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LEXICON Storie e architettura in Sicilia e nel Mediterraneo n. 20 - 2015 Edizioni Caracol € 15,00 ISSN: 1827-3416 ISBN: 978-88-98546-45-9 SOMMARIO Marco Rosario Nobile Editoriale Alicia Cámara Cantería e ingeniería del Renacimiento en el puente de Zuazo en Cádiz Luis Arciniega García Puentes de cantería en el Reino de Valencia de la Edad Moderna: construcción y polisemia Maurizio Vesco Michelangelo Blasco versus Ferdinando Fuga: una nuova attribuzione per il ponte sul Milicia in Sicilia Alfredo Buccaro Il dibattito scientifico e tecnico in materia di ponti in età borbonica: tradizione teorica ed esperienze nel territorio meridionale Antonella Armetta Ponti siciliani fra Sette e Ottocento. Il modello dell’acquedotto romano PONTI DI SICILIA (XVI-XIX SECOLO) Catalogo della mostra a cura di Antonella Armetta e Maurizio Vesco Ponti in pietra nel Mediterraneo in età moderna Edizioni Caracol LEXICON n. 20 - 2015

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LEXICONStorie e architetturain Sicilia e nel Mediterraneo

n. 20 - 2015Edizioni Caracol€ 15,00ISSN: 1827-3416

ISBN: 978-88-98546-45-9

SOMMARIO

Marco Rosario NobileEditoriale

Alicia CámaraCantería e ingeniería del Renacimiento en el puente de Zuazo en Cádiz

Luis Arciniega GarcíaPuentes de cantería en el Reino de Valencia de la Edad Moderna: construcción y polisemia

Maurizio VescoMichelangelo Blasco versus Ferdinando Fuga: una nuova attribuzione per il ponte sul Miliciain Sicilia

Alfredo BuccaroIl dibattito scientifico e tecnico in materia di ponti in età borbonica: tradizione teorica ed esperienze nel territorio meridionale

Antonella ArmettaPonti siciliani fra Sette e Ottocento. Il modello dell’acquedotto romano

PONTI DI SICILIA (XVI-XIX SECOLO)Catalogo della mostra a cura di Antonella Armetta e Maurizio Vesco

Ponti in pietra nel Mediterraneo in età moderna

Edizioni CaracolLE

XICO

N n. 20 - 2015

n. 20 / 2015

Edizioni Caracol

LEXICONStorie e architetturain Sicilia e nel Mediterraneo

Ponti in pietra nel Mediterraneo in età moderna

Lexicon. Storie e architettura in Sicilia e nel MediterraneoPonti in pietra nel Mediterraneo in età moderna

Rivista semestrale di Storia dell’ArchitetturaN. 20/2015

ISSN: 1827-3416ISBN: 978-88-98546-45-9

Tribunale di Palermo. Autorizzazione n. 21 del 20 luglio 2005

Edizioni Caracol - Palermo

Direttore responsabile:Marco Rosario Nobile

Consiglio direttivo:Marco Rosario Nobile (Università degli Studi di Palermo-Direttore responsabile)Paola Barbera (Università degli Studi di Catania)Maria Sofia Di Fede (Università degli Studi di Palermo)Emanuela Garofalo (Università degli Studi di Palermo)Stefano Piazza (Università degli Studi di Palermo)Fulvia Scaduto (Università degli Studi di Palermo)Maurizio Vesco (Università degli Studi di Palermo)

Comitato scientifico:Beatriz Blasco Esquivias (Universidad Complutense deMadrid)Monique Chatenet (Centre André Chastel, Paris)Claudia Conforti (Università Roma Tor Vergata)Fernando Marías (Universidad Autónoma de Madrid)Alina Payne (Harvard University, Cambridge – MA)

Comitato editoriale:Begoña Alonso Ruiz (Universidad de Cantabria), IsabellaRachele Balestreri (Politecnico di Milano), Dirk De Meyer(Ghent University), Joan Domenge I Mesquida (Universitat deBarcelona), Alexandre Gady (Université de Paris IV-Sorbonne), Adriano Ghisetti Giavarina (Università ChietiPescara), Mercedes Gómez-Ferrer (Universitat de Valencia),Javier Ibañez Fernández (Universidad de Zaragoza), ElisabettaMolteni (Università Ca’ Foscari Venezia), Erik H. Neil(Academy Art Museum, Easton, Maryland), Walter Rossa(Universidade de Coimbra), Sandrine Victor (Universitéd'Albi), Arturo Zaragozá Catalán (Generalitat Valenciana, RealAcademia de Bellas Artes San Carlos de Valencia)Capo redattore:Domenica Sutera

Redazione:Giuseppe Antista, Antonella Armetta, Maria Mercedes Bares,Mirco Cannella, Sabina Montana, Federica Scibilia

Lexicon. Storie e architettura in Sicilia e nel Mediterraneo èuna rivista internazionale avente l’obiettivo di diffonderestudi e notizie riguardanti la storia dell’architettura in Siciliae nel bacino del Mediterraneo. Fondata nel 2005, Lexicon.Storie e architettura in Sicilia e nel Mediterraneo ha unacadenza semestrale.

Le proposte devono essere inviate al direttore della rivista,presso il Dipartimento di Architettura, Viale delle Scienze Edi-ficio 8, 90128 Palermo o in alternativa ai seguenti indirizzi di po-sta elettronica: [email protected] e [email protected] scritti pervenuti saranno valutati dal consiglio direttivo edal comitato editoriale che, di volta in volta, sottoporranno i te-sti ai referees, secondo il criterio del blind peer review.La rivista adotta un modello di condotta e un codice etico ispi-rati a obiettivi di correttezza e professionalità, che trovano rife-rimento in quanto stabilito dal Committee on PubblicationEthics (COPE). Il codice etico e di condotta della rivista è consul-tabile su http://www.edizionicaracol.it/codice-etico.htlm.

I sommari dei numeri precedenti sono consultabili suhttp://www.edizionicaracol.it/lexicon.htm

Amministrazione:Caracol snc, Piazza Don Luigi Sturzo, 14 – Palermo

The research leading to these results has received fundingfrom the European Research Council under the EuropeanUnion’s Seventh Framework Programme (FP7/2007-2013)/ ERC grant agreement n. 295960 - COSMED

In copertina: G. Curiale, N. Cozzi, Progetto per il ponte sul Milicia delCapitano Ingegnere Michelangelo Blasco, 1738 (Madrid, BibliotecaNacional de España, Sala Goya, inv. 28675).

© 2015: by Edizioni CaracolStampa: Tipografia Priulla - PalermoPer abbonamenti rivolgersi alla casa editrice Caracol ai seguentirecapiti:e-mail: [email protected]. 091-340011

SOMMARIO

5 Marco Rosario NobileEditoriale

7 Alicia CámaraCantería e ingeniería del Renacimiento en el puente de Zuazo en Cádiz

21 Luis Arciniega GarcíaPuentes de cantería en el Reino de Valencia de la Edad Moderna: construcción y polisemia

35 Maurizio VescoMichelangelo Blasco versus Ferdinando Fuga: una nuova attribuzione per il ponte sul Milicia in Sicilia

55 Alfredo BuccaroIl dibattito scientifico e tecnico in materia di ponti in età borbonica: tradizione teorica ed esperienze nel territorio meridionale

67 Antonella ArmettaPonti siciliani fra Sette e Ottocento. Il modello dell’acquedotto romano

79 PONTI DI SICILIA (XVI-XIX SECOLO)Catalogo della mostra a cura di Antonella Armetta e Maurizio Vesco

Hieronymus Cock, Veduta di un ponte, 1551-1575.

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Editoriale

«Abbiate fede nello cavalcone. Isso è forte», così il mistico Zenone, dell’indimenticata ArmataBrancaleone, esortava a superare una passarella lignea che, come tutti sanno, non avrebbe retto ai saltel-li ripetuti del sant’uomo. La lingua pseudo medievale e i termini creati per l’occasione da Monicelli si pro-ponevano di espungere qualsiasi aurea simbolica e autorevolezza etimologica ai lemmi, evitando accuratamen-te quanto poteva evocare connotazioni implicite o più profonde. Così il grado semantico di “cavalcone”, pros-simo allo zero, si distanziava smisuratamente e volutamente da quello di “ponte”. Chi si occupa di storia del-l’architettura non può limitarsi a contabilizzare le fonti, valutare i dati e decifrare gli indispensabili caratte-ri tecnici di un’opera, ridurre cioè la complessità dei significati (in altri termini – sia con l’ausilio di docu-menti che di eventuali formule matematiche – studiare “cavalconi”) ma deve fissare, di volta in volta, sguar-di e interrogativi attuali, che siano in grado di fornire rinnovate spiegazioni, coscienti sempre della provviso-rietà che ogni “racconto” comporta. La formazione di un numero monografico come questo nasce dalla bella mostra e dalla giornata di studi orga-nizzata e coordinata da Antonella Armetta e da Maurizio Vesco (Ponti in pietra nel Mediterraneo in etàmoderna, Palermo, Archivio di Stato, dicembre 2014-gennaio 2015). Un editoriale non può assumersi l’am-bizione di registrare, neanche sinteticamente, le intenzioni degli autori, gli approfondimenti puntuali intor-no a un tema, come quello dei ponti, che comunque già in molteplici occasioni è stato oggetto di indagini,studi, considerazioni, spesso autorevoli. Gli intrecci mutevoli che la costruzione di un ponte genera, ingloban-do ingredienti tecnici, modulazioni formali e intenzioni simboliche, sarebbero un argomento in buona partescontato se tra le storie qui raccontate non si annidassero specificità, protagonismi, occasioni, scale e punti diosservazione inediti. Di tutto questo siamo grati agli autori dei saggi: Alicia Cámara, Luis Arciniega, AlfredoBuccaro e, infine, Antonella Armetta e Maurizio Vesco, questi ultimi anche nella qualità di curatori chehanno seguito con attenzione la nascita del numero.

Marco Rosario Nobile

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El puente de Zuazo fue uno de los más famosospuentes de piedra del siglo XVI, porque comunicabaa Cádiz con tierra firme y por consiguiente resultó serun elemento estratégico para garantizar el control ycomercio con las Indias, ya que Cádiz defendía lagran bahía que garantizaba la llegada de las flotas deIndias hasta Sevilla [fig. 1]. Por ello es uno de lospuentes de cuya construcción se conserva más docu-mentación, puesto que fue supervisada por elConsejo de Guerra, cuyos fondos guarda el ArchivoGeneral de Simancas. También se conservan dibujosque muestran la evolución del puente mientras inter-venían canteros e ingenieros en su construcción yreformas, que analizamos junto con una documenta-ción inédita que ejemplifica una vez más la circula-ción de profesionales en los reinos de la monarquíahispánica. En el intervinieron el ingeniero venecianoJuan Marín, experto en cimentación en agua, canterosde origen vizcaíno, o el Ingeniero Mayor de losReinos de España, Tiburzio Spannocchi. Además,aspiró a ser maestro del puente el ingeniero y trata-dista Cristóbal de Rojas, poco antes de que llegaran ala ciudad otros dos grandes tratadistas de canteríaespañoles de la época, Ginés Martínez de Aranda yAlonso de Vandelvira. Todo ello convierte a estepuente en rico caso de estudio para la historia de lacantería y la ingeniería en el Renacimiento.

Que Cádiz era una isla lo sabían todos, y así en elTesoro de la Lengua castellana o española de Sebastián deCovarrubias, del año 1611, lo primero que se dice de«Cáliz» es que «en lenguaje vulgar y corrupto se dicela isla que está cerca del estrecho de Gibraltar, en elmar Océano, dicha Gades, Gadira»1. Era una de lasislas del Océano, famosa y antigua, que al decir de loscronistas, había sido llamada Tartesos, Carteia,Eritrea y Gadir, con inmensas riquezas que no deja-ron de alabar los autores antiguos2. Si leemos unaconsulta de la Junta de Guerra de 1647, cualquieradiría que Cádiz era el centro del orbe, como lo pare-cía en el dibujo circular de la bahía [fig. 2] (en el quese representa el puente), porque no sólo era la llaveque aseguraba las costas andaluzas, sino que era tam-bién «la defensa principal de España», y aseguraba«el comercio universal del orbe y los tesoros de lasIndias»3. Por eso fue tan famoso el puente que asegu-ró el acceso por tierra a la ciudad, cuya ubicaciónvemos en el dibujo del atlas de Pedro Texeira de16344 [fig. 3], así que no nos puede extrañar que en1592 el duque de Medina Sidonia escribiera quehabía que cerrar con piedra el arco principal, ya queel puente «importa tanto como la fortificación»5. Dehecho, y por la vulnerabilidad de una isla,Vespasiano Gonzaga opinó que Cádiz debía estarabastecida para soportar un largo asedio, porque si el

CANTERÍA E INGENIERÍA DEL RENACIMIENTO EN EL PUENTE DE ZUAZO EN CÁDIZ*

Alicia CámaraCatedrática, Universidad Nacional de Educación a Distancia (UNED)[email protected]

AbstractStereotomy and Engineering of the Renaissance in the Zuazo Bridge in CadizThrough drawings we can study one of the most famous stone bridges of the Sixteenth century, which affected the defense ofa bay that was key for the monarchy and it's control and trade of the Indias. The fact that several of the best experts instereotomy in Spain, as well as great engineers all were in Cadiz during the turn of the century makes it a remarkable casestudy for the history of construction. If we analyze the unpublished documents about this bridge we can also understand howthe movement of profesionals in the Spanish monarchy worked, as both venetian engineer Juan Marín, expert in foundationsin water, and Tiburzio Spannocchi, the Main Engineer of the Spanish Crown worked in it, as well as several stonemasonsfrom Bizkaia (Basque Country).

KeywordsBridge Engineering, Cádiz, Juan Marín, Tiburzio Spannocchi, Stone Construction

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recordar la concepción global que tenía la monarquíaespañola de sus reinos, que situaba a Cádiz a mediocamino entre el Atlántico y el Mediterráneo, de locual podemos poner tres ejemplos no de teóricos ohistoriadores, sino procedentes del mundo de laingeniería militar y la fortificación. El primero son laspalabras del príncipe Juan Andrea Doria el 11 deagosto de 1597, al informar sobre la fortificación deCádiz en el momento en que se debatían los proyec-tos tras el ataque inglés del año anterior. Expresabaque uno de los temores era que desde Levante llega-se una gran armada de galeras y los moros deBerbería7. Así pues, aunque Cádiz sea una ciudadatlántica, tener el Mediterráneo a sus espaldas lahacía todavía más vulnerable. En la misma línea deconcepción global de un peligro que podía unir dosmares se manifestaba el ingeniero LeonardoTurriano. En el manuscrito en el que describió lasplazas de Orán y Mazalquivir, escribió que si el turcose apoderase del puerto de Mazalquivir, se haríadueño del reino de Fez y Marruecos, y si eso sucedie-ra habría llegado hasta el Mar Océano, se hubieraapoderado de Canarias, y desde allí, aliado con otrosenemigos, hubiera podido pasar a las Indias8. Comovemos, las espaldas del Atlántico, ese marMediterráneo, eran importantes incluso para eldominio de las Indias. Finalmente, y en ese sentido, elingeniero Spannocchi expresó muy claramente lo quesignificaba Cádiz para la monarquía española cuan-do escribió que de ella dependía «el entorno total dela gran contratación de las Indias»9 .El nombre del puente procede de un segoviano llama-do Juan Sánchez de Zuazo, quien lo fabricó en el sigloXV10, aunque sus orígenes parece que se remontabana la antigüedad romana. En 1485 a Juan de Zuazo«cuyo es el castillo de la Puente de Zuazo» le obliga-ron a no impedir que la villa de Puerto Real tuvierauna barca para llevar pasajeros de la Matagorda aCádiz11. Así pues, el paso entre la isla y tierra firmesiempre estuvo protegido por una fortificación, yaque se habla de un castillo en el siglo XV, y veremosque los ingenieros Fratin y Spannocchi se ocuparonde reformar y ampliar esa defensa, hasta llegar al grandesarrollo del recinto defensivo que vemos en algúnproyecto del siglo XVIII [fig. 4]. Por otra parte, Juan deZuazo había monopolizado la comunicación de la islade Cádiz con tierra firme, que acabaría convertida enpiedra en el puente, y sin duda el cobro de los dere-chos de paso le darían buenos ingresos.

enemigo tomaba el puente de Zuazo, o entraba porel y hacía una trinchera que atravesara también elarrecife, sería muy difícil socorrerla. Era sin dudaalgo a tener en cuenta si se quería conservar el granpuerto natural que era Cádiz, porque, recordabaVespasiano, no había hasta la frontera francesa masque otros dos igualmente buenos, que eran Rosas yCartagena6.Para comprender en todo su alcance la atención quemereció este puente por parte del duque de MedinaSidonia y del Consejo de Guerra, quizá sea necesario

Fig 2. Bahía de Cádiz, 1626 (España, Ministerio de Educación,Cultura y Deporte, Archivo General de Simancas, MPD 06, 044).

Fig. 1. Bahía de Cádiz y entrada al Guadalquivir con la llegada delos barcos de la flota de Indias, en P. Texeira, Descripción deEspaña y de las costas y puertos de sus reinos, 1634 (Bibliotecade la Universidad de Uppsala).

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El ingeniero veneciano Juan Marín

Entre 1574 y 1590 Juan Marín fue el maestro mayor delpuente de Zuazo y de la fortificación de Cádiz. Nacióy se formó en Venecia «en el arte fabricatoria pública ymilitar»12. Es un personaje desconocido por la historio-grafía, a la vez que un excelente ejemplo de cómo seformaban los ingenieros, y de la circulación de profe-sionales de la arquitectura por las fronteras de lamonarquía. Conocemos varios memoriales suyos quenos dan noticia de su carrera en España. Proclama seruno de esos hombres que aspirando a «la virtud y lagloria destierran de sí las tinieblas de la ignorancia»,así que él, formado en Venecia, ciudad que califica defamosa, con los preceptos de su padre y abuelo, inge-nieros del senado veneciano «y hombres de grandeinteligencia en esta profesión», resume ese aprendiza-je en «estudios, fatigas, speriencias y pláticas de diver-sos años». Todo ese aprendizaje, que basa en los estu-dios teóricos y sobre todo en la experiencia, le habíallevado a conocer secretos importantes para la guerraal final de su vida, cuando en 1588 ofreció a Felipe IIsus inventos13. Para explicarnos como llegó a Cádiz un ingenieroveneciano, no nos basta sólo con saber de la importan-cia de esas fortificaciones y ese puente, o que 1574,cuando llegó, fue un año clave porque entonces serenovaron los esfuerzos en fortificaciones por parte dela monarquía tras la toma de La Goleta por los turcos,debemos recordar también que existía una fuerte rela-ción de Cádiz con Venecia. Sobre esa relación, Agustínde Horozco, relataba en 1598 que los venecianos habí-an reedificado la ermita de San Sebastián tras su ruinaen 1587, con estas palabras, y que en la torre habíancolocado «un león con dos alas en el cuerpo, diademaen la cabeza, i un libro abierto en las manos, segúntiene por significación el glorioso evangelista SanMarcos, patrón de aquella ciudad»14. Quizá por elloJuan Marín, que en los memoriales firma ya con sunombre castellanizado, pudo tener las relaciones nece-sarias en la ciudad como para que le contrataran comomaestro del puente. Sin duda lo que le avalaría sería laexperiencia que tenían los constructores venecianos defundar edificios sobre el agua, aunque con el tiempoMarín se consideró experto también en fortificación yen ingenios para la guerra. La estima en que se le tuvose ve en el salario, que fue de trescientos ducados alaño15, menos que lo que ganará Cristóbal de Rojascomo ingeniero en las fortificaciones de la ciudad, que

fueron 40 escudos al mes, pero más de lo que muchodespués, en 1608, ganaría Alonso de Vandelvira comomaestro mayor de la ciudad, que fueron veinticincoescudos al mes16.Juan Marín fue a la corte a comienzos de 1589, paramostrar al rey en persona, entre otros, un ingenio paraponer en defensa una armada, «de navíos de altobordo y de remos», y otros «secretos y ardides de gue-rra»17. Parece casi mágico lo que proponía, porque nin-guna de las balas del enemigo dañarían la armada ni ala gente de mar y tierra que en ella iría, y en cambiopodría atacar al enemigo sin que los bajeles de remosufrieran ningún daño. Probablemente este tipo deafirmaciones, expuestas en la carta firmada en Cádiz el18 de diciembre de 1588 es lo que hizo que un rey tannecesitado de ingenios de guerra naval, y más tras eldesastre de la Armada contra Inglaterra, le llamara a lacorte para escuchar y valorar sus inventos. Era precisosaber qué era aquello «que asta ahora no se a oído nivisto». Además quería dar al rey su opinión sobre lafortificación de Cádiz que tan bien conocía18, a la vezque pretendía pedir el título de ingeniero general, para

Fig. 3. Cádiz, en P. Texeira, Descripción de España..., cit.

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el cual, decía, llevaba formándose tantos años. El pro-cedimiento para llegar hasta el rey fue el mismo que elseguido por otros ingenieros, y se justificaba la presen-cia en la corte por la necesidad de ser oído directamen-te por el rey («se sirva de oírme»). Allí, con la planta yel compás, como todos los ingenieros, explicaría al reylos problemas de esa fortificación. Así que fue a la corte, al parecer sin que el corregidorde la ciudad de Cádiz pusiera ningún problema parasu desplazamiento, manteniéndole el sueldo que teníaen las obras del puente y la fortificación de Cádiz. Nosabemos si pudo tener algo que ver en las facilidadespara que consiguiera acceder al rey, la vinculación delas obras de Cádiz y su puente al duque de MedinaSidonia, que fue quien dirigió la Armada, e incluso elque en Cádiz se hubieran construido barcos para esaempresa, lo que llevaría al ataque inglés a Cádiz de1587, para dificultar esas construcciones de navíos. Endefinitiva, que Marín había estado en uno de los cen-tros que estuvieron en el ojo del huracán de la políticaatlántica de la monarquía. En su memorial de 20 de mayo de 1589 dice que lleva

ya cinco meses en la corte por orden del rey, y expli-ca que, de esos secretos y ardides, sólo ha hecho elmodelo de galeón puesto en defensa que el rey havisto. Otro es una trinchea móvil para tiro de arca-buz, «en la qual se verá admirable provecho por suligereza y por el modo de offender y desvaratar elesquadrón de cavallería e infantería enemiga»19.Otro invento era «enjugar la polbora con fuego enMar y Tierra», es decir, secar la pólvora mojada, loque era sin duda uno de los problemas más graves alos que se podía enfrentar un ejército. Y sigamos,porque no acababan aquí las maravillas del venecia-no, otro de sus ingenios era cómo «fortificar y fabri-car debaxo de la mar que ha visto Andrés de Alva,secretario de la guerra». También sabía como dete-ner los navíos de fuego para que no llegaran hasta laArmada, hacer puentes con rapidez para el paso dela artillería y caballería, que la artillería fuera porterrenos pantanosos, hacer escalas… 20 . El hecho deque uno de los inventos que quería presentar al reyfuera cómo fortificar y fabricar debajo del mar noshabla de sus orígenes, pero también de lo necesario

Fig. 4. Puente de Zuazo en 1724 (España, Ministerio de Educación, Cultura y Deporte, AGS, MPD 33, 026).

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que era eso en las obras de fortificación de las fronte-ras marítimas del rey, ya que era el invento quehabía visto el secretario del Consejo de Guerra.Marín sabía qué era lo necesario para la guerra enmar y tierra, aunque parece saber más de la guerraen el mar, pero no fue el único que en ese año pre-sentó sus ingenios para la guerra al rey, también lohizo por ejemplo el alemán Martin Alteman21.Sobre la fortificación, criticaba en 1588 el proyecto deFratin, quien «aunque era soldado y hábil no tuboraçon de ensancharse tanto en esta fortificación», «y elacaballa será casi infinito», además de que resultaríamuy costosa, más de seiscientos mil ducados, necesi-tando todo un ejército para defenderla, «y no será tanfuerte como siendo más recogida»22, en todo lo cualcoincidía con las críticas que con el tiempo sufrió esteproyecto de Jacome Palearo Fratin para Cádiz23. Y si losabía era porque había sido teniente en la fortificaciónen ausencia del Fratin «y e visto la intención de todoslos ingenieros que V. Md. a embiado a ella antes y des-pués del fratín»24. Sus argumentos demuestran queefectivamente sabía de fortificación porque explicabaque, al reducirla, los baluartes serían «más conmunica-bles y alcançarán la arcabucería de uno a otro», quesiempre fue principio de eficacia de la fortificaciónrenacentista. Proponía también cómo cerrar con nue-vas fortificaciones la bahía, que estaba «abierta paraamigos y enemigos» hasta dejar tan solo el canal cen-tral, por donde entraban y salían las naves, pero demanera que la artillería pudiera hundir a cualquiernavío enemigo.Orgulloso de sus treinta y seis años de servicio,muchos de ellos en guerras y fábricas del rey, consi-guió que le asignaran al servicio del prior donFernando, un poderoso militar, hijo natural del IIIDuque de Alba, experto en las guerras de Flandes yPortugal, pero sobre todo cortesano y miembro delos consejos de estado y guerra del rey25. Entrar alservicio de uno de los grandes militares que habíallegado a consejero del rey fue sin duda un enormetriunfo, y la culminación de una carrera iniciada enVenecia y desarrollada en la lejana Cádiz. En esemomento de plenitud profesional, aseguraba quereforzaría «su yngenio y arte», pedía el título deingeniero y un sueldo, y no dejaba de señalar que elrey había guardado en su recámara el modelo que élhabía hecho, suponemos que refiriéndose al galeón26.Poco le duró la satisfacción, porque en 1590 murió enla corte, sin haber regresado a Cádiz.

Canteros, ingenieros y un duque

Aunque Juan Marín murió en 1590, es a él a quienrecuerda la relación del año 1597 del saqueo inglés delaño anterior como maestro mayor del puente, «obramaravillosa y de inmenso gasto», que se había cimen-tado dejando caer los sillares de piedra hasta llegar alnivel del agua, sobre lo cual se hicieron los arcos. Esaspiedras con el agua salada «se abrazan y conglutinande tal manera unas con otras, que se viene a hacer todouna dura roca». En esa fecha no estaba cerrado el arcocentral, que se pasaba con maderos gruesos. En latraza había proyectadas dos torres bien artilladas parasu defensa27. Los problemas de cantería y de fortifica-ción fueron los que ocuparon a los responsables de laobra del puente, siendo en última instancia el consejode guerra quien decidía, pero siempre escuchando laopinión del duque de Medina Sidonia, capitán del MarOcéano y Costas de Andalucía28. Al duque se puedeligar también otra de las obras de Juan Marín comofueron las trazas de 1583 para las torres grandes ypequeñas de la costa de Sanlúcar, el dominio delduque, en las que firmaba como maestro de la puentey fortificación de Cádiz [fig. 5].Pese a los elogios a la cimentación del puente, el inge-niero Cristóbal de Rojas, que se había formado comocantero y siempre hizo alarde de sus conocimientos decantería29, criticó duramente la cimentación del puentede Zuazo. Todos sabían que esa era la clave de unbuen puente de piedra, porque dado su peso debíatener unos cimientos fuertes y estables. Lo cierto es

Fig. 5. J. Marín, Planta y elevación de las torres grandes para forti-ficar la costa de Sanlúcar de Barrameda hasta el cabo de Santa María(España, Ministerio de Educación, Cultura y Deporte, AGS, MPD05, 022).

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no34. El puente se había iniciado en 1549 «por traza yparecer» de Esteban de Guilisasti, después de haber-se consultado a maestros de Málaga y Jerez de laFrontera. El hermano de Esteban, maestro mayor dela obra, Nicolás Guilisasti, fue maestro mayor de lospontones, y se ocupó de extraer la piedra de las can-teras de Santi Petri. El que fue una obra que siempremereció toda la atención de la ciudad, del duque deMedina Sidonia y del consejo de guerra, lo muestraque en 1572 la visitó Juan Pedro Livadote, «ingenie-ro que dixo ser de su magestad», en compañía deAsensio de Maeda, «maestro mayor de las yglesiasde Granada y de ciertas obras de la ciudad deSevilla», para «dar traça y orden en lo que en ella sedebía haçer para que fuese la dha obra fuerte y entoda perfection»35. Asensio de Maeda es bien conoci-do para la historiografía del Renacimiento, y apunte-mos tan solo que Juan Pedro Livadote fue un inge-niero italiano muy vinculado al duque de MedinaSidonia, para quien trabajó en obras de arquitectura,y como ingeniero trabajó en obras públicas enMadrid, y visitó las torres de la costa de Andalucía.A Juan Marín le sustituyó el vizcaíno Miguel deArteaga36, yerno de Esteban de Guilisasti, que se hizocargo de la obra hasta que murió, habiendo trabaja-do tanto él como su hermano Nicolás en las fortifica-ciones de la ciudad37. Así que una vez pasado elperiodo de Juan Marín, a quien sin duda se elegiríapor su habilidad para fundar en el agua, la obra vol-vió a manos de un cantero, de la misma familia, en

que para cuando Rojas escribió su crítica, en 1607,debía estar bastante harto de los ingenieros extranje-ros, porque precisamente las tres obras que dice queestaban cimentadas echando piedra en el mar, habíansido construidas por italianos. Eran Cabeza Seca enLisboa, que además generó una gran polémica por suforma entre Spannocchi y Leonardo Turriano30, elmuelle de Málaga, construido por Fabio Borsotto31, yeste puente de Zuazo, del que sabemos ahora que elcastellanizado nombre de Juan Marín esconde uningeniero veneciano. La opinión de Rojas sobre esamanera de cimentar arrojando grandes piedras al marhasta alcanzar la superficie del agua, que era la mane-ra de construir generalizada a finales del XVI32, nopodía ser más demoledora, pues «lo mismo hicierauno que naciera en Indias donde no saben fabricar,porque semejante fabricar no es cosa ni de arte ninueva, porque ha muchos años que los romanos lousaban en la guerra para cegar los fosos de agua»33.Rojas proponía su propia invención, pero lo cierto esque hoy el puente de Zuazo sigue en pie [fig. 6].Antes de la llegada del veneciano experto en fundarsobre el agua, el puente de piedra lo había iniciadouno de esos canteros procedentes del norte deEspaña, Esteban de Guilisasti, de Vizcaya en estecaso, que como sabemos fueron los responsables dela excelente cantería de la arquitectura delRenacimiento español. La familia Guilisasti procedíade Usurbil, en Guipúzcoa, y varios de sus miembrosse habían especializado en hacer piedras de moli-

Fig. 6. Puente de Zuazo en la actualidad.

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un comportamiento de la profesión que explica tam-bién la transmisión de muchos de los oficios de laconstrucción en la época moderna.En 1590, al tiempo que se nombraba a Arteaga, elduque envió al rey dos trazas en la que se indicabael estado del puente [figs. 7-8]. Se pensaba entoncesdar la obra a destajo para acabarla de una vez, yaque llevaba muchos años esperando a ser finaliza-da38. También ese año Cristóbal de Rojas pidió que,a cambio de que se le aumentara el sueldo que teníapor ejecutar la fábrica de las fortificaciones, se leencargara también la obra del puente, «edificiopúblico» donde siempre habían trabajado «maestrosmuy suficientes en el arte de cantería»39. No lo con-siguió, y además la fortificación del puente estuvoen manos de ingenieros que llegaron de la corte, loque tampoco debió gustarle mucho: en 1587 elConsejo de Guerra había pensado en Jorge Fratinpara ir a Cádiz, donde utilizaría la traza de su famo-so hermano Jacome, ya fallecido, para la torre delpuente de Zuazo40, aunque finalmente fueSpannocchi el que viajó a Cádiz, y a comienzos delsiglo XVII, siendo ya Rojas ingeniero, siguió siendoSpannocchi quien informó sobre el puente en todossus aspectos. El entorno del puente era también importante para laseguridad, y así, donde acababa el puente salía unarrecife artificial, que habían hecho los romanossobre una zona de pantanos. Había que repararlotodos los años porque el agua se lo llevaba41. Pero

Fig. 7. Puente de Zuazo, arco central, 1592 (España, Ministeriode Educación, Cultura y Deporte, AGS, MPD 08, 068).

Fig. 8. Puente de Zuazo, 1592 (España, Ministerio de Educación, Cultura y Deporte, AGS, MPD 13, 037).

más importante fue decidir qué hacer con los arcos,si mantener los tres, y si hacer en piedra el arco cen-tral. En su viaje de 1587, Spannocchi propuso taparuno de los arcos del puente, el que estaba hacia laparte de la isla, ya que serían suficientes los otrosdos, y así lo podemos ver en el dibujo que hizo [fig.

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9], en el que dibuja también la torre que se debía hacerhacia la parte de tierra, que bastaría para la defensa42.Sin embargo, el duque de Medina Sidonia pensabaque dos arcos no bastarían para que pasase todo elcaudal de agua del canal. Más tarde, en 1592, tambiénel duque informó desde Sanlúcar que se había quema-do el arco central del puente por ser provisional demadera, al quemarse dos naves que estaban en carenaen el río Santipetri43, y que convenía cerrar de piedrael arco principal44. El proyecto se concretó tras la visi-ta al puente, por orden del duque, del corregidor donFernando de Añasco, otros diputados de la ciudad yel maestro mayor de la fortificación, que era FranciscoArmentia, quien había sustituido a Rojas durante laestancia de este en Bretaña, así que se puede decir quefue un proyecto colectivo, en el que opinaron muchos,y no todos expertos en construcción, pero sí en la fun-cionalidad exigida al puente. El presupuesto, deta-llando todas las partidas, fue elaborado por los maes-tros de cantería de la ciudad.

Envió entonces el duque las dos trazas citadas, queson de enorme interés para la historia de la construc-ción en piedra. En los dibujos vemos la grúa y elpuente cimbrado, siendo la cimbra lo más difícil dehacer un arco de piedra. Se dibujan con precisión lostajamares del arco central que eran semicirculares ybajos, tal como se construyeron. Este fue un temadebatido incluso entre los tratadistas, por consideraralgunos que los tajamares en ángulo recto y altos eranmás eficaces para cortar el agua, lo que se había expe-rimentado en Castilla y León a lo largo del siglo XVI,y era la opinión por ejemplo de Fray Lorenzo de SanNicolás en su Arte y uso de arquitectura, ya en el sigloXVII45. De altos tajamares y en ángulo recto fue elpuente de Ariza sobre el río Guadalimar, proyectadoen 1562 en las cercanías de Úbeda por Andrés deVandelvira y construido entre 1564 y 1581, con un cui-dado trabajo en las dovelas de los arcos46, hoy sumer-gido en el embalse de Giribaile. La excelencia en lacantería de los Vandelvira, padre e hijo, de tradiciónfamiliar, se remonta al suegro de Andrés, el maestrocantero Francisco de Luna47, natural de Alcaraz comoel mismo Vandelvira, que hizo el puente de San Pabloen Cuenca, cuyos arcos cerrará el yerno, y cuya impo-nente construcción se puede ver en el dibujo esa ciu-dad realizado por van den Wyngaerde de 156548. Alhijo de Andrés, Alonso de Vandelvira, nos lo encon-traremos a comienzos del siglo XVII en las obras defortificación de Cádiz, trabajando codo con codo conCristóbal de Rojas, quien pensaba que era tan excelen-te en su profesión que si Vandelvira hubiera estado enRoma, hasta allí habría habido que ir a buscarlo paraque trabajara en Cádiz49. Para construir un puente, o reformarlo como es elcaso, era necesario todo un trabajo previo, así que enagosto de 1592, se decidió que en ese invierno seharían las grúas, pontón y cimbrias, es decir todo loque fuese de madera, para comenzar en febrero atraer la piedra de Santi Petri, sustituyendo tambiénlas piedras requemadas, y una vez reunido todo elmaterial en tres meses se cerraría el arco. Costaría5.227 ducados50. Los dos tajamares de la parte delmediodía estaba, uno por comenzar, y el otro conuna hilada. Llevarían «migajón» dentro, pero sinlabrar. A los dos tajamares de la parte de Puerto Realsólo les faltaban dos hiladas. Se presupuestaron tam-bién las enjutas entre los tajamares y el arco. Cada una de las 450 piedras necesarias para cerrar elarco (42 hiladas de 10 piedras cada una, más las que se

Fig. 9. T. Spannocchi, Rasguño del puente de Zuazo, 1587(España, Ministerio de Educación, Cultura y Deporte, AGS,SGU 03352, 90).

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pudieran romper) costaría 2 ducados, en total 900ducados. Diferenciaban en ese precio lo que costabaextraerlas (dos reales y medio), trasladarlas (dos),subirlas al puente donde se labraban (dos), y asentar-las, que era lo más caro, cuatro reales51. Dudan si hacersobre arco o dejar sólo un arco, en cuyo caso se le echa-ría «una torta de ormigón porque los coches y carrosno le atormenten», pero piensan que sería mejor hacerlos dos arcos para que no cayera el de arriba. Eso haríasubir dos pies el firme, obligando a allanar el paso contierra, con nuevas piedras de sillería, que al ser cuadra-das de 27 pies costarían más caras, 3 ducados.También se calcula el coste del «migajón» de en medio,y los dos «callejones» para poner las grúas, labrar laspiedras y dar paso a la gente. La cimbria para el arcotenía que llevar diez cimbrones y cada uno de elloscinco pinos reales52. Se detalla cada una de las partidas,y así por ejemplo, las dos grúas costarían cuatrocientosducados cada una, la cimbra 700 ducados… y vansubiendo las partidas, hasta llegar al coste citado.

Pero como siempre, todo avanzaba muy lentamente,y en 1595 ese ojo seguía sin cerrarse de piedra, y sinreparar los caminos del arrecife53. Y menos mal, por-que el puente tuvo que romperse durante el ataqueinglés de 1596 para que pudieran salir las galeras54.Por eso en los proyectos siempre se pensó en un puen-te con dos vertientes, y no horizontal, tal como vemosen el dibujo de 1648 [fig. 10] para permitir el paso debarcos desarbolados, aunque el puente en la actuali-dad tiene una inclinación que es mucho menos acusa-da que la de ese dibujo, y se parece más a los de 1592y 1602. En el informe que acompañaba los dibujos de1592 se especificaba que el «rehinchimiento» desde laclave del arco hasta una distancia de cuarenta pies encada lado iba señalado en pardo, y podemos compro-bar la inclinación que debió tener. El hecho de no serde rasante horizontal dificultaría algo el tránsito delos carros, y de ahí sin duda la suavidad de la pen-diente, que sin embargo conseguiría evitar la necesi-dad de los desagües del agua de lluvia por caños late-

Fig. 10. El puente de Zuazo en 1648 (España, Ministerio de Educación, Cultura y Deporte, AGS, MPD 50, 083).

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rales. De rasante horizontal había sido el monumentalpuente de Segovia en Madrid, obra de Juan deHerrera, pero no lo fue el citado de Ariza porVandelvira, aunque el problema se resolvió de otramanera, ya que en principio, al parecer, fue una línearecta en pendiente, y no en doble vertiente como se veahora55. También en el dibujo realizado porSpannocchi en 1587, se aprecia que la amplitud del ojocentral que se quería hacer obligaba a la doble caídadel puente, y esa característica nunca cambió una vezacabado, lo que comprobamos no solo por las fotos,sino también en la preciosa vista que en el siglo XVIIIhizo del puente Mariano Sánchez [fig. 11]. Por otra parte, ya hemos visto que siempre fue unpuente fortificado, y es lo que hizo que para él pro-yectaran defensas tanto Fratín como Spannochi. Sedebatió si debía tener dos fuertes, opinión que defen-día el conde de Fuentes – a quien nos encontraremosaños después como gobernador de Milán y expertoen fortificaciones – uno a cada lado, o tan sólo uno.En 1597 se decidió hacer sólo el fuerte de la parte dela isla, presupuestado en 1500 ducados56 y que en la

parte de tierra firme se hiciera sobre un arco una pla-taforma para tres o cuatro piezas de artillería. No sehizo nada, y en 1648 se decidió retomar esa decisión,para con esa fortificación, que aparece en el dibujode ese año, evitar que los enemigos pudieran pasarpor el puente y quemar los barcos que se llevaban eninvierno a la Carraca, ya que el puente era para ladefensa de Cádiz «la parte más necessaria y pordonde se puede recelar qualquiera desdicha depoder entrar embarcaçiones»57.Antes de ello, el Ingeniero Mayor de los Reinos deEspaña, Tiburzio Spannocchi, se había vuelto a ocu-par del puente en su última visita a Cádiz en 1603.Como ya lo conocía, el año antes, en 1602, hizo uninforme y un dibujo, además de una detallada rela-ción de cómo acabarlo [fig. 12]. Se centró en la cons-trucción en piedra, en concreto en la medida de laspiezas de cantería para hacer el pretil, unidas por«gafas» de hierro, o el empedrado del suelo. Uno delos problemas que se planteaba en ese año era dóndeconstruir la torre, si al final del puente o en medio.Spannocchi, siempre tan amigo de su opinión, no se

Fig. 11. M. Sánchez, Puente de Zuazo, 1782 (España, Patrimonio Nacional).

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muestra en cambio en este caso muy beligerante, yopina que se debe hacer en la entrada del puente,pero admite que se pueda hacer en el centro, lo queno impediría afrontar las obras que eran necesariasen ese año de 1602. El problema era que si se constru-ía en el centro se sobrecargaría el arco, y no podríaser lo grande que se requería por no ser bastante elancho del puente, y sobre todo, al ser un arco convertientes hacia ambos lados desde el arco central,iba a ser difícil de defender. La nueva torre estaríamejor a la entrada de la puente, como vemos en losrasguños de 1587, y no en medio, para así «no cargar

el arco de tan gran máquina»58. Todo ello lo acompa-ñó de una traza que, si bien no está firmada, parecehecha de su mano. En ella quiere mostrar por ejem-plo que el pretil debía rematarse de forma redonda.Con respecto a la piedra, sugiere no usar la que siem-pre se usó en Cádiz, que fue la de Santi Petri, sinoque se sacara del foso de la puerta de tierra de Cádiz,con lo que se ganaría hacer el foso y de paso abaste-cer de piedra la fábrica del puente. Sin embargo,debía ser el que había cogido la obra a destajo quienlo decidiera, porque no era justo obligarle a ello. A loque se opone es a que el destajero pueda aprovechar

Fig. 12. Puente de Zuazo, acompañando el informe de Tiburzio Spannocchi, 1602 (España, Ministerio de Educación, Cultura y Deporte, AGS,MPD 34, 011).

Fig. 13. Planta de la bahía de Cádiz donde se rindió el navío inglés El Amor Verdadero, 1615 (España, Ministerio de Educación, Cultura yDeporte, AGS, MPD 19, 202).

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* Este trabajo forma parte del proyecto de I+D+i El dibujante ingeniero al servicio de la monarquía hispánica. Siglos XVI-XVIII (DIMH), HAR2012-31117,Ministerio de Economía y Competitividad (España).1 S. COVARRUBIAS OROZCO, Tesoro de la lengua castellana o española (1611), ed. de Felipe C. R. Maldonado y Manuel Camarero, Madrid 1995, p. 237.2 Esta riquezas «largamente nos refiere Strabon con la autoridad de Homero, y Anacreonte». J. DAMETO, Historia General del Reyno Balearico. Dedicadoa los muy Ill. Y Mag.ss. Jurados de Mallorca el doctor Juan Dameto su Chronista, Mallorca 1631, p. 16.3 Archivo General de Simancas (AGS), Guerra y Marina, leg. 1697, s.f., «Junta de presidios concurriendo en ella el conde de Castrillo».4 El atlas de Texeira ha sido publicado por F. PEREDA, F. MARÍAS, El Atlas del Rey Planeta. La «Descripoción de España y de las costas y puertos de sus rei-nos» de Pedro Texeira (1634), Hondarribia 2002. 5 AGS, Guerra y Marina, leg. 352, f. 138. El duque desde Sanlúcar el 24 mayo de 1592. 6 La opinión de Vespasiano Gonzaga se encuentra entre papeles recopilados en 1648 por Jerónimo de Soto, entre los que se encuentra el dibujo delpuente que reproducimos. Jerónimo de Soto era hijo del ingeniero del mismo nombre, que trabajó al lado de Spannocchi hasta la muerte de este, yheredó muchas de sus responsabilidades. AGS, Guerra y Marina, leg. 1697, s.f.7 AGS, Guerra y Marina, leg. 499, f. 28.8 A. CÁMARA, Leonardo Turriano al servicio de la Corona de Castilla, en A. CÁMARA, R. MOREIRA, M. VIGANÒ, Leonardo Turriano, ingeniero del rey, Madrid2010, pp. 15-120, p. 88.9 AGS, Guerra y Marina, leg. 610, f. 52. Informe de Spannocchi desde Cádiz el 30 de junio de 1603.10 En julio del año 1435 «murió el Dotor Iuan Sanchez de Zuaço, ilustre Segoviano, que fabricó la famosa puente de Cádiz, nombrada hasta hoi puen-te de Zuaço. Yaze en el templo Parroquial de San Esteban de nuestra Ciudad en la capilla de la Madalena». D. DE COLMENARES, Historia de la insigneciudad de Segovia y compendio de las historias de Castilla, Segovia 1640, p. 340. Suárez de Salazar por su parte escribe que el nombre se debe a «ciertocaballero deste apellido, a quien en tiempos pasados dieron los Reyes de Castilla la Isla, que oy llamamos de León», p. 134. Ponz recoge esta histo-ria en el siglo XVIII, ver P. CHÍAS, T. ABAD, La bahía de Cádiz: territorio fortificado y paisaje, en P. CHÍAS, T. ABAD, El Patrimonio fortificado. Cádiz y el Caribe:una relación transatlántica, Alcalá de Henares 2011, pp. 26-169, cit., p. 96.

la piedra que había al lado del puente, aunque solofuera la que cubría el agua en bajamar, por ser muyinconveniente para la obra.En ese año de 1602 seguía sin cerrarse el arco princi-pal, y el duque de Medina Sidonia consultó de nuevopara hacerlo con los canteros, así como con el inge-niero Cristóbal de Rojas59 . Fue un año clave paraentender por qué Cádiz se convirtió en un centroespecializado en cantería en la época, en cuyas forti-ficaciones trabajaron o informaron maestros proce-dentes de Sevilla, y en concreto de la fábrica de sulonja, como Minjares o el mismo Alonso deVandelvira60. En 1602 había muerto Francisco deArmentia, maestro mayor de las fortificaciones, y losdos aspirantes a sustituirle eran nada menos queAlonso de Vandelvira, maestro mayor de la Lonja deSevilla, y Ginés Martínez de Aranda, que era quienhabía hecho la catedral de Cádiz, así como Diego deArgüello61. Tanto a Vandelvira como a Martínez deAranda les debemos dos de los mejores tratados decantería del renacimiento español. Spannocchi reco-mendó que el cargo se le diera a Ginés Martínez deAranda, porque era «persona de mucha experienciaen fábricas y entiende bien qualquier medida»62, yfue el finalmente seleccionado, aunque inmediata-mente dejaría la ciudad siguiendo a su protector, elobispo don Maximiliano, nombrado ese mismo año

de 1602 arzobispo de Santiago de Compostela63.El puente de Zuazo no tuvo la monumentalidad delpuente más famoso probablemente de la época, quefue el que proyectó Juan de Herrera para la corte,con sus bolas escurialenses, integrado en el procesode monumentalización urbana emprendido porFelipe II en la capital de su monarquía, pero fue unpuente clave para la defensa de la bahía de Cádiz, ypor consiguiente de la carrera de Indias. En ese Tesoro de la Lengua castellana que citábamosal comienzo, hay otra entrada que es «Cádiz», en laque leemos que es «uno de los mejores puertos y ciu-dades de Europa; fue llamada Gades de Hércules,creyendo los antiguos que era el non plus ultra y finde la tierra, de cuyos siglos se conserva el siguienteepitafio: Yo, Eliodoro, loco, natural de Cartago,mandé en mi testamento me enterrasen en estesepulcro, aquí en el cabo del mundo, por ver si habíaotro más loco que yo en venir a verme»64. En el sigloXVII hacía ya tiempo que Cádiz no estaba en el cabodel mundo, y no había que estar loco para llegar aella, es más, estaba muy expuesta a los ataques ene-migos desde el mar [fig. 13]. Para los amigos, y desdetierra firme, el puente de Zuazo facilitaba el acceso ala ciudad. Las columnas de Hércules se habían tras-pasado, y Cádiz era ya un lugar central y estratégicopara el dominio de la mar Océana.

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11 AGS, Registro del Sello de Corte, leg. 148504, f. 231.12 AGS, Guerra y Marina, leg. 228, f. 66.13 Ibidem.14 A. DE HOROZCO, Historia de la ciudad de Cádiz, [1598] Cádiz 1845, p. 191. «En lo último deste campo está la hermita de San Sebastian, que es de buenacapacidad, i la capilla mayor está en el hueco de una torre, que conoci yo, de razonable altura, quadrada, obrada de mamposteria, que casi la mayorparte della se cayó el año de 1587, un dia despues de San Sebastian , con un recisimo temporal. Dicese que aviendose caido otra vez muchos años á,se levantó i renovó a costa de la nacion veneciana, cuyo trato en esta ciudad i navegacion de sus navios por estos mares era grande en aquella sazon,lo qual comprueban con la memoria de una piedra blanca quadrada que estaba casi en lo mas alto de la torre a la parte del mediodia figurado en ellaun leon con dos alas en el cuerpo, diadema en la cabeza, i un libro abierto en las manos, segun tiene por significacion el glorioso evangelista SanMarcos, patron de aquella ciudad».15 AGS, Contaduría Mayor de Cuentas, 2ª época, leg. 375, ff. 295-299.16 Sobre estas fortificaciones y los que trabajaron en ellas, se puede ver A. CÁMARA, Cristóbal de Rojas. De la cantería a la ingeniería. En Ingenieros delRenacimiento, a cura de A. Cámara, B. Revuelta, Madrid 2014, pp. 135-161.17 AGS, Guerra y Marina, leg. 269, f. 10. Tras exponer sus inventos en el memorial, solicita que, o se le atienda, o se le ordene partir de la corte. Estamosutilizando también la carta de diciembre de 1588 en la que explica con más detalle algunas de sus propuestas, que está en el f. 66 del mismo legajo. 18 AGS, Guerra y Marina, leg. 228, f. 66. 18 de diciembre de 1588. «Y es de creer que abiendo catorce años que estoi en esta ciudad terne reconocida lanaturaleza de todos los sitios y puestos della y lo que está fuerte y flaco y por donde el enemigo puede ofendella ansí por la mar como por la tierra».19 Según el diccionario de Covarrubias, una trinchea es «el valo o fosa que se hace para dividirse del enemigo, y que no pueda fácilmente acometerel real o a la fuerza».20 AGS, Guerra y Marina, leg. 269, f. 10. Memorial de «Joan Marin Ingeniero Veneziano» el 20 de mayo de 1589, cuando llevaba ya cinco meses en lacorte, llamado por el rey para presentarle sus inventos. Pide que se abrevie la decisión sobre él, ya que son muchos los gastos que está teniendo, y elmodelo del galeón lo ha hecho a su costa.21 AGS, Guerra y Marina, leg. 270, ff. 160 y 161. Se trata de un ingeniero artillero que había traído desde Alemania don Diego de Córdoba en 1555, yen ese año de 1589 ofrecía balas, trincheas y otras «cosas de ingenios» al rey. Hay más oferta de «ingenios de guerra» al rey en esos años, como losque presentó Bernardino Dávila, vecino de Talavera en 1590 para la jornada de Inglaterra. Ivi, leg. 312, f. 53.22 AGS, Guerra y Marina, leg. 228, f. 66. 18 de diciembre de 1588.23 Sobre estas fortificaciones, como un estado de la cuestión, puede verse, A. CÁMARA, El viaje del dibujante ingeniero: reconstruyendo Cádiz en 1603, enIl cantiere della città. Strumenti, maestranze e tecniche dal Medioevo al Novecento, a cura di A. Casamento, Roma 2014, pp. 121-146.24 AGS, Guerra y Marina, leg. 228, f. 66.25 S. FERNÁNDEZ CONTI, El prior Don Hernando de Toledo, capitán de Felipe II y de sus consejos de estado y guerra, en Il perfetto capitano: Immagini e realtà (seco-li XV-XVII), a cura de M. Fantoni, Roma 2001, pp. 87-134. El prior don Fernando fue caballero de la orden de Malta, y en sus largos años como mili-tar en Flandes o Cataluña, en especial en la frontera con Francia, se hubo de ocupar de fortificaciones y en la costa de las torres, sobre todo de las delos Alfaques de Tortosa, y se puede decir que fue un experto guerrero, con una intervención destacada en la campaña de Portugal, aunque su voca-ción fue la de cortesano, y en ese periodo final de su vida, ya como consejero del rey, es cuando Juan Marín fue destinado a su servicio. Morirá en1591, un año después que el ingeniero. 26 AGS, Guerra y Marina, leg. 269, f. 230.27 Relación de lo sucedido durante el ataque inglés escrita en 1597, reproducida en P. DE ABREU, Historia del saqueo de Cádiz por los ingleses en 1596,Cádiz, 1866, p. 76.28 Sobre el duque, ver L. SALAS ALMELA, Medina Sidonia: el poder de la aristocracia, 1580-1670, Madrid 2009.29 A. CÁMARA, Cristóbal de Rojas..., cit.30 R. MOREIRA, Leonardo Turriano en Portugal, en A. CÁMARA, R. MOREIRA, M. VIGANÒ, Leonardo Turriano..., cit., pp. 121-201, referencias a esta obra y sucimentación en pp. 170-171.31 A. CÁMARA, De Palermo a Málaga. Fabiano Bursotto y la ingeniería de puertos en el Renacimiento, en «Lexicon. Storia e architettura in Sicilia», 7, 2008, pp.7-22.32 Por ejemplo, así se había construido el muelle de la ciudad de Tortosa, y así se proponía cimentar la torre trazada por Spannocchi para los Alfaquesde Tortosa en 1594. AGS, Guerra y Marina, leg. 402, f. 33.33 Cristóbal de Rojas lo escribe en Cádiz, el 20 de enero de 1607, cuando propone su propio sistema, que acompaña de un dibujo, en el que explicacómo se clavan las estacas en el fondo, y las piedras, una vez agujereadas, se bajan por la estaca. Así se harán hiladas de piedra «como quien hace unpatio», cruzando las hiladas, como si se construyera en tierra. Una vez se llegue al nivel del agua, se construirá encima con mampostería. Otra posi-bilidad es hacer todo el armazón de madera en tierra, como una caja, que luego se llevará al agua, y se llenará de piedras, aunque el primer sistema,que ensarta las piedras, lo considera mucho mejor. C. DE ROJAS, Tres tratados sobre fortificación y milicia, Madrid 1985, pp. 347-350.34 A. AGUIRRE SORONDO, Piedras de molino del siglo XV al XIX, IV Congreso Internacional de Molinología, Mallorca 2005, II, pp. 101-124, p. 105. En 1571 tra-bajaban en Usurbil (Guipúzcoa) como «canteros de azer piedras de molino» Domingo de Gulisasti, de 43 años, y Juanes de Gulisasti, con el mismo

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oficio y de 27 años, con su hermano Juan López de Gulisasti. 35 AGS, Contaduría Mayor de Cuentas, 2ª época, leg. 375, s.f.36 AGS, Guerra y Marina, leg. 294, f. 207.37 AGS, Guerra y Marina, leg. 281, f. 195. La ciudad de Cádiz al rey el 27 de febrero de 1590, pidiendo que se apruebe el nombramiento y salario deMiguel de Arteaga. En 1557 habían informado sobre la fortificación de la ciudad de Cádiz Esteban de Guilisasti y su hermano Nicolás, cuando seocupaba de ella el ingeniero Giovan Battista Calvi. Ivi, leg. 65, ff. 171 y 172. 38 AGS, Guerra y Marina, leg. 285, f. 283. Carta del duque al rey, de 30 de junio de 1590, en respuesta a la orden recibida el 19 de dicho mes, «tocantea la fabrica del puente de Çuazo he hecho hazer la traça della que V Md vera y el estado en que se halla aquel edificio y lo que resta por acabar delques lo que se a señalado con puntos rojos y asimismo lo que parece se debria hazer en los baluartes para la guarda de la dicha puente».39 AGS, Guerra y Marina, leg. 306, f. 129. Argumentaba que no había «en toda aquella comarca maestro más suficiente para acabar la dicha puentecomo conviene para perpetuidad della siendo como es edificio público y de mucha importancia adonde siempre a avido maestros muy suficientesen el arte de Cantería».40 AGS, Guerra y Marina, leg. 208, ff. 281 y 402. Jorge Fratín no fue porque en ese año estaba reconociendo las fortificaciones de Galicia.41 AGS, Guerra y Marina, leg. 346, f. 314. En el año 1591 no se había podido reparar por falta de dinero, y la ciudad pedía que se volviera a dar el dine-ro, ya que era imprescindible para la comunicación de la ciudad. «de la postrera piedra de la puente de çuaço para yr a la tierra firme sale un araci-fe de legua y quarto de largo y quatro baras en ancho que los Romanos hicieron sobre unos pantanos esteros y cachones para serviçio de la dicha ciu-dad». La ciudad lo ha ido manteniendo con paredes estacadas y otros reparos «porque como la puente se çerró y los tres ojos della no son capaçespara beber toda el agua del braço de mar quando creçe y asi por la parte del norte creçen un palmo más las aguas vibas en alto y con el curso de loscaminantes y ser tierra movediça las aguas pasan por ella y se lavan llevando y descubriendo los dos pantanos y esteros». Las lluvias de ese año hancontribuido a romper el arrecife y la alcantarilla, por lo que no la ciudad no ha podido ser abastecida al faltar el camino, estando a punto de perecerde hambre, ya que las tormentas han impedido también el abastecimiento por mar.42 AGS, Secretaría de Guerra, leg. 3352, f. 91.43 Instituto de Historia y Cultura Militar (IHCM), Colección Aparici, tomo 3, p. 185.44 AGS, Guerra y Marina, leg. 352, f. 138. La ciudad ya tenía sacada la piedra para cerrar ese arco principal, y el de madera roto ya se estaba reparan-do sin comunicarlo al rey porque si no, no se podía pasar a la ciudad. El duque desde Sanlúcar el 24 de mayo de 1592. Responde así a la petición delcabildo de la ciudad, de 16 de mayo de 1592 (ivi, f. 139).45 M.A. ARAMBURU ZABALA, La arquitectura de puentes en Castilla y león, 1575-1650, Valladolid 1992, pp. 59, 75.46 P. GALERA ANDREU, Andrés de Vandelvira, Madrid 2000, p. 146.47 Ivi, p. 145.48 R. KAGAN, Ciudades del Siglo de Oro. Las Vistas Españolas de Anton Van den Wyngaerde, Madrid 1986, pp. 243-252.49 IHCM, Colección Aparici, tomo 6, legajo 683 de la sección de Mar y Tierra.50 AGS, Guerra y Marina, leg. 355, f. 125.51 No salen las cuentas de la suma, según las normas aceptadas de equivalencia, de 11 reales el ducado, por lo que sería un ducado y no dos, pero esoes lo que leemos en el documento.52 La cimbria es «la vara torcida y el arco de madera sobre el cual se forma la vuelta de la bóveda». S. COVARRUBIAS OROZCO, Tesoro de la lengua caste-lla..., cit., p. 313.53 AGS, Guerra y Marina, leg. 424, f. 119. El obispo (16 de febrero de 1595) atribuye el retraso a que la piedra se saca de unos bajíos junto a la isla deSanti Petri, y los temporales han impedido extraerla, pero espera que el ojo se pueda cerrar en el verano.54 Carta de Gaspar de Añastro, proveedor de las Galeras, al presidente, jueces y oficiales de la casa de contratación de Sevilla (Ms. de la BNE) en P.DE ABREU, Historia del saqueo de Cádiz..., cit. p. 21.55 I. GONZÁLEZ TASCÓN, Felipe II. Los ingenios y las máquinas. Ingeniería y obras públicas en la época de Felipe II, Madrid 1999, p. 127.56 AGS, Guerra y Marina, leg. 499, f. 6. Papel de Andrés de Prada, secretario del Consejo, 7 de febrero de 1597.57 AGS, Guerra y Marina, leg. 1697, s.f. Resulta de interés señalar que es más necesario en estos años que en 1597, por tener nuevos enemigos, que eranlos rebeldes catalanes y portugueses. 58 AGS, Guerra y Marina, leg. 599, f. 209. Valladolid, 1 de octubre de 1602.59 AGS, Guerra y Marina, leg. 599, f. 210. El duque de Medina Sidonia desde Sanlúcar el 24 de octubre de 1602.60 Sobre Vandelvira en Sevilla y su reconocimiento como un excelente cantero, que le llevó a trabajar como aparejador en la lonja de mercaderes a lasórdenes del maestro mayor de obras reales Juan de Minjares, llegando a ser desde 1600 maestro mayor de esa obra, ver, F.J. HERRERA GARCÍA, La etapasevillana de Alonso de Vandelvira (1588-1609). Nuevas aportaciones, en «Laboratorio de arte», 26, 2014, pp. 95-119. 61 AGS, Guerra y Marina, leg. 599, f. 194. Y J. CALVO LÓPEZ, “Cerramientos y trazas de montea” de Ginés Martínez de Aranda, Madrid 1999, pp. 40-41.62 AGS, Guerra y Marina, leg. 610, f. 52.63 En diciembre de 1603 ya estaba Martínez de Aranda en Santiago. J. CALVO LÓPEZ, “Cerramientos y trazas de montea”…, cit., pp. 50-51.64 S. COVARRUBIAS OROZCO, Tesoro de la lengua castellana…, cit., p. 230.

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Para entender la especificidad de la zona a estudiodebemos tener presente aspectos geográficos e histó-ricos. Respecto a estos últimos, es relevante señalarque desde los orígenes cristianos del Reino deValencia en el siglo XIII el rey se reservó las vías decomunicación y el dominio directo sobre las aguas,incluyendo todo aquello que las surcaran, como eltránsito de maderas, y cualquier obra que las cruza-ran, como los puentes1. Estas regalías, preeminenciao prerrogativa que en virtud de suprema potestadejercía el soberano, fijaban por dónde debían ir loscaminos y aseguraban el tránsito de personas, asícomo el abastecimiento de vituallas. Con la estabili-dad de las instituciones municipales y del sistemaseñorial el monarca concedió algunos derechos demonopolio; esto es, atribuciones que se arrogabanparticulares o municipios tendentes a obligar a usaruna serie de bienes a cambio de un pago. Fue fre-cuente que estas concesiones afectaran a los puentes,con lo que se delegaba la atención a las infraestructu-ras viarias, aunque siempre bajo aprobación real. Históricamente ha existido una clara relación entrerío, núcleo de población importante y red viaria, y enésta desempeña un papel destacado el puente, que esla parte de un camino que se forma sobre los ríos yacusados desniveles, y cuya existencia fijaba enbuena medida una ruta. En principio, estas construc-ciones debían presumirse importantes en el Reino deValencia, pues el principal eje de comunicaciónterrestre, de disposición norte – sur, con origen en la

antigua vía Heraklea – Augusta, tenía un trazadoperpendicular a los ríos. Sin embargo, no siemprefueron necesarios, pues tal y como es frecuente en lacuenca Mediterránea, los ríos son poco caudalosos yde régimen irregular, y su caudal se canaliza para laagricultura, por lo que en la mayoría de las ocasionespodían vadearse; en este sentido, resulta significati-vo que en las fronteras valencianas los ríos Cenia (N)y Segura (S) habitualmente pudieran pasarse de estemodo; en el segundo de los casos AgustínBernardino construyó en Orihuela un puente de pie-dra a comienzos del siglo XVII.A pesar de la modestia de los ríos valencianos, sobretodo si se comparan con los de gran parte de Europaque han sido históricas vías de comunicación, susbeneficios eran indiscutibles: el abastecimiento deagua para consumo de la población y de la fértilhuerta, producción de energía en los molinos y víade descenso de la madera necesaria para muchosusos. Esta actividad, que era realmente laboriosapues para conducir los troncos debían construirserepresas y otros adobos2, condicionó en buena medi-da los puentes. Por un lado, su diseño debía preverel descenso de la madera; por otro, a pesar de los cui-dados, con frecuencia los dañaron.El franciscano Francesc Eiximenis en el Regiment de lacosa publica (mss. en 1384 y editado en 1499), citócomo sexta de las noblezas del reino sus cuatro ríos:Mijares, que pasa por Burriana; Guadalaviar-Turia,que lo hace por Valencia; Júcar, que convertía Alzira

PUENTES DE CANTERÍA EN EL REINO DE VALENCIA DE LA EDAD MODERNA:CONSTRUCCIÓN Y POLISEMIA*

Luis Arciniega GarcíaProfesor Titular, Universitat de Valè[email protected]

AbstractStone Bridges in the Kingdom of Valencia During the Early-Modern Period: Construction and PolysemyThis essay tries to delve into the conditions that determine the specificity of stone bridges in the Kingdom of Valencia duringthe early-Modern Period. It considers some constructive and functional characteristics, as well as their different meanings:the control of lands, piety and munificence, admiration of the ingenuity, iconic elements and part of a collective imaginationlinked to spiritual aspects.

KeywordsBridges, Construction, Urban Image, Kingdom of Valencia

Palancia), que pasa por Sagunto, y el Alcoi que lohace por Gandía [fig. 1]. En estos ríos se sucedieron puentes romanos, medie-vales…3, continuamente reemplazados por los dañosde las crecidas de los ríos, las selectivas y estratégicasdestrucciones que se producían en tiempos de guerray los accidentes por la bajada de los troncos, sobretodo si los puentes no eran de cantería. En la EdadModerna, las reparaciones de los antiguos puentespermitieron su estudio técnico, que podía enriquecer-se con las consideraciones de los tratados que desdeel siglo XV los incluían, como el Libro IV de Alberti,el XIII de Filarete... A continuación veremos algunosejemplos que nos hablan de las dificultades técnicas,pero también de su carácter polisémico.

Alternativas a los puentes de piedra

Los puentes de piedra del Reino de Valencia fueronescasos no sólo porque no fueran necesarios en lamayor parte de las zonas aluviales durante granparte del año, sino porque durante mucho tiempoexistió poca tradición de cimentar en agua, tal y comodemuestra la evolución del puerto del Grao en sucapital, pues hasta avanzado el siglo XVIII simple-mente existió un muelle de pilotes de madera embe-tunados, que fue constantemente reemplazado.En zonas aluviales fueron frecuentes los puentes debarcas unidas sobre las que se colocaban tablas. Se tra-taba de una opción recomendable en caudales regula-res que presentaba múltiples virtudes, como la econo-mía, la versatilidad y la defensa. Así, por su caráctermodular, se instalaban rápidamente, permitían abrirel paso de la navegación según las necesidades y sepodían desmontar para dificultar el avance de unposible enemigo. En muchos ríos importantes se utili-zaron, como en Tortosa sobre el Ebro, en Sevilla sobreel Guadalquivir y en Cullera sobre el Júcar, el únicode los valencianos que permitía cierta navegabilidad.Aquí, si bien tradicionalmente existió un puente debarcas, en distintos momentos se intentó substituirpor uno de piedra que se consideraba más firme yseguro, pero los problemas de cimentación lo impi-dieron [fig. 2]. Así, finalizadas las murallas de la villase solicitó la construcción del puente de piedra en lascortes de 1564-65. El pilar construido se hundió, por loque en 1579 se inició un juicio que se desestimó por ladificultad que presentaba el terreno de arena muerta

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en una isla y se une al mar en Cullera; y Segura, querecorre Orihuela y desemboca en Guardamar. Elmapa del Reino de Valencia realizado por el jesuitaFrancisco Antonio Cassaus en 1693 expresa la impor-tancia de los ríos en una de las leyendas y en la per-sonificación de los seis que consideraba principales:a los cuatro ya citados sumó el Murviedro (o

Fig. 1. F. A. Cassaus, J. B. Francia, Plano del Reino de Valencia, deta-lle de la dedicatoria con la personificación de seis ríos valencianos,grabado calcográfico, 1693.

Fig. 2. El puente de barcas en Cullera, cerca de la desembocadura delrío Júcar, fotografía, principios del siglo XX.

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sobre el que debían asentarse4. En las cortes deMonzón de 1585 se volvió a tratar el tema y se recha-zó su construcción por la misma razón5. Los puentesde madera permanecieron durante siglos, con lasoportunas reparaciones, como las realizadas en 1581 y15986; esta última ante la cercanía del paso de FelipeIII y su comitiva. Precisamente, por la ductilidad de lamadera y consiguiente rapidez de trabajo se eligió larealización de un puente de barcas ante la llegada deMargarita de Austria y su amplio cortejo en más decincuenta galeras a Vinaroz en marzo del siguienteaño. El arquitecto Francisco de Mora trazó el puenteque debía dirigir el ingeniero Cristóbal Antonelli7, quea su vez debía tutelar a los maestros que lo construye-ran con madera, tablas, clavazón, áncoras, gúmenas ydemás pertrechos con la extensión necesaria para quepudiera acercarse la galera, y 50 o 60 varas de damas-quillo para cubrir la baranda. Todo con un coste de

unos 400 ducados más 40 o 50 para la tela [fig. 3].En muchos otros casos, los puentes presentaron unasolución intermedia; esto es, pilas que podían utili-zar mampostería, ladrillo y piedra, sobre las que secolocaban las tablas. En algunas ocasiones se tratabade una solución de transición ante la destrucción delas bóvedas. En lugares de fuertes desniveles y con roca que servíapara fijar los estribos, los puentes de piedra fueronmás frecuentes. De Edad Moderna, en tierras valen-cianas se conservan dos puentes que reciben el nom-bre de viejo: uno cerca de Onteniente, construidohacia 1500, y otro próximo a Bocairente. En Gandía,en zona aluvial, el más antiguo e intensamente restau-rado también recibe el mismo apelativo. Realmente la construcción de puentes de piedrasorprendía por su excepcionalidad, y eran diversoslos motivos que impulsaban a su construcción.

Fig. 3. F. de Mora, Traza para el puente de Vinaroz en el que desembarcarían Margarita de Austria y su corte (ACA, Mapas y Planos, 3/2).

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Puentes como expresión de devoción y munificencia

El escaso caudal que habitualmente presentaban losríos contribuía a un exceso de confianza que creabapeligrosas y luctuosas situaciones. Por esta razón, seprodujeron iniciativas vinculadas a actos de devoción.Este fue el origen del puente de Santa Quiteria sobre elrío Mijares, en el camino real hacia Cataluña entre lostérminos de Villareal y Almazora. La autorización deJaime I en 1275 dada a Pedro Dahera, vecino de la pri-mera, comprendía la construcción de un hospital depobres y colectar fondos para completar el puente8.Como muchos otros fue destruido por las fuertes cre-cidas, como la de 1381, y reconstruido. Actualmentepresenta unos 124 metros de longitud y 3 de anchura,con arrimaderos sobre los tajamares, dos estribosextremos y siete pilas con tajamares sobre los que seextienden ocho arcadas de cuatro arcos en paralelo dediferente grosor y unos 12 metros de luz. Hasta aquí seemplea la sillería y desde los riñones la mampostería.Muy próximo al anterior, sobre la rambla de la Viuda,se erigió otro puente como acción piadosa de un nota-rio de Villareal, que en opinión del cronista Martín deViciana fue cosa de mucho merecimiento, porque enlas crecidas de la rambla perecían muchos viajeros alcruzarlo9. El arquitecto Pere Compte lo trazó en 1486en la elección del lugar y condiciones de contrato, yfue erigido por los maestros Joan Pereç, hasta 1495, yMiguel Peris, vizcaíno, entre 1493 y 1509. Se trataba deun puente complejo, pues tenía que salvar 70 metros

de longitud, y alcanzar uno de sus arcos 23. Claude deBronseval a comienzos del siglo XVI lo calificó comohermoso, consistente y largo. Viciana, junto al cercanoconstruido sobre el Mijares, lo calificó de grande, fuer-te y hermoso, y por lo tanto prácticamente con los tér-minos vitrubianos que definían la misma arquitectu-ra. Philippe de Caverel, acompañante en 1582 de JeanSarrazin, abad de saint Vaast, mencionó estos dosbellos y fuertes puentes10. Jacop Cuelvis decía de ellosen 1599 que eran muy fuertes y de muy buen cantería,y el levantado sobre el Mijares con una cruz de már-mol bajo la cual había una inscripción en la que sedejaba memoria de su resistencia a la fuerte crecida de1584; en definitiva del triunfo del ingenio sobre lafuerza de la naturaleza. Sin embargo, el de la Ramblade la Viuda se perdió a finales del siglo XVII por unade las fuertes riadas frecuentes en la zona, y de él sóloquedan algunos restos. Tomás Manuel Fernández deMesa denunciaba en Tratado legal y político de caminospúblicos y posadas… (1755) que la comunicación conBarcelona por el camino real se interrumpiese en estepunto. Situación que pudo solucionarse cuandoBartolomé Ribelles, entre 1784 y 1790, realizó en susproximidades un «famoso puente de piedra» de trecearcos11. Este puente también fue alabado en su aspec-to externo por Agustín de Betancourt, pero fue con-tundente en la crítica a su estabilidad, puesto que lasavenidas de 1801 dejaron a la vista los cimientos de laspilas, asentados simplemente sobre grava, sin pilota-je. A lo que él mismo tuvo que poner remedio12, mos-trando claramente cómo las dificultades de cimenta-ción llegaron hasta época contemporánea.Otro caso relevante de devoción y munificencia es lainiciativa del agustino fray Juan de Muñatones, obis-po de Segorbe (1556-1571) y asistente al Concilio deTrento, que en el camino real de Aragón, entreSegorbe y Jérica, hizo construir a sus expensas unpuente sobre el río Palancia [fig. 4]. La iniciativa delobispo quedaba estrechamente unida a su propia dig-nidad eclesiástica, pues una de las competencias delpapa era el cuidado de los puentes, recogiendo tradi-ciones romanas ancestrales13. Con carácter propagan-dístico su acción fechada en 1570 quedó reflejada enuna inscripción, que fue reiteradamente copiada porlos viajeros14. Este hecho sirvió dos siglos más tarde alacadémico Antonio Ponz en su Viage de España, aincorporarlo entre los ejemplos de una caridad bienentendida, pues consideraba que una obra pía debíadirigirse a construir caminos y puentes, que revertían

Fig. 4. Puente en el camino real de Aragón sobre el río Palancia,entre Segorbe y Jérica, costeado en 1570 por fray Juan deMuñatones, obispo de Segorbe.

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en beneficio de todos, y que a ello estaban llamadosprincipalmente quienes podían: la Iglesia y sus prela-dos15. Hoy el puente permanece en pie, tiene una lon-gitud de 60,5 metros y una anchura de 5,65 metros,con mayor anchura en los arrimaderos sobre los taja-mares de la pila central. De ésta arrancan dos arcadasde arcos de medio punto de 15 metros de luz que lle-gan a los estribos de los extremos.

Puentes como elemento de control

Los caminos eran una regalía, lo que permitía un con-trol del territorio. Un caso emblemático en tierrasvalencianas lo constituye el caso de Alzira, situada enuna isla del río Júcar, el más caudaloso de los valen-cianos, y por la que pasaba el camino real hacia el sury hacia el centro peninsular [fig. 5]. El tratado geográ-fico de Al-Zuhví, redactado hacia 1147, destaca laexistencia de un gran puente de tres arcos, obra defactura excelente y antigua, presumiblemente romanacomo señalan diversos autores, y que por cambios enel río fue abandonado y reemplazado en uso porotros. En concreto, la estratégica ubicación de la ciu-dad favoreció la voluntad de dotarla de puentes depiedra desde el último cuarto del siglo XIII, con laobligación de usarlos para entrar en la ciudad, con suconsiguiente repercusión recaudatoria16. En época medieval cristiana el acceso norte o desdeValencia a la ciudad se realizaba por un puente depiedra que recibió el nombre de la Calçada (cercanoestaba el de madera de Barralbeb), que en tiempos deJaime I tenía torre mayor, y en el siglo XIV se constru-yó de planta oblicua para ofrecer menos resistencia alas avenidas. Primero tuvo el nombre de Santa Maríay posteriormente el de San Gregorio. Por el sur, direc-ción Játiva, el acceso se hacía por puente de madera,en cuyas cercanías entre 1308 y 1329 se construyó elde piedra de San Agustín17. La incorporación detorres y otros sistemas defensivos a lo largo del tiem-po, evidencian su permanente uso como control delcamino. A comienzos del XVI Claude de Bronseval,como después hicieron otros viajeros, mostró suadmiración por la disposición de esta ciudad en unaisla formada por el meandro del río Júcar y comuni-cada con los citados puentes de piedra. Sin embargo,los dos puentes, como la ciudad entera, sufrierondaños en las riadas que se sucedieron, como las de1320, 1437, 1517, 1571 y las de 1589-1590. A finales del

mismo siglo, Jacop Cuelvis dijo de los dos puentes,ya intensamente reconstruidos, que eran fuertes, her-mosos y de buena cantería, y poco después tambiénlos citó Barthélemy Joly. Nuevas riadas acontecieronen 1632, 1672 y, sobre todo, 1709, que supuso su des-trucción y consiguiente restauración. En el de SanAgustín en 1717 se instalaron bajo cubierto las escul-turas de Francisco Vergara el Mayor: los patronosMaría y Gracia, en uno, y San Bernardo en el otro,advocación que transformó el nombre del puente. Acomienzos del siglo XIX, durante la presencia france-sa, y al servicio de intereses militares se demolió unode sus ojos. Finalmente, en 1864 se produjo una catas-trófica inundación. En 1921, contando con otras alter-nativas de paso, los alcireños procedieron a la demo-lición del puente de San Gregorio por considerar quefavorecía las inundaciones de la ciudad por su dispo-sición oblicua. El puente de San Agustín fue derriba-do en 1967, cuando se decidió urbanizar el brazo delrío que atravesaba la ciudad y que ocupan hoy lasavenidas Suñer y Santos Patronos, que también que-daron inundadas en 1982 y 1987. Se acabó así con unsistema de control de la ciudad, que también adqui-rió unas características simbólicas. No obstante, res-pecto a esto último si hubo una ciudad que destacófue Valencia.

Puentes como elemento de prestigio y munificenciamunicipal

A las autoridades locales les correspondía llevar acabo las obras públicas o el mantenimiento de las rea-lizadas, contando frecuentemente con el apoyo delmonarca para autorizar medidas recaudatorias. Lasconstantes amenazas del agua y el hombre en la capi-tal valenciana llevaron a Pedro IV a crear en 1358 la

Fig. 5. Detalle de Alzira en el plano de la Acequia Real de Alzira ydel río Júcar a su paso por las huertas de Alzira y Algemesí(Valencia), 1618 (ARV, Mapas y planos, n. 5).

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de puentes ocuparon los siglos sucesivos, con cons-tantes daños y destrucciones provocados por las ave-nidas del río.Los cinco puentes sobre el río Turia servían de transi-ción entre la rica y bella huerta y la ciudad, y contri-buían a reafirmar la fama que ésta alcanzaba por sured vial. Los puentes definían el perfil de la urbe comoapuntaban las palabras de Claude de Bronseval en1532, así como el grabado incluido en la obra de PedroAntonio Beuter, Primera Parte de la cronica general detoda España, y especialmente del reyno de Valencia (1546)18

[fig. 6]. Sin duda, establecieron uno de los elementosque más han caracterizado la imagen pública deValencia, el de una ciudad fluvial cuya clave gráficamás repetida es la representación desde el ladonorte19. Así la representó Anton van der Wyngaerdeen 1563, Antonio Mancelli en 1608, el oratoriano Toscaen 1704… Una imagen urbana que fue resultado deuna atención municipal a las obras de ingeniería delargo recorrido20 [fig. 7]. El más antiguo de los puentes conservados en la ciu-dad de Valencia es el «dels Catalans», más tarde cono-cido como el de la Trinidad. Después de muchosintentos por substituir el de madera, se construyó el

«Junta de Murs i Valls», separada del gobiernocomún de la ciudad. Las competencias de la juntacomprendían la realización de obras defensivas,como los fosos y murallas iniciadas en 1356, los cami-nos reales, la conservación de acequias y la construc-ción de los puentes destruidos por la avenida del cita-do año... En 1363, durante la Guerra de los DosPedros, fueron intencionadamente destruidos. Lasobras de reconstrucción, substitución y construcción

Fig. 6. P. A. Beuter, Primera Parte de la cronica general detoda España, y especialmente del reyno de Valencia, 1546.

Fig. 7. A. Van der Wyngaerde, detalle vista de Valencia con el puente de Serranos y el de la Trinidad, 1563 (ÖNB/Wien, Ms. Min. 41, f. 1).

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de piedra entre 1401 y 1407 con traza del maestroFrancesc Tona21. La obra, de nueve pilas y diez arca-das ligeramente apuntadas de unos 16 metros de luz,que descansan sobre robustas pilas con tajamaresangulares, ha resistido numerosas avenidas, como lade 1517 que sólo afectó sus pretiles. Por el contrario,arruinó los otros cuatro – del portal Nuevo, deSerranos, del Real y del Mar –, que se rehicieron enmadera y algunos con partes que pretendían ser másestables, en parte aprovechando las pilas ya existen-tes, como es el caso de los puentes del Mar y deSerranos, y el Nuevo se hizo en piedra, aunque déca-das después fue destruido. Posteriormente, el puentede la Trinidad experimentó algunas modificaciones22

y oportunas reparaciones, como las acontecidas tras elsitio de 1823, y en 1947 se colocaron las dos esculturasde Ponzanelli que en 1906 se retiraron del puenteNuevo o de San José.El siguiente puente en antigüedad de los conservadoses el de Serranos, aunque el actual ocupa el lugar delprimero en realizarse en piedra, con una clara vincu-lación con la monumentalidad y representatividadperseguida con la construcción del portal de Serranos,principal y emblemática entrada a la ciudad por laque el maestro Pere Balaguer en 1392 visitó diversoslugares de Cataluña para ver obras en las que sacarideas. El puente se convirtió en un elemento funda-mental del acceso, orientándolo a dicha puerta y cam-biando la dirección que seguía el camino. En 1414 serehicieron algunas de sus arcadas con motivo de lallegada del rey, y en 1481 se reparó por la visita de lareina23. En 1517 las aguas lo arruinaron, y el actual seconstruyó con altibajos, reaprovechando algunaspilas medievales, de 1518 a 154524. El resultado es unpuente de 156 metros de largo por 11,5 de ancho, for-mado por nueve arcadas escarzanas de más de 18metros de luz sobre ocho pilas con tajamares que sedesarrollan en altura para crear un pretil que formauna planta dentada, adecuada para refugio del tráficoy lugar de solaz. En él, mosén Juan Bautista Corbera yJuan Gilart, entre 1538 y 1539 erigieron la primeraestructura techada documentada de las que contaronlos puentes de la ciudad.La vista de la ciudad de Valencia realizada porWyngaerde25 muestra los cinco puentes: de piedra losde la Trinidad, Serranos y del Portal Nuevo, los otrosdos con pilas de fábrica y tendido de madera. En con-creto, tras la avenida de 1517 el del Portal Nuevo sehizo en piedra, y los del Real y el Mar se reconstruye-

ron sobre las viejas pilas. La devastadora riada de1589 destruyó o dañó considerablemente estos trespuentes, por lo que a instancias de Felipe II se creó la«Fàbrica Nova del Riu», con la función de reparar losdaños del río, proteger a la ciudad de sus crecidas yasegurar su comunicación mediante puentes másestables26 [fig. 8].El virrey de Valencia escribió al rey para informarde la situación y pedir soluciones, a lo que el reyordenó que lo tratase con los jurados de la ciudad.Como resultado, a finales de 1590, se impuso unasisa sobre la carne para pagar las obras y solicitaronla presencia del arquitecto Juan de Herrera. Así loaprobó el Consejo de Aragón a punto de finalizar elaño, pero finalmente no puedo ir y se pidió que senombrase a otro27.El puente del Mar también ocupó el espacio de unoconstantemente arruinado por las avenidas, como la

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Fig. 8. De la Fàbrica Nova dita del Riu, grabado, en Iusep Lop,De la Institucio… de la Fabrica vella, dita de Murs, e valls; ynova, dita del riu, 1679.

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de 151728, en 1546 Juan Bautista Corbera acordó la obrade piedra, ladrillo y mortero que se debía hacer sobresus viejas pilas29, pero tras su destrucción tras la aveni-da de 1589 se decidió reparar con madera los daños delexistente y hacer uno nuevo en piedra en el lugar másapropiado. Joan Inglés, maestro cantero de Orihuela,ciudad con fuerte escorrentía, trabajó tanto sobre elterreno como sobre el papel en los inicios de esta obra,pues dejó establecidas las condiciones que debíanguiar su construcción. El 2 de noviembre de 1590 reco-noció haber recibido cerca de 5 libras por haber asisti-do durante 7 días «en posar les sites en lo dit riu per alpont de la Mar que ste de fer en dit riu prop del pontvell y en fer les capitulacions de dit pont que ste defer». Un año más tarde, Francisco Figuerola, maestrocantero de Játiva, realizó la interpretación gráfica de lodispuesto por Inglés con la intención de enviarla aFelipe II para su aprobación. En enero de 1592, tras lasupervisión de Juan de Herrera, el monarca confirmóel emplazamiento inicial dispuesto30. El cuidado con este puente en gran medida se debíaa su carácter de posible modelo para los tres quedebían emprenderse. El tema fundamental de debatese centró en el lugar más adecuado para asentarlo,contemplando numerosas razones, como las de segu-ridad, la economía de tiempo y por consiguiente decoste en la comunicación con el Grao, y urbanísticasen su alineación con la puerta del Mar, mostrando laenorme importancia que tenía el factor urbanístico ensu diseño. Los jurados de la ciudad, conscientes deesta contribución, se pronunciaban con estas palabrasen 1591: «ab ser esta ciutat tan famosa es alabada pertot lo mon de les bones eixides que te per totes partscorresponent los ponts per la una part als portals dela ciutat y per altra als camins y carrers publichs delsAravals»31. Tras varias inspecciones y debates en losque participaron catedráticos de matemáticas y astro-nomía, maestros de carpintería, albañilería y cantería,labradores, caballeros, algunos de órdenes militarescomo la de San Juan de Jerusalén, avezados en temasdefensivos… Finalmente el emplazamiento se eligióatendiendo a cuestiones de seguridad32. La obra rea-lizada, de 162 metros de longitud, 10,5 de anchura y8,35 de altura, está formado por diez bóvedas sobredirectriz de arcos apuntados rebajados de 15,50metros de luz, apoyados sobre pilas con tajamares detres metros de grosor, y con perfil alomado en susextremos. Resistió bien las crecidas del río hasta la de1776, momento en que cayeron sus arcos centrales,

como plasmó el grabador López Enguídanos y reco-gen las Observaciones de Cavanilles, quien indica quesu reparación concluyó en 1782, después que en1778, los arquitectos Lorenzo Martínez, maestromayor de la ciudad, y Antonio Gilabert, y los cante-ros Andrés Soler y Diego Cubillas, inspeccionaranlas obras que requería33. En 1811, ante la inminentellegada del ejército francés, se derribó el cuarto arcodel puente; posteriormente repuesto por el arquitec-to Vicente Marzo [fig. 9]. Las esculturas de la Virgende los Desamparados, que substituía una anterior, y lade san Pascual Bailón fueron destruidas en 1936, yevocadas después. Entre 1943 y 1945 el arquitectoJavier Goerlich niveló el tablero oblicuo y colocó esca-leras en sus extremos, reservándolo a uso peatonal.Al tiempo y con muchas dificultades se desarrollaronlas obras del puente del Real [fig. 10]. Se asentó sobreel citado por las fuentes desde época musulmana,destruido reiteradamente por las avenidas, como lade 1517, y su estructura de madera reconstruida sehundió en 1528 con cientos de personas agolpadascon motivo de la visita de Carlos V. En 1589 ya sehabían iniciado las obras cuando una nueva avenidaarruinó lo realizado34. En este caso, la orientaciónestaba decidida por el palacio del Real, a las afuerasde la ciudad, y el principal debate atañía a la cimenta-ción de las pilas, que se solucionó con la contrataciónde Joan Pascual, maestro de hacer molinos, para quedrenara el agua del subsuelo mediante acequias ynorias hidráulicas, y con ello facilitar los trabajos35. Alos problemas señalados se sumó una nueva avenidadel río en 1597, que derribó una de las arcadas. Sinembargo, el anuncio de la visita de la corte por elenlace entre el futuro Felipe III y la archiduquesaMargarita de Austria provocó que los trabajos se ace-leraran y el puente se inaugurara a tiempo en 159936.Con cerca de 170 metros de longitud, tiene diez arca-das escarzanas de 13 a 14 metros de luz, apoyadassobre dos estribos en los extremos y pilas con tajama-res de tres metros de grosor, sobre los que finalmenteen dos de ellos se colocaron las esculturas de los dossantos vicentes, que en 1936 también se destruyeron ymás tarde fueron evocadas. Los numerosos escritosque suscitaron las bodas reales manifestaron la admi-ración por las obras, y en algunos se constata inclusoun cambio en el itinerario habitual de entrada aValencia. Así, Lope de Vega, que regresó a Valenciacon motivo del evento, habla del acceso de Peregrinoy Everardo en ella por «la famosa puente del Real

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Fig. 9. Puente del Mar sobre el Turia y vista panorámica, tarjeta postal (Biblioteca Valenciana, José Huguet, JH13/047).

Fig. 10. Puente del Real sobre el Turia, tarjeta postal (Biblioteca Valenciana, José Huguet, JH12-217).

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sobre el Turia» para entrar después por la «famosatorre de Serranos»37. En 1957 el puente sufrió dañospor la riada y en 1966 fue multiplicada su anchuracon criterio mimético para favorecer el tráfico rodado.Hacia 1590 también se estableció un proyecto para elpuente Nuevo que contemplaba el aprovechamientode los restos del antiguo y la construcción de dos arca-das a cada lado. Pero la obra definitiva se llevó a cabo,y de modo distinto al inicial, entre 1604 y 1607.Además, pasó a ser conocido como puente de San Josépor establecerse cerca del citado portal el convento demonjas carmelitas de San José38. Tiene 143 metros delongitud con trece bóvedas generadas por la directrizde arcos escarzanos de 8,80 metros de luz.La nueva imagen proporcionada por el río con suscinco puentes de tablero horizontal y tajamarestriangulares, frecuentemente base de arrimaderos,así como los paredones que encauzaban las aguasconstituyeron durante siglos un rasgo identificativode la ciudad, y suscitaron constantes alabanzas39. Enellas podemos identificar desde el orgullo local,como Escolano que dijo de los puentes «que no sesabe cosa ygual en otra de las mayores del mundo»40,hasta la admiración sensata del extranjero, como lade Cassiano del Pozzo41 que a su paso por Valenciaen 1626 constató la belleza del puente del Real y laexistencia de otros sobre el río, un número desmedi-do para la necesidad real cotidiana en ríos de caudaldébil, pero que justificaba, como el puente de Toledosobre el Manzanares en Madrid, en la amplia inun-dación que ocasionaba la confluencia de un lecho nodefinido con las crecidas que se producían pasado elverano. Precisamente en este tiempo, con denuedo,se perseguía corregir este hecho con la construcciónde paredones de piedra que establecieran una autén-tica muralla frente a los ataques del agua42. PedroSebastián Cubero se refirió a las obras realizadas conestas palabras: «cuya heroica fabrica de su grandeza,y arquitectura, me pareció quiso oponerse el arte àlas grandes fabricas que admira el universo»43.Si para un ilustrado como Ponz las obras pías debíancanalizarse en caminos y puentes, los de Valenciaeran para él «cinco puentes suntuosos que a más de laconveniencia, dan a la ciudad decoro y majestad»44.En la misma línea, el erudito Gregorio Mayans sabíaver en estas costosas y útiles obras la configuración dereferentes urbanos; de hecho, en su opinión eran juntocon la catedral, las murallas y la Lonja, los elementosarquitectónicos capaces de definir el perfil de la ciu-

dad45. Obsérvese además, que se trataban de los úni-cos mayoritariamente definidos en la Edad Moderna.Fray José Teixidor los dedicó una parte importante ensu obra sobre las antigüedades de la ciudad, y consta-tó la admiración que en los viajeros despertaban losparedones y pretiles del río al señalar que era unaobra que «celebran por maravillosa quantos estrange-ros llegan a verla con atención»46. Ciertamente, la sor-presa que causaban los cinco puentes alineados conentradas, algunas monumentales, estaba justificadapor la escasez de las mismas construcciones y la difi-cultad de mantenerlas en pie. Y no sólo resultabaimpactante por la realidad de las tierras valencianas,sino por el análisis del perfil de algunas de las princi-pales ciudades españolas, que durante muchos siglostuvieron un único puente al servicio de la comunica-ción y en algunos casos tardaron en convertirlos enelementos de embellecimiento de su perfil urbano.

Puentes como elemento simbólico

Un puente resultaba un hito en el camino por sucarácter excepcional. Racionalmente mostraba cómo através del ingenio se superaba un obstáculo y conferíacriterios de inversión propios del mundo de la fiestaal permitir caminar sobre aguas y bóvedas. La emble-mática muestra frecuentemente el puente como tran-sición y paso. Por esta razón, es habitual encontrarloen los fondos arquitectónicos de las pinturas querepresentan la crucifixión de Cristo [fig. 11]. Tambiénera lugar de transición entre el camino y la calle delnúcleo urbano. En estos casos, durante los recibimien-tos frecuentemente los de madera se adornaban contelas o se desplegaban otros recursos de asombro,como sucedió en la entrada de Felipe II a Valenciadonde el puente del Real, tal y como cuenta EnriqueCock, se decoró como una huerta bien cultivada. Los puentes eran lugar de esparcimiento desde losque contemplar los cambios en el curso de los ríos over descender la madera, que en palabras propias delorgullo local decía Escolano era como ver llegar laflota de Indias. En sus proximidades se crearon espa-cios de recreo, como la Alameda en Valencia, unaarboleda que el virrey y duque de Arcos plantó en1645 desde el puente del Real al del Mar. Y en su cursose celebraron espectaculares fiestas, como la nauma-quia entre los puentes del Real y la Trinidad en la fes-tividad de san Vicente Ferrer de 1755 [fig. 12]. La cele-

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Fig. 11. F. Yáñez, Calvario, óleo sobre tabla (Valencia, Museo de Bellas Artes).

bración utilizó recursos propios del género, como lavictoria frente a los enemigos, principalmente de lareligión, pero también frente a las aguas. Así, despuésde numerosas décadas robusteciendo el cauce conpuentes sólidos y paredones de piedra que encauza-ran las aguas, se utilizaban como recursos de sorpresala evocación del Vesubio y un baluarte, símbolos delincontrolable poder la naturaleza y del ingenio y for-taleza humana para hacer frente a las adversidades.Como hemos visto, los puentes llegaron a convertirse

en uno de los principales elementos icónicos de ciuda-des de perfil fluvial del Reino de Valencia, comoValencia y Alzira. Además, tenían un poderoso signi-ficado en el imaginario colectivo, ligado fundamental-mente a la religión. En este sentido, fue frecuente eluso de elementos con funciones sacralizadoras y apo-tropaicas. Por ejemplo, desde el siglo XVI en los taja-mares, también llamados barcas por su similitud conuna proa, lo que reforzaba una vinculación religiosa,fueron dotándose de estructuras que albergaban

Fig. 12. Carlos de Francia, naumaquia celebrada en el Turia en 1755, en P. Tomás Serrano, Fiestas seculares…, 1762.

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esculturas. En el puente de Serranos de Valencia,todavía en construcción, mosén Juan Bautista Corberay Juan Gilart erigieron una cruz cobijada bajo techoentre 1538 y 1539. Probablemente rematando un pilarcimentado con los restos figurativos clásicos que lacorriente nominalista del influyente Juan de Salaia (oCelaya), rector vitalicio del «Estudi General» deValencia que encabezó la restricción al avance de lasideas humanistas, mandó sepultar por su significadopagano47. Este hecho puede ponerse en relación con lacostumbre de rematar elementos de la antigüedad concruces, como miliarios y obeliscos, aportando protec-ción espiritual y dando testimonio del triunfo del cris-tianismo. Al igual que se relaciona con la costumbrede exponer los elementos más venerados para aplacarlas fuerzas de las aguas, como reliquias e imágenes.Con la presencia de cruces e imágenes de santos sehacía permanente la intercesión de protección, y pro-liferaron. En el plano del proyecto de Pedro deGuevara para la fortificación de Valencia, de 1544, seaprecia una cruz sobre el puente del Mar. La vista deWyngaerde de 1563 muestra una cruz cobijada en elpuente de Serranos. El plano de Antonio Mancelli en1608 cruces en el puente de San José, y esculturasmonumentales de santos en el del Real, y una estruc-tura en el del Mar. A lo largo de los siglos XVII y XVIIIlos puentes fueron dotados de parejas de esculturas,la mayoría bajo estructuras techadas enfrentadas48, losdel puente de la Trinidad retiradas en 1823, los delMar y Real destruidas sus esculturas en 1936. En elpuente de Serranos se colocó una imagen del santísi-mo Cristo de San Salvador con estatua de SantoTomás de Villanueva, como recuerdo de la tradiciónque hablaba de la milagrosa imagen que desde Beirutllegó a Valencia remontando las aguas49 y convirtió entrascendente este espacio [fig. 13]. Ante la fuerza de las aguas el ingenio procuró ponerlímites, pero sólo se podía aspirar a retrasar lo inevi-table. En la Edad Moderna los restos de los puentesmás antiguos de piedra se adscribían a época romana,como el de Quart y los restos de uno de Alzira. Sinembargo, cuando se encontraban ante una construc-ción de dicha época en pie, como el acueducto roma-no cercano a Chelva, las crónicas lo adscribían a losmíticos primeros pobladores; esto es, a Túbal, nieto deNoé [fig. 14]. Probablemente para su mentalidad sólouna construcción de raíz bíblica podía preservarse entan buen estado de la fuerza de las aguas y ser porta-dora de un significado de perdurabilidad.Fig. 14. Acueducto romano de Peña Cortada.

Fig. 13. V. S. Gómez, Llegada a Valencia del Cristo delSalvador (Cristo de Berito), 1668, óleo sobre lienzo (Valencia,Museo de Bellas Artes, Colección Orts-Bosch).

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* Este trabajo se inscribe en “Recepción, Imagen y Memoria del Arte del pasado”, Proyecto I+D, HAR 2013-48794-P, financiado por el Ministeriode Economía y Competitividad de España.1 V. BRANCHAT, Tratado de los derechos y regalías que corresponden al real patrimonio en el Reyno de Valencia, Valencia 1785, cap. 6.2 C. SANCHIS, J. PIQUERAS, La condució de fusta a València (segles XIII-XX), en «Cuadernos de Geografía», 69/70, 2001, pp. 195-214; L. ARCINIEGA, Elabastecimiento fluvial de madera al Reino de Valencia, en La Cruz de los Tres Reinos. Espacio y tiempo en un territorio de frontera, Cuenca 2011, pp. 99-134.3 Una visión general en C. SANCHIS, Els ponts valencians antics, Valencia 1993; I. AGUILAR, El territorio como proyecto. Transporte, obras públicas y orde-nación territorial en la historia de la Comunidad Valenciana, Valencia 2003; L. ARCINIEGA, El saber encaminado. Caminos y viajeros por tierras valencianasde la Edad Media y Moderna, Valencia 2009. Sobre los puentes medievales A. ZARAGOZÁ, Arquitectura gótica valenciana. Siglos XIII-XV, Valencia2000. Sobre los de la ciudad de Valencia Fray J. TEIXIDOR, Antigüedades de Valencia. Observaciones críticas donde con instrumentos auténticos se des-truye lo fabulosos, dejando en su debida estabilidad lo bien fundado, Valencia, (Mss. 1767), 1895-1896, vols. 2. El análisis técnico de los de la ciudad deValencia en Preprints 16th International Meeting on Heritage Conservation, Valencia 2006.4 Archivo del Reino de Valencia (ARV), Real Audiencia, Procesos, Parte 3ª, Apéndice, 8.640.5 A. PILES, Historia de Cullera, [Cullera, 1893] 1979, pp. 375-376 ; V. L. SIMó, Les Corts Valencianes 1240 - 1645, Valencia 1997, pp. 461 (cortes 1564-65) y 486 (cortes 1585).6 Archivo Histórico de Cullera (AHC), nº 122 Llibre de l’Administració dels Jurats, 1580-1581. AHC, Protocolos, Francisco Gerónimo Domínguez,n. 668; 29/VI/1596.7 Archivo Corona de Aragón (ACA), Consejo de Aragón, legajo 864, nº 1/1 y 1/3 es la traza.8 J. E. MARTÍNEZ, Archivo de la Corona de Aragón. Catálogo de la documentación relativa al antiguo reino de Valencia contenida en los registros de la RealCancillería Real... I. Jaime I el Conquistador. 1934, p. 396, doc. 1.814. Transcrito por P. Ramón de María en Boletín de la Sociedad Castellonense deCultura, t. XVII, enero-febrero de 1936, p. 37.9 M. DE VICIANA, Libro Tercero de la Chronyca de la inclicita y coronada ciudad de Valencia y de su Reyno, [Valencia, 1564] 1881, p. 336. Sobre el proce-so constructivo J. PI, V. PONS, La construcción de un puente en el camino real de Barcelona (Vila-real, 1486-1509): aportación a la obra del Mestre d’obresPere Compte, «Boletín de la Sociedad Castellonense de Cultura», LXXVIII, 2002, pp. 197-212.10 P. DE CAVEREL, Ambassade en Espagne et en Portugal (en 1582), de R.P. en Dieu, Dom Jean Sarrazin, abbé de St.-Vaast, du conseil d’Estat de Sa MajestéCatholique, son premier conselier en Arthois, etc., Arras 1860.11 E. SOLER, El viaje de Beramendi por el País Valenciano (1793-1794), Valencia 1994.12 A. DE BETANCOURT, Noticia del estado actual de los caminos y canales de España, «Boletín Oficial de Caminos y Puertos The Burlington Magazine»,13, 1843.13 S. COBARRUVIAS, Tesoro de la Lengua castellana, o española, Madrid 1611, p. 592v.14 JOANNES A MÑATONES / EPS. SEGOBRICENSIS VIATO / RUM PERICULIS PROS / PICIENS HUNC PONTEM / A FUNDAMENTIS ERE-XIT / ANNO 1570.15 A. PONZ, Viage de España…, Madrid 1774, III, carta nona, pp. 247-258.16 J.E. MARTÍNEZ, Archivo de la Corona de Aragón... cit., II. Pedro el Grande. 1934, pp. 89 y 431 doc. 369 y 2.018. A. MARTÍNEZ, J. A. MARTÍNEZ, Llibrede l’Obra dels ponts d’Al-Gezira, «Al-Gezira», 8, 1995, pp. 81-177.17 Sobre los puentes de Alcira y las diferentes hipótesis de la antigüedad de sus puentes véase fray J. B. MORERA, Historia de la fundación del monas-terio del valle de Miralles y hallazgo y maravillas de la Santissima Ymágen de Ntra. Sra. de la Murta, Alcira, (Mss. 1773) 1995, p. 31. C. SANCHIS, Elsponts…, cit., pp. 102-104. A. MARTÍNEZ, J. A. MARTÍNEZ, Llibre…, cit. Sobre la integración de los puentes en sistema defensivo de la villa véase A.FERRER, Les muralles d’Alzira, escut de la ciutat i clau del Xúquer, en Castell, torres i fortificacions en la Ribera del Xúquer, Valencia 2003, pp. 75-88.18 F. MARÍAS, La arquitectura de la ciudad de Valencia en la encrucijada del siglo XV: Lo moderno, lo antiguo y lo romano, en «Anuario del Departamentode Historia y Teoría del Arte», XII, 2000, pp. 25-38.19 Sobre la relación de la ciudad con el río, que es considerado su esencia y razón de ser, a través de las representaciones gráficas véase V. M.ROSSELLÓ, J. ESTEBAN, La façada septentrional de la ciutat de València, Valencia 1999.20 P. ESCLAPÉS, Resumen historial de la fundación y antigüedad de la ciudad de Valencia de los edetanos o del Cid…, [Valencia, 1738] 1805. Fray J. TEIXIDOR,Antigüedades…, cit., 1895-1896. M. A. ORELLANA, Valencia Antigua y Moderna, Valencia, (Mss. 1790) 1923-1924, vols. III.21 Sobre su proceso constructivo A. SERRA, Caminos, acequias y puentes. Las actividades de los maestros de obras en la ciudad y el territorio de Valencia(siglos XIV y XV), en Historia de la ciudad. II, Valencia 2002, pp. 108-124.22 Archivo Municipal de Valencia (AMV), Libros de Fábrica de Murs i Valls; años 1529-1576. Una de las mejoras fue la de la escalera que descen-día al cauce del río, reedificada en 1574 por Tomás Mellado por 57 libras.23 M.M. CÁRCEL, Vida y urbanismo en la Valencia del siglo XV, en «Miscellania de textos Medievals», 6, 1992, pp. 255-619; en pp. 390 y 609.24 S. CARRERES, La Valencia de Juan Luis Vives, Valencia 1941, p. 23. El proceso constructivo en M. GÓMEZ-FERRER, Arquitectura en la Valencia del sigloXVI. El Hospital General y sus artífices, Valencia, 1998. L. BOSCH, Las claves de la construcción del puente de serranos de Valencia, en Actas del SextoCongreso Nacional de Historia de la Construcción, Valencia 2009, I, pp. 211-226.

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25 M. J. TEIXIDOR, Les vistes de la ciutat de València, en Les vistes valencianes d’Anthoine van den Wijngaerde (1563), Valencia 1990, pp. 43-98. V. M.ROSSELLÓ, J. ESTEBAN, La façada…, cit.26 La antigua pasó a denominarse Fàbrica Vella de Murs i Valls. C. SÁNCHEZ-CUTILLAS, La Fábrica vella, dita de Murs i Valls, en VIII Congreso deHistoria de la Corona de Aragón, XI, 1967, pp. 199-220. V. MELIÓ, La “Junta de Murs i Valls”. Historia de las obras públicas en la Valencia del antiguorégimen, siglos XIV-XVIII, Valencia 1991.27 ACA, Consejo de Aragón, legajo 651, n. 51/1.28 M.J. TEIXIDOR, Una obra emblemática de la Fábrica Nova del Riu: el pont de la Mar (1592-1596), en «Cuadernos de Geografía», 67-68, 2000, pp. 147-166.29 AMV, Libros de Fàbrica de Murs i Valls; años 1529-1576; capítulos del 18 de noviembre de 1546.30 V. MELIÓ, La “Fàbrica de Murs i Valls”. (Estudio de una Institución Municipal en la Valencia del Antiguo Regimen), Tesis doctoral, Universidad deValencia, 1990, p. 81. El 14 de mayo de 1592 reconoce haber recibido 4 libras, 15 sueldos y 10 dineros per les trases que fiu per a la edificació del pontdel riu de la dita ciutat de Valencia, dit de la mar, per a enviar a sa Magestad. Confirmado el emplazamiento por Felipe II y Juan de Herrera (AMV,Cartas Reales, h3-6, f.188v. Madrid, 6 de enero de 1592).31 Citado por M. J. TEIXIDOR, Una obra emblemática…, cit., p. 154.32 F. PINGARRÓN, Arquitectura religiosa del siglo XVII en la ciudad de Valencia, Valencia 1998, pp. 48-52. Sobre su proceso constructivo véase V. MELIÓ,La “Fàbrica…, cit., 1990. Una parte en la publicación de 1991. M. J. TEIXIDOR, Una obra emblemática…, cit. L. ARCINIEGA, El monasterio de San Miguelde los Reyes, Valencia, 2001, vol. I, pp. 220-247. ID., El saber encaminado..., cit.33 F. CARRERES, Els casilicis del pont de la Mar, en «Anales del Centro de Cultura Valenciana», 19, 1934, pp. 64-65. V. MELIÓ, La “Fàbrica de Murs iValls”..., cit. ID., La “Junta de Murs i Valls”. Historia..., cit. L. ARCINIEGA, El saber encaminado..., cit.34 P.J. PORCAR, Coses evengudes en la ciutat y Regne de Valencia, (Mss. 1589 – 1628) Madrid 1934, vols. II, anotaciones 93 y 123. V. MELIÓ, cit., 1991,pp. 78-80.35 AMV, Obras del Río, años 1594-1595; sig. ll.ll.2; y años 1595-1596; sig. ll.ll.3.36 V. MELIÓ, La “Junta de Murs i Valls”. Historia.., cit., p. 79.37 L. de VEGA, El peregrino en su patria, Sevilla 1604.38 Su proceso constructivo puede seguirse en V. MELIÓ, La “Junta de Murs i Valls”. Historia..., cit., pp. 83-86. F. PINGARRÓN, Arquitectura…, cit., 1998,pp. 56-57.39 L. ARCINIEGA, El saber encaminado..., cit.40 G. ESCOLANO, Década primera de la historia de la insigne, y coronada ciudad y Reyno de Valencia, 1610, libro IV, col. 768.41 Señalado por El diario del viaje a España del cardenal Francesco Barberini escrito por Cassiano del Pozzo, ed. A. ANSELMI, Aranjuez 2004. Destacó sucarácter inédito L. CLARE, L’Espagne et la France à travers une relation de voyage inédite de 1626, en L’Age d’Or de l’influence espagnole. La France etl’Espagne à l’époque d’Anne d’Austriche 1615-1666, 1991, pp. 79-95.42 Así lo indica G. ESCOLANO, Década…, cit., libro IV, cap. XI, col. 767. V. MELIÓ, La “Junta de Murs i Valls”. Historia.., cit., pp. 82-83.43 P. S. CUBERO, Peregrinacion que ha hecho de la mayor parte del mundo don Pedro Cubero Sebastian..., Zaragoza 1688 (segunda impresión), p. 148.44 A. PONZ, Viage de España…, Madrid 1774, Libro IV, carta IX, n. 36.45 H. COCK, Relación del viaje hecho por Felipe II, en 1585, a Zaragoza, Barcelona y Valencia, escrita por Herique Cock, notario apostólico y archero de laguardia del cuerpo real, y publicada... por Alfredo Morel-Fatio y Antonio Rodriguez Villa, Madrid 1876, p. 248. G. MAYANS, El arte de pintar, Valencia,1999, p. 162.46 Fray J. TEIXIDOR, Antigüedades…, cit., t. I, p. 79.47 La noticia en G. ESCOLANO, Primera Parte de la década primera de la historia de la insigne, y coronada ciudad y Reyno de Valencia. Valencia 1610, col.773; y Segunda Parte…, 1611, col. 164. Siguieron esta posibilidad Nicolás Antonio, Rodríguez, Ortí, Ximeno, Mayans, Sales… Y fue negada porFray J. TEIXIDOR, Antigüedades…, cit., t. I, pp. 54-62. Una revisión y nueva interpretación en L. ARCINIEGA, Miradas curiosas, temerosas e intenciona-das al pasado en la Valencia de la Edad Moderna, en Memoria y significado: Uso y recepción de los vestigios del pasado, Valencia 2013, pp. 61-94.48 Fray J. TEIXIDOR, Antigüedades…, cit., t. I, pp. 51-77. S. CARRERES, Los casilicios del puente de Serranos, de Valencia, «Anales del Centro de CulturaValenciana», 2, 1928, pp. 150-152. F. PINGARRÓN, Arquitectura…, cit., 1998. A. BUCHÓN, Ignacio Vergara y la escultura de su tiempo en Valencia,Valencia 2006.49 J. B. BALLESTER, Identidad de la imagen del S. Christo de S. Salvador de Valencia, Valencia, 1672. F. ALMARCHE, Noticias topográficas de la ciudad deValencia, según un manuscrito de Antonio Suárez. Siglo XVIII, en «Archivo de Arte Valenciano», 1925, pp. 53-62; en p. 57.

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Tra le opere siciliane di Ferdinando Fuga (1699-1782)viene immancabilmente annoverato il ponte sul tor-rente Milicia (1729-1731), nei pressi dell’abitato diAltavilla, nel tratto di costa compreso tra Palermo eTermini Imerese [fig. 1]: ciò sia per le particolaricompetenze ingegneristiche che un’opera di talenatura avrebbe richiesto all’ancora giovane architet-to fiorentino, sia perché l’ingaggio da parte dellaDeputazione del Regno, l’alta magistratura preposta,tra le altre cose, alla cura di strade e ponti del pubbli-co demanio1, segnerebbe l’inizio della sua attivitànell’isola, culminata molti decenni più tardi nel cele-bre, ma assai discusso, progetto di riconfigurazionedella cattedrale palermitana (1767).È già stato messo in luce da altri studiosi il tormenta-to andamento del cantiere per la costruzione delponte, segnato da crolli, contestazioni, polemiche, dicui rimane testimonianza eloquente in un corpus disei relazioni stese tra il 1730 e il 1732 a firma di diver-si tecnici al servizio del Regno di Sicilia, tra cui lostesso Fuga2. In questi rapporti vengono descritti,secondo differenti e talvolta inconciliabili punti divista, con toni spesso accesi, non solo i problemi sta-tici del ponte, manifestatisi a seguito di una spaven-tosa ondata di piena del torrente, ma anche le causeche li avrebbero generati: accidentalità o responsabi-lità, errori progettuali piuttosto che imperizia o per-sino frode da parte degli appaltatori.Nonostante le tante avversità che ne avrebbero fune-

stato il cantiere, alla notorietà del ponte progettatoda Fuga certamente contribuì l’incisione da lui com-missionata a Baldassare Gabbuggiani ed eseguita aRoma nel 1731 [fig. 2], riteniamo oltre che per pro-muovere la propria immagine di architetto qualifica-to ed esperto – se ne sarebbe avvalso, come vedremo,appena un anno più tardi –, anche come ulteriorestrumento di difesa nell’ambito di un contenziosodestinato a farsi sempre più aspro: a questo potreb-bero essere serviti quindi i dettagli di tipo cantieristi-co aggiunti alla tavola e i dotti rimandi all’edizionedi Vitruvio del Barbaro – viene riprodotta, ad esem-pio, una coclea impiegata per pompare l’acqua daifossi delle fondazioni – evocati a giustificazione delproprio operato.Quale ulteriore complicazione di una vicenda di persé assai complessa, ci tocca segnalare come nel lonta-no 1956 Roberto Pane avesse già richiamato l’atten-zione sulle notevoli differenze, in particolar modoriguardo al sesto delle arcate, esistenti tra il ponterealizzato e quello previsto dal progetto di Fuga percome descritto nella stampa, differenze ricondotteperò sino a questo momento a presunti interventisuccessivi di consolidamento e riadattamento3.

Una nuova incisione, una nuova attribuzione

In risposta ai dubbi tutt’altro che infondati solleva-

MICHELANGELO BLASCO VERSUS FERDINANDO FUGA: UNA NUOVA ATTRIBUZIONEPER IL PONTE SUL MILICIA IN SICILIA*

Maurizio VescoRicercatore, Università degli Studi di [email protected]

Abstract:Michelangelo Blasco Versus Ferdinando Fuga: a New Attribution of the Bridge Over the Milicia River in SicilyThe finding at the National Library of Spain of an eighteenth-century engraving of the bridge over the Milicia river, alongthe coast to the east of Palermo, is a chance not only to shed light on the complex history of the design and construction ofone of the main Sicilian bridges, but also to attribute the real paternity rather than to the famous architect Ferdinando Fugato the lesser-known military engineer, serving the Austrian Crown, Michelangelo Blasco, whose long and successful careeris reconstructed: from Sicily, through Milan, Wien and Lisbon, to the uncharted territory of Brazil.

KeywordsMilitary Engineers, Sicily, Austrian Hapsburgs, Cartography, Bridge

ti dall’autorevole studioso sovviene ora una secon-da incisione, da noi rintracciata presso la BibliotecaNacional de España di Madrid4 [fig. 3], che, se daun lato fornisce preziose indicazioni per provare afare chiarezza sulle travagliate vicende del pontesul Milicia, dall’altro solleva interrogativi sullareale paternità dell’opera, dubbi che forse non sor-prendono neanche tanto tenuto conto della notachiosa di Milizia riguardo all’opera del fiorentino:«Nel 1728 fu chiamato a Palermo dalla Deputazionedi quel Regno per disegnare un ponte considerabi-le sul fiume Milcia (sic), che fu poi eseguito daaltri»5.La nuova stampa fa chiaramente riferimento allaprecedente, non solo per l’esplicito richiamo adessa, per altro assai polemico, fatto nella sua lungae dettagliata legenda, ma anche perché una delletre raffigurazioni contenute nella tavola, l’Alzata eprospetto del ponte, quella con il più marcato carat-tere pittorico e quindi illustrativo del progetto, è

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Fig. 1. Il ponte sul Milicia nel suo contesto territoriale in una rappre-sentazione dell’ultimo quarto del Settecento; S. M. Marvuglia, PiantaTopografica Totale del Littorale, e Mare corrispondente comin-ciando dalla Tonnara di Trabia sin’a quella di Solanto..., 1786,dettaglio (ASPa, Tribunale del Concistoro, n. 4323).

Fig. 2. B. Gabbuggiani, Disegno del ponte eretto dall’Ill.ma Deputazione del Regno nel’anno 1730 sopra il Fiume della Milicia [...] conarchitettura e direzione di Ferdinando Fuga, 1730 (Palermo, Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Gabinetto di Disegni eStampe, inv. 10562).

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palesemente esemplata, per quanto riguarda la raf-figurazione del paesaggio e della geografia delfiume, su quella di Gabbuggiani. D’altronde, cosapiù di una scena sostanzialmente identica in cuiambientare il ponte poteva rimarcare la differenzatra i due progetti?Questa venne data alle stampe a Napoli nel 1738,sette anni dopo la prima dunque, al solo scopo direndere nota la vera paternità del ponte «perché ditale opera vi è stato chi ha avuta la presuntioned’usurparsene l’onore facendo correre una cartaintagliata da Baldassar Gabbuggiani»6, riconducen-dola piuttosto che a Fuga a Michelangelo Blasco(1697-1772), ingegnere militare al servizio dellamonarchia austriaca nel regno di Sicilia con il gradodi capitano, già noto quale estensore di alcune delleperizie richieste dal governo.È indubbio che a promuovere la realizzazione dellatavola, intesa questa sì come vero strumento di pro-mozione delle capacità e del talento dell’ingegnere,

sia stato lo stesso Blasco, sebbene nella legenda aparlare in prima persona sembra essere l’incisore omeno probabilmente il disegnatore che «come ama-tore del vero» avrebbe avvertito l’urgenza moraledi «dare alla luce il presente disegno in cui vienedimostrato il ponte esistente fatto dal sudettoSignor Capitano Blasco, la sua struttura e disposi-zione a confronto delli errori occorsi nel primo dise-gno fatto dal Fuga, e questo per non togliere l’ono-re di tal opera al vero autore e per disinganno diqualche professore al quale forse potrebbe esserenon noto un tal fatto»7. Il diretto coinvolgimentodell’ingegnere nell’esecuzione della tavola si dedu-ce non solo dal tono fortemente polemico che per-mea l’intero scritto e che può trovare ragione solo inforti implicazioni emotive, ma soprattutto dalladovizia di dettagli costruttivi in esso riportati e dallinguaggio squisitamente tecnico impiegato.I problemi nel cantiere diretto da Fuga avevanoavuto inizio con il cedimento di una delle pile in

Fig. 3. G. Curiale, N. Cozzi, Progetto per il ponte sul Milicia del Capitano Ingegnere Michelangelo Blasco, 1738 (Madrid, Biblioteca Nacional deEspaña, Sala Goya, inv. 28675).

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mese di maggio del 1731, quando ormai apparivachiaro che lo scontro combattuto a suon di periziee memorie difensive tra gli architetti sicilianiLazzara e Mariani da un lato e il professionista fio-rentino dall’altro era del tutto insanabile14: il vice-ré Cristoforo Fernández de Cordova, conte diSastago, pensò a lui quale uomo giusto da nomina-re perito terzo per superare una simile impasse,comprovando dunque le sue peculiari qualità pro-fessionali15: «per dirimere i differenti pareri siricorse a S.E. per qualche Ingegniere forastiere edestinò il Capitan Blaschi, Ingegniere delle truppedell’Augustissimo»16.Eppure ciò che colpisce è che ancora alcuni mesipiù tardi, in settembre, dopo il drammatico crollodella prima arcata della struttura ideata da Fuga,chiamato a pronunciarsi sul disastro del ponte sulMilicia – perché era ormai evidente che di disastrosi trattava – e sulle qualità del primo progetto, l’uf-ficiale, assieme al padre Michelangelo Blascosenior17, anch’egli in forza all’esercito austriaco conil grado di tenente colonnello ingegnere, avevatutto sommato difeso l’operato e le scelte proget-tuali di Fuga, addossando le responsabilità a mae-stranze e fornitori: «Avendo noi dunque (con que-sta occasione) esaminato la commissione dell’archi-tetto don Ferdinando Fuga avuta dalle VostreSignorie Eccellentissime sull’erezione di dettonuovo ponte, troviamo essere l’idea del medemodecorosa e pratticabile, il disegno stabile e sodo,tanto della circonferenza degl’archi, come abbiamoosservato dall’arco che esiste, come per doversiquesto construire di mattoni, e la disposizione deltutto adeguatissima, l’esecuzione però di tale operanon poteva essere più malamente dalli operariiadempita (a riserva di tutti quattro i pilastri) da cuivi è pervenuta la sudetta rovina»18.Comunque che di errori il giovane e inesperto Fugane avesse compiuti dovette apparire evidente pre-sto a molti: ad esempio nelle fondazioni, rivelatesisottodimensionate e prive di quegli accorgimentiche avrebbero dovuto proteggere le pile propriodalle ondate di piena, dispositivi ormai onnipre-senti nei trattati e più tardi sapientemente introdot-ti da Blasco19 [fig. 4]. Non aveva mancato poi dicompiere scelte azzardate, come nell’individuazio-ne del sito, giudicato fin da subito troppo vicino almare. Dovette rendersene conto anche lui stessoquando, in occasione dello scavo delle fondazioni,

costruzione, dopo che la fiumana cagionata dallapiena del Natale del 1730 aveva «diroccato all’incir-ca cinquanta pezzi del terzo pilastro d’esso ponte epure portatosi a mare molta quantità di pietra rottache trovavasi vicino il fiume di esso ponte»8. Lanotizia aveva destato grande allarme nei deputati,preoccupati della riuscita dell’opera, poiché questaera interpretata come una delle chiavi di volta delpiano di potenziamento del sistema viario sicilianoche la monarchia austriaca fin dal primo momentoaveva promosso di pari passo con il rilevamento delterritorio, anche ricorrendo a tecnici di provenienzacontinentale – si pensi oltre che a Fuga al fiammin-go François Quequelair impiegato in più cantieri diponti9 –, per garantirsi il dominio dell’isola. Lamanutenzione e l’ammodernamento di strade eponti erano infatti conditio sine qua non per rapidi esicuri spostamenti delle truppe in caso di attacconemico10, secondo una strategia che in quegli stessidifficili anni di guerra stava trovando attuazione,ad esempio, forse in maniera più organica, nelleterre dei Savoia ad opera dell’ingegnere militareIgnazio Bertola11.Si decise infatti quasi subito, nella sessione del 18gennaio 1731, «di portare detta illustrissimaDeputazione sopra luoco per osservare il tuttoaffinché si potessero dalla stessa dare tutte le neces-sarie providenze che stimerà più proprie, portando-si il tenente colonnello Dello Monte e altre personeche giudicherà detta illustrissima Deputazione»12.Forse nessun ufficiale fece parte della numerosacomitiva che si portò al cantiere sotto la collina diAltavilla: di certo, invece, del gruppo fecero partel’architetto Gaetano Lazzara, accompagnato dal col-lega fra Giuseppe Mariani – i due avrebbero presen-tato la loro relazione congiunta qualche settimanadopo, nei primi di febbraio –, e il capomastro delRegno Gaetano Vivaldi. Data l’autorevolezza deimembri della Deputazione, tutti esponenti della piùalta aristocrazia siciliana, questi, con il loro nume-roso seguito di funzionari, tecnici, paggi e servitori,trascorsero la notte ospiti nel vicino casino del ducadi Cefalà, a Santa Flavia, dove venne offerto – cosìprevedeva l’etichetta – un gran pranzo con un’infi-nità di portate: i deputati trovarono così consolazio-ne alle loro preoccupazioni in consommè e timballidi pasta, anatre e capponi ripieni, gamberoni e cala-mari, cucinati dai cuochi al loro seguito13.Blasco sarebbe stato chiamato in causa solo nel

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fu costretto, nel tentativo di eliminare l’acqua checon un flusso continuo riempiva fossi e casseri, aricorrere a ben altro che alla coclea di Archimede –per altro affatto nuova, essendo stata già adottataqualche anno prima di lui da Agatino Daidone nelponte di Termini20. Ordinò infatti che venisseroinviati dai paesi vicini ben duecento uomini pertentare di allontanare l’acqua a forza di braccia,intervento che si rivelò comunque inefficace pro-prio «per sorgere detta acqua dal mare»21.Eppure, nonostante i pareri rassicuranti di Blasco,la Deputazione, ormai lacerata da scontri intestiniforse di natura politica che strumentalizzavano laquestione dell’opera pubblica, appariva divisa indue schieramenti, l’una capeggiata dal principe diSan Cataldo Nicolò Galletti del braccio ecclesiastico22

che sosteneva il regolare proseguimento dei lavori,l’altra capeggiata dal duca di Villarosa FrancescoNotarbartolo di quello demaniale che ne proponeval’immediata sospensione, sollevando dubbi persinosulla stessa utilità del ponte23.In realtà da lì a poco il crollo della prima arcataavrebbe convinto Blasco, una volta chiamato asubentrare definitivamente nella realizzazione del-l’opera dal viceré, di modificare integralmente ilprogetto, conservando dell’idea originaria solo ilsito e l’impianto a tre arcate, al contrario di quantosostenuto da Lazzara e Mariani che proponevano lademolizione del poco a quella data già costruito el’edificazione in altro luogo di un ponte interamen-te in pietra e a una sola arcata, sul solco quindi delletradizioni costruttive e tipologiche siciliane. Forse

Fig. 4. M. Blasco, Pianta del principiato Ponte della Milicia..., 1731 (ASPa, Ministero e Segreteria di Stato presso il Luogotenente Generale,Ripartimento LL.PP., Carte topografiche, n. 328).

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così la paternità del ponte, non vi fosse solo delsano orgoglio, ma anche la volontà di “pubblicizza-re” su larga scala le proprie competenze e il propriotalento, anche a supporto della costruzione di unpercorso professionale che, come vedremo nelseguito, si sarebbe rivelato brillante e che lo avreb-be portato lontano, garantendogli successo e la pos-sibilità di un’ascesa sociale. D’altronde, sempre allostesso obiettivo di autopromozione e all’ambizionedi una carriera fulgida andrebbe, a nostro avviso,ricondotto anche il manifesto riportante un sonettocomposto dallo stesso Blasco per festeggiare lanascita del primogenito dei sovrani asburgici, l’ar-ciduca Giuseppe, dato alle stampe nel 1741 aMilano, città in cui si sarebbe più tardi trasferito,prestando servizio come «Capitano Ingegnere nelCorpo di Lombardia»27.Il ponte effettivamente costruito sul Milicia, quellostesso che ancora oggi possiamo osservare, seppursolo in parte a causa dell’interro dell’alveo delfiume e della vegetazione che ne nasconde total-mente i rostri [fig. 5], è senza dubbio diverso rispet-to a quello disegnato da Fuga, e ciò per diversi ordi-ni di considerazioni.A prima vista le differenze sembrerebbero riguar-dare gli aspetti linguistici o decorativi. Eliminate legrandi aquile bicipiti scultoree, simbolo magnilo-quente della Casa d’Austria, in origine previsteergersi sul parapetto in corrispondenza delle pile,queste vennero rimpiazzate da un più rassicuranteSan Giovanni Nepomuceno, ancora oggi oggetto divenerazione da parte dei viandanti, il martireboemo invocato a protezione di alluvioni e annega-menti da poco santificato e anch’egli in qualchemisura simbolo religioso dell’Impero asburgico.Vennero pure semplificati i cappucci dei rostri dellepile, da Fuga disegnati in una appariscente configu-razione mistilinea e ora proposti nella usuale ver-sione piramidale. Assai più significativa per leimplicazioni sia planimetriche sia strutturali che nederivavano fu poi la modifica delle spalle delponte, da Fuga previste come massicci blocchi scar-pati aggettanti rispetto alla carreggiata e poggiantisu uno zoccolo esagonale con semirostri, completa-ti da grandi tabelle dedicatorie, e da Blasco, inveceridotti e conformati alle pile.Tuttavia la differenza sostanziale risiede nelle arca-te, l’elemento di per se stesso qualificante questotipo di architetture: Blasco decise infatti di abban-

l’ingegnere aveva assunto una simile posizione pernon inimicarsi né un architetto già autorevole e dicaratura internazionale quale Fuga, né tanto menoil potente Sovraintendente di Ponti, il conte diPrades don Antonio Ventimiglia24 che a questiaveva conferito l’incarico e che conduceva l’impre-sa – ne avevano fatto le spese non pochi fra gliappaltatori – in modo autoritario e dispotico25.Non è poi da escludere che egli fosse eccitato dall’ideadi sperimentare tecniche e modelli sì diffusi nelresto del continente ma nuovi in Sicilia, in primoluogo abbandonando la tipologia tradizionale delponte a schiena d’asino ad arcata unica, ancora uti-lizzata sino a pochi anni prima, nel 1722, daDaidone nel ponte di Termini26. D’altronde, la for-mazione del giovane militare doveva essere statadiversa da quella dei due più anziani architetti sici-liani, formatisi entrambi in ambiente ecclesiastico:le sue conoscenze tecniche specialistiche, di cuiavrebbe fatto sfoggio in più di una occasione, eranoormai divenute quelle imprescindibili per un inge-gnere militare del primo Settecento, fortementeorientate, oltre che all’arte della guerra e del fortifi-care, alle tecniche e alle tecnologie costruttive, allageometria e di conseguenza alla stereometria, non-ché al rilevamento topografico.L’incisione napoletana chiarisce così senza ombradi dubbio come Blasco in questa vicenda sia statomolto più che un semplice esecutore di ordini e pro-getti altrui, molto più che un mero continuatoredell’opera di Fuga, come sinora creduto. Non è daescludere che tra le motivazioni che indussero l’in-gegnere a dare alle stampe la tavola, attribuendosi

Fig. 5. Altavilla Milicia (Palermo). Ponte sul fiume Milicia.

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donare l’ipotesi iniziale di archi in mattoni a treghiere con appoggi in pietra alle reni, optando peruna soluzione interamente in conci di pietra dataglio, ricorrendo ad apparecchiature di un soloblocco per l’intero spessore dell’arco. Ciò che piùconta è che l’ingegnere mutò non solo il materiale,ma anche il sesto degli archi, contestando la sceltadi Fuga, per luci di quella dimensione (circa 28metri di diametro), di non adottare archi ellittici(calamentati) per come era parso in un primomomento, quanto piuttosto policentrici e paurosa-mente ribassati (che comunque nulla avevano incomune con quelli celebri catenari del ponte disanta Trinita evocati da Pane nel suo testo) [fig. 6].Blasco così lamentava nella legenda dell’incisioneche «il suo sesto non esser stato di vera figura elip-

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tica come dovea essere per susistere in un diametrodi canne 14, il quale arco fu ancora malamentedisposto circa la fabrica nel modo seguente cosìordinato sopra loco dal sudetto Fuga, il quale fecel’arco in tre foglie, cioè voltò prima un arco di duemattoni N.1 sopra del quale vi era altro N.2 e sopradi questo finalmente il terzo. Le cadute delli matto-ni di ciascheduna foglia furono tirate a caso a diver-si centri che si contrastavano l’uno a l’altro»28.La pessima posa in opera dei laterizi dell’arcataunita alla scarsa resistenza statica offerta dalla suastessa forma, ne avevano causato il crollo non appe-na si cominciò a liberare dalla complessa e artificio-sa – così almeno venne giudicata da Blasco – arma-tura lignea, crollo che era avvenuto alla presenzadello stesso Fuga [fig. 7]. Proprio per la costruzione

Fig. 6. Raffronto tra le proposte progettuali di Ferdinando Fuga (a sinistra) e Michelangelo Blasco (a destra).

Fig. 7. Raffigurazione del crollo della prima arcata costruita secondo il progetto di Fuga; G. Curiale, N. Cozzi, Progetto per il ponte sul Milicia...,cit., dettaglio.

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delle centine era stata indetta un’apposita garad’appalto, aggiudicata, come quelle per le altrelavorazioni o forniture, al migliore offerente, condi-zione, questa, che si sarebbe rivelata poi inadegua-ta sia per la complessità dell’opera sia per la scarsae discontinua presenza in cantiere di Fuga, che limi-tava assai il controllo sulle maestranze. Le armatu-re erano state previste a sbalzo, realizzate con gran-di travi disposte a formare incastellature che scari-cavano sulle pile e non direttamente sul greto delfiume, a ciascuna delle quali era assicurato «un can-nizzo che gira supra la sudetta furma» ossia untamburo composto di travetti anch’essi di castagnointessuti fittamente «acciò li mattoni possano veni-re eguali», cioè per garantire la loro corretta dispo-sizione29 [fig. 8].

La Sicilia nel dibattito settecentesco sui ponti

Eppure, riguardo a questo ardito sistema di centine,occorre dire che non si trattava poi in realtà di un“capriccio” di Fuga, come asserito dall’ingegnereche avrebbe invece dopo adottato più sempliciarmature fisse («senza necessità costruita per reg-gersi in aria solamente, appoggiata nelli soli pila-stri»), ma rientrava appieno in quella sperimenta-zione dell’ars tignaria, disciplina giudicata essa stes-sa parte dell’architettura, che da Palladio in poi, masoprattutto con lo straordinario successo del Della

transportatione dell’obelisco vaticano di DomenicoFontana (1590), aveva acquisito per tutto il Seicentoun peso via via crescente. L’orgoglio per similicostruzioni – ricordiamo che si trattava di centine asbalzo lunghe ben 26 metri e larghe oltre sette, spie-gherebbe, ad esempio, non solo la realizzazione daparte di Fuga di un apposito modello in scala a cuigli appaltatori erano tenuti a conformarsi, ma anchela sua riproduzione nella stessa incisione diGabbuggiani.D’altronde la machina ideata da Fuga sembra prove-nire direttamente dai trattati sulla costruzione diponti e sulla carpenteria, vista essa stessa comederivata dalla geometria30, trattati che andavanolentamente diffondendosi in tutta Europa già sindalla seconda metà del secolo XVII e che nel corsodel successivo soprattutto avrebbero conosciuto ungrande successo: dai primi Le Theâtre de l’art de char-pentier di Jousse31, Cursus seu Mundus mathematicusdi Dechales32 e Theatrum Pontificiale di Leupold33 aipoco più tardi Brücken-bau di Walter34 e Castelli eponti di Zabaglia35. Proprio quest’ultimo trattatorichiama la nostra attenzione su quel cantiere roma-no che da oltre un secolo, almeno dalla esemplareimpresa di Domenico Fontana, era fucina di mac-chine, ingegni e strumenti36 e in seno al qualepotrebbe essere maturata la proposta di centina for-mulata dal giovane architetto pontificio. In realtàessa sembrerebbe però ricalcare fedelmente unadelle armature proposte da Jacob Leupold nel suo

Fig. 8. Le grandi centine a sbalzo e il sistema costruttivo misto in pietra e mattoni proposto da Fuga; G. Curiale, N. Cozzi, Progetto per il pontesul Milicia..., cit., dettaglio.

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Theatrum Pontificiale, un’opera data alle stampe solotre anni prima del progetto siciliano, molto nota inambiente germanico e che potrebbe dunque averfacilmente circolato nella Sicilia asburgica e ciò pro-prio grazie agli ingegneri militari, di cui è già statodocumentato il ruolo nella circolazione libraria37

[fig. 9].L’interesse per l’architettura dei ponti e il loro com-plesso cantiere, d’altra parte, non era testimoniatosolamente dal proliferare della trattatistica sull’ar-gomento, ma anche dalla fortuna che il ponte comesoggetto di iconografia stava conoscendo presso ilgrande pubblico, in particolare attraverso le inci-sioni, da Callot a Piranesi38, per non parlare delletante vue d’optique su questo tema. A questo propo-sito non possono non essere ricordati gli straordi-nari disegni preparatori, e per dimensione e perdovizia di dettagli, di una serie di incisioni, poi maiandate in stampa, realizzate dell’architetto e inciso-re fiammingo Lievin Cruyl per celebrare la costru-zione del parigino Pont Royal o du Louvre (1685-1689)39. Uno di questi, nello specifico, mostra, inuna selva di gru, antenne, argani e capre, proprio legrandi armature lignee per le arcate del ponte,espressamente ricordate pure nel titolo della tavo-la40 [fig. 10]. E questo peculiare interesse per le ope-razioni costruttive dei ponti e in particolare percentine spettacolari avrebbe sollecitato anche piùtardi la realizzazione di altre importanti incisioni,come ad esempio, quella tirata a Roma nel 1764,sempre da Piranesi su incarico dell’architettoRobert Mylne, raffigurante il cantiere delBlackfriars Bridge di Londra da lui progettato41.A conferma delle capacità tecnico-costruttive delcapitano Blasco, in particolare della sua perizia nel-l’edificazione di ponti, occorre evidenziare comequesti sia stato anche il progettista del ponte diCampofranco sul fiume Salito, affluente delGallodoro, una fabbrica assai ardita nella struttura,con un’unica arcata ribassata della luce di oltre 36metri, posta anch’essa sotto la protezione di unaltro “asburgico” San Giovanni Nepomuceno e pre-sto ammantata di un alone mitico che forse le valsel’appellativo di “ponte romano”, quasi la sua fon-dazione potesse farsi risalire all’età classica42. Lapaternità del progetto è attestata da un’altra prege-vole iconografia, purtroppo non datata, tirata aRoma dal noto incisore Philotée-François Duflos(ca. 1710-1746) e dedicata dal capitano Blasco al car-

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Fig. 9. Soluzioni di centine lignee per la costruzione di arcate di pontiin pietra; J. Leupold, Theatrum Pontificiale, Oder Schau-Platz derBrücken und Brücken-baues, Leipzig 1726, tav. XVIII (BibliotecaCentrale della Regione Siciliana “Alberto Bombace”, Palermo. Su con-cessione dell’Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana.Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana).

dinale Alessandro Albani, figura chiave del colle-zionismo e del mecenatismo, non solo italiano, delXVIII secolo43, di cui il Nostro si dichiarava «umilis-simo, devotissimo, obbligatissimo servitore»44 [fig.11]. Non è facile determinare le ragioni di tale dedi-catoria. Crediamo, però, che il legame fra i duevada ricondotto agli incarichi istituzionali del car-dinale e alla delicatissima attività diplomatica chelegò per molti anni quest’ultimo all’Austria: protet-tore degli Stati ereditari austriaci nel 1743 edell’Impero nel 1745, dal 1744 al 1748 aveva rettol’ambasciata di Vienna in Roma45.L’incisione è particolarmente interessante non solo

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Fig. 11. M. Blasco, P. Du Flos, Progetto del Capitano Ingegnere Michelangelo Blasco per il ponte sul fiume Salito a Campofranco, s.d.(Campofranco, Museo di Storia Locale, Arti e Tradizioni Popolari “Don Nazareno Falletta”, donazione Lucchesi Salati).

Fig. 10. L. Cruyl, P. Gandensis, Prospectus erectionis arcuum in Ponte Luparae, et fulcrorum ligneorum molem lapideam sustinen-tium, 1687, dettaglio (Copyright: © Christie’s Images Limited 2009).

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Fig. 12. B. M. Castrone, Della nuova costruzione di un stabile e firmissimo ponte..., ms. del 1740 ca., tav. XIII (Palermo, BibliotecaComunale, 3Qq C 30).

perché attribuisce a Blasco il progetto del ponte diCampofranco («Per commissione dell’IllustrissimaDeputazione del Regno di Sicilia, ho eretto dinuova invenzione questo ponte»), ma anche per leconsiderazioni che sollecita nel divenire nuova-mente, come la tavola del ponte sul Milicia, stru-mento di autopromozione dell’ingegnere, mezzoattraverso il quale far sfoggio delle proprie compe-tenze e della propria professionalità. Nella legenda,infatti, Blasco, presentando all’Albani questo «ritro-vato d’Architettura», ne sottolineava la particolaresoluzione costruttiva adottata, attribuendosene ilmerito dell’ideazione: «facendo cominciare l’Arco,(ciò, che non so da veruno essersi fin qui praticato)fin dalla primiera pietra centrale del pedamento»46.La bella raffigurazione dell’alzato del ponte si alte-ra così, abbandonando la rispondenza al vero e leregole della rappresentazione geometrica, permostrare, in corrispondenza di una delle due pile,quasi tra spaccato e sezione, liberando il pilone dalrostro e dalla terra e dall’acqua in cui è affondato,l’intero sviluppo dell’arco, quella «tessitura dell’ar-co principiato dalla primiera pietra del fondamen-to» vero vanto dell’ingegnere.In realtà, crediamo non si sia trattato di una inven-zione del Nostro, ma che piuttosto questi avesseappreso tale particolare soluzione progettuale dalmatematico palermitano Benedetto Maria Castrone,figura importante della vita intellettuale sicilianadella prima metà del Settecento. Infatti, il noto dise-gno proveniente dall’opera rimasta manoscritta diCastrone, Brevissimo Compendio della civile architettu-

ra castroniana47 (ante 1742), e a illustrazione delcapitolo intitolato Della nuova costruzione di uno sta-bile e firmissimo ponte, mostra proprio, in quel casoper un ponte a tre arcate, questo tipo di configura-zione, con le ghiere degli archi che proseguonoall’interno delle pile48 [fig. 12]. D’altronde, il testo,fin dall’esordio, lo conferma con chiarezza: «Lanovità della costruzione di questo stabile e fermis-simo ponte che si espone nel presente capitolo, con-siste in un piccolo paradosso, in cui vogliamo nongià che il pilastro (come suole) sostenga l’arco, mapiuttosto che l’arco, per così dire, produca il pila-stro e lo sostenga»49. Castrone prosegue, quindi, lasua dotta trattazione spiegando la costruzione gra-fica per il disegno del ponte, anche nei suoi dettagli,in primo luogo del concio standard con cui sicostruisce l’intera arcata, determinando cioè «levere grandezze delle uguali pietre che la compon-gono, così dentro che fuori del pilastro»50. Il risulta-to della proposta di Castrone è in sostanza un ponteche appare ad arcate ribassate, ma che nella realtàsono a tutto sesto.Il legame tra i due Blasco e il matematico, d’altraparte, è indubbio, se l’edizione del 1733 deL’ingegnoso ritrovato di fortificare dello stessoCastrone, quella tradotta in italiano dal latino dal-l’allievo Mariano Leonardi51, venne proprio dedica-ta al tenente ingegnere Michelangelo Blasco.Insomma quello che emerge è un mondo intellet-tuale e professionale, che al di là di attriti, rivalità eforse pure plagi, rimaneva comunque vivace e ani-mato dal continuo scambio di idee, disegni e libri:

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non è un caso ad esempio che la copia dell’opera diCastrone conservata presso la Biblioteca Comunaledi Palermo provenga da quella di un altro ingegne-re e matematico, Giuseppe Valdivia, essendo stato«regalatoci dall’autore in Palermo al 1734»52.Ma la proposta di Blasco risultava persino più com-plessa di quella di Castrone: l’arcata nel suo svilup-po, non solo si rastremava, restringendo la propriasezione in mezzeria per poi dilatarsi nuovamente,ma presentava un andamento curvilineo dei lati,secondo i principi dell’architettura obliqua53. Si trat-tava infatti di un arco realizzato en torre cavada (o entour creuse) su entrambi i lati54, un virtuosismo, unaricercata esibizione di sapienza costruttiva cheimplicava la conoscenza dei trattati di stereotomia edel taglio della pietra che si erano succeduti dalCinquecento in poi – da Vandelvira a Martinez deAranda, da Toschi a Frézier – e che aveva conosciu-to l’espressione massima in questo campo nel PontRoyal di Parigi, con le sue complesse volte degliimbocchi ampliati per facilitare il traffico veicolare.Infine, un’ultima raffinatezza riguardava la partico-lare apparecchiatura dei conci dell’arco nei suoitratti interni alle pile: per consentire una miglioreconnessione tra le due tessiture murarie Blascointroduceva ogni due filari altrettanti conci a mar-tello appaiati che sembrano evocare suggestioniclassiciste.

Michelangelo Blasco, un ingegnere militare dalla Siciliaal Nuovo Mondo.

Ma chi era Michelangelo Blasco? Come poteva que-sto ingegnere militare, allo stato degli studi presso-ché sconosciuto almeno per la storiografia siciliana– è solo recentissimo un importante contributo chelo qualifica come cartografo di livello internaziona-le55 –, confrontarsi e persino sfidare uno dei piùaccreditati professionisti del momento, quale eraFerdinando Fuga, già nominato nel 1730 daClemente XII architetto dei Sacri PalazziApostolici?La sua esperienza siciliana aveva avuto inizio nel1719, quando insieme al padre e al fratelloDomenico, era sbarcato sull’isola nelle fila dell’eser-cito austriaco in occasione della Guerra dellaQuadruplice Alleanza, impegnato in prima lineanel conflitto contro gli Spagnoli in qualità di inge-

gnere militare, un anno prima dunque di veniredestinato al team di ingegneri cartografi, coordina-to dal generale Samuel Graf von Schmettau, incari-cati del rilevamento topografico dell’isola56:Michelangelo Blasco senior risulta infatti certamen-te nell’elenco degli ingegneri asburgici feriti inoccasione dell’assedio posto quell’anno alla citta-della di Messina57. Una volta firmata la pace e tran-sitata la Sicilia tra i domini della Corona degliAsburgo di Vienna, venne costituita sull’isola unasquadra di ufficiali ingegneri di diversa nazionali-tà, preposti in primo luogo al ripristino delle forti-ficazioni e alla realizzazione di carte topograficheda fornire a Vienna, sotto il comando del MaggioreGiuseppe Monti e dei Tenenti Michelangelo Blascosr. e Carmine de Beaumont, tra i quali figuravaanche il Nostro58.Delle specifiche abilità dei Blasco quali topografi,dunque per il rilevamento del territorio e la suarestituzione cartografica, i due diedero prova in piùdi una occasione: non solo con la partecipazioneallo straordinario progetto della Nova et accurataSiciliae di Schmettau, in cui il giovane Michelangeloper altro si distinse sugli altri59 – lui che era desti-nato a divenire «one of the leading military map-makers of the Italian Peninsula»60 –, ma anche conla più tarda Mappa geometrica delle montagne, valli,acque, e situazioni circonvicine alla città di Genova del1747, prezioso prodotto di rilevamenti attuati dalpadre assieme al collega Beaumont in occasionedell’assedio posto in quell’anno dalle truppe diVienna alla città ligure, nell’ambito della Guerra diSuccessione austriaca61.La lunga attività di Michelangelo jr. nel regno diSicilia quale ingegnere militare, impegnato dunquein primo luogo nell’ammodernamento e potenzia-mento del sistema difensivo isolano, sarebbe culmi-nata con la nomina nel 1734, in occasione dellaguerra contro i Borbone, a Supremo direttore dellefortificazioni62. Ne rimane testimonianza in duedisegni autografi, ad oggi gli unici noti, confluitinelle cosiddette Carte Montemar e relativi, uno, allefortificazioni urbane di Trapani, l’altro, allaCittadella messinese, della quale Blasco denuncia-va sin dall’intitolazione, forse polemicamente,«parte degli errori commessi nella sua ristaurazio-ne dopo l’ultimo assedio sino al presente dì 20 gen-naio 1734»63, un elaborato grafico, quest’ultimo, giàinterpretato per le sue qualità come «un esempio

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abbastanza eloquente delle capacità raggiunte dagliingegneri militari nella tecnica di disegno al princi-pio del ’700»64 [figg. 13-14].Non sappiamo dove i due Blasco avessero studiato:essendo di origine genovese (forse ligure?)65,potrebbero avere frequentato l’Accademia Reale diTorino (1678), o forse il più giovane potrebbe esse-

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re stato tra i primi studenti della K.K. Ingenieur-Akademie di Vienna (1717). Un fatto è certo: con laCorona asburgica il legame era saldissimo e lafedeltà assoluta.Proprio per questa ragione, i due, insieme all’altrofiglio Domenico, lasciarono la Sicilia tra le fila del-l’esercito austriaco di cui facevano parte, dopo la

Fig. 13. M. Blasco, Pianta del Fronte di Trapani, s.d. (Archivio di Stato di Napoli, Archivio Montemar, vol. 74, mappa n. 2).

Fig. 14. M. Blasco, Pianta della Cittadella di Messina..., 1734 (Archivio di Stato di Napoli, Archivio Montemar, vol. 74, mappa n. 13).

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sconfitta subita nell’ambito della Guerra di succes-sione polacca, quando l’isola venne invasa dalletruppe di Carlo III di Borbone, nell’estate del 1734,per essere del tutto conquistata l’anno successivo: pertutta risposta il nuovo governo spagnolo li condannòall’esilio e confiscò i beni di tutti i membri della fami-glia66. Tuttavia parrebbe che il giovane capitano si siatrattenuto forse ancora per qualche anno – non è chia-ro al momento né come né perché –, continuando aesercitare la sua mansione anche sotto l’occupanteborbonico, se tra il maggio e il novembre del 1738stilò una relazione estimativa per opere eseguitenella tenuta extraurbana del marchese di Giarratana,potendosi fregiare ancora del titolo di capitano inge-gnere67. Loro destinazione successiva dovette essere

Fig. 15. M. Blasco, mappa del fiume Ybicuy, affluente del Rio Yruguay, in Id., Notta dos papeis, que vão no masso junto, feitos peloCoronel de Blasco..., 1758. (Disponibile in Biblioteca Digital Nacional Brasil: http://objdigital.bn.br/acervo_digital/div_cartogra-fia/cart1095063/galeria/index.htm, accesso 11 settembre 2015).

comunque Milano, capitale della Lombardia asbur-gica, dove si insediò quella famiglia Blasco cheavrebbe continuato a dare a Vienna più generazionidi stimati ingegneri militari68, riuscendo presto adacquisire una solida posizione sociale, prendendoparte alla vita mondana dell’aristocrazia e dell’altaborghesia cittadina, tra balli ed estati trascorse invilla sul lago, millantando pure una presunta nobil-tà siciliana69: un’ascesa che sarebbe culminata annidopo, nel 1761, nel matrimonio tra Teresa Blasco,figlia di Domenico, anch’egli in servizio come inge-gnere in Lombardia almeno dal 174470, e il giovanemarchese Cesare Beccaria, destinato a divenire unadelle figure di spicco dell’Illuminismo europeo e giàanima della vita intellettuale lombarda71.

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Questa unione, fortemente caldeggiata dai Blasco ealtrettanto osteggiata dalla famiglia dello sposo,sarebbe stata possibile proprio solo grazie all’inter-vento di Michelangelo che mise a disposizione unaricca dote per la nipote milanese72. Questi, infatti,aveva nel frattempo fatto fortuna avendo lasciatol’Italia per entrare in servizio come colonnello inge-gnere per il Regno di Portogallo – non fu certo uncaso che la regina consorte di João V fosse MariaAnna d’Austria – chiamato ad assolvere delicatissi-mi incarichi73. Nel gennaio del 1750, infatti, venneposto a capo della celebre spedizione scientifica,composta da ingegneri militari, cartografi, astrono-mi, botanici e avventurieri provenienti da mezzaEuropa, tra cui molti italiani, incaricata di fissarecon esattezza i confini tra i possedimenti portoghe-si e spagnoli del Nuovo Mondo, a lungo causa dicontroversie e conflitti tra le corti di Lisbona eMadrid, effettuando il rilevamento dei vastissimiterritori sudamericani della Corona e redigendocarte e mappe74. Anche oltre oceano egli non fu soloingegnere e scienziato, ma anche uomo di guerra,come spettava al suo ruolo, impegnato tanto nellefortificazioni di Rio de Janeiro quanto nella campa-gna militare condotta dagli eserciti coalizzati spa-gnolo e portoghese contro gli indios ribellidell’Uruguay capeggiati dai padri gesuiti nelGuaranì75, impegno che gli valse anche un’odeencomiastica del poeta José Basílio de Gama76. Ilunghi e proficui anni trascorsi in Brasile, di cuioggi rimane testimonianza in un ricco corpus dicartografie e disegni77 [fig. 15], gli valsero grandionori e gli assicurarono importanti promozioni: nel1763 venne nominato maresciallo di campo «com omesmo exercicio de engenhiero», per divenire, unavolta rientrato a Lisbona nel 1769, ingegnere mag-giore del Regno, la massima carica a cui potevaaspirare, con un’assegnazione mensile di ben50.000 reis78, non prima però di esser riuscito a farentrare nel corpo degli ingegneri portoghesi ancheil nipote Michele79.

Dal Milicia al Savio: una conclusione inattesa

Concludendo, il ponte sul Milicia, con tutte le diffi-coltà e le ambiguità del suo iter progettuale e realiz-zativo, rappresentò di certo una tappa importantenella carriera di Michelangelo Blasco, dovette pro-

Fig. 16. Modello ligneo del progetto di Fuga per il Ponte Clementea Cesena, 1734 (da S. D’Altri Darderi, Il Ponte Vecchio diCesena..., cit., p. 44).

curargli altre commesse di ponti – certamente alme-no quello siciliano di Campofranco, se non altri –,garantendogli sempre più la stima e il consensodelle autorità governative, di fatto spianando lastrada a quella che si sarebbe rivelata una carrieraindubbiamente di successo.Come sappiamo, non andò diversamente neppureal giovane Fuga. Anzi, proprio l’esperienza delponte sul Milicia, nonostante il suo esito infelice,per non dire catastrofico, gli procurò solo pochianni dopo l’incarico per un altro ponte, quelloClemente sul fiume Savio a Cesena80: nel gennaiodel 1733, infatti, il pontefice gli commissionò direvisionare il progetto già elaborato dall’architettoAntonio Felice Facci, di fatto subentrando a questinell’opera.Quella proposta da Fuga era una struttura ancorauna volta monumentale, che sarebbe stata nuova-mente al centro di vicende assai ingarbugliate,oggetto di polemiche, commissioni di inchiesta eperizie, nonché, come quello sul Milicia, realizzatoalla fine secondo un diverso progetto e proprio acausa del sesto delle arcate81. A solo un mese di distanza dall’incarico sarebbegiunta da Roma nella città romagnola una letterache informava dell’arrivo di Fuga e alla quale eraallegato – guarda caso! – proprio «il dissegno d’unponte da lui fatto due anni sono in Sicilia [...] acciòlo vedano e dà esso comprendano la perizia dell’au-tore»82. Doveva trattarsi più che di un suo elabora-to grafico per il ponte sul Milicia, sul quale quellocesenate sarebbe stato adesso esemplato, della

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* La ricerca che ha condotto ai risultati che qui si presentano ha ricevuto finanziamenti dallo European Research Council nell’ambito del SettimoProgramma Quadro della Unione Europea (FP7/2007-2013) / ERC grant agreement n° 295960 - COSMED / The research leading to these results hasreceived funding from the European Research Council under the European Union’s Seventh Framework Programme (FP7/2007-2013) / ERC grantagreement n° 295960 – COSMED.1 Per un quadro dei ponti in Sicilia nel Settecento, cfr. F. MAURICI, M. MINNELLA, Antichi ponti di Sicilia, Palermo 2006, pp. 86-99, e A. ARMETTA, I pontiin Sicilia (XVIII-XIX secolo) fra tradizione e innovazione, Palermo 2014, pp. 11-21, al quale si rimanda soprattutto per gli importanti sviluppi registratinell’isola nella prima metà dell’Ottocento, a seguito dell’istituzione, nel 1824, della Soprintendenza delle Strade e dei Ponti.2 A. GIORDANO, Le relazioni e i rapporti sul ponte della Milicia. Fuga, Lazzara, Mariani, Blasco (1731-32), in Ferdinando Fuga. 1699-1999 Roma, Napoli, Palermo,atti del Convegno Internazionale di Studi (Napoli, 25-26 ottobre 1999), a cura di A. Gambardella, Napoli 2001, pp. 329-338. Rimandiamo a questovolume per un inquadramento generale dell’architetto e in particolare della sua attività siciliana, nonché per la bibliografia.3 R. PANE, Ferdinando Fuga, Napoli 1956, p. 23.4 G. CURIALE, N. COZZI, Planta y alzado del Ponte d’Altavilla sobre el río Milicia, 1738; Biblioteca Nacional de España, Invent/28675. 5 F. MILIZIA, Memorie degli architetti antichi e moderni, Parma 1781, p. 381.6 G. CURIALE, N. COZZI, Planta y alzado del Ponte d’Altavilla..., cit.7 Ibidem.8 Archivio di Stato di Palermo (d’ora innanzi ASPa), Deputazione del Regno, Appuntamenti, vol. 291, c.n.n., 18 gennaio 1731.9 Quasi nulla è noto di questo architetto attivo in Sicilia negli anni Venti del Settecento (1724-1728) e impegnato sia nel cantiere del ponte di Termini,una volta sopravvenuta la morte di Agatino Daidone nel 1724, sia in quello di Rosamarina; le poche notizie si trovano in E. H. NEIL, Architecture incontext: the villas in Bagheria, Sicily, Phd. Dissertation, Harvard University, Cambridge (Massachusetts), 1995, pp. 44, 390.10 Per una descrizione dello stato penoso dei collegamenti viari siciliani all’alba del Settecento, rimandiamo al capitolo molto efficacemente intitola-to Nella Sicilia del Sei e del Settecento: strade senza ponti, ponti senza strade di F. MAURICI, M. MINNELLA, Antichi ponti di Sicilia, cit., e in particolare alle pp.87-88.11 Sull’argomento, cfr. L. RE, Ignazio Bertola e i ponti savoiardi del XVIII secolo, in Gli ingegneri militari attivi nelle terre dei Savoia e nel Piemonte orientale(XVI-XVIII secolo), a cura di M. Viglino e A. Bruno jr., Firenze 2007, pp. 193-207.12 ASPa, Deputazione del Regno, Appuntamenti, vol. 291, c.n.n., 18 gennaio 1731.13 La presenza di Lazzara e Vivaldi è confermata da alcune voci annotate tra le Spese sostenute dal mastro di casa dell’Illustre Principe di FiumesalatoDeputato, in occasione di andar a veder il ponte d’Altavilla: vennero noleggiati infatti una portantina per l’architetto e un cavallo per il capomastro.L’elenco, del quale fanno parte anche i pagamenti per le molte cavalcature della comitiva, si dilunga soprattutto nelle voci relative a «dar pranzoall’Illustrissima Deputazione del Regno nel casino dell’illustre duca di Cefalà»; ASPa, Deputazione del Regno, Cautele, vol. 902, c. 243r.14 Nel corso della convocazione della Deputazione del 30 maggio 1731 vennero lette quattro delle relazioni giunte sino a noi come carte sciolte, piùprecisamente quella “accusatoria” di Lazzara e Mariani (9 febbraio 1731), quella difensiva di Fuga (20 aprile), la seconda relazione dei due architettisiciliani in risposta (8 maggio) e infine quella del capitano Blasco (25 maggio); ivi, Appuntamenti, vol. 291, c.n.n., 30 maggio 1731.15 Dietro richiesta della Deputazione, il viceré in persona aveva rimesso con un suo biglietto del 17 maggio di quell’anno a Blasco, nominato qualeperito terzo, la questione di «dirimere le differenze concernenti al buon sistema della fabrica del nuovo ponte della Milicia»; ibidem.16 Ivi, 26 settembre 1731.17 In verità sembrerebbe allo stato degli studi non sufficientemente documentato il rapporto di parentela intercorrente tra i due: erano davvero padree figlio? O si trattava di zio e nipote? Liliane Dufour afferma, infatti, che il capitano Blasco era figlio del tenente colonnello, mentre Erik Neil si limi-ta a qualificare i due, questa volta sulla scorta della documentazione d’archivio conservata al Kriegsarchiv di Vienna, unicamente come junior e senior,chiarendone soltanto il diverso grado di anzianità. Cfr. L. DUFOUR, Atlante storico della Sicilia. Le città costiere nella cartografia manoscritta (1500-1823),

stampa di Gabbuggiani, di cui infatti si conservagiusto un esemplare nella locale BibliotecaMalatestiana. La diretta derivazione dal progettosiciliano è testimoniata sia da un bozzetto anonimosia soprattutto dal grande modello ligneo commis-sionato nel 1734 per inviarlo a Roma al pontefice egiunto fortunatamente sino a noi. Le analogie lin-guistiche fra i due sono evidenti: le specchiature incui sono ripartite le superfici murarie, ma ancor piùi rostri, per i quali vengono riproposti identicamen-

te gli originali cappucci plastici di Altavilla [fig. 16].Dal punto di vista dell’impianto e della struttura,però, se è vero che, in sostituzione delle cinquearcate del Facci, Fuga ne proponeva di nuovo trecome in Sicilia, il loro sesto si presentava però bendiverso da quello di quattro anni prima: più con-sueti archi ribassati rimpiazzavano i pressochéirrealizzabili archi policentrici pensati per il Milicia,che Fuga si era ben guardato adesso di riproporre.Evidentemente Blasco aveva avuto ragione.

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Siracusa 1992, p. 36; E. H. NEIL, Architecture in context..., cit., p. 46.18 ASPa, Ministero e Segreteria di Stato presso il Luogotenente Generale, Ripartimento LL.PP., vol. 1, c.n.n., Relazione degl’Ingegneri Capitano e Tenente Blascoper il ponte della Milicia, 15 settembre 1731.19 Questa operazione di consolidamento, condotta in perfetta conformità a quanto indicato nella trattatistica contemporanea, è descritta dall’ingegne-re nella sua relazione del 25 maggio a cui era in origine allegata la Pianta del principiato Ponte della Milicia dove si dimostra il danno occorso al terzo pila-stro, il disegno di progetto oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Palermo (ASPa, Ministero Real Segreteria – Ripartimento LL.PP., Carte topogra-fiche, n. 328) e pubblicato in L. BONANNO, Architetture del paesaggio. Ponti in Sicilia, Palermo 1999, p. 124.20 L’utilizzo dello strumento è ricordato fra le altre cose da Gaetano Giardina nell’elogio funebre in onore di Daidone, in cui decantava «la facilità concui esattamente in occasione della fabrica del Ponte (di Termini) fece la coclea d’Archimede per disseccare quel fiume»; G. GIARDINA, Orazione in mortedel nostro accademico Agatino Daidone..., ms. del 1724, Biblioteca Comunale di Palermo Qq E 34, f. 52, e riportato in E. H. NEIL, Architecture in context...,cit., p. 395. 21 ASPa, Deputazione del Regno, Memoriali, vol. 407, c. 49v.22 La Deputazione del Regno era infatti composta da dodici rappresentanti scelti fra i membri del Parlamento, quattro per ciascuno dei tre bracci (mili-tare, ecclesiastico, demaniale) in cui quest’ultimo era diviso.23 Il duca di Villarosa nell’intervento che seguì la lettura della seconda relazione stilata dai due Blasco (15 settembre 1731) lamentava di essere statoforzato nella precedente convocazione a uniformarsi al voto dei colleghi e ricordava pure come il duca di Valverde don Luigi Gaetano già «s’avesseopposto che non meritava tal torrente riparo sì improprio non avendo acque se non passagiere, impedendo solamente i viandanti nel forte invernoper poche ore, rendendosi doppo nella solita natia placidezza colla quale continuamente scorre»; ivi, Appuntamenti, vol. 291, c.n.n., 26 settembre1731.24 Antonio Ventimiglia dei principi di Grammonte, figura politica importante della Sicilia della prima metà del Settecento, fu deputato del Regnodal 1728 al 1732, sotto la Casa d’Austria, e quindi dal 1738 al 1746 sotto i Borbone. La sua nomina a Sovraintendente di Ponti risale al 1 luglio1728; ivi, ad diem. Ricoprì l’incarico sino al 9 luglio dell’anno successivo quando, non sappiamo se per via dello scandalo del ponte sul Milicia,venne sostituito dal principe di Aragona, Baldassarre Naselli e Branciforti; ivi, vol. 292, ad diem. La sua carriera politica avrebbe toccato l’acmecon la nomina nel 1740 a Gran Prefetto del Commercio, incarico conferitogli sia per un suo certo piglio fattivo e riformatore, sia per il gradimen-to di cui godeva presso Carlo III di Borbone, soprattutto per merito della Relazione sulle condizioni della Sicilia che aveva presentato a Corte nel1734. Su questo suo ruolo interessanti sono alcune missive riportate in B. TANUCCI, Epistolario, ed. a cura di R. P. Coppini, L. Del Bianco, R. Nieri,Roma 1980, passim.25 Tra i memoriali presentati alla Deputazione se ne contano molti di appaltatori del ponte sul Milicia rimasti in carcere anche anni per volontà delconte di Prades per avere dato intralcio, loro malgrado, al regolare procedere dei lavori. Significativi, ad esempio, quelli di un maestro carrozzaio,che aveva preso l’appalto del trasporto dei blocchi di pietra, finito in carcere per alcune mancate consegne causate dalle piogge torrenziali del gen-naio e febbraio del 1730, «per non aver possuto passare le carrozze delli bovi il fiume della Milicia»; ASPa, Deputazione del Regno, Memoriali, vol.407, c. 27v. I carri sprofondavano, infatti, nelle trazzere trasformate in fiumi di fango, sotto il carico enorme dei blocchi, «stante che dette pietreerano di grossissime misure»: eppure, «senza che l’esponente avesse commesso colpa veruna», il conte di Prades tenne il poveraccio in prigione perquasi due anni, perseguendo anche i suoi fideiussori, «con aver di più fatto carcerare parte delli pleggi dell’esponente e parte essersi refugiati inchiesa»; ivi, c. 25v.26 Egli progettò, infatti, il nuovo ponte sul fiume San Leonardo a Termini Imerese, un’opera che, sebbene sul solco della tradizione siciliana, fu sem-pre al centro di dure contestazioni dell’architetto Lazzara; cfr. G. PALAZZOLO, Agatino Daidone. L’architetto del «Ponte Nuovo» di Termini, in «Il Corrieredelle Madonie», 15 maggio 1991, p. 6.27 M. BLASCO, Per l’augusta nascita dell’Arciduca d’Austria, Real primogenito della Maestà di Maria Teresa, regina d’Ungheria e Boemia, Milano 1741; BibliotecaNazionale Braidense, NBZCC. 05. 0021/05bis.28 G. CURIALE, N. COZZI, Planta y alzado del Ponte d’Altavilla..., cit. D’altronde già nell’ultima relazione nota, quella inviata alla Deputazione dal tenen-te Blasco nell’ottobre del 1732 da Fondachello, località costiera poco lontana dal cantiere, nel cui fondaco probabilmente gli ingegneri soggiornava-no durante la direzione dei lavori, l’elenco delle cause del crollo dell’arcata e del fallimento del progetto di Fuga si apriva proprio con «Primo: l’ar-co essere a tre compassi, quando questi dovea essere vero arco eliptico, che è quello che si chiama volgarmente arco calamentato»; ASPa, MinisteroLuogotenenziale LL.PP., vol. 1, c.n.n., Rapporto del Tenente Blasco per lo ponte della Milicia, 8 ottobre 1732.29 Ivi, Notai defunti, St. VI, min. 3942, c. 243r.30 Ad esempio, eloquente riguardo al nesso tra ars tignaria e geometria è sin dal suo titolo il trattato di D. LÓPEZ DE ARENAS, Breve compendio de la car-pinteria de lo blanco ... y otras cosas tocantes a la ieometria y puntas del compas, Sevilla 1633.31 M. JOUSSE, Le Theâtre de l’art de charpentier, enrichi de diverses figures..., La Flèche 1627; dell’opera di Jousse va ricordata anche la più tarda edizionerivista da P. DE LA HIRE, L’art de Charpenterie..., Paris 1702.32 C. F. MILLIET DECHALES, Cursus seu Mundus mathematicus, Lyon 1674.33 J. LEUPOLD, Theatrum Pontificiale, Oder Schau-Platz der Brücken und Brücken-baues, Leipzig 1726.34 C. WALTER, Brücken-Bau, oder Anweisung, wie allerley Arten von Bruecken..., Augsburg 1766.

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35 N. ZABAGLIA, Castelli e ponti di maestro Niccola Zabaglia con alcune ingegnose pratiche..., Roma 1743.36 Cfr. N. MARCONI, Edificando Roma Barocca. Macchine, apparati, maestranze e cantieri tra XVI e XVIII secolo, Roma 2004, a cui si rimanda anche per l’am-pia bibliografia sull’argomento.37 Lo stesso Blasco, nell’agosto del 1722, aveva venduto all’architetto Daidone un «libro di geografia fatto a Vienna»; E. H. NEIL, Architecture in con-text..., cit., p. 388. Del volume sembra però non esservi traccia nell’inventario ereditario stilato alla morte di questi nel 1724; N. FINOCCHIO, Notizie sullabiblioteca di Agatino Daidone dal suo inventario ereditario (1724), in «Lexicon. Storie e architettura in Sicilia e nel Mediterraneo», 16, 2013, pp. 29-40.38 Dell’incisore francese, ad esempio, si ricorda la veduta del Ponte Vecchio fiorentino del 1617, mentre tra le molte tavole su questo tema dell’italia-no vanno segnalate le splendide incisioni, anche di rilievo e di indagine tecnico-costruttiva, dei ponti romani contenute nel Quarto tomo, apposita-mente dedicato a questo soggetto, di G. B. PIRANESI, Le antichità romane di Giambatista Piranesi architetto veneziano, Roma 1756.39 Il ponte, a cinque arcate ellittiche, fu commissionato da Luigi XIV agli architetti Jacques Gabriel, Jules Hardouin-Mansart e François Romain. I duedisegni di grande formato (ca. 60 x 85 cm) realizzati da Cruyl nel 1687, nel pieno dei lavori dunque, un tempo nella collezione Wattine e alcuni annifa apparsi sul mercato antiquario (Christies’s, 2009; Sotheby’s, 2012), restituiscono assai efficacemente la vitalità del cantiere parigino nei suoi duemomenti più delicati: la fondazione delle pile e la realizzazione delle arcate. Essi fanno parte di una serie di sette disegni, quasi certamente commis-sionati da Michel Lepelletier de Souzy, directeur général des fortifications et du génie, che sovraintendeva alla costruzione del ponte. Tra questi sisegnalano anche due bei disegni a china di più piccolo formato, datati uno 1686 e l’altro 1687, conservati oggi alla Biblioteque nacional de France,raffiguranti in dettaglio uno dei grandi casseri costruiti in mezzo alla Senna per la posa delle fondazioni e una delle complesse macchine impiegateper pomparne via l’acqua; Bibliothèque nationale de France, Département Estampes et photographie, RESERVE FOL-VE-53 (H). Il ponte terminatoè invece raffigurato in due suoi disegni conservati al Louvre; Musée du Louvre, Cabinet des dessins, Fonds des dessins et miniatures, INV 12848r eINV 19890r. Sui disegni un tempo nella collezione Wattine, cfr. E. MAREUSE, Trois vues de Paris de Lieven Cruyl, in «Bullettin de la Société de l’Histoirede Paris et de l’Ile de France», 1919, pp. 64-71; in generale sulla produzione grafica di Cruyl e per la schedature di tutte le rappresentazioni del ponte,cfr. B. JATTA, Lieven Cruyl e la sua opera grafica, Brussels-Roma 1992.40 Così recita il titolo: Prospectus erectionis arcuum in ponte Luparae, et fulcrorum ligneorum molem lapideam sustinentium.41 La tavola, intitolata A View of the intended bridge at Blackfriars – London August MDCCLXIIII by Robert Mylne architect – Engraved by Piranesi in Rome,raffigura il procedere dei lavori, con due grandi armature lignee già montate sulle pile e l’avvio della posa dei conci di una delle arcate. Il ponte, com-pletato nel 1769, fu oggetto di un grande concorso bandito nel 1760 e vinto da Mylne.42 In mancanza di studi scientifici sul ponte, interamente costruito ex novo, in molti equivocano sulla datazione di questo manufatto riconducendo-lo in tutto o in parte (le pile e i rostri) ad epoca romana. Unica voce discorde è quella di Ferdinando Maurici che correttamente afferma: «La tradizio-ne locale lo nobilitava dell’appellativo di “ponte romano” ma si trattava certamente di una realizzazione di età moderna (probabilmente del XVIIIsecolo o dei primi del XIX)»; F. MAURICI, G. FANELLI, Antichi ponti della Sicilia. Dai romani al 1774, in «Sicilia archeologica», 99, 2001, p. 153, e poi in F.MAURICI, M. MINNELLA, Antichi ponti di Sicilia, cit., p. 98, in cui l’autore ipotizza anche un’attribuzione a Michelangelo Blasco.43 Sull’argomento, cfr. Il cardinale Alessandro Albani e la sua villa: documenti, a cura di E. Debenedetti, Roma 1980; E. DEBENEDETTI, Alessandro Albani patro-no delle arti: architettura, pittura e collezionismo nella Roma del ‘700, Roma 1993. Dell’incisione sembra però non esservi traccia nei diversi, ricchissimiinventari di opere d’arte redatti alla morte del cardinale o in occasione dello smembramento della collezione.44 M. BLASCO, P.-F. DUFLOS, Progetto del ponte di Campofranco, s.d. L’incisione è pubblicata in L. BONANNO, Architetture del paesaggio..., cit., p. 13.45 È possibile che i due potessero essersi conosciuti prima che l’Albani prendesse l’abito talare, tenuto conto che questi aveva inizialmente intrapre-so la carriera militare, essendo stato colonnello del reggimento dei dragoni dell’esercito pontificio dal 1707 al 1718. Non è neanche da escludere chel’incisione possa essere datata al 1743-44, quando nell’ambito della guerra di successione austriaca, l’esercito di Vienna – e l’ingegnere Blasco al suoseguito – occupò i territori dello Stato della Chiesa divenuto così campo di battaglia contro le truppe borboniche del Regno di Napoli; L. LEWIS, Albani,Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, I, Roma 1960, ad vocem. A questi stessi anni, infatti, risale un altro suo pregevole prodotto cartografi-co, la Carta Geometrica Topografica di Velletri e delli Campamenti Austriaci e Napolispani (1744), conservata presso il Kriegsarchiv di Vienna; cfr. M. V.VERES, Unravelling a Trans-Imperial Career: Michel Angelo de Blasco’s Mapmaking Abilities in the Service of Vienna and Lisbon, in «Itinerario», XXXVIII, 2,2014, pp. 75-100, alle pp. 80-81.46 M. BLASCO, P.-F. DUFLOS, Progetto del ponte di Campofranco, cit.47 Per un commento sul testo di Castrone, cfr. F. SCADUTO, Trattati manoscritti e raccolte grafiche di architetti siciliani in età moderna, in Il libri e l’ingegno.Studi sulla biblioteca dell’architetto (XV-XX secolo), a cura di G. Curcio, M. R. Nobile, A. Scotti Tosini, Palermo 2010, pp. 83-88.48 B. M. CASTRONE, Brevissimo Compendio della civile architettura castroniana..., Tav. XIII, (ms. del 1740 ca., Biblioteca Comunale di Palermo, 3QqC30).49 Ivi, III, 4, §1.50 Ivi, §7.51 Su Mariano Leonardi (1707-1745), membro dell’acese Accademia degli Zelanti, che firmò però la traduzione sotto lo pseudonimo Leandro Majorani,cfr. C. CARPINATO, Vita del dottissimo e divotissimo p. Mariano Leonardi domenicano..., Messina 1752; M. CALÌ, La Sicilia nei canti di Leonardo Vigo, Acireale1881, pp. 49, 360-61.52 Si tratta della copia di B. M. CASTRONE, L’ingegnoso ritrovato di fortificare..., Palermo 1733, ai segni CXXXVI F 82 n. 2.53 Sull’argomento, cfr. A. ARMETTA, L’ultima frontiera della stereotomia. Note su alcuni trattati della prima metà del XIX secolo sui ponti “obliqui”, in «Lexicon.

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Storie e architettura in Sicilia e nel Mediterraneo», 14-15, 2012, pp. 49-54.54 Desidero ringraziare alcuni amici, il prof. José Carlos Palacio e l’arch. Maria Mercedes Bares, studiosi autorevoli di stereotomia, per l’aiuto che mihanno affettuosamente dato per meglio comprendere la complessa costruzione del ponte.55 Ci riferiamo allo studio di M. V. VERES, Unravelling a Trans-Imperial Career..., cit. Per i pochissimi dati riguardanti, invece, l’attività siciliana dei dueBlasco, raccolti per altro indistintamente in una unica voce, cfr. M. C. RUGGIERI TRICOLI, B. DE MARCO SPATA, Blasco, in Dizionario degli artisti siciliani.Architettura, a cura di M.C. Ruggieri Tricoli, Palermo 1993, ad vocem.56 Sull’argomento, cfr. La Sicilia disegnata: la carta di Samuel von Schmettau, 1720-21, a cura di L. Dufour, Palermo 1995; P. MILITELLO, L’isola delle carte.Cartografia della Sicilia in età moderna, Milano 2004, pp. 127-139; V. VALERIO, Tre momenti di conquista nella cartografia siciliana, in V. VALERIO, S. SPAGNOLO,Sicilia 1477-1861. La collezione Spagnolo-Patermo in quattro secoli di cartografia, Napoli 2014, pp. 68-70.57 Nella Specificazione degl’Ingegneri stati uccisi e feriti durante l’Assedio della Cittadella di Messina, pubblicato subito dopo la presa della fortezza, tra imolti tecnici viene annotato: «Alli 6 di settembre il Ten. Ingegniere Sig. Blasco»; Avisi italiani ordinarii e straordinarii dell’anno 1719, Vienna 1719, f. 215v,6 dicembre 1719.58 Gli altri ufficiali erano Sesselier, Person, Sambergere e Miller; E. H. NEIL, Architecture in context..., cit., p. 46.59 Lo prova il fatto che il generale von Schmettau, una volta terminate le operazioni di rilievo, per la fase decisiva di assemblaggio dei disegni par-ziali e di disegno della carta definitiva volle avere con sé a Vienna proprio il giovane sottotenente (capitano?) Blasco, «qui a lui même aidé à lever leplan et qui a veu et tient en memoire la situation»; V. VALERIO, Tre momenti..., cit., p. 69.60 M. V. VERES, Unravelling a Trans-Imperial Career..., cit., p. 79. Segnaliamo, però, che l’autrice non fa riferimento alcuno alla figura di MichelangeloBlasco senior.61 Un esemplare della carta a stampa, disegnata e incisa dallo stesso Beaumont e dedicata al generale austriaco Maguire, si conserva presso laBiblioteca nazionale centrale di Firenze (PALAT. Carte mil. 7), erroneamente datata però al 1740. Sulla Mappa, cfr. N. GROSSO, La Mappa Geometricadel capitano Carmine de Beaumont, cartografo piemontese del XVIII secolo, in «Studi e Ricerche di Geografia», XII, 2, 1989, pp. 133-150. Per una dettaglia-ta cronaca degli eventi bellici in questione, cfr. G.F. DORIA, Della Storia di Genova dal trattato di Worms alla pace d’Aquisgrana: Libri Quattro, Leida 1750.62 G. CURIALE, N. COZZI, Planta y alzado del Ponte d’Altavilla..., cit.63 I disegni sono oggi conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli, Archivio Montemar, vol. 74, mappe nn. 2 e 13. Sulle Carte Montemar e per unaprima analisi delle due tavole recanti la firma del capitano ingegnere Michelangelo Blasco, cfr. T. COLLETTA, Piazzeforti di Napoli e Sicilia. Le “carteMontemar”, Napoli 1981, e in particolare pp. 123-124, 132-134, 137-138, 147-148.64 Ivi, p. 123.65 Sono le fonti portoghesi a svelarne la provenienza: Michelangelo Blasco jr., infatti, nella Relação dos officiaes de guerra [...] nomeadas por Sua Magestadepara a expedição da America Portugueza del 1750 è indicato come «genovez»; S. VITERBO, Dicionário histórico e documental dos arquitectos, engenheiros e con-structores portugueses, 3 voll., [Lisboa 1899-1922] 1988, I, p. 109.66 M. V. VERES, Unravelling a Trans-Imperial Career..., cit., p. 79.67 ASPa, Notai defunti, St. VI, reg. 4579, c. 222r. Il documento è segnalato in M.C. RUGGIERI TRICOLI, B. DE MARCO SPATA, Blasco, cit.68 Sul Genio militare asburgico in Lombardia, nonché per alcune segnalazioni sull’attività dei Blasco in Lombardia e a Mantova in particolare, cfr. C.BONORA PREVIDI, Mantova e le difese imperiali (1707-1797), «Postumia», 20/1-2 (2009). Alcuni sparuti riferimenti ai ruoli ricoperti dagli stessi tra i ran-ghi dell’esercito austriaco a Milano sono in A. DATTERO, Soldati a Milano. Organizzazione militare e società lombarda nella prima dominazione austriaca,Milano 2014, passim.69 Si fregiavano infatti a Milano del titolo di marchese di Sant’Erasmo. Non a caso il cognome sarebbe stato mutato, a partire dal periodo lombardo,nella forma de Blasco. Lo stesso Beccaria avrebbe in più di una occasione perorato presso la Corte di Vienna la causa del riconoscimento da parte delTribunale Araldico di Milano della nobiltà della moglie, senza però riuscirvi; E. LANDRY, Cesare Beccaria. Scritti e lettere inediti, Milano 1910, p. 236.70 C. BONORA PREVIDI, Mantova e le difese imperiali..., cit., p. 62.71 Sull’argomento, cfr. Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Milano 1990; G. TESSITORE, Cesare Beccaria: l’uomo e il mito. Idealizzazione e realtà storica, Milano2008.72 I Blasco erano soliti vantare nei salotti milanesi entrature alla Corte di Lisbona, attraverso Michelangelo, che gli fecero guadagnare autorevolezza,giocando forse un ruolo pure nella riuscita del matrimonio. Così Beccaria raccontava in un suo memoriale: «Era già qualche tempo che il Maestro diCapella Monzino esaltava in casa mia e la nobiltà della famiglia Blasco, la loro ricchezza, ed aderenza alla Corte di Portogallo per mezzo del zio gene-rale [...]. Feci interpellare dal medesimo Monzino per la dote, e mi fu risposto che vi sarebbero stati due mille zecchini, oltre le speranze grandi, chemi si facevano supporre fondate sul zio, che dicevasi amare pazzamente questa figlia». In realtà lo zio Michelangelo Blasco alla fine versò ben 3000zecchini; E. LANDRY, Cesare Beccaria..., cit., p. 194-195.73 Al trasferimento di Blasco presso la Corte portoghese e alle sue implicazioni diplomatiche, nonché al suo periodo americano, sono dedicate moltepagine del già ricordato contributo di M. V. VERES, Unravelling a Trans-Imperial Career..., cit., pp. 81-90.74 S. VITERBO, Dicionário histórico e documental..., cit., p. 108.75 Ivi, p. 111. Sull’argomento, cfr. T. GOLIN, A Guerra Guaranítica: como os exércitos de Portugal e Espanha destruíram os Sete Povos dos jesuitas e indios gua-ranis..., Passo Fundo 1998. Segnaliamo come quest’ultimo autore in una nota al suo testo indichi quale anno di nascita di Michelangelo Blasco, senza

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però indicarne la fonte, il 1710 (ivi, p. 180); tale dato è però chiaramente incompatibile con entrambi i Blasco, tenuto conto che è ampiamente docu-mentato come questi fossero in servizio in Sicilia per l’esercito asburgico come ufficiali ingegneri almeno dal 1720.76 «Tu que viste e pizaste, ó Blasco insigne,/ Todo aquelle paiz, tu só pudeste,/ Co’a mão, que dirigia o ataque horrendo/ E aplanava os caminhos ávictoria,/ Descrever ao teu Rei o sitio, e as armas,/ E os odios, e o furor, e a incrivel guerra»; J.B. DE GAMA, O Uruguay, Lisboa 1769, p. 70.77 Carte e mappe, alcune delle quali rintracciate solo di recente, sono conservate presso molte biblioteche e archivi sud-americani; sull’argomento, cfr.T. GOLIN, Cartografia da Guerra Guarantica, in Actas do 1° Simposio Brasileiro de Cartografia Historica (Paraty, 10-13 maggio 2011), ed. on line:https://www.ufmg.br/rededemuseus/crch/simposio/GOLIN_LUIZ_CARLOS_TAU.pdf78 S. VITERBO, Dicionário histórico e documental..., cit., p. 112.79 Questi, in servizio dal 1765 a Rio de Janeiro come «ajudante de infanteria com exercicio de engenheiro», è stato erroneamente riconosciuto dallastoriografia lusitana in un figlio del Nostro; ivi, p. 113. La sua carriera sarebbe proseguita più tardi tra i ranghi dell’esercito austriaco in Lombardia,anche grazie all’interessamento del cognato Cesare Beccaria. Questi nel maggio del 1779, infatti, scrisse una lettera al barone Sperges, referendariodegli affari d’Italia alla Corte di Vienna, cercando di garantirgli appoggio e vantaggi: «mi trovo in dovere di impegnare l’animo benefico di V.S. Ill.main favore di Don Michele de Blasco mio cognato e capitano degli ingegneri delle truppe di S.M. Fedelissima. Egli è figlio del fu Tenente ColonnelloDon Domenico che ha consumata la sua vita militando per l’augustissima casa»; E. LANDRY, Cesare Beccaria..., cit., p. 249.80 Sull’argomento, cfr. S. D’ALTRI DARDERI, Il Ponte Vecchio di Cesena. Le vicende costruttive del ponte Clemente di Cesena. Un caso emblematico del rapportotra teoria e prassi, Cesena 1996.81 Ivi, pp. 51-81.82 Ivi, p. 37.

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La diffusione della “nuova” scienza del costruire nelMezzogiorno nel solco della tradizione vinciana

Sulla base dei nostri studi concernenti la matrice vin-ciana della figura dello scienziato-artista nelMezzogiorno tra Cinque e Ottocento, insieme con ilricco repertorio di fonti e modelli a disposizione deiprogettisti di opere pubbliche sin dal principio del-l’età moderna1, tenteremo di delineare le basi teorichee tecniche sulle quali si fondò, tra primo e secondoperiodo borbonico, l’attività nel settore dei ponti. Vadetto che, ancor prima dell’importante contributoofferto dagli studi di marca francese, a partire dallaprima metà del Settecento, molto era stato fatto nelsettore grazie alla diffusione della trattatistica cinque-centesca, segnatamente nel campo dell’ingegneriamilitare. A fronte di un fenomeno di sempre maggio-re separazione delle tecniche proprie dell’arte dellaguerra e delle fortificazioni dal ceppo generale delleopere pubbliche, grazie alla lezione di Leonardo fufatta salva, ancora per quattro secoli, l’unità e l’iden-tità della figura professionale dell’architetto-ingegne-re, sintesi inscindibile di arte e scienza. Prese le distanze dalla logica deduttiva ancora impe-rante nel Cinquecento e introdotta una più stretta

relazione tra norma e sperienza, il genio vincianopose le basi per un metodo sperimentale che, nelcorso dei due secoli successivi, vedrà prima il contri-buto di Galileo poi quello degli enciclopedisti escienziati francesi2.Al notevole fermento registratosi in Europa già sulfinire del XVII secolo – proprio sulla scorta dell’espe-rienza galileiana – nell’ambito della teoria delle traviinflesse e dello studio degli archi e delle cupole, agliinizi del Sette cento non aveva ancora fatto seguitoun’adeguata sperimentazione, anche per la mancan-za di efficaci attrezzatu re di verifica, nonché per ilretaggio delle antiche “regole dell’arte” e dei princi-pi di proporzionalità desunti dalla trattatistica cin-quecentesca. A quell’epoca fu dunque ritenuto indi-spensabile dagli studiosi l’avvio di un serio pro-gramma di indagine nel campo della meccanica dellemurature: il contributo dato da Philippe De La Hirenel Traité de Mécanique del 1695 [fig. 1] sul comporta-mento delle strutture ad arco e la sua successiva pro-posta di un nuovo procedimento per il dimensiona-mento dei piedritti (1712) posero le basi per gli studisuccessivi ai fini dell’individuazione del “giunto dirottura”, sebbene ancora in modo impreciso. Il meto-do fu perfezionato da Bernard Forest de Bélidor che,

IL DIBATTITO SCIENTIFICO E TECNICO IN MATERIA DI PONTI IN ETÀ BORBONICA: TRADIZIONE TEORICA ED ESPERIENZE NEL TERRITORIO MERIDIONALE

Alfredo BuccaroProfessore associato, Università degli Studi di Napoli Federico [email protected]

AbstractScientific and Technical Debate in the Field of Bridges at the Time of the Bourbons: Theoretical Tradition andExperiences in the Southern TerritoryPerforming a study on the debate and on the works about masonry bridges during the Bourbon age means to describe the gener-al evolution of building science in Europe since Enlightenment up to Restoration: during Early Modern Age, the Leonardo model– based on a closer relation between reason and experience – had developed in the Southern Italy, so that the professional ‘scien-ziato-artista’ consolidated up to the establishment of a new School for professional training to project and to direct public worksat the beginning of XIX century.In this work we are presenting some significant experiences in the field of bridges, dated on the first and the second Bourbonperiod: in this age we can find a constant theoretical and technical maturation of this important building type in that king-dom, where some new principles were tasted for masonry bridges and, for the first time in Italy, for iron bridges.

KeywordsHistory of bridges, South of Italy, Engineers, the Bourbons

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tra teoria e tecnica fino ad allora esistente attraversol’adozione del modello matema tico di verifica: il suotrattato divenne ben presto uno strumento indispen-sabile di studio e di lavoro per gli ingegneri che siandavano formando in Francia nelle scuole militari eche furono i primi applicatori della nuova scienzasperimentale. Per Bélidor l’esperienza nulla può senon è “illuminata”, ossia sorretta dalla ragione, a suavolta sostenuta dalla teoria: la scienza del costruire,con particolare riguardo al funzionamento degliarchi, delle volte e delle cupole, ma anche a quellodei ponti e delle opere idrauliche, si baserà allora suiprincipi teorici della meccanica per l’equilibrio deicorpi e su quelli dell’algebra e della geometria anali-tica per il calcolo delle sezioni resistenti. Dalle equa-zioni, con l’introduzione di coefficienti di sicurezzasempre più attendibili, attraverso il modello mate-matico, si potrà calcolare una struttura prima ancoradi averla realizzata6. L’adozione del calcolo nellaprogettazione sostituisce, in architettura, l’intuizionegrossolana dell’equilibrio statico, eliminando prati-che “oscure” ancora vigenti.Le scienze teoriche, prima patrimonio delle accade-mie, volgono ora i propri interessi nel dare fonda-mento all’arte del costruire. Ma Bélidor si fonda sumodelli ancora approssimativi e poco vicini alla real-tà: nel 1813 Navier noterà come essi all’epoca del-l’autore non consentissero diretti riscontri nella pra-tica e come, viceversa, non assicurassero un’espe-rienza ben sorretta dalla teoria7. Bélidor ha però ilmerito di aver rotto definitivamente con la logicacinquecentesca della “geometrizzazione” universale:attraverso il formidabile strumento del calcolo anali-tico, l’ingegnere è divenuto scienziato, potendo oraelaborare teorie, oltre ad applicarle e sperimentarlein fase esecutiva; le verifiche già svolte eviterannoulteriori applicazioni, divenendo patrimonio comu-ne dell’istituzione statale. Bélidor ha dunque fonda-to le basi di una scienza degli ingegneri che già agliinizi dell’Ottocento mostrerà i segni evidenti di unapropria fisionomia e consistenza, favorendo unadecisa evoluzione della nuova figura professionale,da destinarsi segnatamente agli interventi delloStato sulle città e sulle infrastrutture territoriali.Nel suo trattato sull’idraulica8 del 1737-39 [fig. 2],Bélidor descrive i principali ponti francesi, tra cui ilPont Royal sulla Senna a Parigi, il ponte di Sedansulla Mosa e quello di Compiegne, indicando nelprimo, opera di Jules Hardouin-Mansart, Jacques-

nella sua Science des Ingenieurs del 17293, approfondìl’analisi del meccanismo di ribaltamento dell’arcosoggetto a una spinta ortogonale alla sezione delconcio; nel 1725, inoltre, egli aveva pubblicato letabelle sulla resistenza dei piedritti di sostegno dellevolte. Si dovranno però attendere gli studi diCouplet e quelli di Coulomb sull’attrito per correg-gere le imprecisioni di Bélidor e, ancora, quello diMascheroni per risolvere l’errore nella scelta dei“giunti di rottura”4. In seguito anche Perronet eChézy utilizzarono il metodo di De La Hire, redigen-do un utile abaco per il calcolo dello spessore dei pie-dritti. Si assiste dunque, gradualmente, all’abbando-no degli antichi metodi empirici e geometrici didimensionamento di archi, volte e piedritti, dandosiuno spazio sempre maggiore alle teorie scientifiche5.A Bélidor va riconosciuto il merito della definizionedi una scienza delle costruzioni finalmente strumen-tale alla pratica esecutiva e atta a superare il divario

Fig. 1. Ph. De La Hire, Traité de Mécanique, Paris 1695, fron-tespizio.

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Ange Gabriel e François Romain, il modello di quel-li costruiti dopo il 1685. Vanno infine ricordate leutili osservazioni di Bélidor in materia di palificatedi fondazione e di calcolo dello spessore dei fianchidei ponti in muratura9.Nell’Encyclopédie Diderot e d’Alembert spiegano divoler dare ai tecnici e agli artigiani l’opportunità dicomprendere le ragioni generali del proprio lavoro,utili per rendere più sicure le loro conoscenze: sicompie finalmente quella comunità di intenti tra gli“empirici” e i teorici che era soltanto un auspicioall’epoca di Leonardo. Proprio come Archimedeaveva ispirato il genio toscano, la matematica e lafisica saranno alla base del sapere dei nuovi ingegne-ri, mettendoli nella condizione di dominare le forzedella natura attraverso il calcolo e, quindi, di control-lare il territorio. E questo sarà davvero il miglior via-tico per la nuova fortuna del metodo vinciano all’ini-zio dell’età contemporanea, un metodo fatto di con-tinui rimandi tra ragione ed esperienza, teoria e pra-tica del costruire, anticipatore, per molti versi, dellosperimentalismo induttivo dell’Età dei Lumi10.Gli studi di Gautier11 [fig. 3], sebbene ancora basatisui principi diffusi per i ponti in muratura dai tratta-ti di Serlio, Palladio e Scamozzi, appaiono semprepiù legati all’esperienza, da cui lo scienziato trae ilproprio metodo di dimensionamento delle arcate.Ma si deve a Jean-Rodolphe Perronet il merito diaver tirato le somme di quanto pubblicato sino aquel punto in materia di ponti: nella Description desproiets et de la construction des ponts de Neuilly, deMantes, d’Orleans (1788) egli descrive, tra gli altriponti da lui progettati, quelli di Neuilly sulla Senna(1768-1774) e di Nemours sul Loing (1771): in parti-colare nel primo, grazie a una precisa analisi dellaresistenza della muratura, egli era riuscito a diminui-re al massimo lo spessore della struttura, adottandoarchi molto ribassati dal profilo a undici centri emigliorando così gli studi di Hardouin-Mansart12.L’adozione dell’arco policentrico gli permise di pre-vedere centine lignee di più facile disegno e realizza-zione rispetto a quelle a sagoma ellittica o a tre cen-tri; si trattava di centine retroussées che consentivanoun abbassamento in opera e che ebbero ampia diffu-sione in seguito, sebbene non fossero prive di incon-venienti, come osservò Rondelet13: questi videcomunque nel ponte di Neuilly il modello di tuttiquelli successivi, tra cui il ponte a cinque arcatecostruito a Parigi davanti alla Scuola Militare tra il

1806 e il 1812 dal Lamande, ingegnere capo di Pontie Strade. Va infine ricordato l’importante Traité com-plet de la construction des ponts di Emiland Gauthey(pubblicato postumo nel 1809-16), nel quale si fa ilpunto sullo stato della scienza in materia di costru-zione dei ponti14.Quali furono allora nel Mezzogiorno, in età vanvitel-liana, i germi che avrebbero portato, agli inizi delXIX secolo, alla nascita di una classe professionaleatta a rispondere all’impatto con le nuove istituzionifrancesi e con le esigenze di una più avanzata emoderna progettazione del territorio? E quali, anco-ra, i riflessi sulla figura dell’architetto, per così dire il“malessere” avvertito già da Vanvitelli nel rapportocon gli scienziati e, poi, dai suoi epigoni sul volgeredel Settecento?15 Uomini come Vanvitelli e Fuga,entrambi giunti nel 1750 a Napoli da Roma, vanno ineffetti considerati gli ultimi professionisti che, nelcorso della loro imponente carriera, non mostrarono

Fig. 2. B. Forest de Bélidor, Architecture hydraulique, Paris1737-39, frontespizio.

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dell’arte, restando “costruttore” alla maniera indica-ta da Vitruvio, alieno da suggestioni mitiche oarcheologiche e per questo mai neoclassico ma, alcontrario, convinto che attraverso il classicismobarocco si potesse risalire direttamente al classico.Grandi opere edilizie e idrauliche, proprio nelcampo di cui ci occupiamo, testimoniano tuttora ladimensione megastrutturale dell’espe rienza vanvi-telliana e la corretta applicazione, in via generale, deiprincipi della statica e della meccanica, qualunquene fosse la fonte; ma al contempo appare evidentel’inadeguatezza di un metodo pro gettuale quasiinteramente affidato all’intuito e alla perizia tecnica,a fronte della complessità delle tematiche strutturalie delle improrogabili esigenze di una figura speciali-stica, specie nel campo dei lavori pubblici. I decenni che fecero seguito all’attività di Vanvitellipresso i Borbone furono caratterizzati da un grandefermento nel campo delle scienze applicate, con con-tributi che travalicano senza dubbio la sfera delRegno, come gli studi di Vincenzo Lamberti16.Insieme con Niccolò Carletti – che fornì per primo,tra l’altro, importanti indicazioni sulle palificate –Lamberti fu tra gli ingegneri più significativi dellanuova generazione che fece seguito alla stagionevanvitelliana, assicurando così il passaggio dallapratica di un “professionismo militante” all’impo-nente produzione teorica e tecnica ottocentesca17:personaggio di spicco del panorama della scienzanapoletana, Lamberti è oggetto di particolare atten-zione anche da parte del Napoli Signorelli, venendoda questi definito significativamente un «architettoscienziato»18; non a caso nell’introduzione alla suaStatica degli edifici19 del 1781 [fig. 4] lo stesso Lambertidefinì «architetti pratici» i tecnici militari e quantialtri non ponessero la scienza alla base della loroprofessione, con evidente riferimento alla non sopitacritica alla pura techne di Vanvitelli, con cui eglientrerà in diretto contrasto. Lamberti disegna corret-tamente il meccanismo di un arco soggetto a un cari-co concentrato in chiave, adoperando una terminolo-gia ancora attuale, sia pure con una certa imprecisio-ne nei concetti di statica. Dopo l’altra fondamentaleopera sulla Voltimetria retta del 1773, nella Statica, ilprimo testo apparso in Europa sull’argomento e cita-to anche dal Bernoulli, Lamberti aggiornò la discipli-na, applicando alle volte e alle cupole i risultati giàraggiunti nello studio delle travi e degli archi eoffrendo per la prima volta una trattazione sistema-

Fig. 3. H. Gautier, Traité des ponts, Paris 1765, frontespizio.

Fig. 4. V. Lamberti, Statica degli Edifizj, Napoli 1781, frontespizio.

quasi mai la volontà di un aggiornamento teorico-scientifico e solo rara mente la disponibilità a colla-borare con gli scienziati nella soluzione di difficiliproblemi strutturali. Il problema è che Vanvitellinon volle mai staccarsi dalla techne architettonica,ossia dall’insieme di norme acquisite nella pratica

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tica del problema delle lesioni. Nell’opera – cuiavrebbe dovuto fare seguito un altro testo sulleopere idrauliche, sui ponti, sui terrapieni e sullestrutture lignee – l’autore parte dall’intento di«conoscere l’origine delle lesioni e degli errori, chevedeva frequentemente nella pratica di proporziona-re le parti dell’edifizio col costruirne alcune tropporobuste e inutili, ed altre deboli e insignificanti»20, adesempio con riferimento al problema del proporzio-namento dei piedritti delle volte.Questo fermento di idee e di studi verificatosi inambito napoletano affonda le radici in uno scenariopiù ampio che, ancora una vota, fa capo all’ambientefrancese della seconda metà del Settecento. L’Écoledes Ponts et Chaussées fondata a Parigi nel 1747 videper oltre quarant’anni la direzione di Perronet,autentico mito degli ingegneri europei, tanto cheanche i tecnici napoletani del Corpo degli IngegneriIdraulici vi si recarono nel 1787 per incontrarlo e visi-tare le principali opere dei francesi in materia diponti, strade e porti21. Poco dopo, nel 1794, un passofondamentale fu segnato dalla fondazione a Parigidell’École centrale des travaux publics, che nel 1795divenne École Polytechnique, propedeutica alla “spe-cialistica” École des Ponts et Chaussées e a quelle delgenio e dell’artiglieria. La Polytechnique napoleonica,specie grazie al contributo di scienziati comeGaspard Monge e Gaspard de Prony, sarà dunque illuogo di formazione sulle teorie di base da applicarepoi nelle scuole di specializzazione. L’architetturacivile, ora espressione delle nuove istituzioni, si va a“contaminare” con il territorio divenendo parte di uncomplesso sistema infrastrutturale: anch’essa, dun-que, dovrà assurgere al rango di scienza e formarsifinalmente una propria rigorosa e organica teoria. Nel Regno di Napoli gli ingegneri di Stato, formatinella nuova Scuola di Applicazione di Ponti e Strade, laprima in Italia in ambito civile, fondata daGioacchino Murat nel 181122, e scelti a livello centra-le, saranno ripartiti uniformemente sul territorio,con diversi gradi di competenze e autorità, sebbenetutti sottoposti alla direzione generale, che sola cono-sce la globalità delle imprese e dei bisogni dellanazione; sotto il controllo dell’autorità statale, essieserciteranno a loro volta il proprio potere “illumi-nato” in nome dell’utile sociale e dello spirito “rige-neratore” della scienza. L’idea è quindi quella di faredell’ingegnere, oltre che uno scienziato, anche unamministratore, o quanto meno il braccio autoritario

del governo nei confronti delle amministrazionilocali, con la salda convinzione che la diffusionedella cultura e dell’esercizio della ragione porti ainnescare un meccanismo tale che gli amministratipossano sconfiggere l’ignoranza e prosperare nelbenessere23. Come abbiamo dimostrato in altra sedecon riferimento all’età della Restaurazione24, venneadottato un programma atto ad agire, all’interno diun sistema rigidamente centralizzato, a tutti i livellidella società e del territorio statale. Non si trattòquindi, come da qualcuno è stato sostenuto, dellanascita di una nuova figura professionale, né di unascissione da quella esistente, bensì della fondazionedi una Scuola utile a consolidare la tradizione dello“scienziato-artista” nel campo specifico delle operepubbliche: la figura completa di derivazione vincia-na era destinata a sussistere ancora per oltre un seco-lo, ossia fino a quando, nel primo quarto delNovecento, non si sarebbe attuata la malaugurata einnaturale separazione delle due antiche “anime”.Nella prima metà del XIX secolo gli studi di Naviere di Méry proposero nuovi metodi di verifica diarchi e volte, che ebbero ampia diffusione anchenella progettazione dei ponti25. Si deve però a deCessart26 e a de Prony27 il merito di aver approfondi-to la materia e a Rondelet quello di aver formulato,nel secondo volume del Traité de l’art de bâtir (1802-17), un quadro completo delle conoscenze in materiadi ponti, che vedevano nelle opere di Perronet,Gauthey e Bruyère i capisaldi della disciplina,segnando così anche in questo ambito la supremaziadegli studi francesi28.Come si evince da un recente volume da noi curatosulla Biblioteca storica della Scuola d’Ingegneria diNapoli29, questi studi – tutti presenti in catalogo,anche in più edizioni – avranno grande influenzasulla formazione degli ingegneri napoletani nell’etàdella Restaurazione: dopo il ricordato viaggio com-piuto a Parigi dagli ingegneri idraulici alla fine delSettecento, altri furono eseguiti da docenti e allievidopo la Restaurazione, come quello condotto daLuigi Giura in Francia e in Inghilterra tra il 1826 e il182730: in tale occasione, oltre a incontrare personal-mente Navier, i tecnici borbonici ebbero modo diacquisire per la Scuola i testi dell’ingegnere francesesulla meccanica applicata alla resistenza dei corpi esui ponti sospesi a struttura metallica [fig. 5]; ambitoquest’ultimo destinato, come vedremo, a segnare isuccessivi studi di Giura.

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co – una su tutte quella di Vanvitelli – si registrò piùche altro la realizzazione di opere di committenzaregia, aventi lo scopo di assicurare il più comodoraggiungimento dei Siti Reali da parte dei monarchie della loro corte; sicché, a fronte di un indubbiomiglioramento generale della rete viaria del Regno,delle tante opere di bonifica e della ristrutturazionedei principali porti, si trattò comunque di interventiche difficilmente possono essere inquadrati in unavisione unitaria: per tutto il Settecento, prima cioèdelle riforme napoleoniche, molto spesso i baroni pro-prietari dei latifondi assoggettarono ai propri interes-si la politica dei comuni, corrompendo funzionari etecnici, e condizionando finanche il tracciato delleinfrastrutture e la qualità delle opere. Inoltre fino alleiniziative murattiane mancò una scuola per la forma-zione specifica dei professionisti e un corpo atto acoordinare le opere nell’interesse delle comunità.Traendo dalla Descrizione geografica e politica delleSicilie (1786-94) di Giuseppe Maria Galanti un qua-dro dettagliato dei ponti esistenti in Campania allafine del XVIII secolo e rimandando a studi recentiper un esame più preciso delle strutture rinvenibilinel territorio della regione32, proponiamo qui alcunicasi significativi, partendo naturalmente dalle operevanvitelliane. L’Acquedotto Carolino33, costruito tra il 1753 e il1762 per fornire acqua alla reggia di Caserta, e inau-gurato nel 1770, richiese per il suo lungo percorso dicirca 38 chilometri la progettazione di numerosiponti, tra cui i famosi Ponti della Valle [fig. 6].Questa mastodontica architettura, esaltata dal

La progettazione dei ponti assunse quindi una parti-colare rilevanza nell’ambito della Scuola napoletana:in tema di formazione, si deve ad Antonio Maiuri ilmerito di aver offerto agli allievi, fino all’Unità eoltre, un utile metodo per la costruzione dei ponti inmuratura e in legno, anche in relazione all’offertadisciplinare di quell’istituzione31.

Opere e protagonisti nel campo della progettazione deiponti tra primo e secondo periodo borbonico

Nel corso del viceregno spagnolo la figura del pro-fessionista preposto alla progettazione delle operepubbliche venne via via diversificandosi da quelladel tecnico esperto di fortificazioni e di altri lavori dicompetenza militare: pur conservando l’antica natu-ra di «architetto vulgo ingeniero», ossia di professio-nista completo, ugualmente versato nel campo del-l’architettura civile come in quello delle infrastruttu-re, egli era noto alla gente comune come «ingegne-re» («regio ingegnere», «ingegnere camerale»,«ingegnere di città») quando veniva incaricato diprogettare strade, ponti, acquedotti, porti, edificipubblici, e come «architetto» quale progettista dipalazzi reali, residenze private, edifici religiosi.Ma, proprio in materia di infrastrutture, poco fueseguito in epoca vicereale, quasi sempre per scopimilitari e in assenza di un programma unitario tesoal miglioramento delle comunicazioni tra le provin-ce del Mezzogiorno. E anche con l’avvento di Carlodi Borbone, nonostante la presenza di figure di spic-

Fig. 5. C. Navier, Mémoire sur le ponts suspendus, Paris 1823, figg. 1-6.

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Fig. 6. Maddaloni (Caserta). Ponti della Valle (da A. PerconteLicatese, L’Acquedotto Carolino, 2011).

Fig. 7. L. Vanvitelli, progetto del ponte sul fiume Sele presso Eboli,1758 (da Scienziati-artisti..., cit., fig. 50).

Gauthey e dal Colletta come degna di essere parago-nata alle opere dei romani, fu così descritta daVanvitelli al fratello: «L’opera sarà Reale; vi farò gliornati corrispondenti alla grande in stile de Romaniantichi, perché l’opera lo comporta et è assai onore-vole e cospicua per il Re e per me ancora»34. La strut-tura, necessaria per superare la valle tra i montiLongano e Garzano, fu concepita della lunghezza dioltre cinquecento metri, su tre ordini di arcate inmodo da mantenere costante la pendenza. La costru-zione, dalle solide forme classiche ispirate molto pro-babilmente all’acquedotto romano dell’acqua Marciae al Pont du Gard in Provenza – noto a Vanvitelli attra-verso l’opera di Bélidor – mostra la scelta di soluzio-ni originali, necessarie per risolvere i particolari pro-blemi costruttivi. I piloni, di differente altezza fino a37 metri, con sezione rettangolare decrescente versol’alto e nervature di rinforzo sulla faccia, sono colle-gati da archi ad ogni livello. Particolare attenzionevenne posta dall’architetto nella cura dei dettaglidelle lesene collocate alla sommità del fronte, termi-nanti con raccordi curvilinei allo scopo di correggerel’effetto chiaroscurale derivante dalla rastremazionetrasversale della struttura35. Gli altri due ponti campani progettati da Vanvitellisono quelli sul Sele presso Persano (Eboli) e sulCalore a Benevento. Riguardo al primo, crollata l’opera preesistente nel1757 a seguito di una piena, un anno più tardi l’archi-tetto elaborò il grafico di progetto, da noi rinvenutoqualche anno fa36 [fig. 7]. Dall’epistolario vanvitellia-no e dalle Istruzioni per la riedificazione del ponte37 si

evince che la scelta di eseguire una struttura ad arca-ta unica fu adottata allo scopo di evitare ciò che erasuccesso al ponte più antico, a due arcate, e secondol’esempio di quanto attuato dai Romani nella costru-zione dei ponti Emilio e Fabricio; l’architetto previdequindi la deviazione del flusso delle acque con unaparatia, la demolizione delle pile esistenti e la costru-zione delle parti della nuova fabbrica «assieme, e ciòsiano in sol corpo, pilastro, arco, muro d’appoggio emuro d’ala», in modo da conseguire la massimacompattezza. Per le fondazioni fu prevista, nel caso sifosse trovato un fondo incoerente, la tecnica a cassechiuse, con una palificata di rovere o di quercia; lepile sarebbero state a sagoma poligonale o semicirco-lare, mentre l’arcata del ponte sarebbe stata rivestitacon pietre «quadre lavorate […] e dopo questo primogiro, giacché vi sono mattoni provveduti, si potràfare un sopra arco di questi ben collegati con calcinae pozzolana, acciò sia più durevole e si possa inmeno tempo disformare»38. Intervenute delle diffi-coltà in corso d’opera, che rallentarono i lavori diret-ti dall’ingegnere Tommaso Piana, la direzione fuassunta dallo stesso Vanvitelli, che in due anni termi-nò la costruzione: di essa restano alcuni rilievi coevi39

che mostrano la scelta finale delle pile poligonali e lacorrezione dell’arcata allo scopo di realizzare unasagoma semicircolare di 42 palmi di luce. Del ponte,distrutto durante il secondo conflitto mondiale ericostruito in cemento armato, restano oggi solo alcu-ne parti dei piloni settecenteschi.Del ponte Sant’Onofrio a Benevento, progettato daVanvitelli a partire dal 1766 per conto della Camera

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Apostolica e posto in corrispondenza di uno deiprincipali ingressi in città, si conserva un’interessan-te documentazione autografa40. Il ponte originario,di epoca romana, era stato ricostruito nel Medioevocon una sagoma a schiena e sei arcate; restaurato daGiovan Battista Nauclerio dopo il terremoto del1702, nel 1764 era nuovamente in stato di avanzatodissesto: fu quindi oggetto di studi da parte dei tec-nici beneventani, che accertarono l’insufficienzadelle fondazioni, confermata poi da Vanvitelli aseguito di un sopralluogo. L’architetto notò che lastruttura, assai irregolare e lesionata in più punti, sipresentava troppo stretta in rapporto alla portata delfiume, sconnessa e dotata di un’inutile platea di sot-tofondazione in corrispondenza di quattro dei cin-que piloni. Egli previde quindi un rafforzamento delponte, da eseguirsi mediante l’ingrossamento dellearcate e dei due piloni più vicini alla terraferma. Nel1767 i lavori furono affidati a Francesco Bernasconi,collaboratore di Vanvitelli, ma nel frattempo lo statodi degrado della struttura era peggiorato, tanto che ilprogettista, richiamato a Benevento, ordinò di conso-lidare i piloni sul lato sottocorrente. Poiché questonon risolse il problema delle fondazioni, che minac-ciavano di rovinare, egli predispose il progetto di un

nuovo ponte a sei luci come quello esistente, ma conprofilo rettilineo e oculi intermedi per il deflussodelle acque. L’opera [fig. 8], iniziata in ritardo perl’occupazione della città da parte dei Borbone, fucompletata solo dieci anni più tardi, probabilmentesotto la direzione di Carlo Vanvitelli. Il ponte verràpurtroppo distrutto a seguito della piena del 1949 ericostruito nel 1960 con una struttura totalmentediversa, a tre arcate.Con l’avvento dei francesi, nel 1806, la politica delleopere pubbliche ricevette una spinta decisiva aseguito del passaggio del settore delle strade e deiponti al ministero dell’Interno, della riorganizzazio-ne del territorio del Regno in tredici province e dellafondazione del Corpo degli Ingegneri di Ponti e Stradenel 180841. Durante il Decennio furono quindi poten-ziati antichi percorsi esistenti, come la via Egnatia daNapoli alla Puglia – deviata per volere di Murat perevitare il gravoso pedaggio imposto dallo StatoPontificio per il passaggio per Benevento –, apertenuove strade in Abruzzo e Molise e prolungata quel-la delle Calabrie fino a Cassano. Ma il ritorno deiBorbone nel 1815 fu segnato da un ulteriore riordina-mento del settore, che nel ’17 vide prima lo sciogli-mento del Corpo, sostituito da una Direzione

Fig. 8. Benevento. Ponte vanvitelliano di Sant’Onofrio, prima della distruzione nel 1949 (da Benevento … c’era una volta, blog di N. Pinto, L.Corleone).

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Generale, poi la sua ricostituzione nel ’26. In questoperiodo la figura di maggiore interesse per la suaalacrità nella gestione dei programmi per le operepubbliche in tutto il Regno delle Due Sicilie è quelladi Carlo Afan de Rivera, direttore generale dal 1824al 1852, che ci ha lasciato importanti descrizioni delterritorio meridionale e minuziose osservazioni sullostato delle opere nel Regno durante l’età preunitaria.In più occasioni il fondo Ponti e Strade dell’Archiviodi Stato di Napoli, insieme con i corrispondenti car-teggi esistenti presso gli altri archivi provinciali delMezzogiorno, ci ha permesso di ricostruire l’iterspesso travagliato delle opere, ma anche di definirel’importante grado di preparazione tecnico-scientifi-ca degli ingegneri napoletani e i conseguenti nume-rosi “primati” da essi conseguiti. All’interno di que-sta documentazione le lunghe memorie descrittivedi Afan de Rivera, in gran parte confluite nelle pub-blicazioni indirizzate periodicamente al governoborbonico42, ci offrono un quadro dettagliato delleopere pubbliche preunitarie anche in materia diponti. Ad esempio, nel Rapporto generale sullo statodelle strade del 1827 il direttore generale indica, tra lealtre importanti strutture esistenti nel Regno, il«grandioso ponte di fabbrica» sul Volturno lungo ilpercorso per Capua, il «magnifico lungo ponte checongiunge i cigli di una profonda valle che separa lacollina di Sessa da quella su cui si dispiega la stradaregia», ossia il ponte settecentesco di Sessa, o ancora,sulla strada per gli Abruzzi, quello che supera ilVolturno presso Monteroduni, dotato di ben ventu-no arcate43. Lungo la strada delle Puglie l’autoresegnala il ponte della Schiava, tra Cimitile e Baiano,e quello di Bovino in Puglia. La strada delle Calabrie,che aveva inizio a Napoli dal Ponte dellaMaddalena, incontrava quella dei due Principatipoco dopo Salerno e la strada del Vallo dopo il pontedi Battipaglia: lungo quest’ultima, in territorio cam-pano, Afan de Rivera annovera il descritto pontevanvitelliano sul Sele e quelli presso Auletta eCampestrino.Nella documentazione del fondo Ponti e Strade relati-va agli anni Trenta-Cinquanta si rinvengono lediscussioni sulle scelte tecniche, la descrizione dellefasi esecutive e i grafici di dettagli delle opere cheriguardarono l’apertura di altre importanti strade,per le quali si richiese la costruzione di numerosiponti in muratura. Tra esse spiccano le nuove arterie

lungo la costiera sorrentina e quella amalfitana, pro-gettate dall’ingegnere Luigi Giordano, che consenti-rono diretti collegamenti della penisola con la costavesuviana e con la capitale.Una serie di altre esperienze significative vanno puresegnalate tra i progetti di infrastrutture posti in ese-cuzione nella prima metà dell’Ottocento. Ad esempionel settore portuale, in qualche modo affine a quellodi cui ci occupiamo in questa sede, vanno citati gliapprofonditi studi condotti tra il 1814 e il 1832 dal-l’ingegnere Giuliano de Fazio per la progettazionedei moli ad archi e piloni fondati direttamente inmare, secondo la tecnica dei romani ancora rinvenibi-le negli scali del bacino flegreo44. Le osservazioni di“archeologia idraulica” condotte sugli antichi porti diPozzuoli, Miseno, Nisida, Porto Giulio furono diffu-se da de Fazio anche in Francia e in Inghilterra attra-verso numerose pubblicazioni. I moli “a trafori”, dalui sperimentati per il nuovo porto di Nisida, sfrutta-rono da un lato la tecnica romana, basata sulle pro-prietà della malta idraulica di solidificare in acqua,dall’altro la lunga tradizione sei-settecentesca dell’in-gegneria meridionale – soprattutto quella vanvitellia-na, come abbiamo visto – in materia di ponti. Ma de Fazio non fu l’unico ingegnere del Corpo diPonti e Strade autore di imprese degne di nota. Intutto il Mezzogiorno, specie durante la Restaurazione,numerosi furono i ponti progettati dai tecnici napole-tani nell’ambito delle ingenti opere stradali promossedal governo borbonico allo scopo di migliorare i colle-gamenti tra le province. Tra gli altri, all’interno dellarilevante attività di Luigi Oberty45, va ricordato ilponte detto della Ferriera [fig. 9], progettato a partire

Fig. 9. Avellino. Ponte della Ferriera (foto di C. Bellabona).

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Fig. 10. Napoli. Ponte della Sanità. Fig. 11. L. Giura. Progetto del ponte sul Garigliano, 1829 (daScienziati-artisti..., cit., fig. 117).

dal 1818 e tuttora esistente nel tratto Avellino-Bellizzidella strada dei Due Principati da Avellino a Salerno.Sulla base di inedite fonti archivistiche è stato recente-mente descritto l’iter travagliato della struttura46, cau-sato dalle polemiche di ordine tecnico insorte per lascelta di Oberty di utilizzare nei piloni malta di solapozzolana e non di arena, come si usava ad Avellino.Il ponte, ultimato nel 1820, nel ’46 presentava già unostato di degrado tale da essere oggetto di un nuovointervento un decennio più tardi, sotto il controllodello stesso Oberty.Anche la capitale del Regno, a partire dal Decenniofrancese fino all’Unità e oltre, fu terreno di speri-mentazione di strutture di particolare impegno, spe-cie in occasione dell’apertura delle nuove arteriesuburbane di epoca murattiana, come le strade diPosillipo, Capodimonte, Capodichino, Ponti Rossi,per le quali fino a tutti gli anni Trenta si dovetterosuperare con opere spesso assai ardite i percorsi col-linari di collegamento tra i casali periferici e lacittà47. Tra gli altri si ricorda il ponte della Sanità,realizzato dall’ingegnere Nicola Leandro tra il 1807e il 1810: la struttura [fig. 10], lunga 118 metri con seicampate, supera il vallone omonimo fondandosi condue piloni nel chiostrino ellittico del convento diSanta Maria della Sanità, opera di Fra Nuvolo48. Neidecenni successivi si registrano le opere di ErricoAlvino connesse all’apertura del corso Maria Teresa(oggi Vittorio Emanuele): il lungo nastro viario consviluppo a mezzacosta tra le colline e la città storica,

da utilizzarsi nell’idea di Ferdinando II come per-corso tangenziale49, intercettò anche in questo casosecolari tracciati collinari, superandoli con ponti eviadotti dalle ampie luci, sostenenti i tratti stradalia quote elevate. Se da un lato i professionisti napoletani, fino all’etàpostunitaria, saranno autori di altri importanti pontiin muratura, con la copertura di luci sempre maggio-ri – si pensi a quelli realizzati da Giustino Fiocca sulVolturno (con la ricostruzione del cosiddetto Ponte diAnnibale) e sul Sele presso Barizzo (1866-70)50 – dal-l’altro già dalla fine degli anni Venti la ricerca piùavanzata sarà rivolta alla tecnologia delle costruzio-ni metalliche: al ritorno dal citato viaggio d’istruzio-ne in Europa, Giura mise a frutto l’enorme bagagliodi quell’esperienza nei progetti per i primi ponti diferro in Italia, sul Garigliano (1829-32) [fig. 11] e sulCalore (1835)51: l’ingegnere riuscì a perfezionare latecnica dei ponti sospesi a catenaria, già adottata consuccesso in Inghilterra ma che, proprio a quell’epo-ca, aveva fatto registrare l’infortunio del grandeNavier per il Pont des Invalides, in parte crollato perl’azione del vento. Giura divenne poco dopo diretto-re generale del Corpo di Acque e Strade e persino,durante la Luogotenenza di Garibaldi, primo mini-stro dei Lavori Pubblici dell’Italia unita. Solo qualche anno dopo, la realizzazione del pontegirevole di Taranto, opera di Alfredo Cottrau52, con-fermerà la decisa svolta degli ingegneri napoletaniverso le strutture metalliche.

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1 Si vedano sull’argomento: Scienziati-artisti. Formazione e ruolo degli ingegneri nelle fonti dell’Archivio di Stato e della Facoltà di Ingegneria di Napoli, a cura di A.Buccaro, F. De Mattia, Napoli 2003; A. BUCCARO, Leonardo da Vinci. Il Codice Corazza nella Biblioteca Nazionale di Napoli, Poggio a Caiano (Napoli) 2011.2 ID., L’eredità di Leonardo nell’evoluzione della figura dell’ingegnere-architetto in età moderna e contemporanea, in Arte e tecnica in Leonardo ingegnere, a cura di A.Catalano, R. Pazzagli, Ariccia 2014, pp. 17 sgg.3 B. FOREST DE BÉLIDOR, Science des ingénieurs dans la conduit des travaux de fortification et d’architecture civile, Paris 1729.4 A. AVETA, Ponti storici: risorse culturali del territorio campano, in A. AVETA, L. M. MONACO, C. AVETA, La conservazione dei ponti storici in Campania, Napoli2012, p. 56 e nota 231.5 Ivi, p. 57.6 Cfr. A. BUCCARO, Scienziati-artisti…, cit., pp. 278 sgg.7 B. FOREST DE BÉLIDOR, La science des ingénieurs, dans la conduite des travaux de fortification et d’architecture civile. Nouvelle édition, avec des notes, par m. Navier,Paris 1813. Cfr. A. BIRAL, P. MORACHIELLO, Immagini dell’ingegnere tra Quattro e Settecento. Filosofo, soldato, politecnico, Milano 1985, p. 91.8 B. FOREST DE BÉLIDOR, Architecture hydraulique, ou L’art de conduire, d’elever et de menager les eaux pour les differens besoins de la vie, Paris 1737-39.9 A. AVETA, Ponti storici…, cit., p. 58.10 A. BUCCARO, Leonardo da Vinci…, cit., p. 18.11 H. GAUTIER, Traité des ponts ou il est parlé de ceux romains, de ceux des modernes; de leur construction, tant en maçonnerie qu’en charpente, de leur disposition danstoutes fortes de lieux, Paris 1765. Cfr. A. AVETA, Ponti storici…, cit., p. 58.12 Ivi, p. 59.13 J. RONDELET, Trattato teorico e pratico dell’arte di edificare, trad. ital. Mantova 1831, p. 157.14 A. AVETA, Ponti storici…, cit., p. 60.15 Si veda sull’argomento A. BUCCARO, Il dibattito teorico-scientifico in ambito vanvitelliano e gli esiti sulla formazione dell’architetto-ingegnere nella seconda metà delSettecento, in Luigi Vanvitelli. 1700-2000, a cura di A. Gambardella, Caserta 2005, pp. 497-506.16 ID., Leonardo da Vinci…, cit., pp. 154-157.17 ID., Aspetti della cultura tecnico-scientifica in epoca vanvitelliana: dall’architetto allo «scienziato-artista», in Tecnologia scienza e storia per la conservazione del costrui-to. Seminari e letture, a cura di S. Di Pasquale, in «Annali della Fondaz. Callisto Pontello», vol. I, Firenze 1987, pp. 188-198.18 P. NAPOLI SIGNORELLI, Gli artisti napoletani della seconda metà del secolo XVIII, in «Napoli nobilissima», n.s., II, 1921, p. 15. Si veda inoltre F. STRAZZULLO,Architetti e ingegneri napoletani dal ’500 al ’700, Napoli 1969, p. 35.19 V. LAMBERTI, Statica degli Edifizj di Vincenzo Lamberti Napolitano, in cui si espongono i precetti Teorici pratici, che si debbono osservar nella costruzione degli Edificjper la durata di essi, Napoli 1781, introduz., p. XII.20 Ivi, III, p. 261.21 A. BUCCARO, Leonardo da Vinci…, cit., p. 108.22 ID., Opere pubbliche e tipologie urbane nel Mezzogiorno preunitario, Napoli 1992, pp. 10 sgg.23 A. BIRAL, P. MORACHIELLO, Immagini dell’ingegnere…, cit., p. 112. Si veda anche G. TEYSSOT, Illuminismo e architettura: saggio di storiografia, in E. KAUFMANN,Tre architetti rivoluzionari. Boullée Ledoux Lequeu, Milano 1991, pp. 40-43.24 A. BUCCARO, Opere pubbliche…, cit., passim.25 A. AVETA, Ponti storici…, cit., p. 91.26 L.A. DE CESSART, Description des travaux hydrauliques ... doyen des inspecteurs généraux des ponts et chaussées, un des commandans de la légion d’honneur, mem-bre de plusieurs académies et sociétés savantes, Paris 1806-08.27 G. DE PRONY, Nouvelle architecture hydraulique, contenant l’art d’élever l’eau au moyen de différentes machines, de construire dans ce fluide, de le diriger, et généra-lement de l’appliquer, de diverses manieres, aux besoins de la société, Paris 1790-96.28 A. AVETA, Ponti storici…, cit., p. 91.29 I Libri Antichi della Facoltà di Ingegneria di Napoli nel Bicentenario della Scuola di Applicazione (1811-2011), a cura di A. Buccaro, A. Maglio, Napoli 2012.30 A. BUCCARO, Opere pubbliche…, cit., pp. 15 sgg.; R. PARISI, Luigi Giura 1795-1864. Ingegnere e architetto dell’Ottocento, Napoli 2003, pp. 17-20.31 A. MAIURI, Delle opere pubbliche del Regno di Napoli e degli ingegneri preposti a costruirle, Napoli 1836, pp. 149 sgg. Cfr. pure sull’argomento A. AVETA, Pontistorici…, cit., p. 95.32 Ivi, pp. 68-82.33 R. DI STEFANO, Luigi Vanvitelli ingegnere e restauratore, in Luigi Vanvitelli, Napoli 1973, p. 190; A. AVETA, Ponti storici…, cit., pp. 73-75.34 Lettera di Vanvitelli al fratello Urbano del 2 maggio 1752, in Le lettere di Luigi Vanvitelli della Biblioteca Palatina di Caserta, a cura di F. Strazzullo, 3 voll.,Galatina 1976, II, p. 178.35 R. DI STEFANO, Luigi Vanvitelli…, cit., p. 190.36 Scienziati-artisti…, cit., pp. 168-169, sch. 50.37 Biblioteca Nazionale di Napoli, XV A bis, b. 2, cc. 120-121, cit. in A. AVETA, Ponti storici…, cit., p. 75.38 R. DI STEFANO, Luigi Vanvitelli…, cit., p. 208.39 Archivio di Stato di Napoli, Piante e disegni, cart. XI, nn. 66-68, pubbl. in A. AVETA, Ponti storici…, cit., figg. 37-39.

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40 Biblioteca Nazionale di Napoli, XV A 9 bis, cit. in A. AVETA, Ponti storici…, cit., p. 77 e figg. 40-43.41 A. BUCCARO, Istituzioni e trasformazioni urbane nella Napoli dell’Ottocento, Napoli 1985, cap. I.42 ID., Opere pubbliche…, cit., pp. 12 sgg.43 A. AVETA, Ponti storici…, cit., p. 88.44 A. BUCCARO, Opere pubbliche…, cit., pp. 46-60.45 A. CARACOZZI, Luigi Oberty e la diffusione del neoclassicismo nell’Italia meridionale, Bari 1999; A. MASSARO, Avellino tra decennio e restaurazione nelle opere diLuigi Oberty ingegnere del corpo di Ponti e Strade, Avellino 1994.46 A. AVETA, Ponti storici…, cit., pp. 96-98.47 A. BUCCARO, Opere pubbliche…, cit., pp. 16-18.48 Il borgo dei Vergini. Storia e struttura di un ambito urbano, a cura di A. Buccaro, Napoli 1991, pp. 18 sgg.49 A. BUCCARO, Istituzioni e trasformazioni urbane..., cit., pp. 70-74.50 P. BELLI, Due ponti in muratura dell’800 nell’Italia meridionale, in «Ingegneri Napoli», 4, 2007, pp. 14-20.51 Scienziati-artisti…, cit., pp. 251-253; R. PARISI, Luigi Giura…, cit., pp. 74-90.52 U. CARUGHI, E. GUIDA, Alfredo Cottrau (1839-1898). L’architettura del ferro nell’Italia delle grandi trasformazioni, Napoli 2003, passim.

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Sebbene durante il Settecento la Deputazione delRegno avesse dedicato un certo impegno alla costru-zione di nuove infrastrutture – strade e ponti – per ilmiglioramento dei collegamenti interni della Sicilia,alla fine del secolo la situazione era gravementecarente1. Mentre ancora numerosi erano i ponti provvisori inlegno e i mezzi di fortuna, come le giarrette, con cui siattraversavano fiumi e torrenti, le strutture in pietradai ponti medievali a quelli realizzati successiva-mente, soprattutto nel corso del XVI secolo, riparatie riattati, avevano continuato a servire l’isola. Le tecniche costruttive utilizzate dal ponte diCapodarso in poi non avevano registrato sensibilimiglioramenti e non è quindi difficile comprenderecome l’edificazione del ponte sul Milicia del fiorenti-no Ferdinando Fuga o di quello sul fiume SanLeonardo di Agatino Daidone, avessero suscitatodibatti e controversie2.Trent’anni dopo queste esperienze, una strutturaassai più complessa e ambiziosa faceva la sua com-parsa nella parte sud-orientale dell’isola, diventandoesempio di modernità e progresso, sebbene guardas-se a modelli lontani nel tempo. Il ponte-acquedottodi Biscari rievocava il fascino e le dimensioni deigrandi acquedotti romani, di cui ancora in Sicilia siconservavano le vestigia. Come vedremo, pur nellasua arditezza, con luci e altezze considerevoli, che glierano valse grande fama presso i viaggiatori del

Grand Tour, l’opera non diede buone garanzie tecni-che, crollando pochi anni dopo la sua costruzione.Un secondo e più fortunato progetto ne ripropose,qualche anno dopo, una nuova versione, scindendo idue sistemi ponte e acquedotto.A eccezione di quest’opera monumentale e costosa,realizzata da un facoltoso privato, e che le casse pub-bliche non avrebbero probabilmente potuto permet-tersi, non si registrarono fino ai primi decennidell’Ottocento altri esempi di grande rilevanza,nonostante dal 1824 la Soprintendenza delle Strade edei Ponti avesse avviato una consistente campagnadi nuove costruzioni, riguardanti per lo più tipologiedi modeste dimensioni. Seppure nuovi materiali e nuove tecniche stesserogià conquistando la scena europea e nell’area napo-letana del Regno qualche esempio si fosse già realiz-zato con successo3, in Sicilia i tentativi di innovazio-ne fallirono, portando semmai a un consolidamentodelle tecniche tradizionali; la pietra e la stereotomiacontinuarono infatti a offrire un approdo sicuro agliingegneri e agli architetti siciliani. È in questo contesto che nella seconda metà del XIXsecolo furono realizzati nell’isola – così come peral-tro stava avvenendo anche in Europa – alcuni via-dotti, che riproponevano il modello dell’acquedottoromano, rilanciato in qualche modo, circa un secoloprima, dal ponte di Biscari. Evocativo di monumen-talità e potenza tecnica, il modello era stato infatti

PONTI SICILIANI FRA SETTE E OTTOCENTO. IL MODELLO DELL’ACQUEDOTTOROMANO*

Antonella ArmettaAssegnista di ricerca, Università degli Studi di [email protected]

AbstractSicilian Bridges Between 18th and 19th Century: the Model of Roman AqueductsIn the second half of 19th century some bridges were built in Sicily. They still raised the model of Roman aqueducts, re-laun-ched in the island by IgnazioPaternòCastello, V prince of Biscari, who in the Seventies of the 18th built the aqueduct ofAragon, near Catania.Since the late 18th century and during the 19ththis model was in fact reactivated and spread in all Europe through nume-rous specializedtreaties, leading to the creation of similar structures, with several rows of round arches.

KeywordsBridges, Aqueducts, Stone Construction

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Fig. 1. A. Zacco, ritratto di Ignazio Paternò Castello (ASCt, FondoBiscari).

riattualizzato e diffuso attraverso numerosi trattatispecialistici, soprattutto francesi, tra la fine delSettecento e nel corso dell’Ottocento, alimentandonuove analoghe realizzazioni.

I due progetti per il ponte-acquedotto di Aragona

Nella seconda metà del XVIII secolo, Ignazio PaternòCastello, V principe di Biscari, avviò nel feudo diAragona, nei pressi dell’attuale Adernò, in provinciadi Catania, un vasto programma di coltivazioneintensiva del riso. La fertilità delle terre del feudo, situato alle pendicidell’Etna, tra i fiumi Salso e Simeto, e la sua abbon-danza idrica, rendevano particolarmente favorevoleuna coltura di quel tipo, richiedendo tuttavia diver-se opere di canalizzazione e irreggimentazione delleacque sorgive presenti. Per queste ragioni, dovendoconvogliare le acque della sorgente delle Favare diSanta Domenica fino al feudo di Aragona, negli anniSessanta del secolo il principe decise di costruire unimponente acquedotto, insieme a una serie di altrestrutture di supporto come vasche, bevai e mulini. L’opera fu costruita in 12 anni, dal 1765 al 1777, dateche desumiamo da una incisione, realizzata verosi-milmente subito dopo la fine dei lavori, per pubbli-cizzare la grandezza tanto della struttura quanto delsuo promotore che, non a caso, si fece ritrarre sullosfondo della sua realizzazione [figg. 1-2]. L’incisionefu disegnata dal pittore italo-tedesco Luigi Mayer4 etirata dal noto catanese Antonio Zacco5. Entrambilavoravano al servizio del principe di Biscari ed erano

Fig. 2. A. Zacco, L. Mayer, il primo progetto per il ponte acquedotto di Aragona, anni Settanta del XVIII secolo (Catania, Archivio privatoMoncada).

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rispettivamente suocero e genero, avendo Zacco spo-sato la figlia di Mayer. Legati da più contingenze, idue avevano attivato una proficua collaborazione,per cui il suocero preparava i disegni, gli acquerelli ole gouaches e il genero ne traeva le incisioni su rame6. Oltre a fornire un’idea generale delle dimensioni edelle proporzioni dell’opera, la rappresentazionecontiene una dettagliata legenda con l’indicazionedelle sue misure esatte. Per servire alla duplice funzione di collegamento frale due sponde laviche del fiume Simeto e di traspor-to delle acque irrigue, la struttura era stata concepitacon due diversi ordini di archi a tutto sesto, interrot-ti nella parte centrale da un alto arco ogivale (120palmi, pari a 30 metri di luce). Il primo ordine di 31archi, con camminamento calpestabile sulla sommi-tà, costituiva il ponte, estendendosi per una lunghez-za di 200 canne siciliane (oltre 400 metri). Su di essopoggiava un secondo ordine di archi, che si allunga-va fino alle colline laterali per una lunghezza di 360canne (più di 740 metri), sul quale correvano le con-dutture dell’acquedotto; l’altezza complessiva dellastruttura era di 160 palmi (circa 41 metri). Non appena completato, il ponte-acquedotto diAragona o di Biscari, diventò meta di scrittori e viag-giatori, che lo descrissero e raffigurarono nei loroappunti di viaggio. Il marchese di Villabianca lo citò come «uno de’ponti più superbi e magnifici» dell’isola «per nondirsi il primo fra i medesimi […] che aveva fatto di sécomparsa così superba nel Regno come uno de’ piùeccelsi ornamenti della Sicilia»7. Il pittore Jean-Pierre Houël, che visitò la Sicilia tra il1777 e il 1779 e fu ospite di Ignazio Paternò Castello,ebbe modo di vedere l’acquedotto appena ultimato[fig. 3] e lo descrisse così nel suo Voyage pittoresque deSicile et de Malte…: «egli [il principe] ha fatto costrui-re un acquedotto che per ardimento e dovizia èdegno di rivaleggiare con quelli romani [...]. Si trattadi una costruzione di utilità immensa che tanto più ècostata al generoso principe in quanto ha dovutosuperare difficoltà di ogni genere»8. Una rappresentazione [fig. 4] ci è offerta anche daLouis Jean Desprez, che fu in Sicilia tra il 1777 e il 1778e vide il ponte con le ultime impalcature, quasi com-pletato. L’incisione fu inserita nel IV volume delVoyage pittoresque... dell’abbate Saint-Non pubblicatonel 1785 e infatti Saint-Non vi annotò che il ponte erastato rovesciato dall’uragano del 1780.

In effetti, proprio nel 1780, come raccontano diversefonti, durante un evento catastrofico, da alcuni defi-nito semplicemente «uragano», ma che probabil-mente riguardò una serie complessa e concatenata difenomeni9, l’opera andò quasi interamente distrutta,tanto che rimasero in piedi solo 7 archi minori su 31totali [fig. 5]. Sul perché della distruzione possiamointerrogarci senza tuttavia poter giungere a nessunacertezza assoluta e però il dubbio di eventuali errorio imperizie costruttivi restano, specie se consideria-mo che il probabile progettista dell’opera, fu lo stes-so committente, il principe di Biscari, che lo avrebbecostruito «a sue spese e con suo disegno» e che, seb-bene inserito nelle Memorie degli architetti antichi emoderni (1781) di Francesco Milizia, non aveva avutouna formazione da architetto10. Cinque anni dopo il crollo del primo acquedotto, allamorte Ignazio Paternò Castello, avvenuta nel 1786, sidiede inizio alla riedificazione di una nuova struttu-ra a opera del figlio Vincenzo. La storiografia attri-buisce questo secondo progetto a «un certo architet-to francese M. Fontaine»11, che alcuni hanno identifi-cato con Pierre Francois-Léonard Fontaine illustrearchitetto del periodo neoclassico12. A oggi tuttavianon si sono trovati riscontri per confermare – oppu-re smentire – questa attribuzione. Dallo studio del-l’esigua documentazione archivista supersite, pareche già prima della morte di Ignazio, nel 1785 si lavo-rasse al nuovo progetto, come dimostra una relazio-ne (che doveva accompagnare un disegno, purtrop-po scomparso) redatta dal maestro cataneseGiuseppe Romano, in cui è descritto il progetto perun ponte-acquedotto. L’opera fu poi completata

Fig. 3. J.-P. Houël, Vue de de l’Aqueduc d’Aragona (da J.-P.Houël, Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malte et deLipari, Paris 1784, II, pl. CXLIV).

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sotto la direzione dell’architetto catanese SalvatoreArancio nel 179113.Rispetto alla prima realizzazione, che pare avessedei problemi di funzionamento dovuti alla scarsapendenza delle condutture14 per il secondo progettosi adottò una soluzione che scindesse i due sistemiacquedotto-ponte [figg. 6-7]. L’acquedotto fu infattirealizzato con una sequenza di arcate, sempre a tuttosesto, ma stavolta progettate in modo da seguire lapendenza dei declivi e sfruttare il principio dei vasicomunicanti, con l’ausilio di pompe di sollevamentomeccaniche [fig. 8]. Addossato a questo primo siste-ma, forse anche per fornire una maggiore resistenzaalle sollecitazioni trasversali, il ponte vero e propriofu concepito a schiena d’asino, con arcata centrale atutto sesto. Questa struttura, realizzata con materialidel luogo, fra cui la pietra lavica dell’Etna, utilizzataanche per i catusi, cioè le condutture idriche, resistet-te per oltre un secolo; la parte centrale crollò, moltotempo dopo, negli anni Cinquanta del Novecento,per essere poi ricostruita in cemento armato neglianni Ottanta.

Oltre alle ragioni strettamente funzionali – irrigue edi collegamento delle due sponde del Simeto – pos-siamo immaginare che l’idea di realizzare un’operatanto imponente sia potuta derivare al principeanche dalla sua passione per le antichità classiche,fra cui proprio le rovine degli acquedotti romaniammirate in Sicilia durante le ricognizioni archeolo-giche e gli scavi da lui promossi a partire dal 174815.

Fig. 5. Il ponte acquedotto di Aragona crollato dopo l’uragano del1780 in un soprapporta di palazzo Biscari a Catania.

Fig. 4. L. J. Desprez, Vue d’un vaste aqueduc construit par le Prince de Biscari près de Catane et reversé par un Ouragan en 1780 (da J.-C.R.de Saint-Non, Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile, Paris 1785, pl. XLII).

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Fig. 6. Il secondo progetto per il ponte acquedotto di Biscari, anni Ottanta del XVIII secolo (Catania, Archivio privato Moncada).

Fig. 7. Il secondo progetto per il ponte acquedotto di Biscari in una incisione di dettaglio, anni Ottanta del XVIII secolo (Catania,Archivio privato Moncada).

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figurativo del mondo romano, come del resto altriprogetti coevi. Non possiamo non ricordare a que-sto proposito il ponte della valle di Maddalonifacente parte dell’acquedotto Carolino, progettatoda Luigi Vanvitelli fra il 1753 e il 1762 (inauguratonel 1770) e costruito per condurre le acque delMonte Taburno alla Reggia di Caserta lungo unpercorso di circa 38 km18, né possiamo escludere

Fig. 8. Progetto del sistema delle prese d’acqua, s.a., s.d., s.l. (ASCt, Fondo Biscari, busta 280.2).

Fig. 9. J.-P. Houël, acquedotto romano di Misterbianco (da J.-P.Houël, Voyage pittoresque..., cit.).

Nel suo celebre Viaggio per tutte le antichità di Sicilia,pubblicato a Napoli nel 1781 un capitolo era dedica-to proprio agli acquedotti, fra cui quello romano diMisterbianco [fig. 9] – raffigurato in una famosa gua-che di Jean Houël – le cui rovine testimoniavano«l’antica catanese potenza»16 e quello invece seicen-tesco dei Benedettini. Del resto nel suo scritto il prin-cipe attribuiva agli acquedotti un valore simboliconotevole, tanto da scrivere: «Catania non ha nulla dainvidiare Roma, giacchè, ancor prima di essa, ellaebbe tra i suoi cittadini uomini di animo generosoche promossero opere tali da offrire grande utilepublico e al tempo stesso magnifico ornamento dellaPatria. Chiara testimonianza di quanto asserisco sivede nei grandi acquedotti che, dalle falde dell’Etna,circa venti miglia lontano da Catania, imprigionan-do abbondanti sorgenti di acqua entro capaci con-dotti di solida fabbrica, perforando le alture e pareg-giando con arcate le valli, giungevano nella città,distribuendo quelle acque non soltanto ai privati cit-tadini, ma anche al pubblico uso delle Terme, dellaNaumachia e di altri edifici»17.I due progetti di Biscari attingono all’immaginario

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che Ignazio Paternò Castello lo avesse visto incostruzione o ne avesse visto il progetto in uno deisuoi viaggi napoletani19. Il ponte, che ancora oggiunisce il Monte Longano al Monte Calvi (oGarzano) con una lunghezza massima di 259 metrie un’altezza massima di 57,5 metri era un’opera dialta ingegneria idraulica e sapienza costruttiva,visti i notevoli problemi statici cui dovette far fron-te. Basti pensare che Vanvitelli dovette far realizza-re fondamenta profonde 20 metri per sostenere ipiloni e rafforzare la struttura, che si componeva ditre ordini di archi a tutto sesto, con nervature ver-ticali (una ogni due archi), di rafforzamento controle spinte trasversali20. È grazie a questi espedientitecnici che l’opera resistette a ben due terremoti edè ancora oggi in ottime condizioni statiche.Per la costruzione di questo ponte-acquedotto, comeè stato da più parti sottolineato, Vanvitelli si era ispi-rato anche lui al mondo romano, in particolare alPont du Gard a Nimes, [fig. 10] da cui derivò forse lasoluzione a tre ordini di archi. Probabilmente glierano noti anche i progetti del ponte Maintenon pre-parati dall’ingegnere militare Sebastien Le Preste de

Vauban per l’acquedotto del fiume Eure verso Parigi(pubblicati nel 1737), da cui potè desumere l’idea delcamminamento ricavato mediante la foratura deipiloni21 dal quale si definiva uno splendido cannoc-chiale prospettico fornendo quella che Vanvitellidefinì «un’occhiata meravigliosa».

La diffusione del modello nell’Ottocento. Dal ponte urbanodei Cappuccini ai viadotti ferroviari della fine del secolo

Sulla scorta delle considerazioni fatte per l’acquedot-to di Aragona o per quello Carolino, ma che sipotrebbe estendere ad altri analoghi casi del periodo,è possibile evidenziare un doppio registro di interes-se. Da un lato a partire dalla seconda metà delSettecento la trattatistica22 e le iconografie (soprattut-to le incisioni) aventi come soggetto rovine di pontie acquedotti – pensiamo fra tutte a quelle di GiovanBattista Piranesi23 [fig. 11], – iniziarono a esercitareun sempre maggiore fascino anche sugli architettisiciliani24, che avevano a disposizione fornite biblio-teche, come il facoltoso principe di Biscari o come il

Fig. 10. G. Clerissau, Vue generale du Pont du Gard, 1804.

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trapanese Andrea Gigante, che possedeva una nutri-ta collezione di incisioni25.Dall’altro le nuove realizzazioni diventarono esse stes-se autorappresentative, alimentando l’interesse versoil tema e diventando ulteriori strumenti di diffusionedel modello. In Sicilia durante la prima metà dell’Ottocento si assi-stette al proliferare delle incisioni raffiguranti gliacquedotti romani nell’isola, come il Cornelio, neipressi di Termini Imerese [fig. 12] o anche quello quat-trocentesco di Bagheria ad archi ogivali, la cui imma-gine rimandava immediatamente al mondo romano ealle contemporanee rappresentazioni dell’acquedottodi Aragona. Allo stesso tempo si costruivano nuoviponti, che in alcuni casi ricalcavano i modelli antichi. Uno di questi casi è il ponte Vecchio o dei Cappuccini,all’interno della città di Ragusa. Dopo un iniziale pro-getto del 1812 e un iter travagliato che vide l’avvicen-darsi di diversi progettisti, fu inaugurato nel 184426. Il viadotto era infrastruttura necessaria per collegare

la Ragusa superiore al quartiere dei padri Cappuccini,scavalcando la vallata di Santa Domenica. Il primoprogetto del 1812, sovradimensionato rispetto allereali risorse economiche della piccola comunità citta-dina, non ebbe però seguito. Quando negli anniTrenta, si decise la costruzione di una strada che col-legasse la borgata marina di Mazzarelli alla città sette-centesca circondata da cave, si ripropose la necessitàdi un ponte. Furono di nuovo i Cappuccini ad assu-mersi l’impegno, anche economico, della costruzione.Il primo ponte si prevedeva a un solo ordine di archima era troppo scomodo e ripido, infatti, nonostante ilavori fossero già stati avviati, si continuò a dibatte-re sull’altezza da dare alla struttura per consentire iltransito veicolare. Fu poi dell’ingegnere IgnazioGiarrusso, incaricato nel 1835 di stilare una periziarisolutiva, il merito di aver riprogettato il pontesecondo un sistema a due ordini di arcate, che gliconferiva anche un aspetto monumentale ed evocati-vo degli antichi acquedotti romani. Dopo alcune dif-ficoltà costruttive, per l’insorgere di problemi statici,il progetto fu portato a termine dall’ingegnereInnocenzo Alì della neo-istituita Soprintendenzadelle Strade e dei Ponti.Oltre a risolvere un problema funzionale, il ponte sicaricava anche di significati retorici. Alle aspirazionidella popolazione che ne attendeva la realizzazione sisommavano infatti quelle di una classe professionalein ascesa, chiamata a risolverne l’esecuzione. In alcunidocumenti relativi alla sua costruzione il ponte vienedefinito non a caso «la grandiosa opera»27. Nell’anno della sua inaugurazione (1844) il pittorepaesaggista palermitano Tommaso Riolo rappresen-tò l’opera, come per scattarne delle “istantanee” dipronta divulgazione pubblicitaria. Lo fece attraversodue disegni [fig. 13] che enfatizzavano, sia attraversoi punti di vista scelti, sia attraverso la tecnica usata, ilcarattere monumentale e paesaggistico, la sua impor-tanza di collegamento con la città, ritratta in alto adestra, e il suo valore simbolico ed evocativo.In quegli anni, i tentativi di apertura al nuovo – anuove tecniche costruttive e ai nuovi materiali(ferro, ghisa) ormai in voga in tutta Europa – messiin opera da alcuni esponenti della Soprintendenzaborbonica fallirono miseramente. I progetti perstrutture sospese o ad arcate in ferro che si propose-ro in alcuni casi (sul Simeto, sui Pantanelli diSiracusa, nel ponte di Capodarso) non ebbero segui-to mentre prevalse la tradizione costruttiva in pie-

Fig. 12. G. Ferrara, acquedotto Cornelio a Termini Imerese, XIXsec. (Termini Imerese, Museo civico Baldassare Romano).

Fig. 11. G. B. Piranesi, Le Rovine del Castello dell’AcquaGiulia, Roma 1761, pl. IX.

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Fig. 14. Viadotto ferroviario sul torrente Busiti vicino Caltanissetta, 1870-77 (cartolina d’epoca, collezione privata).

Fig. 13. T. Riolo, Ponte dei Cappucini in Ragusa preso dalla Cava, 18 aprile 1844 (Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis,Gabinetto di Disegni e Stampe, inv. 5279).

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tra, sia negli aspetti formali sia tecnici. La pietra e lastereotomia offrivano infatti una maggiore sicurez-za ai progettisti – e non solo nell’ambito dellacostruzione dei ponti ovviamente – e la offrironoancora per molto tempo, se pensiamo che nel 1852,Carlo Giachery introdusse nel nuovo assetto disci-plinare dell’insegnamento dell’architettura, divisain Statica e Decorativa, un gabinetto di stereotomiae resistenza dei materiali, nel quale si studiavanoattraverso noti trattati francesi – fra cui Le Roy eRondelet28 – le regole del taglio della pietra29. Nondeve dunque stupire che anche dopo il 1860, quan-do iniziò una nuova stagione costruttiva di ponti,quelli ferroviari, furono ancora gli stessi modelli inpietra a prevalere. Il caso più rappresentativo è ilponte sul torrente Busiti [fig. 14], sulla linea ferro-viaria Palermo-Caltanissetta Xirbi, che con il suodoppio ordine di archi a tutto sesto e le sue dimen-sioni maestose rende immediato il confronto con ilponte dei Cappuccini di Ragusa di un trentennioprecedente. L’opera fu costruita in sette anni ( 1870-1877), sotto la direzione dei lavori dell’ingegnerefrancese De Perou, autore anche della progettazionedella stazione di Caltanissetta centrale. Le 19 arcatedi cui si compone furono costruite con calcarenitecompatta della vicina cava Pescazzo, mentre peralleggerire il riempimento extradossale degli archinei due moduli con maggiore spessore (2° e 3°) furo-no inserite due voltine in mattoni30. Per conferirealla struttura una maggiore solidità, i piloni furonocostruiti a scarpa, irrobustiti e ispessiti. Mentre infatti da una parte le tecnologie legate ai

Fig. 15. Assoro (Enna). Ponte ferroviario. Fig. 16. Nerja (Spagna). Ponte delle Aquile, 1879-80 ca.

nuovi materiali avevano ormai messo a punto sistemidi ponti sospesi con trefoli in ferro o sistemi a travate,la ricerca sulle tecniche e i materiali della tradizionenon si era arrestata, adeguandosi anzi alle nuove esi-genze funzionali.Seppure nel solco della tradizione, i viadotti ferro-viari della seconda metà del secolo, in Sicilia comenel resto d’Europa, evolsero verso soluzioni più raf-finate e ardite, a più ordini di arcate con altezze disvariate decine di metri.L’uso dei materiali e delle tecniche stereotomiche sifece sempre più sofisticato, approfondendo il temadegli archi e dei ponti obliqui, necessari nel caso diattraversamenti curvi. In molti casi, alla pietra siaffiancarono i mattoni, ai fini di una maggiore resi-stenza statica e al contempo di una più ricercata resaestetica, come nel caso dei ponti di Centuripe eAssoro [fig. 15].L’intero territorio isolano fu costellato dall’Unità inpoi di ponti ferroviari ad arcate di uno o più ordini,anche quando nel resto del paese si stavano diffon-dendo velocemente le nuove tipologie di ponti inferro progettate da Alfredo Cottrau31. Queste strutture, simbolo della modernità ma lega-te a un’immagine lontana nel tempo, consolidatasinell’immaginario collettivo come sinonimo dipotenza e magnificenza, caratterizzano ancora oggiil territorio siciliano così come i territori di molteregioni d’Europa [fig. 16], conservando, nonostan-te i progressi ormai raggiunti nell’ambito dellaprogettazione dei ponti, un fascino e una potenzaretorica innegabili.

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* La ricerca che ha condotto ai risultati che qui si presentano ha ricevuto finanziamenti dallo European Research Council nell’ambito del SettimoProgramma Quadro della Unione Europea (FP7/2007-2013) / ERC grant agreement n° 295960 - COSMED / The research leading to these results hasreceived funding from the European Research Council under the European Union’s Seventh Framework Programme (FP7/2007-2013) / ERC grantagreement n° 295960 – COSMED.1 Una sintesi sulla situazione siciliana è offerta da G. PEREZ, La Sicilia e le sue strade, Palermo 1861, ried. in Un secolo di politica stradale in Sicilia, Palermo-Roma 1963, pp. 3, 20. Una nuova campagna di costruzione di strade e ponti si ebbe a partire dal 1824 con l’istituzione della Soprintendenza delleStrade e dei Ponti in Sicilia. Per un quadro generale sui ponti siciliani tra Sette e Ottocento si rimanda a F. MAURICI, M. MINNELLA, Antichi ponti diSicilia, Palermo 2006, pp. 86-99; A. ARMETTA, I ponti in Sicilia (XVIII-XIX secolo) fra tradizione e innovazione, Palermo 2014. 2 Agli studi già noti di Anna Giordano, sulla vicenda del ponte sul Milicia, si aggiunge il recente saggio di Maurizio Vesco, cui si rimanda, che for-nisce una nuova attribuzione per il progetto del ponte, la cui versione finale sarebbe opera non di Ferdinando Fuga ma di Michelangelo Blasco. Cfr.A. GIORDANO, Le relazioni e i rapporti sul ponte della Milicia. Fuga, Lazzara, Mariani, Blasco (1731-32), in Ferdinando Fuga. 1699-1999 Roma, Napoli, Palermo,atti del convegno internazionale di studi (Napoli, 25-26 ottobre 1999), a cura di A. Gambardella, Napoli 2001, pp. 329-338; M. VESCO, MichelangeloBlasco versus Ferdinando Fuga: una nuova attribuzione per il ponte sul Milicia in Sicilia, infra.3 Si pensi al ponte pensile a catene di ferro sul Garigliano o a quello sul fiume Calore progettati dall’ingegnere Luigi Giura. Le difficoltà tecniche nel-l’introduzione delle nuove tecnologie e dei nuovi materiali in Sicilia relativamente alla costruzione dei ponti, ma non solo, sono state indagate da A.ARMETTA, I ponti in Sicilia..., cit.4 Sull’attività di Luigi Mayer a Catania si veda G. PAGNANO, Il rilievo dell’antico a Catania nella seconda metà del Settecento, in Dal tardo barocco ai neosti-li. Il quadro europeo e le esperienze siciliane, atti della giornata di studio (Catania, 14 novembre 1997), Messina 2000, pp. 85-101.5 Una breve sintesi biografica su Antonio Zacco si trova in A. GALLO, Notizie intorno agli incisori siciliani diligentemente raccolte da Agostino Gallo, (ms.del XIX sec.), Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, Fondi Antichi, ai segni XV-H-16, in I manoscritti di Agostino Gallo, a cura di C. Pastena, tra-scrizione e note di Angela Anselmo e Maria Carmela Zimmardi, 3, Palermo 2000. 6 Cfr. G. PAGNANO, Il rilievo..., cit., pp. 85-101.7 F. M. EMANUELE E GAETANI, MARCHESE DI VILLABIANCA, Ponti sui fiumi della Sicilia, [1791] a cura di S. Di Matteo, Palermo, Edizioni Giada, 1986; V. M.AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, a cura di G. Di Marzo, 2 voll., Palermo 1855-56, II, p. 51.8 J.-P. HOUËL, Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malte et de Lipari, Paris 1784, II, pag. 108. Per quanto riguarda le rappresentazioni del ponte diBiscari, pubblicate da Saint Non si veda: P. LAMERS, Il viaggio nel Sud dell'Abbé de Saint Non. Il voyage pittoresque à Naples et en Sicile: la genesi, i disegnipreparatori, le incisioni, Napoli 1995. 9 «Non solo uno gittamento volcanico avvenuto il 27 gennaio 1780 ma da’ continui tremiti di terra accompagnati da fortissimi uragani e direttissimepiogge», come si apprende dallo scritto del Cavaliere V. CORDARO CLARENZA, Osservazioni sopra la storia di Catania cavate dalla Storia Generale di Sicilia,Catania 1854, IV, p. 39. La stessa notizia fu riportata, probabilmente perchè così apprese sul posto, dal geografo francese Elisée Reclus, nella relazio-ne di viaggio del 1865 sulla Sicilia, in cui, dopo aver raccontato di essersi imbattuto in uno «dei più grandi monumenti della Sicilia. […] che merite-rebbe a più giusto titolo rispeto alla pretenziosa costruzione del ponte S. Leonardo (a Termini Imerese) di essere chiamato il ponte per eccellenza»,ci dice che nonostante questo «non potè resistere alle intemperie e al traballare della terra», E. Reclus, La Sicile et l’éruption de l’Etna en 1865, in F.BOURQUELOT, E. RECLUS, La Sicilia: due viaggi, Milano 1873, pp. 91 sgg.10 Cenni biografici si trovano in G. MANGANARO, Ignazio Paternò Castello principe di Biscari, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Treccani, vol. 10,1968, ad vocem. Notizie sull’attività del principe sono riportate anche in: C. GAGLIANI, Ignazio Paternò Castello Principe di Biscari, in D. A. GAGLIANO,Elogi storici degli uomini memorabili di Catania. Continuazione della biografia degli uomini illustri della Sicilia di Giuseppe Emmanuele Ortolani, Catania 1822,pp. 14-18; V. PERCOLLA, Biografie degli uomini illustri catanesi del secolo XVIII, Catania 1842, pp. 9-62; F. TORNABENE, Elogio funebre di Roberto PaternòCastello Principe di Biscari, Catania 1857 (alle pp. 18-34, note 6 ss. sono rievocate la figura e le opere di Ignazio, quinto principe di Biscari); L. SCUDERI,Le biografie degli illustri catanesi del secolo XVIII, Catania 1881, pp. 56-74.11 Cfr. E. MAURO, voce Salvatore Arancio, in L. SARULLO, Dizionario degli artisti siciliani. Vol. I, Architettura, a cura di M. C. Ruggieri Tricoli, Palermo 1993,p. 25. 12 Lo studioso Agostino Gallo compiva nelle sue Notizie intorno agli architetti siciliani e agli esteri soggiornanti in Sicilia... un grossolano errore di attri-buzione, scrivendo che he l’acquedotto di Biscari fosse stato “cominciato” da «un certo architetto Conti romano», sul quale la storiografia a oggi si èinterrogata. Si tratterebbe invece del mestro catanese Giuseppe Romano. Cfr. Cfr. Modello della nuova costruzione del ponte e passaggio dell’acqua nel feudod’Aragona dedicato a S. E. Signor Principe di Biscari, fatto da M.ro Giuseppe Romano il 23 gennaio 1785, ASCt, Fondo Biscari, busta 192.5.13 Di questo architetto si conosce a oggi solo la direzione dei lavori per il progetto di ricostruzione del ponte di Biscari. Si rimanda alla breve biogra-fia riportata in E. MAURO, Salvatore Arancio, in L. SARULLO, Dizionario..., cit., p. 25. 14 La notizia, di cui nelle fonti storiografiche non ho trovato cenno, viene tramandata oralmente da generazioni e mi è stata gentilmente segnalatadagli eredi della famiglia Moncada e dagli eredi Paternò Castello di Catania, che desidero qui ringraziare. Ringrazio in particolare Lorenzo Moncadaper la disponibilità mostrata nel coadiuvarmi durante le mie ricerche nel suo archivio privato.15 Figura di rilievo nella Sicilia del Settecento, mecenate, esteta, appassionato di antichità e collezionismo, il principe aveva continuato le tante attivi-tà intraprese dal padre Vincenzo. Nel 1748 chiese e ottenne di poter eseguire degli scavi archeologici a Catania. Nel 1783 il governo borbonico lo

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nominò sovrintendente alle antichità di Sicilia per il Val di Demone e il Val di Noto. 16 I. PATERNÒ CASTELLO, Viaggio per tutte le Antichità di Sicilia, Napoli 1781, p. 43. 17 Ivi, p. 44.18 R. LATTUADA, Il Barocco a Napoli e in Campania, Napoli 1988, pp. 155-157.19 Sappiamo che nel 1750 in occasione dell’anno santo, intraprese un viaggio, sostando a Napoli, Roma e Firenze, facendo acquisti di pezzi antichi aRoma, e di bronzi settecenteschi, scambiati per classici, a Firenze, iniziando relazioni con uomini di cultura come il Gori, il Passeri e il Lami. Nel 1757il principe di Biscari poté inaugurare il Museo di antichità, con le collezioni ordinate in fastose sale. 20 Sui piloni tra gli archi del terzo ordine dove non c’è la nervatura, una lesena di rinforzo che contribuisce a sorreggere il peso del soprastante con-dotto dell’acqua e contribuendo anche a un effetto chiaroscurale. Le arcate hanno altezza crescente dal basso verso l’alto e la sommità dell’acquedot-to è lastricata, coperta e percorribile mediante una strada larga 2,7 metri.21 R. LATTUADA, Il Barocco a Napoli e in Campania..., cit., p. 158; R. DI STEFANO, Luigi Vanvitelli e il ‘700 europeo, atti del congresso internazionale di studi(Napoli-Caserta, 5-10 novembre 1973), Napoli 1979, pp. 186-198.22 Numerosi sono i trattatati che già dal Settecento si occupano di ponti. Ricordiamo solo i più famosi: B. FOREST DE BÉLIDOR, Architecture hydraulique,ou L’art de conduire, d’elever et de menager les eaux pour les differens besoins de la vie, Paris 1737-39; H. GAUTIER, Traité des ponts ou il est parlé de ceux romains,de ceux des modernes; de leur construction, tant en maçonnerie qu’en charpente, de leur disposition dans toutes fortes de lieux, Paris 1765.23 G.B. PIRANESI, Le antichità romane di Giambattista Piranesi architetto veneziano, Roma 1756, in particolare il IV tomo, dedicato a rilievi di ponti e acque-dotti romani.24 Sull’argomento si vedano: M. R. NOBILE, Ragioni e genesi delle biblioteche dell’architetto in Sicilia, in La biblioteca dell’architetto. Libri e incisioni (XVI-XVIIIsecolo) custoditi nella Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, a cura M. S. Sofia Di Fede, F. Scaduto, Palermo 2007, pp. 11-13; E. H. NEIL, Architects aswriters architects ad readers in early modern Sicily, in La biblioteca dell’architetto…, cit., pp. 14-23; M. R. NOBILE, L’iconografia a stampa come strumento dellaprofessione dell’architetto tra Seicento e Settecento in Sicilia, in I libri e l’ingegno. Studi sulla biblioteca dell’architetto (XV-XX secolo), a cura di G. Curcio, M.R. Nobile, A. Scotti Tosini, Palermo 2010. L’inventario della biblioteca di Ignazio Paternò Castello principe di Biscari ci è pervenuto ed è trascritto inD. LIGRESTI, Il catalogo della biblioteca «Biscari», in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», LXXIII, 1977, pp. 185-251. 25 L’attività di Andrea Gigante come tecnico progettista di ponti e infrastrutture idrauliche sta emergendo solo recentemente. Per approfondimentiin merito si rimanda al mio saggio: A. ARMETTA, Due relazioni di Andrea Gigante per ponti ad arcate in pietra in Sicilia (1776), in Saperi a confronto. Consultee perizie sulle criticità strutturali dell’architettura d’età moderna (XV-XVIII secolo), a cura di S. Piazza, Palermo, Caracol, 2015, pp. 179-202. Sappiamo cheGigante possedeva una collezione di incisioni di Piranesi e una ricca biblioteca. Nel 1789, due anni dopo la sua morte, Leon Dufourny acquistò alcu-ni suoi libri e disegni. La notizia è riportata in L. DUFOURNY, Diario di un giacobino a Palermo 1789-1793, a cura di G. Bautier-Bresc, Palermo 1991, pp.99-100.26 Sulla storia del ponte si veda il A. ARMETTA, E. FIDONE, La «grandiosa opera»: il ponte Vecchio di Ragusa (1812-1844). La storia e le rappresentazioni, in«Lexicon. Storie e architettura in Sicilia e nel Mediterraneo», 17, 2013, pp. 54-59.27 Ivi. 28 Nel programma istituzionale dei corsi era previsto, fra gli altri, lo studio di G. B. RONDELET, Traité theorique et pratique de l’art de bâtir [1802-07], ed.it. a cura di B. Soresina, 5 voll., Napoli 1840; C. F. A. LEROY, Traité de Géometrie Descriptive, Paris 1844.29 Dopo Giachery l’insegnamento della sterotomia fu proseguito da Giovan Battista Filippo Basile e Giuseppe Damiani Almeyda e, per breve tempo,anche da Giuseppe Patricolo. Cfr. G. DI BENEDETTO, Carlo Giachery: 1812-1865. Un architetto “borghese” a Palermo tra didattica, istituzioni e professione,Palermo, Flaccovio, 2011; A. COTTONE, L’insegnamento pubblico dell’architettura a Palermo nel periodo preunitario, in Vittorio Ziino architetto, a cura di G.Caronia, Palermo 1982, pp. 323-342. 30 Alcune notizie costruttive sul ponte sono state pubblicate dall’architetto Giuseppe Saggio, dirigente presso la Soprintendenza per i Beni Culturalidi Caltanissetta in occasione dei suoi studi per la manutenzione e tutela del bene. Si rimanda alla consultazione di G. SAGGIO, De urbe… Ricerche, sto-ria e notizie sulla città di Caltanissetta, 22 settembre 2012, http://giuseppesaggio.blogspot.it/2012_09_01_archive.html (1 ottobre 2014). 31 Cfr. Alfredo Cottrau 1839_1898. L’architettura del ferro nell’Italia delle grandi trasformazioni, a cura di U. Carughi, E. Guida, Napoli 2003, pp. 65-119.

PONTI DI SICILIA (XVI-XIX SECOLO)Catalogo della mostraa cura di Antonella Armetta e Maurizio Vesco

Dall’11 dicembre 2014 all’11 gennaio 2015, presso ilocali del convento di Santa Maria della Catena, si ètenuta la mostra iconografica e documentaria Ponti diSicilia (XVI-XIX secolo), organizzata dalDipartimento di Architettura dell’Università degliStudi di Palermo e dall’Archivio di Stato, e curata daidott. Antonella Armetta e Maurizio Vesco nell’ambitodelle attività scientifiche del progetto ERC-COSMED,di cui presentiamo in questa sede il catalogo.Ad essere esposti sono stati disegni, incisioni, libri,modelli e documenti archivistici, molti dei quali pre-sentati al pubblico per la prima volta, provenienti daarchivi, biblioteche, nonché collezioni pubbliche e pri-vate, con l’intento di provare a “ricostruire”, attraver-so le carte e le immagini, la storia complessa e stratifi-cata dei ponti siciliani, interpretandone le vicende pro-gettuali e costruttive anche in relazione al più ampiodibattito che ha animato il mondo scientifico europeo,in particolar modo tra XVII e XIX secolo.

Università degli Studi di Palermo Scuola Politecnica

Dipartimento di Architettura

Progetto COSMED Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo

Archivio di Stato di Palermo

Ringraziamenti

Marcella AprileGioacchino Barbera Evelina De Castro

Maria Maddalena De LucaRenata De Simone

Rita Di NataleFilippo GuttusoFabio Lo Bono

Vincenzo NicastroLorenzo MoncadaFabrizio Micari

Salvatore PaganoClaudio Torrisi

Francesco VergaraSilvana Vinci

Margherita Zaffuto

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1) e 1bis)Frontespizio e Di un altro ponte di miainventione.

A. PALLADIO, I quattro libri dell’Architettu-ra, Venezia [1570] 1581.

Università degli Studi di Palermo, PoloBibliotecario di Ateneo, Biblioteca delDipartimento di Architettura.

3)Verbale della seduta del Parlamento delRegno di Sicilia convocata dal viceré Juande Vega l’8 marzo 1555 nella sala delPalazzo Reale di Palermo in cui si delibe-ra un donativo di 48.000 fiorini per le fab-briche dei ponti del Regno.

A. MARCHESE, Parlamenti generali ordinariie straordinarii..., Palermo 1659.

Palermo, Biblioteca dell’Archivio di Statodi Palermo.

2)Visita delli Ponti di questo Regno di Siciliafatta l’anno 1646.

Il procommissario generale VincenzoSarzana con la collaborazione del capo-mastro delle fabbriche del RegnoGiuseppe Amato redige la relazione sullostato dei ponti siciliani, a conclusione diun sopralluogo effettuato dal 3 al 28 giu-gno di quell’anno.

Archivio di Stato di Palermo, ArchivioAmato de Spuches, vol. 887, c. 53r.

1 bis

2

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4 4 bis

4) e 4bis)Frontespizio ed esempi di macchineidrauliche impiegate per il sollevamentomeccanico dell’acqua e in particolaredella coclea («helix circa cylindrum»).

C. F. MILLIET DECHALES, Cursus seu Mun-dus mathematicus, III, Lyon 1690.

Biblioteca Centrale della Regione Siciliana“Alberto Bombace”, Palermo. Su con-cessione dell’Assessorato dei Beni Cultur-ali e dell’Identità Siciliana. Dipartimentodei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana.

6) e 6bis)Frontespizio e modello di ponte urbanoispirato agli esempi palladiani.

J. LEUPOLD, Theatrum Pontificiale, OderSchau-Platz der Brücken und Brücken-baues,Leipzig 1726.

Biblioteca Centrale della RegioneSiciliana “Alberto Bombace”, Palermo.Su concessione dell’Assessorato deiBeni Culturali e dell’Identità Siciliana.Dipartimento dei Beni Culturali edell’Identità Siciliana.

5) e 5bis)Esempi di fondazioni idrauliche per lacostruzione di pile di ponti mediantel’utilizzo di casseri.

J. LEUPOLD, Theatrum machinarum hydrote-chnicarum, Leipzig 1724.

Biblioteca Centrale della RegioneSiciliana “Alberto Bombace”, Palermo.Su concessione dell’Assessorato deiBeni Culturali e dell’Identità Siciliana.Dipartimento dei Beni Culturali edell’Identità Siciliana.

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5

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5 bis

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7

8)M. BLASCO, Pianta del principiato Ponte della Milicia..., 1731.

Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Segreteria di Statopresso il Luogotenente Generale, Ripartimento LL.PP., Cartetopografiche, n. 328.

7)B. GABBUGGIANI, Disegno del ponte eretto dall’Ill.ma Deputazionedel Regno nel’anno 1730 sopra il fiume della Milicia [...] conarchitettura e direzione di Ferdinando Fuga, 1730.

Palermo, Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis,Gabinetto di Disegni e Stampe, inv. 10562

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9)Palermo, 9 febbraio 1731Gli architetti Gaetano Lazzara e Giuseppe Mariani, su incaricodella Deputazione del Regno, stilano la loro perizia sulle causedei dissesti occorsi al ponte in costruzione sul fiume Miliciasecondo il progetto e sotto la direzione dell’architettoFerdinando Fuga, dei quali è ritenuto responsabile.

Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Segreteria di Stato pres-so il Luogotenente Generale, Ripartimento LL.PP., vol. 1, cc.n.n.

10)Palermo, 20 aprile 1731L’architetto Ferdinando Fuga, a sua discolpa, redige una con-trorelazione in cui difende le proprie scelte progettuali e lemodalità di conduzione del cantiere dalle accuse dei peritiLazzara e Mariani.

Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Segreteria di Stato pres-so il Luogotenente Generale, Ripartimento LL.PP., vol. 1, cc.n.n.

11)Palermo, 25 maggio 1731

Il Capitano Ingegnere Michelangelo Blasco, chiamato cometerzo esperto dalla Deputazione del Regno per dirimere la con-troversia sorta tra i periti architetti Gaetano Lazzara e GiuseppeMariani da un lato e l’architetto Ferdinando Fuga dall’altro,redige la propria relazione sulle cause del crollo del ponte incostruzione sul fiume Milicia.

Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Segreteria di Stato pres-so il Luogotenente Generale, Ripartimento LL.PP., vol. 1, cc.n.n.

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13)B. M. CASTRONE, Della nuova costruzione di un stabile e firmissimoponte che vaglia con tutta sicurezza resistere a qualunque impeto delrapido corso delle acque nelle grosse piene, in Brevissimo Compendiodella civile architettura castroniana..., ms. del 1740 ca., Tav. XIII.

Palermo, Biblioteca Comunale, ms. 3Qq C 30.

12)G. CURIALE, N. COZZI, Progetto per il ponte sul Milicia delCapitano Ingegnere Michelangelo Blasco, 1738.

Madrid, Biblioteca Nacional de España, Sala Goya, inv. 28675.

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15) e 15bis)Frontespizio e Dévelopment du pont Royal éxécuté en 1685 sur laSeine à Paris.

B. FOREST DE BÉLIDOR, Architecture Hydraulique..., Paris 1753, II,pl. LIX, figg. 1-4.

Palermo, Collezione privata.

14)M. BLASCO, P. DU FLOS, Progetto del Capitano IngegnereMichelangelo Blasco per il ponte sul fiume Salito aCampofranco, s.d.

Campofranco, Museo di Storia Locale, Arti e TradizioniPopolari “Don Nazareno Falletta”, donazione Lucchesi Salati.

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16)S. ATTINELLI, Rilievo effettuato su incarico della Deputazionedel Regno del ponte sul fiume Rosamarina, costruito nel 1759dall’architetto Mariano Sucameli con l’assistenza del capoma-stro del Regno Gaetano Vivaldi in difformità rispetto al pro-getto approvato a causa di problemi sorti nella fondazione diuna delle spalle, e al centro di contestazioni, 1760.

Archivio di Stato di Palermo, Deputazione del Regno, vol. 4751.

17)S. ATTINELLI, Tavola comparativa fra il progetto inizialmentepresentato dall’architetto Mariano Sucameli per il ponte sulfiume Rosamarina e la proposta avanzata dallo stessoSalvatore Attinelli per far fronte alle difficoltà riscontratenella fondazione della spalla sinistra, 1760.

Archivio di Stato di Palermo, Deputazione del Regno, vol. 4751.

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18)S. DI NATALE, Progetto per il nuovoponte sul Fiume Irminio a Ragusa, 1763.

Archivio di Stato di Ragusa, Sezione diModica, Notaio Antonino Francalanza,vol. 17, c. 320v.

20)Palermo, 5 marzo 1777 Si aggiudicano per asta pubblica leopere per la costruzione del ponte sulfiume Salso secondo il progetto e i capi-toli redatti dall’architetto AndreaGigante.

Archivio di Stato di Palermo, ArchivioTrabia, serie A, vol. 685, c. 1r.

19)Palermo, 26 ottobre 1773Relazione sulle spese sostenute e ancorada sostenersi per interventi di riparazio-ne di alcuni ponti siciliani secondo leindicazioni degli architetti Paolo Vivaldie Andrea Gigante.

Archivio di Stato di Palermo, ArchivioTrabia, serie A, vol. 685, c. 1r.

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21)L. MAYER, A. ZACCO, Ponte eretto sul FiumeSimeto il più grande che sia in Sicilia..., finedel XVIII secolo.

Catania, Archivio privato Moncada.

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23)Veduta di dettaglio del ponte-acquedot-to di Biscari sul fiume Simeto ricostruitosecondo un nuovo progetto dopo il crol-lo del 1780, fine del XVIII secolo.

Catania, Archivio privato Moncada.

22)Il ponte-acquedotto di Biscari sul fiumeSimeto ricostruito secondo un nuovoprogetto dopo il crollo del 1780, fine delXVIII secolo.

Catania, Archivio privato Moncada.

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24) e 24bis)F.M. EMMANUELE E GAETANI, MARCHESEDI VILLABIANCA, Ponti sui fiumi dellaSicilia, ms. del 1792.

Palermo, Biblioteca Comunale, ms. QQE 97.

26)Real Decreto de’ 10 agosto 1824 riguardantel’organizzazione della Soprintendenza delleStrade e Ponti in Sicilia..., Palermo 1825.

Archivio di Stato di Palermo, Ministero eSegreteria di Stato presso il LuogotenenteGenerale, Ripartimento LL.PP., filza 2136.

25)Modello ligneo con arcata in legno espalle in muratura, seconda metà delXIX secolo.

Archivio di Stato di Palermo, Ministero eSegreteria di Stato presso il LuogotenenteGenerale, Ripartimento LL.PP.

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28)V. DI MARTINO, Ortografia ed icnografia del nuovo Ponte da eri-gersi sul Fiume Freddo che scorre nella Via Consolare da Palermo aTrapani, 1824.

Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Segreteria di Statopresso il Luogotenente Generale, Ripartimento LL.PP., Cartetopografiche, n. 325.

27)G. FERRARA, Una campagna di Termini in cui si vede il sontuosoPonte da sotto Belvedere..., 1823.

Termini Imerese, Museo Civico “Baldassare Romano”, inv.658/26.

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30) e 30bis)Frontespizio e tavola comparativa dei diversi progetti per ilponte di Rialto.

A. RONDELET, Saggio storico sul ponte di Rialto in Venezia,Mantova 1841.

Università degli Studi di Palermo, Polo Bibliotecario diAteneo, Biblioteca del Dipartimento di Architettura.

29)V. DI MARTINO, Progetto del ponte di fabbrica da innalzarsi sulFiume-torrente Morello che attraversa la Regia Strada al miglio 95,prima metà del XIX secolo.

Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Segreteria di Statopresso il Luogotenente Generale, Ripartimento LL.PP., Cartetopografiche, n. 330.

29

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31)T. RIOLO, Ponte dei Cappuccini in Ragusa, 18 aprile 1844.

Palermo, Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis,Gabinetto di Disegni e Stampe, inv. 5275.

31

32) e 32bis)N. CAVALIERI DI SAN BERTOLO, Istituzioni di Architettura staticae idraulica, 2 voll., Mantova [Bologna 1826] 1853.

Università degli Studi di Palermo, Polo Bibliotecario diAteneo, Biblioteca di Ingegneria.

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32 bis

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33)P. PATTI, Ponte da costruirsi sul torrente Piletto ad unico arco dicorda palmi 40, 1853.

Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Segreteria di Statopresso il Luogotenente Generale, Ripartimento LL.PP., Cartetopografiche, n. 331.

34)I. ALÌ, Ponte S. Chiara nella valle Castagno lungo la strada rotabi-le da Noto a Palazzolo, 1854.

Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Segreteria di Statopresso il Luogotenente Generale, Ripartimento LL.PP., Cartetopografiche, n. 340.

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35)Annales des Ponts et Chaussées: Memoires et documents relatifs al’art des constructions..., Tables, Paris 1851-56.

Università degli Studi di Palermo, Polo Bibliotecario diAteneo, Biblioteca di Ingegneria.

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36)S. GIARRUSSI, Ponte Capodarso ridotto a passaggio rotabile, 1862.

Archivio di Stato di Caltanissetta, Intendenza e Prefettura,busta 2648.