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Testi: Segreteria Nazionale e attivisti SCI

Fotografie: Volontari e attivisti SCI

Stampa: Multiprint

via Braccio da Montone 109, Roma

Aut. Trib. Roma 86/83 del 5/3/83

SOMMARIO

2 Introduzione a cura della Segreteria Nazionale SCI

3 Dieci anni di Palestina di Caterina Amicucci

6 Popolare nonviolenta “Lotta congiunta” e resistenza civile di Riccardo Carraro

9 No Dal Molin Da movimento di opposizione al potere militare a esempio di cittadinanza attiva Intervista a Nora H. Rodrigues

13 “Comando e controllo” Il conflitto sociale nella gestione del post terremoto a L’Aquila Intervista ad Alberto Puliafito

18 Conflitti ambientali Il caso della Patagonia di Sara Turra

21 Conclusioni Per una nuova radicalità Incontro con Miguel Benasayag

26 Cont@tti e Gruppi Regionali e Locali SCI

28 SostieniSCI

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2 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

vada inteso come evoluzione, trasformazio-ne, condizione imprescindibile della vita di comunità. E individuiamo nella resistenza civile una delle principali forme di contro-potere e di affermazione delle diversità che compongono la realtà sociale. Per trovare risposte possibili alla domanda iniziale, abbiamo voluto trattare alcune delle modalità con cui si manifesta questa riduzione e repressione del conflittuale del “diverso” a vantaggio di ciò che è norma-lizzazione e al solo scopo di assottigliare il margine di opposizione della società civile al sistema di potere vigente.

Siamo partiti dal lavoro dello SCI nella Pa-lestina di ieri e di oggi, abbiamo proseguito parlando della collaborazione con il movi-mento No Dal Molin, della nostra parteci-pazione alla campagna “Patagonia senza dighe” contro il mega-progetto ENEL/Endesa per la costruzione di dighe nella Patagonia cilena. Abbiamo approfondito, grazie all’intervista con Alberto Puliafito, la questione del controllo sociale nella gestione del post-terremoto in Abruzzo che può “a buon diritto” inscriversi all’interno di un fenomeno di repressione più ampio. Conclude Miguel Benasayag, co-autore di “Elogio del conflitto”, saggio che mette in guardia da ogni strategia volta a porre in-condizionatamente fine al conflitto stesso, come qualcosa di separato e in opposizione all’affermarsi della civiltà.Leggerete tutto ciò nelle pagine a seguire, attraverso un percorso che ci porta a ri-scoprire lo SCI come movimento che può e vuole farsi promotore della trasformazione e della continua evoluzione che è parte irri-nunciabile e costitutiva della società.

Quando abbiamo pensato a questa pubblicazione volevamo porci una

domanda più che fornire una risposta o trovare una soluzione. Volevamo chiederci quale fosse la posizione dello SCI rispetto ai conflitti che percorrono una società in costante movimento e trasformazione.

Nella misura in cui interessarsi al conflitto significa interessarsi ai molteplici aspetti che caratterizzano il divenire sociale.Volevamo inoltre ripensare il concetto di pacifismo, non solo come opposizione radicale alla guerra, ma come strumento che possa coinvolgere altre dimensioni e manifestarsi come rifiuto attivo di ogni for-ma di violazione dei diritti arbitrariamente imposta.

Abbiamo guardato quindi a ciò che è stato ed è il nostro lavoro concreto da diverse prospettive, quella del conflitto sociale, ambientale, della resistenza civile nei con-fronti di quei meccanismi che, attraverso la direttrice paura-controllo-repressione, mirano a limitare le capacità di scelta della popolazione e le sue potenzialità di forza creativa e rigeneratrice del tessuto sociale.Accade sempre più spesso, all’interno delle strategie di potere, che tutto ciò che appartiene al conflitto e agli aspetti ad esso riconducibili sia individuato come un errore, un’anomalia, una forma di “non civiltà”. Crediamo, invece, che il conflitto

Introduzionea cura della Segreteria Nazionale SCI

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3Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

dopo. L’esercito israe-liano si è ritirato dal sud del Libano dopo 18 anni di occupazione. Arafat avrebbe dovuto dichiarare unilateralmente la nascita dello stato palestinese in prima-vera, scadenza posticipata ad ottobre.

A settembre Sharon passeg-gia sulla spianata delle mo-schee e scoppia la seconda intifada. Proprio quell’anno lo SCI Italia comincia la sua attività in Palestina. La visita di studio, grazie anche al sostegno di Stefania (attuale presidente SCI) è un successo, il precipitare della situazione politica stimola

un fitto dibattito interno.

C’è la voglia di continuare il percorso iniziato, di non cedere di fronte all’occupa-zione che ogni giorno diventa più violenta. Per un anno e mezzo organizziamo un lunga serie di scambi: campi, volontariato a medio e lungo termine, seminari temati-

Dalla prima volta che ho messo piede in Palestina sono passati dieci anni.

Era la primavera del 2000 e partivo con in mano un progetto da realizzare.

Beatrice, che mi aveva preceduto nel ruolo di Segretaria Nazionale, aveva caparbia-mente presentato infinite volte un progetto alla Commissione Europea che finalmente era stato approvato. All’epoca, per anda-re in Palestina e in Libano con lo SCI era necessario fare una formazione a Bruxel-les prima della partenza, solo lo SCI Bel-gio aveva maturato esperienza in Medio Oriente. Beatrice aveva avuto l’idea di or-ganizzare una visita di studio per formare attivisti di diversi paesi ed organizzare la preparazione dei volontari a livello nazionale, incentivan-do così la presenza dell’asso-ciazione nella regione.

Una buona idea, però lei aveva lasciato l’ufficio ed io di Medio Oriente non sapevo nulla di più di quello che distrattamente leggevo sui giornali. La prima volta che sono stata in Palestina sono rimasta scioccata. Una sensazione che non riuscivo a spiegare e che ho riconosciuto negli occhi dei tanti volontari che negli anni successivi ho visto ritornare. Una frustrazione vio-lenta che nasce quando si tocca con mano l’ingiustizia e si assiste impotenti alla sua ostentazione. Il 2000 è stato un anno fon-damentale per tutto quello che è successo

Dieci anni di Palestinadi Caterina Amicucci*

Foto Simona Granati. Palestina, 2000.

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A settembre Sharon passeggia sulla spianata delle moschee e scoppia la seconda intifada. Pro-prio quell’anno lo SCI Italia comincia la sua attività in Palestina.

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4 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

national Solidarity Movement (ISM). Lo SCI-Italia tra il 2002 ed il 2005, di-venta il partner italiano dell’ISM inviando centinaia di volontari nelle missioni di

interposizione civile.

I volontari sono impegna-ti nelle attività più varie: accompagnamento delle ambulanze e dei medici, di-stribuzione di cibo durante il coprifuoco, interposizione nelle azioni di demolizione delle case palestinesi, osser-

vazione ai check point, e molte altre attività che avrebbero dovuto essere svolte da una forza ufficiale di interposizione.

Una forza richiesta ed invocata dai Palesti-

ci. Poi, nel 2002 la situazione va in stallo. L’occupazione israeliana è totale e brutale. E’ imposto il coprifuoco per mesi, la gente non può uscire dalle città assediate, l’eser-cito è ovunque ed impone punizioni collettive in rispo-sta alle azioni dei kamikaze palestinesi.

A Pasqua la chiesa della natività è assediata e le delegazioni internazionali vengono respinte all’aero-porto. In questa situazione comincia ad organizzarsi dal basso un mo-vimento di resistenza civile. Per la prima volta palestinesi e pacifisti israeliani co-minciano a lavorare insieme in un momen-to di conflitto estremo, dando vita all’Inter-

Lo SCI-Italia tra il 2002 ed il 2005, diventa il partner italiano dell’ISM inviando centinaia di volontari nelle missioni di interposizione civile

Foto Simona Granati. Palestina, 2000.

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5Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile 5

vimenti, che hanno sostenuto negli anni la parte progressi-sta della società palestinese, nel 2006 subiscono un colpo durissimo.

I palestinesi stanchi della corruzione e del nepotismo del governo degli uomini di Araft, scelgono democratica-mente un governo guidato da Hamas. Un esito previsto nei

piani israeliani fin dalla passeggia-ta sulla spianata delle Moschee di Ariel Sharon. Un fatto che segna

la vittoria della violenza israeliana, la fine dell’unità del popolo palestinese e di una stagione politica della quale lo SCI-Italia ha fatto parte con molto impegno e passione.

*Collaboratrice della Segrete-ria Nazionale dello SCI-Italia dal 1996 al 2005

nesi, ma che nessuno ha mai preso in considerazio-ne di inviare nei territori occupati. Questi sono anni di lavoro estremamente intenso. Un susseguirsi di incontri di formazione e valutazione che non si interrompe nemmeno nei momenti più tragici, quan-do i due attivisti Rachel Corrie e Tom Hurndall vengono uccisi a Gaza dall’esercito israeliano.

Mentre l’occupazione vive il suo momento più duro, lo Sci-Italia insieme all’Interna-tional Palestinian Youth League, prova a guardare anche oltre, ad immaginare un progetto che provi ad arginare la distruzio-ne sociale causata dall’occu-pazione militare e a costru-ire attività che puntino al futuro. In questo contesto nasce il progetto Medhe-bron, rivolto alla comunità soprattutto giovanile, ma non solo, della città di He-bron. Un sfida grande che ottiene anche un finanzia-mento della Commissione Europea.

Tra il 2004 e il 2007 si apre un Media Cen-ter e lo si anima di laboratori di fotografia, video, grafica, radio sui temi dei diritti umani, della democrazia, della legalità, di genere. Sono 27 i volontari di medio e lungo termine che realizzano 50 laboratori ai quali partecipano 434 persone. Purtrop-po questo progetto ed il lavoro di tutti i mo-

Logo del progetto Medhebron

Tra il 2004 e il 2007 si apre un Media Center e lo si anima di laboratori di fotografia, video, grafica, radio sui temi dei diritti umani, della democrazia, della legalità, di genere.

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6 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

La storia della relazione politica mantenuta nel tempo, dallo SCI,

nei confronti del conflitto in Medio Oriente è utile per poter ricostruire fili conduttori e soprattutto per comprendere in che senso l’associazione ha voluto affrontare il conflitto nella sua storia recente e passata.

Negli ultimi anni abbiamo sostenuto ed ap-poggiato la resistenza popolare nonviolenta nata nel 2004 e portata avanti tutt’oggi in molti villaggi palestinesi, contro la costru-zione del muro e l’espansione delle colonie. Questa resistenza viene definita una “joint struggle” una lotta congiunta nonviolenta di palestinesi e israeliani con una significativa presenza di internazionali.

Una lotta che si traduce in manifestazioni settimanali, eventi, marce, conferenze, lavoro legale e comunicativo-mediatico. Molte sono le ca-ratteristiche rivoluzionarie di questa esperienza. Un lavoro congiunto, che unisce israelia-ni e palestinesi sulla base di obiettivi molto chiari, come la caduta del muro e il ritiro di Israele dalle colonie. E’ una esperienza che coinvolge strati sociali, generazioni e generi diversi, facilitando processi di cittadinanza attiva e di partecipazione a tutti i livelli. E’

una esperienza che vuole essere creativa, usare i media in modo intelligente e au-tonomo, è una esperienza che considera terminata la seconda intifada e si richiama alla prima, cioè ad un movimento ampio e includente, che rifiutava di delegare ad altri la propria lotta. E’ infine una esperienza che si percepisce come parte di una lotta globale per la pace e la giustizia e per que-sto cerca sempre più di collegarsi a movi-menti sociali europei e internazionali.

Oren, attivista israeliano di Anarchists against the Wall impegnato da anni a fian-co in questa battaglia in una intervista dice “anche se fisicamente questo movimento non ha abbattuto il muro, ha fatto crollare i muri tra le persone e quello che era consi-derato impossibile alcuni anni fa, ora è una realtà ogni settimana. Il fatto che palesti-nesi e israeliani stiano assieme e diventino

amici, e non in un workshop o in un dibattito, ma sul campo, e vengano feriti, arrestati assieme è qualcosa di fisico e di molto forte”.

Una parola fa paura ad en-trambi, palestinesi ed israe-liani, ed è la normalizzazio-ne, l’idea di costruire azioni congiunte senza esprimersi apertamente e concreta-mente contro l’occupazio-

ne militare. Rona, attivista israeliana del movimento ci racconta che “Non ci pos-siamo aspettare di avere relazioni normali, organizzare iniziative come partite di calcio per la pace. Per anni i media Israeliani ci hanno raccontato che questo poteva succe-dere e che avrebbe portato alla convivenza.

Popolare nonviolenta “Lotta congiunta” e resistenza civiledi Riccardo Carraro*

I palestinesi definiscono questa resistenza una “joint struggle” una lotta congiunta nonviolenta di palestinesi e israeliani con una significativa presenza di internazionali.

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7Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

Nel frattempo, mentre si dipingeva questa imma-gine di Israele come il paese promotore della pacifica coesistenza, sono successe le peggiori cose contro i palestinesi, l’occupazione ha conti-nuato, sono aumentate le colonie. E, alla ripresa delle ostilità, la con-clusione per l’opinione pubblica è stata che se la pace non si è raggiunta, sono stati i palestinesi a non volerla”.

Il sostegno ad un mo-vimento come questo, quindi, permette di rela-zionarsi ad un conflitto non soltanto chiedendone la fine, come spesso i movimenti pacifisti hanno fatto nel passato, anche nei confronti del conflitto mediorientale, ma avanzando già una idea di società diversa da costruire assieme. La lotta popolare contro il muro infatti vuole affrontare il conflitto, per ot-tenere la sua trasformazione con creatività e assimmetria rispetto al potere militare, gettando le basi per una co-esistenza alternativa e basata sulla giustizia e non sulla “pacificazione”. “Sono pron-to ad essere suo vicino, sono pronto per essere suo amico” ci ha detto un attivista pale-stinese parlando di un attivista israeliano “se lotta con me contro il muro, le colonie e per la nostra autoderminazione”.

Infine la resistenza popolare contro il muro è fondamentale anche per i suoi aspetti simbolici ed emblematici che ci riguardano direttamente. Infatti viviamo in un mondo

dove i processi di stratifica-zione sociale ed economica e la separazione forzata tra le persone sono sempre più uno strumento della elitè politico-economica per mantenere il proprio pote-re, e il razzismo permette e rafforza la separazione e lo sfruttamento. In questo contesto, la lotta contro il

muro tra Palestina e Israele permette di unificare orizzontalmente due popoli che in una maniera scientifica, strutturale e quasi

Foto Activestills (www.activestills.org)

La lotta popolare contro il muro infatti vuole affrontare il conflitto, per ottenere la sua trasformazione con creatività e assimmetria rispetto al potere militare

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8 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

Questo è quello che cercano di fare, oggi, tra Israele e Palestina. Non possiamo rima-nere a guardare.

Il racconto orale di que-sta resistenza popolare è al centro di “POPOLARE NON VIOLENTA”, docu-mentario radiofonico a cura dell’agenzia radio-fonica AMIS all’interno del progetto “Bridges on air”. Il documentario si può ascoltare a questo link: http://amisnet.org/agenzia/2009/09/29/

popolare-non-violenta/.

Oltre al progetto “Bridges on Air”, lo SCI ha sostenuto il lavoro del POPULAR STRUG-GLE COORDINATION COMMITTEE in molti modi, tra questi:Due scambi tra società civile italiana e israeliana/palestinese nel giugno 2008 e settembre 2008; l’organizzazione di vari incontri di sensibilizzazione sul tema in Italia; la presenza alle conferenze interna-zionali di Bil’in nell’aprile 2009 e 2010Il sostegno attivo (nel sito, nelle petizioni online, attraverso le liste) a tutte le campa-gne tematiche per la liberazione dei prigio-nieri e contro la repressione militare nei villaggi; il progetto “Harvesting for Peace” che ha permesso di inviare 6 volontari nei villaggi palestinesi durante la raccolta delle olive 2010. Continueremo a sviluppare una progettua-lità congiunta e a sostenere iniziative anche nel futuro.

*Responsabile settore NordSud SCI Italia

emblematica si è cercato di dividere per decenni. Se questo movimento ha potuto unire israeliani e palestinesi che “il potere” da anni cerca sistematicamente di sepa-rare, allora in tutto il mondo possiamo ancora avere speranza e prende-re ispirazione pensando alle possibilità che anche noi abbiamo tutti di intrecciare resistenze dal basso contro il potere.

Fin dall’inizio, come SCI, ci siamo avvicinati al conflitto tra Israele e Palestina per i suoi connotati e signifi-cati universali, per i legami con la politica mondiale e del nostro paese, e per questo abbiamo sempre costruito progetti che per-mettessero scambi, legami diretti, orizzon-talità, reciprocità. Grazie a questo approc-cio abbiamo portato avanti una solidarietà attiva che permettesse la presenza sul campo e l’arricchimento e l’attivazione “al rientro” di chi poteva conoscere il contesto, tornare in Italia e avere voglia di cambiare le cose, anche da qui, anche qui.Vogliamo quindi continuare a farlo, attra-verso il nostro sostegno alla joint struggle. Oggi, in Italia, necessariamente questo movimento ancora di più ci parla, ci mette in discussione, ci interroga sulla necessità e l’urgenza, anche qui di lottare per abbattere i muri che similmente vengono ogni giorno costruiti e imposti, tra italiani e migranti, rom, omossessuali, diversi.A partire da una joint struggle portare avanti una global struggle, per un mon-do più giusto e egualitario, senza muri e permettendo ai popoli di autoderminarsi.

La lotta contro il muro tra Palestina e Israele permette di unificare orizzontalmente due popoli che in una maniera scientifica, strutturale e quasi emblematica si è cercato di dividere per decenni.

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9Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

Arricchiti da que-sto legame, inter-vistiamo Nora, del Presidio No Dal Molin, per farci raccontare qualcosa in più di questa esperienza.

1) In questi anni di movimento siete stati un esperimento unico per la capacità di mettere assieme trasversalmente e in modo intergenerazio-nale la popolazione vicentina. Siete stati unici per avere creato delle manifest-Azioni, per aver parlato di nonviolenza senza renderla una barrie-

ra tra i buoni e i cattivi, per essere riusciti a fare cambiare il sindaco di una città tradizionalmente conserva-trice e di destra, per aver tenuto alto

Il movimento NO DAL MOLIN è sicuramente tra i movimenti pacifisti di

resistenza civile più significativi che vi siano stati in Italia negli ultimi anni.

Lo SCI si è avvicinato a questo movimento e ha cercato di sostenerlo in varie forme, proprio perché esso rappresenta la volontà dell’associazione di affrontare i conflitti, con radicalità, determinazione, creatività e asimmetria rispetto al potere. Il movimen-to NO DAL MOLIN ha unito a tutto questo un enorme sforzo e attivazione dal basso della società civile, costituendo uno straor-dinario esempio di partecipazione popolare alla dimensione politica del territorio, che è in molti versi simile a quello presente nella storia e nel DNA dello SCI.

Abbiamo organizzato due campi di volontariato presso il presidio NO DAL MOLIN nel periodo del Summer Festival, abbiamo acquistato un pezzo del terreno ove si costruirà la base, al fine di rallentarne l’esproprio e abbiamo invi-tato per due volte membri del movimento presso La Città dell’Utopia, per un evento specifico ad aprile 2009, e durante Quotidiane Resistenze nell’ottobre dello stesso anno.

No Dal Molin Da movimento di opposizione al potere militare a esempio di cittadinanza attivaIntervista a Nora H. Rodrigues

Foto: Presidio Permanente No Dal Molin

Lo SCI si è avvicinato a questo movimento e ha cercato di sostenerlo in varie forme, proprio perché esso rappresenta la volontà dell’associazione di affrontare i conflitti, con radicalità, determinazione, creatività e asimmetria rispetto al potere.

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10 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

L’amministrazione comunale di destra non riesce a “controllare” questi canali di comunicazione e di socializzazione di una nuova cultura cittadina. Insomma, c’era in atto una contaminazione importante tra il mondo cattolico tradizionale ed il mondo laico di sinistra vicentino. Quando nasce l’Osservatorio sulle Servitù Militari, alcuni Comitati di Quartiere erano già attivi per capire cosa stesse succedendo in alcune zone della città, si produce l’incontro che

andrà a cambiare la fisio-nomia politica di Vicenza. Soprattutto per la consa-pevolezza che quello che sta per accadere cambierà definitivamente la città. La posta in gioco era (è ancora) troppo alta per ricadere nei giochi di po-tere tradizionali. La con-troparte - cioè l’esercito degli USA e il governo italiano – era ed è smisu-rata per noi. Ma la rispo-sta ottenuta dalla città (la

famosa società civile) fu inaspettatamente grande. E questo fu il terzo elemento che ci diede la forza di superare antiche barriere, come le chiami tu. L’obiettivo si impose a tutti, superando pregiudizi e paure, vedi l’occupazione dei binari il 16 gennaio dopo il discorso di Prodi. Fu assolutamente incredibile per la nostra città!

A questi elementi aggiungerei l’importanza che hanno avuto gli incontri di formazione sulla resistenza passiva nei quali abbiamo non solo passato competenze a chi per la prima volta affrontava queste situazioni (le manifestAzioni o le azioni nonviolente

il profilo del movimento in Italia, in un momento di stanchezza generaliz-zata, per aver fatto muovere i livelli più alti dello Stato italiano (come il Consiglio di Stato,) pur di riuscire a bloccarvi. Cosa vi ha permesso di fare questo? Credo che Vicenza fosse in quel momento storico un terreno molto fertile. Si era mo-bilitata bene nel 2001 per il G8 di Genova, e anche immediatamente dopo e, nonostante il Social Forum Vicentino finì in breve tempo per il ripetersi di vecchie di-namiche di controllo dei partiti e dei sindacati sui movimenti, che provoca-no la fuoriuscita di gruppi organizzati e dei cosiddet-ti “cani sciolti”, sono nate alcune iniziative tenden-ti a creare nuove reti. Dal 2001 in poi alcune associazioni propongo-no “Festambiente Vicenza” (siamo già al decimo anniversario ed ogni anno aumenta il numero di associazioni e gruppi coinvolti nella organizzazione e presenti alla festa); la Cooperativa Insieme compra con aziona-riato popolare un grande spazio nel quale si organizzano incontri culturali importanti; apre il Bar Equosolidale, nasce anche “Il Primo lunedì del mese”, rete che organizza conferenze sui temi della globalizzazione e dei beni comuni (e ancora non li chiamava-mo così), nasce un gruppo che propone alla città le modalità del Bilancio Partecipativo, ecc...

L’amministrazione comunale di destra non riesce a “controllare” questi canali di comunicazione e di socializzazione di una nuova cultura cittadina. Insomma, era in atto una contaminazione importante tra il mondo cattolico tradizionale ed il mondo laico di sinistra vicentino.

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11Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

rimane ancora un percorso lungo da fare.

3) In Italia si dice spesso che si è per-so il senso di comunità. Quando però uno entra al presidio ne è sempre travolto, si sente nell’aria. Perchè? Che comunità è quella del presidio permanente? Quale è il rapporto tra questa comunità e il territorio che vuole difendere?

La comunità del Presidio è compo-sta da tante perso-ne che portano un vissuto differente e che si racconta-no nel fare (oggi è l’orto, il mercati-no dei produttori bio, organizzare il festival, ieri era montare i tendoni, scrivere il giornale,

volantinare, organizzare cene x raccogliere fondi, etc). La collaborazione intergene-razionale è stata necessaria per costruire il posto fisico, la collaborazione nello scam-bio di saperi ha reso possibile la costruzio-ne del posto nell’immaginario di ogni uno di noi. Tutti sappiamo di essere impor-tanti, per noi e per il territorio che stiamo difendendo. Anche le persone che passando ci aggrediscono a parole o a urli, ci rinfor-zano in questa visione che abbiamo di noi stessi. Tanti ci hanno detto: meno male che ci siete voi in quel tendone! e personal-mente credo che non si riferiscano solo al problema della base attualmente, ma anche a quello del pensiero unico dominante. Noi riusciamo a dire NO in un modo che si ca-

di disubbidienza civile), ma anche nuove modalità relazionali. Credo di non sbagliar-mi se dico che alcune persone sono riuscite finalmente a parlarsi senza fare ricorso a luoghi comuni o slogan di partito.

2) Avete sperimentato, sia pure con fatica, un rapporto conflittuale e dia-lettico con le istituzioni. Quale è la lezione più importante che ne avete tratto?

Che anche le istituzioni sono fatte da persone. E con le persone devi dialogare, quindi anche con le istituzio-ni. Il punto era e rimane: quale dialogo e da quale posizio-ne? Forse questo è il punto che ha segnato un cambiamento nel movimento, cioè le posizioni che alcune parti del movimento hanno scelto per avere questo dialogo. I primi conflitti all’interno del movimento sono sorti a causa dei partiti e dei sindacati che volevano mettere il loro cappello. Poi siamo arrivati al cambio Giunta e quindi la decisione di presentare o meno liste civiche ha allargato il divario tra punti di vista fa-vorevoli al dialogo o meno. Personalmente vedo come un gran deficit del cittadino medio italiano proprio la consapevolezza di essere cittadino. La cittadinanza attiva è una perla rara, quindi avvicinare le perso-ne alle istituzioni per far sì che si pongano delle domande e intervenire nelle decisioni

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12 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

guerra, e dall’obiezione di coscien-za. Tuttavia questi valori, tranne in casi come il vostro, non sono molto presenti nel pacifismo italiano oggi, e tanto meno nel generico mondo del volontariato. Perché secondo te?

Sono reduce della selezione di 40 volontari per il Servizio Civile Nazionale, e grazie a questo ho incontrato e dialogato con 160 ragazze/i tra i 18 ed i 28 anni. Dai collo-qui ho potuto capire come non siamo stati bravi noi per primi a diffondere questi valori. Ci siamo lasciati mettere delle eti-chette dai governi accomodanti con i poteri militari ed abbiamo discusso tra di noi sul sesso degli angeli (scusa la mia crudeltà) ma non abbiamo passato questi concetti ai giovani, se lo avessimo fatto saremmo stati costretti a pensare come farlo, e forse a discutere per trovare tra tutti forme che i giovani potessero assimilare. Alla gente del Presidio ha fatto molto bene conoscere ed apprezzare non solo gli altri gruppi resi-stenti italiani, ma anche quelli del Chia-pas, di Haiti, della Repubblica Ceca, ecc... Guardarsi nell’altro fa crescere. Per me esperienze importanti sono state le due volte che sono andata a L’Aquila dopo il terremoto dello scorso anno. Vedere come le divise e i linguaggi militari imperavano nei campi e che la gente non se ne accor-gesse mi ha molto preoccupato, giustificare sempre l’intervento militare per portare ordine è il primo passo verso l’accettazione della guerra. E oggi a quanti soldati italiani caduti in guerra siamo? Grazie, Nora H. Rodriguez

pisce che è per un SI, si per la pace, si per la difesa dei beni comuni, si per l’acqua, etc.

4) Vicenza, città iper-militarizzata, attraverso di voi si è aperta al mon-do. Artisti, cantanti, premi nobel, si sono avvicinati alla vostra Resisten-za. Avete conosciuto anche le molte altre Resistenze, di chi, come voi, non accetta la violenza del potere mi-litare statunitense nel mondo. Cosa avete imparato da questi incontri? Quante risorse ci sono in giro per questo paese e che difficile è metterle assieme! Quando ci si incontra si promette di lavo-rare insieme, poi si torna al proprio ter-ritorio e gli avvenimenti ti richiudono nel tuo problema locale. E in questo il governo Berlusconi sa come fare a tenerci impegna-tissimi, sempre con l’emergenza, sempre con l’acqua alla gola. Un’altra considera-zione sulle cose imparate e che finisce per emergere sempre il problema dei movi-menti: i portavoci. Non credo ci sia bisogno di dire altro su questo. Le pratiche nonviolente su questo argo-mento insistono molto e con ragione, ma non è una cosa semplice di far digerire non solo ai molti esperti nel campo della poli-tica (anche quella detta antagonista) ma anche chi è abituato alla delega non si pone la questione facilmente, e quindi accetta di essere rappresentato sempre e ovunque senza attivarsi in prima persona. Rimane quindi fondamentale lavorare per costruire situazioni orizzontali e aperte allo scambio con gli altri.

5) Lo SCI nasce con spirito interna-zionalista, dal rifiuto radicale della

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13Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

“Comando e controllo” Il conflitto sociale nella gestione del post terremoto a L’Aquila

Il tema del conflitto sociale e della resistenza civile può essere una chiave di lettura

anche per quanto avvenuto nel nostro paese nel contesto della tragedia del terremoto abruzzese.

È stato detto infatti che si può leggere “Il terremoto dell’Aquila come un laboratorio, un’occasione per sperimentare sul campo una nuova gestione del potere che passa sopra le leggi e le regole dello Stato”. Un con-flitto quindi operato contro una popolazione civile, impaurita, debole e perciò stesso control-labile e meno capace di opporre resistenza.

Un conflitto che ha visto una limitata risposta da parte della società civile italiana nel suo complesso, perché nonostante ci sia stata un’ingente e variegata presenza nel post terremoto, ben pochi sono stati a fianco dei cittadini aquilani nel momento della repressione del dissenso, dall’esclusione e dall’isolamento sociale, dalle separazione imposta come pratica securitaria. Neppure quando gli aquilani sono scesi a Roma per manifestare per poi finire caricati dalla polizia siamo stati in molti a loro fianco.

Incontriamo Alberto Puliafito, già ospi-te de La Città dell’Utopia, giornalista e

regista del documentario “Yes we Camp” che ora sta presentando la sua nuova opera “Comando e Controllo”, che ha seguito le vicende aquilane da vicino per tutti questi mesi.

1) Come spiegheresti, ad un cittadi-no medio che vede il problema del terremoto abruzzese solo come una catastrofe naturale, il titolo del tuo documentario?

“Comando e controllo” non è un titolo dietrologico ma mi è stato “suggerito” direttamente dal Dipartimento Nazionale

di Protezione Civile, che all’Aquila ha insediato il proprio quartier gene-rale, la Di.Coma.C., un acronimo che significa, appunto, “Direzione di Comando e Control-lo”. Da giornalista e documentarista sono convinto che le parole siano molto importanti. E soprattutto, che il “Comando e il control-

lo” siano stati applicati in un certo modo ben preciso, come racconta il documenta-rio.

2) Una delle cose che colpisce della gestione del post terremoto a L’Aqui-la è come si sia potuto pianificare ottimamente e in poco tempo un modello di controllo violento della popolazione, sulla base di un fatto in sé non pianificabile come un evento naturale, come lo spieghi?”

Intervista ad Alberto Puliafito

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14 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

I media sono a volte complici a volte vitti-me del meccanismo: il singolo giornalista, spesso, non ha alcun interesse ad andare oltre le veline che gli vengono passate, a meno che non sia dotato di un proprio spirito etico personale che lo spinga ad approfondire, anche a costo di dire cose

scomode. Non ha con-venienza perché ormai il giornalista d’inchiesta viene visto come colui che vuole a tutti i costi trovare le cose che non vanno.

A L’Aquila, la situazione emergenziale è stata cavalcata mediaticamente in maniera straordinaria. Le voci critiche venivano isolate da un ufficio stampa del Diparti-mento di Protezione Civile che diramava comunicati stampa per esaltare lo straordi-nario lavoro fatto sul territorio. I giornalisti che volevano informazioni, non dovevano fare altro che accreditarsi all’ufficio stampa della Di.Coma.C. e a quel punto potevano ricevere tutte le informazioni che volevano. Quelle ufficiali, ovviamente.

Ho descritto a lungo il meccanismo di con-trollo dei media nel mio libro, “Protezione Civile SpA”, in cui ho cercato di dimostra-re come la questione comunicazione sia diventata ormai centrale, in qualsiasi tipo di contesto socio-politico: se si hanno a disposizione mezzi, sarà più facile raccon-tare un miracolo. Se poi c’è una strategia precisa e studiata, in un’area sotto shock, sarà ancora più semplice operare questa straordinaria costruzione mediatica. Per far capire meglio quel che intendo, può essere molto utile leggere queste righe, tratte dal Metodo Augustus della Protezione Civile

Naturalmente è difficile dimostrare che sia esistita questa pianificazione a priori. Si possono mettere insieme alcuni indizi, come pezzi di un puzzle, e provare a rac-contare cosa sia stato fatto effettivamen-te: dalla gestione militarizzata dei campi di accoglienza, in cui addirittura, per un certo periodo, non si poteva servire il caffé o alimenti eccitanti ai terremotati, alle decisioni prese dall’alto se-condo una logica sostitutiva anziché sussidiaria. Probabilmente, alcune cose non sono state pianificate e si è cavalcata la contingenza.Ma l’idea della shock economy che racconta molto bene Naomi Klein nel suo libro è co-munque quella di avere un metodo genera-le di gestione delle situazioni emergenziali.Quindi, se pianificazione c’è stata, non era specificamente pensata sul territorio aqui-lano ma, più genericamente, secondo una logica più ampia di gestione del potere in situazioni emergenziali.

3) Si dice che i media siano stati completamente cooptati dal gover-no nel raccontare la tragedia. Però questo succede ogni giorno in Italia. Perché a L’Aquila ci sono riusciti in modo così efficace tanto che nep-pure in ambienti di opposizione al governo si è diffuso sufficientemente un pensiero alternativo? Perché c’è stato bisogno di te e della Guzzanti per fare emergere da micro circuiti alternativi quella che è la verità sulla gestione del sisma? Noi, società civile impegnata, abbiamo lasciato soli gli aquilani?

“A L’Aquila, la situazione emergenziale è stata cavalcata mediaticamente in maniera straordinaria”

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15Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

“Dalle tende alle case”, e poi le case nuove con i tricolori appesi, un uso strumentale della parola container per convincere tutti che non ci fossero altre so-luzioni rispetto a quelle adottate. E’ difficile contrastare gli slogan, soprattutto se non hai a

disposizione 5 canali televisivi nazionali.

4) In questo anno e mezzo dal terre-moto, in quale momento ti sei sentito più indignato? Perché?

E’ difficile scegliere il momento preciso, perché di storture ne ho viste fin troppe. Forse potrei dire che la cosa che mi ha turbato di più è stata proprio la difficoltà di raccontare fuori dal cratere sismico quel che vedevo. La diffidenza con cui venivo accolto nei primi tempi. Il fatto che solo dopo le intercettazioni con gli imprenditori che ridevano la notte del

per la Gestione dell’Emergenza, nella parte dedicata alla comunicazione.

La popolazione è comunque sempre coin-volta nelle situazioni di crisi, sia emotiva-mente (teme di essere toccata dagli eventi, partecipa ai problemi di chi è coinvolto),sia fisicamente (se non ha subito danni, comunque è costretta a sopportare disa-gi). […] Se la sua controparte istituzionale sarà sufficientemente autorevole e deter-minata, la maggior parte dei cittadini sarà disponibile ad abdicare alle proprie autonomie decisionali, a sottoporsi a pri-vazioni e limitazioni, a “ubbidire” alle di-rettive impartite. […] Un chiaro piano di comunica-zione […] permetterà una più agevole accettazione delle misure adottate. Non solo: qualora il precipita-re degli eventi lo rendesse necessario, sarà più facile imporre una disciplina più ferrea e chiedere sa-crifici più duri.[…] È inutile perdersi in dettagli poco im-portanti, per esempio parlare della reazio-ne incontrollata di una piccola parte della popolazione, quando la comunità si ècomportata, in generale, in maniera cor-retta.

Aggiungiamoci il fatto che i temi da tratta-re per il racconto del post-terremoto sono alti: si parla di consumo permanente del territorio, di controllo sociale, di stato di shock non elaborato e via dicendo. E per parlarne serve tempo e spazio. Come con-traltare, gli slogan: la Protezione civile del fare, “Tutti in vacanza a spese dello stato”,

Solo dopo le intercettazioni con gli imprenditori che ridevano la notte del terremoto, l’embargo mediatico sull’Aquila si è sciolto e le voci critiche hanno finalmente avuto più ascolto

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16 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

con attenzione ai bisogni della collettività e delle persone, hanno attuato una gestione più etica e di buon senso di questa emer-genza. Ma sulla consapevolezza del volontario, purtroppo, ho molti dubbi: la mia im-pressione è che troppo spesso si ceda a tendenze superomistiche oppure votate all’io-ti-salverò, o peggio ancora all’assi-stenzialismo più spinto. Una tendenza che mi sembra essere stata cavalcata dal Dipar-timento di Protezione Civile.Ovviamente questa non vuole essere una critica al volontariato, ma un invito a riflettere su quali siano le reali esigenze di una popolazione in emergenza, che vero-similmente vuole solo essere rimessa in condizione di occuparsi del proprio futuro autonomamente (e infatti, la Protezione civile ha competenze sul ripristino, non certo sulla ricostruzione) e non ricevere un aiuto assoluto, un abbraccio che rischia di diventare soffocante.Poi, a posteriori, si mitizza sull’indole di questa o quella popolazione e si riduce il tutto a questo. Ma il problema non è solo l’indole delle persone: il problema è l’ap-

terremoto, l’embargo mediatico sull’Aquila si è in qualche modo sciolto e le voci cri-tiche hanno finalmente avuto più ascolto. Ma di strada da fare per raccontare i fatti ce n’è molta.E la mia difficoltà è stata in qualche modo aggravata dal mio essere totalmente indi-pendente.Motivo per cui il fatto che un editore come Aliberti abbia voluto un libro da me, su questo tema così complesso, mi fa sentire in qualche modo fortunato e dà un senso a un lavoro giornalistico che, fatalmente, si è mescolato anche all’attivismo.

5) Lo Sci, la nostra associazione, è nata 90 anni fa da un campo di lavoro di ricostruzione dopo la pri-ma Guerra Mondiale. Per quanto riguarda l’organizzazione dei nostri campi in Abruzzo abbiamo cercato di portare avanti, con il contributo delle associazioni locali, una forma di supporto differente, meno assi-stenzialista e più orientata ai bisogni della popolazione del luogo. E’ pos-sibile, secondo te, unire attività di utilità sociale come le nostre con una forte denuncia politica dei fatti avve-nuti a in Abruzzo? Hai conosciuto, in Abruzzo, un volontariato nazionale o internazionale conscio e critico di quanto avveniva e capace di costruire resistenza civile assieme alla popola-zione locale anziché fare assistenza?

Ho avuto contatti proprio con lo Sci, che operava nell’ambito di un progetto di recu-pero differenziato delle macerie a Onna, e con le Brigate di Solidarietà Attiva. Sicura-mente due realtà che, operando dal basso e

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17Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

niente), per esempio: una riscrittura della lingua, proprio come quando si parla dei coloni israeliani, che altro non sono che truppe civili di occupazione, il controllo ossessivo dei documenti, la narcolessia sociale cui era sottoposta la popolazione, il controllo mediatico, l’ipertrofia burocrati-ca all’interno dei campi – si doveva firmare per tutto, persino per fare la lavatrice – la questione di sicurezza (un giorno venni scortato da due funzionari del dipartimen-to e da due carabinieri in tenuta antisom-mossa per fare interviste in una tendopoli,

per la mia sicurezza, il che è palesemente un nonsense), la militariz-zazione del territorio e le forme con cui veniva applicato il già citato con-trollo sociale.Il punto è che il momen-to delle tendopoli ora è dimenticato. E l’Italia ha

una pericolosa tendenza a dimenticare, ad abbandonare la propria memoria storica.

Mi chiedevi perché io continui a raccontare queste cose, perché combattere una specie di battaglia mediatica pur da una posizione di evidente inferiorità.Be’, ho la mia risposta: perché qualcuno lo deve fare. Perché la popolazione aquilana non merita di essere lasciata sola. Perché la logica dell’emergenza è applicabile ovun-que. E perché le idee agiscono lentamente, come i virus per sintetizzare i vaccini: se si raccontano i modelli, prima o poi si for-meranno gli anticorpi per evitare che certi metodi vengano applicati altrove.

plicazione assistenzialista del principio del soccorso e dell’emergenza che può diventare finalizzata a ben altro. Al profitto, per esem-pio. Economico e politico.

6) Recentemente hai paragonato il metodo di controllo e gestione implementato a L’Aquila alla realtà che hai vissuto in prima persona in Palestina; quali fattori ti hanno por-tato a tale similitudine?

In primis, il controllo burocratico. Per esempio, per ottenere interviste, era necessario presentare una richiesta scritta, con esigenze e domande, e poi si riceveva-no risposte telefoniche.Poi la gestione dei campi: no alle riprese, no agli ingressi se non autorizzati, spesso no alle assemblee o al volantinaggio, chec-ché se ne sia detto a posteriori.Poi l’uso dei termini: ospiti per definire i terremotati (non dimentichiamo che la tenda diventa il tuo domicilio fiscale, se hai perso la casa. Quindi non sei ospite per

“Le idee agiscono lentamen-te, come i virus per sintetiz-zare i vaccini: se si racconta-no i modelli, prima o poi si formeranno gli anticorpi per evitare che certi metodi ven-gano applicati altrove”

Campo di lavoro SCI “Stones for reconstruction” (Onna 2009).

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18 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

Il 27 novembre del 2007 un gruppo di 120 contadini e allevatori a cavallo entra a

Coyhaique dopo una cavalcata di 9 giorni per dire no al progetto HidroAysen e viene accolto calorosamente dalla popolazione della cittadina che dimostra tutto il suo appoggio alla protesta.

Due anni dopo, il 29 novembre 2009, ci troviamo a Cohyaique, dove c’è un’altra manifestazione contro lo stesso progetto. I partecipanti questa volta non sono molti, la stanchezza è tanta e l’impatto sociale del lavoro svolto dai tre grandi studi di con-sulenza sulla comunicazione assoldati da ENDESA/ENEL per ripulirne l’immagine hanno avuto il loro effetto. Ma la lotta con-tinua, nonostante le forze in campo siano impari.

Siamo in Cile, nella Regione dell’Aysen, uno degli angoli più incontaminati e selvaggi del pianeta. Un territorio di oltre 110.000 km quadrati in cui vivono circa 98.000 persone, meno di 1 per km quadra-to, una densità abitativa tra le più basse al mondo. Un luogo che offre ai fortunati vi-sitatori uno spettacolo mozzafiato continuo in cui l’acqua in tutte le sue forme è ele-mento dominante:, ghiacciai, laghi, paludi, cascate e un paesaggio morfologicamente modellato dall’acqua stessa. I campi glaciali della Patagonia Cilena sono tra i più grandi del mondo e costituiscono una delle riserve d’acqua dolce più grandi della Terra.

E proprio qui, nel cuore della Patagonia, il Consorzio HidroAysén, composto dai grup-pi COLBÚN ed ENDESA, società prima statale poi privatizzata e ora di proprietà dell’italiana ENEL, intendono costruire 5 dighe volte a produrre un quantitativo di energia pari a circa il 20% dell’intera capacità di generazione attuale del paese. Esistono vari progetti che si propongono di sfruttare il ricco potenziale dell’area al-terando in modo irreversibile questi spazi, e questo è oggi il più avanzato. Se passas-se il distretto XI si potrebbe trasformare presto nella Regione delle Dighe. Ma gli impatti non si limiterebbero a quest’area, grande circa un terzo dell’Italia. Uno degli aspetti più controversi del progetto è infatti costituito dalla linea di trasmissione che

Conflitti ambientaliIl caso della Patagonia di Sara Turra*

HidroAysèn – Il progetto in numeri Numero di dighe previste: 5Anno in cui la prima diga potrebbe essere operativa: 2019Ettari sommersi: 5900 ha, molta parte occupata da foreste primarieElettricità generata: 2750 megawatt (20% del totale del paese)Lunghezza tracciato elettrico: 2.300 Km Aree impattate dal tracciato elettrico: 9 regio-ni e 67 comuni, 6 parchi naturali, 8 riserve forestali nazionali, 16 siti prioritari per la conservazione della biodiversità, 26 zone umide, 4 zone turistiche di interesse nazionaleNumero torri ad alta tensione: 6.000 alte 70 mt ciascunaCosto delle dighe: 4 miliardi di dollariCosto della linea di trasmissione: 3 miliardi di dollariRicavo stimato per Endesa/ENEL e Colbun: 1,2 miliardi di dollari l’annoCileni che giudicano negativamente la co-struzione del progetto HydroAysen (inchie-sta novembre 2010): 79%.

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19Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

dovrebbe attraversare 9 regioni da sud a nord, per ben 2.300 km con circa 6.000 torri alte fino a 70 metri, passando attra-verso riserve forestali nazionali, parchi naturali, siti prioritari per la conservazione della biodiversità, zone turistiche di interesse nazionale e una parte di territorio abitato da comunità Mapuche. L’energia prodotta dalle centrali idroelettriche sui fiumi Pascua e Baker non sarebbe infatti utilizzata a livello locale ma convogliata verso il nord industriale del paese per sviluppare altri progetti minerari transnazionali, riproponendo questo stesso

modello di sviluppo basato sullo sfrutta-mento selvaggio delle risorse naturali.Per combattere questo scempio, e in rispo-sta all’appello lanciato dal Consiglio per la difesa della Patagonia, è nata in Italia la Campagna Patagonia Senza Dighe. Una Campagna finalizzata a sostenere i movi-menti cileni che si battono per restituire ai cittadini i diritti all’uso dell’acqua e richia-mare i cittadini italiani, azionisti per il 31% di ENEL, a chiedere di fermare il progetto HidroAysen. E per questa ragione come Campagna Patagonia Senza Dighe abbiamo organizzato una delegazione che per due settimana ha percorso parte della Carretera Austral incontrando rappresentati delle comunità potenzialmente impattate, enti locali colpiti, e le associazioni che da ormai 4 anni tentano di contrastare il progetto HidroAysen, per raccogliere informazioni sulla situazione ed elaborare una strategia di campagna congiunta tra Italia e Cile. Perché è anche in Italia che si gioca il desti-no della Patagonia Cilena.

Il tratto che accomuna tutti i nostri incontri con le comunità locali è la chiara e capilla-

re presenza di ENEL/ENDESA sul territorio. Attraverso il suo Pro-gramma di Responsa-bilità sociale l’impresa si avvicina alla popola-zione “per offrire una possibilità di sviluppo che la regione non ha” e con la promessa di posti

di lavoro, bollette più economiche, strade e collegamenti migliori. Ma non si ferma qui. Non potendo più passare attraverso gli enti locali a causa di una sentenza della

HidroAysèn – Il progetto in numeri Numero di dighe previste: 5Anno in cui la prima diga potrebbe essere operativa: 2019Ettari sommersi: 5900 ha, molta parte occupata da foreste primarieElettricità generata: 2750 megawatt (20% del totale del paese)Lunghezza tracciato elettrico: 2.300 Km Aree impattate dal tracciato elettrico: 9 regio-ni e 67 comuni, 6 parchi naturali, 8 riserve forestali nazionali, 16 siti prioritari per la conservazione della biodiversità, 26 zone umide, 4 zone turistiche di interesse nazionaleNumero torri ad alta tensione: 6.000 alte 70 mt ciascunaCosto delle dighe: 4 miliardi di dollariCosto della linea di trasmissione: 3 miliardi di dollariRicavo stimato per Endesa/ENEL e Colbun: 1,2 miliardi di dollari l’annoCileni che giudicano negativamente la co-struzione del progetto HydroAysen (inchie-sta novembre 2010): 79%.

Uno degli aspetti più controversi del progetto è costituito dalla linea di trasmissione che dovrebbe attraversare 9 regioni da sud a nord, per ben 2.300 km con circa 6.000 torri alte fino a 70 metri

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20 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

l’ha trasformata da bene comune a bene economico e ha dato il via alla concentra-zione dei diritti sull’acqua in mano a grandi imprese, specialmente straniere. Oggi il 96 per cento delle acque dell’Aysen è in mano a ENDESA/ENEL. Sempre secondo questo Codice, tali diritti sono inoltre concessi in forma gratuita e perpetua: non esistono

tasse specifiche per l’uso, il mantenimento e la pro-prietà delle risorse idriche, né tasse da pagare per il servizio. Non c’è quindi da stupirsi se le imprese ten-tano di sviluppare progetti proprio qui dove l’acqua è abbondante e si può sfrut-tare in modo gratuito.

Per la sua peculiare posizione geografica e conformazione morfologica, il Cile avrebbe abbastanza fonti di energie alternativa e rinnovabile (eolica, geotermica e solare) da poter fare a meno delle dighe. Ma l’interes-se va in un’altra direzione. E questo ci por-ta a riflettere ancora una volta su modelli di sviluppo imposti dagli interessi economici e dal profitto privato a scapito del pianeta tutto, e a metterli in discussione. Perchè l’acqua è un diritto, non una merce. In Patagonia come in Italia.

Per informazioni sulla Campagna Patagonia Senza Dighe: www.patagoniasenzadighe.org

*Segretaria nazionale SCI-Italia

corte dei conti regionale che ha proibito ai municipi di accettare donazioni da parte di imprese private che abbiano interessi idro-elettrici nella zona, l’impresa ha cominciato un lavoro porta a porta, offrendo progetti di supporto agli abitanti della zona, iso-lata dal resto del Paese, regali ai bambini nelle scuole, borse di studio, donazione di infrastrutture a privati e comitati di quartiere, il tutto alla conquista del consenso della popola-zione locale. “E’ un fatto di soldi.” ci spiega Padre Porfirio a Puerto Guadal, “La quantità di denaro investita dall’impresa in questi paesi ha cambiato totalmente l’attitudine delle persone e crea-to forti divisioni interne alla comunità. Fa-miglie in conflitto, genitori che non parlano ai figli. La gente si concentra sui benefici a breve termine e non pensa al futuro della zona, che sarà irrimediabilmente compro-messo da questo progetto”.

Oltre ai grandi fondi stanziati dall’impresa sul territorio e alla conseguente e crescen-te divisione delle comunità impattate, un ruolo importante in questa partita è giocato dal supporto sempre più aperto del governo cileno allo sviluppo del progetto. Proprio il giorno del nostro arrivo a Santiago, Riccar-do Ranieri, ministro dell’energia ha dichia-rato che “il Cile ha bisogno di progetti come HidroAysén”. Dai tempi di Pinochet il Cile è stato caratterizzato da una chiara politi-ca ultraliberista. E’ la stessa costituzione cilena, rimasta inalterata dai tempi della dittatura, a definire il quadro istituzionale e i principi di base del Codice dell’Acqua, che

La costituzione cilena, ri-masta inalterata dai tempi della dittatura [...] ha dato il via alla concentrazione dei diritti sull’acqua in mano a grandi imprese, specialmente straniere

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21Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

A fine giugno 2010, Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista argentino

è stato ospite del No Border Fest a La Città dell’Utopia, per presentare il suo libro “Elogio del Conflitto”. Il confronto con lui è stato sui temi che affrontiamo e viviamo ogni giorno: le nuove migrazioni e l’ondata xenofoba, la fabbricazione di clandestini e terroristi, l’ordine securitario e il paradigma normativo che patologizza il diverso, le strategie di potere e violenza che in Italia e in Francia i governi mettono in atto armati di leggi che tutelano la repressione in nome della democrazia. Cosa vuol dire stare dalla parte dei migranti oggi? Perché farlo?

Le sue acute riflessioni, cosi come quelle del suo libro, ci interrogano sul senso del nostro affrontare i conflitti e sopratutto sul senso di “agire il conflitto” nel mondo che ci circonda, riuscendo a svincolarlo dall’accezione negativa e a rivalutarlo come dimensione fisiologica dell’esistenza, come strumento di trasformazione sociale, di cambiamento dell’ordine costituito e delle strutture di potere

Desidero pensare con voi la questione dei migranti in Italia, sulle loro condizioni di vita e sofferenza che mi testimoniate col vostro lavoro, sul che fare e come. E’ necessario comprendere la situazione dei migranti e il nostro intervento all’interno

di un più ampio quadro politico, che rifiuti cioè sia la tendenza caritatevole (dall’alto verso il basso) sia il suo fratello, l’umani-tarismo. Non ci impegniamo in Francia coi sans papiers, ad esempio, perché siamo buoni e lo vogliamo dimostrare al mondo, non lottiamo con i sans per salvare il mon-do e prima di tutto la nostra anima, ma ci impegniamo con loro perché dal luogo dove sono l’impero si mostra senza pudore, svelandoci ancor meglio i suoi connotati e le sue strategie. Strategie che ci riguardano, an-che se oggi i migranti diventano i nuovi ca-pri espiatori, vite da far fuori dalla propria vita, da tener lontano dai propri recinti. A chi insegue di continuo capri espiatori per esorcizzare le proprie crisi e incertezze diciamo: a forza di non guardare si diventa ciechi. L’ordine della sicurezza a ogni costo e con ogni mezzo non metterà al sicuro nessuno di noi. La società che costruisce mostri, terroristi, deviati, pedofili, è una società malata, che se la passa morendo

ConclusioniPer una nuova radicalitàIncontro con Miguel Benasayag

“L’ordine della sicurezza a ogni costo e con ogni mezzo non metterà al sicuro nessuno di noi”

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22 Attraverso il Conflitto: percorsi di pacifismo e resistenza civile

la spazzatura. Dalle grandi città europee fin dentro le bidonville dell’America latina questa struttura va ripetendosi del tutto similmente. Chi vive dentro la fortezza deve difendere il suo benessere, i suoi diritti di cittadinanza, la sua superiorità insomma, ed è attanagliato dal mito della sicurezza. Oggi sempre più gli abitanti della fortezza sono in mano agli imperativi del potere che li osserva e li plasma come bambini

indifesi, irresponsabili, incapaci di agire. Il potere decide come dobbiamo vivere e vivere bene, quale è il nostro bene, il nostro successo o fallimento, I desideri corretti, I giu-sti confini del lecito e dell’illecito. Mentre fuori resta la barbarie, sempre minacciosa, quella mas-sa terrifica di anormali, falliti, disadattati, meno-mati, non integrabili nel

sistema. Oggi chi contesta è un anormale, questo l’esito della politica normativa: patologizzare la contestazione, riducendo il conflitto alla malattia mentale.

Se accettiamo il modello di mondo e di individuo spettatore-consumatore che il potere oggi ci impone, se gli affidiamo lo statuto di realtà, sarà impossibile abbrac-ciare la sfida della radicalità. Inutili le varie vie palliative che partoriscono nomi come “intervento umanitario” o “sviluppo soste-nibile”. Umanitario è solo chi ha il privi-legio di esserlo e vuole rimanere nel suo privilegio, così come lo sviluppo sostenibile ha il suo metro nella macroeconomia, è sostenibile per l’equilibrio del capitale che

di paura. Non ci interessa piangere sulle sciagure del mondo, inseguire le calamità naturali o le guerre fratricide sparse in tutto il pianeta. Sappiamo solo che migrare è un fatto antropologico primario, mentre oggi chi migra è reso criminale, colpevo-le del suo stesso muoversi. Perché una persona che diviene e si muove di continuo non è facilmente inquadrabile nell’ordine normativo e disciplinare che vuole che tutto resti al suo posto, che ognuno e ogni cosa abbia un solo posto, un solo nome, un solo paese.

L’uomo e la donna che migrano, semplicemente, mettono in difficoltà questo assetto statico del mondo su cui si basa il potere. E dato che la superficie del mon-do si increspa con questi incessanti passaggi, dato che la vetrina del mondo diventa meno trasparente e luccicante, dato insomma che alcuni corpi si mettono a dar fastidio rivendicando il loro spesso-re, il potere risponde con grande violenza e repressione, gettando via in un attimo, in luoghi e dispositivi reazionari realizza-ti ad hoc, quella parvenza di pacifismo e democrazia che si sbandierava tanto e quel diritto umanesimo che si voleva imporre a tutto il mondo.

La geopolitica del potere disegna di conti-nuo lo spazio che viviamo secondo una mo-dalità ben precisa: c’è la fortezza al centro, riparata da alti muri e barricate più o meno sofisticate, e tutt’intorno c’è la no man’s land, la pouvelle diciamo in francese, cioè

La geopolitica del potere disegna di continuo lo spazio che viviamo secondo una modalità ben precisa: c’è la fortezza al centro, riparata da alti muri e barricate più o meno sofisticate, e tutt’intorno c’è la no man’s land

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sincera convinzio-ne fascista, Sarkozy ha impegnato la po-lizia in una caccia di clande-stini che partiva dai cancelli di scuola: quando I genitori sanspapier di bambini iscritti alla scuola pubblica andavano a prendere I loro figli all’ora-rio di uscita, I poliziotti li fermavano e li rimpatriavano

forzatamente. Scena che si è verificata in diverse scuole francesi e ha provocato in tutto non più di centocinquanta rimpatri, azione politica ridicola quindi, che ha avuto però un effetto boomerang tra I genitori francesi dei bambini iscritti alle stesse scuole. Al momento abbiamo fatto una ricerca e pubblicato un piccolo testo “La caccia ai bambini”, per poi proporre un’azione comune legittima che consisteva nell’as-sumere il tutoraggio di un migrante sans papier, una sorta di patto di responsabilità

specula e sfrutta, non per l’ emancipazione reale di uomini e donne. (...) L’impegno di cui parlo non procede per colpi di spu-gna, non vogliamo prendere il potere per sostituirvi un nuovo potere. Il movimento radicale è molto più sotterraneo, continuo, insistente, non oppone un contropotere al potere ma dissesta dal basso, svuota da dentro lo scheletro del potere.

In Francia il movimento di nuova radicalità ha preso la forma di una costellazione di laboratori, gruppi, scuole e pratiche riunite in una Rete per l’educazione senza frontie-re (RESF). Negli anni appena trascorsi abbiamo fronteg-giato in più modi le azioni neonazi dei gruppi di giovani skinheads, fenomeno presen-te e frequente in Francia, so-prattutto nelle banlieu. Dopo una serie di incontri con un gruppo di Sans papier, abbia-mo deciso di fare un’azione esemplare che facesse uscire dalla condanna più grave questi immigrati irregolari, l’invisibilità. Abbiamo occu-pato con loro la chiesa di Sant’Ambroise, allacciando acque e luce illegalmente, col sostegno di intellettuali, ricercatori, giorna-listi che lo hanno fatto con noi.

Quello che vogliamo con le nostre azioni è giocare sul confine tra legittimo e legale: è legittimo che una persona senza tetto entri ad abitare un edificio vuoto, anche se è illegale. Ci siamo mossi sulla stessa linea quando abbiamo reagito alla propaganda anti-clandestini di Sarkozy. Più per pren-dere voti del Fronte Nazionale che che per

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Quello che vogliamo con le nostre azioni è giocare sul confine tra legittimo e legale: è legittimo che una persona senza tet-to entri ad abitare un edificio vuoto, anche se è illegale.

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cortile, senza badare a che succede fuori. Ma noi non vogliamo giocare in cortile, perché è troppo facile giocare nel proprio cortile senza dar fastidio a nessuno, ovvero

senza pro-vocare alcun urto, alcuna trasformazio-ne e incisione del reale. Lavorare solo a livello intensivo rischia poi di riprodurre lo stesso dise-gno centro/periferia a rovescio, e in questa geometria

non c’è conflitto positivo che viene nutrito, ma solo odio e scontro sociale tra due parti. Crediamo che l’agire in cortile coltivi indi-gnazione più che legame sociale, mentre noi cerchiamo di costruire legami. Basta con la politica dell’indignazione, indignarsi

non è mai servito a nulla. Sappiamo bene tutto l’orrore del mondo e non è trasportandolo nelle menti degli altri che vinceremo.

Al livello estensivo c’è da capire quale

tipo di azione possa funzionare e diffonder-si in Italia oggi. Il messaggio di base è: la criminalizzazione dei migranti porta l’inte-ra società italiana a essere criminalizzante,

formale, da parte di un cittadino francese. Il signor Rossi, ad esempio, diventa tutore del signor Mustafa e si impegna a tutelare I suoi diritti di cittadinanza. Questo ha significato per alcuni francesi na-scondere in casa propria sans papier irregolari per un certo periodo, fa-cendo fronte ai controlli ordinari della polizia. (...)La domanda guida per ca-pire l’azione adeguata è: quali e dove sono i focolai di normatività vigenti in Italia? E poi: chi sono i nostri interlocutori e i nostri sostenitori? In democrazia il cambiamento deve aver ben presente entrambi questi piani: l’intensivo – per-ché, dove e come lavoro, le mie azioni concrete di scardinamento dei con-fini fortezza/no man’s land – e l’estensivo, ovvero la rete di sostegno e consenso che supporta e rende efficaci le mie azioni.

Il livello intensivo senza l’estensivo è certo più facile, si tratta di giocare nel proprio

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Basta con la politica dell’indignazione, indignarsi non è mai servito a nulla. Sappiamo bene tutto l’orrore del mondo e non è trasportandolo nelle menti degli altri che vinceremo.

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(.....) Ogni ricerca, ogni azione è valida se sa captare quel nucleo di disagio e di sofferenza che spinge le persone a cercare nuovi possibili. Oggi è un’epoca buia, piena di orizzonti di crisi e molto c’è da lavorare, molti i focolai di azione. Di nuovo: non ci interessa la soffe-renza in sé perché non abbiamo bisogno di salvarci l’anima, ma crediamo che la soffe-renza parli, che conservi in forma criptata il perché del suo essere, e questo perché non si risolve nel buio dell’intimità indivi-duale. Decifrare il messaggio criptato della sofferenza (di singole e concrete sofferenze, a partire dalla propria) per convertirlo in azione e legame è la nostra sfida.(...)

ad agire per separazione ed esclusione, sot-to minaccia e terrore, non solo nei riguardi degli stranieri ma anche tra italiani. Nessu-no è esonerato da questa deriva. Visto che in Italia i migranti sono così marginalizzati, così discriminati e temuti dal senso co-mune che si è andato consolidando, pro-viamo a lavorare su e con gli italiani, per poi includere indirettamente la questione migranti. A noi interessa mantenere la no-stra chiave di lettura: dove c’è separazione

c’è paura e crimina-lizzazione. La nostra azione potreb-be allora mirare a ricreare un tessuto sociale che non c’è più: offrire

nuovi luoghi di confronto e socializzazione tra giovani, nei quartieri e tra i quartieri, nelle scuole e nei centri di aggregazione aperti anche ai migranti. Questa lotta alla separazione deve essere in primo luogo lot-ta contro la nostra stessa tendenza alla se-parazione tra cittadini militanti e dormien-ti, consapevoli e inconsapevoli, attivisti e passivi ecc. Contro la nostra stessa tenden-za alla separazione diciamo: noi attivisti non abbiamo una verità suprema pronta per l’uso, non sappiamo cosa è bene e male in assoluto, cosa si deve fare o essere per essere giusti. Ma andiamo costruendo il senso della giustizia ogni volta in situazio-ne, dal basso, con chi incontriamo.

Visto che in Italia i migranti sono così marginalizzati, così discriminati e temuti dal senso comune che si è andato consolidando, proviamo a lavorare su e con gli italiani

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Segreteria Nazionalevia A.Cruto 43, RomaTel. 065580644 e 065580661Fax. 065585268Email: [email protected];web: www.sci-italia.it

Campi di volontariato: [email protected];

Progetti di volontariato a lungo termine (LTV - SVE): [email protected]

Progetti e scambi NordSud:[email protected]

Volontariato su Inclusione sociale: [email protected];

Amministrazione: [email protected]

Informazioni generali: [email protected]

Gruppo tematico sugli Stili di Vita Sostenibili: [email protected]

CAMPANIALucia Franco (Napoli)tel. 3401797277e-mail: [email protected] Esposito (Salerno) tel. 089332081 (sera)Silvia Zarrella (Avellino) tel. 3204743642;e-mail: [email protected]

EMILIA ROMAGNASCI Bolognae-mail: [email protected]: 3405633875 - 3898014296facebook: www.facebook.com/group.php?gid=60209341548&ref=mfBlog del gruppo SCI Bologna: www.scibologna.blogspot.com/

FRIULI VENEZIA GIULIABarbara Gambellin (Pordenone)tel. 3497485226; e-mail: [email protected]

LAZIOSegreteria Nazionalevia A.Cruto 43, RomaTel. 065580644 e 065580661; Fax. 065585268Email: [email protected]; web: www.sci-italia.it“La Città dell’Utopia”via Valeriano 3/F, Roma (Metro Basilica S. Paolo)e-mail: [email protected]; www.lacittadellutopia.it; tel: 0659648311

LIGURIASCI Genovaemail: [email protected] Testinotel. 3396713868Denise Murgia (La Spezia)tel. 0187414129 ore seraliemail: [email protected]

LOMBARDIASCI Lombardiavia Morigi 8, 20123 Milanoe-mail: [email protected] Schiano (Milano)tel. 3401364689Sara Brivio (Milano)tel. 3482428571; email: [email protected]

MARCHEAndrea Antinori (Ancona)tel. 328/7092982 dopo le h. 20

Cont@tti e Gruppi Regionali e Locali SCI

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PIEMONTESCI Piemontec/o Centro Servizi VSSP via Toselli 1(ang. corso Arimondi 6/a), 10129 Torino(area pedonale di fronte al Politecnico)e-mail: [email protected]: www.sci-piemonte.ittel. 392 4377469Christian Scorranoc/o Ass. Serydarth (Casale Monferrato, AL) tel. 3495250560Valentina Contin (Tortona - AL)tel. 3355784626Lisa Lissolo (Ivrea, TO)3296922312Luca Robino (Moncalieri)tel. 347 9734315

PUGLIASCI Bariemail: [email protected];web: www.sci-bari.ittel. 3403646421 (Cristoforo Marzocca)

SARDEGNASCI Sardegnavia Barcellona 80 - 09124 CagliariAndrea tel. 3383917127email: [email protected] Carta (Sassari)email: [email protected] Lai (Calagonone/Dorgali, NU)tel. 078493186

SICILIASCI Siciliae-mail: [email protected] Silvestro (SR)tel. 0931463334Rosario Scollo (Catania)tel. 0933991089; [email protected]

TOSCANAInformagiovani FirenzeVicolo Santa Maria Maggiore, 1 - 50123 Firenze (FI)tel. 055218310; e-mail: [email protected]

Informagiovani Pisavia Silvio Pellico 6 – 56125e-mail: [email protected] D’Alessandrotel. 05023601; [email protected] Testino (Firenze)tel. 3396713868; email: [email protected]

TRENTINO ALTO ADIGEBeatrice De Blasi (Trento)tel. 0461391113 (ore pasti)e-mail: [email protected]

UMBRIAJacopo Di Stefano (Perugia)[email protected]

VENETOSCI VenetoGruppo SCI Padovaemail: [email protected] Danieli (Padova)tel. 3896749213Mattia Bernardini (Vicenza)email: [email protected]; tel. 3293534093

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