Somos Ricos "Insula Felix"

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Somos Ricos “Insula Felix” Racconti e Ritratti da Cuba di Sandro Ridolfi www.piazzadelgrano.org

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Somos Ricos“Insula Felix”

Racconti e Ritratti da Cubadi Sandro Ridolfi

www.piazzadelgrano.org

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INDICE

Il muro“…che da tanta parte…il guardo esclude…” pag. 5

Cuba“Tra mito, cubanìa e realismo dell’impossibile” pag. 11

Osvaldo“Un amico italo-argentino-cubano” pag. 21

Marlene“Una donna, una madre, una attrice cubana” pag. 33

In treno“Servizi, disservizi e fantasia” pag. 41

Lavinia“Cubanìa, filosofia e santeria” pag. 51

Dianelis“Una attrice cubana arrabbiata” pag. 63

Un pensionato“Nostalgia e turismo de la salud” pag. 73

In volo“Paese che vai… malcostume che trovi” pag. 83

Fernando“Un regista, un artista, un uomo” pag. 95

Ana“Medicina, lavoro, studio e cubanìa” pag.101

Un cartografo guevarista“De tu querida presencia…” pag.111

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Oreste“La piccola impresa nel socialismo reale” pag.123

Guantanamera“Il rally dell’oriente. Primi!” pag.131

Santiago“La città degli aquiloni” pag.137

Renan“Adelante cubanos!” pag.147

Due bambini“Una nuova generazione” pag.155

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IL MURO

“...che da tanta parte…il guardo esclude...”

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Da qualche giorno avevo iniziato a riflettere su quell’argo-mento, discutendone e dibattendone con un immaginariointerlocutore in verità così diverso dall’immaginario dal-l’avere sempre contorni precisi e ben delineati, quasi unavera presenza fisica, anche se frequentemente mutevolenello stesso corso del ragionamento ad ogni sua occasionaleinterruzione e ripresa.Ci ragionavo da tempo e quella sera, sul balcone di una ca-mera d’albergo di quella terra lontanissima, decisi di fissaresulla carta i miei pensieri per ricercarne un ordine ed unacoerenza logica.Prima di iniziare a scrivere, però, mi guardai attorno ancorauna volta, quasi per dare un contesto concreto ed attuale aquelle mie riflessioni.In quel momento mi resi conto della presenza di un muroche, alto e cieco di fronte al mio sguardo, mi sovrastava fi-sicamente e, a quel punto, anche mentalmente.Il balcone, piccolo e stretto, sul quale si trovavano due pic-cole sdraie di plastica e tela che si fronteggiavano divise daun ancor più piccolo tavolino, era chiuso sui due lati cortida pareti in muratura piena, una molto più lunga dello sbal-zo del balcone.Seduto sulla sdraia di destra mi trovavo a fronteggiare ilmuro più lungo che, impedendomi la veduta verso occiden-te, mi soprastava di diversi piani, così creando un sensod’oppressione che comprometteva la veduta dell’oceano an-cora illuminato dal sole al lento tramonto.Mentre riflettevo sulla presenza opprimente di quel murocieco ed alto, ho girato un poco la testa alle mie spalle, no-tando che da quella parte, invece, il muro finiva al limiteesatto dello sbalzo del balcone.L’albergo, disposto lungo il fronte dell’oceano, aveva unastruttura “a gradini” ed il mio era il primo balcone del gra-dino arretrato.Nessun ostacolo alla veduta, nessun muro incombente,dunque, dal lato opposto alle mie spalle.Sarebbe bastato cambiare sdraia, dare le spalle al muro più

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avanzato e così guadagnare la veduta incontrastata del-l’oceano sino alla curvatura visibilissima dell’orizzontemarino.Mi venne da sorridere apertamente benché fossi da solo,considerando la banalità di quel senso di oppressione chepoco prima aveva bloccato il mio impulso di scrittore.Abbandonandomi ad una debolezza filosofica, che soventedilaga nelle ore del tramonto, considerai che molto spessoi muri che ci troviamo di fronte nella vita sono solo il fruttodi un errore di prospettiva, di un angolazione sbagliata del-lo sguardo o dell’approccio.A volte basterebbe ruotare la testa, cambiare sedia od ango-lo di veduta ed allora tanti muri, veri o immaginari, perde-rebbero in attimo la loro imponenza e lo sguardo si aprireb-be verso diversi orizzonti e soluzioni già pronte, a portatadi vista e mano, solo a volerle e saperle vedere.Prima però di darmi definitivamente dello stupido per il cla-moroso errore nella scelta della sdraia, mi soffermai ancoraun attimo a riflettere più a fondo sulla situazione.Il muro più grande ed opprimente era in effetti dispostoverso ovest, verso cioè la direzione in cui stava tramontan-do il sole e così impediva proprio la veduta di uno spettaco-lo naturale tra i più emozionanti, quello del lentissimo tra-monto sino alla totale, quasi improvvisa, scomparsa in maredel sole che, a quelle latitudini e nell’orizzonte curvilineo diun oceano infinito, assume l’immagine di una palla di fuocorosso incendiato che quasi si spegne, con un’ultima fiamma-ta violenta e brusca, precipitando nel mare.Accreditandomi a quel punto di un istinto primigenio, giu-stificai in quel modo la scelta inconscia della sdraia di de-stra condizionata dal non casuale orientamento verso il tra-monto del sole.Intanto, però, il sole non c’era più, la luce con l’ultima fiam-mata, oscurata tuttavia alla mia vista da quel muro alto elungo, d’improvviso era venuta meno, ed era perciò impos-sibile scrivere.Decisi quindi di rinviare a domani, o ad un generico domani,

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il progetto di scrittura appena concepito.Nella penombra debolmente rischiarata dalle luci dell’alber-go che si andavano via via accendendo, c’era però ancora lapossibilità di “incendiare” e fumare una sigaretta, restandopur sempre seduto sulla stessa sdraia “dell’istinto”.

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CUBA

“Tra mito, cubanìa e realismo dell’impossibile”

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Questo febbraio 2003 compio il mio quarto viaggio nell’Iso-la di Cuba.Penso di avere ben presenti le ragioni che di volta in voltami hanno spinto a partire dal mio paese, o meglio dalla miacasa, verso quest’isola lontana; quelle ragioni però riguar-dano argomenti molto personali e, quindi, non faranno par-te di questo racconto.Più difficile, a prima vista, comprendere le contrapposte ra-gioni che per ben quattro volte mi hanno portato a scegliereproprio l’Isola di Cuba come mèta delle mie partenze.Ricordo bene, infatti, quando al ritorno dal mio primoviaggio a Cuba avevo giurato a me stesso di non tornarvimai più.Ero partito, allora, alla rivelazione di un mito che in qualchemodo aveva segnato ed accompagnato, anche se certamentenon da solo, la maggior parte degli anni della mia forma-zione giovanile e, debbo aggiungere onestamente, non soloquelli.Un sano proverbio desunto dalla fonte della saggezza po-polare così piena di luoghi comuni ed ovvi da essere semprenel giusto, ammonisce che i miti non vanno mai rivelati, pe-na la perdita del loro fascino.Solo pochi giorni di permanenza nell’isola del socialismoreale latino ed il mito del paese che lotta e lavora per la co-struzione e la diffusione nel mondo di una nuova idea epicadi società degli uguali era andato in pezzi.Nessun socialismo realizzato.Di più, nessuna coscienza sociale e tanto meno socialistarealmente diffusa e radicata nei quasi quaranta anni daquello che ogni muro intonacato e pitturato dell’isola de-clamava enfaticamente e roboantemente il “trionfo dellarivoluzione”.Solo pochi giorni per rendermi conto che mi trovavo in unpaese che di reale aveva anzitutto l’appartenenza al terzomondo economico, sociale e culturale, ancorché reso più ac-cettabile, almeno alla luce della nostra predisposizione cul-turale europea e così detta di sinistra, da una più equa di-

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stribuzione della povertà; abitato da un popolo latino pienodi tutti i vizi del pressappochismo, della ignavia e della inaf-fidabilità, per citarne solo alcuni, che caratterizzano la alle-gra, ma molto spesso disastrosa, incoerenza sociale e cultu-rale dei popoli “del mare e del sole”.Del socialismo realizzato, apparentemente, nessuna tracciaevidente e qualificante; del popolo nuovo che lotta e lavoraper sé e per il mondo, meglio non parlarne.Fatta eccezione della forse giovanile, ma sincera emozioneper la visita alla tomba del Che (gli eroi morti, soprattuttose da giovani, hanno il privilegio di non dover rendere contodella coerenza delle loro azioni e dei loro progetti), per il re-sto l’unica reale sensazione era stata quella di partire al piùpresto e di non tornare più.Ricordo che avevo portato con me ben due macchine foto-grafiche ed almeno 15 rullini per immortalare in ogni detta-glio quel viaggio-evento, per me, epocale.Ho consumato appena due rullini e quasi esclusivamenteper un personale dovere di cronaca e memoria, immortalan-do più camere d’albergo che situazioni, luoghi o persone.Eppure due anni più tardi sono tornato di nuovo a Cuba, el’anno successivo ancora ed oggi una quarta volta.Mi sembra giusto, almeno a questo punto, cercare di capirecos’è che mi ha attratto ed ancora oggi mi attrae così forte-mente verso questi luoghi e persone, una volta svelato il mi-to non veritiero.Preciso subito di non essere un “turista del sesso”, e ciò, ag-giungo, non perché quell’argomento non mi interessi, maperché nei miei quattro viaggi (ma sarebbe già bastato il pri-mo) quel tipo di turismo, qui a Cuba ed alla mia età, ha undiverso nome ben preciso e si chiama “tecnicamente” pro-stituzione.Dai venti ai trenta anni il turismo “con il sesso” è una espe-rienza bellissima ed una irrinunciabile occasione di cono-scenza interessantissima per ambedue le parti, per chi arri-va e per chi riceve.Dopo i trenta anni, o giù di lì, e con effetto di crescita espo-

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nenziale all’avanzare dell'età, quel turismo diventa senzamezzi termini “per il sesso” negato o represso in casa pro-pria e, quindi, precisamente prostituzione, anche in questocaso per ambedue le parti.Va detto, peraltro, che oltre tutto difetta clamorosamente laqualità del “prodotto”.In via generale, infatti, le così dette “mulate” cubane nonsono affatto belle come si fantastica, anzi la media, vista“all’opera” con i relativi conquistatori-clienti, è alquantobassa.Fatti salvi i gusti personali, intorno ai quali, com’è noto, nonsi può discutere, intendo precisare che quando parlo di“qualità”, cioè di bellezza della “prede” cubane (peraltro in-differentemente femminili o maschili, dato che la richiestaturistica interessa ambedue i sessi; ancorché io mi riservi ilpersonale giudizio soggettivo sulla sola componente fem-minile), non intendo esprimere giudizi etnici o razziali-raz-zisti, parlo di qualità oggettiva del “prodotto”, così come siconviene vertendosi in materia di transazioni commercialinell’ambito delle quali, seppure in area di illecito, va ricon-dotta la prostituzione.E’ scontato, ma ritengo di doverlo precisare per completez-za e correttezza di esposizione, che ovviamente anche trala popolazione cubana, così come di qualsiasi altra parte delmondo, nella infinita varietà “cromatica” delle razze che lacompongono ci sono un grandissimo numero di persone,donne o uomini, di straordinaria bellezza tanto esterioreche interiore, ma queste persone bisogna scoprirle uscendodal circuito del “turismo del sesso”, nella vita quotidiana ditutti i giorni: nelle file per gli autobus, in quelle dei mercatie degli uffici, nelle finestre e nelle porte che si aprono spa-lancate da ogni casa sulle vie pubbliche.Queste persone io le ho incontrate e le ho conosciute anchea fondo e sono state la grande sorpresa di cui intendo par-lare in questi racconti; ma tutto ciò non ha nulla a che vede-re con la avvilente logica del “turismo del sesso”.Avendo dunque escluso, quasi più per etica della estetica

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che per ragioni di morale socio-politica, il movete delle “mu-late”, cerco dunque di capire le vere ragioni del fascino ca-lamitante che su di me ha esercitato ed ancora esercita l’Iso-la Felice.Certamente non è il mare tropicale che mi attrae, mare cheio assolutamente non amo, e tanto meno il sole che ha inodio la mia pelle chiara (se credessi nella reincarnazione do-vrei ritenere di essere stato, nella mia precedente vita, unnaufrago annegato in qualche “maledetto” mare del sud!).Penso allora che sia l’atmosfera, più umana e sociale che cli-matica, cioè l’anima latina e caraibica di questa terra e dellasua gente che ha contagiato ed ancora fortemente influenzail mio desiderio di ricerca e rifugio in un luogo sereno ed ac-cogliente.C’è in quest’isola, nel suo popolo, nel suo modo del tuttooriginale di vivere, più e prima ancora che di pensare, unsenso, un sentimento, una ansia allegra sino all’irrazionaleper la vita, che sicuramente da lontano, con suoni e voci, ri-chiama ed attrae.Forse è proprio la singolare reinterpretazione del sociali-smo in chiave di un realismo dell’impossibile, tradotta inuna capacità di vivere comunque il presente così com’è e co-sì come viene giorno per giorno senza neppure porsi i pro-blemi dei perché e dei per come, pur senza mai rinunziare,neppure un attimo, a quel sogno di un futuro radioso e glo-rioso, sicuramente più declamato che creduto o capito sinoin fondo, enunciato dalle mille iscrizioni roboanti dei “muridella rivoluzione” (d’altronde i sogni non si possono capire,ma solo sognare e l’importante è non dimenticarli e perciòripeterli incessantemente, quasi ossessivamente, per ricor-darli per sempre).Ho detto poco sopra della saggezza dei proverbi della tra-dizione popolare, aggiungo ora la verità della profonda pe-netrazione nell’anima cubana delle più fantasiose paroled’ordine del socialismo epico, ma anche allegro ed ironico,della più recente esperienza latina.Il modo con cui i cubani hanno interpretato nella quotidia-

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nità del loro modo di vivere e pensare l’incitamento alla eu-forica follia dell’inseguimento dell’impossibile enunciatodal Che nella storica parola d’ordine: “Siamo realisti, esigia-mo l’impossibile”, può dare forse, più d'ogni altra argomen-tazione sociologica, filosofica o politica, una idea correttadella realtà cubana.Cuba è oggettivamente un paese dell’estremo sud del mon-do che vive, con una dignitosa povertà ben ripartita ed or-ganizzata, la convinzione di fare parte del primo mondo, ar-rogandosi, a volte, anche il diritto di assumerne la guidaquanto meno politica, morale e culturale.Sbarcando a Cuba, infatti, si respira da subito un’aria da pri-mo mondo politico, sociale e culturale, e quel che colpisce,sino quasi a sorprendere, è semmai la condizione di pover-tà, unita al disordine ed alla disorganizzazione diffusa e ge-neralizzata propriamente latina, che risulta non coerentecon il livello di dignità del paese e della sua popolazione.Sotto questo punto di vista Cuba, conosciuta ovviamente ol-tre i recinti riservati al turismo dei club vacanze o del sessomercenario, è davvero il paese dell’impossibile, eppure c’èed è reale.Interpretando “a modo loro” l’incitazione del Che i cubanine hanno completamente capovolto l’ordine logico e persi-no sintattico.Il progetto di vivere con coerenza morale e materiale, cioèreale, la pretesa della conquista dei sogni dell’impossibile,è stato ribaltato nella assunzione al mondo del reale di ciòche non c’è e non può oggettivamente esserci.I cubani cioè hanno molto più semplicemente ritenutoreale ed attuale l’impossibile, convincendosene loro stes-si profondamente e pretendendo di convincere di ciò ilmondo intero.Faccio degli esempi.I cubani, tutti, ritengono di godere di livelli qualitativi di me-dicina tra i migliori del mondo, persino eccellenti in talunisettori specialistici.Non è vero!

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La loro medicina è sicuramente buona se rapportata alla re-altà di un paese del terzo mondo ma, quando non rivela si-tuazioni di vero e proprio bluff, può essere persino perico-losa nelle così dette, ma del tutto inesistenti, punte di eccel-lenza dove emerge, al contrario, la mancanza di mezzi, stru-menti e strutture, nonché di reale preparazione tecnica de-gli addetti a tutti i livelli.La loro scuola, parimenti, seppure ha un grado di diffusio-ne straordinario pur sempre con riferimento ad un paesedel terzo mondo, è decisamente di un livello medio-basso,tendente al basso, laddove confrontata con quella dei pae-si sviluppati.La loro qualità del lavoro, per citare solamente un terzoesempio di più semplice e diretta evidenza, intesa sia in ter-mini di professionalità che di così detta “intensità”, è asso-lutamente, e senza mezzi termini, inaccettabile per i para-metri del primo mondo.Eppure i cubani, siano essi socialisti o quanto meno e moltopiù spesso “castristi”, ovvero esattamente al contrario anti-socialisti o meglio anticastristi, sono tutti, indifferentemen-te, sinceramente ed acriticamente conviti del contrario.Sicché per i primi il terribile e demonizzato embargo USA eper i secondi il regime totalitario, vengono caparbiamentedichiarati e sinceramente creduti come le cause uniche edassorbenti del sottosviluppo, o meglio del mancato decollodi un paese che, in verità e realtà, non ha proprio nulla!Cuba non ha risorse energetiche, non ha materie prime, nonha produzioni agricole (almeno e livelli significativi da ecce-dere le necessità del sostentamento interno, peraltro già as-sai insoddisfatte), e soprattutto i cubani non hanno nessunaseria propensione al lavoro (certamente per come la si in-tende nei paesi sviluppati o in quelli di nuova emergenza disviluppo come ad esempio la Cina o lo stesso Vietnam).Questi argomenti sono del tutto sconosciuti alla “intelligen-za” (intesa come capacità o disponibilità alla comprensione)del popolo cubano che vive, con serena convinzione e sin-cera allegria, la condizione di rappresentare una “piccola

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Svezia”, forse con meno industrie, automobili e beni consu-mo, ma con più meritata visibilità mondiale e certamente(ed in questo almeno sono nel giusto) con molto più mare epiù sole.“Diaboliche” sfortunate circostanze, come loro usano direnell’idioma spagnolo, impediscono a Cuba ed ai cubani diemergere e primeggiare nel mondo.Ma questo è solo per l’oggi, perché il domani sarà certamen-te diverso e migliore, quindi, concludono, non resta cheaspettare, non a caso in spagnolo tradotto dal verbo “espe-rare” che esprime ad uno stesso tempo i nostri concetti diattesa e di speranza; attendere sperando dunque, ma nelfrattempo anzitutto, senza mezzi termini e riserve: vivere.Credo proprio che questo sia il grande, singolare e straordi-nario fascino di quest’isola, così lontana nello spazio fisico,ma così tanto vicina in quello mentale al nostro modo di so-gnare, per quel che ancora resta della matrice latina o piùpropriamente mediterranea, di vivere e godere e nel frat-tempo di “(rac)contarsela e cantarsela”.Questo fascino non credo che si possa rendere con delle im-magini alle quali mancherà comunque il sapore, l’odore e lacomplessità dialettica e mutevole della vita reale.Ho così pensato di provare a renderlo e restituirlo raccon-tandone momenti dinamici di vita e, quindi, non luoghi mapersone e rapporti.Analizzare e scoprire sino in fondo le persone ed i rapporticon loro, penso e spero, mi servirà a capire, infine, le ragionidel fascino che l’ “Isola Felice” ancora esercita, così forte-mente, su di me.

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OSVALDO

“Un amico italo-argentino-cubano”

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Osvaldo, in cubano pronunciato “Ovaldo”, non è cubano,non è italiano, non è argentino e tanto meno abruzzese co-me lui oggi cerca di accreditarsi.Osvaldo è un amico e tanto basta per definirlo.“E Lui parla, Lui parla, parla, parla...”.Se ogni uomo avesse il suo inno come una nazione, alloraquesto sarebbe l’inno di Osvaldo.Non parlo del vessillo per non ferire la sua sensibilità;certo però che si vede da lontano, gonfio e teso come unavela di prua.Il “Lui” che parla è, ovviamente, il Comandante in Capo, ilLeader della rivoluzione vittoriosa, il Presidente, è Fidel.Osvaldo non ama Fidel, ed in questo è libero di esprimerecome crede i suoi sentimenti.Lo critica pesantemente ed incessantemente per le tantescelte sbagliate e più ancora per quelle non fatte negli ora-mai 44 anni dalla vittoria della rivoluzione, e su questo pun-to ha fondate e condivise ragioni.Lo accusa, ancora, di essere il principale responsabile, quasil’unico, degli insuccessi o comunque dei difetti del sistemapolitico, economico e sociale cubano; lo accusa, in qualchemodo, di essere l’ancora o la zavorra che blocca il decollodel processo di sviluppo dell’economia e delle società cuba-na, e qui, invece, sbaglia.Con tutti i limiti ed i grandi errori passati ed ancora presentiche nessun comunista può perdonare ad un altro comuni-sta, Fidel è, tuttavia, l’essenza stessa di Cuba così come oggiè e come noi tutti, in tutto il mondo, l’abbiamo scoperta, co-nosciuta ed amata.Cuba, l’isola o lo Stato repubblicano e socialista cubano, nonavrebbe avuto un passato ed un presente, né potrebbe aspi-rare ad un futuro migliore, o comunque non disastrosa-mente peggiore, senza Fidel.Il mito dell’ “Isola Grande”, dell’ “Isola Felice”, non sarebbemai andato e non potrebbe mai sperare di andare molto ol-tre i tanti modelli degli pseudo-paradisi turistici e reali pa-radisi fiscali e penali che pullulano nel mare dei caraibi, sen-

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za Fidel.Il pur sempre vivo ed attuale mito del “Che”, che va ricorda-to era nato in Argentina e morto in Bolivia, non avrebbe dasolo potuto sostenere la fama mondiale di Cuba, così com’èancora forte ed attuale, senza Fidel.Fidel è la Cuba di oggi e Cuba, così come viene conosciuta,amata, difesa ed aiutata nel mondo intero lo è per Fidel.Si dice comunemente che è il cuoco che fa la fama di un ri-storante anche se non è il proprietario; dimenticarlo, crede-re diversamente che sia il nome del ristorante a fare la suaforza, significa perdere il senso della realtà, cadere in unaillusione di potere-possibilità che non può che condurre adelusioni pesantissime.Ma Osvaldo è terribilmente ostinato nelle sue convinzioni enon sente ragioni perché non le vuole sentire.Cambiando approccio una volta ho raccontato ad Osvaldol’aneddoto dell’incontro tra Fidel e Mao.Un giorno Mao venne informato dell’arrivo in Cina di unadelegazione di cubani guidata da Fidel.Mao, che non aveva mai sentito parlare di Cuba e tanto me-no di Fidel, si informò su chi fosse, da dove veniva e cosarappresentava.Gli dissero che era il Presidente di una repubblica comuni-sta nata da una guerra rivoluzionaria su di un isola dei ca-rabi, proprio di fronte agli Stati Uniti del Nord America.Mao chiese allora quanti fossero.Cadendo nell’equivoco tra rappresentanti e rappresentatigli risposero che erano circa 11 milioni.Per nulla stupito da quest’ultima risposta, Mao chiese anco-ra in quale albergo cinese fossero stati alloggiati.Morale della favola: i cubani, mille, centomila o 11 milioni,rappresentano assai poca cosa nell’enormità del mondo.Se Mao si è interessato di Cuba ciò è avvenuto solo perché aparlargliene è stato Fidel.Ma Osvaldo ha le sue ragioni.Ha sposato una splendida donna cubana che non vuole sa-perne di rinunziare alla sua “cubanìa”, comunismo o non

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comunismo e Fidel o non Fidel.Osvaldo, inoltre, lavora nella cooperazione italiana ed euro-pea a favore di Cuba e, come tutti i missionari, i benefattorio comunque i volontari o quanto meno i volonterosi porta-tori di aiuti, non riesce a tollerare le resistenze, i burocrati-smi, gli impedimenti che rallentano la materiale erogazionedegli aiuti; in sostanza non riesce a farsi una ragione dellascarsa collaborazione e gratitudine dei beneficiati.Osvaldo ha, naturalmente, una visione politica più profondaed articolata della realtà cubana, sia nel particolare che nellelinee della politica economica e sociale generale, ma la na-sconde un po’ troppo sotto l’emotività della contingenzache umanamente coglie tutti gli operatori sul campo, onestie leali, e così cerca spesso scorciatoie di denunzie indubbia-mente fondate su valide ragioni, ma troppo semplici per es-sere concrete, complete e soprattutto utili.Se Osvaldo conoscesse il nostro sistema burocratico occi-dentale così bene come conosce quello cubano allora, forse,ricorderebbe il proverbio del bue che dice cornuto all’asino,o almeno la parabola del fuscello e della trave.La “cubanìa”, questa volta intesa come reinterpretazione inqualche modo persino peggiorativa del grigio burocratismodello statalismo socialista, in verità, è ad uno stesso tempoun ostacolo ed una forza.Deprime ed a volte delude gli slanci dell’entusiasmo inno-vativo, ma assai spesso, forse anche più spesso, garantisceun contesto di vivibilità politica, economica e sociale chesolo una illusoria e fantasiosa moltiplicazione delle scar-sissime risorse disponibili rende possibile, attuale, quasitangibile.Coniugare “cubanìa” con socialismo significa assicurare alsecondo quell’elemento di fantasia, se non di vera e propriafollia, che sostiene la fiducia illimitata nel tempo e nellospazio in un mondo migliore e diverso, ma nello stesso mo-mento fornisce alla defatigante inconcludenza della primala giustificazione di formalismi, burocratismi e procedure,anche se troppo spesso inutili e fini a se stesse.

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La faraginosità del socialismo reale cubano è infatti una po-tente arma di difesa di un popolo povero e bisognoso quasidi tutto dagli assalti non solo degli speculatori di mestiere,ma anche di quelli, sovente assai più dannosi, degli improv-visatori.Osvaldo sa bene che la povertà ed il bisogno sono beni discambio di altissimo valore commerciale e, quindi, di gran-de appetibilità e ciò tanto per chi li vende, generando feno-meni di corruzione devastanti culturalmente e socialmente,tanto per chi li compra, manipolando strumenti e sentimen-ti di sostegno e di solidarietà.Forte dei suoi rigorosi principi di correttezza e moralità,Osvaldo non consente che si alimenti il circuito vizioso e vi-ziante del dollaro turistico; così quando può (in verità quasisempre con rarissimi cedimenti ritengo dovuti più a stan-chezza che a sincera disponibilità) impone l’uso delle solestrutture di ristorazione pagabili in pesos cubani.Costo e qualità, nemmeno a dirlo, vanno di pari passo.Uno dei ristoranti in pesos cubani prediletti da Osvaldo è il“Varsovia”; locale insignito, almeno a leggere gli stemmi egli attestati affissi sulle pareti un poco malandate del patio,di encomi di “meritevolezza rivoluzionaria” per la qualità ela scrupolosità del servizio.Il menù, anch’esso affisso al muro del patio, declama la pro-messa di una consistenza quantitativa delle portate control-lata sino al centesimo di ettogrammo per ogni singola spe-cialità offerta dalla casa, in genere una sola e sempre la stes-sa: il pollo fritto; più raramente due, secondo disponibilità,con l’aggiunta della variante del maiale fritto.La struttura del ristorante, dato il clima caraibico, è tipica-mente a portico aperto sulla strada.Su di un lato del portico, tuttavia, c’è una specie di containerblindato senza finestre, con una sola entrata dal lato del ri-storante.Nel così detto container è allestita una piccola sala da pran-zo per così dire: riservata.Data la composizione internazionale della clientela, cioè

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la mia presenza di italiano in vacanza, ci è stata subito of-ferta l’opzione, a parità di prezzo (credo), del servizio nelcontainer.Aperta la porta è apparso un universo insospettato: unabomboniera, sovraccarica di drappi, tavoli addobbati, lam-padari a gocce e specchi alle pareti.Ma quel che più ha colpito fisicamente gli spettatori è statala folata di aria gelida uscita di colpo dalla porta del contai-ner-frigorifero, generata da un numero imprecisato di po-tentissimi, quanto rumorosissimi condizionatori ininterrot-tamente accessi alla massima potenza e ciò indipendente-mente dal fatto che all’interno in quel momento (ma è lecitopensare sempre) non vi fosse alcun cliente.Respinti dalla bora del gelo polare abbiamo declinato l’of-ferta, scegliendo uno dei vari tavoli all’aperto, in tipica for-mica cubana, senza tovaglia e tovaglioli, cioè senza niente,provvedendo noi stessi ad una sommaria pulizia primadell’uso con la carta igienica opportunamente portata da ca-sa, oltre a dei fazzoletti di carta per l’uso di tovaglioli nonforniti dal ristorante.“Suggestioni del giorno”: pollo fritto con patate e birra po-polare con consistenti residui di fondi.Tolta la pelle bruciata più che fritta, al di sotto è apparsouno splendido lesso di pollo, in verità un poco acquoso.Il miglior pollo fritto di Cuba, a detta di Osvaldo, in sin trop-po trasparente odio per i ristoranti in dollari riservati ai tu-risti stranieri, per di più (io direi: e meno male!) pagato inpesos cubani per un equivalente di meno di un dollaro nordamericano a persona.E sì che Osvaldo a casa sua mangia, ed in verità offre gene-rosamente a tutti gli ospiti ed amici, code di aragosta, gam-beroni ed ottimo pesce fresco.Ma anche per il critico Osvaldo un sistema socialista cheassicura almeno un quarto di pollo uguale per tutti ad unprezzo assai contenuto, ogni tanto una difesa d’ufficio lamerita.All’angolo del porticato era seduto un signore con davanti

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tre o quattro bottiglie di quella birra popolare oramai vuote,con tra le dita il resto di un sigaro altrettanto popolare.Va detto che quando da noi si parla i sigari cubani di costoaltissimo ci si riferisce a sigari bensì prodotti nell’isola diCuba, ma interamente destinati alla esportazione ed al con-sumo estero; per i cubani ci sono produzioni per così direparallele, di costo quasi irrisorio e ritengo, pur non avendomai fatto la prova diretta, di corrispondente qualità.Quel signore, solitario e malmesso, era stato, sino ad unanno prima, un rampante e promettente industriale ita-liano, sbarcato nel soleggiato paese del terzo mondo perportare progresso e sviluppo, e certamente anche per faretanto denaro.Aveva affittato degli ampi uffici nel prestigioso palazzo Ba-cardì nel cuore dell’Avana Vecchia, aveva assunto quattro ocinque segretarie, aveva allacciato linee telefoniche e fax, edinfine noleggiato un’auto ed una villa nel quartiere esclusivodi Tararà.Tararà è un comprensorio chiuso di villette signorili dispo-sto lungo la spiaggia bianca ad est di Avana.Dopo il trionfo della rivoluzione il comprensorio signorileera stato convertito in un centro di cure e soggiorno, negliultimi anni anche per i bambini di Cernobil.Di recente era infine tornato a svolgere la sua funzione diresidenza di lusso, riservata sostanzialmente agli industria-li ed investitori stranieri in grado di pagare affitti assai sa-lati anche secondo i nostri parametri, pur non avendone, daquel che ho potuto direttamente vedere, le corrispondentiqualità.In pochi anni il promettente imprenditore italiano avevaconsumato tutto il denaro che si era portato dall’Italia, sen-za avere realizzato nulla.Chiuso l’ufficio, lasciata la villa e la macchina, cercava oradi sopravvivere al livello di vita corrente dei cittadini cuba-ni, forse non disponendo nemmeno dei soldi, e tanto menodella faccia, per tornare indietro al suo paese.Una vittima della burocrazia e della inefficienza cubana?

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No, una vittima della sua stessa presupponenza, della arro-ganza, della ignoranza, in sostanza della sua totale incapa-cità imprenditoriale.L’ex dirigente, ma dipendente industriale, improvvisatosiimprenditore con i soldi della liquidazione dal lavoro e deirisparmi capitalizzati negli anni delle buone retribuzioni,sarebbe infatti sicuramente fallito anche in Italia, qualun-que impresa avesse ritenuto di avviare sulla base della pre-sunzione di capacità imprenditoriali inesistenti.Sbarcato ricco e determinato nell’isola del terzo mondo ave-va evidentemente creduto di poter fabbricare collanine especchietti da scambiare con pelli rare e monili d’argentocon i poveri indigeni ignoranti, depredandoli e con ciò arric-chendosi a dismisura, magari anche nella soggettiva convin-zione di avere arrecato un grande aiuto ad un paese sociali-sta e ad un popolo fratello.Viene in mente la scena di un bellissimo film italiano di raraintelligenza dove i due personaggi principali, trasportati peruno strano evento magico in una epoca assai remota, dopoavere in qualche modo preso atto della irreversibilità dellaloro nuova condizione, cercano di trarre profitto dalle loropiù avanzate abitudini di vita quotidiana, più che conoscen-ze tecniche o scientifiche, del mondo futuro.Improvvisatisi inventori di cose d’uso comune nella loroepoca ancora sconosciute in quella remota, dopo esserepartiti dall’idea, per loro inesplicabile, del funzionamentodella lampadina, finiscono per arenarsi sullo sciacquone delbagno del quale, al dunque, non riescono neppure a rico-struire il meccanismo di carico e scarico delle acque.Nello stesso modo i sedicenti imprenditori occidentali, sbar-cati pieni di progetti innovativi e di presupponenza nel ter-zo mondo arretrato, finiscono per dimostrarsi non in gradodi comprendere neppure le diversità reali di questi paesi, leloro esigenze e possibilità, finendo con l’affondare, con l’ul-teriore rischio di trascinare nel loro fallimento anche quelliche, magari per ignoranza, impreparazione, fiducia e co-munque o soprattutto per disperato bisogno, avevano cre-

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duto in loro e nelle loro vuote e vane promesse.Da questi cialtroni, oltre che dai tanti altri veri e propri av-venturieri e speculatori invece scaltri ed attrezzati, deve di-fendersi Cuba come ogni altro paese arretrato e bisognoso,magari anche nascondendosi dietro i filtri, gli sbarramentie le lungaggini di un sistema burocratico, sotto certi aspettiforse solo più protettivo che passivo.Questo Osvaldo lo sa ma si ostina a negarlo, un poco acce-cato da una fede nascosta ma mai veramente rinunciatanel luminoso ideale di uno Stato socialista capace di sma-scherare all’istante i cialtroni e gli avventurieri, e nellostesso tempo in grado invece di riconoscere, accogliere epremiare gli onesti e bravi portatori di idee ed azioni buo-ne e corrette.Se Osvaldo conoscesse veramente il nostro sistema politicoed amministrativo probabilmente riconsidererebbe e riva-luterebbe di molto l’allegra inefficienza cubana.Nel nostro paese la rugginosa burocrazia borbonica che siera impadronita dello Stato unitario all’indomani stesso del-la sua conquista da parte dei re piemontesi, da certo tempoha lasciato il posto a una nuova “specie” di parassiti dellapolitica e dell’amministrazione pubblica ancora più ineffi-cienti e dannosi.La nuova “specie” emergente è quella degli “gnomi”.Piccole persone, con piccole idee e piccoli desideri ed ambi-zioni, per le quali l’importante non è prevalere nel senso diriuscire a capeggiare e quindi governare i processi di cresci-ta, ma essenzialmente di impedire tali processi, facendo inmodo che tutto resti fermo ed uguale e perciò controllabilee controllato.Incapaci di comprendere, inseguire e dominare le nuoveidee ed iniziative, gli “gnomi” molto più semplicemente de-dicano tutte le loro energie ad impedire che qualcuno oqualcosa avanzi oltre le loro ridotte prospettive e possibilitàdi comprensione e di controllo.Se Osvaldo conoscesse a fondo queste verità del nostro oc-cidente sviluppato, sicuramente rivaluterebbe il piattume

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incolore, ma sostanzialmente onesto, di una sana burocra-zia di sistema, a fronte della falsità e della meschinità deipiccoli “gnomi” dalle piccole idee.Se Cuba è verosimilmente il paese dei burocrati, allora l'Ita-lia è certamente quello degli “gnomi”.Osvaldo prima o poi conta di tornare in Italia ed io glielo au-guro, ma solo per godere una meritata e serena pensione,riunendo la sua splendida famiglia cubana con quella affe-zionatissima italiana.Chi ha vissuto come lui, partecipandoli intensamente e co-raggiosamente, gli entusiasmi delle lotte e degli impegni an-che professionali per l’emancipazione dei popoli e delleclassi sociali arretrate ed emarginate in Argentina, Nicara-gua e Cuba dall’oppressione politica ed economica del sot-tosviluppo, molto difficilmente potrebbe capire un popolouscito solo ieri dalle stesse condizioni di drammatica mise-rabile povertà che oggi cerca persino di cancellare quellamemoria, assumendo giorno dopo giorno comportamentipolitici, sociali e sottoculturali di individualismo arrogantee razzista.Ma per ora Osvaldo resta Cuba per sua immensa fortuna,nell’Isola Felice, ad arrabbiarsi con l’ignavia dei lavoratoricubani e l’ottusità della burocrazia di regime, ma soprattut-to a contestare “Lui, Lui, Lui” che non fa altro che parlare,parlare, parlare…

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MARLENE

“Una donna, una madre, una attrice cubana”

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Marlene è una splendida donna cubana, moglie di un amicoitalo-argentino-cubano.Colta, elegante, dolce, Marlene è l’esempio raffinato della“cubanìa” serena.Nata da una famiglia operaia di una cittadina dell’internonon lontana da Avana, Marlene, dotata di notevoli doti di in-telligenza e di grande capacità di impegno, ha avuto la pos-sibilità, come si addice ad un sistema socialista, di percor-rere i livelli più elevati dell’istruzione universitaria ed inparticolare di frequentare l’accademia delle arti, specializ-zandosi nella recitazione.Marlene è dunque una attrice di professione che porta nelsangue i genii di una famiglia di potenziali artisti, con unpadre operaio in pensione e pittore dilettante e la madre ri-cercatrice e sostenitrice del teatro popolare locale, lei stessacantante dilettante.Quando si parla di attori-attrici in un sistema socialista ci siriferisce necessariamente a professionisti, forse anche do-tati per natura di una certa bella presenza, ma anzituttofrutto di un lungo percorso scolastico di preparazione cul-turale e tecnica che li rende capaci di esprimersi e lavorareindifferentemente nei campi del teatro, del cinema, della te-levisione, nonché della radio.Pur essendo propriamente una attrice di teatro, negli ultimitempi Marlene é interamente assorbita dalla radio dove in-contra apprezzamenti, consensi e quindi crescenti ulteriorioccasioni di lavoro.Marlene ha una figlia nata da un precedente matrimonio“cubano”, tanto precoce quanto effimero.Dileguatosi nel vero e proprio significato della parola il ma-rito e padre della bambina, Marlene ha assunto e continua asopportare da sola tutti gli oneri materiali e morali dell’edu-cazione della figlia, senza porsi il minimo problema e conrisultati davvero eccellenti, come dimostra la rara qualitàdella educazione della figlia.Questo almeno sino all’arrivo del nuovo marito che, alla in-nata emancipazione ed energia della madre cubana, ha ag-

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giunto un pizzico di così detto sano rigore e disciplina ma-schile tanto cari alla cultura della famiglia, un poco morbo-sa e possessiva, del sud del nostro vecchio continente.Dopo avere vissuto sulla sua pelle e su quella della propriafiglia l’inconsistente leggerezza del maschio cubano, oggiMarlene mostra di apprezzare quella vena di paternalismoche ancora caratterizza il maschio mediterraneo, un pococredendoci, un poco giocando a farlo credere, senza co-munque mai rinunciare alla sua autonomia ed alla consape-volezza di sé tipica delle donne cubane.Seppure cosciente dei benefici arrecati dalla nuova relazio-ne matrimoniale che, con l’affetto e la presenza, ha ancheportato nella sua vita un vento di internazionalità, oltre adun certo benessere economico che a Cuba, come peraltro inqualsiasi altra parte del mondo, nessuno disdegna, Marlenenon intende rinunziare per nessuna ragione al mondo allasua terra, alla sua origine, alla sua storia, in sostanza al suomondo ed alla sua natura cubana.Sicuramente le interessa viaggiare e conoscere altri luoghi,paesi e costumi per sé e per sua figlia, cosa che peraltro hagià fatto avendo conosciuto il suo attuale marito in Italia;ma a Cuba comunque intende ritornare ora e per sempre.La “cubanìa” è una componente genetica, quasi una malattiadell’anima, i portatori ne sono consapevoli e sostanzialmen-te felici, nel bene e nel male.Marlene svolge il suo lavoro di attrice, gestisce la casa e se-gue moltissimo ed attentamente la figlia, ma anche il suocompagno, sorprendentemente di quando in quando ancheesternando una certa morbosità di attaccamento squisita-mente latina.Alla sera, come lei stessa spesso dice con tono sinceramentesofferente, è sfinita.Il tempo quasi sempre le manca, non tutto si può fare oggi,c’è sempre un domani, la vita va presa con la dovuta calmae la giusta misura.In questi giorni Marlene ha fatto alcuni lavori di ristrut-turazione e manutenzione della casa recentemente per-

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mutata all’uso cubano che non consente compravenditeimmobiliari ma solo permute, anche se in verità sempreassistite da consistenti integrazioni monetarie, ovviamen-te non ufficiali.Una bella casa, con tre camere, cucina, tinello e salotto, contanto di patio ed un ampio giardino su due lati, lussureg-giante del tipico verde tropicale.L’unica pecca è nel piccolo bagno un poco approssimativo,ma anche da noi la cultura della sala da bagno ha avutosviluppi molto recenti e sovente è più di moda che di usoeffettivo che, in genere, fa del così detto primo bagno la la-vaderia e relega il secondo bagno a funzioni di ripostigliomulti usi.Quando si dice “ha fatto” dei lavori di ristrutturazione e ma-nutenzione si intende dire che Marlene ha ingaggiato deglioperai, un “poco tanto” improvvisati, che hanno realizzatouna apertura a finestra interna tra cucina e tinello ed hannodato nuova pittura a pareti ed infissi.Il risultato è oggi quello di una casa bella ed accogliente, pu-lita, fresca ed attraversata da una più o meno costante brez-za rinfrescante che tira dal mare assai vicino e dà alla casauna atmosfera quasi più mediterranea che caraibica.Quanto impegno però e quanta fatica per arrivare a questorisultato.Marlene è, come lei stessa dice, sfinita.Anzitutto contrattare i costi dell’intervento, un misto tracorpo e cottimo, con la variabile dei prodotti di consumoper qualità e quantità impiegata.Trattare a Cuba, e certamente a casa di Marlene, è una disci-plina tra la scienza e l’arte, comunque è questione da donne.Bisogna sempre porre un freno alla eccessiva disponibilità,sin quasi alla vulnerabilità, del maschio, tanto più se non èneppure cubano.E’ Marlene, cubana verace, che fa il prezzo: prendere o la-sciare.Molto più faticoso, poi, seguire i lavori, o meglio assisterealle esigenze correnti degli operai.

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Un giorno, ad esempio, sono venuti due operai per carteg-giare a fondo una porta di legno pitturata di vernice biancache Marlene ha voluto riportare al naturale, per omogeneitàcon le finiture della nuova apertura praticata tra la cucinaed il tinello.Una intera giornata di lavoro di due operai affaticatissimi,con un risultato, peraltro, non ottimale, quindi da riprende-re e completare, altrimenti, dice Marlene, così non si paga.Una giornata intensissima per Marlene: seguire ben dueoperai, soddisfare tutte le loro incessanti richieste, una vol-ta un bicchiere d'acqua, poi un caffè, anzi un “cafesito”, co-sa d'altro?; insomma due bambini da assistere e curare.Alla sera Marlene era stremata; erano solo le dieci di serama lei non ce la faceva più, era tempo di andare a dormi-re, se non altro per ricaricarsi e prepararsi alla nuovagiornata quando, l’indomani, i due operai sarebbero ritor-nati all’assalto.Marlene era sincera, spontanea e veramente stanca.Resta in verità la forza di lamentarsi ancora un poco.Di dire che il sapone distribuito ed in commercio è poco,peggio ancora per le quote di pollo e di tutti gli altri prodottiassicurati dallo Stato con la distribuzione della “libreta”, an-che se Marlene, in verità, ha il congelatore pieno di coded’aragosta, polipi ed altro pesce ricercato; il governo non va,proprio non va, insomma non riesce a fare i miracoli (chediamine!).Comunque la giornata è stata calda, tira ora una fresca brez-za serale dal mare, domani la figlia andrà alla scuola pubbli-ca dove da tempo primeggia tra le migliori, Marlene andrà aregistrare altri programmi alla radio di Stato, due operailenti e riflessivi, organizzati in proprio magari perché in ma-lattia dal posto di lavoro pubblico che comunque continuaa pagare loro lo stipendio, continueranno a carteggiare laporta della cucina o a dipingere il patio, tra un bicchiere diacqua ed un “cafesito” cortesemente preparato ed offertodalla padrona di casa.Una lieve e rituale dichiarazione di insoddisfazione, una lie-

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ve fatica, perché anche guardare stanca; in sostanza un granbel paese, giustamente da non lasciare mai.Questa è la “cubanìa”, fresca, spontanea, sincera, quasi in-fantile.44 anni di così detto “ferreo” socialismo reale non la hannoneppure scalfita.Se mai dovesse cadere Fidel, o il suo sistema, saranno dav-vero grossi problemi per i vicini nord americani; altro chealbanesi!Con tutto l'affetto possibile, ovviamente!

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IN TRENO

“Servizi, disservizi e fantasia”

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Il treno è un mezzo di trasporto collettivo tanto comune edi uso per così dire popolare da noi, quanto straordinarioinvece nell’Isola di Cuba.Anche il treno, nel suo insieme di infrastrutture fisse ed ap-parati di locomozione e trasporto, ha subito nella più recen-te storia di Cuba il repentino degrado conseguente alla ces-sazione degli aiuti economici e tecnici provenienti dalla exUnione Sovietica, sicché all’abbandono progressivo delletratte minori e più degradate si è aggiunta la notevole ridu-zione del numero dei convogli, nonché l’abbassamento del-la qualità dei materiali e del servizio in genere.Non ho conosciuto la migliore qualità del servizio ferrovia-rio cubano nell’epoca d’oro del socialismo assistito, ma pos-so narrare quel che ho visto a circa otto anni dal drammati-co inizio del così detto “periodo speciale”.L’esperienza che ho vissuto, tuttavia, ha ben poco a che farecon le difficoltà del “periodo speciale”, ma offre uno spac-cato eloquente della reinterpretazione cubana del concettoe della gestione concreta di un servizio pubblico.Poter utilizzare il mezzo di trasporto ferroviario nel mioprimo viaggio che mi ha portato a percorrere in ambedue ledirezioni l’Isola di Cuba, facendo centro ad Avana, è statauna mia “fissazione” che, alla fine, sono riuscito a soddisfa-re seppure per la breve tratta da Holguin a Santiago.Ma cominciamo dall’inizio, da quando cioè per soddisfaretale desiderio mi sono recato per la prima volta alla Stazio-ne Centrale del “Ferro Carril” di Avana.La stazione ferroviaria si trova a ridosso della Avana Vec-chia, sul fronte del mare interno alla baia, ed è costituita daun notevole complesso di stile ottocentesco molto simile al-le nostre più antiche ed un poco sontuose stazioni ferrovia-rie europee.Un edificio monumentale con ampie scalinate di accesso adun vastissimo atrio, con lunghe tettoie che si proiettano dal-la testa dei binari lungo il loro percorso verso l’esterno dellacittà, costeggiando dapprima il mare e poi all’interno, lun-gamente fiancheggiando la Carretera Central che da Avana

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conduce a Santiago all’altro capo orientale dell’isola.Il primo obiettivo, una volta verificata l’esistenza di un si-stema ferroviario niente affatto promosso per l’uso dei tu-risti stranieri e quindi ignorato dalle relative guide, è statoquello di conoscere l’orario dei treni, le possibili destinazio-ni, le modalità, infine, di prenotazione dei biglietti ed i rela-tivi costi.Un orario dei treni effettivamente esiste ma, contrariamentea quanto si possa immaginare sulla base della nostra espe-rienza e conoscenza, questo non è rappresentato in un ta-bellone luminoso e comunque stampato e leggibile al pub-blico, l’orario dei treni in partenza dalla stazione centrale diAvana è rappresentato da un enorme signore nero.Nero a Cuba si dice semplicemente e spontaneamente “ne-gro”, così come bianco è “blanco”, mulatto è “mulato” e seci si riferisce a donne graziose si dice “blanchita” o “negri-ta”, “mulata” invece resta sempre uguale seppure alcunemolto articolate precisazioni sulla gradazione verso il bian-co o il neroDiversamente nella ipocrita cultura nord americana i bian-chi sono caucasici, i neri afro-americani, i messicani ispanicie gli indiani? Quelli non ci sono più o quasi salvo che nelleriserve per i turisti.Tornando alla stazione di Avana, ad una specie di banco in-formazioni posto al lato esterno verso il piazzale di parten-za dei treni, probabilmente per problemi od opportunità diventilazione naturale dato il caldo soffocante dell’atrio,c’era un enorme scurissimo impiegato (“negro” scuro) che,a richiesta del pubblico, declinava gli orari e le destinazionidei treni in partenza per l’intera settimana.La cosa non sarebbe stata sorprendente più di tanto se nonfosse stato che ad ogni successiva richiesta di ripetizione odi chiarimento o dettaglio tutto cambiava, giorni, orari e de-stinazioni.Problema di memoria o sfogo di fantasia creativa dell’ad-detto?Quella volta non lo ho approfondito avendo poi scelto di

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partire da Avana verso Cienfuegos con un altro mezzo ditrasporto, però una conferma dell’originalità del sistemainformativo cubano (non certo informatico o informatiz-zato!) la ho avuta qualche anno più tardi ripetendo l’espe-rimento dal capo opposto della linea ferroviaria alla sta-zione di Santiago.La stazione ferroviaria della città “ribelle, ospitale e sempreeroica” è invece una struttura molto moderna, anche se giàun poco andante, ma il sistema di quelle che qui chiame-remmo le “relazioni con il pubblico” è lo stesso.Dietro il vetro un poco appannato della porta d’ingressoall’atro passeggeri c’è un signore, appena un poco più chia-ro del suo collega “avanero” ma molto più piccolo di staturache, socchiudendo appena il necessario la porta sbarrataagli utenti non già muniti di biglietto, fornisce cortesementele informazioni richieste sugli orari e le destinazioni dei tre-ni in partenza.Ebbene per Avana parte un solo treno al giorno, ma in oraridiversi per i giorni pari e per quelli dispari; il punto è ricor-darsi quale è l’orario dei giorni pari e quale quello dei giornidispari.In conclusione (o almeno alla fine questa è stata la mia per-sonale conclusione) si tratta di andare presto la mattina allastazione ed aspettare pazientemente per scoprire a qualeora parte il primo (solo) treno per Avana in quel giorno e sa-lirci sopra, ovviamente, prima della sua partenza.Comunque io una volta il treno sono riuscito a prenderlodopo avere espletato il giorno prima le formalità della ob-bligatoria prenotazione del posto rivolgendomi all’appositosportello riservato ai turisti stranieri e quindi pagando la re-lativa speciale tariffa in dollari nord americani.In un voluminoso registro quadrettato è stato scritto il mionome, con l’indicazione del treno, del vagone e del numerodel posto riservatomi; analoga annotazione è stata quindiriportata sulla ricevuta di pagamento rappresentante il miobiglietto di viaggio.Il giorno successivo, con ampio margine di anticipo sull’ora-

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rio di partenza previsto, mi sono quindi recato alla stazioneferroviaria.La stazione di Holguin è una gradevolissima struttura difoggia coloniale, realizzata da un ampio porticato che costi-tuisce l’atrio di attesa pieno di sedili disposti per file paral-lele, aperto verso il piazzale esterno con grandi arcate, chiu-se invece dal lato verso i binari da cancellate di ferro a ma-glia molto larga.Una di queste cancellate era apribile, ma l’apertura era vigi-lata da un impiegato seduto dal lato esterno verso i binarisu di un alto sgabello, attento a non far passare nessuno chenon fosse stato prima verificato come “addetto ai lavori”.Di quando in quando, in effetti, qualcuno si presentava alcancello dal lato interno all’atrio, confabulava lungamentecon l’addetto il quale, evidentemente dopo averne verificatole credenziali, concedeva il passo; estraeva pertanto dal ta-schino della camicia un piccola chiave, apriva la serraturadel cancello, lasciava passare l’interessato, richiudeva accu-ratamente cancello e serratura, riponeva la chiave nel ta-schino della camicia e si sedeva nuovamente sull’alto sga-bello in attesa del prossimo interlocutore e così di seguito.Ho assistito lungamente e ripetutamente a tali operazionidi controllo in qualche modo sorprendendomi per il rigoree la disciplina del sistema di sicurezza ferroviario cubano,nel mentre l’atrio si andava riempiendo di viaggiatori e dibagagli in numero esponenzialmente crescente via via chesi avvicinava l’ora prevista per la partenza del treno.Il treno è infine arrivato scorrendo lentamente e con fortis-simo rumore di ferraglie dietro le cancellate chiuse del-l’atrio di attesa.A quel punto si è verificato un fenomeno di eccitazione col-lettiva: tutti i passeggeri sono balzati in piedi all’unisono af-ferrando i propri bagagli e lanciandosi in gruppo verso ilpassaggio sino ad allora scrupolosamente serrato e vigilatodall’apposito addetto alla sicurezza.Grande sorpresa (mia) il cancello era stato improvvisamentespalancato ed il guardiano si era volatilizzato nel nulla.

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Nessun controllo d’ingresso, nessuna disciplina, sul marcia-piede del binario è stata una scena di assalto alla diligenza.Ho visto scene di corse, spinte, grida e lancio di bagagli at-traverso i finestrini verso l’interno delle carrozze che mihanno riportato alla memoria gli assalti ai treni specialidelle vacanze vissuti venti-venticinque anni prima nellestazioni di Milano o di Torino quando grandi masse di la-voratori del sud, emigrati nel ricco ed industrializzatonord, si affollavano in massa sui treni speciali che in unoo due giorni di viaggio da carro bestiame li avrebbero ri-portati, per i pochi giorni della chiusura delle fabbriche, ailoro paesi di origine a riabbracciare mogli, figli, parenti edamici abbandonati alla disperata ricerca di un lavoro pernon morire di fame nella miserabile arretratezza dell’asso-lato ma povero sud d’Italia.Ricordo una volta, in particolare, quando anch’io lasciandola grigia città di Torino per tornare nella mia città per le fe-rie estive, sono salito, con grandi difficoltà e paura di rima-nere a terra o appeso al predellino esterno del vagone, su diun treno che da Torino mi avrebbe portato senza cambi si-no a Firenze e poi, con un solo cambio, più a sud.Il treno, sovraccarico e sovrariscaldato dalla massa dei viag-giatori nonostante l’ora mattutina quasi ancora notturna, èpartito in orario, ha attraversato abbastanza velocemente laafosissima pianura padana e poi, giunto in prossimità dellastazione di Bologna, ha iniziato a rallentare, sempre più,procedendo a piccoli salti, riprese, frenate, soste, poi dinuovo riprese e frenate e così via.Con un notevole ritardo sul tempo previsto il treno è infinegiunto alla stazione di Bologna ma, stranamente, si è fer-mato su di un binario lontanissimo dalla banchina dellastazione, mi sembra di ricordare il binario numero venti oventuno.Lì è rimasto a lungo, senza spiegazioni o apparenti motiva-zioni.Infine, in un caldo divenuto oramai torrido ed asfissianteper l’avanzare dell’ora pomeridiana, ha ripreso la sua mar-

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cia arrivando con non meno di quattro o cinque ore di ritar-do nella stazione di Firenze.Solo allora ho saputo cosa era accaduto.Era il 10 agosto 1980 ed una bomba esplosa nelle primeore della mattina aveva devastato la stazione di Bolognauccidendo un grandissimo numero di viaggiatori, di turi-sti ma anche, in maggior parte, di emigranti in transitoverso il sud.Di quell’atto criminale oltre ogni limite di follia a venti annidi distanza non è stata fatta giustizia; una cosa sola è statainequivocabilmente accertata, dietro la mano fisica del paz-zo criminale che ha deposto ed innescato la bomba c’erauna assai più lunga, potente, folle e criminale mano: quelladei servizi segreti italiani asserviti a quelli nord americani.Con quell’atto, che non fu in quell’epoca l’unico neppureper l’efferatezza e la gravità, si voleva terrorizzare un paesee rigettare all’indietro decenni di conquiste democratiche esociali.Il piano non riuscì, o almeno non del tutto, ma la mente cri-minale che ha armato quella e quelle mani è sempre viva edattiva, pronta ad armare altre mani di pazzi criminali inqualsiasi altra parte del mondo, ovunque gli interessi dellasuperpotenza nord americana corrano il rischio di esseremessi in pericolo o forse anche solo in discussione.Quel giorno di venti anni più tardi nulla di questo è accadu-to nella calda, rumorosa, caotica ma allegra piccola stazionedi Holguin.Nel sole cubano quell’assalto al treno esprimeva un’aria difesta popolare.Alla fine anch’io sono riuscito a raggiungere la mia vettura,a salire e ad individuare il mio posto riservato.La carrozza era del tutto priva di porte e di finestrini, conun pavimento di assi di legno abbastanza larghe da far ve-dere le traversine sottostanti, mentre i sedili erano fatti dagusci di plastica di diverso colore sui quali erano disegnatia pennarello i relativi numeri d’ordine.Il mio sedile era già occupato da una persona che mi aveva

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preceduto munita di regolare biglietto con indicato il nume-ro di quel posto, lo stesso stampato sul mio biglietto e die-tro di me c’era almeno un’altra persona con lo stesso nume-ro di prenotazione.In altri termini quel posto era stato regolarmente, attenta-mente e formalmente riservato ad almeno tre viaggiatori.Evidentemente quel particolare numero doveva essere spe-cialmente simpatico all’impiegato addetto alle prenotazionitanto che invece altri numeri adiacenti o prossimi non eranostati riservati, sicché, alla fine, ci siamo comunque sedutitutti con grande reciproca simpatia, cortesia ed allegria.Una occasione, in fondo, per fare interessanti conoscenzeconfrontandoci i rispettivi biglietti di prenotazione con tan-to di nomi, cognomi, paesi di provenienza, ecc., altri dati enotizie ce li siamo scambiati a voce nel corso del viaggio.Il treno, stracarico ed altrettanto rumoroso di voci e gridadi richiami, è quindi partito dando inizio alla parte più av-venturosa del viaggio.Ho già detto delle caratteristiche strutturali delle carrozze,nel corso della marcia del treno ho poi potuto apprezzarele condizioni delle rotaie.Una volta in movimento il treno iniziava a vibrare come unfrullatore, in certi momenti entrando in risonanza come undiapason.Occorreva aggrapparsi a qualsiasi sostegno che si auspicavastabile, tenersi saldamente, mentre era impossibile parlaredata la grande rumorosità del mezzo di trasporto.Fortunatamente la velocità era molto bassa ed assai fre-quenti e lunghe le fermate intermedie che permettevano disgranchire gli arti contratti nella salda tenuta nel corso delmovimento, scambiare alcune parole con i propri vicini edinfine, grazie alla temporanea libertà delle mani, anche fu-mare una sigaretta o un sigaro, a preferenza.Nelle varie fermate dal treno saliva e scendeva di tutto,cioè non solo persone e bagagli, sacchi o pacchi d’ogni ti-po e dimensione, ma anche biciclette, motocicli ed infineun maiale.

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Quest’ultimo si è tanto avvicinato a me guardandomi drittonegli occhi da farmi pensare che anche a lui fosse stato ri-servato lo stesso mio numero di posto.Così non era e fortunatamente il maiale di lì a poco è scesolasciandomi anche respirare un poco meglio.Ad un certo punto del viaggio è sopraggiunta la notte cheha calato il treno nel buio più totale a causa della mancanzadi qualsiasi sorgente di illuminazione diversa dalle punterosse delle sigarette accese.Nel buio “qualcosa” è successo in più di un sedile non lon-tano dal mio, al punto che il controllore, che di tanto in tan-to passava guidato dalla luce di una torcia elettrica che te-neva in mano, più di una volta ha ripreso ad alta voce e contono imperativo la condotta di qualche coppia, o “coppiet-ta” di viaggiatori sollevando, tuttavia, un coro di risate edanche, una volta, un caloroso battimano alla fantasia degliacrobati del sesso viaggiante (o almeno delle effusioni evi-dentemente un poco “spinte”).Come Dio, per chi ci crede, o l’orario dei treni del “famoso”impiegato negro della stazione di Avana ha voluto, alla fine,siamo giunti a Santiago, mèta del viaggio e termine degliscambi affettuosi dei viaggiatori di cui sopra.Non ho più avuto occasione di ripetere altri viaggi con ilservizio del Ferro Carril cubano, ma quello che mi sem-brava il massimo dell’avventura ha dovuto ben presto ce-dere il primato ad altre successive esperienze automobi-listiche ed aeree.

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LAVINIA

“Cubanìa, filosofia e santeria”

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Lavinia è la donna cubana più carina, interessante, intelli-gente che ho avuto la fortuna di conoscere nei miei attualiquattro viaggi nell’Isola Felice.Il soprannome di “Isola Felice” è un gioco di parole, o meglioun tormentone, tra me e quella “pentola di fagioli al fuoco”che altro non è Osvaldo.Lavinia, invece, non brontola, anzi è serena e luminosa co-me il suo sorriso dritto, come un taglio lungo ed orizzontalesul suo viso minuto, accentuato da due occhi scuri che si di-latano e si irradiano dalle ciglia lunghissime.Piccolina, arditamente arrampicata su zoccoli altissimi deiquali non dimostra una perfetta padronanza, è bianca e mi-nuta, giustamente dotata di quella rotondità tanto amata edapprezzata a Cuba ed un poco meno dalle nostre parti.Il vestito lungo fasciante purtroppo non slancia la sua figu-ra, evidenziando un poco troppo la rotondità di cui sopra,ed in concreto affaticandone l’andatura già resa problema-tica dagli alti zoccoli.Ma quel che colpisce di Lavinia ed attrae magneticamenteè quel suo sorriso dritto, semplice e dolce, quasi perma-nente, invitante ma misurato, in qualche modo timido erispettoso.Lavinia è una attrice di buona fama televisiva, come testimo-nia la curiosità che genera per strada il suo passaggio tra icubani che la guardano, evidentemente la riconoscono, manon si permettono di disturbarla con un rispetto un pocodimenticato dalle nostre parti.E’ singolare, nella altrimenti esagerata comunicativa dei cu-bani, debbo dire non solo verso gli stranieri ma anche tra lo-ro stessi, vedere questo senso di rispetto per le persone fa-mose che li rende persino timidi e quasi schivi.Comunque Lavinia a Cuba è qualcuno, o qualcuna com’è piùcorretto dire; lei non lo mostra affatto, ma chi le è vicino,per quanto distratto o non consapevole, alla fine non puòfare a meno di rendersene conto.Come tutte le donne cubane Lavinia ha avuto un figlio in etàgiovanissima, ha lasciato o è stata lasciata dal compagno e

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padre del bambino, ed ora si occupa da sola e senza proble-mi, lamentele o recriminazioni del proprio figlio.Quasi tutti i parenti stretti, la madre, la sorella di Laviniahanno lasciato da tempo Cuba, lei li sente spesso, ha man-tenuto frequenti e buoni rapporti, ma non pensa neppureper un momento di seguirli e raggiungerli.Lavinia è cubana, nata cubana e tale determinata a restare,così come vuole che cresca, venga educato e viva il suo fi-glio, a Cuba e da cubano.Eppure nonostante la notorietà procuratale dalla televisioneed in fondo la speciale qualità del lavoro di attrice che haavuto la fortuna di potere svolgere dopo i lunghi ed impe-gnativi anni della accademia d’arte, Lavinia ha una condizio-ne di vita assai modesta e, molto sinceramente, non priva didifficoltà pesanti.Per poterla incontrare è stato necessario combinare l’ap-puntamento per il tramite del telefono di una vicina, perchéLavinia non può permettersi un telefono proprio ed abita inun quartiere assai periferico e difficile da raggiungere.La mobilità, in effetti, è uno dei più grandi problemi di Lavi-nia, ma bisogna dire non solo di Lavinia nella situazione digrande carenza di servizi pubblici di trasporto che caratte-rizza tutta l’Isola di Cuba.Quando ha impegni di lavoro presso gli stabilimenti dellascuola nazionale del cinema, ubicati in un quartiere assaiperiferico di Avana, si vede costretta a cercare soluzioni diospitalità, a volte assai precarie, nei pressi della scuola, nonpotendo permettersi di andare e tornare dalla sua casa alluogo di lavoro quotidianamente.Però Lavinia è contenta del suo lavoro, della sua famiglia,della sua città, dell’Isola Felice.Un giorno mi ha accompagnato a scegliere dei prodotti daportare in Italia nel mercatino per turisti in Avana Vecchia.Da brava ed oculata madre di famiglia Lavinia ha scelto ac-curatamente ed ha selezionato alla fine due capi di abbiglia-mento femminile, uno corto ed una lungo, ma ambedue me-ritevoli per qualità dei materiali e delle lavorazioni, il prez-

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zo era ovviamente fuori della sua competenza, lasciandoquindi a me la decisione finale.Io, come alcuni direbbero “ovviamente”, li ho acquistatientrambi, ben confezionati in due originali sacchetti diplastica verde chiara, stranamente così simili ai nostrisacchetti della spesa-spazzatura, ma senza la pubblicitàstampata sopra.Mentre ci allontanavamo dal mercatino li ho offerti a Laviniainvitandola a sceglierne uno come mio regalo di amicizia esimpatia.Inutile raccontare l’imbarazzo, il rifiuto timido e garbato,ma alla fine la mia insistenza e la confidenza che nel frat-tempo si era creata tra di noi, hanno avuto la meglio e Lavi-nia ha deciso di accettare il regalo.A questo punto, però, si è posto il problema della scelta.Lavinia che ben conosceva i due capi per averli già valutatie scelti è caduta in una totale incertezza, ha voluto rivederlie compararli di nuovo, prima l’uno poi l’altro, e poi nuovoancora una volta, quasi a provarli indosso se mai fosse statopossibile farlo nel mezzo della strada piena di gente nellaquale ci trovavamo.Alla fine ha scelto quello lungo e mi ha restituito, ben chiu-so nel suo pacchetto regalo di plastica verde, l’altro.Lavinia, in verità, non ha scelto il più bello, o almeno quelloche le piaceva di più, molto più profondamente ha rinunzia-to all’altro.E’ stato così evidente e quasi palpabile che in quel momentoavrei voluto regalarglieli tutti e due, se non avessi avuto ilgiusto timore di esagerare e di offendere la sensibilità diuna donna così dolce, sicuramente bisognosa o comunqueaffascinata da beni voluttuari assai al di sopra delle sue or-dinarie possibilità, ma altrettanto dignitosa ed orgogliosa.Però Lavinia è anche o soprattutto donna e non c’è luogo nelmondo in cui un tributo, per quanto piccolo ed occasionale,alla grazia e gentilezza femminile non trovi accoglimentoed apprezzamento.Abbiamo camminato e parlato ancora a lungo e di tanti e di-

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versi argomenti.Lavinia non è una “attricetta”, come la si intende nella no-stra sotto cultura televisiva di spot pubblicitari, comparsatee riviste popolari.Lavinia ha frequentato la scuola d’arte nella forma più com-pleta, specializzandosi nella recitazione.Oggi recita in televisione, ma ieri e sicuramente anche do-mani ci sarà il teatro e magari il cinema.Con i limiti di una istruzione di massa certamente non ingrado di assicurare i più alti livelli internazionali, Lavinia hacomunque compiuto studi universitari e conosce la storia,la letteratura e la filosofia.Quest’ultima materia in particolare la ha da sempre affasci-nata e Lavinia continua ad approfondirla per se stessa, an-che aderendo ad una associazione culturale e filosofica diantichissima origine e diffusione mondiale, in verità, comeho poi approfondito, prevalentemente radicata ed attiva nelcosì detto nuovo mondo.Lavinia aderisce ai “rosacroce” o “rosa più croce”, una anti-chissima scuola di pensiero neoplatonica, strutturalmenteassociata ad una loggia massonica.Questa è una tra le più sorprendenti e singolari contraddi-zioni del sistema di asserito socialismo totalitario cubano.A fianco di un apparente partito-chiesa, articolato su tuttoil territorio dell’isola, città, paesi e villaggi di campagna, conle sue innumerevoli e capillari sezioni e comitati di difesarivoluzionaria, vivono e prosperano non solo le diffusissimee sovente imponenti strutture della chiesa cattolica, le chie-se metodiste e battiste, i santuari di credenze magiche diorigine africana in buona parte omologate dalla più scaltrachiesa cattolica, ma di quando in quando, anche nei paesipiù piccoli e sperduti, spuntano inattesi templi massoniciassai attivi e gremiti di aderenti.Se questo è totalitarismo ideologico, allora viene da pensareche il concordato tra la Chiesa cattolica e lo Stato italianopotrebbe essere considerato legittimazione della santa in-quisizione.

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Anche in questo Lavinia è davvero una persona fuori dal co-mune e molto, come si dice, intrigante.Ad un anno di distanza mi è stato detto da chi ha avuto l’oc-casione di incontrarla del tutto casualmente che Lavinia èandata “oltre” nella sua ricerca tra il filosofico e lo spiritua-lista, deviando decisamente per questa seconda opzione ecosì si è fatta “santera”.Vestita di bianco dalla testa ai piedi, anzi con la testa com-pletamente rasata, è divenuta sacerdotessa della chiesa del-la santeria, un insieme di credenze magiche importate daglischiavi neri dell’Africa centrale, opportunamente omologa-ta dal cattolicesimo come avvenne per i nostri riti pagani ingrande parte recuperati nei culti magici mariani.Lavinia, mi dicono, è sacerdotessa della divinità dell’acqua;di più non mi è stato detto e non so.Ma quel giorno abbiamo parlato a lungo di tante cose ed inparticolare anche di arte e di pittura, proprio muovendo dalnome di Lavinia che il padre le aveva imposto in ricordo diuna sorella di Raffaello, credo (sull’argomento lei era moltopiù informata di me).Nel pieno di questi discorsi d’arte abbiamo allora deciso divisitare il nuovissimo museo nazionale d’arte antica da po-co aperto in uno splendido palazzo dell’Avana Vecchia re-cuperato dal totale degrado con il generoso contributo dellanazione andalusa.Un palazzo tanto imponente e bene ristrutturato quantomodesta, per quantità e qualità, la raccolta delle operecontenute.L’impressione è stata quella di una “summa” di tutto il pa-trimonio artistico recuperato all’indomani del trionfo dellarivoluzione da tutti i palazzi del decaduto potere politico,economico e finanziario, nonché dalle ville dei potenti e so-prattutto dei mafiosi precipitosamente fuggiti dall’isola al-l’arrivo dell’esercito dei ribelli.Un monumento all’orgoglio nazionale, a prima impressione,espressione del desiderio, di più, dell’esigenza di uno Statosovrano e fiero custode della sua autonomia e del suo ruolo

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nel mondo, di voler testimoniare anche il possesso di unsuo patrimonio storico ed artistico internazionale.Reperti greci e romani, rinascimento italiano e quadri fiam-minghi, accanto a pitture autocelebrative della nuova aristo-crazia nord americana ed isolana, in parte di origine spa-gnola, in parte francese.D’altronde gli inglesi vantano nei loro musei tra i più impor-tanti reperti egizi, greci, romani, pitture rinascimentali ita-liane e successive, quando ancora solo a ieri, come qualcunoche ben conosciamo rammenta, bevevano nei teschi.E che dire poi degli “yanquis” che ancora oggi girano con irevolver appesi alla cintura sparando indifferentemente abisonti, negri o messicani, eppure possiedono tra i più gran-di musei d’arte antica e moderna del mondo.L’orgoglio di uno Stato sovrano si soddisfa anche nelle ce-lebrazioni museali.Ma forse non di orgoglio nazionale parla il grande ma pic-colo museo d’arte antica cubano.Percorrendo le varie sale espositive del museo, con unaestrema lentezza che ci ha portato quasi a chiuderne le por-te con i custodi, ho visto Lavinia guardare quelle modesteopere d’arte con l’attenzione e l’emozione di chi sino ad al-lora aveva potuto vedere quelle cose solo sulle pagine dei li-bri d’arte o nei filmati documentari.Di grande maestria o di scuola minore quelle opere rappre-sentavano per Lavinia il primo contatto vivo, quasi tattile sefosse stato possibile accarezzarle con la mano (e spesso La-vinia ci è andata vicino con la compiaciuta tolleranza dei cu-stodi che l’avevano riconosciuta), dopo l’asettica astrattez-za dello studio scolastico.Per chi è abituato a vivere in un paese che è esso stesso unmuseo vivente, passando nello scorrere della vita quotidia-na sotto archi romani, scansando reperti etruschi, circon-dato da chiese piene di opere d’arte pittoriche e plastiche diassoluta maestria, l’idea di un museo non ha alcuna attrat-tiva se non la si trasforma, così come in effetti è da certotempo avvenuto, in un evento fondamentalmente spettaco-

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listico e di moda.Strabilianti raccolte uniche, quantificate a peso di chilo-grammi d’oro esposti o persino per le iperboliche polizze diinutili assicurazioni, da visitare come fatto puramente turi-stico, in ordinata coda, panini e bibite alla mano.Ma per la cubana Lavinia, nata in una isola del nuovo mondoche ha avuto come più grande tradizione storica la trattadegli schiavi e la barbarie dei colonizzatori cattolici, l’emo-zione della visita di un museo è evidente.Me la spiegano i suoi occhi curiosi ed attenti ad esaminarecon lentezza persino esasperante ogni singola opera dellaquale lei conosce comunque, con la sua buona cultura uni-versitaria, periodi e scuole ancorché legate nei suoi studialle opere maggiori certamente assenti in quel modestomuseo.Capisco che allora quell’opera di regime ha invece un sensoculturale molto più grande e profondo.Oltre al legittimo orgoglio nazionale c’è indubbiamente lafunzione didattica, svolta con i mezzi possibili per quantitàe qualità, ma evidentemente ben compresa e recepita daicittadini, ai quali non è data altra possibilità per superarealmeno una volta il distacco tra l’astrazione dei libri e laconcretezza delle opere vissute, viste dal vivo e magari an-che toccate.Uscendo a pomeriggio oramai inoltrato dal museo in chiu-sura ho trasmesso a Lavinia questa mia riflessione, in qual-che modo scusandomi della prima impressione superficialeed arrogante datami dalla povertà delle raccolte espostenell’imponente edificio museale.Ho avuto però la sensazione che Lavinia non mi abbia capitosino in fondo.Lavinia, per sua fortuna, non conosce il paese degli “gnomi”e quindi certe cose non le può capire.Non può capire perché in un altro paese tanto diverso dalsuo, ed in particolare ricchissimo di opere d’arte d’ogni epo-ca e genere, piccoli orgogli paesani inducano alla dispersio-ne anche di ingenti quantità di denaro pubblico per realiz-

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zare una infinità di micro musei destinati a raccogliere perlo più le “croste” locali che spesso hanno l’unico pregio ar-tistico, oltre ad essere vecchie, di essere state realizzate daqualcuno che sapeva tenere in mano un pennello quando lastragrande maggioranza dei suoi contemporanei non anda-va oltre la zappa.Strumenti e strutture quindi del tutto prive di funzioni edu-cative, ma solo effimere auto-celebrazioni di piccoli orgoglidi piccoli governanti di piccoli paesi.La sovente assai più valida consistenza e fruibilità ancoraattuale delle strutture immobiliari sovrasta di gran lunga lapochezza dei contenuti assolutamente inidonei a generarela minima attrattiva anche a livello locale.Questo degrado Lavinia non lo può onestamente capire at-tenta com’è a non perdere il suo ombrello che per tutta lagiornata aveva gelosamente stretto al suo braccio e che nonsenza una certa reticenza aveva lasciato al guardaroba delmuseo ed ora si affretta a recuperare nel timore della im-provvisa chiusura del museo.L’ombrello è per Lavinia un bene essenziale, non tanto per-ché il clima di Cuba ne richieda un uso costante, anzi lepiogge non sono frequenti e normalmente sono di breve du-rata, quanto perché, perso quello, é assai improbabile pen-sare di poterne avere un altro.In una economia povera ogni oggetto è essenziale, qualun-que sia l’uso che è destinato a svolgere, solo perché è diffi-cilmente ripetibile.Così camminando e parlando siano infine giunti al portonedi un edificio nei pressi del Campidoglio, un edificio in ve-rità in pessime condizioni di manutenzione e forse persinodi sicurezza, nel quale comunque Lavinia doveva entrareper recuperare le fotocopie di un libro per lei evidentemen-te di grande interesse ed importanza; forse proprio un librodi arte o magari di filosofia, non mi ha spiegato di più ed ionon ho chiesto.Al portone di quell’edificio ci siamo salutati.Io le ho lasciato il mio indirizzo e-mail e lei mi detto di aver-

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ne uno presso l’accesso internet alla Casa della Cultura, manon sapeva se era ancora attivo essendo trascorso tantotempo senza averlo più utilizzato, col rischio quindi di aver-ne perso il diritto d’uso.Così è stato ed io di Lavinia, a parte la notizia indiretta dellasua conversione alla santeria, non ho saputo più nulla.Buona fortuna “santera”!

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DIANELIS

“Una attrice cubana arrabbiata”

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Dianelis è una delle più famose attrici cubane, prevalente-mente di televisione, ma anche di cinema seppure è un po’di tempo che non le affidano delle parti, ma presto, così re-centemente mi hanno detto, avrà finalmente l’occasione digirare un nuovo film; se lo merita.E’ bionda naturale con gli occhi blu cobalto.Io però l’ho conosciuta bruna, tendente al rosso, con gli oc-chi, ovviamente, sempre blu cobalto.E’ piccola e minuta, con la giusta rotondità così apprezzataa Cuba.In sostanza come la maggior parte degli attori e delle attrici,grandi, alte e slanciate sullo schermo, nella realtà non moltoalti e minuti, seppure con grandi visi espressivi e fotogenici.Non parlo ovviamente dei miti delle così dette attrici dellefrazioni di secondi degli spot pubblicitari, ma di vere pro-fessioniste in grado di tenere la scena di un film o di unaopera teatrale ben più a lungo e di interpretare personaggicompiuti.Le veline, o velone in taluni casi per le ragguardevoli dimen-sioni fisiche, assai raramente approdano al vero e propriocinema e tanto meno al teatro, consumando tutte le loro do-ti naturali in pochi sguardi, sorrisi o carrellate anatomiche.Comunque a Cuba non ci sono spot pubblicitari del tipo oc-cidentale e quindi mancano anzitutto le occasioni di lavoroper le super donne.Dianelis è una attrice vera e completa, formatasi alla scuolad’arte di Stato, buona conoscitrice della storia delle arti edella letteratura, in grado di recitare da vera professionistatanto nel cinema e nella televisione, come dal vivo in teatro.Dianelis è una donna sicuramente e profondamente cubana,ma appartenente alla speciale categoria delle “arrabbiate”.Come tutte le donne cubane, tanto più se di cultura più ele-vata e quindi maggiormente emancipate, Dianelis ha avutoun figlio in età precoce da un uomo forse scomparso o co-munque certamente deresponsabilizzato come tutti i ma-schi cubani.Forte e sinceramente soddisfatta della sua autonomia, Dia-

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nelis si occupa da sola, o con un poco di aiuto della propriamadre, dell’allevamento e dell’educazione del figlio che leiintende crescere cubano, escludendo senza ombra di ten-tennamenti qualsiasi progetto di abbandono del propriopaese.In quanto attrice affermata Dianelis gode di alcuni privilegisociali, o più precisamente di uno, avendo avuto in assegna-zione un alloggio di più recente costruzione in un quartiere“buono” dell’Avana.Un alloggio di due camere da letto, un soggiorno, una cuci-na ed un bagno, oltre all’immancabile balcone-patio tipicodell’edilizia e, direi di più, del clima tropicale cubano.Come lavoratrice un poco “speciale” nel sistema egualitariodel socialismo cubano Dianelis guadagna anche molto be-ne, sempre con riferimento comparativo alle medie dei la-vori così detti ordinari, con la variante, però, della incertez-za degli ingaggi di lavoro.Ciò vuol dire che, in deroga ad un principio universale di si-curezza retributiva, quando non ha impegni di lavoro Dia-nelis non guadagna nulla, a parte il sussidio uguale per tuttidella “libreta” alimentare per il ritiro dai magazzini delloStato dei beni di prima necessità.Nei periodi di “magra” Dianelis da brava cubana si arrangiaun poco come tutti e così subaffitta, ritengo “a nero”, unacamera del suo speciale appartamento e tira avanti sino allaprossima occasione di buon lavoro.Ma Dianelis non é una che si accontenta, e così borbotta,protesta, si agita, chiede e richiede maggiori riconoscimenti,o diritti o forse anche privilegi, comunque esponendo e di-fendendo le sue qualità e capacità professionali.In una singolare miscela di principi di meritocrazia, in qual-che modo di ideologia capitalista, e di uguaglianza e paritàdi diritti, propri invece del socialismo reale, Dianelis ad unostesso tempo rivendica i meriti di attrice di qualità, unita-mente al diritto ad una più equa distribuzione delle oppor-tunità di lavoro che, nella oggettiva limitatezza delle poten-zialità produttive della modesta industria cinematografica

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e televisiva cubana, finiscono sempre per premiare gli stessiinterpreti e registi più noti, guarda caso proprio nel mercatoestero verso il quale la povera produzione cubana cerca di-speratamente di espandersi, auspicando ricavi dalle venditedei propri prodotti, nonché investimenti di cooproduzionistraniere nell’Isola.Perugorria, declama Dianelis, o come più confidenzialmentesoprannominato nel mondo del cinema cubano “Chico”,sempre lui, come se fosse l’unico bravo attore di Cuba!Così non resta mai nulla per gli altri tanti bravi, anche bra-vissimi attori diplomati della scuola d’arte e del cinema na-zionale; dov’é, insiste Dianelis, il rispetto delle regole socia-liste della parità di opportunità; se c’é poco lavoro, ebbenequel poco va diviso equamente tra tutti.Provo, ma con non grande successo, a spiegare a Dianelis lecosì dette leggi del mercato capitalista per le quali il prodot-to “buono” non è necessariamente il migliore, ma semprequello che si vende meglio e di più; mercato nel quale la giu-stizia morale o sociale non “ci azzecca” proprio nulla.Le narro ed in verità più che altro le ricordo cose che lei benconosce, la pioggia delle “mezze calze” di attori “yanquis”che imperversano nel cinema di successo del mercato “glo-bale”, deprimendo le assai più qualificate produzioni euro-pee, di fatto “lobotomizzando” un pubblico omologato esempre più respinto verso un analfabetismo di ritorno dagladiatori che vivono, pensano, parlano e vestono da cow-boy nord americani, supereroi dal braccio di ferro e dal cuo-re di burro che si scioglie per la patria e la famiglia, mentrenel frattempo riducono a brandelli sanguinolenti esseri in-feriori e quindi geneticamente cattivi, gialli, neri ed anchemeglio se musulmani rigorosamente bendati e sudaticci,magari anche puzzolenti se il cinema potesse trasmette an-che gli odori.E c’é anche di peggio quando il livello di generale demenzia-lità si sublima in produzioni magari anche di elevata qualitàtecnica ed artistica per trasmettere aberranti messaggi su-bliminali di violenza e di razzismo.

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In occidente, nel ricco occidente aperto ad ogni possibilità,lo strumento di espressione artistica cinematografico e te-levisivo è oggi principalmente un ragionato mezzo di gover-no sociale che trasmette messaggi di consenso o almeno didisaffezione ed allontanamento dall’impegno sociale, veico-lando prodotti preconfezionati dal computer come preco-nizzato, con lucida previsione, nel messaggio fantapoliticodi Orwell.Così le spiego che Taibo in questo momento è il regista cu-bano più conosciuto nel mondo, e Chico Perugorria l’attoreche dà all’estero il volto alla cinematografia cubana.Allora non c’é scampo, se il cinema cubano vuole uscire daiconfini dell’isola, e più ancora se si vuole riuscire ad attrarrecapitali esteri di cooproduzione, è inevitabile proporre edoffrire quei nomi e quei volti, con buona pace dei principi diegualitarismo socialista.E va ancora bene, aggiungo infine, che non vengano impostianche al cinema cubano i volti di bambocci nord americanicome uno Stallone e simili per assumere la parte e l’imma-gine stravolta di una Cuba “da vendere”.In verità non mi è sembrata molto convinta, ma almeno, perun poco si è quietata.Un giorno le ho telefonato, Dianelis infatti ha anche il telefo-no a casa, per invitarla ad una serata per così dire mondana.“Questa sera? Volentieri, alle otto.” E’ stata la risposta pre-cisa e rapida di Dianelis, pienamente rispecchiante il carat-tere determinato dell’attrice che non si acquieta.All’ora convenuta sono andato a prenderla salendo sul pri-mo taxi di fila; era un pulmino Transit da almeno 9 posti enon c’è stato verso di poterlo cambiare con una autovetturanormale.Strada facendo ho pensato a come giustificare l’eclatante in-congruenza del mezzo di trasporto collettivo con l’eleganzadella serata mondana.Per una così grande attrice, ho pensato e poi ho detto a Dia-nelis, era doverosa la scelta di un grande veicolo, scusando-mi per non avere avuto la disponibilità di un “camello”.

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Il “camello”, “cameio” nella pronuncia “cuvana”, non è ilquadrupede arabo, ma un enorme veicolo da trasporto col-lettivo frutto della fantasia isolana dopo il taglio degli aiutida parte dell’Unione Sovietica ed il conseguente progressivosfascio dei già pochi e sovraccaricati autobus urbani di ve-rosimile fabbricazione rumena.Ad una motrice-trattrice da autosnodato di produzione(credo anche regalo) canadese, i cubani hanno agganciatouna specie di vagone ferroviario, caratterizzato da un pro-filo a due gobbe in corrispondenza delle assi delle ruote.Con sorprendente spirito di autoironia sui nuovi mezzi ditrasporto è stata disegnata l’immagine di un cammello conle sue due gobbe ed il nome del quadrupede è stato ufficial-mente attribuito al nuovo mezzo di trasporto pubblico.In quest’ultimo viaggio, in verità, ho visto ben pochi “camel-li” ancora in funzione, segno di un ulteriore processo di de-grado che sta mandando a casa anche questi mezzi sostitu-tivi, dando oggi spazio a veri e propri camion da trasportomerci adattati alle persone con l’applicazione di originali ri-pidissime scalette di salita posteriori e, nei paesi più di pro-vincia, alla riscoperta dei mezzi a trazione animale anch’es-si adattati al trasporto di persone come grandi carrozzelleturistiche.Enorme inoltre la diffusione delle biciclette rigorosamentea due posti, con il secondo sellino e la pedaliera di appoggiodel passeggero collocata sul mozzo della ruota posteriore,quando non addirittura potenziate da un sidecar, emulazio-ne, ma con la motorizzazione umana, della storica vespa fa-miliare del nostro ultimo dopoguerra.Un’ultima invenzione sorprendente nella politica cubanadei trasporti l’ho scoperta l’ultimo giorno di permanenza aCuba nel tragitto verso l’aeroporto internazionale.Attraversando incroci di gran lunga più gremiti di personein attesa di passaggi che di mezzi di trasporto in transitosempre più rari, il conducente del taxi mi ha fatto notare lapresenza di uno speciale funzionario ministeriale, ricono-scibile dal vestito interamente blu, che aveva il compito di

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fermare tutte le automobili statali per obbligarle a far salirei cittadini loro malgrado autostoppisti, secondo il principioche i mezzi pubblici debbono servire a tutti, ai funzionariper il loro spostamenti ma, strada facendo, anche ai cittadi-ni appiedati, in modo che tutte le auto pubbliche viagginosempre piene.Di nuovo socialismo e fantasia latina (cubana); ovviamentesempre in attesa del decollo dell’economia nazionale edell’acquisto dei nuovi autobus di linea, magari non oggi,ma domani senz’altro, o domani dopo o dopo ancora, bastaattendere e sperare con fiducia, “esperare” appunto.Giunto quindi sotto la abitazione di Dianelis, come da istru-zioni preconcordate, ho chiesto al conducente del taxi di av-vertire dell’arrivo con un colpo di clacson; è stata la fine delmondo.Sembrava la curva dello stadio al goal della squadra di casa.Ho cercato, ma invano, di fermare il concerto, ma l’autistanon ne ha voluto sapere, invitandomi a fidarmi di lui, dellasua sicuramente migliore conoscenza degli usi e dei costu-mi locali.Finalmente, per fortuna, Dianelis si è affacciata al suo bal-cone, gridando di avere ricevuto il segnale e di essere in pro-cinto di scendere e così, nella via già silenziosissima per loscarsissimo traffico, è tornata la quiete.Debbo riconoscere che di tutto quel clamore nessuno, in-clusa la stessa Dianelis, ha dato segno di fastidio e direineppure di interesse; d’altronde per quanto ho potuto ve-dere a Cuba i campanelli, non parlo ovviamente di citofoni,non ce ne sono e dunque il clacson o l’urlo umano sonol’unico modo possibile per richiamare l’attenzione degliabitanti delle case che, per qualche fortuita casualità, nonsi trovino in quel preciso momento a dondolare sulle im-mancabili sedie a dondolo poste sui balconi, patii o diret-tamente sulle porte di casa.Abbiamo consumato una buona cena in un ristorante allamoda, cubana ovviamente, accuratamente scelto di concer-to tra l’attrice e l’autista del taxi che, visibilmente inorgogli-

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to dalla fama della sua passeggera, si prodigava in ogni mo-do per soddisfarla compiacendosi anche di chiamarla con-fidenzialmente per nome.Un locale un poco per artisti era sfortunatamente imprezio-sito da uno spettacolo di musica e danza di flamenco dal vi-vo, fortunatamente invece sufficientemente breve da nonimpedire un poco di colloquio, oltre al resto.C’è stato un intenso, gradevole e sinceramente interessantedialogo in un reciproco misto di italiano e spagnolo, così co-me ci veniva ad entrambi, quasi tutto in verità su di una to-nalità un poco alta, consona al ritmo epico dei comporta-menti della bella e ribelle attrice cubana.Poi una lunga passeggiata per le affascinanti piazze not-turne della Avana Vecchia, tra ammiccamenti di fans cuba-ni ed un piccolo codazzo di bambini un poco più ardimen-tosi ed espansivi verso l’attrice di qualche loro sceneggiatoavventuroso.Ad un certo punto ci siamo affacciati sulla splendida piazzaS. Francesco posta sul fronte della stazione portuale citta-dina, e lì abbiamo scoperto che erano in corso delle ripresecinematografiche in notturna di un nuovo film in merito alquale, però, non ho ricevuto maggiori informazioni.Abbracci e baci calorosi da parte di quasi tutta la troupe allavoro alla bella e nota attrice, scambi veloci di informazionisul lavoro cinematografico in corso, delle quali in onestànon sono riuscito a comprendere molto, tranne il nomedell’interprete principale, guada caso il “solito” Perugorria.Meglio salutare ed allontanarci in fretta.Alla fermata dei taxi, fatalità, lo stesso pulmino dell’andatacapofila.Ma Dianelis se lo meritava, bella, brava e combattiva attricecubana.Mi hanno detto del suo prossimo imminente film, glielo au-guro proprio, con la speranza anche per lei di riuscire a su-perare gli angusti limiti della territorialità isolana e così po-ter dimostrare e far conoscere le sue doti e capacità inter-pretative anche ad una più ampia platea internazionale.

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Spero proprio di poterla vedere all’opera nel suo nuovo filme così compiacermi un poco anch’io per il privilegio di aver-la conosciuta personalmente ed ameno un poco più umana-mente ed intimamente.

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UN PENSIONATO

“Nostalgia e turismo de la salud”

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Gratificata dalle proprie eccezionali condizioni climatichequasi tropicali, della ricchezza illimitata del sole e del mare,nonché forte dell’intima convinzione di possedere livelli diconoscenze e di pratica medica di assoluta avanguardia, Cu-ba offre ai turisti, non motivati da sole ragioni “sessuali”,l’attrattiva di un turismo particolare proponendosi di arric-chire le offerte della natura con prestazioni di cura e terapiamedica fisica.L’offerta, o meglio per quanto di seguito narrerò la promes-sa dell’offerta speciale, viene promossa dalle istituzioni uf-ficiali cubane facenti capo ai ministeri del turismo e dellasanità sotto il nome di “turismo della salute”.Al turista straniero, già di per sé bisognoso di riposo, vieneproposto un pacchetto di soggiorno alberghiero integratodall’accesso a strutture parasanitarie di cura fisica sulla ba-se di un programma terapeutico da costruire al momentodell’arrivo nell’Isola del turista e quindi personalizzato allecondizioni fisiche ed alle esigenze particolari del cliente.Medici laureati e paramedici soprattutto fisioterapisti spe-cializzati sono pronti a ricevere il turista presso il centrodi salute attiguo alle strutture alberghiere convenzionate,per procedere ad una prima visita e quindi costruire d’in-tesa con il cliente il programma sanitario da svolgere nelcorso della permanenza del turista nell’Isola e ciò senzapregiudizio dei momenti propriamente turistici comunquecompatibili.In questo quarto viaggio a Cuba avevo “tempo da perdere”e più ancora voglia di perderlo, o meglio di perdermi nei rit-mi di vita dell’Isola, di lasciarmi andare e trasportare dal lo-ro modo di vivere la quotidianità senza programmi, senzascadenze, senza progetti predefiniti.Ho dunque deciso di sperimentare anche questa “invenzio-ne” cubana, almeno per alcuni giorni di voluto abbandonoal più totale rilassamento ed allontanamento dai miei pen-sieri e problemi domestici.Ho deciso di farmi “vittima sacrificale” ed affidarmi alle loromani (pur sempre “con judicio”!).

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Sorpresa! Forse ero davvero la loro “vittima sacrificale”, opiù precisamente la “cavia” volontaria del loro programmadi turismo e salute: ero il primo, o comunque in quel mo-mento il solo.Dapprima mi sono recato agli uffici amministrativi dellaistituzione nazionale del “turismo della salud”, dove genti-lissime ed impegnatissime dottoresse mi hanno lungamen-te esposto le ragioni, la filosofia, le tecniche ed i benefici delprogetto, riempiendomi di programmi, schemi, relazioniscientifiche, nonché di indirizzi e biglietti di presentazionepresso i centri convenzionati con il servizio.Mi sono quindi recato presso la struttura alberghiera con-venzionata, con adiacente il centro di salute di recentissimacostruzione (anzi in parte era ancora in edificazione), e quiha avuto inizio il rituale “calvario” cubano.Una mattinata intera, ma forse anche di più, per riusciread interpretare, con l’impegnato concorso della responsa-bile del centro di salute, della direttrice dell’albergo, qual-che intervento di una responsabile del locale ufficio turi-stico e soprattutto della mia infinita pazienza, le normeregolatrici del progetto integrato di turismo alberghiero edi cura fisica.Alla fine comunque è stata raggiunta la soluzione, in veritànon saprei dire se perché è stata dipanata l’aggrovigliatamatassa delle procedure burocratiche e dei relativi regola-menti, oppure se perché, essendoci un cliente, una soluzio-ne qualsiasi andava comunque trovata.La soluzione dunque si è trovata ed io sono stato accettatodall’albergo ed ammesso al centro di salute.Lì è iniziata l’elaborazione del mio personale programmaterapeutico.Cyclette, tapis roulant, qualche altro apparecchio di ginna-stica passiva, massaggi, sauna e quindi, pedicure, manicure,pulizia del viso e persino taglio dei capelli, ma soprattuttotanta, tanta, tanta iacuzzi che, come si sa, è una terapia sa-lutare di assoluta efficacia per qualsiasi esigenza, malattiao malessere, come dire… anche meglio di una buona dormi-

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ta che fa passare tutto, anche il …!In sostanza null’altro che una palestra, bensì moderna,pulita ed anche bene attrezzata, ma il tutto un poco “sur-reale” considerando che sul fronte dell’albergo si stende-va l’oceano caraibico con l’aggiunta della protezione diuna bellissima piscina naturale ad uso esclusivo dei clien-ti dell’albergo.Ho detto che ero, di fatto, l’unico cliente del programma diturismo della salute, non ero però l’unico fruitore della pa-lestra che era invece frequentata da alcune “belle persone”.Forse cubane in attesa di matrimonio straniero, forse ope-ratrici dei più prestigiosi locali notturni cubani, di quandoin quando nella sala di ginnastica apparivano delle ragazzesuperbe che accentuavano il loro fascino producendosi inesercizi di danza ginnica (credo che si chiami “spinning” ogiù di lì) mozzafiato anche solo per la straordinaria capacitàresistenza.In poche parole debbo dire che non so se sotto il profilo fi-sico il programma terapeutico abbia funzionato davvero,certo che sotto quello psichico è stato straordinariamenterilassante e conciliante con il mondo.Comodamente seduto su di una cyclette rigorosamente fer-ma, ho potuto assistere a spettacoli di danza di elevata, anzielevatissima qualità ginnica quasi teatrali, fumando piùd’una sigaretta (a me, credo quale unico cliente pagante, èstato concesso il privilegio di fumare dovunque nel centrodi salute, anche nella iacuzzi e con la sola esclusione – maquesto lo ho deciso io – della cabina della sauna per nonmorire asfissiato).Con giudizio e opportuna misura ho accettato e mi sonosottoposto a tutti i trattamenti del programma, fatta ecce-zione del taglio dei capelli che non mi sembrava “ci azzec-casse” molto con la salute e comunque (senza ridere! per chiconosce la mia calvizie) non rappresentava una mia esigen-za impellente.Un giorno entrando nella cabina della sauna vi ho trovatouna persona che stava boccheggiando persino un poco

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cianotica, forse per l’eccesso di umidità, certamente per lapoca o nulla confidenza con questo strumento di torturasvedese.Con la scusa di sfiammare un poco il locale e di verificarneanche i tempi accettabili di utilizzo, abbiamo cominciato aparlare così scoprendoci ambedue italiani.La persona semiasfissiata era un pensionato italiano, ben-sì anziano ma in ottime condizioni fisiche per l’età, un exportuale di Ravenna pieno di tatuaggi propri della “gentedi mare”, ma con un accento romagnolo accattivante econfidenziale.L’ho incontrato successivamente diverse altre volte nel cen-tro di salute, sempre comunque fuori dalla sauna, e pianopiano lo ho conosciuto meglio, sino a rompere gli argini im-posti dalla non conoscenza alla istintiva comunicativa ro-magnola e quindi a rimanere travolto dalla valanga dei suoiracconti.In pochi incontri non solo ho saputo tutto della sua vita ita-liana ed attualmente cubana, ma anche delle vicende stori-che del porto di Ravenna, della famiglia Sama e di quella del“povero” Gardini.Scapolo incallito, ma grande avventuriero in gioventù edin mezza età, il portuale romagnolo (di cui non ricordo eforse credo di non avere mai neppure saputo il nome) rag-giunta la pensione si era dato alle avventure nei mari delsud (carabi).Sbarcato (dall’aereo ovviamente) a Cuba aveva infine trovatola donna della sua vita, o almeno una che lo aveva convintoa restare e qui infatti era restato, facendosi rimettere la pen-sione via banca ed acquisendo la residenza cubana.Aveva sposato la donna della sua vita, una professoressa distoria dell’arte, ovviamente abbastanza più giovane di lui,molto bella e con il “solito” figlio a carico lasciatole da unmarito cubano dissoltosi non nella nebbia che a questa lati-tudine è sconosciuta, ma in qualcosa di simile.Il rude ma gentile portuale romagnolo si era fatto caricosenza esitazione della nuova famiglia (figlio, nonni, sorelle

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e fratelli e via così), acquisendo come detto la residenza cu-bana e pronto almeno di spirito a divenire anche un cittadi-no cubano ancorché “miracolato” da una pensione in euroitaliani.1.500 euro al mese, mi narrava, una cifra notevole per lecondizioni di vita di Cuba, certamente troppo poca per po-ter tornare in Italia più spesso si una volta ogni tre o quattroanni, ed anche, ammetteva, per poter fruire senza problemidelle ottime strutture cubani per turisti, come quel centrodi salute, pagato in dollari ad un prezzo persino più altodell’Italia e senza le mai dimenticate agevolazioni delle con-venzioni dei vari CRAL o dopolavori sindacali romagnoli.Ma lui stava attrezzando una casa all’italiana, con tanto dicaminetto in pietra per il barbecue all’aperto; un anno o dueo tre, per la sistemazione della casa e per il reperimento deimateriali, ma prima o poi l’avrebbe finita ed allora… grandigrigliate all’aperto con i nuovi parenti ed amici cubani.Certo quanta nostalgia per le pescate e le grigliate sui canalidi Ravenna, nei capanni abusivi ma attrezzatissini di fuochie frigo realizzati in società con i vecchi colleghi di lavoro.Le partite a carte nei bar del porto, o della piazza e delquartiere, quante volte giocate con il famoso Sama, cogna-to del “povero” Gardini, tutte persone della sua generazio-ne e della sua estrazione, amici d’infanzia e di sempre deiquali sapeva e narrava tutti i retroscena familiari, societarie penali.Ma poi sua sorella che erano due anni che non vedeva con isuoi nipoti; forse il prossimo anno lei con i nipoti sarebbevenuta trovarlo a Cuba, o forse, ma non prima di due anni,sarebbe stato lui a tornare almeno per qualche settimana inItalia, a rivedere la sua città, a ricercare i suoi amici, quantomeno quelli ancora vivi o vivaci, perché la pensione invec-chia ed uccide chi non la combatte.Lui l’esclusione della pensione l’aveva combattuta trasfe-rendosi a vivere a Cuba, mettendo in piedi quella famigliache non aveva mai avuto in Italia.E poi a Cuba tutto è assicurato e gratuito; solo ieri aveva fat-

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to degli esami clinici e nei prossimi giorni ne aveva preno-tati degli altri; poi la farmacia vicino a casa gli forniva i far-maci necessari per la pressione, gli acidi urici e non so cosaaltro, tutti gratuiti, tutti disponibili.Certo quando era giovane, o almeno un poco più giovane,quando “scorrazzava” per i porti italiani e della Yugoslaviadove aveva donne a volontà che lo attendevano, anche la co-gnata della Silvia Koscina (“lo sa Lei che è yugoslava? Il fra-tello era un mio grande amico”), e soprattutto quando loStato “passava” ai portuali le cure termali nelle più esclusivestazioni italiane ed allora si andava in gruppo, a mangiare,giocare a carte e soprattutto a “cacciare” belle signore.Sono orami due anni che manca dall’Italia, dall’ultimo viag-gio, ed almeno altri due ne dovranno passare per potersipermettere il costo del biglietto aereo e la permanenza diqualche settimana nel paese dell’euro, dove tutto si paga eda caro prezzo.Poi qui a Cuba è sempre estate, le “ossa” stano molto meglioper chi ha passato all’umidità, caricando e scaricando navicol sole o con la pioggia, i migliori anni della propria vita, edadesso non “passano” più neppure le cure termali, per chi èpensionato poi non c’è più tutela, il lavoro manca, i giovaninon lo trovano e chi ce lo ha rischia ogni giorno di perderloe di finire in mezzo ad una strada.A Cuba tutti lavorano, tutti mangiano, tutti hanno diritto al-la assistenza sanitaria, le donne sono belle e gentili anche aquesta età, i giovani sereni, educati ed anche rispettosi.Certo le pescate nel canale e le grigliate nel capanno, ma og-gi quei capanni non ci sono più, hanno allargato i canali,hanno pulito le sponde, l’acqua è nera di petrolio e di rifiutied il pesce non abbocca più e se abbocca non c’è da fidarsia mangiarlo.Un giorno non lo ho più visto, non credo affatto che gli siaaccaduto qualcosa di male, penso invece, come lui stesso miaveva detto, che il costo della struttura era un po’ troppo al-to per chi disponeva di una pensione di ben, ovvero di soli,1.500 ero al mese.

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Un lusso ogni tanto, quando la moglie era fuori casa perlavoro e dunque per non restare soli e comunque mante-nere tonico il fisico, ma senza esagerare, semmai c’è il ma-re che è libero e gratuito per tutti, basta nuotare e correresulla spiaggia senza dover pagare 1 euro,o meglio a Cuba1 dollaro.Chissà quanti pensionati italiani ancora vitali e giovanili,espulsi dal mondo del lavoro e dunque dal loro ambiente divita di trenta o quaranta anni, relegati sulle panchine deipiccoli giardinetti di quartiere pensano che al di là del loromare c’è un’isola assolata dove ancora gli anziani hannospazi di vita e di rispetto civile ed umano?Non conosco Cuba a sufficienza per poter dare sul punto ungiudizio definitivo e documentato, ma non mi sembra diavere visto pensionati abbandonati sulle panchine, inutili ase stessi ed al mondo.Un pensionato lo ho conosciuto abbastanza bene, ma di luiparlerò in un altro racconto.

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IN VOLO

“Paese che vai…malcostume che trovi”

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Il racconto che segue narra la storia di una avventura moltodivertente ed emozionante (nel vero e proprio senso dellaparola), che porta dentro si sé, però, la vicenda di un episo-dio di malcostume specchio di un compromesso morale tal-mente diffuso da sembrare quasi scontato, prevedibile e ba-nale, così tanto il nostro modello di vita occidentale ci haportato a “normalizzare” l’idea stessa della immoralità, pur-ché contenuta entro determinati limiti di tollerabilità.L’essere buoni “fino ad un certo punto”, l’essere bravi “finoad un certo punto”, l’essere onesti “fino ad un certo punto”,sono contraddizioni in termini che pure sono parte del no-stro patrimonio culturale che fa dei principi morali, in qual-che modo, merce di scambio per l’affermazione o la conqui-sta di condizioni di vita economica e sociale più appetibili opremianti.Il compromesso pone, o comunque tenta di porre dei limiti,dei paletti di tollerabilità che tuttavia, com’è ovvio, non solosono soggettivi, ma sono anche inevitabilmente variabili neltempo e nelle singole circostanze.Così oggi si può essere contro la guerra nord americana al-l’Iraq e solo ieri invece avere “tollerato” la distruzione siste-matica e criminale dei ponti, delle fabbriche e delle infra-strutture civili in genere della Yugoslavia, perché la pace, af-fermano i campioni del compromesso politico e morale,non è un valore assoluto, ma va valutata caso per caso, op-portunità per opportunità, contingenza o convenienza voltaper volta.E così l’onestà, o il suo contrario la disonestà, assume undiverso valore a seconda dell’allarme sociale che la stessagenera in quel preciso momento o in quella specifica con-tingenza.L’evasione fiscale, la corruzione, la concussione, la truffanella sue infine modalità di esecuzione (nel commercio, nellavoro, nei rapporti anche affettivi in generale) sono tuttifatti di immoralità che possono tuttavia essere “tollerati”quando trovano o presumono di trovare formalmente incontesti oggettivi, ma sostanzialmente nella nostra coscien-

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za colpevole, giustificazioni discriminati ed assolutorie.Constatare con esperienza diretta la pratica e la diffusionedi questa morale malata anche in un paese che fa del rigoremorale, nelle declamazioni indubbiamente più propagandi-stiche che reali, un suo punto di emergenza qualificante,provoca uno stupore che risveglia almeno per un attimo lacoscienza, salvo poi a riacquietarla con le mille giustifica-zioni contingenti di facilissimo reperimento.Un modesto, ma sincero impulso di onestà mi obbliga co-munque a narrare con il buono, il simpatico ed il divertentedelle mie esperienze nell’Isola Felice, anche questo episo-dio, in verità non unico od isolato, di disonestà.Ma torniamo per ora al tema del racconto dedicato ad unaesperienza di trasvolata aerea dell’Isola dall’aeroporto dellacittà di Santiago a quello di Avana.Nei miei viaggi, in verità, o più volte fatto uso del mezzo ditrasporto aereo per percorrere nelle due direzioni il lungocorpo dell’isola estesa da ovest ed est per una lunghezzapiù o meno pari a quella della penisola italiana che invece sistende dal nord al sud.I mezzi di trasporto aerei cubani sono decisamente inusualida noi, o più correttamente sono talmente obsoleti al puntoche, nonostante la mia non giovane età, non ho proprio me-moria diretta della loro esistenza ed attività in Italia.Vecchi cargo o mezzi militari sovietici riadattati al trasportopasseggeri volano ancora dai due capi dell’isola con un co-raggio, non solo per i passeggeri, che merita di essere pre-miato salendoci sopra almeno una volta (sperando ovvia-mente che non sia l’ultima!).Il viaggio che narro merita una particolare menzione perchélo ho fatto con uno dei mezzi tecnologicamente più avanza-ti in dotazione all’aviazione interna cubana, un tri-reattoreYAK 42 sovietico che, sia per l’età, sia soprattutto per laprobabile mancanza di assistenza tecnica dopo il collassodell’Unione Sovietica, rappresenta la prova vivente dellaconcretezza, consistenza e serietà delle produzioni, “bruttema solide”, dell’oggi dissolto socialismo reale dell’oriente

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europeo.Il viaggio era programmato in orario notturno avanzatocosicché, con il consueto anticipo che ho sempre osserva-to negli spostamenti che non consentivano soluzioni al-ternative di facile reperibilità (cinque giorni di prenotazio-ne circa per trovare un posto libero), mi sono portato al-l’aeroporto internazionale di Santiago de Cuba program-mando di cenare all’interno dello stesso e di godermi,nell’attesa paziente della partenza, la veduta notturna oalmeno il rumore ed il profumo dell’oceano caraibico di-steso sino all’orizzonte marino al di sotto della terrazzadella stazione aeroportuale.L’aeroporto di Santiagio si trova infatti su di un lungo costo-ne dalla cresta pianeggiante giusto la larghezza della pistadi decollo ed atterraggio, disposta lungo la riva dell’oceanoa sud della città.La collocazione è emozionate per la veduta dai finestrinidell’aereo soprattutto all’atterraggio quando, provenendodall’ovest di Avana, dopo avere sorvolato a discreta quotala bellissima baia emiciclica del porto di Santiago, l’aereoimprovvisamente tocca terra quasi su di una piattaformasospesa a mezza altezza tra terra e mare e cielo.Questa emozione vale ovviamente per la prima volta, nel ca-so di un secondo atterraggio, la memoria della originale col-locazione della pista insinua nei passeggeri una qualchepreoccupazione sulla mira del pilota tra lo strapiombo delcostone verso il mare e quello opposto verso l’interno del-l’isola.Nel mio caso però quella sera si trattava di decollare e sem-mai la preoccupazione era quella di una pronta ascesa del-l’aereo verso il cielo prima delle fine della pista e quindi delsalto verso il fondo precipizio della baia.Eseguite dunque le operazioni di registrazione col numerouno di imbarco, mi sono dedicato alla visita della aerosta-zione dove, nello spazio di poche centinaia metri quadri disuperficie si ripete in miniatura l’organizzazione dei veri epropri aeroporti internazionali: negozi (uno, più un ban-

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chetto di vendita di souvenir nell’atrio), uffici delle compa-gnie aeree (Cubana de Aviacion, Gaviota, Aerocaribe, ecc.),bar e ristoranti (uno per ciascuna specialità).Al bar ho consumato una modesta cena di panino e bibita,poi mi sono seduto nell’atrio di attesa e quasi meccanica-mente, secondo una opportuna abitudine acquisita nei ripe-tuti viaggi solitari, ho verificato per l’ennesima volta la com-pletezza della mia dotazione “cartacea”: documenti perso-nali, documenti di viaggio, denaro in diversa valuta.Nel portafoglio, per singolare casualità, c’erano solamentenove banconote da venti dollari, valuta corrente nell’isola diCuba e di fatto obbligatoria per gli stranieri ai quali non èimpossibile, ma certo assai difficile accedere alle strutturedi ospitalità, ristorazione e trasporto acquistabili in valutanazionale cubana e quindi giustamente riservate in prefe-renza ai cittadini cubani.E’ giunto quindi il tempo del passaggio alla sala di imbarcoin attesa del rifornimento dell’aereo che nel frattempo eraarrivato da Avana e che di lì a poco sarebbe ripartito perl’ultimo volo della notte.In analogia e proporzione con la complessiva configurazio-ne della aerostazione, all’ingresso della sala d’imbarco c’erail filtro del sistema di controllo personale, porta con metaldetector, e dei bagagli, tunnel con raggi di ispezione.L’impianto era compresso in uno spazio strettissimo di nonpiù di tre metri dalla porta di accesso dall’atrio, con due ad-detti della sicurezza in divisa, l’uno per la porta per le per-sone e l’altro per il tunnel dei bagagli.Quando è stato il mio turno, dopo avere deposto sul nastrotrasportatore del tunnel il mio bagaglio a mano, sono statoinvitato, prima di passare dalla porta per le persone, a de-positare nell’apposita vaschetta porta oggetti in plasticatutto quanto avevo in mano o indosso, completamentesvuotando le tasche dei calzoni e della giacca.Nonostante alcune mie blande osservazioni sono stato invi-tato a deporre nella vaschetta anche l’orologio di plastica, idocumenti di carta ed infine il portafoglio di pelle, oggetti

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tutti certamente non reattivi al controllo per le ispezioni deimetalli.Eseguita questa operazione ed affidato tutto il materialeall’addetto al tunnel dei bagagli, ho attraversato la porta perle persone venendo fermato dall’altro addetto per qualchescrupoloso ulteriore controllo ai vestiti.Quindi, all’atto di riprendere il bagaglio che nel frattempoera uscito dalla parte opposta del tunnel, su sollecitazionedell’addetto alla porta per le persone rivolta all’altro addet-to al tunnel dei bagagli, sono stato invitato ad aprire la miavaligia, a mostrarne il contenuto, a fornire, infine, alcune cu-riose spiegazioni circa la accensione ed il funzionamentodella macchina fotografica digitale e del voluminoso telefo-no palmare.Nel frattempo, tuttavia, ritardava oltre il normale il transitodella vaschetta porta oggetti contenente, tra l’altro, il por-tafoglio.Ad un certo punto delle curiose spiegazioni richiestemi,l’addetto al controllo ha deciso che erano sufficienti e quin-di, invitandomi a sollecitare lo spostamento del bagagliodalla piattaforma di arrivo del nastro trasportatore del tun-nel di ispezione, ha passato fuori del tunnel la vaschetta deidocumenti, sino ad allora nascosta alla mia vista, mi ha fisi-camente preso una mano aprendomela e rovesciandoci den-tro il contenuto della vaschetta e, infine, mi ha congedatocon la sempre gradevole cortesia di un augurio per una buo-na permanenza nell’isola.Con un poco di precipitazione sotto la pressione impostamiper lo spostamento del bagaglio ho quindi rapidamente ri-chiuso la valigia e raccolto gli effetti personali ridistribuen-doli nelle loro tasche di origine.Poiché la diffidenza è l’ultima a morire, nel riporre in tascail portafoglio, quasi di soppiatto un poco vergognandomiper la scarsa fiducia dimostrata verso gli addetti alla sicu-rezza aeroportuale, ho voluto vederne l’interno, constatan-do che le banconote c’erano ancora.Poi mi sono allontanato dall’ingresso verso il centro della

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sala d’imbarco e mi sono seduto in attesa della chiamataall’uscita, un poco riflettendo ancora sulla anormalità delcomportamento dei due addetti alla sicurezza: controllo dimateriali pacificamente non rilevanti, eccesso di indagine,precipitazione della chiusura improvvisa del bagaglio, ecc.Così pensando tra me e me ho riaperto il portafoglio ed honuovamente contato le banconote da venti dollari: erano so-lamente sette, nel passaggio del controllo di sicurezza i dueaddetti, in evidente intesa tra di loro, ne avevano sottrattedue, una per ciascuno.Debbo dire che più dell’irritazione ho avuto un impulso dicompiacimento per la bravura, scientifica ed organizzata,dei due prestigiatori del controllo di sicurezza: il “gatto” di-strae il turista e la “volpe” vuota il portafoglio, o meglio loalleggerisce quanto basta per non dare nell’occhio ed inve-ro, se non ci fosse stata la singolare concomitanza del mioprecedente controllo e dell’unico taglio delle nove, cioè orasette, banconote da venti dollari il furto, perché di questo siè trattato, sarebbe anche potuto passare inosservato.Va detto, per chiarezza, che mentre per noi venti dollari so-no attualmente un poco meno di venti euro, somma non no-tevole tanto più considerata nel contesto di un viaggio turi-stico dai costi non indifferenti, per i beneficiari della presti-digitazione venti dollari sono pari a circa quattro mesi distipendio, ciascuno!Ho avuto l’impulso di tornare verso di loro per reclamare edenunziare aspramente il fatto, ma ho subito pensato alledifficoltà della prova, parola contro parola, alla mia condi-zione di turista straniero comunque con difficoltà di lingua,alla mia necessità, infine, di prendere comunque quel voloper Avana al quale avrebbe fatto seguito il giorno seguentequello di ritorno a Roma.E’ stato facile a quel punto dare spazio alla colpevole ipocri-sia politica e morale di cui ho detto in apertura di questoracconto e considerare che, tutto sommato, quella sommarubata non era per me grande danno, mentre per i “benefi-ciari” era davvero tanto.

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In conclusione, a loro e mia complice discolpa, ho conside-rato che si era trattato di un fatto di ridistribuzione dei red-diti, bensì realizzato per mezzo di un illecito, ma di dimen-sioni e gravità “tollerabili”.Sono restato dunque seduto al mio posto attendendo lachiamata per l’imbarco.Con un’ora e mezza circa di ritardo sull’orario previsto è in-fine giunta la chiamata d’imbarco della quale ho avuto noti-zia non già dall’altoparlante della sala completamente sof-focato dal rumore assordante di un televisore acceso al cen-tro della stessa, ma dalla concitazione con la quale improv-visamente, quasi illuminati da un comando telepatico, tuttii viaggiatori sono scattati in piedi e si sono caoticamenteammassati alla porta di uscita verso il piazzale di decollo.Forte del mio biglietto di imbarco in mano mi sono messocompostamente in coda e così sono salito per ultimo sul-l’aereo fermo al centro della pista.Errore: a Cuba non c’è prenotazione del posto ma ci si siedecosì come capita quasi all’arrembaggio.Errore veniale, per fortuna, in quanto anche a Cuba almenonon emettono più biglietti d’imbarco rispetto alla capienzadi posti seduti dell’aeromobile; quindi ho trovato infine unposto libero e mi sono seduto.Salvo migliori verifiche mi è sembrato di essere l’unico turi-sta straniero in quel volo interamente riempito da cittadinicubani in spostamento da un capo all’altro dell’isola permotivi di lavoro e più probabilmente familiari, come mi horitenuto di capire dai discorsi scambiati nel corso del viag-gio con alcuni dei vicini.Anche per l’uso del mezzo aereo esiste infatti una tariffa-zione speciale per i cittadini cubani che lo rende abbordabi-le alle loro assai modeste possibilità economiche con prezzicredo inferiori di almeno cento volte rispetto a quelli prati-cati per gli stranieri.Tale fatto giustifica sia la difficoltà delle prenotazioni che ilfatto, sempre constatato, di occupazione totale di tutti i po-sti su tutti i voli disponibili.

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Escludendo o comunque enormemente contenendo un usoaziendale del veloce mezzo di trasporto aereo, atteso che aCuba non ci sono uomini d’affari in transito per le esclusivesale vip, l’approccio dei cubani al mezzo aereo non differi-sce da quello al treno o all’autobus (in cubano pronunciato“uaua”).Anche sull’aereo dunque sale di tutto: pacchi legati con lospago, sacchi di iuta, ceste e persino enormi torte di pastic-ceria dolce senza incarto, tenute in mano dal proprietarioper tutto il tempo del viaggio.Quella del trasporto delle torte in mano, senza incarto, èuna delle consuetudini più diffuse in ogni angolo dell’isola.E’ frequente infatti vedere uscire dalle profumate pasticce-rie aperte e molto attive in tutta l’isola clienti con in mano,o persino sulla testa o sulla spalla, enormi torte decoratedai fantasiosi e vari colori pastello (celeste cielo, rosa con-fetto, verde pisello, ecc.), che poi vengono trasportate a lun-go per le vie cittadine e, come ho potuto personalmenteconstatare, anche per aereo da una città all’altra.Debbo confessare di non avere mai avuto il coraggio di as-saggiare tali torte che, alla vista, sembrano quasi essere fin-te, per sola mostra, fabbricate di cartapesta e di gesso colo-rato; so però che loro le mangiano e le apprezzano molto;chissà la prossima volta, un’altra volta, le assaggerò anch’io.Com’era ovvio, la quasi totalità dei viaggiatori cubani ave-va trasformato la cabina dell’aereo in una piazza vociantee festosa dato l’alto tono delle voci e l’abbondare di risatee battute.Una signora seduta nella fina dietro la mia, in particolare,parlava ininterrottamente con tutti quelli che le risultavanoa tiro di voce, come una macchinetta, alternando parole a ri-sate dal tono assai alto.Erano chiaramente chiacchiere e risate nervose che lascia-vano trasparire la non poca apprensione dei viaggiatori perl’esperienza, forse non molto diffusa, del volo aereo.Cosicché non appena l’aeromobile si è messo in movi-mento e dal pavimento della cabina ha iniziato a salire un

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denso fumo, costituito in verità da nebbia di condensadel sistema di condizionamento, quel vociare e ridere s’èimprovvisamente interrotto sopraffatto da un silenzio as-sordante come il rombo delle turbine dei tre reattori inaccelerazione.Poi il vociare, questa volta in tono quasi isterico, è dinuovo ripreso interamente incentrato sulla giusta preoc-cupazione generata dal quella coltre di fumo che si anda-va diffondendo sul pavimento della cabina; ad un certopunto il comandante del volo, con un forte e ripetutomessaggio dagli altoparlanti della cabina, ha dovuto ras-sicurare i passeggeri sulla natura e sulla “normalità” diquelle emissioni gassose, invitandoli alla calma e, di più,alla fiducia(!).La calma è tornata, la fiducia onestamente non lo so a guar-dare i volti stirati dei passeggeri più vicini, quasi paralizzatinella istantanea di un sorriso congelato.L’aereo ha iniziato a rullare sulla pista, ha raggiunto il puntodi partenza, ha alzato al massimo il rumore dei motori edha iniziato la sua corsa per il decollo.In quello stesso momento l’emissione di fumo si è decupli-cata e nei pochi istanti dello stacco dal suolo la cabina deipasseggeri è stata interamente invasa dal gas di condizio-namento sino ad impedire la vista persino del sedile di fron-te al proprio.Questo fatto mi ha impedito di vedere le nuove espressioniche indubbiamente si erano andate formando sui volti deimiei vicini in quel frangente preannunziato ma non certoprevisto con quelle dimensioni assolute, ma il gelo termicodiffuso dal gas del condizionamento era accompagnato daun gelo di voci e persino di respiri che ben trasmetteva il cli-ma psicologico che mi circondava.Per fortuna non appena in volo il gas si è disciolto con lastessa improvvisa rapidità con cui si era formato e quindi latrasvolata si è svolta serenamente e senza ulteriori sorpre-se, avvolta nel buio della fonda notte caraibica.Lo sbarco ha visto ripetere le stesse scene di assalto della

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salita, ma oramai si era a terra, per qualcuno a casa, per al-tri, come me, in attesa del prossimo volo … certamente conun mezzo di trasporto più moderno ed affidabile.

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FERNANDO

“Un regista, un artista, un uomo”

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Fernando io lo avevo già conosciuto prima di incontrarloper la prima volta a Cuba.Lo avevo conosciuto, come giustamente si deve conoscereun artista, attraverso la scoperta della sua opera.Fernando è un regista di cinema, sicuramente tra i miglioridella scuola cinematografica cubana che pure vanta registi,“direttori” come si dice in spagnolo, di primissimo livello in-ternazionale.Fernando è anche riuscito ad andare oltre il solo ambito cu-bano ed in genere di idioma ispanico, avendo avuto il meri-tato privilegio di vedere distribuiti alcuni suoi film in Fran-cia, accademia del cinema d’autore, e persino doppiato unfilm in Italia, vera e propria patria dell’arte cinematograficaalmeno dopo il secondo dopoguerra.E’ anzi proprio all’insegnamento del neorealismo cinemato-grafico italiano che si sono formati i primi grandi registi cu-bani post rivoluzionari, fondatori a loro volta della scuoladel cinema cubano, tanto prolifica di grandi registi, direttoridella fotografia, sceneggiatori ed anche attori, quanto sem-pre più povera di mezzi economici che oggi ne riducono lecapacità produttive a non più di un film all’anno.Fernando ha girato il suo ultimo film oramai quattro anni orsono e da allora non ha avuto la possibilità di andare oltrealcuni cortometraggi in attesa di trovare i finanziamenti perdei soggetti già da tempo pronti nei minimi dettagli, tranneche in quelli finanziari.Conoscere personalmente Fernando è stata una sorpresagrande almeno quanto quella provata vedendo per la primavolta quel suo film doppiato in lingua italiana.Il film mi è apparso, già alla prima visione vieppiù confer-mata al giudizio più ponderato delle successive proiezioni,un lavoro di altissima maestria professionale, ma soprat-tutto un esempio di straordinaria lucidità progettuale che,nella complessità dei diversi racconti che si intrecciano inapparente autonomia, segue invece con estrema precisionee puntualità il filo di un messaggio preciso, chiaro e forte,quello dell’anima cubana, calda, umana, profonda e comun-

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que e soprattutto ansiosa di vita, di mare, di musica, in unaparola il messaggio della “cubanìa”.Per sentire, prima ancora che capire questo messaggio, nonbasta vedere una sola volta il film, anche se lo si fa con lamassima attenzione, occorrono più letture e riletture perscoprire ogni volta un motivo, un personaggio, un passag-gio, una scena nuova.Quel che distingue un’opera d’arte (ed il cinema è sicura-mente un mezzo di espressione artistica, anche se oggi ri-sulta prevalentemente deviato ad un uso minore: nei miglio-ri dei casi di distrazione, nei peggiori di condizionamentopolitico e sotto-culturale) è la sua capacità di stimolare let-ture successive che consentano al lettore-spettatore di sco-prire elementi nuovi ad ogni passaggio, nuovi collegamenti,nuove idee e messaggi.Questo c’è nel cinema di Fernando che, già gradevole, emo-zionante ed attraente alla prima lettura-visione, si arricchi-sce di dettagli, immagini e sensazioni ad ogni successivonuovo passaggio.Scoprire questi dettagli, solo apparentemente nascosti maben presenti e coerenti ed anzi funzionali alla trama del rac-conto, distingue il lettore che cerca nell’opera cinematogra-fica l’espressione di una arte, dallo spettatore che consumaun prodotto di distrazione, disimpegno e svago.Nello stesso tempo la scoperta del messaggio profondoaffidato dall’artista al suo lavoro, crea una intesa, quasiun legame intimo tra il lettore-spettatore e l’autore che fasì che il primo si impossessi del lavoro del secondo facen-dolo parte del proprio mondo e modo di vedere, sentire epensare.Così quando ho avuto l’occasione di conoscere di personaFernando, cioè l’autore dell’opera, sono rimasto impressio-nato dalla straordinaria corrispondenza tra il sentimentoprofondo di umanità che traspariva dall’opera e quellodell’uomo regista e sceneggiatore.Fernando è quello che si vede, è quello che scrive, dice o fadire, in una parola è quello che filma.

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E’ cubano, con una anima latina, serena, paziente, semplice,modesta e soprattutto è un sognatore fiducioso nella veritàdei suoi sogni.Prima o poi quei sogni si realizzeranno, bisogna sapereaspettare e crederci, ma intanto comunque vivere, magari alritmo di quella musica, suonata, cantata o fischiata, cheriempie e guida sempre il dipanarsi dei suoi film.Sono rimasto affascinato da questo personaggio, assoluta-mente “non personaggio”, ma solamente uomo vero, sem-plice e diretto.Pensando di fargli una cortesia particolarmente utile per ilsuo lavoro, gli ho offerto in regalo la mia raccolta di video-cassette, piccola cosa per il nostro ricco mondo, ma ritengoun bene preziosissimo per quella terra povera e per quel-l’ancor più povero cinema isolano a dispetto della notevolequalità delle sue produzioni.L’offerta ha colpito Fernando molto di più di quanto meri-tasse non solo il valore della stessa, ma anche la semplicitàdelle mie intenzioni.Fernando però è Fernando, è quella persona diretta ed one-sta che io avevo scoperto nelle sue opere e confermato nel-l’incontro di persona, e quindi ha subito rifiutato l’offertaper sé, indicandomi la scuola di Stato del cinema cubanoquale corretta destinataria di un bene di potenziale utilitàed utilizzabilità generale.Il progetto non è poi andato a buon fine, ma non certo percolpa di Fernando, e comunque non vale qui cercarne le ra-gioni e neppure parlarne oltre.Qui merita invece parlare di Fernando, della sua speranzadi girare prima poi un nuovo film, di poter dare vita, imma-gini e suoni, ai suoi soggetti già pronti da tempo, magariproprio a quello più amato di una storia italiana di coraggio,amore e grande immensa fiducia nella vita “…vissuta sullasponda di un mare al di là del quale immaginare altra gentesull’opposta sponda che vive, combatte, spera e sogna guar-dando verso quello stesso mare”.Un augurio immenso a Fernando, ma anche a noi tutti di po-

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tere al più presto vedere, ancora rivedere e rivedere, discu-tere ed amare ed infine “rubare” le immagini, i suoni, i mes-saggi di una sua nuova opera.

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ANA

“Medicina, lavoro, studio e cubanìa”

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Ana è una giovane dottoressa di 24 anni, graziosa, timida,misuratamente sorridente e molto delicata.Ana non è una “mulata” intendendo con tale definizionenon un ceppo genetico, ma il così detto oggetto del deside-rio che da anni guida gli sciami del turismo erotico euro-peo, principalmente italiano, abbagliato dalle icone patinatedei depliants turistici, o forse più banalmente per tentare difuggire da una vita un poco grigia e timorata di principi eluoghi comuni.Di quelle “mulate” promesse dai depliants turistici in veritàa Cuba non ce ne sono affatto.O meglio, alcune effettivamente ce ne sono e di indiscutibilebellezza, ma le si può trovare la notte solo nei locali nottur-ni più esclusivi ed assai costosi anche secondo i parametrieuropei, oppure a volte anche di giorno nei centri commer-ciali in dollari, intente a spendere, su trampoli di tacchi al-tissimi e con il telefonino costantemente all’orecchio, in vo-luttà occidentali i dollari “onestamente” guadagnati con ilmestiere notturno.Quelle splendide “mulate” però sono invariabilmente sin-gles e si accompagnano ai loro clienti per lo stretto tempodel “contratto”, come dire: esattamente come le loro col-leghe che si esplicano in Italia, costo del biglietto aereoescluso.Ma Ana non ha le doti della “mulata”, bionda riccia con oc-chi neri e sopracciglia scure fittissime, è stata gratificatadalla natura della nota rotondità cubana.Detto questo non conta andare oltre nel descrivere l’aspettofisico di Ana; molto più interessante è invece parlare di lei,della sua vita, della sua cubanità o “cubanìa” come si dice aCuba per esprimere il senso profondo dell’appartenenza ge-netica a quella terra di sole, di mare, di musica e soprattuttodi poco lavoro.Ana vive ora ad Avana ma viene da una provincia dell’orien-te più povero dell’isola nel suo insieme certamente non ric-chissima.Si trova nella capitale per motivi di studio e vi resterà sino

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al conseguimento di un diploma di specializzazione postuniversitaria, poi si vedrà.Appena laureata Ana ha avuto subito il suo posto di lavo-ro da medico, come di addice ad un sistema socialista do-ve non esiste l’idea stessa non solo della disoccupazione,ma neppure della ricerca e della attesa del lavoro, di con-dizioni di temporaneità o di rischi di precarietà così cul-turalmente moderni e progressivi nel nostro ricco e dina-mico occidente.Quel primo lavoro non era stato certo il massimo per leaspirazioni di Ana, tanto che lei è oggi ad Avana per prose-guire negli studi ed acquisire una più qualificata specializ-zazione post laurea.Superato il primo periodo di prova al lavoro ed evidente-mente dimostrate particolari capacità e meritevolezza, Anaè stata ammessa alla ulteriore prosecuzione degli studi percrescere e migliorare nella qualità del suo lavoro medico.Capacità e meritevolezza sono elementi decisivi in un paesedi socialismo reale dove lo studio non solo non costa, maaddirittura dà diritto ad una retribuzione in corso di studisuperiore a quella lavorativa.Ammessa alla scuola di specializzazione universitaria Anaoggi non solo ha diritto ad alloggio e vitto gratuito, ma rice-ve anche uno stipendio mensile un poco superiore a quellopercepito quando lavorava, stipendio destinato a cresceredi semestre in semestre al superamento di ogni periodicaprova di profitto nello studio.A questo punto va detto a quanto ammonta questo stipen-dio “premiante”; tradotto in dollari nord americani, nei qua-li è sempre possibile convertire la moneta cubana material-mente corrisposta dallo Stato a tutti i cittadini cubani, sitratta di circa 9 dollari al mese(!).Riaccompagnadola a notte avanzata alla sua residenza uni-versitaria, dopo una serata di riposo passata nel cuore turi-stico della Avana Vecchia, Ana non ha potuto non notareche il costo della corsa in taxi era più o meno pari al suo sti-pendio mensile.

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Ma certamente i taxi, gli alberghi, i ristoranti turistici ed icentri commerciali in dollari non sono cose per i cubani nonapplicati al “servizio” turistico.I pesos cubani della retribuzione di Ana, come di qualsiasialtro lavoratore o pensionato cubano, consentono di acqui-stare, ovviamente nei tempi, modi e quantità effettivamentedisponibili, i prodotti e servizi nominalmente o tipologica-mente corrispondenti destinati ai cittadini cubani a prezziassolutamente irrisori, quando non del tutto gratuiti.Il dollaro nord americano in sostanza è una unità di misuradel tutto inesistente o comunque irrilevante al di fuori delleristrette aree geografiche e topografiche riservate al turismostraniero.Garantite, o comunque soddisfatte nei limiti delle disponi-bilità concrete, le necessità primarie dei diritti alla salute,alla istruzione, alla casa, ai servizi energetici, di igiene e ditrasporto, tutti di fatto gratuiti, così come la parte prevalen-te della alimentazione fornita sul luogo di lavoro o di stu-dio, lo stipendio serve solo ad acquistare i beni ulteriori invia di massima non strettamente necessari, ancorché inevi-tabilmente nelle qualità e quantità disponibili e comunqueuguali per tutti.Ana, dunque, non ha lasciato il suo primo lavoro e la pro-vincia di nascita all’inseguimento di inesistenti opportunitàdi ricchezza, ma per la sincera voglia di progredire nella suaprofessione, in verità unitamente ad un certo non gradi-mento per quel suo primo incarico di lavoro.Appena laureata Ana era stata destinata ad una strutturache, con termine edulcorato, potremmo definire un centroper la rieducazione ed il reinserimento sociale di prostituteche, evidentemente, avevano un poco “ecceduto” nell’eser-cizio della loro antichissima professione.Ana non ha saputo o voluto definire meglio il concetto di“eccesso” che certamente in un paese di cultura cattolicadoveva avere raggiunto punte strepitose e socialmente de-stabilizzanti.E’ noto infatti che la prostituzione è una piaga sociale dei

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paesi cattolici o comunque caratterizzati da una cultura fa-miliare e sessuale fortemente repressiva, coniugata con unadisapprovazione, per non parlare di negazione o demoniz-zazione, della sessualità femminile.Alla repressione familiare e sessuale femminile ha fatto dasempre da contro altare l’enfatizzazione della sessualitàpiù animale maschile che si sfoga nel ricorso alla prostitu-zione, formalmente condannato, ma di fatto non solo con-sentito ma spesso anche incoraggiato e persino normato co-me servizio di funzione e valore sociale.Nell’Isola di Cuba un cattolicesimo integralista e di conqui-statori si è sovrapposto e coniugato a vicende allucinanti dischiavismo nero ma anche bianco di dimensioni enormi,svolgendo l’isola, nella sua storia passata e sino a tempi as-sai recenti, la funzione di centro di smistamento degli schia-vi africani per tutto il continente americano.Anche per l’effetto della “intelligente” operazione di recu-pero alla cultura della chiesa ufficiale cattolica delle assaidiverse culture e riti africani ed indigeni, la così detta li-bertà sessuale ha trovato la sua massima espressione an-che oltre il così detto mestiere ufficiale e, in sostanza, atutti i livelli sociali ed in tutte le sue forme espressive an-che trasversali.Prova tangibile è la straordinaria varietà etnica, intendendocon tale termine la differente pigmentazione della popola-zione cubana, che dal bianco latteo dei discendenti dei for-zati delle Canarie, va allo scurissimo nero ebano dei discen-denti degli schiavi centro africani, attraverso le infinite va-riazioni dei creoli, meticci, mulatti, ecc.Quel che sorprende semmai a Cuba è la grande capacità delsistema socialista di governare tale fenomeno sotto il profi-lo del controllo sanitario e della quantità delle nascite.Una delle piaghe più gravi dei paesi del terzo mondo ulte-riormente afflitti dall’oppressione culturale di religioni in-tegraliste e proibizioniste, è infatti l’incapacità di controllodel fenomeno dell’aumento esponenziale della popolazioneche soffoca ogni tentativo di crescita economica, non con-

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sentendo alcuna possibilità di accumulazione delle risorsenecessarie agli investimenti per lo sviluppo e consumando,al contrario, tutto nell’emergenza quotidiana, in tal modoinnestando una spirale depressiva che genera da grandi po-vertà ancora più grandi miserie.A Cuba, invece, le ragazze, come si dice, diventano donnesovente in età ancora puberale, ed in questo non c’entranonulla i tristi turisti del sesso che nel caso rischierebbero pe-ne detentive pesantissime; hanno il primo figlio in maggio-ranza già prima dei 20 anni e spesso senza marito, ma poilì prevalentemente si fermano nonostante i sovente anchenumerosi successivi matrimoni, per non parlare degli altrirapporti non istituzionalizzati.Ana era già stata sposata ma senza avere figli e buon per leiper gli attuali suoi studi post universitari.Il famoso centro di rieducazione si trovava assai lontanodalla città, in aperta campagna, circondato da una recinzio-ne protettiva apparentemente inviolabile che lo faceva fintroppo assomigliare ad una struttura di detenzione, mal’uso di questo termine ovviamente non è consentito in unsistema che, come può o almeno certamente dichiara, nonreprime ma rieduca.Ana era addetta al controllo ed alla assistenza delle neces-sità di salute medica delle rieducande.Ebbene in questa sua funzione la casistica medica che Anasi trovava con grande prevalenza a trattare era quella dellemalattie veneree.Il fatto non sarebbe stato più rilevante di tanto trattandosidi ex prostitute se non fosse che tutte le rieducande, al mo-mento del loro inserimento nel centro di recupero, eranostate verificate e certificate sane.Le malattie da attività sessuale, per così dire, non accorta,venivano infatti contratte dalle rieducande nel periodo dellaloro permanenza presso il centro.Forte della sua straordinaria capacità, per quantità e varietà,di offerta, infatti, il centro di rieducazione aveva prodottoun fenomeno di attrazione di clientela maschile dai luoghi

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più lontani.I così detti clienti, così si dice nelle relazioni ufficiali, di not-te coraggiosamente e roccambolescamente scavalcavano larecinzione perimetrale, trasformando il centro di rieduca-zione diurno, in un enorme bordello notturno, con l’aggra-vante di una pericolosa caduta dei livelli di protezione eprevenzione igienica e sanitaria.Ma non per questo Ana aveva deciso di lasciare quel suo pri-mo lavoro.L’aveva spinta alla decisione di tornare agli studi, affrontan-do anche i disagi di un trasferimento ad Avana della duratadi non meno di cinque anni, un misto di desiderio di conti-nuare a studiare con una giusta dose di “cubanìa”.Orientandosi nella scelta della specializzazione Ana avevaavuta ben presente una pregiudizialità di vita: un lavoronon troppo impegnativo, sopratutto sotto il profilo dellacontinuità, intensità e durata quantitativa oraria del tipo diprestazione medica da erogare.Ana aveva così scelto la disciplina della immunologia, pre-figurandosi un futuro di consulenze a chiamata, alternate aperiodi di studi, a riposi, a riprese senza eccessivo vincolodi orario, ecc.Ana, sana, bella e forte giovane medico cubana non ha re-more nell’affermare che il suo fisico (ma non sarà la mente?)non sarebbe stato in grado di sostenere impegni di lavoro edi concentrazione mentale troppo pesanti o lunghi.9 dollari, 20 dollari, 40 dollari, in fondo non era importante,quel che contava era la “sostenibilità”, cioè la qualità dellasua vita quotidiana.Non c’è prospettiva di lavoro né di guadagno che possacompensare la perdita del proprio tempo di vita, la consu-mazione delle proprie energie fisiche e mentali.In un paese dove il minimo per un vivere civile e dignitosoè comunque da sempre assicurato, il desiderio più grandeè quello di poter godere il più possibile di tutti quei beniche non solo sono uguali per tutti, ma che soprattutto so-no illimitati.

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Il desiderio assoluto di godere del sole, del mare (che Ana,cubana dell’entroterra, ama più d’ogni altra cosa, per il soloodore e rumore), della musica ed infine, perché no, anchedel sesso, è questa l’anima ed il significato profondo della“cubanìa”. Di fronte a questa anima, indubbio frutto della straordina-ria mescolanze di razze, storie e culture, non c’è socialismoche diriga né capitalismo che imbonisca, Cuba è un’isola fe-lice anzitutto per i cubani; politici bacchettoni, imprenditorirampanti o tristi turisti del sesso a pagamento, questo nonlo possono capire e quindi tanto meno mutare.

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UN CARTOGRAFO GUEVARISTA

“De tu querida presencia…”

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A Cuba, come in ogni paese del mondo, ci sono divieti “se-veramente vietati”, che generalmente vengono rispettati datutti per precetto morale o per timore delle eventuali san-zioni, e divieti invece “però…”, per i quali è lasciata alla cosìdetta sensibilità dell’individuo valutarne il rispetto in rela-zione alle diverse contingenti circostanze che poi, a lorovolta ed in qualche modo, costituiscono anche il metro divalutazione discrezionale per l’eventuale applicazione dellesanzioni.Tra i divieti “però…” più comuni nell’isola di Cuba, almenocon riferimento alle esigenze dei turisti stranieri, c’è quellodell’utilizzo per il trasporto turistico delle autovetture per-sonali, così dette “particolari”, in dotazione a taluni più for-tunati cittadini cubani.Il turista, sotto un profilo economico: giustamente, ha l’ob-bligo di fare uso solamente dei mezzi di locomozione a luiriservati, o comunque espressamente aperti anche al suoutilizzo alla condizione del pagamento del servizio in valu-ta nord americana.Treni, aerei, autobus sono sempre accessibili ai turisti stra-nieri previo l’acquisto di uno speciale biglietto in dollari dicosto enormemente superiore a quello praticato ai cittadinicubani (questo almeno sino a qualche tempo addietro, orail peggiorare delle condizioni dei sistemi di trasporto staimponendo anche ai cubani pagamenti in valuta nord ame-ricana assai elevati per le loro possibilità).Per quanto riguarda le autovetture i turisti stranieri posso-no noleggiarle presso le apposite agenzie autorizzate, ovve-ro fare uso dei taxi in dollari dal costo molto vicino a quellodi una città europea.Poiché “tutto il mondo è paese” è invece abbastanza cor-rente la possibilità per un turista di noleggiare un “pas-saggio” da un conducente privato proprietario di una au-tovettura “particolare”, pur sempre pagando in dollari macon una tariffa chilometrica enormemente inferiore aquella di un taxi.Percorrendo la lunga isola da ovest ad est ho fatto più volte

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ricorso a tale modalità di trasporto che, nel “però…” del di-vieto, è stato sempre assai facile trovare, magari propriopresso le agenzie turistiche deputate al noleggio delle auto-vetture per stranieri o direttamente al banco di accettazionedei vari alberghi di transito.Dopo un breve rituale legalitario, infatti, è sempre “uscitofuori” un cugino, un amico, un conoscente comunque fidatoche, solo pochi minuti dopo, era già pronto lì, magari dietrol’angolo dell’albergo se non proprio davanti alla portineria,con la sua autovettura già rifornita del carburante necessa-rio, pronto ad eseguire il trasporto di “cortesia” ad un prez-zo onestamente sempre accettabile.I preliminari della partenza, in verità, hanno sempre riguar-dato la definizione del prezzo chilometrico per il previo ap-provvigionamento del carburante che, non ritengo di anda-re molto lontano dal vero, difficilmente avveniva presso unimpianto di erogazione ufficiale.Prescrizioni del viaggio: un trasporto di cortesia frutto diuna lunga amicizia con il conducente-proprietario ed il di-vieto, questo sì tassativo, di far salire cittadini, o più preci-samente cittadine cubane lungo tutto il tragitto.Ho così incontrato e conosciuto diversi “conducenti”, unoperò lo ricordo con particolare affetto per gli intensi ed in-teressanti discorsi scambiati lungo le circa quattro ore delviaggio.Si trattava di un signore sulla mezza età, di professione car-tografo ma da almeno un paio di anni a riposo a casa in unacondizione molto simile alla nostra cassa integrazione a ze-ro ore a causa della mancanza cronica della carta che dun-que gli impediva di svolgere il proprio lavoro nell’ufficiostatale presso il quale era applicato e dal quale, ovviamenteper il sistema politico e sociale cubano, continuava a riceve-re regolarmente a casa lo stipendio intero.Questo signore possedeva un livello di preparazione cultu-rale, di conoscenze e di curiosità mentale mediamente altoed in più aveva vissuto una vita alquanto complessa, se nonproprio movimentata.

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Nasceva da una famiglia benestante prima rivoluzione so-cialista, circostanza che, nella originale elasticità della sta-talizzazione post rivoluzionaria, gli aveva consentito diconservare sufficienti possibilità economiche per disporredi una autovettura “particolare”, seppure mostruosamentecannibalizzata con pezzi di ricambio d’ogni sorta e prove-nienza, ma comunque marciante e, almeno per quel mioviaggio, affidabile (chissà il ritorno!).Aveva avuto due matrimoni, lui bianco, dapprima con unadonna bianca e poi con una nera, dalle quali aveva avutoquattro figli, due per ogni madre e quindi due per ogni co-lore o gradazione di colore della pelle.Due dei figli in particolare, se non ricordo male proprioquelli “colorati”, avevano dimostrato speciali capacità di ap-prendimento ed intelligenza tali da farli selezionare per lescuole “speciali”.La istituzione di scuole speciali per gli studenti più dotati èuna idea, più correttamente una ideologia, aberrante per lanostra cultura almeno da quando, non senza grande conflit-to, oramai da diversi anni si è riusciti a sopprimente le cosìdette scuole “differenziali” istituite, al contrario, per i menodotati o più genericamente per i “diversi” (disagiati fisici,psichici o più semplicemente e più diffusamente sociali).Ho avuto l’impressione che questa idea-ideologia sia rite-nuta in qualche modo aberrante anche per la cultura lati-na cubana e che sia stata invece una infelice imitazione diuno dei peggiori aspetti culturali del socialismo reale sla-vo (sovietico).Queste scuole di “cervelli”, grottesche emulazioni dellacreazione di una razza eletta di tragica memoria nazista,ancora esistono a Cuba ed i genitori dei prescelti, umana-mente e comprensibilmente, ne vanno un poco fieri.Ma non era questo l’argomento più interessante dei colloquicon il mio occasionale conducente.L’argomento sul quale più a lungo ci siamo diffusi è statoquello della figura e delle capacità manageriali del dott. Er-nesto Guevara, più noto con il soprannome del “Che”.

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Il cartografo cassaintegrato era un entusiasta ammiratoredel Che, ma non tanto per le sue mitiche e mitizzate doti dicondottiero rivoluzionario e ribelle o di affabulatore di gio-vani di tutto il mondo, quanto per le sue ritenute elevatissi-me competenze di studioso, teorico ed anche pratico eco-nomista (!?).Del Che il cartografo conservava e di quando in quando ri-leggeva, dispiacendosi di non averne purtroppo una copiaper me, un testo di economia che, a giudizio dell’ammirato-re, lo poneva ai vertici di tale scienza, avendo altresì il Chedimostrato una eccezionale competenza operativa nei primianni post rivoluzionari di ristrutturazione e rilancio del-l’economia cubana, anni nei quali, appunto, il Che ricoprivala carica di Ministro dell’Industria.Gira per Cuba un aneddoto, curioso quanto affettuoso peril rispetto della memoria di un personaggio al di sopra diqualsiasi critica, sulle circostanze in cui venne attribuita alChe la carica di Ministro dell’Industria.Si narra che un giorno tutti i capi dell’esercito ribelle eranoriuniti attorno ad un enorme tavolo, fumando, bevendo eparlando tutti insieme ad alta voce, quando qualcuno posela domanda su chi dei presenti volesse assumere la respon-sabilità del Ministero dell’Industria.Il Che che sedeva ad un capo del tavolo, forse distratto, for-se assordato da tanta confusione, alzo il braccio per chiede-re di ripetere la domanda che non aveva sentito; quell’alzatadi braccio venne invece interpretata come accettazionedell’incarico e così, in quel modo ed in quel singolare con-testo, il Che divenne il Ministro dell’Industria della nuovaRepubblica Socialista di Cuba!Non era, evidentemente, il suo “mestiere” e ben presto luistesso se ne rese conto tornando invece a svolgere quelleche erano le sue straordinarie competenze di ideologo e diguida dei processi rivoluzionari o quanto meno ribelli ditutto il mondo, cercando di conquistare quell’ “impossibile”che il coraggio e la fantasia possono e debbono perseguiree trovare nella politica, ma non certo nella più “piatta” ma

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inevitabilmente realistica e tecnica programmazione e ge-stione dei processi della produzione industriale.Debbo dire, con onestà, che tale era l’enfasi con cui il mioconducente esponeva le sue diverse convinzioni, trasmet-tendo una ammirazione ed un amore incondizionato per ilChe, che non me la sono sentita di contraddirlo, limitando-mi solamente a sorridere un poco ma dentro me.Peccato non avermi potuto regale una copia di quel testo otrattato!In verità io poi, per affettuosa curiosità, la ho cercata lunga-mente nelle innumerevoli bancarelle di libri di Avana, manon sono riuscito a trovarla.Così parlando, o forse meglio ascoltando, siamo infine giun-ti a Santa Clara, città dell’interno dell’isola oramai eterna-mente legata alla storia ed alla memoria del Che.A Santa Clara il Che guidò e vinse la battaglia cruciale dellaguerra rivoluzionaria, a Santa Clara sono oggi sepolti i restidel Che.Ho alloggiato nel mitico albergo Santa Clara, mitico perchédurante la rivoluzione venne adibito a quartiere generaledell’esercito di Batista e dopo la vittoria lo stesso Che viistallò il suo comando, dopo averlo conquistato, si narra,stanza per stanza.Ero l’unico turista straniero forse di tutta Santa Clara macertamente di quell’albergo come ebbe modo di confer-marmi l’addetta all’accoglienza che, rispondendo alla miadomanda sulla presenza di turisti stranieri, dopo averconsultato l’elenco degli ospiti, concluse: “Uno”, puntan-domi il dito.A Santa Clara, ancorché nei soli due giorni di permanenza,ho conosciuto dentro e fuori dell’albergo diversi cubanimolto interessanti e gentili, ma soprattutto ho visitato ilmausoleo, perché tale è, dedicato ai resti ed alla memoriadel Che.Il caso o la fortuna hanno voluto che io raggiungessi il mau-soleo dal dietro, accedendo dapprima al così detto sacrariodei resti ed al contiguo piccolo museo, e solo successiva-

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mente mi rendessi conto della, senza mezzi termini, mo-struosità del complesso visto dalla prospettiva frontale mo-numentale.Ma di questo parlerò poi, ora voglio provare a narrare etrasmettere l’emozione della visita alla tomba ed al museodel più grande mito della mia generazione e credo ed anzivedo ancora delle nuove generazioni di giovani europeisensibili alle idee, ai sentimenti, ai sogni ed alle illusionidella politica.“Le urne dei forti…” iniziava una poesia tanto odiata ai tem-pi di un insegnamento scolastico ottuso ed ipocrita, nel qua-le ancora dominavano le aberranti ideologie della patria,della famiglia e della religione di Stato e dunque i forti era-no quelli che enfatizzavano le doti superiori di una razzache ancora reclamava meriti e diritti di discendenza o di ge-nerosità divina.Un popolo di artisti, poeti, scienziati e navigatori, insediatonella penisola fiorita e profumata nel cuore del mare medi-terraneo, anzi, come ci insegnavano, del mare “nostro”, chepretendeva una visibilità, quanto meno europea, del tuttoinadeguata alle sue reali capacità e potenzialità.Un popolo amministrato da governi pronti a schierarsi coni primi prevedibili vincitori per raccogliere le briciole di con-quiste territoriali ed economiche; ieri qualche montagnacarsica, qualche deserto sabbioso o scoscese vallate balca-niche ed oggi, ancora oggi, appalti edili per ricostruire infra-strutture ed abitazioni prima sapientemente distrutte dabombe così intelligenti da sedere, prima o poi, nei consiglidi amministrazione delle imprese della ricostruzione.Altro che “forti”; un popolo, o meglio governanti scaltri ocosì secredenti, comunque sicuramente sensali intriganti,commercianti ed arrivisti, ipocriti farisei avrebbe detto“qualcuno”.Ma le “urne dei forti” indubbiamente esistono e quando siincontrano se ne sente, profonda e persino violenta,l’emozione.Entrando e sostando per i pochi minuti emotivamente so-

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stenibili nel piccolo vano nel quale si dice (non importa laverità materiale) siano sepolti i resti del Che l’emozione èstata forte, profonda, coinvolgente, un brivido che, accom-pagnato dal freddo intenso dell’impianto di condiziona-mento, mi ha percorso inatteso la schiena sino alla puntadelle dita delle mani bloccate ed incapaci di scattare foto-grafie tanto inopportune quanto inutili perché non in gradodi rendere sulla pellicola o sulla carta la vibrazione di quellaemozione.Il Che non è certamente lì, come lì non ci sono i suoi tanticompagni di vita e di lotta caduti con lui, per lui o comun-que dietro il suo incitamento ed esempio.Il Che ed i suoi compagni non ci sono più, non sono in nes-sun posto del mondo, oppure al contrario sono dovunque enon sono mai morti come i loro ideali, i loro esempi, la loromemoria che sopravvive e prosegue e si rigenera, generazio-ne dopo generazione in una ricerca che non è mai finita, nemai finirà.Eppure quel simulacro, pieno o vuoto non importa, fissa unpunto nello spazio e nel tempo del quale la nostra naturaterrena e materiale, a dispetto del predominio dell’astrazio-ne della mente (o dell’anima per chi ci crede o comunque sivoglia chiamare la parte immateriale del nostro essere), habisogno e subisce il fascino calamitante e rigenerante.Il “mito” esiste, o almeno è esistito, è reale, è di questa terra,non è solo illusione, creazione astratta della mente, dunquesi può rivivere e riprodurre; l’impossibile nasce dal possibilee dunque tale può prima o poi divenire.Divinità che si incarnano, madonne che appaiono, statueche piangono, mani che sanguinano sono esigenze di con-cretezza che anche la più illusoria delle astrazioni, la fedenel divino, ha di quando in quando bisogno di rendere con-creta, reale, tattile come il mondo che ci circonda e nel qualesiamo destinati a vivere.Dunque è vero le “urne dei forti” servono, hanno la funzio-ne di dare concretezza ed attualità visiva e tattile alle idee,ai sogni, alle speranze; servono a creare di quando in quan-

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do quel punto-momento di contatto tra fatti ed idee che re-stituisce alle seconde la misura dell’umano terreno.Il piccolo museo adiacente al sacrario è forse la realizzazio-ne museale più corretta, opportuna e sintonica all’emozionedella previa visita alla tomba che abbia mai avuto la fortunadi incontrare.Piccolo, misurato, semplice e niente affatto celebrativo cosìcome la figura o l’immagine che noi abbiamo del Che.Piccoli oggetti personali in grandissima parte d’uso del tut-to comune, di nessun valore se non quello di essere statinelle mani o nelle tasche del Che nel periodo più caoticodella guerriglia nella Sierra.Una serie di strumenti di chirurgia dentistica che il Che, me-dico di discutibilissima esperienza, utilizzava nella Sierraper trapanare o strappare qualche dente a dei poveri barbu-dos malcapitati nelle sue mani.La giacca, soprattutto, la mitica giacca verde a bande nerecon la chiusura lampo centrale che il Che indossava nellapiù diffusa delle sue foto; piccola, vista dentro una vetrinasul busto di un manichino, umana, semplice, terrena; sem-bra quasi che la abbia appena posata, che lui sia lì neipressi, che tutto sommato la si possa prendere, misurareed indossare.Sì il museo giusto; il museo non di un eroe mummificatocome le raggelanti salme di Lenin o di Mao per chi le ha vi-ste, ma il museo del “comandante amico” come lo ricorda-no le più belle delle iscrizioni murali a lui dedicate in tuttal’isola.Al di sopra, l’orrore di un monumento al “milite ignoto”.Uscendo dal museo e salendo al livello superiore verso ilfronte del mausoleo appare la sorpendente sconfinata diste-sa di un piazzale pavimentato con disegni geometrici, pron-to ad accogliere masse di visitatori-turisti (nazionali o inter-nazionali il concetto è lo stesso), discesi in fila ordinata da-gli autobus anch’essi allineati negli appositi spazi di par-cheggio, macchine fotografiche alla mano, pronti ad immor-talare la visita domenicale al nuovo sito celebrativo.

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Sopra alle piccole stanze del sacrario e del museo si svilup-pa una struttura emiciclica sormontata al centro, su di unpiù alto piedistallo, dalla statua bronzea di un guerriero, unsoldato che avanza aggressivo, mitra in mano.Non è il Che! Quel guerriero, quel soldato non è il Che!Mai, in nessuna foto della sua pur ricchissima iconografia ilChe è apparso con una arma in mano!Il Che era un rivoluzionario, più probabilmente un ribelle,sicuramente un combattente e tale è caduto nell’imboscataboliviana, ma mai è stato un militare e dunque mai il suostrumento prediletto è stata un’arma.Un sigaro, un libro o una boraccia, magari anche una mazzada golf giocato in tuta da barbudos e scarponi da sierra aipiedi, ma mai e poi mai con una arma in mano.La rivoluzione si fa con le armi, non v’è dubbio, e con learmi la si difende quando i terroristi nord americani ten-tano di soffocarla, ma le armi poi vanno immediatamentedeposte perché il socialismo lo si costruisce con le maninude ed aperte, specchio di una analoga apertura di men-te e di spirito.Fare del Che un soldato è l’operazione più aberrante che ab-bia mai visto e stupisce, di più stordisce che la stessa siastata fatta proprio a Cuba.E’ una operazione di revisionismo storico e politico che nonpuò essere accettata al rischio di degradare davvero la figu-ra universale, interetnica ed intergenerazionale, del Che adun piccolo combattente di una piccola rivoluzione in unapiccola isola persa nel mare dei carabi.Se mai andrete a visitare Cuba, non andate per nessuna ra-gione al mausoleo di Santa Clara, di vergognosi monumential milite ignoto ne abbiamo a iosa in ogni paese occidentale,già bastano!

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ORESTE

“La piccola impresa nel socialismo reale”

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Di Oreste avevo già sentito parlare nel mio primo viaggio aCuba, ma non come pensionato, benché tale fosse già allora,bensì come piccolo imprenditore emergente grazie alla suainiziativa, all’intuito, in sostanza alla sua capacità e volontàdi lavorare dopo quel minimo di piccola liberalizzazioneeconomica che era stata consentita dal governo cubano neldisperato tentativo di contrastare la gravissima crisi econo-mica che aveva fatto seguito alla improvvisa cessazione de-gli aiuti elargiti dall’Unione Sovietica.Pur senza un vero e proprio programma di così dette (alme-no da noi) liberalizzazioni, il governo cubano aveva di fattostimolato l’intraprendenza dei propri cittadini invitandoliad “ingegnarsi” a produrre qualsiasi cosa (bene) comunquemancante o insufficiente, limitandosi ad imporre un obbligodi sola comunicazione e la “gabella” di una imposta fissaall’erario.La liberalizzazione aveva prevalentemente interessato i set-tori dei servizi legati al turismo quali la ristorazione (i “pa-radar” ristoranti privati) o l’alloggio (le case “particolari”),nonché in qualche misura anche i trasporti (taxi a percen-tuale tra conducente e Stato; camion trasformati in auto-mezzi da trasporto collettivo, ecc.), ma qualsiasi iniziativaera comunque benvista e benvenuta, purché ovviamente co-municata e controllata.Oreste, operaio pensionato da tempo ma ancora vivace edin ottime condizioni di fisico e di mente, non aveva persotempo e rapidamente aveva sospeso, o quanto meno ridi-mensionato la sua passione per la poesia alla quale si eradedicato dopo il pensionamento, ed aveva approntato unaofficina per la produzione di camere d’aria rigenerate perbiciclette.La crisi economica che tra l’altro o forse prima di tutto siera accanita sulla già cronica carenza della fonte energe-tica petrolio, aveva riportato il mezzo di trasporto a mo-torizzazione umana, la bicicletta, in primo piano, stimo-landone le fantasiose versioni della “due posti” (secondosellino sulla ruota posteriore con pedaliera sul mozzo), e

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persino a “tre posti” con l’aggiunta di un carrozzella late-rale a mo’ di sidecar.Tuttavia anche per questo mezzo di trasporto si eranoben presto manifestate carenze di pezzi di ricambio e spe-cialmente di camere d’aria che le pessime condizioni dellapavimentazione stradale cubana ed il sovraccarico umanoe di merci, avevano sottoposto ad un superuso fortementeusurante.Allora Oreste aveva aguzzato l’ingegno ed aveva ideato laproduzione di camere d’aria super resistenti ai sovraccari-chi realizzate utilizzando pezzi di camere d’aria di camion,assai più spesse e robuste.Ritagliando i residui di camere d’aria scoppiate di mezzi pe-santi, Oreste aveva poi ideato un sistema di vulcanizzazio-ne utilizzando due ferri da stiro elettrici, completando iltutto con le valvole di gonfiaggio anch’esse recuperate dallecamere d’aria rottamate dai mezzi pesanti.In sostanza una camera d’aria persino più robusta deglistessi copertoni esterni, invulnerabile alle buche ed a tuttele possibili insidie del dissesto stradale e delle scarsa puli-zia della viabilità urbana ed extraurbana.Un successo strepitoso mi si diceva nel racconto di quel mioprimo viaggio, una impresa florida in grande espansione, unvero miracolo di imprenditoria privata.Ho poi avuto modo di vedere lo “stabilimento” dell’im-prenditore Oreste, lo ho anche fotografato, ora provo adescriverlo.Avete presente un capanno di fondo cortile per la rimessadegli attrezzi da giardino, fatto di assi di legno più o menosconnesse, con solo tre lati chiusi e quello più lungo sulfronte totalmente aperto (tanto a Cuba non piove quasimai), con dentro un tavolaccio a metà tra falegnameria ebanco di lavoro di un meccanico, un paio di fili elettrici vo-lanti da cui pendono le spine per l’allaccio dei ferri da stiro,una morsa e non so cosa altro, ma comunque molto poco.Ebbene questa era l’impresa industriale del pensionato Ore-ste; dipendenti addetti uno solo: lui; all’occorrenza l’aiuto

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della moglie anche lei vivacissima pensionata dedicatasi in-vece alla pittura.Dimenticavo, anche una tinozza con l’acqua per le ricerchedelle forature o le prove di tenuta delle valvole di gonfia-mento delle camere d’aria.Comunque Oreste, ed alcuni sui parenti beneficiati dal nuo-vo benessere dell’ex pensionato, era giustamente orgogliosodella sua impresa dalla quale ricava un reddito, netto del-l’imposta reclamata dallo Stato, enormemente superioreall’importo della sua pensione con la quale, peraltro, sinoad allora aveva tranquillamente vissuto avendo tempo emodo di dedicarsi alla sua passione per la poesia.La pensione di Oreste era ed è, tradotta in dollari, di circa 6dollari al mese; sì 6 è giusto, 6 dollari al mese.Ma la misura di conto del dollaro nord americano non ha al-cun rilievo e persino alcun senso nella Cuba non diretta-mente interessata dal turismo straniero, dove vige il corsodella moneta cubana.Oreste ha una casa adeguata alle esigenze sue e della suamoglie; acqua, luce e gas di fatto gratuiti; la “libretta” per igeneri di prima necessità distribuiti dallo Stato gratuita-mente ed in misura uguale per tutti; assistenza sanitaria as-sicurata e gratuita; trasporti a prezzi simbolici; ed infine peril suo hobby, nonché per quello della moglie, l’accesso allaCasa della Cultura locale con biblioteca, mezzi, corsi, con-ferenze, ecc.Ma Oreste piccolo imprenditore lanciato dalla liberalizza-zione del “periodo speciale” ha vissuto un periodo digrande attività e di parimenti grandi risultati economici,paragonati ovviamente alle sue ordinarie condizioni dipensionato.E’ stato un periodo bellissimo, racconta, poi improvvisa-mente finito, putroppo, tutta colpa dei cinesi.Un milione di biciclette nuove di zecca e tanti, tanti pezzi diricambio, copertoni, camere d’aria e quant’atro.Questo è stato uno degli aiuti che la Cina ha improvvisa-mente elargito allo Stato cubano in aiuto alla sua lotta con-

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tro l’imperialismo degli “yanques” e la violenza del loro“bloqueo” (embargo).Un milione di biciclette, un milione di televisori, diverse mi-gliaia di computer, ma questi in verità sono stati donati dalVietnam che, uscito dalla immane tragedia di due guerre dioccupazione e di aggressione dapprima francese e poi nordamericana, si permette ora di aiutare il popolo cubano aven-do raggiunto la capacità di produrre persino computer enon solo riso!E Cuba accetta, e come se accetta, anzi reclama come giustocontributo alla sua infaticabile ed eroica lotta contro il “mo-stro” nord americano, e poi c’è anche qualcuno che tuttosommato si lamenta un poco perché quando è troppo ètroppo.Un milione d’altronde è l’unità di misura minima del siste-ma di conto cinese che muove dal numero di un miliardo diabitanti, cinese più cinese meno.Vedendo le file dei cittadini cubani in lista per la assegna-zione delle biciclette e più ancora dei televisori cinesi, ve-dendo la distruzione in meno di un anno (questo lo ho po-tuto constare di persona tra un viaggio e l’altro) del puregrande numero di biciclette elettriche donate dai cinesi alpopolo cubano, monta un poco di sentimento di disappun-to, pensando e paragonando chi passeggia al sole e lungo ilmare, balla, canta, suona ed in qualche modo vive la propriavita al meglio del possibile, scrivendo poesie, dipingendoquadri, assistendo a spettacoli teatrali ed a conferenze sututto e di tutto e chi invece, chiuso in qualche opificio cer-tamente ben lontano delle condizioni di sicurezza e di tute-la della salute alle quali siamo abituati in occidente, vive elavora come una formica senza mai alzare la testa e man-giando prevalentemente cavoli e giù di lì.Poi però appaiono le immagini dei nuovi “yuppies” delleborse orientali emergenti, con i volti gialli e gli occhi a man-dorla, vestiti di blu in giacca e cravatta e magari infilatonell’occhiello della giacca il distintivo del partito comunistacinese, immagini di grattaceli che salgono senza criterio e

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pianificazione ambientale e sociale, immense migrazioni in-terne, campagne devastate e desolate, l’immagine in sostan-za di un modello di crescita mostruoso quanto la sua paro-dia dell’occidente capitalistico.Quanto lontana appare la vicenda di Piazza Tien An Menquando un carro armato dell’esercito popolare cinese si ar-restò davanti ad un singolo mitomane esaltato che gli sbar-rava la strada, incapace di procedere contro un cittadino,qualunque e chiunque fosse in quel momento e contesto,comunque un componente di quel popolo che lui (gli uomi-ni dell’equipaggio del carro armato, i membri cioè dell’eser-cito popolare) era stato addestrato, educato, quasi condizio-nato a difendere e servire (termine orribile, ma pertinenteall’enfasi della vicenda) e mai e poi mai ad aggredire.La grandiosità di quell’immagine, di quel carro che avanzaa salti come ubriaco e poi si ferma e si spegne, di quel capocarro che quasi prega il mitomane di togliersi dalla strada eche poi non sa cosa fare e non riceve evidentemente neppu-re ordini superiori, perché non possono esserci ordini con-tro il popolo in un esercito creato e formato dal popolo eper popolo.Ben diversa la vicenda dei nostri carabinieri fedeli nei secoliad ogni regime, sia esso così detto democratico o dichiara-tamente dittatoriale, sempre pronti ad eseguire, anzi persi-no ad anticipare gli ordini dei padroni, sparando sui ragazzidel Ponte Garibaldi (anzi “Masi”) o di Genova, e prima diReggio Emilia, e prima ancora alle spalle dei ragazzi soldatiche arretravano dai massacri delle trincee delle guerre deipadroni, dovunque e comunque un cittadino osi esprimereil suo dissenso, la sua disobbedienza.Oggi gli yuppies dell’emergente apparentemente inarresta-bile economia capitalistica cinese stano cancellando l’ideastessa del comunismo, neppure curandosi di rinnegarne ilnome così come hanno fatto i loro omologhi russi che han-no direttamente consegnato il paese nella mani della mafia.Nel gioco del dominio economico del mondo la Cina puòben permettersi di elargire un piccolo aiuto alla parimenti

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piccola repubblica cubana che si oppone, nei limiti parados-sali della lotta di un topo contro un elefante, all’egemonianord americana.E dunque in tale contesto ben fanno i cubani ad accettare ta-le aiuto, falso e strumentale, ed a consumarlo così come cre-dono senza rimorsi né vergogna.A Cuba non ci sarà mai un esercito che spari sui propri cit-tadini, non ci saranno yuppies della borsa valori; ci sarà ma-gari inefficienza, pressappochismo ed un poco di parassiti-smo, ma questi sono mali assai meno gravi, quasi modesti,comunque emendabili.Intanto Oreste ha ricominciato a scrivere le sue poesie, aleggere, ad assistere a conferenze.Chi può dire se più avanti, quando saranno scoppiate tuttele camere d’aria delle biciclette cinesi, non ci sarà di nuovonecessità di riattivare l’originale produzione “autoctona”cubana, Oreste l’officina la tiene efficiente e pronta.

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GUANTANAMERA

“Il rally dell’oriente. Primi!”

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Guantanamera, come sanno quelli che conoscono la celebrecanzona cubana, è la strada che conduce a Guantanamo, cit-tadina dell’estremo oriente dell’isola di Cuba.Per me la “guantanamera”, in quest’ultimo quarto viaggio aCuba, è stata la strada della vittoria della gara di rally piùdura e combattuta che abbia mai avuto l’occasione di corre-re in vita mia.Un’ora scarsa dal via all’aeroporto di Santiago sino al tra-guardo all’uscita per il centro di Guantanamo della “autopi-sta”, come si chiama a Cuba una specie di stradone più omeno asfaltato, un poco più largo di una strada normale,ma decisamente più sconnesso, accidentato ed insicuro.All’arrivo al controllo cronometrico di Guantanamo, sullapiazza principale della cittadina, sono sceso dal mio postodi navigatore, ho messo i piedi saldamente a terra, ed alzan-do le braccia al cielo ho infine gridato “Primi!” (anche se inverità dietro di noi non c’era proprio nessuno).Maledetto pilota! Maledetto Osvaldo!(Ma questo non glielo ho detto, almeno non in questi ter-mini).Un’ora o giù di lì aggrappato a due mani al maniglione anti-panico sopra la portiera di destra, con ambedue i piedi pun-tati, anzi piantati sulla parete frontale della cabina, gli occhisbarrati sulla strada per cercare di individuare per tempo lebuche o i dossi più grandi, quelli che facevano saltare il vei-colo come una moto da fuoristrada, e soprattutto lo stoma-co non più in gola ma oramai decisamente nel cervello!Maledetto Osvaldo! (di nuovo)E non è stato l’unico record.Il mezzo di gara era (niente meno che) un camioncino datrasporto promiscuo, opportunamente appesantito da sac-chi di pietre sul cassone posteriore per attutire i sobbalzi,sospensioni neppure a parlarne, e per fortuna altrimentiavremmo rischiato di arrivare sulla luna in qualche salto,senza necessità di propulsione all’idrogeno.Ma non c’è stato nulla da fare; inutile protestare, vomita-re (o giù di lì), cercare di spiegare, dialogare col pilota sca-

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tenato.Osvaldo si dichiara italiano ed amante della musica italiana,ma è evidente che non conosce la canzone di Lucio Battisti:“...si viaggiare, dolcemente viaggiare evitando le buche piùdure...”.Per lui viaggiare significa partire ed arrivare; nel mezzo ilnulla!E se ci sono le buche o dossi?Peggio per loro, lui non gli da nessuna confidenza, cioè pro-prio non li vede!Nessuna esagerazione: 140 all’ora, magari non di media macon punte ripetute; decisamente troppo.Per dare un’idea, 140 all’ora sull’autopista cubana equival-gono, senza esagerazioni, ad almeno 280 su di una auto-strada italiana, fermo restando il mezzo, cioè un camionci-no per trasporto promiscuo!E’ vero che a Cuba non c’è un grande traffico, ma le piantece ne sono e tante e stanno ferme ed immobili lì come qui.Insomma, davvero una avventura da non ripetere mai piùnella vita.Eppure nella scabrosità del territorio molto sassoso, brul-lo e poco fertile, di momenti e situazioni interessanti cene erano.Le coltivazioni di canna da zucchero a perdita d’occhio, conla raccolta in corso.Di quando in quando, folti gruppi di braccianti al lavoro o(più spesso) al riposo sotto l’ombra di giganteschi (e perico-losissimi) alberi con un chioma grande come una piazza.Mezzi meccanici e di trasporto collettivo delle più varieforme, utilizzazioni e, credo, noie meccaniche, dato ilgrande numero di cofani aperti e sotto, o praticamentedentro, una infinità di meccanici e curiosi d’ogni razza ecolore a cercare di scoprire l’arcano forse più che il gua-sto, perché molto spesso solo un miracolo avrebbe potutofar ripartire quei “cosi”.E poi tante persone in marcia o ferme ai numerosi incroci inattesa e speranza (“esperando”) di un passaggio qualsiasi.

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Ma tutto questo, purtroppo, è andato perso “come lacrimenella pioggia”; non c’è stato il tempo per vedere, parlare, fo-tografare; l’importante non era “viaggiare”, ma “arrivare”.Infine, almeno, siamo arrivati, sani e salvi e poi siamo anchetornati e questo racconto ne è la prova e la memoria.Ciao Osvaldo! Non mi ci … più!

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SANTIAGO

“La città degli aquiloni”

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“Ribelle ieri, ospitale oggi, eroica sempre”Questa è Santiago di Cuba, capoluogo dell’oriente più nero,più povero e più popoloso, ma anche della parte più profon-damente cubana dell’isola e la più fedele alla rivoluzione so-cialista che proprio qui, prima con il tentativo fallito dell’as-salto alla Caserma Moncada e poi con lo sbarco dei ribellinella Sierra, ha visto il suo inizio.Da questa città Fidel annunciò 44 anni fa la caduta della dit-tatura di Batista e la vittoria della rivoluzione, allora non an-cora dichiarata alla matrice ideologica comunista.In verità quando l’esercito ribelle entrò in Avana Batista sene era già andato da quattro giorni, il regime era definitiva-mente collassato ed i cittadini “avaneri” stavano impazien-temente aspettando, tra curiosità e preoccupazione, di ve-dere in viso i famigerati “barbuti”, per capire o almeno cer-care di immaginare cosa sarebbe successo del loro futuro,per chi auspicatamente in meglio e per altri inevitabilmentein peggio.Erano mille, uno più uno meno, i ribelli realmente in armi almomento della conquista del potere, ed in tanti avevanosconfitto un sistema evidentemente già sull'orlo del collas-so politico ed economico, devastato dalla corruzione dellamafia soprattutto ebrea ed italiana che aveva fatto di Avanala propria base logistica per il nord america.Mille e neppure tutti cubani su di una popolazione che am-montava a circa 11 milioni di abitanti, mille più mille meno.Mille ribelli, tre comandanti, oltre il fratello minore del co-mandante in capo, questo esercito, o forse più correttamen-te questo gruppo, 44 anni fa ha fondato quello che oggi vie-ne considerato l’ultimo stato socialista (o comunista) delmondo.D’altronde mille erano, una più una meno, le camice rosseche circa 150 anni fa avevano fatto crollare ed avevano mo-mentaneamente conquistato il Regno delle due Sicilie.Solo che in quel caso ad attenderli alla fine del percorso vit-torioso non c’era una popolazione perplessa e curiosa, maun esercito di mestiere molto meglio armato e pronto e de-

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terminato a spazzare via le camice rosse se non avesseroimmediatamente consegnato armi e potere.La maggiore intelligenza politica di un piccolo piemontesemiope impedì allora la costituzione nell’Italia meridionaledi una repubblica forse popolare, certamente laica per nondire atea; la ben più grave miopia politica dei nord america-ni impedì invece loro di prevedere, 100 anni dopo, quellache sarebbe stata la inevitabile evoluzione politica della ri-voluzione castrista.Poche avanguardie, tra pazzi, avventurieri ed eroi e dietroloro il progetto di un cambiamento dell’ordine delle cose inun percorso di coinvolgimento, condivisione e partecipa-zione ampio, generale e radicato.A 44 anni dal trionfo della rivoluzione non sembra purtrop-po che questo progetto sia stato realizzato dal socialismoreale cubano.Più che su di un radicamento compreso e condiviso del pro-getto di comunità socialista, il sistema cubano sembra in-fatti reggersi su di una singolare miscela ed integrazione dielementi culturali e sociali apparentemente tra di loro tantodiversi.Il fedele oriente cubano non è certamente socialista, verosi-milmente è “castrista”, sicuramente è creolo, vivo, vivace, al-legro e vitale.Emancipato grazie alla rivoluzione da condizioni di miseriaed iniquità sociale indescrivibili ancora negli anni 50, con-divide la consapevolezza di un oggi vivibile, almeno e cosìcome è possibile giorno per giorno, o meglio canzone dopocanzone con la musica che fuoriesce ad altissimo volume edininterrottamente da tutte le case, coprendo persino il ru-more del traffico cittadino.Santiago è una città sorprendente per Cuba e forse per gliinteri caraibi, proprio perché è una città, così come la si in-tende almeno in Europa.Avana, a parte il quartiere della città vecchia di origine econformazione spagnola di stile coloniale, ha un impiantourbanistico decisamente nord americano, non messo in di-

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scussione ma persino in qualche modo accentuato dagli in-terventi funzionali o celebrativi e rappresentativi del nuovoregime socialista.Santiago risente invece manifestamente dell’influenza dellacultura anche urbanistica francese, portata in questa parteorientale dell’isola dalla borghesia di origine e cultura fran-cese profuga dalla vicina Haiti.A Santiago molte parole, cognomi e definizioni geografichee toponomastiche mantengono il caratteristico accentosdrucciolo francese; così si dice Haitì per l’isola, Tivolì perun quartiere centrale, Bacardì per il fondatore della celebrecasa del rum oggi rinominata Havana Club.Distribuita su alcune colline prospicienti il mare, anche sepriva di un vero e proprio porto alla maniera mediterranea,è ricca di saliscendi anche ripidissimi, alcune volte interrottida scalinate inattese ed improvvise.Pur caratterizzata da un impianto stradale di disegno geo-metrico, non mancano vicoli contorti e ciechi, piazzette ebelvederi a vari livelli verso il mare o l’interno dell’isola ca-ratterizzato dai profili montuosi della Sierra Maestra.Residui di percorsi tranviari fittissimi nella parte più cen-trale della città danno l’idea di un dinamismo urbano al-trove sconosciuto nelle larghe vie carrabili all’uso nordamericano.Al contrario a Santiago le vie sono tutte strettissime, neces-sariamente a senso unico, con marciapiedi ovunque presen-ti in evidente memoria della protezione dai percorsi deitram ed oggi utilissimi per salvarsi dal transito dei camiondi trasporto collettivo non meno ingombranti, rumorosi epericolosi degli antichi tram, ritengo, spariti da tempo ora-mai immemorabile.Quel che colpisce di Santiago è l’impressione che tutti gliabitanti siano sempre e tutti insieme in strada.Il traffico pedonale sugli strettissimi ed altissimi marciapie-di è infinitamente più intenso di quello veicolare sui ripidisaliscendi urbani.Fatta eccezione della piazza centrale intestata alla Cattedra-

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le cattolica, luogo riservato quasi interamente ai turisti ditransito in “caccia” (attiva o passiva) della “mulata” quinell’oriente decisamente più “nera”, il resto della città è in-teramente ed esclusivamente popolato e vissuto dagli abi-tanti di Santiago, pieno di numerosi ristoranti in pesos cu-bani, di case della “trova”, di scuole e ritrovi di danza, ecc.La situazione non cambia se dal così detto centro storico cisi sposta nella immediata periferia di più recente edificazio-ne; i “santiagheri” sono tutti per strada, a comprare o ven-dere qualsiasi cosa di commestibile, e tanti, davvero tanti aformare file lunghissime, disciplinatissime che nel frattem-po costituiscono, per quel che è possibile capire vedendole,luoghi sostanzialmente di incontro, dialogo, allegria e so-prattutto musica, a tutto volume, in qualsiasi punto dellacittà e sempre rigorosamente cubana e ballabile.La stessa edilizia popolare di recente ed evidente costru-zione socialista appare lontanissima dagli schemi geome-trici e freddi del socialismo reale dell’Europa orientale, edanzi assai prossima alla caoticità della nostra edilizia pub-blica o cooperativa assistita post bellica, quasi che anchequi vi sia stato un problema di speculazione dei terreniedificabili, circostanza che paradossalmente imprime allaperiferia una idea di maggiore umanità, se non proprio divivibilità europea.E’ chiaro però che anche Santiago, centrale o periferica, nonsi sottrae alla generale e generalizzata condizione di degra-do indotta dalla storica povertà dell’isola ed accentuata dalpiù recente collasso economico conseguente alla caduta deisistemi del socialismo reale europeo che ha dato inizio aquello che i cubani chiamano eufemisticamente il “periodospeciale”.Immense buche stradali, sgretolamenti di facciate e recin-zioni, voragini urbanistiche generate dal crollo di interi edi-fici con le sole facciate su strada ancora coraggiosamente inpiedi, forse tenute su dalla vegetazione spontanea più chedalla consistenza residua delle colonne portanti in grandis-sima parte in legno.

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Santiago tra l’altro è una città singolarmente fiorita rispet-to alla generale mancanza di colori che caratterizza le ri-gogliosa vegetazione tropicale e, soprattutto, è una cittàprofumata.Diversamente dalla più intensa pesantezza del clima diAvana qui l’oceano manda una brezza continua, ma legge-ra, fresca e profumata quasi come quella di un mare me-diterraneo.Negli stretti saliscendi della città esplodono poi continua-mente fortissimi profumi di rabarbaro e di caffè, molto ra-ramente sopraffatti dagli odori della cucina caraibica di frit-tura di pollo o di maiale.Il sabato sera, ogni sabato sera che l’anno manda, ricorreimmancabile il rito della festa creola, giusto ed irrinuncia-bile premio ad una settimana di lavoro, lotta ed infaticabileimpegno rivoluzionario, perché, ammoniscono innumere-voli iscrizioni distribuite per tutta la città, “rivoluzione è co-struire”!Le strette strade si bloccano quasi, il quasi è d’obbligoperché qui non esiste una idea di isola pedonale e dunquesempre e comunque, anche nel massimo caos possibile dipersone per strada, c’è sempre un veicolo che deve pas-sare proprio di lì e si tratta quasi sempre di un gigantescocamion.All’inizio della festa creola, o “criola” come loro la pronun-ciano, su improvvisati bracieri ricavati da bidoni di latta ta-gliati a metà in linea verticale, vengono arrostiti e serviti, difatto gratuitamente, un grandissimo numero di veri e proprimaiali più che maialini; da enormi cisterne apparentementeper il trasporto di gasolio, caricate su altrettanto immensicamion, viene distribuita quasi a pioggia birra a volontà.E poi, ovunque e dovunque, musica, musica cubana, ritmica,continua, inarrestabile e soprattutto fortissima.E’ sorprendente vedere nelle case della cultura, totalmenteaperte sulla strada, gruppi musicali foltissimi composti daipiù diversi strumentisti e vocalisti, apparentemente improv-visati ma dotati di capacità tecniche notevoli e soprattutto,

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almeno agli occhi di un più fragile occidentale, di una resi-stenza fisica incredibile.Tutto ciò con una allegria e che trasmette una gioia di vivereper così dire assoluta, del tutto indipendente e niente affat-to condizionata dalle oggettive condizioni economiche e so-ciali del contesto circostante.Alle pareti della sala di musica appaiono ovunque affissi in-numerevoli attestati di meritevolezza della istituzione cul-turale, dei suoi dirigenti o animatori, degli stessi musicisti,tutti premiati per avere con il loro impegno difeso e soste-nuto lo spirito eroico della città ribelle, delle sue tradizioniculturali, della sua anima socialista, della sua invincibile re-sistenza all’imperialismo “yanqui” ed infine (e perché no!)oggi anche per la pace nel mondo.“Così è Cuba”; si dicono da soli gli stessi cubani.Viene allora da pensare che in effetti questo sia il segreto, ilsenso e l’anima profonda dell’originale ed unico socialismocubano: una fusione, una miscela, una riuscita mescolanzadi sogni ed ideali di socialismo e socialità, con la naturaleforza vitale di per se stessa socializzante dell’anima carai-bica, che quasi geneticamente contrappone come antidotoal grigiore, alla violenza, alla depressione dell’individuali-smo occidentale anglosassone e nord americano, la vogliadi vivere per godere, così come si può, ma tutti insieme inallegria e promiscuità di razze, culture e sessi, della bellez-za e della ricchezza della natura.Oggi a Santiago è giorno di acqua, nel senso che oggi l’am-ministrazione dell’acquedotto ha immesso un poco dellemodeste riserve di acqua nelle condutture cittadine.Lo si vede e lo si capisce dagli spruzzi e dalle pozzangherepullulanti che si formano un po’ ovunque dalle innumere-voli falle del fatiscente impianto idrico cittadino.Ma nulla sembra andare sprecato perché ad ogni spontaneasorgente di acqua viene data una opportuna destinazioneed utilizzazione: secchiate di acqua che escono dai lavaggidei pavimenti delle case a livello strada, lavaggi in strada diautomobili e di qualsiasi altro bene, improvvisate piccole pi-

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scine nelle grandi buche stradali per i bambini.Ma intanto nel cielo sempre leggermente ventoso volano unnumero infinito di piccoli aquiloni di carta e dall’altro capodel filo verso terra spesso sorprende di trovare non solo deibambini ma anche degli adulti abbastanza cresciuti.Se si ha il coraggio, camminando, di alzare ogni tanto gli oc-chi da terra fissi ad individuare per tempo le innumerevolibuche che accidentano ogni strada e maciapiede, allora èpossibile notare l’incredibile numero di vecchi aquiloni im-pigliati, anzi catturati, dalla fitta ragnatela dei fili elettricidelle vie urbane.Decine, centinaia, forse migliaia di giochi di bambini e di uo-mini con spirito ancora vivo e vivace persi nei fili dell’elet-tricità o dei telefoni.Viene voglia di pensare che in verità quegli aquiloni non so-no stati catturati dal ragno elettrico e persi, ma che al con-trario siano stati lasciati, lanciati dai loro padroni verso ilcielo, per portare lassù, più in su della attuale oggettiva po-vertà di quella terra, la tensione e la propensione del popolocreolo alla voglia di vivere e di giocare.Santiago è una città di colline tra terra e mare percorsa dauna anima creola che tende irrefrenabilmente verso il cielo.Questa potrebbe essere, in ultima analisi, l’essenza dell’ori-ginale socialismo reale cubano, ma anche in fondo in fondodi ogni ideologia che ponga al fondo dei suoi obiettivi la rea-lizzazione di sogni: immaginare un futuro ideale ed impos-sibile, ma intanto vivere il presente con energia, allegria eforza vitale.Se poi si riesce anche a credere che il presente sia diversodal reale e che quel che non va o che manca è solo il fruttodi una sfortunata (“diabolica” come dicono i cubani nel loroidioma spagnolo) circostanza del tutto involontaria e co-munque temporanea, sicché non basta che attendere pa-zientemente perché tutto cambi e si risolva per il meglio, vi-vendo intanto l’attesa in allegria, allora davvero l’impossi-bile si è realizzato.Vedendo, girando, in qualche modo “studiando” Santiago,

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le sue condizioni socio-economiche e lo spirito che trasparedai visi, dai gesti e dalle parole della sua popolazione, si puòallora capire perché il crollo del socialismo reale dell’orienteeuropeo, che ha completamente devastato i sistemi di vitasociali, economici e culturali di quei paesi, di gran lunga piùsviluppati, ricchi ed attrezzati, qui a Cuba è passato senzadanni eccessivi, certamente al prezzo di grandi sacrifici chehanno toccato i livelli della vera e propria carestia, ma è co-munque passato, lasciando indenni non solo il così detto re-gime, ma il clima sociale, la cultura, la coscienza, in una pa-rola il modo di vivere dei cubani acquisito dopo il trionfodella rivoluzione di 44 anni or sono.Il sole c’è, il mare c’è, da vivere e mangiare almeno un pocoper tutti c’è, la voglia di vivere, suonare e cantare c’è; c’è so-prattutto ed infine la convinzione di essere in un paese aivertici del mondo, bensì con qualche problema neppure pic-colo, ma sulla giusta strada, come dire:“Hasta la victoria, siempre!”Fino alla vittoria, che ci sarà sicuramente, sempre!

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RENAN

“Adelante cubanos!”

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Renan è un giovane ingegnere elettronico cubano che lavorapresso l’Amministrazione Provinciale, il “Poder Popular”,applicato ai rapporti con una organizzazione di cooperazio-ne internazionale italiana.E’ bianco di pelle con occhi chiari, alto e longilineo da sem-brare assolutamente fuori luogo nel “nero” oriente cubano.E’ talmente silenzioso e riservato da sembrare quasi assentee distaccato.Ma Renan è soltanto molto educato e quando finalmente in-terviene e parla esce fuori la sua anima comunicativa latina,manifestazione di una disponibilità di amicizia forte, disin-teressata e sincera.In qualche modo Renan è un “prodotto” emblematico del si-stema di socialismo reale cubano.Nato in una piccola città dell’estremo oriente cubano è sta-to allevato da una madre brava ed in gamba come tutte ledonne cubane, nel più o meno completo disinteresse delpadre presto scomparso per altri rapporti coniugali o simi-lari, a seminare altri figli dei quali a volte non ricorda, senon lo stesso nome, sicuramente l’età e comunque non neconosce e non ne partecipa i problemi di studio, lavoro edin genere di vita.Avendone indubbiamente capacità e meriti, Renan ha potu-to percorrere tutti i gradi dell’istruzione superiore, laurean-dosi per poi trovare immediatamente una occupazione la-vorativa corrispondente al proprio titolo di studio, come èovvio in un paese socialista.Avendo intelligenza, curiosità e disponibilità mentale Renanha quindi colto l’occasione che gli è stata offerta dalla suaAmministrazione di lavorare con degli operatori stranieri,fungendo da interfaccia del sistema statale cubano nei pro-getti di solidarietà attivati nella sua provincia.Ciò lo ha portato però a rendersi più direttamente conto deilimiti di un sistema socialista realizzato in un paese povero,che da un lato offre opportunità egualitarie e generalizzatedi studio e di lavoro, ma dall’altro non può garantire né pro-mettere percorsi di crescita sociale e soprattutto economica

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neppure lontanamente equivalenti a quelli dei ricchi paesioccidentali.Renan infatti è sposato con una laureata, anche lei regolar-mente occupata in un impiego pubblico corrispondente alproprio titolo di studio, ma vive in casa con i suoceri nonpotendosi permettere, nonostante i due stipendi, una abita-zione propria della quale, peraltro, non intravede neppurela speranza, considerata la ridottissima capacità del sistemapubblico di realizzare nuove abitazioni a causa della gravis-sima crisi che ha devastato l’economia cubana dopo la dis-soluzione dell’Unione Sovietica.Così Renan ogni tanto sogna di poter emigrare all’estero,pur essendo ben consapevole che non riuscirà trovare,nell’ipotetico ricco paese occidentale di destinazione, lastessa qualità del lavoro svolto a Cuba; forse una occupa-zione assai inferiore ma certamente, così spera, molto me-glio pagata.In questo suo sogno Renan è pure l’esempio emblematicodella totale mancanza di diffusione, e conseguentemente diassimilazione da parte della popolazione cubana degli stes-si principi basilari del pensiero e dell’etica socialista, e ciò adispetto della miriade di slogan, ammonizioni e dichiarazio-ni rivoluzionarie scritte su di ogni spazio libero di muro edeclamate da ogni organo di stampa e televisivo.Una volta Renan è venuto con noi italiani in un breve viaggiodi fine settimana.Giunti in una cittadina dell’estrema punta orientale dell’iso-la, Renan si è presentato insieme a noi presso l’albergo perturisti dove avevamo programmato di passare la notte.L’albergo era ovviamente in dollari americani, ma Renanera nostro ospite e quindi poteva pagare in quella prezio-sa valuta.Ciò non ostante non è stato facile farlo ammettere e c’è vo-luta la decisa presa di posizione del suo corrispondente ita-liano nel progetto di cooperazione cogestito, per imporre al-la direzione dell’albergo la concessione di una camera an-che al funzionario pubblico cittadino cubano.

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Pur nella quasi impenetrabile riservatezza del suo volto èstato evidente il sentimento dell’offesa subita da Renan, ri-fiutato da un albergo del suo stesso paese, benché in gradodi pagare il prezzo ufficiale richiesto.Come spiegare a Renan, nato, vissuto ed educato al sole diun socialismo reale sicuramente tante volte ascoltato, letto,studiato e pedissequamente anche ripetuto come la litaniadi un rosario, ma mai realmente compreso, due regole fon-damentali, concettualmente contrastanti, ma nel caso dispecie assolutamente convergenti, l’una di etica socialista el’altra di economia capitalista?Anzitutto sul piano della morale socialista, o comunista chedir si voglia, si pone la prima regola: quella fondamentaleed inderogabile del rispetto dell’egualitarismo.In un paese socialista, basato sul principio dell’eguaglianzae della parità, non possono esistere due livelli di diritti e diopportunità, un primo per chi può pagare in dollari ed unsecondo per chi non può disporre di quella rara valuta.Se anche un solo cittadino non può accedere ad un determi-nato servizio, bene o comunque opportunità, allora non de-ve accedervi nessuno, indipendentemente dal fatto del tuttocontingente che qualcuno se lo possa materialmente per-mettere.Resterebbe poi da approfondire e capire a cosa possano ser-vire ai cubani, che ne hanno l’opportunità lecita e legittimadi guadagnarli, i dollari nord americani da spendere comun-que nei confini di Cuba.Ma questo è un altro complesso argomento che non può es-sere adeguatamente trattato in questa sede.La seconda regola riguarda invece un principio fondamen-tale dell’economia capitalista, o forse più correttamente delcapitale e del mercato, e concerne l’ottimizzazione dellosfruttamento delle risorse economiche.Le strutture turistiche a Cuba sono state create, o comun-que rapidamente convertite dopo l’inizio del “periodo spe-ciale”, al prezzo di grandi sacrifici posti a carico dell’interonon ricco popolo cubano, per drenare dal turismo estero il

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massimo delle quantità possibili di valuta pregiata da reim-piegare, quindi, nella soddisfazione delle esigenze socialicollettive, a partire da quelle primarie delle salute, del-l’istruzione, dell’alimentazione, ecc.Conseguentemente quelle strutture non possono esseredistratte, in nessun caso, modo e misura, in favore di unconsumo interno che rischia di interrompe, o comunquecertamente limitare, la raccolta della valuta estera e conse-guentemente incidere sulle capacità di risposta sociale delsistema.Renan è intelligente anche se non ha studiato o capito ed as-similato sino in fondo i principi del socialismo ed ancor me-no conosce le leggi del capitale e del mercato sicuramenteneppure enunciate ed anzi forse persino demonizzate dalsistema scolastico pubblico cubano (anche se non va dimen-ticato che il più grande studioso del “capitale” è stato pro-prio il fondatore del comunismo) e quindi sono sicuro cheprima o poi capirà.Renan è nativo dell’oriente cubano ma, come detto, è dirazza, o meglio pigmentazione bianca, e quindi non riescea sentire ed esprimere, o almeno a trasmettere negli atteg-giamenti esterni quell’anima, allegra e vitale sino ai limitidelle esplosioni della sregolatezza, patrimonio innato del-la gente creola.Ma sotto sotto un poco di quell’anima creola ce l’ha anchelui e di quando in quando emerge con forza ed evidenza,perché, tutto sommato, quell’anima, prima di essere creola,e senz’altro cubana, ed è la “cubanìa” che possiede, più cheessere posseduta, tutti gli abitanti dell’Isola Felice, bianchi,neri e mulatti.Una sera sulla piazza principale di Santiago si esibiva unabanda musicale con un repertorio, francamente, ad evidenteuso turistico.Al momento di concludere l’esibizione pubblica, tuttavia,la banda ha intonato le note di una canzone(tta) “di regime”.Era una marcetta semplice ed allegra nella quale la linea rit-mica epica assumeva i tempi e le varianti di un passo di dan-

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za collettivo.In sostanza una parodia autoironica di un militarismo inter-pretato da un paese che nella sua intera storia, remota e re-cente, non ha mai partecipato e quindi conosciuto una veraguerra.A quel punto è stato ad uno stesso tempo sorprendente edemozionante vedere Renan mettersi quasi automaticamen-te ad accompagnare con le parole le note suonate dalla ban-da, ritmando il tempo con il dito e con il viso illuminato daun sorriso di evidente partecipazione ed allegria.Renan è andato sino in fondo, sino alla fine della musica,compiacendosi davanti a degli stranieri, ma in mezzo allagrande maggioranza della sua gente, di essere parte di quelpopolo, di essere cubano, di essere, in fondo, anche sociali-sta qualunque cosa volesse dire quel termine per lui oramaiindissolubilmente legato alla storia passata, presente e fu-tura del suo popolo policromo e della sua terra povera didollari, ma ricca, ricchissima di sole, di mare e di allegra in-contenibile voglia e gioia di vivere.Questa è forse la grande forza del socialismo cubano, sinte-si e fusione di principi e regole della morale filosofica delsocialismo scientifico, con la contrapposta mancanza di re-gole che non siano quelle della voglia di vivere propria della“cubanìa”.Declamava Renan a tempo di marcetta:“Adelante cubanos...”. Avanti cubani!In quel momento, anche alla luce dei nostri precedenti di-scorsi di morale socialista ed economia capitalista mi è ve-nuta in mente un’altra canzone, anch’essa corale come unamarcia, appartenete alla storia di un altro popolo in qualchemodo anch’esso di mare e di sole come quello cubano, can-zone che recitava:“Basta che ce stà ‘o sole, ca c’è rimasto ‘o mare, ‘na voce, ‘nachitarra, ‘na canzone pe’ cantà...”.Ma c’era allora anche tanta povertà e fame vera e molti, mol-tissimi di quel popolo hanno dovuto rinunciare al sole ed almare e non so se hanno continuato almeno a cantare.

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Oggi l’Italia è uno dei paesi più ricchi del mondo, ma moltedi quelle persone partite in quell’epoca difficile non sonopiù tornate, pagando sulla loro pelle l’odierna ricchezza de-gli altri.Quello che è accaduto a quella gente, a quel popolo, non losi deve augurare a nessuno e allora…“Adelante cubanos!”, finché resiste l’originale, fantasioso,mendace anche, socialismo cubano; il peggio può semprevenire!

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DUE BAMBINI

“Una nuova generazione”

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L’ultimo mio pomeriggio a Santiago lo ho passato sedutodi nuovo in una delle panchine che circondano la piazzacentrale.Questa volta nel centro della piazza non c’era la banda peri turisti ma si stava allestendo una grande tavola rotondasui problemi della gioventù e della scuola.Mentre erano ancora in corso i preparativi ed il montaggiodel grande tavolo circolare e si stava procedendo alla collo-cazione di un grande ritratto del Che, mito e riferimentoideale di tutti i giovani del mondo, due bambini della scuolaprimaria, come testimoniava la loro divisa scolastica in rossoe bianco, dibattevano animatamente, a voce e a gesti, propriosulla mia panchina, a volte direi anche addosso a me.Erano due giovanissimi delegati alla tavola rotonda ed in at-tesa dell’inizio forse discutevano proprio dei temi che di lìa poco avrebbero dovuto affrontare in pubblico.La mia scarsa conoscenza della lingua, l’uso probabile diespressioni dialettali e forti accenti locali, oltre alla concita-zione del dibattito, non mi ha consentito di comprendere dipiù che pochi spezzoni frammentari ed incompleti.Un passaggio però lo ho compreso benissimo ed suo ricordomi sembra l’argomento più giusto per concludere questi bre-vi racconti, perché più d’ogni altro ritengo che possa espri-mere e riassumere l’identità del popolo cubano così com’èoggi dopo 44 anni dal trionfo della rivoluzione socialista.Giunti al punto più elevato o comunque certamente più cal-do della discussione, a valutarlo dal tono delle voci e dalturbinare dei gesti, uno dei due bambini si è fermato, haguardato dritto negli occhi l’altro puntandogli un dito versoil petto, ed in uno spagnolo piano e chiaro che anch’io hopotuto comprendere perfettamente, ho così enunciato:“Ricordati che per ogni problema c’è una soluzione!”Ogni commento appare superfluo.44 anni di socialismo fantasioso, allegro e vivace sono purequalcosa che sembra non essere passato invano.Ed allora, di nuovo:“Adelante cubanos!”

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Supplemento del periodico Piazza del GranoAurorizzazione dei tribunale di Perugia n. 29/2009

Corso Cavour n. 39 - Folignoe-mail [email protected] presso GPT Srl - Città di Castello

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Il modo con cui i cubani hanno interpretato nella quoti-dianità del loro modo di vivere e pensare l’incitamentoalla euforica follia dell’inseguimento dell’impossibileenunciato dal Che nella storica parola d’ordine: “Siamorealisti, esigiamo l’impossibile”, può dare forse, piùd'ogni altra argomentazione sociologica, filosofica o po-litica, una idea corretta della realtà cubana.

Collana INEDITI di Piazza del Grano