparvero a Dioscoro e ai suoi sostenitori contrarie alla dottrina dell'unica natura sostenuta da Cirillo. Essi, quindi, le respinsero. Quest'atteggiamento può considerarsi semplicemente di ordine religioso, ma l'opposizione al concilio si alimentò anche di un sentimento più personale, nazionale. Attribuendo alla sede patriarcale di Costantinopoli prerogative progressivamente uguali a quelle di Roma, il concilio destituiva Alessandria dal ruolo da essa occupato nella gerarchia ecclesiastica della Chiesa universale. Nel respingere la dottrina di Calcedonia, il senso di frustrazione originato dal nuovo assetto dei patriarcati, ebbe un ruolo senza dubbio più determinante delle ragioni propriamente religiose. In ogni caso, da queste nuove circostanze sorse un periodo di difficoltà e di scontri, caratterizzato dall'instabilità delle sedi episcopali, che passavano dai monofisiti agli ortodossi a seconda del favore o delle scelte del potere centrale. Per mettere fine a questa danza incrociata dei vescovi, Giustiniano prese una misura radicale: fece arrestare tutti i vescovi monofisiti e li rinchiuse in alcuni conventi. Questo modo tirannico di risolvere il problema avrebbe potuto avere successo se non vi fosse stata l'imperatrice Teodora. Il suo appoggio consentì nel 542 che si restaurasse la gerarchia monofisita. E' a partire da quest'epoca che si può parlare di una Chiesa copta monofisita indipendente, che vive ai margini della gerarchia ortodossa allo stesso modo della Chiesa giacobita in Siria. Quest'asprezza di Bisanzio verso i cristiani d'Egitto contrari al concilio di Calcedonia comportò una conseguenza funesta per l'Impero nel secolo successivo, allorch‚ gli Arabi fecero la loro comparsa. Essi vennero accolti come liberatori e il favore accordatole inizialmente dai musulmani permise alla gerarchia monofisita di rafforzarsi, riprendendo ai melchiti le chiese da questi occupate grazie all'appoggio dell'imperatore. Come riflesso, l'occupazione araba comportò la completa spaccatura della cristianità d'Egitto con il resto del mondo cristiano, tranne la Siria giacobita. E' allora che essa consolida i tratti nazionali, che si andavano già facendo strada ai tempi della persecuzione. Il greco, che era stata la lingua del pensiero e della preghiera, scompare di fronte alla lingua locale e monastica. Il copto diventa la lingua della liturgia e della liberazione religiosa, prima di cedere il posto all'arabo. La vita della Chiesa copta fu ormai quella delle altre Chiese d'Oriente presenti in territorio musulmano. Godendo agli inizi, sotto gli Omayyadi, di una tranquillità relativa, per l'appoggio avuto dai loro eserciti da parte dei cristiani, essa ben presto si attirò l'inimicizia dello Stato per ragioni assolutamente non religiose. Sei volte, tra il 725 e il 773, i copti si ribellarono contro le pesantissime imposte che gravavano su di loro. Questi eccessi di malumore, ripetuti sotto gli Abbasidi nel 794 e nell'830, non sortirono altro effetto se non quello di provocare imposte ancor più pesanti, cosa che determinò in molti l'abbandono della fede cristiana. Sotto i Fatimidi (909-1171., la comunità, ridimensionata da queste apostasie, non dovette subire altre persecuzioni, tranne quella, tremenda, di al-Hakim (996-1020., del resto

compensata in parte dal favore di Azizi, che rifiutò di perseguitare i musulmani convertiti al cristianesimo, e da quello di Zahir (1021-1035., che autorizzò i cristiani, convertitisi all'islam per paura, a ritornare alla loro fede originaria. Il periodo degli Ayyubiti (1171-1252. fu, invece, nefasto per la cristianità copta. Gli anni 1218 e 1250 furono contraddistinti da numerose distruzioni di chiese, che si ripeterono nel 1321 sotto i Mamelucchi (1252-1517.. Quell'anno costituisce il punto di partenza della decadenza della Chiesa copta. Ormai essa non conta più realmente come nazione (P. Rondot.. Essa assumerà tuttavia una parte importante nel movimento nazionalista egiziano che sfocerà, dopo l'ultima guerra, nell'indipendenza politica dell'Egitto. Lo Stato attuale lascia infatti spazio ai copti. Ma le scelte di alcune personalità copte per alcuni posti di comando derivano e dalla loro influenza e dalla loro competenza: non dipendono assolutamente dalla loro appartenenza alla comunità religiosa. Così, in una nazione egiziana che vuole in linea di principio porre su un piede di parità musulmani e cristiani, non sorprende che ogni anno si accentuino le defezioni cristiane, dal momento che molti copti, dice un giornalista egiziano, non vedono più i motivi per continuare ad appartenere a una setta che li differenzia dagli altri senza offrirgli nulla in cambio. Oggi i copti contano da tre a cinque milioni di fedeli. Benché‚ il loro papa rechi il titolo di patriarca di Alessandria e abiti di solito nella città del Cairo, la maggior parte dei cristiani si incontra nell'Alto Egitto, con capitale di fatto a Assiut. La comunità, considerata nel suo complesso, rimane egiziana, cioè non conosce la diaspora, ancorch‚ oggi si assista, per ragioni prevalentemente politiche, a partenze sempre più frequenti verso l'Europa e l'America. La Chiesa copta, che - si ritiene - ha disseminato nel Medioevo fedeli fin sulle rive dell'Atlantico, É sempre rimasta attaccata alla sua terra. Essa non ha mai conosciuto un'espansione analoga a quella della Chiesa nestoriana, tranne in Nubia (attuale Sudan., dove fondò fin dal sesto secolo una Chiesa gloriosa che sopravvisse fino al sedicesimo secolo, e in Etiopia. Di fronte a questo imponente numero di fedeli monofisiti, la Chiesa copta cattolica appare ben modesta. I suoi fedeli raggiungono appena la cifra di centomila, e vivono sotto l'obbedienza a un Patriarca di Alessandria per i copti, che ha sede nella città del Cairo. La Chiesa conta tre vescovati, tutti nell'Alto Egitto, con un clero non sposato, salvo casi eccezionali, sottoposto al giudizio del patriarca. Tutti questi fedeli sono o dei convertiti di recente, o dei discendenti dei copti ricollegatisi con Roma ai tempi di Clemente Dodicesimo (1730- 1740., tramite il vescovo di Gerusalemme, Amba Atanasio, posto alla testa della piccola comunità cattolica con il titolo di vicario apostolico. Il titolo patriarcale É stato stabilito solamente nel 1899. 7. LA CHIESA ETIOPICA. Solo da alcuni anni É giusto parlare di una Chiesa etiopica indipendente. Dalla sua conversione al cristianesimo, l'Etiopia É stata, infatti, una succursale della Chiesa d'Alessandria, donde il nome che le si attribuisce talvolta di Chiesa copta d'Etiopia. Formalmente parlando, l'espressione può essere soddisfacente, ma esprime male la natura di questa Chiesa. Qui, come per tutto ciò che ha ricevuto da fuori, il genio etiopico ha creato qualcosa di originale, che corrisponde al suo specifico temperamento, pieno di una naturale fierezza accresciuta da un'indipendenza politica che non É mai stata infranta, salvo durante i pochi anni dell'occupazione italiana. Fino al 1959, il capo, l'"Abuna" nostro Padre, veniva scelto fra i monaci egiziani del convento di Sant'Antonio del Deserto, lungo le rive del Mar Rosso. Non conoscendo n‚ l'amarico n‚ il "ge'ez", e quindi avendo ben poca presa sui cristiani etiopici, egli fungeva soprattutto da simbolo e da strumento di dipendenza di questi dal seggio alessandrino. Questa situazione si É conclusa con la consacrazione dell'attuale "Abuna", ormai chiamato ufficialmente Patriarca e "Katholikos".

Con l'aiuto di vescovi, etiopici come lui, collocati alla testa di quattordici province, egli regge la più antica e numerosa comunità cristiana dell'Africa nera. In seguito ai suoi originari legami con Alessandria, l'Etiopia si trovò separata da Bisanzio e da Roma quando si costituì la Chiesa copta; non ebbe neppure la possibilità di scegliere e di esprimere un giudizio. Il cristianesimo fu introdotto in Etiopia, nel regno di Axum, verso la metà del quarto secolo sotto il regno del re Ezana (attorno al 350.. Protagonista dell'evangelizzazione fu un cristiano di Tiro, Frumenzio, ordinato più tardi vescovo da Atanasio d'Alessandria e messo alla testa della nuova comunità cristiana con il nome di Salama. La conversione della corte non venne seguita immediatamente da quella della popolazione e restava parecchio da fare per convertirla, allorch‚, nel corso del sesto secolo, sopraggiunsero i Nove santi. Sotto questa denominazione popolare si nascondono le figure di nove monaci siriani, probabilmente scacciati dal loro paese a causa del monofisismo. Il lavoro missionario da loro svolto É misurabile in relazione con il ricordo lasciato nella coscienza della nazione. Dalle sue origini, dunque, la Chiesa etiopica si incentrò di volta in volta sull'Egitto, sulla Siria e su Bisanzio che, fino alla rottura del sesto secolo, fungeva da capitale religiosa del mondo orientale. L'arrivo dei Nove santi inaugurò l'evangelizzazione delle campagne. Partita dal Tigr‚, al nord, essa raggiunse l'altipiano centrale, spingendosi sempre più verso il sud. La cristianizzazione fu una impresa di lunga durata: essa non É ancora compiuta, dal momento che le province meridionali restano ancor oggi in gran parte pagane. Procedendo verso il sud, il cristianesimo si scontrò con due forze ostili: l'islam, che si radicò nelle pianure fin dal settimo secolo, e il feticismo delle popolazioni meridionali, la più intraprendente delle quali, quella dei Galla, incalza sempre di più i territori tradizionalmente cristiani, nei quali si insedia a partire dal quattordicesimo secolo. La più potente di queste due forze contrapposte al cristianesimo É sempre stata l'islam. Per un momento, nel sedicesimo secolo, essa stava addirittura per distruggere completamente il regno cristiano d'Etiopia, che si salvò in parte con l'aiuto delle truppe portoghesi. Le condizioni geografiche, politiche e sociali del paese hanno esercitato un'enorme influenza sulla vita e la natura di questa Chiesa, l'unica che possa ancora, ai nostri giorni, fornirci l'idea di una Chiesa nazionale nel senso pieno della parola.

Respinta ai margini del mondo cristiano, impedita, da quando arrivò l'islam, a mantenere normalmente i rapporti con il resto del mondo cristiano, compreso l'Egitto, dal quale venne a più riprese tagliata fuori dagli Arabi del Sudanè l'Etiopia si É creata una Chiesa tutta particolare. Essa, infatti, É retta dal patriarca e dal negus, un personaggio consacrato, una delle cui funzioni É, secondo la Costituzione attuale erede delle tradizioni ancestrali, quella di essere il difensore della santa fede ortodossa basata sulle dottrine di san Marco d'Alessandria. Definendolo un "Basileus africano", uno storico inglese (D. Mathew. ha messo bene in evidenza come egli non sia altro, in certo modo, che la riproduzione, ai nostri giorni, dell'imperatore bizantino, il quale univa nella sua persona il potere civile e il potere religioso. In ciò, la Chiesa etiopica somiglia abbastanza all'Ortodossia prima della presa di Costantinopoli. Si tratta, nel senso pieno del termine, di una Chiesa di Stato. A questo primo tratto ereditato dall'antichità, la Chiesa di Etiopia ne aggiunge un altro che contribuisce a conservarle il suo carattere medievale: essa É popolata da una moltitudine di monaci, zeppa di un numero incalcolabile di conventi. E' stato così in passato per tutte le Chiese d'Oriente. Ma, mentre nelle altre l'istituto monastico va decrescendo in numero e in influenza, esso conserva in questo caso un posto preponderante nell'organizzazione ecclesiastica, non solo perché‚ patriarca e vescovi vengono obbligatoriamente scelti fra i monaci, ma anche perché‚ essi svolgono nello Stato, dopo la restaurazione della monarchia salomonide alla fine del

tredicesimo secolo, un ruolo economico e sociale considerevole, in parte dipendente dalle loro ricchezze fondiarie. I monaci contemporanei vivono o in comunità o in eremitaggio. Un tempo essi erano sottoposti all'autorità di un unico capo, lo "Eceghi‚", la cui potenza era superiore a quella del patriarca. Stefano Etiopico, quando il patriarca veniva dall'Egitto, era lui in realtà il vero capo della Chiesa etiopica: egli era il collaboratore del negus nell'amministrazione della Chiesa del suo paese. Attualmente, l'"Eceghi‚" non ha più un ruolo e sembra anche che la carica e il titolo siano scomparsi nell'organizzazione gerarchica. Il numero dei sacerdoti secolari ai quali É affidata la direzione delle chiese di campagna non É affatto inferiore a quello dei monaci, ancorch‚ la loro importanza sia molto inferiore. La ragione sta nel fatto che questa Chiesa conosce un sacerdozio ereditario, cosicch‚ esiste una vera e propria classe di sacerdoti che si trasmettono la loro carica (e i privilegi connessi. per diretta discendenza. In genere molto ignoranti, con l'unica conoscenza dei riti e delle preghiere di cui si occupano in modo del tutto meccanico, la loro influenza religiosa o culturale É assai mediocre. In questo, la loro debolezza viene compensata dal ruolo assegnato a una categoria assolutamente specialistica di uomini di Chiesa, che si incontrano solo in seno alla comunità etiopica, i "dabtara". N‚ preti n‚ diaconi, essi non rientrano nella gerarchia vera e propria. Essi sono coloro che conservano la tradizione ecclesiastica. Da parte del popolo, li si consulta sulle piante medicinali ed essi applicano i loro talenti nel fabbricare amuleti e nell'uso di incantesimi di ogni genere. In questo campo, infatti, gli Etiopici sono imbevuti di pratiche pagane ereditate dagli antenati. Tuttavia, non É questo un tratto distintivo del cristianesimo etiopico. L'elemento che colpisce di più sta senza dubbio negli strettissimi rapporti che collegano la vita del culto con le pratiche giudaiche. La circoncisione non costituisce semplicemente una norma igienica: si tratta di un rito compiuto dal sacerdote subito dopo il battesimo. Il sabato viene osservato come la domenica. E' vietato l'uso della carne di maiale ed É obbligatorio mangiare carni stufate. Inoltre, il vocabolario religioso É ricco di termini mutuati dal rituale o dall'etica ebraici. Si nota altresì una predilezione per i nomi del "Vecchio Testamento" come nomi di battesimo e presso la maggior parte dei sovrani del Medioevo. Uno di questi, Zar'a Yaqub Seme di Giacobbe, nel quindicesimo secolo, arrivò addirittura a proibire di dare ai bambini nomi che non fossero biblici. Questa penetrazione ebraica nel cristianesimo etiopico ha creato molti problemi agli storici. Alcuni vi hanno voluto vedere la prova di una conversione del paese al giudaismo prima che al cristianesimo. Tutte le usanze segnalate non sarebbero altro che testimonianze di questo dato di fatto, attestato a modo loro dai "falascià", degli strani ebrei d'Etiopia che leggevano la "Torah" in "ge'ez" e ignoravano il "Talmud" e la "Mishna". Una spiegazione più semplice e più plausibile può essere ricercata nella mentalità nazionale dell'Etiopia che, facendo risalire le proprie origini a Salomone, attraverso Menelik e la regina di Saba, si considera come il vero Israele. Attualmente si contano dai sette ai nove milioni di cristiani monofisiti in Etiopia, ma É ben difficile fidarsi completamente di queste cifre. Quel che si può dire É che, nonostante l'affermazione ufficiale, il paese non É completamente cristiano, dal momento che una parte della popolazione É composta da musulmani e da pagani. Una Chiesa uniate, detta Chiesa cattolica d'Etiopia, retta oggi da un esarca, risultava già nel diciassettesimo secolo, al momento delle missioni dei gesuiti portoghesi e italiani, cacciati dall'Etiopia da Fasiladas (1632., il quale distrusse ogni rapporto esistente allora tra i fedeli e Roma. Una nuova generazione di cattolici sorse verso il 1830, in seguito alle missioni dei lazzaristi.

Dapprima diffusa in Eritrea, questa branca della Chiesa etiopica si estende ora in tutto il paese e il suo capo risiede ad Addis Abeba. Benché‚ i cattolici si siano moltiplicati al momento dell'occupazione italiana, essi non possono reggere il confronto con la Chiesa ufficiale, perlomeno per quanto riguarda il numero. I loro sacerdoti, non ammogliati, ricevono una formazione clericale che li colloca al di sopra del clero rurale di cui abbiamo parlato prima. 8. LE CHIESE DELLE INDIE. Sotto questa denominazione generale facciamo rientrare le varie comunità cristiane che vivono nell'attuale provincia del Kerala. Accanto ai gruppi nestoriani e giacobiti già segnalati, ne troviamo altri, di meno antica formazione ma assai vitali, come la Chiesa siro-malabarica e la Chiesa siro-malankarese. Questi raggruppamenti presentano alcune caratteristiche comuni. Non si tratta, come si potrebbe pensare, di comunità cristiane delle missioni, come quelle che troviamo nel Terzo Mondo. Esse sono autoctone, pur non essendo però nazionali: sono tutte composte da indiani, dirette da sacerdoti e vescovi indiani. Per secoli esse hanno celebrato i loro riti in siriaco. Attualmente, esse usano anche il malayalam, la lingua parlata nel Malabar, il che accentua la loro fisionomia indiana. A causa di quest'impiego liturgico del siriaco e del rapporto originario che esse hanno avuto con le Chiese di Siria-Mesopotamia, prendono il nome di siro-malabariche e siro-malankaresi. I termini con cui i cristiani dell'India indicano il complesso dei fedeli di queste diverse comunità mostrano chiaramente la diversità della loro origine e la complessità delle loro rispettive nature. Da parte loro, essi prediligono il nome di Cristiani di san Tommaso, oppure quello di "nazrani", un termine derivante tal siriaco "nasraya", nel quale ritroviamo il nostro nazzareno. Quanto agli abitanti del paese tra i quali essi vivono, li chiamano "mapilla", un nome che significa figlio maggiore. Un tempo, con questo nome si indicavano le famiglie cristiane liberate dalla schiavitù dai prìncipi locali. Per il popolo, "mapilla" equivale in genere a cristiano. La questione dell'evangelizzazione dell'India da parte del l'apostolo san Tommaso rimane molto discussa e non c'É alcun elemento di fatto che possa essere avanzato con certezza a suffragio di tale ipotesi. N‚ si può essere in grado di dire di quale India si tratti, quando le leggende agiografiche o i Padri della Chiesa ne parlano, del resto non prima della fine del secondo secolo-inizio del terzo. Si tratta, molto probabilmente, della costa sudoccidentale, nota agli Occidentali fin dall'epoca classica. Pur se incerta, l'azione di san Tommaso rimane probabile. Essa É consegnata in uno scritto apocrifo, gli "Atti di Tommaso", dell'inizio del terzo secolo, che mette in rapporto con Edessa l'evangelizzazione di questa parte dell'India. Pur se sembrano poco plausibili dei contatti diretti tra i due centri, rimane il fatto che il cristianesimo delle Indie É d'origine siriaca. Le due tradizioni liturgiche, che si riflettono nei due rituali, collocano questi cristiani alle dipendenze della Chiesa nestoriana di Seleucia- Ctesifonte nonch‚ dei giacobiti di Antiochia. Filiazione di questi raggruppamenti, la Chiesa delle Indie ha pur sempre un'individualità giuridica che i suoi costumi e le sue usanze hanno aiutato a conservare intatta. Essa non É mai stata un'emanazione, una parte integrante di alcuna delle Chiese che le inviavano i vescovi (P. Placide.. Fino all'arrivo dei Portoghesi all'inizio del sedicesimo secolo, i cristiani dell'India, nonostante i loro riti, non si sono mai sentiti nello stato di Chiesa separata dall'Ortodossia, sia bizantina sia romana.

La venuta dei missionari latini fece loro conoscere il proprio stato di scismatici ed eretici al quale non avevano mai pensato, essendo vissuti al di fuori dei contrasti che lacerarono le Chiese d'Oriente dopo Calcedonia. La prova di ciò sta nelle relazioni amichevoli da essi intrattenute fin dall'inizio con i Portoghesi. Ben presto, però, questi cercarono di farli rientrare nell'ambito dell'obbedienza romana, con metodi spesso dittatoriali e deprecabili. L'azione dei Latini É andata avanti con metodi più pacifici fino ad oggi: essa É approdata alla creazione dei due gruppi citati sopra: quello siro-malabarico, composto quasi completamente di cattolici, e quello siro-malankarese, che comprende sia cattolici sia giacobiti. Il gruppo siro-malabarico, che dispone dal 1956 di cinque sedi episcopali sotto la guida di due metropoliti nominati dalla Santa Sede, fu costituito, in origine, da nestoriani convertiti al cattolicesimo soprattutto ad opera dell'arcivescovo latino di Goa, Aleixo de Menezes. Le riforme da lui imposte diedero vita a un rito ibrido sancito dal concilio locale di Diampr (Udiamperur. nel 1599, la cui legittimità fu sempre contestata dai Siriani. In sostanza, si tratta del rito siro-orientale dei nestoriani, epurato dei suoi errori di dottrina, cui si aggiungono elementi latini che nascondono spesso il rito originario. La Chiesa siro-malankarese É sorta da uno scisma all'interno della comunità siro-malabarica, in parte provocato dall'ambizione di alcuni prelati, in parte dal malcontento di alcuni fedeli che ambivano sottrarsi alla guida dei capi latini. Nel 1653, un settore guidato dall'arcidiacono Tommaso (di Campo. fece consacrare quest'ultimo vescovo attraverso l'imposizione delle mani ad opera di dodici preti, sotto il nome di Tommaso Primo. Roma cercò di recuperare i dissidenti nominando un vescovo indiano, Mar Alessandro Parampil, esattamente il cugino di Mar Tommaso. Costui, cosciente della debolezza della sua situazione dal punto di vista canonico, chiese al patriarca giacobita di convalidare la propria ordinazione. Nacque così il ramo giacobita della Chiesa malabarica, che sopravvive ancora oggi, ma si va esaurendo progressivamente. Già nel corso del diciottesimo secolo, una parte dei fedeli se ne era allontanata per dar vita alla Chiesa unita dell'India meridionale, sotto l'influenza anglicana. A partire dal 1930, É piuttosto verso Roma che avviene il movimento di scissione e l'entità delle conversioni É divenuta tale che ha costretto a dar vita a una gerarchia nuova e a una liturgia diversa da quella malabarica, il rito siro-malankarese, che si ricollega al rito di Antiochia. I fedeli che non si sono riunificati con Roma restano in rapporto con il patriarca giacobita di Damasco. Superando il loro numero il milione, essi costituiscono la più grande comunità giacobita esistente. La vita ripiegata su se stessa di queste etnie religiose orientali, che aspirano ad affermare in tutti i modi la propria personalità, ha contribuito notevolmente al nascere di una cultura e di una civiltà che si affermano attraverso l'arte e la letteratura. L'eredità di ciascuna, al riguardo, É molto diseguale, vuoi per le distruzioni subite, vuoi per minor capacità creativa. Nell'arte, la Chiesa armena detiene il primato: i monumenti armeni in fatto d'architettura nonch‚ i documenti miniati sono giustamente famosi. La letteratura, invece, É piuttosto povera, perlomeno per il periodo antico. Le Chiese di lingua siriaca, al contrario - sia nel caso della Chiesa nestoriana sia in quello della Chiesa giacobita - hanno prodotto una letteratura estremamente ricca che si impone immediatamente per la mole e la rilevanza della produzione, subito dopo la letteratura cristiana greco-latina. I copti sono molto meno dotati. E' giusto dire a loro discolpa che i monumenti architettonici sono orrendamente rovinati e che non ci restano ormai più se non dei frammenti di opere scritte in copto; si tratta per lo più di omelie o di vite di santi concepite secondo un'ottica di edificazione per la lettura dei monaci, autori essi stessi di questo genere di testi. Al confronto, l'Etiopia si presenta come un focolaio sorprendente di opere letterarie di carattere storico, liturgico ed apocalittico.

Fra i libri antichi che ci sono pervenuti, c'É un numero imponente di testi relativi alla controversia sulla duplice natura del Cristo suscitata dalle discussioni con i missionari latini. In questi ha avuto modo di esprimersi liberamente lo spirito penetrante ed acuto degli Etiopici. Il cristianesimo, che segna della sua impronta fino ad oggi l'intera nazione, ha anche dato vita ad un'arte indigena di cui si comincia appena a conoscere e ad apprezzare le testimonianze, vuoi nel campo della pittura vuoi in quello dell'architettura. Il numero imponente di chiese monolitiche, tra cui il complesso di Lalibella É quello più famoso, É uno dei tratti più singolari del genio etiopico. Quanto alle Chiese delle Indie, si può dire che esse non abbiano prodotto alcuna opera. Probabilmente, É attraverso queste risorse culturali che gli spiriti moderni riescono meglio ad affrontare lo studio di queste Chiese, di cui fin qui si sono soprattutto presi in esame i soli riti, per la loro antichità e le loro caratteristiche piuttosto folcloristiche. BIBLIOGRAFIA. - Opere di carattere generale. Atiya A. S., "A History of Eastern Christianity", London 1965. Attwater D., "The Christian Churches ot the East", Milwaukee 1947- 1948. De Clercq C., "Les Eglises unies d'Orient", Paris 1934. De Vries W., "Der christliche Osten in Geschichte und Gegentwart", Wrzburg 1951. Fortescue A., "The Lesser Eastern Churches", London 1913. Hajjar J., "Les chr‚tient‚s uniates du Proche-Orient", Paris 1962. Janin R., "Eglises orientales et rites orientaux", Paris 1955(4.. Musset H., "Histoire du christianisme sp‚cialement en Orient", 3 volumi, Harissa (Libano. e Gerusalemme 1948-1949. Rondot P., "Les chr‚tiens d'Orient", Paris 1955. Spuler B., "Die Morgenl„ndischen Kirchen", in "Handbook der Orientalistik", I, T. XII, Leiden-K”ln 1964(2.. - Chiesa nestoriana. Dauvillier J., "Les provinces chald‚ennes de l'ext‚rieur au mnoyen ƒge", in M‚langes Cavallera, Toulouse 1948, p.p. 260-316. Labouret J., "Le christianisme dans l'empire perse sous la dynastie sassanide (224-632.", Paris 1904. Nau F., "L'expansion nestorienne en Chine", in Annales du Mus‚e Guimet, 1931. Saeki P., "The Historian Documents and Relics in China", Tokyo 1937, 1951(2.. Tfindkji J., "L'Eglise chald‚enne-catholique, autrefois et aujourd'hui", Paris 1913 (estratto dall'Annuaire pontifical catholique del 1914.. Tisserant E., "L'Eglise Nestorienne", in Recueil cardinal Eug. Tisserant, I, Louvain 1955, p.p. 139-308 (riproduzione dell'articolo "Nestorienne [Eglise]". in "Dictionnaire de Th‚ologie catholique", Paris 1930. Wigram A.

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343-437, 1942. LA CHIESA ORTODOSSA di Olivier Cl‚ment. 1. INTRODUZIONE. Una delle tre principali espressioni del cristianesimo, la più antica eppure quella conosciuta meno bene, la Chiesa ortodossa (giacch‚ occorre immediatamente imporre quest'uso del singolare, in segno di unità sacramentale, dottrinale e carismatica., conta centosessanta milioni di battezzati all'incirca. Un grande lavoro missionario - assiduo in Asia settentrionale, a partire dal quattordicesimo secolo fino alla Rivoluzione russa -, e le diaspore contemporanee, hanno impresso a questa Chiesa un carattere di innegabile universalità dal punto di vista geografico, che la porterebbe ad espandersi fino all'Etiopia e all'India meridionale se avessero felice esito le trattative per l'unificazione avviate positivamente nel 1964 con le Chiese precalcedonesi. Oggi, la collocazione geografica dell'ortodossia traccia sul globo terrestre una specie di croce. Il braccio verticale di questa si radica nei luoghi della rivelazione biblica, con gli ortodossi arabi dei patriarcati apostolici di Antiochia e di Gerusalemme: si tratta di comunità ridotte (circa seicentomila fedeli in tutto., ma assolutamente non di residuati, che anzi sono spesso in pieno rinnovamento. Più a nord, proprio nei luoghi delle visioni di san Giovanni e della predicazione di san Paolo, troviamo la vigorosa ortodossia greca; dieci milioni circa di battezzati delle Chiese autocefale di Grecia e di Cipro e del patriarcato di Costantinopoli, o patriarcato ecumenico, che detiene un primato onorifico in seno alle Chiese-sorelle, autocefale (vale a dire: che designano autonomamente il rispettivo primate.. Ancora più a nord (e pur limitandosi a menzionare di passata, per sottolineare una diversità irriducibile, le Chiese di Albania e di Georgia., il ramo verticale della croce attraversa l'ortodossia latina: quindici milioni di battezzati rumeni, il cui destino di punto d'incontro e di collegamento (tra la Grecia e la Russia, nonch‚ tra l'Oriente e l'Occidente. É stato più volte decisivo. Infine, ecco, in grappolo, lungo il leggendario itinerario dell'apostolo Andrea, le Chiese slave (Serbia, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Russia., che contano da centoventi a centotrenta milioni di battezzati. Il braccio orientale della croce rappresenta il percorso storico della missione russa: attraverso l'Asia settentrionale, fino alle Chiese disseminate in Cina, in Giappone, nelle Aleutine e in Alaska - prima presenza ortodossa in America. Comunità spesso sopravvissute, timidamente rianimate oggi dalla diaspora (soprattutto americana. e dalla Russia, e che raggruppano ormai solo centomila fedeli (perlomeno al di fuori dei confini dell'URSS.. Il braccio occidentale della croce corrisponde alle grandi diaspore del ventesimo secolo, connesse soprattutto sia all'esodo slavo e mediterraneo verso i nuovi paesi, sia alle rivoluzioni comuniste in Europa. Troviamo, così, trecentomila ortodossi in Europa occidentale (bisogna aggiungervi quasi un milione di lavoratori greci, specie in Germania occidentale., quasi la metà dei quali in Francia, cui si possono aggiungere i settantamila seguaci della Chiesa autonoma finlandese (che anima una missione in Lapponia.. Le principali comunità, di ogni origine, sono insediate in America settentrionale (cinque milioni., specie negli Stati Uniti, dove lavorano, non senza difficoltà, per unificarsi: sarebbe questo un obiettivo tanto più necessario in quanto esse contano un notevole numero di convertiti (alcuni di rito occidentale. e impiegano in misura crescente l'inglese come lingua liturgica (fenomeni analoghi, sia pure più circoscritti e più lenti, si possono rilevare in Francia.. Al di fuori di questa larga area geografica, va infine menzionato tutto un pullulare di comunità ortodosse nei continenti australi: diagonale siro-libanese verso il Brasile attraverso l'Africa, rifugi diversi, fortemente consolidati dalla seconda emigrazione russa (del 1945. in Argentina (cinquecentomila. e in Australia (cinquecentomila., Greci allontanati dall'Egitto nasseriano ma sempre più numerosi, sotto la giurisdizione del patriarcato di Alessandria, nel resto dell'Africa, infine sviluppo spontaneo, non tramite missione ma per scelta spontanea degli interessati, ti un'ortodossia nera ancora incerta in Uganda e in Kenya (trentamila fedeli.. 2.

ACCENNO DI UN DESTINO. Ortodossia significa contemporaneamente retta dottrina e retta glorificazione: l'ortodossia É "ortopraxis", che É un termine che si limita a suggerire in modo discreto un'esperienza. Il dualismo occidentale di Scrittura e Tradizione si trova così risolto nell'esperienza ecclesiale (personalmente interiorizzata. della Scrittura attraverso la Tradizione: Tale É l'insegnamento delle Scritture, tale É la Tradizione dei Padri, tale É la nostra modesta esperienza, dirà nel quattordicesimo secolo san Gregorio Palamas (MG CL, 1236 A.. Contro ogni tentativo di ridurre l'ortodossia a un'eresia medievale, va messa in luce, con gli stessi ortodossi, questa continuità feconda di un'esperienza fondamentale: quella della Resurrezione annunciata dagli apostoli e resa fruibile per tutti ad opera dello Spirito della Pentecoste. In questa continuità apostolica possiamo distinguere, con Vladimir Lossky, tre grandi cicli: quello cristologico, fino all'ottavo secolo; quello pneumatologico, fino al quindicesimo secolo; quello ecclesiologico - tuttora aperto - in epoca moderna. - Il ciclo cristologico. Attraverso gli splendori imperiali di Bisanzio, in parte ereditati dalla liturgia, l'ortodossia ha conservato la nostalgia del periodo precostantiniano come esigenza di povertà escatologica e di semplicità interiore. Umiltà, dolcezza, rifiuto della tentazione del potere, comunismo escatologico della comunità originaria costituiranno dei temi costanti della sensibilità ortodossa. La Chiesa rimarrà in primo luogo una comunità eucaristica; e la spiritualità, rimarrà quella del martirio, come luminosa partecipazione alla croce vivificatrice: il vero cristiano É l'"aphoberos thanatou" colui che non teme la morte, che offre il proprio sangue e riceve lo Spirito. A partire da Costantino e da Teodosio, fu notevole il rischio di pensare che i tempi fossero ormai maturi e di confondere il Regno di Dio con l'Impero universale convertito al cristianesimo. La tensione escatologica, tuttavia, si mantenne intatta, dato l'immenso slancio del monachesimo. Nelle sue forme primitive, violente, esso consiste nelle gesta di figure infuocate, di carismatici ebbri di Dio che intendono trascendere la storia, in cui sembra collocarsi la Chiesa imperiale, per divenire realmente dei resuscitati - una delle denominazioni tradizionali del monaco, nell'ortodossia, É appunto quella di uomo resuscitato - e, con l'esclusiva azione di presenza, una presenza bruciante, affrettare la manifestazione finale, su scala cosmica, della vittoria del Cristo sulla morte. Tale realismo escatologico - attenuato, ma mai spento, dallo sviluppo del cenobitismo - si É trasmesso al popolo cristiano tramite l'elaborazione della grande liturgia bizantina. Nell'alto impero bizantino - e fu merito incomparabile del periodo giustinianeo - si sviluppa un ellenismo sovrannazionale che, nelle sue punte più alte, fa sì che gli umili partecipino, grazie alla mediazione di un'arte complessiva, alla visione infuocata degli eremiti. Colossale ed agile, la cupola di Santa Sofia a Costantinopoli simboleggia realmente il cielo sopra la terra, la definizione ortodossa della liturgia. Grandi poeti, quasi tutti monaci e siriani, saldano il senso greco della bellezza con il senso semitico della personalità, della carne, del Dio patetico. Una simile connivenza del monaco con la popolazione trionfa progressivamente - tra il sesto e l'ottavo secolo - sul cesaropapismo utilitaristico degli imperatori. Il vero contenuto della sinfonia bizantina consisterà in questa ricorrente tensione tra l'imperatore e i chierici di corte, da un lato, e, dall'altro, una Chiesa confessante, popolare e monastica, che trova tanto più facilmente ascolto da parte dell'episcopato in quanto questo, dopo il settimo secolo, si recluta esclusivamente fra i monaci. Così si É riusciti a salvaguardare l'indipendenza profonda della Chiesa. Innanzitutto, l'ontologia esistenziale, salvaguardata dalla spiritualità e dalla liturgia, ha consentito - contrariamente a quanto doveva inevitabilmente accadere per il cristianesimo e per i filosofi greci - di approdare a una metamorfosi delle concezioni nel crogiolo della rivelazione biblica. Sospeso tra il silenzio della contemplazione e la celebrazione liturgica, il pensiero dei Padri si É battuto sempre più chiaramente contro lo spiritualismo greco (ivi compreso un certo platonismo., per affermare un'antropologia unitaria, e la visione di un Dio che trascende sia l'intelligibile sia il sensibile per rendersi completamente accessibile all'uomo.

La loro teologia si inscrive nel quadro delle decisioni dei sette concili ecumenici, vale a dire dei concili tenuti nell'ambito e con l'appoggio dell'Impero, che si pretendeva, appunto, ecumenico. Un appoggio compromettente, che rese inevitabile, dal quinto al settimo secolo, lo scisma delle antiche comunità cristiane d'Egitto, di Siria, d'Armenia e di Persia, desiderose di sottrarsi alla tutela o all'alleanza dell'Impero ortodosso, tanto che alcune rimasero passive o furono addirittura complici di fronte all'invasione musulmana. Il pensiero dei Padri e i dogmi dei sette concili definiscono una dialettica puramente ortodossa, che rifiuta qualsiasi sintesi al livello concettuale, ma dispone le antinomie in distinzioni-identità, che tormentano l'intelletto dischiudendolo al mistero. Nel quarto secolo, i concili di Nicea (325. e di Costantinopoli (381. suggeriscono, per delineare il rapporto tra il Cristo e il Padre, il mistero della persona: a un tempo consustanziale rispetto al Padre e completamente distinta. Dal quinto all'ottavo secolo si precisa la realtà teandrica (divino-umana. del Cristo, e quindi della Chiesa, e dello stesso cristiano: l'accento passa incessantemente dal dualismo all'unità e da questa al dualismo, in quanto l'umano non si distacca dal divino n‚ si annulla in esso, ma si compie deificandosi: Efeso (431. sottolinea l'unità personale del Cristo, Calcedonia (451. il dualismo delle sue nature. Costantinopoli II (553. riabilita il tema alessandrino di una carne cristica deificante; Costantinopoli terzo (681 . colloca questa deificazione nell'unità della volontà divina e della volontà umana. Infine, Nicea secondo (787. magnifica nel culto delle icone la conseguenza ultima dell'Incarnazione: la santificazione della materia, in Cristo, grazie alla nostra libertà. Rimasta pressoch‚ sconosciuta in Occidente, la cristologia energetica degli ultimi tre di questi concili (e delle sintesi geniali di un Massimo il Confessore. sottolinea soprattutto nella Chiesa un mistero di deificazione. Ogni comunità locale come centro sacramentale costituisce, dunque, la Chiesa a pieno titolo, attorno al proprio vescovo, che testimonia della presenza pneumatica del Cristo. L'universalità della Chiesa si realizza attraverso l'unicità del sacramento nel tempo e nello spazio, e attraverso la comunione conciliare della fede e dell'episcopato. Per il buon ordinamento della Chiesa, i concili hanno raggruppato le comunità locali in metropoli e le metropoli in patriarcati (per ordine di prestigio: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme.. Al culmine di questa gerarchia di centri d'intesa, Roma gode di un ruolo onorifico preminente e di un diritto d'appello moderato rispetto al complesso della Chiesa. Tuttavia, per l'Oriente conciliare, conta innanzitutto il contenuto della verità e la libertà nel recepire tale verità da parte delle chiese locali e delle coscienze individuali. - Il ciclo pneumatologico. Il periodo che si apre alla fine del primo millennio e si compie con la caduta di Costantinopoli (1453. presenta una ricchezza e una complessità che É stata colta solo tardivamente. Lo scisma di gran parte del mondo cristiano africano e semitico, poi l'invasione dell'islam - che sommerge, senza distruggerli, i patriarcati apostolici del Vicino Oriente - fanno di Costantinopoli, in quell'epoca, il centro indiscusso del mondo ortodosso, o piuttosto il suo centro imperiale, in cui si sviluppa una cultura non certo dominata ma ispirata dalla Chiesa; in una prospettiva sinfonica. Il suo centro propriamente spirituale - di superamento escatologico - É ormai il monte Athos, dove sant'Atanasio fonda nel 963 la Grande Laura e in cui fioriranno tutte le forme della vita monastica e si incontreranno tutti i popoli ortodossi, compresi, fino al tredicesimo secolo, alcuni benedettini occidentali. Tre assi di sviluppo, tutti e tre legati al tema pneumatologico, caratterizzano quest'epoca: l'allontanamento rispetto all'Occidente (la cui unica causa stabile si riferisce a due diversi modi di affrontare la questione dello Spirito Santo.; lo sviluppo di un universo ortodosso poliglotta in materia liturgica, quindi pentecostale; la diretta elaborazione di un'importante pneumatologia. Lo scisma tra Occidente ed Oriente cristiani É frutto di un lungo processo di "estrangement" (l'uso di quest'espressione inglese viene dal padre Congar. protrattosi tra l'undicesimo e il tredicesimo secolo. Si É molto insistito, nella storiografia occidentale, sui fattori non teologici di tale fenomeno: in sostanza, la contrapposizione di due civiltà, le cui forme particolari sarebbero state consacrate dalla mentalità medievale.

Una spiegazione del genere, trattandosi di problemi spirituali sempre vivi, non può ritenersi completamente soddisfacente. In realtà, essa esprime, più o meno consapevolmente, una visione romana della storia del cristianesimo e sfocia, restando a quel livello, nel controsenso: si chiama in causa il cesaro-papismo bizantino, mentre i "basileis", per tutto il Medioevo, hanno in genere auspicato, per ragioni politiche, l'unione con Roma (nel 1054, come nel concilio di Firenze, nel 1438., d'altro canto, sono stati gli imperatori carolingi e poi quelli germanici ad accusare i Greci d'eresia, per giustificare il trasferimento dell'Impero in Occidente, e a costringere il papato, che aveva esercitato a lungo una funzione di mediazione, ad aggiungere nel 1914 al Simbolo della fede, nella stessa Roma, il discutibile "filioque". Nella prospettiva ortodossa, le cause stabili dello scisma sono specificamente religiose e riguardano tutte, a vario titolo, la figura e il ruolo dello Spirito Santo. Il "filioque" - o meglio i sistemi che contemplano questa formula, sviluppati dalla grande scolastica latina - appare qui come un sintomo. Sintomo, inizialmente, di una teologia razionalista che pretende di spiegare il mistero e, perciò, si allontana dall'esperienza. L'antinomia trinitaria É così ricondotta a un concatenarsi di opposizioni - Padre Figlio, Padre e Figlio (come un unico principio., Spirito - che assorbe in parte la diversità delle persone nell'unità della loro essenza (il principio unico.. Sintomo, in secondo luogo, della rivoluzione gregoriana, che accentua l'aspetto istituzionale e clericale della Chiesa a detrimento della libertà personale e del sacerdozio universale. A lungo centro di coordinamento e di richiamo in seno alle chiese locali, il primato romano si erge a potere giuridico assoluto su queste Chiese. Il fatto É che l'economia dello Spirito, che É comunione libera, lo sgorgare dovunque, nel popolo di Dio, dei carismi e della profezia, viene a trovarsi subordinata, nella prospettiva dei sistemi connessi al "filioque", alla gerarchia instaurata dal Cristo. Sintomo, infine, di un teismo chiuso e di un'autonomia razionalistica della natura. Il sostanzialismo aristotelico racchiude Dio nella sua essenza e rende impensabile l'onnipresenza pneumatica delle energie divine. Ormai si tratta meno di trasfigurare il mondo che non di padroneggiarlo. Il papato s'impone come fonte di ogni potere: una concezione sociologica della Chiesa - connessa a una responsabilità civilizzatrice che la Chiesa non ha mai dovuto assumere a Bisanzio, erede laica di un'elevata cultura - sostituisce in parte in Occidente la sua concezione misterica. Per delimitare questo sviluppo non s'impone alcuna data. Abbiamo già citato il 1014. Il 1054 vede fallire un tentativo di riunificazione e così avverrà nel 1062, 1072, 1089, sempre più chiaramente sul problema del "filioque". Se i Latini - scriveva nel 1054 il patriarca di Antiochia Pietro Terzo - accettassero di sopprimere l'aggiunta al simbolo, non chiederei loro nient'altro, considerando tutto il resto nel novero delle cose che non contano (MG CXX, 812-3.. Tutto É oramai finito nel 1204, quando i Crociati, non per caso, ma al culmine dell'ascesa secolare di un'ondata di odio, saccheggiano Costantinopoli in una strana frenesia di profanazione e di iconoclastia. La designazione da parte di Innocenzo Terzo di un patriarca latino di Costantinopoli inaugura, a spese del mondo ortodosso, una specie di colonialismo ecclesiastico che cesserà solo nel ventesimo secolo. Essa finisce di rivelare ai Bizantini la nuova ecclesiologia latina e come il criterio del potere e della verità non sia più assolutamente lo stesso nelle due Chiese. Dal 1204 al 1453, la pressione dell'islam turco e quella della cristianità latina hanno soffocato l'Impero bizantino. Ma, durante il periodo pneumatologico, la Chiesa ortodossa - pur restando ancorata al concetto cristiano di cui É il simbolo l'imperatore di Costantinopoli - travalica sempre più consapevolmente il quadro imperiale, per estendersi in un vasto ambito geografico e animare le culture più svariate. La missione ortodossa, infatti, converte e civilizza tutta l'Europa orientale, dal Caucaso ai Carpazi e fino al circolo polare. Una spinta parallela, a partire dalla Georgia, fonda, a nord del Caucaso, le Chiese di Alania e di Zecchia. Soprattutto, a partire dai secoli nono e decimo, É la volta della grande missione bizantina in paese slavo, subito seguita e poi sostituita dalle nuove Chiese.

Secondo la tradizione poliglotta dell'Oriente cristiano, vigorosamente rinnovellata dagli apostoli degli Slavi, Cirillo e Metodio, la Scrittura e la liturgia vengono tradotte in linguaggio popolare, il che consente una penetrazione cristiana in profondità e il risveglio di culture nazionali, spesso dotate di una lingua scritta da parte dei missionari. La testimonianza, in Moravia e Pannonia, dei santi Cirillo e Metodio non dà i suoi frutti in queste stesse zone, ben presto conquistate dal feudalesimo tedesco (che respingerà indietro addirittura, nel tredicesimo secolo, i missionari russi dai paesi baltici., ma in Bulgaria, dove i discepoli completano l'organizzazione di una Chiesa effettivamente slava. Serbi e Rumeni vengono raggiunti nel nono e decimo secolo. La Russia di Kiev riceve ufficialmente il battesimo nel 987, che É una data simbolica, dal momento che il dato essenziale É quello di una lenta penetrazione che permea il popolo e in cui il tramite bulgaro sembra aver svolto il ruolo principale. Il patriarcato di Costantinopoli organizza le nuove chiese in metropoli autonome (il cui metropolita viene consacrato - designato nel caso della Russia - dal patriarca ecumenico.; esso non esita a riconoscerne l'autocefalia, vale a dire l'indipendenza (nel qual caso il primate viene eletto dai vescovi locali., quando lo richiedano le circostanze politiche, nonostante il simbolo del "politeuma" o proprio grazie alla sua estrema duttilità. E' possibile cogliere a pieno la differenziazione del mondo ortodosso nel basso Medioevo. Ridotto a un minuscolo Stato greco, ma zona di incontri, di scambi, di una cultura superiore in costante fermento e rinnovamento, l'Impero bizantino resta la sede privilegiata della presa di coscienza e dell'espressione dottrinale. Ma l'ortodossia mortificata, relegata nel ghetto dal l'islam, continua ad espandersi. I patriarcati apostolici rimangono mete di fervidi pellegrinaggi (come ad esempio quello del fondatore della Chiesa di Serbia, san Saba. e di una devozione eucaristica (il culto del Sacro Sangue in Antiochia. che svolgerà un ruolo importante nella sintesi conclusiva del periodo pneumatologico. In Bulgaria, e soprattutto in Serbia, nel tredicesimo secolo, in occasione dell'occupazione latina di Costantinopoli, si ebbe un incontro fecondo con la cristianità latina, attestato dall'arte meno ieratica, con tratti più umanistici, di Boiana e di Sopocani. Quanto alla Russia, questo paese deve tutto al cristianesimo nella sua forma ortodossa, in particolare la tensione a lungo feconda tra il massimalismo evangelico dei folli in Cristo e le usanze previste dal rito, che strutturano l'intera esistenza del popolo cristiano. Dopo la distruzione della Russia di Kiev ad opera dell'invasione mongola, É la Chiesa a permettere al popolo russo di riprendersi nelle radure nord-orientali, e di unificarsi attorno a Mosca. Nel quattordicesimo secolo, il movimento dei "pustinniki" trasferisce nella foresta nordica l'esigenza carismatica dei primi monaci, ma si esprime altresì, nella tradizione basiliana e soprattutto in Sergio Radonezski, in una vasta opera di assistenza sociale. Nella Russia così rieducata, resa capace di unificarsi e di liberarsi, fiorì un'iconografia della trasfigurazione e della luce increata - soprattutto in Andrea Rublev e nella sua scuola - che caratterizza con la sua espressione artistica il periodo pneumatologico. Gli studi compiuti a partire da un trentennio nel quadro di quel che viene a volte chiamato neopalamitismo hanno portato alla luce la fecondità teologica di un periodo a lungo denunciato come sterile in Occidente e che, invece, sembra abbia apportato alla storia della dottrina cristiana l'unico approfondimento concreto che essa abbia conosciuto dall'epoca della patristica. Nella sua decadenza materiale, Bisanzio É tornata ad incentrarsi sull'unico indispensabile, ma ricorrendo all'intelligenza più tipicamente occidentale nel definire l'esperienza della deificazione. Nel famoso detto della patristica: Dio si É fatto uomo perché‚ l'uomo possa farsi dio, il periodo cristologico aveva posto l'accento sul Dio che si incarna: il periodo pneumatologico lo mette sull'uomo che si fa Dio. Fin dal nono secolo, scoprendo il richiamo nascente alla formula del "filioque", Fozio richiama come lo Spirito proceda unicamente dal Padre. Questa spontaneità e sovranità dello Spirito trovano il loro riscontro nei grandi carismatici dell'anno Mille, soprattutto in Simeone il Nuovo Teologo; profeti dell'esperienza personale e della libertà di contro ad ogni istituzionalismo e sacramentalismo deterministico, essi proclamano che l'autentica testimonianza della fede e l'effettiva paternità spirituale risalgono agli uomini apostolici, che sono realmente nati dallo Spirito. Tale movimento di zeloti e di "esicasti" (silenziosi., minacciato da dottrine analoghe al catarismo occidentale (il bogomilismo., correva il rischio di respingere il mistero ecclesiale.

Per questo, a partire dal tredicesimo secolo, la pneumatologia bizantina pone l'accento sul nesso tra il carisma e il sacramento e sottolinea come il luogo della Pentecoste e della profezia altro non sia se non il "soma pneumatikon" del Cristo attualizzato nell'Eucarestia. Con ciò stesso, si trova depurato ed assunto quanto di meglio c'É nella clausola del "filioque", in connessione con un enorme lavoro di traduzione di sant'Agostino e degli autori della scolastica occidentale. In risposta al concilio di Lione (1274., che trasforma la questione del "filioque" in dogma (lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio come da un unico principio., il concilio di Costantinopoli (1285. sottolinea come la manifestazione eterna della luce divina avvenga nello Spirito, attraverso il Figlio, e quindi tramite il suo corpo ecclesiale. Tutta quest'elaborazione culmina nella sintesi del palamitismo, proclamata dal Tomo sinodale del 1351. San Gregorio Palamas propone la distinzione-identità dell'essenza e delle energie divine: assolutamente inconoscibile nella sua essenza, l'Ineffabile, tramite la croce, si rende totalmente suscettibile di partecipazione nelle sue energie. L'uomo, inerendo al corpo di Dio, É chiamato a trasfigurare, nella luce increata, il suo corpo nella totalità della carne terrena. La sintesi del palamitismo É sorretta da un riadattamento e da un reinserimento sacramentale dell'esicasmo che suscita, dal 1350 al 1450 circa, una riforma complessiva della Chiesa: gli esicasti, pur disseminandosi fin nelle foreste della regione al di là del Volga, rinnovellano in parte l'episcopato - rivestendo a varie riprese il patriarcato ecumenico - e purificano la Chiesa secondo un criterio di povertà, il che li spinge a legittimare il passaggio allo Stato dei beni del clero. Così, nell'ortodossia, nonostante il persistere di altre tendenze (ritualismo, santificazione del sociale, ricche comunità monastiche., il profetismo e il pauperismo evangelico rimarranno largamente interni alla Chiesa - la quale potrà in tal modo sfuggire alla lacerazione del sedicesimo secolo e adeguarsi con maggiore facilità ai regimi socialisti della nostra epoca. Contemporaneamente, il movimento degli esicasti diffonde nel popolo cristiano il gusto della preghiera individuale e collettiva e la familiarità con la "Bibbia". Nicola Cabasilas sviluppa una spiritualità del laicato, basata sull'esperienza liturgica e su una concezione spiccatamente dostoievskiana della salvezza tramite l'amore. Per un momento, questo movimento abbozza, con il Rinascimento dei Paleologhi, una trasfigurazione dell'umanesimo. Ma il crollo, nel quindicesimo secolo, dell'Impero greco comporta il ripiegamento in una spiritualità che si scorge ancora ma che non riesce più ad esprimersi. In questo quadro, il concilio di unificazione di Firenze (1438. costituisce un dialogo tra sordi in cui l'unità, abborracciata a vantaggio di Roma per ragioni prevalentemente politiche (tuttavia, essa non riuscirà ad impedire la caduta di Costantinopoli., É quasi subito respinta dal popolo cristiano, che afferma in tal modo la necessità del proprio "consensus" ad ogni decisione del magistero. - Il periodo ecclesiologico. Dalla caduta di Costantinopoli (1453. alla pubblicazione della "Filocalia" (1782. si sviluppa una specie di Medioevo ortodosso: É sicuramente l'unico periodo in cui l'ortodossia abbia coinciso pressoch‚ completamente con un oriente. La dominazione ottomana dei Balcani, l'isolamento e l'arretratezza arcaica della Russia moscovita comportano il dominio di una mentalità ostile al nuovo, da società chiusa (di qui le disavventure russe di un Massimo il Greco, formatosi nell'Italia rinascimentale.. L'innegabile grandezza di questi secoli, tuttavia, si riferisce alla pienezza della vita quotidiana, alla fede unanime del popolo cristiano: dall'arcipelago greco alla pianura russa, una serie di bianche chiese trasfigurano lo spazio; il ritmo della liturgia scandisce il tempo, si irradia nella sfera profana attraverso usanze emozionanti. Un po' dappertutto, specie in Romania, l'ortodossia fa proprio e rinnova il senso arcaico del meraviglioso, con il suo simbolismo cosmico e la sua nostalgia paradisiaca (il che contribuisce a chiarire, per quanto riguarda l'oggi, la stessa vocazione di un Mircea Eliade.. L'arte sacra, se si diluisce italianizzandosi in una Russia sempre più aperta alle influenze occidentali, diventa però nei Balcani un'arte popolare nobile e patetica, che pone l'accento sulla volontaria umiliazione del Cristo e su un'ascesi coraggiosa (il cui prototipo É san Giovanni Battista., espressione artistica di rigurgiti periodici dell'eremitismo degli esicasti.

Un'arte popolare, ma non semplicemente folkloristica, in grado com'É di creare vasti complessi del tipo delle straordinarie chiese dipinte di Valacchia e di Moldavia. Cresce però la tentazione verso una fede impersonale, legalitaria, verso un ritualismo semimagico - a lungo controbilanciato, in realtà, dalla buffoneria carismatica dei folli in Cristo, la cui testimonianza assume una portata sociale nella Russia del sedicesimo secolo. La liturgia si trasforma in parte in spettacolo sacro; l'iconostasi si ipertrofizza; la comunione, per timore reverenziale, diventa un fatto eccezionale. In questo quadro, il popolo di Dio tende a confondersi con la nazionalità protetta dalla Chiesa (nell'impero ottomano. o esaltata da essa (in Russia.. Si fa strada, così, la maggiore colpa storica dell'ortodossia: il nazionalismo religioso. Il patriarca di Costantinopoli, ritenuto dai Turchi come il responsabile primo del popolo cristiano - l'etnarca - si trasforma in strumento dell'ellenismo a danno degli ortodossi slavi (nel cui caso vengono abolite, nel territorio ottomano, le autocefalie. ed arabi (ai patriarcati di Antiochia e di Gerusalemme viene preposta una gerarchia greca, che É perdurata fino ai nostri giorni a Gerusalemme.. In particolare, il popolo russo si caratterizza per una vocazione messianica attorno al mito di Mosca Terza Roma, benché‚ il patriarcato di Mosca, eretto nel 1589 dalla Chiesa madre di Costantinopoli, non rivesta se non il quinto posto nell'ordine d'onore ("taxis". dei patriarcati ortodossi. Questo universo ortodosso si chiude sempre più man mano che si trova a subire gli attacchi della Controriforma. Rinunciando a qualsiasi dialogo su un piano di parità, Roma cerca di far arretrare l'ortodossia ricorrendo alla costruzione del braccio secolare (in Polonia-Lituania come in Austria. e attraverso la costituzione di Chiese degli uniati. Intellettualmente indebolita, l'ortodossia É costretta ad adottare, per resistere, la problematica dell'avversario: per la sua teologia - per usare una espressione di P. Florovsky - si tratta di una prolungata cattività babilonese. Ciononostante, la continuità della liturgia e della spiritualità riesce a salvare l'essenziale, e il popolo cristiano dimostra spesso un effettivo istinto ortodosso. In Ucraina e in Lituania, con l'appoggio del patriarcato di Costantinopoli, si organizzano delle confraternite laiche per combattere l'uniatismo di certi vescovi e prendere coscienza - in termini latinizzanti, va detto - dei valori peculiari dell'ortodossia. Gli importanti concili del diciassettesimo secolo (Iassy 1642, Mosca 1666-1667, Betlemme 1672. abbozzano una prima formulazione del mistero ecclesiale: contro il calvinismo orientale di Cirillo Lukaris, essi sottolineano l'aspetto sacramentale della Chiesa e, contro il cristomonismo cattolicizzante degli artolatri (adoratori del pane consacrato o Santo Sacramento., il ruolo dello Spirito Santo nell'attualizzazione del sacramento. Infine, il grande concilio di Mosca ha la forza di superare il nazionalismo religioso e il ritualismo magico, la principale tentazione dell'ortodossia di questo periodo. Con la condanna dei Vecchi Credenti, esso colpisce a morte il mito della Terza Roma. Ma questo scontro, condotto con una violenza eccessiva che rende inevitabile il "Raskol" (o scisma dei Vecchi Credenti., esaurisce la Chiesa russa. Nel 1721, Pietro il Grande può facilmente subordinarla a s‚, sostituendo il patriarcato con un sistema sinodale di tipo luterano. La nuova ‚lite russa, affascinata dal razionalismo illuminista e poi dalla teosofia massonica, appare, tranne qualche eccezione (Skovoroda., irrimediabilmente separata dalla fede tradizionale. Il diciottesimo secolo costituisce così un periodo tragico per l'ortodossia, asservita all'islam al sud (l'amministrazione ottomana costringe i vescovi alla simonia., all'impero russo al nord. Il rinnovamento, inaspettato, sopraggiunge al passaggio dal diciottesimo al diciannovesimo secolo, grazie a un riadattamento dell'esicasmo, al senso dell'universalità dell'ortodossia e al dialogo con l'Occidente. Un athonita, san Nicodemo l'Hagiorita (il quale traduce ed adatta i principali libri della spiritualità ignaziana., e il vescovo di Corinto, Macario, compongono un'antologia monumentale della teologia mistica, la "Filocalia", propugnando insieme, come gli esicasti del quattordicesimo secolo, una decantazione della liturgia e la comunione frequente. "Filocalia" significa amore della bellezza, il che pone l'accento sull'esigenza esistenziale, sul ricorso - di fronte ai lumi della ragion pratica - all'esperienza della luce.

Tradotta in slavonico da un ucraino stabilitosi in Moldavia, Paisio Velickovskij, che pratica e insegna la distinzione-identità del cuore fisico e del cuore spirituale (la ricerca del luogo del cuore, centro d'integrazione dell'uomo totale, per introdurvi l'invocazione, É uno dei principali aspetti dell'ascesi degli esicasti., la "Filocalia" trova in Russia un terreno predisposto: alla politica di oppressione e di secolarizzazione corrisponde. infatti, un rinnovamento della preghiera, con un moto di spiritualità femminea e la mistica dell'angoscia di Ticone di Zadonsk, testimone fondamentale della salvezza attraverso l'amore tra Cabasilas e Dostoevskij. Nel punto di incontro tra questo patrimonio locale e la tendenza filocalica si erge il grande mistico dell'ortodossia moderna, san Serafino di Sarov. I monasteri e la gerarchia lasciano esplicitamente il posto al ministero carismatico dei vecchi ("startsi", in russo; "geronti", in greco., personaggi apostolici il cui discernimento attira molta gente. La rinascita filocalica colma in parte l'abisso tra la Chiesa e gli intellettuali e cerca di sussumere in una conoscenza integrale la lucidità critica e lo spirito scientifico dell'Occidente. Il monastero di Optino con la sua discendenza di "startsi", É al centro della letteratura e del pensiero russo del diciannovesimo secolo. Vengono tradotti i Padri della Chiesa; la missione, sorretta da un immane lavoro per catalogare e utilizzare le lingue locali, si irradia attraverso l'Asia settentrionale fino alle Aleutine e al Giappone. In stretta collaborazione con i laici, l'episcopato russo si consolida e convoca a partire dal 1904 delle commissioni preconciliari che preparano la soppressione del sistema sinodale. Riunitosi nel 1917-1918, nell'intervallo tra due forme di oppressione, il concilio di Mosca, che conta laici ed ecclesiastici in parti uguali, riesce a ristabilire, prima di venire disperso dai bolscevichi, il patriarcato e a riformare la Chiesa russa nel senso di una completa responsabilizzazione del laicato. Tuttavia, questa rinascita non É mai approdata a una sintesi a causa di strani disguidi. Sono restati irrisolti fino ai nostri giorni, due problemi fondamentali: quello dell'organizzazione interna della Chiesa e quello dei rapporti di questa con la cultura. a. L'organizzazione interna della Chiesa. Nel corso del diciannovesimo secolo, il crollo dell'impero ottomano comporta il ripiegamento dell'ecumenismo del patriarcato. Le nazioni cristiane dei Balcani, una volta liberate, si dotano di Chiese nazionali con l'appoggio dell'impero russo, la cui politica ortodossa consente anche agli Arabi cristiani di riprendere in mano il patriarcato di Antiochia. Si instaura così un sistema di autocefalie nazionali all'altezza delle mutate condizioni storiche, ma che rende difficile l'espressione dell'universalità della Chiesa. Il tracollo e l'isolamento della Chiesa russa dopo il 1917 consentono a Costantinopoli di recuperare, nell'intervallo tra le due guerre, la propria influenza affermando, a volte con successo, la propria giurisdizione sul complesso della frammentazione ortodossa. Tale concezione É messa in discussione dalla Chiesa restaurata durante la Seconda guerra mondiale; l'ortodossia allora si presenta praticamente con due teste e questo dualismo sembra non faccia altro che tradurre il contrasto politico tra Est ed Ovest. Tuttavia, dopo il 1960. sembra manifestarsi l'unità profonda, sacramentale e dottrinale, della Chiesa ortodossa. Il rinnovamento della tradizionale ecclesiologia (eucaristica e universale, e non nazionale., la funzione di superamento svolta dalla dispersione e da certe chiese dell'Europa sud-orientale, il dialogo ecumenico e l'esigenza di affrontare problemi di dimensioni mondiali, tutti questi fattori e altri ancora spiegano l'elaborazione sorprendente di nuove formulazioni suscettibili di evitare sia la giustapposizione delle Chiese nazionali, sia la tentazione di una centralizzazione giuridica, non meno estranea alla tradizione ortodossa: conferenze panortodosse, nelle quali si esprime in modo immediato il complesso dell'episcopato, si radunano periodicamente (a Rodi nel 1961, 1963 e 1964, a Belgrado nel 1966 e a Chamb‚ry nel 1968. e quasi tutti i patriarchi ortodossi, o i loro rappresentanti di grado più elevato, si sono incontrati sul monte Athos, nel giugno del 1963, per celebrare il millesimo anniversario di una repubblica monastica, multinazionale, che ha fornito un sorprendente esempio di unità nella libertà. Ci si avvia, a quel che sembra, verso la creazione di un sinodo permanente, strumento della conciliarità della Chiesa, e verso la convocazione di un concilio generale.

Queste iniziative vengono prese dal primate in accordo fraterno con i capi di tutte le Chiese autocefale. Non si corre il rischio di eccedere insistendo sul ruolo svolto dal patriarca di Costantinopoli, Atenagora Primo, in questo raduno dell'ortodossia. b. Chiesa e cultura. Nel diciannovesimo secolo, il movimento degli "startsi" aveva abbozzato una sintesi - che non era un compromesso, n‚ un fatto di moralizzazione, ma un'ispirazione creativa (secondo l'antico tema imperiale della sinfonia. - tra la Chiesa e la cultura. Gli slavofili (Chomiakov, Kireevski. sviluppano il tema, derivante dall'esicasmo, di una conoscenza integrale e integrante, soprarazionale e che sorpassa l'individuo. Le riforme di Alessandro Secondo - e, in particolare, la liberazione dei servi, annunciata dal metropolita di Mosca, Filarete, effettivo patriarca pur senza averne il titolo - dimostrano la fecondità sociale del movimento. Ciononostante, la sintesi non raggiunge uno sbocco conclusivo. Le riforme rimangono parziali, la scienza conserva caratteri scientisti e la slavofilia si impantana in una confusione (ancora una volta. tra religioso e nazionale senza la forza di una prospettiva escatologica. Verso il 1900, quando l'intellighentsia confessionale É costretta ad abbandonare la presa al livello dell'alta cultura e fa la sua comparsa un pensiero creativo alla ricerca, al di là del marxismo, attraverso l'idealismo tedesco, di un superamento spirituale, la tradizione dell'esicasmo cede (con la "Filocalia" russa, pietista ed insulsa, di Teofane il Recluso e con la decadenza di Optino., cosicch‚ la grande vicenda della filosofia religiosa russa si svolge senza trovare il sostegno di un'autentica gnosi ortodossa. E' patetico vedere un Soloviev, un Florenski, un Bulgakov ignorare quasi Palamas e reinventare, non senza inconvenienti, sotto il nome di sofiologia (da "Sophia", la Saggezza divina onnipresente., il tema delle energie divine; É patetico che essi non siano riusciti a scoprire, per assumere la cultura moderna, il mistero dell'onnipresenza se non in una mediocre eresia dell'esicasmo athonita - l'onomolatria (adorazione del nome, che identificava direttamente con Dio il nome di Gesù, concepito come portatore dell'energia divina e continuamente invocato nella procedura dell'esicasmo.. Nella sfera psico-sociale, l'impatto della tecnica e del pensiero rivoluzionario occidentale suscita un vasto movimento messianico in cui la sensibilità ortodossa si mescola confusamente con quella delle sÉtte (la famiglia imperiale, che considerava Rasputin come uno "starets", ha subito quest'inganno, come tanti scrittori che hanno fatto confusione tra lo spirituale e l'occulto.. Tale ribollimento sfocia nella rivoluzione escatologica e dionisiaca del 1917, ben presto monopolizzata, per uscire dal caos, dai più impermeabili all'invisibile, i comunisti. L'intellighentsia cristiana É allora costretta al silenzio o all'esilio. Alcuni dei suoi maggiori esponenti - un Bulgakov, un Berdiaev, uno Shestov - finiscono per fecondare la ricerca occidentale di temi esplicitamente o implicitamente ortodossi: la libertà creatrice nello Spirito Santo, la comunione ontologica delle persone, la lotta contro le certezze razionali, le rivelazioni della morte, la trasfigurazione della cultura e del cosmo attraverso la luce del Risorto, eccetera. Le nuove generazioni della diaspora (Florovsky, Lossky, Meyendorff. ritrovano la grande tradizione della patristica e del palamitismo. Purtroppo, la loro scrupolosa fedeltà si oppone agli ardimenti spesso imprudenti dei loro fratelli maggiori. Un corretto rapporto tra la tradizione e la cultura - di povertà escatologica e d'ispirazione imperiale - si delinea soltanto in certe opere isolate, ad esempio in quelle di un Evdokimo. La rivoluzione del 1917 e poi la distruzione, dopo il 1945, delle ultime monarchie ortodosse, hanno colto l'ortodossia impreparata dal punto di vista sociale ed etico, ancorch‚ pronta dal punto di vista spirituale. Essa era infatti abituata ad affidare all 'imperatore (o al re. cristiano, del quale sanciva l'autorità come autorità d'origine divina, non soltanto le strutture e la cultura, ma la sua stessa organizzazione sociologica, pur preservando gelosamente la propria autonomia spirituale. Quando si É trovata davanti un potere ateo, sui detentori del quale non aveva alcuna influenza, essa non É stata capace di battersi sul terreno delle istituzioni e del diritto, come nel caso dei cristiani d'Occidente (per esempio, in Polonia.. Essa si É lasciata spogliare delle sue vesti sociali e culturali, ridurre alla sola libertà di culto (neppure di propaganda religiosa., a volte strumentalizzare sul piano politico.

Ha però salvaguardato e approfondito la preghiera e la fede e questo atteggiamento, nonostante (anzi attraverso. le ambiguità dell'umiliazione, l'ha salvata nei momenti peggiori (qualsiasi resistenza in luogo di questo cedimento sarebbe stata spezzata.. Ciononostante, fin dal 1927 il metropolita Sergio, che fa le veci del custode del trono patriarcale, adotta un atteggiamento leale e franco nei confronti della società sovietica: Lo Stato esigerà la rinuncia alla proprietà, occorrerà dare la propria vita per l'opera comune...? Ma É proprio questo che la fede insegna ai cristiani. Questo atteggiamento consegue i suoi risultati nel corso della Seconda guerra mondiale: la Chiesa russa partecipa massicciamente all'opera di risanamento morale della patria e lo Stato la lascia libera di riorganizzarsi. Viene eletto un patriarca, nella persona dello stesso Sergio e, dopo la morte di questi, di Alessio, il coraggioso vescovo di Leningrado (nel momento del tremendo blocco.. Nel 1959 si contano trentaduemila chiese in funzione, sessantotto monasteri e otto seminari. Tuttavia, dopo il 1960, la sterilità del pensiero marxista, il vuoto conseguente alla destalinizzazione, il recupero della grande letteratura russa impregnata di cristianesimo, la rinascita religiosa e il ringiovanimento dei quadri della Chiesa hanno determinato una situazione tale da spingere i seguaci del fanatismo antireligioso a scatenare un ultimo conflitto. Approfittando del consueto atteggiamento di sottomissione di una parte dell'episcopato e della parziale disgregazione - normale in una società industriale - dei fedeli cristiani (compensata, anche se non ancora sul piano numerico, da un approfondimento delle prese di coscienza., essi sono riusciti, con una persecuzione incruenta ma asfissiante, a ridimensionare nel 1964 a ottomila circa il numero delle Chiese in funzione, a dieci quello dei monasteri e a tre quello dei seminari. Comunque, da entrambi le parti, non É ancora detta l'ultima parola: mentre la sete di libertà spirituale, intinta di nichilismo, si accresce tra gli intellettuali, recenti inchieste sociologiche hanno messo in luce un vigoroso pensiero cristiano, che vede nell'ateismo che lo perseguita un momento provvidenziale della storia del cristianesimo: in una società radicalmente laica, l'elemento religioso sarà destinato a scomparire come sfera a s‚ e il mistero della Chiesa diventerà un fatto interiore per la comparsa di personalità liturgiche in grado di imprimere una dimensione ecclesiale all'intera esistenza. La sintesi non ha attinto dimensioni conclusive neanche in Grecia: avviata, alla fine dello scorso secolo, da un grande pensatore, rampollo spirituale dei "geronti" del Megaspelaionè Apostolos Makrakis, É degenerata in un illuminismo antigerarchico e il movimento si É ridimensionato e poi stemperato in un rinnovamento dell'etica e dell'apostolato. Ed É nel "logos" cosmico del paganesimo o nel "logos" storico di Marx che le creature cercano il significato dell'esistenza. Probabilmente, É in Romania che si É delineato il rapporto più fecondo con la cultura contemporanea: degli spiritualisti, che sono altresì dei grandi intellettuali di formazione occidentale, quale P. Staniloae, hanno affrontato la trascrizione nel nostro secolo della tradizione dell'esicasmo, avviando la pubblicazione di una "Filocalia" in rumeno in risposta alle esigenze e all'angoscia dell'uomo di oggi. Il movimento, emarginato dal regime nel 1959, ha ripreso vigore con lo sfaldarsi del blocco comunista. Il fermento rimane vivo, anche se la sintesi non É riuscita a completarsi: É già possibile notare come i maggiori scrittori russi contemporanei (Solzenitsin e Siniavski, dopo Akhmatova e Pasternak. seguano un'ispirazione cristiana, come in Grecia stia nascendo una promettente generazione di giovani teologi, come grandi vescovi, nell'ambito dell'ortodossia araba (Giorgio Khodre, Ignazio Hazim., imprimano alla tradizione mistica una forza rivoluzionaria. Lungo queste tematiche, al di là di esse, l'acquisizione del periodo ecclesiologico consiste in una certa spiegazione del mistero della Chiesa. I concili del diciassettesimo secolo ne avevano sottolineato con forza il carattere teandrico, la realtà istituzionale, in quanto misterica, di corpo del Cristo. In modo complementare, il pensiero ortodosso del ventesimo secolo ha soprattutto messo in evidenza nella Chiesa il popolo di Dio e il tempio dello Spirito Santo: una risposta al tema

dell'infallibilità pontificia sancito come dogma nel 1870, e in maggior misura al travaglio dell'epoca, ai filosofi contemporanei del divenire collettivo (É nota l'influenza in Russia dell'idealismo tedesco., all'antinomia tra Marx e Nietzsche, tra la società e il singolo individuo. San Serafino di Sarov, con il suo esempio ed il suo insegnamento, afferma immediatamente: lo scopo della vita cristiana É la conquista personale dello Spirito Santo. Nello Spirito Santo si schiude uno spazio infinito per ogni individuo, per un suo superamento che deifica. E la Chiesa non ha altro senso se non quello di rappresentare il luogo spirituale entro il quale l'uomo può farsi dio. Nel 1848, in risposta al papato che richiedeva il riconoscimento della propria infallibilità, una grande enciclica dei patriarchi e dei sinodi orientali (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. proclama, nel solco della tradizione ortodossa che É stata a lungo patrimonio comune sia all'Oriente sia all'Occidente, che la salvaguardia della verità sta nell'intero corpo della Chiesa, vale a dire nello stesso Popolo. Questo testo trova un'enorme eco in Russia, dove Chomiakov si appresta ad elaborare l'ecclesiologia della "sobornost" (dal termine slavonico che, nel Credo, significa cattolico., espressione di una cattolicità vivente delle coscienze individuali unite dallo Spirito Santo, al di là dei loro limiti personali, in un'evidenza resa possibile dall'esperienza dell'amore. Nel quadro di un superamento contemporaneo dell'individualismo ispirato dei protestanti e dell'autoritarismo formalistico dei cattolici, il pensiero ortodosso, con gli slavofili del diciannovesimo secolo e i filosofi religiosi del ventesimo secolo, esalta la libertà individuale che culmina nella comunione, nell'esperienza ecclesiale della consustanzialità delle persone, a somiglianza della Trinità. Il ventesimo secolo ortodosso, infine, ha posto l'accento sul tema dell'onnipresenza e sull'aspettativa ecumenica. Da un lato, la filosofia religiosa russa faceva appello a una rinnovata coscienza religiosa, rivolta verso una trasfigurazione escatologica dell'atto creativo e dell'iniziativa sociale degli uomini (Fedorov, Berdiaev., verso un'intelligibilità, nel Risorto, della sacralità dell'eros e di quanto nella terra É carne (Merezkovskij; Rozanov, Vysestlavtsev.. Per i sofiologi Vladimir Soloviev, Pavel Florenski, Serghiei Bulgakov, la Chiesa, nel suo intimo, rappresenta l'umanità e il cosmo in via di deificazione: la storia segreta - quella dello Spirito Santo e della libertà - che va dal Dio-uomo al Dio-umanità. Per finire, la neopatristica (e in particolare Vl. Lossky. ha precisato il rapporto di reciprocità che salda, nella Chiesa, il sacramento alla profezia, un rapporto analogo a quello del Figlio con lo Spirito nella teologia trinitaria: c'É, in questo, l'abbozzo di un'ontologia del mistero che potrebbe integrare il momento protestante e il momento cattolico del cristianesimo. Che questa elaborazione non si restringa semplicemente alla sfera del pensiero É provato dall'importanza assunta nell'ortodossia contemporanea da alcune confraternite o movimenti nei quali il laicato si esprime profeticamente per il rinnovamento dell'apostolato, della vita liturgica nonch‚ della predicazione (spesso affidata in Grecia a teologi laici.. Se organizzazioni del genere sono per ora impossibili nei paesi dell'Est, vanno tenuti però presenti, da questa parte della cortina di ferro, il Movimento della Gioventù Ortodossa del Patriarcato di Antiochia, le confraternite greche (Zoi, Actinis, le Unioni cristiane, eccetera. e l'Azione Cristiana, tutti quei movimenti che sono collegati su scala panortodossa nel quadro di una specie di federazione dal nome di Syndesmos. I seminari e le accademie di teologia dei paesi dell'Est inviano ormai loro rappresentanti ai congressi di questo organismo. Del resto, É appunto uno dei problemi dell'ortodossia contemporanea quello di riconciliare pienamente questi movimenti, da un lato con l'episcopato, dall'altro con la grande tradizione monastica, essenzialmente contemplativa. 3. ALCUNE TEMATICHE. Le indicazioni storiche fornite fin qui dimostrano come la Chiesa ortodossa non abbia mai proposto dogmi se non malvolentieri, soprattutto "a negativo", per salvaguardare il realismo sperimentale della salvezza. La teologia patristica, del palamitismo, della "Filocalia", comprese le sue contemporanee reviviscenze, non intende costituirsi in scienza.

Essa non si rifugia neppure nell'antirazionalismo, ma dà impulso a un'intelligenza martoriata e rinnovellata che suggerisce il mistero attraverso la negazione, l'antinomia, il simbolo e la lode. Conoscere, quaggiù, significa vivere in Cristo per diventare Spirito, secondo il detto di Evagrio: E' teologo chi possiede la preghiera pura. La parola teologica É l'aspetto intellettuale (e poetico. di un'arte della vita complessiva, che É arte del silenzio nei contemplativi, arte dell'amore per il prossimo nei folli in Cristo, arte della celebrazione del sacrificio e arte liberatrice nella liturgia. - Le certezze di fondo. Quando un ortodosso fa il segno della croce, ripiega due dita e avvicina le altre tre, quando un vescovo benedice il popolo, incrocia due candelabri: uno reca due ceri le cui fiamme si confondono, l'altro tre, le cui fiamme, anche in questo caso, ne formano una sola. Due e Uno: la divino-umanità; Tre e Uno: la Trinità, sono queste le certezze di fondo dell'ortodossia. a. La divino-umanità. La gioia di Pasqua É al centro della fede ortodossa. Dall'alto della croce che vivifica, il Cristo lascia che penetri in lui l'inferno e la morte, queste controcreazioni degli angeli e degli uomini nella loro tragica libertà e che vanno intese come delle forme esistenziali. Egli lascia che penetrino in lui ed esse si consumano nel vortice d'amore della sua divinità. Quest'opera di liberazione É un'opera di guarigione, una nuova creazione: nel corpo glorioso del Risorto, l'umanità e il cosmo vengono segretamente trasfigurati. I cristiani vengono chiamati, attraverso l'unione, il compenetrarsi della forza dello Spirito e della loro libertà, a preparare la manifestazione finale, in tutti e in tutto, del Corpo glorioso che, a partire da questo momento, essi ricevono nella Chiesa come mistero. La santità accelera il ritorno del Cristo, la Parusia, concepita insieme come catastrofe (per le istanze di morte e di menzogna di questa terra. e come trasfigurazione (per ogni realtà vivente.. Quest'opera di cristificazione, concepita in una prospettiva fondamentalmente ascetica da parte della tradizione, lo É anche stata, da parte della filosofia religiosa russa, come ispirazione creatrice in tutti gli ambiti dell'attività umana. b. La Trinità. Questo Dio, che la teologia negativa si rifiuta di oggettivare e di afferrare, la vita in Cristo e l'acquisizione dello Spirito Santo ce lo svelano come Trinità. Trinità, rivelazione della persona e dell'amore; il Tre, qui, sta ad indicare la pienezza dell'esistenza personale, la diversità assoluta degli individui nella loro assoluta unità. Nello Spirito Santo, in cui si opera l'eterno superamento di ogni contraddizione, la Trinità trascende la propria trascendenza secondo il naturale processo delle energie divine tramite le quali Dio vuole rendersi completamente fruibile. Creati ad immagine di Dio, chiamati a sua somiglianza, anche gli uomini sono, da parte loro, inoggettivabili e consustanziali. Quest'antropologia trinitaria, infranta dalla caduta, restaurata in Cristo, ci É offerta nei misteri della Chiesa, attraverso i quali le energie trinitarie ci compenetrano interiormente. Se l'unità divino-umana É destinata a trasfigurare il cosmo, l'energetismo trinitario diviene il lievito delle relazioni umane (Il nostro programma sociale É il dogma della Trinità, diceva Nikolaj Fedorov.. Per questo i grandi spiritualisti ortodossi pregano per la salvezza di tutti, perché‚ la salvezza non É se non la realizzazione, ad immagine della Trinità, della totale comunione umana. Non apocatastasi (ristabilizzazione universale. meccanica, condannata insieme alla dottrina di Origene, ma battaglia d'amore, speranza che non ammette limite. Sant'Isacco il Siro pregava anche per i dÉmoni. Malgrado la sordità e il tradimento dei cristiani, la Chiesa É santa nella misura in cui si schiude attraverso il pentimento e la invocazione ("epiclesi". alla presenza costante di Dio il quale, nella persona del suo Cristo della quale diventiamo membri, ci comunica il suo Spirito, conferendoci fin da quaggiù la vita eterna. Per epiclesi intendiamo la preghiera pronunciata dal sacerdote e ratificata dal popolo al centro di ogni azione sacramentale: essa supplica Dio di inviare il suo Spirito, che attualizzerà, nella materia del sacramento e nella comunione dei fedeli, la presenza e la potenza del Risorto. c. La Chiesa É in Cristo.

La Chiesa É il Cristo totale nel suo capo e nel suo corpo (sant'Agostino.. Quest'unità organica, intesa dai Padri nel senso più realistico, É un'unità eucaristica: la Chiesa locale, che integra mistericamente i fedeli rispetto al corpo del Cristo, manifesta dunque l"Una Sancta" nella sua pienezza. Tutte le chiese locali si riconoscono grazie a una medesima fede e si identificano in una medesima esistenza: quella del Risorto. Il sacerdozio del vescovo, immagine del Grande Pastore del gregge, dispensatore della Parola e dei Misteri, moltiplicato attraverso il "presbyterium" (il collegio dei sacerdoti., É postulato da questa realtà misterica: la sua unità nel tempo e nello spazio, attraverso la successione apostolica, testimonia dell'unicità dell'eucarestia e la continuità della fede. Istituito dal Cristo nella sera della sua resurrezione (Giovanni XX, 19-23., esso trova la sua pienezza solamente nello Spirito di Pentecoste, in seno e al servizio della comunità che egli alimenta con il Sangue del Cristo. Esso É distinto ma non separato, il che sottolinea la possibilità di ordinare sacerdoti anche uomini sposati. d. Lo Spirito Santo poggia sul corpo del Cristo. Per questo, l'inserimento in questo corpo, tramite il battesimo, É immediatamente seguito dal sacramento della cresima - sigillo del dono dello Spirito Santo -, che trasforma potenzialmente ogni "laikos" (laico, membro del "laos" [popolo] di Dio. in portatore dello Spirito (pneumatoforo.. L'infallibilità della verità - cioè l'accoglienza della verità nello Spirito Santo, attraverso l'intera vita della Chiesa, definizione ortodossa della tradizione - non può dunque se non manifestarsi nel libero accordo delle coscienze individuali, la loro comunione inscindibilmente sacramentale e collettiva. Il popolo di Dio, nell'unità di fede ed amore, unità incessantemente rinnovellata attraverso le gesta dei Padri e dei profeti, É chiamata a a salvaguardare la verità (Enciclica del 1848.. Il ruolo dei laici nella riflessione e nell'insegnamento teologico É stato sempre rilevante. Certamente, spetta per diritto divino al magistero legittimare l'espressione ecclesiale della verità. Ciononostante - e la storia ne fornisce non poche esemplificazioni - un vescovo, un patriarca, un papa, un concilio, quand'anche si proclamino ecumenici, possono sbagliare. Solo il consenso sofferto del popolo di Dio, secondo un processo storico che non É possibile oggettivare in norme canoniche, certifica che i rettori dell'episcopato abbiano effettivamente rispettato la loro virtù carismatica. e . La cattolicità come analogia trinitaria. La cattolicità costituisce il nesso che ricollega la Chiesa a Dio che le si rivela come Trinità, conferendole il modo di essere proprio dell'uni-diversità, un sistema di vita a immagine della Trinità (Vl. Lossky.. Questa fondamentale cattolicità (che Chomiakov chiamava "sobornost", per distinguerla dalla semplice universalità geografica. si riferisce, da un lato, alla restaurazione, in Cristo, di un'integrale consustanzialità umana, e, dall'altro lato, alla consacrazione, attraverso le lingue di fuoco della Pentecoste, della diversità non meno assoluta delle persone. La stessa analogia trinitaria É alla base della comunione delle chiese locali, e quindi della collegialità dell'episcopato. Tale permanente conciliarità della Chiesa può esprimersi in concili universali o regionali. Essa si realizza il più delle volte nell'accoglienza da parte dell'insieme delle Chiese e di tutto il popolo di Dio di una testimonianza o di un'iniziativa ispirate. Per il buon ordinamento ecclesiastico, la collettività delle chiese locali si organizza attorno a dei centri di primazia. La Chiesa ortodossa si presenta in tal modo come una federazione di Chiese- sorelle, ciascuna delle quali É autocefala, cioè designa autonomamente il proprio primate. Quest'ultimo, perlopiù non un patriarca, viene eletto dai vescovi locali ed esercita, con l'accordo di un sinodo che li rappresenta, un diritto di iniziativa e di controllo. In certe Chiese (in particolare la Chiesa russa., la centralizzazione amministrativa É molto forte; i vescovi vengono mutati di frequente, laddove, per la tradizione ortodossa principale meglio conservata nei patriarcati del Vicino Oriente e in parte restaurata nella Chiesa greca, l'unione del vescovo con il rispettivo popolo É indissolubile.

Questa unione, nell'antica Chiesa, viene sottolineata dall'elezione del vescovo, come in parte É tuttora a Cipro e nel patriarcato di Antiochia. Essa era stata reintrodotta nella Chiesa russa dal concilio del 1917, ma le circostanze storiche non hanno permesso che venisse mantenuta, tranne in certe frange della diaspora. Essa É auspicata da parte delle confraternite greche. Per finire, l'escatologia ortodossa tradizionale presuppone l'esistenza di un centro di intesa universale - volendo, il patriarcato di Costantinopoli -, ma la reazione allo sviluppo della potenza romana, che É coincisa con l'emergere delle autocefalie nazionali, ha inevitabilmente comportato - come abbiamo visto - l'attenuarsi di questa concezione. Si precisa così, in forma ricca e complessa, il concetto della successione di Pietro nella Chiesa ortodossa. In forza della fede, ogni credente É successore di Pietro. In forza del magistero, ogni vescovo e tutti i vescovi nel loro complesso esprimono il ministero personale di Pietro, esponente della fede apostolica e presidente dell'assemblea eucaristica nella Chiesa-archetipo di Gerusalemme prima della dispersione degli apostoli. Infine, in forza del rapporto tra il collegio episcopale e la cerchia degli apostoli, il primate universale rappresenta un'immagine di Pietro, come icona e organo di collegialità. In questo campo, l'ortodossia venera il ruolo tradizionale di Roma, ma ritiene che il dogma del 1870 abbia mutato la natura stessa di questa primazia. Si può tuttavia osservare, da qualche anno a questa parte, una progressiva convergenza tra le due confessioni, cercando l'ortodossia di esprimere l'unità trascendente della Chiesa, e cercando il cattolicesimo di esprimere la propria diversità. - Spiritualità. La teologia ortodossa É fatta per essere vissuta. Questo, in primo luogo, per la liturgia, in quanto essa non consiste semplicemente nel preannuncio del Regno, ma anche nella partecipazione alla sua presenza attraverso la mediazione di un'arte integrale, di una bellezza non individualistica, contemplativa. La liturgia utilizza, sacralizzandola, la lingua volgare. Tuttavia, l'inerzia storica, spesso tipica del mondo ortodosso, ha lasciato che certe lingue liturgiche invecchiassero eccessivamente, come ad esempio lo slavonico nelle Chiese slave. La comunione, assai rara per un lungo periodo a causa di un paralizzante rispetto per il sacro, ridiventa settimanale nel periodo contemporaneo, su spinta spontanea e in forma popolare in Russia, altrove nei movimenti di rinnovamento. Tutti i fedeli, compresi i bambini, prendono la comunione sotto le due specie del pane e del vino. L'Eucarestia É il sacramento dell'unità: c'É dunque un unico altare in ogni chiesa, un solo culto eucaristico al giorno (con la domenica che resta privilegiata, essendo identificata con la Pasqua.. Se parecchi sacerdoti celebrano contemporaneamente il rito eucaristico, devono per forza concelebrare. Le cerimonie del sabato sera e delle veglie delle festività (donde il loro nome di vigilie., ricchissime dal punto di vista teologico, rivestono anche un ruolo importante nella religiosità. In proposito si può dire con Brice Parain (in "De fil en aiguille".: La Chiesa russa; si É avvolti in un canto che si arresta solo per riprendere e che quasi non fa che ripetere 'grazie', 'abbiate pietà'. Si sta lì, si sta bene, si può andare e venire, si può starsene tranquilli o venir disturbati, a seconda di dove si sta, la vita continua a scorrere, si raccoglie solamente, ma non per questo É meno tiepida. Il cristianesimo É la religione dei volti: del volto di Dio nell'uomo, del volto dell'uomo in Dio. Per questo l'icona fa parte integrante della liturgia. Le varie icone non sono mai natura!istiche; dipinte in una prospettiva trasfigurante, esse simboleggiano la luce increata, la resurrezione della carne, e mostrano la persona santificata come un sacramento del mondo futuro. Esse ci trascinano, attraverso la comunione dei santi nella grande corrente dell'energia divina. Dio si É fatto uomo perché‚ l'uomo possa farsi Dio, ripetono i Padri. I misteri debbono alimentare una mistica personale sobria e virile. Occorre vigilare sulla presenza della grazia battesimale nell'intimo del corpo purificando la mente, saldandola al cuore, così da unificare tutto l'uomo nel crogiuolo del cuore intelligente.

La via É quella delle "Beatitudini", l'umiltà, l'amore verso i nemici, la sete di giustizia, e tutta la nostra forza di passione trasformata, attraverso la penitenza e la fiducia in una dolorosa dolcezza, una tenerezza non sentimentale, ma di tutto l'essere - quella che esprime e trasmette la Madre di Dio. L'ortodossia trasmette anche un'ascesi complessa, effettivo corrispondente cristiano dello "yoga": l'esicasmo, arte delle arti e scienza delle scienze, che utilizza i grandi ritmi corporei (poich‚ la grazia increata compenetra il corpo non meno dell'anima. e il cui nerbo consiste nell'invocazione del nome di Gesù. Se Dio lo vuole, quest'invocazione accende il cuore, diventa spontanea. La preghiera, allora, É uno stato nel quale l'uomo ritrova la sua reale natura. Egli diventa un uomo apostolico, spesso in grado di leggere nei cuori, di pronunciare la parola che inquieta o guarisce. Tra l'Ortodossia e l'Occidente É in corso un processo di incontro. Tutte le Chiese ortodosse, a partire dagli anni Sessanta, fanno parte, con i protestanti e gli anglicani, del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Tutte sono d'accordo sul fatto che alcune di queste chiese, e in primo luogo Costantinopoli, conducano con Roma questo dialogo su di un piano di parità auspicato dalle conferenze panortodosse del 1963 e 1964. Un ecumenismo difficile, dato il modo in cui si É modellato sul calco del pensiero occidentale, la cui superiorità culturale rimane incontestabile. Un ecumenismo fecondo, in cui l'Ortodossia potrebbe trovare gli elementi per una presa di coscienza e una riforma interiore, pur dimostrando ai protestanti che si può essere cattolici senza essere rigidamente romani e ai cattolici che si può essere evangelici senza essere negativamente protestanti. In prospettiva, c'É indubbiamente un futuro per un cristianesimo che, nelle sue espressioni più elevate, non É n‚ ideologia n‚ attivismo, ma follia d'amore e metodo di deificazione. Non c'É alcunch‚ di straordinario in questo ruolo, interamente d'azione di presenza e di gratuità. Come scriveva san Giovanni Climaco: La potenza, per un re, É la ricchezza e il numero; la potenza, per l'esicasta, É l'abbandono alla preghiera (MG LVIII, 1118 B.. 4. SCISMI E SETTE. Il cristianesimo ortodosso non ha conosciuto nulla di comparabile alle grandi lacerazioni del cristianesimo occidentale. Le sette sorte nel suo ambito spirituale non riguardano oggi più di dieci milioni di persone. Esse sono di due tipi fondamentalmente - da un lato, una pneumatologia senza più radici; dall'altro, un ritualismo legalitario e sacralizzante - che esprimono, ma isolate e ipertrofizzate, due tendenze normalmente in equilibrio (o in tensione. in seno all'ortodossia. Nel Medioevo si trattò, da un lato, del bogomilismo, dall'altro dei movimenti d'ispirazione ebraica. Il primo fenomeno, analogo al catarismo occidentale, É sopravvissuto in Bulgaria fino al diciottesimo secolo ed ha profondamente segnato la religiosità popolare nei Balcani e in Russia. Fino ai nostri giorni, esso costituisce il cemento delle sette spiritualistiche, dualistiche, antisociali. Il movimento giudaizzante (nel dodicesimo secolo sotto l'influenza dei Kazari convertiti all'ebraismo, nel sedicesimo secolo, a Novgorod, per contagio dl tendenze occultiste e cabbalistiche dell'Europa centrale. É ricomparso alla fine del diciassettesimo secolo con la setta dei "sobbotniki" (sabbatisti., che esiste ancora oggi; la sua sensibilità continua a trasparire in molte sette ritualistiche o moralizzanti. Nell'epoca moderna, le sette si sono formate soprattutto in Russia, nei due momenti in cui si É infranta la continuità storica di questo paese: alla fine del diciassettesimo secolo, con il crollo della Santa Russia; nel ventesimo secolo, attorno alla rivoluzione del 1917. Nel diciassettesimo secolo, la Russia moscovita si isolava nella consacrazione di un ordine integralista, simbiosi del Terzo Impero e della Terza Roma. Quando, verso il 1650, il patriarca Nicone reinserirà brutalmente la Chiesa russa nella collettività ecumenica ortodossa, riformando gesti e testi liturgici secondo l'usanza contemporanea dei disprezzati Greci, egli suscitò la feroce opposizione dei Vecchi Credenti.

A partire dal 1667, in una società che si va scompaginando e sta diventando laica, il "Raskol" (lo scisma. si rinchiude in un cristianesimo magico in cui la nostalgia per la Santa Russia raggiunge quella del paradiso perduto - la bianca Kitega inghiottita nelle acque del lago Svetlojar. Aspramente perseguitati dallo Stato - ormai, per loro, strumento dell'Anticristo - i Vecchi Credenti reagiscono dapprima con gli olocausti collettivi della Morte Rossa, che trasforma interi villaggi in roghi volontari; più tardi - come risposta di una minoranza tollerata ma vessata (fino al 1905. - con il successo di quei grandi mercanti che ebbero un ruolo notevole, all'inizio di questo secolo, nella cultura russa. Lo Stato sovietico ha riconosciuto i Vecchi Credenti (divisi in senza sacerdoti e presbiteriani., che trasmettono così fino a noi l'antico canto piano russo e alcune icone ammirevoli. Ma la loro fede, specie per quel che riguarda il rito, subisce un'erosione intensa e non riesce oggi a raccogliere più di due o tre milioni di fedeli. Uno scisma affine per la sua ispirazione alla setta dei Vecchi Credenti russi si É prodotto nel 1924 nella Chiesa greca, al momento dell'adozione del calendario gregoriano. I paleostilisti - fautori dell'antico calendario - hanno respinto tale cambiamento ( che, ad esempio, compromette la quaresima dei santi Apostoli.. Oggi, essi ammontano a più di un milione. La gigantesca disgregazione di cui sono sintomi il "Raskol" e la laicizzazione petroviana ha fatto sì che fiorisse anche una forma degenerata di pneumatologia. Essa ha assunto due aspetti fondamentali: uno mistico, l'altro - più razionalista - di misticismo evangelico. La setta mistica più importante fu quella dei "khlysty" o uomini di Dio, centrata sull'esperienza sensibile dello Spirito Santo, secondo alcuni schemi gnostici e certi metodi orgiastici affini alle tecniche dell'estasi sciamanica (in alternanza con una ascesi in senso proprio, antisociale e antifamiliare, che ha portato fino alla castrazione dei settari imparentati, "skoptsy", castrati, bianche colombe, incarnazione dello Spirito Santo.. Queste sette, proibite, non esistono più se non come residui. Le sette razionaliste e moralizzanti: "duchobori", lottatori dello Spirito, e "molokani" (da "moloko", latte: sia quelli che bevono latte durante la quaresima, sia coloro che dispensano il latte spirituale di cui parla san Paolo., si sono sviluppati nel diciottesimo secolo sotto influenze occidentali del tipo dei quaccheri, della massoneria e del protestantesimo. Esse respingono la Chiesa e la divino-umanità del Cristo e mettono l'accento su un moralismo evangelico intessuto di comunitarismo e di pacifismo. Oggi, esse vanno perdendo i loro seguaci a vantaggio dei battisti, i cui principali dirigenti sono degli ex molokani. La Rivoluzione russa ha coronato (ed esautorato. un poderoso movimento messianico sorto dal sottofondo spirituale della Russia quando la tecnica e lo scientismo provenienti dall'Occidente hanno definitivamente compromesso le strutture tradizionali. Questo movimento, pur rappresentando un'innovazione del pensiero ortodosso, ha riattivizzato le vecchie sette e ha provocato la comparsa di nuove, tutte del tipo pneumatologico: alcune nella linea del moralismo evangelico (tolstoiano., con comparsa di gruppi protestanti di origini occidentali (cristiani evangelici e battisti.; altre di tipo mistico (con complesse influenze occidentali, fra gli intellettuali: l'antroposofia di Steiner, il dionisismo di Nietzsche, il terzo regno di Gioacchino da Fiore.; alcune venerano nuove incarnazioni del Verbo o dello Spirito (giovanniti, "innokentievtsy"., altre accentuano in modo maldestro alcuni aspetti della mistica ortodossa tradizionale (Glorificatori del Nome - di Gesù - che sarebbe Dio stesso; senza morte, perché‚ non si muore se non per mancanza di fede nel Risorto.. Questi settari erano dei rivoluzionari religiosi, dualisti (nel senso del bogomilismo. nei confronti della società presente, ma monisti nella loro aspettativa millenaristica. Durante il periodo rivoluzionario e la NEP, il nuovo regime li ha risparmiati, ammettendo l'obbiezione di coscienza, invitando i battisti a fondare, come tali, dei "kolkhoz" modello, favorendo in seno alla Chiesa ortodossa uno scisma graduale: la Chiesa vivente (che autorizzò il matrimonio dei vescovi e la possibilità di risposarsi per i preti rimasti vedovi, russificò e modernizzò la liturgia.. Tuttavia, a partire dal 1928, con l'avvento dello stalinismo, sulle sette e le formazioni scismatiche É calata una terribile repressione, senza che questo impedisse loro di proliferare, ma con orientamenti diversi.

Durante il periodo staliniano, il terrore e la persecuzione hanno comportato la moltiplicazione clandestina di sette apocalittiche, antisociali, che aspettano la fine imminente del mondo e denunciano il regime come l'Anticristo, il Drago dell'Apocalisse. Queste sette, chiamate appunto del Drago rosso, sono andate a poco a poco esaurendosi a vantaggio dei due raggruppamenti emersi dalla Chiesa ortodossa e che costituiscono a tratti una vera e propria Chiesa delle catacombe: la Vera Chiesa ortodossa e i Veri Cristiani ortodossi. Le sette mistiche, perseguitate, e alcune sette di origine occidentale (certi pentecostali e, molto influenti fra i concentrazionisti, i testimoni di Geova. sono giunte a confluire in questo vasto movimento apocalittico e dualista. Dopo la destalinizzazione e la relativa liberalizzazione del regime, i gruppi apocalittici vanno perdendo d'importanza. Le recenti difficoltà della Chiesa ortodossa, la razionalizzazione dell'uomo sovietico, il suo desiderio di un'esperienza personale della verità e di una pratica concreta dell'aiuto reciproco, l'esigenza, infine, di salde strutture etiche, comportano l'ascesa di un vero e proprio protestantesimo russo che si colloca lungo il solco, tradizionale in Russia, del moralismo evangelico. Si tratta essenzialmente di battisti, che pongono l'accento sulla santificazione attraverso il lavoro e dichiarano di realizzare i grandi valori del comunismo. Essi hanno mantenuto la maggior parte delle feste ortodosse (compresi i matrimoni.. Raggiungono perlomeno i tre milioni di persone. BIBLIOGRAFIA - In francese. Afanassieff N. - Koulomzine N. - Meyendorff J. - Schmemann A., "La primaut‚ de Pierre dans l'Eglise orthodoxe", Paris 1960. Arseniev N., "La pi‚t‚ russe", Paris-Neuchƒtel 1963. Behr-Sigel E., "PriÉre et saintet‚ dans l'Eglise russe", Paris 1950. Boulgakov S., "L'orthodoxie", Paris 1959(2. (trad. it. Bulgakov, "Ortodossia", Milano 1973.. Cl‚ment O., "L'Eglise orthodoxe", Paris 1965(2.. Id., "L'essor du christianisme oriental", Paris 1964. Id., "Dialogues avec le patriarche Ath‚nagoras", Paris 1969. Id., "Byzance et le christianisme", Paris 1964. Evdokimov P., "L'orthodoxie", Paris-Neuchƒtel 1959 (trad. it. "L'ortodossia", Il Mulino, Bologna 19662.. Id., "Les ƒges de la vie spirituelle. Des PÉres du d‚sert à aujourd'hui", Paris 1964 (trad. it. "Le età della vita spirituale", Il Mulino, Bologna 1968.. Id., "Le Christ dans la pens‚e russe", Paris 1970 (trad. it. "Cristo nel pensiero russo", Città Nuova, Roma 1972.. Id., "L'art de l'ic“ne, th‚ologie de la beaut‚", Paris 1970 (trad. it. "La teologia della bellezza", Paoline, Roma 1972..

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