Sommario - Istituto Comprensivo Ponte San Pietro · 2014. 11. 1. · 4 Rita Atria A cura di Piera...

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1 Sommario INTRODUZIONE: LIBERA……..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………2 RITA ATRIA………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….4 GAETANO GIORDANO…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..6 DEFINIZIONE E BREVI CENNI DI STORIA DELLE MAFIE…………………………………………………………………………………………………………………………9 TRE FIGURE DELL’ANTIMAFIA: IMPASTATO, AMBROSOLI, BORSELLINO……………………………………………………………………………………………..10 LE MAFIE IN LOMBARDIA dalle infiltrazioni alla colonizzazione………………………………………………………………………………………………………..19 LE MAFIE IN BERGAMASCA………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………...25 CORROTTI E CORRUTTORI nelle realtà locali…………………………………………………………………………………………………………………………………….32

Transcript of Sommario - Istituto Comprensivo Ponte San Pietro · 2014. 11. 1. · 4 Rita Atria A cura di Piera...

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    Sommario INTRODUZIONE: LIBERA……..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………2 RITA ATRIA………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….4 GAETANO GIORDANO…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..6 DEFINIZIONE E BREVI CENNI DI STORIA DELLE MAFIE…………………………………………………………………………………………………………………………9 TRE FIGURE DELL’ANTIMAFIA: IMPASTATO, AMBROSOLI, BORSELLINO……………………………………………………………………………………………..10 LE MAFIE IN LOMBARDIA dalle infiltrazioni alla colonizzazione………………………………………………………………………………………………………..19 LE MAFIE IN BERGAMASCA………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………...25 CORROTTI E CORRUTTORI nelle realtà locali…………………………………………………………………………………………………………………………………….32

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    Il problema non sono le mafie. Il problema siamo anche noi. Abbiamo il dovere di chiedere allo Stato di fare la sua parte, ma abbiamo la corresponsabilità di un cambiamento. Il problema mafia è una questione nazionale.

    Don Luigi Ciotti

    Libera “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" è nata il 25 marzo 1995 con l'intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia. Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità. La legge sull'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l'educazione alla legalità democratica, l'impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, i progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura, sono alcuni dei concreti impegni di Libera. Libera è riconosciuta come associazione di promozione sociale dal Ministero della Solidarietà Sociale. Nel 2008 è stata inserita dall'Eurispes tra le eccellenze italiane. Nel 2012 è stata inserita dalla rivista The Global Journal nella classifica delle cento migliori Ong del mondo. Per info: www.libera.it – www.liberainformazione.org – [email protected]

    Il Coordinamento provinciale di Bergamo Il Coordinamento provinciale di Libera, presente sul territorio da alcuni anni, è costituito da organizzazioni, sindacati, scuole e singoli cittadini che condividono e promuovono la cultura della legalità e della giustizia sul territorio bergamasco. Attualmente ne fanno parte: ACLI, ARCI, CGIL, CISL, FILCA, FILLEA, FISCASCAT, Ass. I colori del mondo, Ass. Mascobado, Comunità di San Fermo, Comunità Immigrati Ruah, Coop. Amandla, Coop. Il Pugno Aperto, Coop. Il Seme, Fondazione Serughetti La Porta, ANPI Mapello, Ass. Amici di Libera Caravaggio, Ass. Il Porto Dalmine, Istituto di istruzione don Milani Romano di Lombardia, Istituto Federici Trescore Balneario, Istituto Piana Lovere, Scuola media statale Treviglio, Liceo linguistico Giovanni Falcone Bergamo e 120 soci individuali. I principali ambiti di intervento del Coordinamento sono: - la formazione interna sui temi della legalità - la strutturazione di percorsi di formazione - la creazione di contatti e relazioni con le istituzioni del territorio - l’organizzazione, la promozione e la partecipazione di eventi sulla legalità - la presenza nel mondo della scuola - il divenire punto di riferimento sul territorio per enti ed organizzazioni interessate ai temi della Legalità e del contrasto alle mafie. Per info: www.liberabg.it – [email protected]

    Il Presidio “Gaetano Giordano e Rita Atria”

    Il Presidio e un gruppo di persone che, aderendo alle idee di Libera, su di esse si formano continuativamente, per esse agiscono, dandosi un’organizzazione permanente. Lo scopo è quello di costituire un punto di riferimento decentrato rispetto al coordinamento provinciale che permetta il monitoraggio della zona Isola bergamasca, Valle Imagna e bassa valle Brembana. La presenza diffusa dei presidi è un punto di forza per tener alta l’attenzione sull’illegalità e quindi rendere la rete di Libera più fitta. Al Presidio dedicato a Gaetano Giordano e Rita Atria, inaugurato ufficialmente nel mese di novembre 2011, aderiscono: ACLI Almenno San Salvatore, ACLI Prezzate, ANPI Mapello, Gruppo Legalita Madone, Comitato Peppino Impastato Ponteranica, CISL,

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    CGIL e le Botteghe del Commercio Equo e Solidale Lumaca di Almenno S. Salvatore, Mascobado di Ponte S. Pietro, Algo Mas di Calusco, Bondeko di Villa d’Alme. Le attività del Presidio: - organizzazione di progetti formativi nelle scuole e negli oratori del territorio - organizzazione di progetti formativi rivolti ai funzionari comunali - iniziative simboliche di coinvolgimento della popolazione - osservazione e monitoraggio delle situazioni locali nelle quali si intravedono infiltrazioni o consolidamento della presenza mafiosa - sollecitazione a soggetti delle comunità locali per scelte che siano coerenti con orientamenti di legalità e di giustizia - collaborazione con le amministrazioni comunali per mantenere alta la vigilanza e combattere comportamenti e abitudini che possono favorire l’illegalità. Per info: [email protected] Perché facciamo Libera Non facciamo Libera per passatempo o per fare qualcosa di “buono”, come si potrebbero fare tante altre cose. In questo momento storico c’è bisogno di un impegno straordinario per salvare l’Italia. L’impegno di Libera è decisamente politico: non è solo una bella esperienza di volontariato, in cui si è contenti di fare del bene verso qualcuno. Qui c’è bisogno di cambiare decisamente la situazione in cui l’Italia si sta incamminando. Dal punto di vista politico ed economico, morale (rispetto alla capacità di reagire con forza ed entusiasmo da parte della gente di fronte alle crisi), etico (come evidenza di valori, capacità di relazioni altruiste ed onestà nei comportamenti sociali e personali). Il proliferare delle mafie è prodotto perverso di questo svanire del vigore di un popolo e contemporaneamente è elemento moltiplicatore di queste crisi, ne emerge e se ne nutre. Libera ha le carte in regola per essere un soggetto di questa “resistenza” e di questa “lotta di liberazione”, oggi non più solo nei confronti di un nemico esterno, ma anche contro la “mollezza”, la disattenzione e il disimpegno che è presente fortissimo anche tra noi, tra la nostra gente. Per questo Libera ha un compito politico, in senso forte: erede dei grandi fondatori della nostra Repubblica. Non lo fa partecipando alle elezioni e proponendosi per la gestione diretta della cosa pubblica, ma con una diffusione nel territorio, con una presenza sociale ed educativa. Nondimeno, l’obiettivo è di alto livello, di cambiamento e di costruzione di una “Terza Repubblica” non tanto a livello istituzionale e di regole costituzionali, ma in termini di dignità della convivenza civile e di qualità della umanità delle persone. E non ci potremo consolare dicendo: “qualcosa abbiamo cercato di fare”. Il valore del nostro sforzo si misurerà anche sulla nostra capacita di incidere profondamente nel tessuto civile di questa nostra Italia. Di lasciare un segno storico. Niente di meno.

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    Rita Atria A cura di Piera Aiello

    Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su Rita Atria, mia cognata. Più che ricordarla come cognata, preferisco e amo chiamarla Piccola Grande Donna, piccola perché era di statura bassa, perché era appena diciassettenne quando è morta, ma grande donna perché il suo gesto rivoluzionario nel dire no alla Mafia è stato da esempio a tanti ragazzi di molte scuole italiane. E’ doveroso fare una piccola premessa: Rita Atria, figlia di un boss mafioso, nasce a Partanna, paesino collocato nella valle del fiume Belice, arroccato su una collinetta, cresce in mezzo ad un sistema mafioso, che per lei era la normalità. Testimone per anni di intrecci malavitosi, alleanze, omicidi, ben presto tocca con mano cosa vuol dire perdere un familiare morto ammazzato, il padre Don Vito Atria. Rita allora aveva appena 11 anni, vede il padre su un letto di marmo nell’obitorio di Partanna, dopo pochi anni perde il fratello Nicolò Atria, anch’esso ucciso. Subito dopo la morte unitamente al fratello giura di vendicarsi, ma quando anche quest’ultimo viene a mancare decide, subito dopo la mia testimonianza, di seguire il mio esempio, prima come arma di vendetta, ma quando conosce quel grande uomo e Giudice, Paolo Borsellino, capisce che la vendetta non è ciò che vuole, capisce di avere sete di giustizia, quindi si affida completamente allo zio Paolo, così lo chiamavamo. Dopo l’attentato, non ce la fa ad andare avanti, e compie l’atto estremo. Dopo tale evento, devastante, leggo il suo diario, trovo scritto “andate tra i giovani, dite loro che fuori, dal sistema mafioso c’è un mondo migliore fatto di cose belle, di cose vere” da allora il mio impegno è stato e sarà fino all’ultimo mio respiro, di eseguire la sua volontà, da anni porto le parole di Rita in giro per le scuole italiane, faccio vivere quella Piccola Grande Donna tramite la mia voce, parlo di lei a ragazzi della sua età, porto l’esempio del cambiamento della rivoluzione. A lei sono state intestate sale multimediali, ville, strade, giardini, vicoletti, terreni confiscati alla mafia, non ultima a Castelvetrano Città a pochi chilometri da Partanna, hanno intestato una strada. Tutto questo a dimostrazione che se si vuole il cambiamento c’è, basta dire no alla mafia, ma non solo a quella che uccide, l’indifferenza il silenzio, il girarsi dall’altra parte a volte uccidono di più. A te Rita, mia grande amica, va sempre il mio pensiero, a te tutte le mie fatiche, per te respiro giorno dopo giorno, quel fresco profumo di libertà che tanto piaceva allo zio Paolo. Con affetto Piera Aiello

    La solitudine di Rita Gian Mario Vitali, insegnante, del Coordinamento provinciale di Libera

    Il percorso della “via crucis” di Gesù è il percorso di un uomo solo, lasciato solo da tutti, fino alla fine. È per questo che voglio parlarti di una ragazza, di Rita, Rita Atria, una ragazza lasciata sola che ha percorso fino in fondo, e da sola, la sua “via crucis”. Rita è di un paese siciliano, Partanna. Quando aveva 11 anni la mafia le ha ammazzato il padre, pochi anni dopo il fratello. Si è ribellata al destino del silenzio, voleva una vita diversa. Rita ad un certo momento, grazie all'insegnamento della scuola, decide di raccontare tutto quello che sa; e sa molto, perché è nella sua casa che si sono prese tutte le decisioni della mafia di Partanna, di cui il padre era uno dei più grandi esponenti. Tutti questi particolari si sono impressi in quella giovane mente con una impressionante lucidità, e lei cerca qualcuno che le dia ascolto, che le creda. È difficile credere ad una ragazza che ha la faccia da bambina. Come si fa a credere a una ragazzina che si presenta e ti dice: io voglio svelare i segreti della mafia di Partanna, gli omicidi, le rapine, le estorsioni.. Ma poi trova la persona che la capisce, che l'ascolta, che non la lascia sola: Paolo Borsellino. Paolo per difenderla la porta lontano dalla Sicilia, a Roma, dove è protetta con discrezione insieme alla cognata, anche lei testimone di giustizia. Parte tra le maledizioni e le percosse dei suoi familiari e di sua madre. Rinnegata, ripudiata, offesa, umiliata lascia la sua terra, la sua Sicilia. Ma sa di avere fatto la scelta giusta. Sa di aver scelto la giustizia, di avere scelto per il bene comune. E lo ha fatto

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    con grande coraggio. Una ragazza che non aveva ancora 17 anni. Spesso Paolo la va a trovare a Roma, scherza con lei, gioca con lei come se fosse una delle sue figlie, le porta regali e parole di conforto.. E nel suo diario Rita annota anche l'attesa trepida delle visite di Paolo Borsellino, che ormai ama come un padre. E l'ultima annotazione sul diario è questa: “Roma, dopo il 19 luglio 1992, strage di via D'Amelio. Ora che è morto Borsellino nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Prima di combattere la mafia devi farti un esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combatterla intorno a te”. E poi, su quella pagina di diario che resterà aperto conclude cosi: "Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta". Tutto ciò si scontra con la solitudine ed il vuoto, l’assenza dei riferimenti. Rita emerge dal nulla e viene risucchiata dal nulla. Si avvicina al balcone e si lancerà nel vuoto, aveva 17 anni e mezzo... è il 26 luglio 1992, una settimana dopo la morte di Paolo e degli uomini della sua scorta. Il gesto di Rita non è stato un gesto vigliacco. Dopo la morte di Paolo le è mancato un punto d'appoggio che la teneva ancorata alla sua esistenza. Era rimasta sola, e da sola si è fatta carico di un momento di estrema solitudine. Ma non dobbiamo dimenticarci l'esempio di grande coraggio, di testimonianza reso da una ragazza cosi giovane. Al suo funerale non andò nessuno del suo paese. Non andò neppure sua madre che l'aveva ripudiata e minacciata di morte. La sua lapide per anni è rimasta bianca senza nome e senza una sua fotografia. Sola, ancora lasciata sola, da tanti ...ma non tutti l'hanno dimenticata e dall'estate scorsa per ricordare il XX anniversario della sua morte è stata rimessa una foto e il suo nome.… Rita, 17 anni, testimone di giustizia.

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    Gaetano Giordano a cura di Rocco Artifoni

    Portavoce Coordinamento provinciale di Libera

    Gaetano Giordano nasce a Riesi (CL) il 9 giugno 1937. Dopo il servizio militare apre un’attività di parrucchiere per uomo. Nel 1963 conosce Franca Evangelista, genovese, arrivata a Gela per motivi di lavoro del padre. In seguito Franca e Gaetano si frequentano, si fidanzano e si sposano, consolidando l’attività economica che nel frattempo si era trasformata in negozi di profumeria (unici per molto tempo nel territorio gelese). Nascono due figli, Massimo e Tiziana, in una realtà di lavoro sana e fiorente. Marito e moglie collaborano nell’attività commerciale in un contesto familiare e lavorativo concreto e normale, i ragazzi studiano con profitto e, finito il liceo a Gela, accedono alla Luiss di Roma. Negli anni 1980-90 Gela è una polveriera, con incendi e sparatorie fra clan rivali per la supremazia del territorio. I commercianti, la maggior parte dei quali si adeguava a pagare il pizzo, cominciavano a scalpitare, cercando di uscire da questo malcostume. Nel 1989, a seguito di una richiesta estorsiva, Gaetano Giordano sporge regolare denuncia. Il 10 novembre del 1992, senza che nulla facesse presagire quanto poi è successo, alle ore 20, Gaetano Giordano veniva ucciso sotto casa con cinque colpi alla schiena, mentre con il figlio, ferito nella sparatoria, stava rientrando a casa. Dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia si scoprirà che l’uccisione di Gaetano Giordano è stata decisa a sorte tramite estrazione del biglietto con il suo nome (altri 3 o 4 commercianti che come lui avevano denunciato erano segnati negli altri bigliettini come possibili vittime). All’età di 55 anni Gaetano Giordano cessava di vivere per mano di alcuni mafiosi, che verranno arrestati l’anno successivo. L’uccisione di Gaetano Giordano doveva essere un monito per negozianti e imprenditori che si rifiutavano di pagare il pizzo. Subito dopo i funerali, valutando le possibilità che erano date dalla presenza di alcuni parenti di Gaetano Giordano ad Almè, si è pensato di tumulare la salma nel cimitero del paese bergamasco. Tutto questo nasceva dall’incertezza per il futuro che aveva attanagliato la famiglia, che prevedeva entro breve di trasferirsi da Gela. Questo è il motivo per cui Gaetano Giordano è stato seppellito ad Almè.

    “Non posso piegarmi proprio ora” Serena Verrecchia

    Studentessa

    Gaetano Giordano non era un eroe. Aveva due figli ed era il proprietario di un noto negozio in pieno centro storico, a Gela. Conosceva la legge della mafia, sapeva benissimo di dover pagare il pizzo per non incappare in situazioni spiacevoli e pericolose per lui e per la sua famiglia; conosceva anche la storia di Libero Grassi e ne ricordava soprattutto l’epilogo, pertanto sapeva a cosa si andava incontro se si disobbediva alle leggi della mafia, ma tutto ciò non gli importava. O meglio, Gaetano era consapevole, più di tutti gli altri suoi concittadini, del fatto che, per riemergere dalle tenebre dell’incubo del pizzo e della sudditanza nei confronti dei poteri criminali, era necessaria una rivoluzione partecipata di tutto il popolo, una rivoluzione nella quale tutti i commercianti e gli imprenditori dovevano imporsi il coraggio di urlare il proprio “no” in faccia all’estorsore che, periodicamente, si presentava alle porte delle imprese per riscuotere il pizzo. La voglia di sentirsi partecipe di un’ondata di cambiamento fu il principio dell’odissea di Gaetano. Il suo estorsore era un ragazzino, uno di quei tipacci prelevati dalla strada troppo presto, un ventenne la cui massima aspirazione era ritrovarsi in galera nel giro di qualche anno. “Aveva la faccia da bambino e un sorriso innocente” ricorda Franca, la moglie dell’imprenditore. Si chiamava Ivano Rapisarda, per gli amici e colleghi “Ivano Pistola”, ed indubbiamente meno innocenti del suo sorriso erano le motivazioni che lo spingevano a bussare alla porta di Gaetano, il quale, alla richiesta della tassa da pagare alla mafia, aveva sempre risposto con un “no” secco e deciso. Tuttavia, Ivano Pistola non amava essere cacciato in malo modo dai negozi come un criminale qualunque, cosi ebbero inizio le ritorsioni e l’imprenditore iniziò a pagare le conseguenze del suo coraggio: dopo innumerevoli minacce, gli incendiarono il negozio e gli arrecarono danni per 200 milioni. Stanco di dover fare i conti con un’organizzazione che si sostituiva allo Stato e pretendeva forse più dello Stato,

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    Gaetano denunciò tutto ai carabinieri e il Pistola fini tra le sbarre senza deludere le aspettative. Cosa nostra però non poteva permettere che tutto ciò avvenisse senza intralci, cosi, il 10 novembre del 1992, decise di troncare la vita dell’imprenditore. Cinque colpi di pistola e la fine di un uomo che non amava reputarsi un eroe, anzi, quando si lodava il suo coraggio, era solito rispondere: “Io coraggioso? Macché. Io ho una fifa da matti. Ma non posso piegarmi proprio ora che i commercianti hanno fatto la rivoluzione con le denunce degli estorsori”. Gaetano Giordano non era un eroe; era semplicemente un imprenditore per il quale pagare il pizzo non sarebbe mai stato “normale” o necessario. Gaetano Giordano era un uomo normale, ma sappiamo benissimo che comportarsi da uomini normali, in alcune situazioni ed in determinate realtà, diviene qualcosa di eroico, dunque anche Gaetano Giordano è da considerarsi un eroe, della stessa tempra di coloro che tutt’oggi combattono la medesima battaglia per reclamare il proprio diritto alla Libertà e il proprio NO alle prepotenti richieste della mafia.

    Un uomo normale

    Tre domande a Michele Giordano, fratello di Gaetano, residente ad Almè

    Chi era Gaetano Giordano? Gaetano Giordano - visto non da un parente ma da un cittadino - era una persona normale. Per lui la normalità era alzarsi alla mattina, vivere la giornata, guardare al futuro e progredire. Gaetano è partito da niente: faceva il barbiere. Si era impegnato per costruirsi la vita che stava facendo. C’era riuscito, se non fosse accaduto quello che sappiamo. Quello che talvolta viene chiamato eroismo, in realtà per una persona normale come Gaetano era proprio la normalità. Se subisco una prevaricazione, non potendo superarla con le parole, mi rivolgo alle istituzioni perchè mi salvaguardino. C’è speranza che si affermi la legalità? Oggi ho letto sul quotidiano l’Avvenire la notizia di un allenatore di calcio che si è rivolto all’arbitro, affinché espellesse un proprio giocatore perchè aveva commesso un brutto fallo. Racconto questo episodio perchè penso che sia importante credere che esistono persone oneste che possono costruire una società più giusta. A Gaetano è stato intitolato un presidio di Libera. Cosa ne pensi? Oggi devo ringraziare Libera perchè mi ha aiutato a capire cosa significa ricordare una vittima di mafia. Vuol dire non restare indifferenti a quello che succede nella società e partecipare alla sua crescita nel rispetto reciproco e nell’onestà. Senza la memoria di chi è caduto per un ideale, davvero non c’e futuro.

    Impensabile pagare per stare tranquilli Intervista a Franca Evangelista

    moglie di Gaetano Giordano

    Il suo è un racconto che ostenta freddezza e per certi versi anche distacco, ma quando parla di suo marito e degli anni vissuti insieme, nella serenità familiare, le emozioni corrono veloci e Franca Evangelista, moglie di Gaetano Giordano, commerciante ucciso il 10 novembre del 1992, per riprendere fiato è costretta a tossire. Genovese di nascita, vedova da 20 anni, la Sicilia non l’ha mai voluta lasciare. Ricorda, racconta e punta l’indice contro chi lo merita, perchè tutto serve a dare speranza.

    dal sito www.antiracket.it Come seppe la notizia? Mi trovavo a Milano con mia figlia Tiziana, allora universitaria. Eravamo andate perchè dovevo fare un corso di aggiornamento per la cosmesi, visto che avevamo tre negozi di profumeria. Mia figlia mi aveva accompagnata perche doveva incontrare un’amica che studiava nel milanese. Quella sera saremmo dovute restare in albergo, ma il personale era in agitazione sindacale e andammo al ristorante. Mi chiamò un parente di mio marito, dicendomi che Gaetano e Massimo, mio figlio, avevano avuto un incidente e che mio marito era grave. Mi sembrò strano. Dal luogo di lavoro a casa saremmo potuti andare a piedi. L’incidente non poteva essere, mio marito aveva fatto quella strada milioni di volte. Cosa fece? Avevo il numero di telefono di un nostro amico che abitava nel nostro palazzo. Mio marito quel giorno era stato a pranzo da lui. Lo chiamai chiedendo notizie e fu lui a raccontarmi i suoi ultimi istanti di vita. Ha voglia di raccontarli?

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    Mio marito era sceso dalla macchina per rendere più agevole il parcheggio dell’auto che guidava mio figlio Massimo. Stavano facendo dei lavori lungo la strada e c’erano dei cumuli che dovevano poi servire all’opera. Gaetano fu colpito con cinque colpi alla schiena. Mio figlio solo ferito, per fortuna. Quando tornò a casa… Fui avvolta da un manto di solidarietà. Non avevo parenti stretti ed anche i miei suoceri erano lontani, ma i cugini di mio marito e gli amici non mi hanno lasciata per un attimo. Avevate immaginato una cosa del genere? Mai e poi mai. Se lo avessimo anche solo ipotizzato, avremmo continuato la nostra vita altrove. Quando nell’89 denunciammo la richiesta di estorsione, ci parve la cosa più naturale da fare. Ricordo solo che quella sera mio marito mi disse: “in fondo, se mi sparano, comunque ho già 50 anni”. Lo hanno poi ucciso a 55. Ora, a distanza di anni, mi chiedo ancora come si sia potuto arrivare a tanto. Si è data una risposta? So che la morte di mio marito è stata decisa tirando un bigliettino a sorte. E forse a porlo fra i bersagli da colpire, fu la testimonianza che gli fu richiesta tre anni dopo la denuncia. Ricordo che gli fu chiesto di confermare la versione dei fatti. Come ha vissuto poi? Ho continuato a lavorare, ma ridimensionando la nostra attività. Mi pesava entrare in quel negozio che era stato la causa di tutto. I primi anni mi faceva male anche stare in casa. Nel ‘99 mi sentivo pronta ad andarmene, ma poi è bastata un’altra opportunità lavorativa per continuare a restare dove ero stata con Gaetano. E Gela? Nell’89 c’erano già stati episodi di denunce ed i carabinieri ci somministravano dei test, che rimanevano anonimi, per capire forse come eravamo messi. La situazione era diventata insostenibile, anche se il centro di Gela veniva ancora poco toccato. Noi stessi abbiamo avuto un’unica richiesta estorsiva. Ci fu una sola volta anche per altri commercianti. Qualcuno però, allora come adesso, sceglie il silenzio. Si, ma non credo sia paura, credo sia un fatto di costume. E’ un silenzio dato dal quieto vivere e ci si ribella solo quando la tassa dell’antistato diventa troppo onerosa. Per me e mio marito sarebbe stato impensabile pagare per stare tranquilli. Come vive oggi, a distanza di 20 anni? Con la normalità che avrei vissuto con mio marito accanto. I nostri figli sono cresciuti, si sono sposati e abbiamo dei nipoti. Tutto è andato avanti cosi come doveva.

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    Definizione e brevi cenni di storia delle mafie a cura di Tarcisio Plebani

    (tratto e liberamente riadattato da testi di Umberto Santino) Stereotipi sulle mafie L’approccio alle mafie è spesso caratterizzato (implicitamente) da stereotipi che rendono difficile capire precisamente cosa sono e tanto meno intervenire efficacemente. Proviamo ad elencarne alcuni.

    • Le mafie vengono spesso affrontate come una emergenza: costituiscono un problema che sollecita le forze dello Stato e l’opinione pubblica a mobilitarsi solo quando uccidono, in particolare quando uccidono personaggi in vista. Ma per certi versi le mafie sono più pericolose quando non uccidono: si inabissano e quindi riescono ad operare senza destare allarme sociale. Inoltre significa che riescono ad affermare il loro dominio silenzioso sul territorio senza neppure aver bisogno di prove di forza perchè trovano minore opposizione.

    • Le mafie vengono viste come “anti-Stato”. In realtà le mafie si differenziano dalla comune criminalità, anche organizzata, proprio perché riescono a creare alleanze con settori delle istituzioni, a utilizzare lo Stato per i propri fini. Senza l’appoggio di uomini dello Stato e delle istituzioni, le mafie non sarebbero così potenti.

    • Le mafie sono una subcultura tipica del Sud, un modo di pensare, di essere che fa parte della natura dei meridionali, quasi un carattere antropologico difficilmente estirpabile. È uno stereotipo rassicurante, perché ne consegue che nel Nord le mafie non possono attecchire o comunque restano un fenomeno esogeno. Se fosse così però non si spiega come abbiano potuto diffondersi indisturbate in tutta Italia, con la complicità e l’appoggio di personaggi assolutamente lombardi e bergamaschi.

    • Le mafie sono un mondo “altro”, estraneo alla nostra vita quotidiana: si uccidono tra loro ed è meglio non immischiarsi nei loro affari; se non vengono disturbati, si fanno gli affari loro, per quanto loschi, ma non danno fastidio a noi, normali cittadini. Quindi la lotta alla mafia è una questione che riguarda polizia e magistratura. I testi che seguono in questo dossier dimostrano che ormai le mafie sono fortemente intrecciate con tutti i settori della nostra vita civile: anche se noi non ci occupiamo delle mafie, le mafie si occupano di noi.

    • Le mafie sono una piovra: sono dappertutto e sono invincibili. A questa convinzione opponiamo la semplice affermazione di Falcone: “le mafie sono in fatto umano e come tutti i fatti umani hanno avuto un inizio e avranno una fine”. Dipende anche da noi.

    Definizione Le mafie sono un insieme di organizzazioni criminali, che per mezzo di violenza, minaccia, illegalità e grazie a codice culturale condiviso e a un certo consenso sociale, ottengono il controllo del territorio e costruiscono reti di relazioni con ampie fasce della società, dell’economia, della politica (non c’è solo l’ala militare o l’organizzazione criminale: c’è anche una “borghesia mafiosa” che sostiene e fiancheggia lei criminali e ne trae vantaggio; l’importanza di questa azione di complicità più o meno diretta è stata riconosciuta con il reato di concorso esterno in associazione mafiosa). Il fine è l’accumulazione di profitto e l’acquisizione di potere. Tipi di mafie: Preferiamo sempre usare il plurale, per indicare la varietà della presenza delle mafie, la diversa origine territoriale e le caratteristiche specifiche che le differenziano: Cosa Nostra in Sicilia, la ‘ndrangheta in Calabria, la Camorra in Campania, la Sacra Corona Unita in Puglia. In realtà oggi tutte queste organizzazioni sono ben diffuse al di fuori dei territori che le hanno viste nascere, pur mantenendo solidi legami con la “casa madre”. A queste dovremmo aggiungere le mafie straniere che si stanno diffondendo in Italia, a volte con rapporti conflittuali, altre di collaborazione, alleanza o non belligeranza con quelle autoctone. Cenni storici Trascurando necessariamente i cosiddetti fenomeni premafiosi dal XVI al XIX secolo, possiamo distinguere 3 fasi della storia delle mafie (con privilegiata attenzione alla mafia più studiata: Cosa Nostra siciliana). a) Fase agraria: dall’Unità d’Italia (1861) agli anni ‘50 La Sicilia, come gran parte dell’Italia, ha una economia in assoluta prevalenza rurale; i rapporti sociali sono improntati al rispetto delle gerarchie sociali e delle tradizioni. Ma cominciano ad affacciarsi i primi fermenti di nuovi movimenti sociali. I grandi latifondisti utilizzano gli “uomini d’onore” per controllare con la violenza i contadini e reprimere le prime forme di sindacalismo. Negli anni 1891-94 nascono i Fasci siciliani, organizzazioni locali di contadini, con ispirazioni ideali e politiche diversificate, per ottenere migliori condizioni di lavoro. Uno degli strumenti di lotta utilizzati è l’occupazione delle terre, che crea tra i proprietari e la borghesia siciliana un forte allarme. Il Governo nazionale invia l’esercito, i Fasci vengono dichiarati fuorilegge e i capi processati; il movimento viene repressi con più di 100 morti. Il blocco dominante degli agrari, alleato con settori delle istituzioni statali e i poteri politici locali, si serve dei mafiosi come braccio operativo anche quando qualche uomo dello Stato cerca di contrastare i propri affari. Il primo omicidio eccellente è quello di Emanuele Notarbartolo (sindaco di Palermo e banchiere), che nel 1893 viene ucciso perché non indaghi sullo scandalo del Banco di Sicilia. Il mandante (on. Vito Palizzolo) verrà assolto.

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    Nel periodo fascista il prefetto Mori (1925-29) viene incaricato di una dura repressione della mafia siciliana: 11.000 mafiosi vengono arrestati, ma l’intervento della polizia è particolarmente molto violento anche nei confronti di chi non c’entra con la mafia. Quando però il prefetto Mori va a toccare gli strati più alti delle connivenze, viene mandato in pensione anticipata. Quando nel 1943 avviene lo sbarco alleato in Sicilia, i capi mafiosi (ad esempio Calogero Vizzini) vengono contattati da Alleati per assicurare ordine pubblico. Quando ancora la guerra è in corso al Nord, viene costituito il Partito separatista e bande armate (come quella del bandito Giuliano), in cui esponenti mafiosi hanno un ruolo non secondario: l’obiettivo è quello di condizionare l’unità nazionale antifascista. Così nel dopoguerra si susseguono gli attacchi, molto sanguinosi, nei confronti dei carabinieri e delle truppe dell’esercito italiano inviate in Sicilia. Ma l’episodio che ha rilevanza anche nazionale è quello di Portella della Ginestra: il 1° maggio 1947 contadini di diversi paesi dell’entroterra di Palermo rinnovano al tradizione di festeggiare la Festa dei Lavoratori su questo valico, con le famiglie. La banda di Giuliano spara con la mitragliatrice dai monti circostanti ed uccide 11 persone, provocando 50 feriti (tra cui molte donne e bambini). I veri mandanti della strage non si sapranno mai. L’alleanza delle forze antifasciste si rompe nel 1948 e in Sicilia si rinsalda il nuovo blocco di potere tra agrari e gruppi conservatori. Questi utilizzano i mafiosi per eliminare sindacalisti e politici avversari e a loro volta ne proteggono gli affari illegali. Cosa Nostra acquista potere e riconoscimento. b) Fase urbano-imprenditoriale: dalla metà degli anni ’50 agli anni ‘60 Anche nel Sud si sviluppa il settore economico del terziario, fortemente dipendente dalla spesa pubblica e dal sostegno della Cassa del Mezzogiorno e da altri interventi investimenti dello Stato. La speculazione edilizia fiorisce: sono gli anni del cosiddetto “sacco di Palermo”, la distruzione di quartieri storici e di terreni agricoli per la costruzione di grandi e squallidi palazzi; crescono le periferie senza servizi di alcun genere e senza regolazione. Il tutto può passare grazie alle autorizzazioni o ai silenzi delle pubbliche amministrazioni (sono gli anni in cui Vito Ciancimino è Sindaco di Palermo). Le attività mafiose si trasformano: centrali diventano l’acquisizione di appalti e di finanziamenti pubblici, tramite rapporti con gli amministratori pubblici amici e tramite l’intimidazione della concorrenza. Le attività economiche, commerciali e industriali, vengono gravate del “pizzo”, l’estorsione violenta, che permette l’accumulazione di capitali e il controllo capillare del territorio. Chi, nelle istituzioni, individua i rapporti della mafia con la politica viene assassinato brutalmente. Per citare solo alcuni nomi: 1971: Pietro Scaglione, procuratore di Palermo; 1979: Boris Giuliano, capo della Mobile di Palermo;

    Cesare Terranova, giudice Peppino Impastato.

    c) Fase finanziaria È la fase della grande accumulazione di capitali illegali: in Calabria hanno questo scopo i rapimenti, che avvengono in tutta Italia e che hanno nell’Aspromonte un nascondiglio eccellente, mentre in Sicilia sono soprattutto le estorsioni e le speculazioni edilizie ad assicurare denaro fresco. In entrambi i casi questi capitali vengono reinvestiti nel nuovo business emergente: l’acquisto di droga. Si intensificano i traffici internazionali e circuiti di riciclaggio del denaro ricavato. Così le mafie fanno il loro ingresso in ogni attività illegale o in attività economiche legali gestite con metodi illegali. Capitali acquisiti illegalmente si inseriscono in circuiti economici legali, rendendo difficile la distinzione. L’usura, favorita dalla disponibilità di denaro, consente gradualmente la colonizzazione delle aziende che avevano chiesto prestiti e non riescono a restituirli. Il rapporto con il sistema politico è caratterizzato per un verso dalla intimidazione di chi si oppone al potere mafioso, dall’altra parte da corruzione per ottenere favori (addirittura si intavolano trattative per influenzarlo e ottenere concessioni). Salvo Lima, uomo politico democristiano, della corrente andreottiana, è il mediatore di interessi tra politica e cosche mafiose: quando non riesce più ad ottenere ciò che serve alle cosche viene eliminato (marzo 1992: per inciso siamo alla vigila di “Mani Pulite” e si profila l’avvento della cosiddetta “Seconda Repubblica”). Negli anni ’80 Palermo e altre città della Sicilia sono insanguinate da una vera propria guerra di mafia tra cosche rivali per conquistare la “piazza”: emergono i corleonesi, capeggiati da Totò Riina e Bernardo Provenzano. La nuova Cupola mafiosa decide di aprire lo scontro con settori delle istituzioni statali, che cominciano seriamente a contrastarne la presenza: le uccisioni del giudice Chinnici, degli uomini politici Pio La Torre e Piersanti Mattarella, il Prefetto di Palermo generale Dalla Chiesa, fino ai giudici Falcone e Borsellino, che per la prima volta erano riusciti a portare a termine un maxi-processo contro Cosa Nostra e a farne condannare i capi. Nel 1993-94 per ottenere concessioni da parte dello Stato, viene inaugurata la strategia stragista, con gli attentati a Firenze, Milano, Roma, finalizzati a un non ancora chiarito disegno di trattativa con lo Stato. Ma emerge anche una nuova voglia della società civile di combattere le mafie e lo sforzo di forze dell’ordine e magistratura portano all’arresto di molti dei capi storici. Il resto è cosa dei nostri giorni: prevale la strategia dell’“immersione” (non meno pericolosa in quanto la gente rischia di abbassare la

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    guardia, di prestare meno attenzione al problema e di dare minor sostegno a chi si batte contro le mafie). Intanto prosegue la penetrazione delle mafie in altre regioni italiane e all’estero (al punto che la relazione della Direzione Nazionale Antimafia, riguardo ala Lombardia, parla di colonizzazione) ed emergono in modo sempre più prepotente altre mafie (la ‘ndrangheta in particolare) che conquistano nuovi spazi a livello nazionale e internazionale.

    Tre figure dell’antimafia: Peppino Impastato, Giorgio Ambrosoli e

    Paolo Borsellino a cura di Carlo Colombi

    Peppino Impastato

    Giuseppe Impastato, meglio noto come Peppino (Cinisi, 5 gennaio 1948 – Cinisi, 9 maggio 1978), è stato un giornalista, attivista e politico italiano, famoso per le denunce delle attività della mafia in Sicilia, che gli costarono la vita.

    Peppino Impastato nacque a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio 1948, da una famiglia mafiosa (il padre Luigi era stato inviato al confino durante il periodo fascista, lo zio e altri parenti erano mafiosi ed il cognato del padre era il capomafia Cesare Manzella, ucciso nel 1963 in un agguato nella sua Giulietta imbottita di tritolo).

    Ancora ragazzo rompe con il padre, che lo caccia di casa, ed avvia un'attività politico-culturale antimafiosa. Nel 1965 fonda il giornalino L'idea socialista e aderisce al PSIUP. Dal 1968 in poi, partecipa, con ruolo di dirigente, alle attività dei gruppi comunisti. Conduce le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell'aeroporto di Palermo, in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.

    Nel 1976 costituisce il gruppo Musica e cultura, che svolge attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti, ecc.); nel 1976 fonda Radio Aut, radio libera autofinanziata, con cui denuncia i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti (spesso chiamato "Tano Seduto" da Peppino), che avevano un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell'aeroporto. Il programma più seguito era Onda pazza, trasmissione satirica con cui sbeffeggiava mafiosi e politici.

    Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali. Viene assassinato nella notte tra l'8 e il 9 maggio del 1978, nel corso della campagna elettorale; col suo cadavere venne inscenato un attentato, atto a distruggerne anche l'immagine, in cui la stessa vittima apparisse come attentatore suicida, ponendo una carica di tritolo sotto il suo corpo adagiato sui binari della ferrovia. Pochi giorni dopo, gli elettori di Cinisi votano il suo nome, riuscendo ad eleggerlo, simbolicamente, al Consiglio comunale.

    Stampa, forze dell'ordine e magistratura parlano di atto terroristico in cui l'attentatore sarebbe rimasto vittima di suicidio dopo la scoperta di una lettera scritta in realtà molti mesi prima. L'uccisione, avvenuta in piena notte, riuscì a passare la mattina seguente quasi inosservata poiché proprio in quelle ore veniva "restituito" il corpo senza vita del presidente della DC Aldo Moro in via M. Caetani a Roma.

    L'attività del "Centro siciliano di documentazione", le accuse e le scoperte

    La matrice mafiosa del delitto viene individuata grazie all'attività del fratello Giovanni e della madre Felicia Impastato (1916 - 2004), che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa e grazie anche ai compagni di militanza e del Centro siciliano di documentazione di Palermo, fondato a Palermo nel 1977 da Umberto Santino e dalla moglie Anna Puglisi e dal 1980 intitolato proprio a Giuseppe Impastato. Sulla base della documentazione raccolta e delle denunce presentate viene quindi riaperta l'inchiesta giudiziaria.

    Il 9 maggio del 1979, il Centro siciliano di documentazione organizza, con Democrazia Proletaria, la prima manifestazione nazionale contro la mafia della storia d'Italia, a cui parteciparono 2000 persone provenienti da tutto il paese.

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    Nel maggio del 1984 l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del Consigliere istruttore Rocco Chinnici, che aveva avviato il lavoro del primo pool antimafia ed era stato assassinato nel luglio del 1983, emette una sentenza, firmata dal Consigliere Istruttore Antonino Caponnetto, in cui si riconosce la matrice mafiosa del delitto, attribuito però ad ignoti.

    Il Centro Impastato pubblica nel 1986 la storia di vita della madre di Giuseppe Impastato, nel volume La mafia in casa mia, e il dossier Notissimi ignoti, indicando come mandante del delitto il boss Gaetano Badalamenti, nel frattempo condannato a 45 anni di reclusione per traffico di droga dalla Corte di New York, nel processo alla Pizza connection.

    Nel gennaio 1988, il Tribunale di Palermo invia una comunicazione giudiziaria a Badalamenti. Nel maggio del 1992 lo stesso tribunale decide l'archiviazione del caso Impastato, ribadendo la matrice mafiosa del delitto, ma escludendo la possibilità di individuare i colpevoli e ipotizzando la possibile responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleati dei corleonesi.

    Nel maggio del 1994 il Centro Impastato presenta un'istanza per la riapertura dell'inchiesta, accompagnata da una petizione popolare, chiedendo che venga interrogato sul delitto Impastato il nuovo collaboratore della giustizia Salvatore Palazzolo, affiliato alla mafia di Cinisi. Nel marzo del 1996 la madre, il fratello e il Centro Impastato presentano un esposto in cui chiedono di indagare su episodi non chiariti, riguardanti in particolare il comportamento dei carabinieri subito dopo il delitto.

    Nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni di Palazzolo, che indica in Badalamenti il mandante dell'omicidio assieme al suo vice Vito Palazzolo, l'inchiesta viene formalmente riaperta. Nel novembre del 1997 viene emesso un ordine di cattura per Badalamenti, incriminato come mandante del delitto. Il 10 marzo 1999 si svolge l'udienza preliminare del processo contro Vito Palazzolo, mentre la posizione di Badalamenti viene stralciata.

    I familiari, il Centro Impastato, Rifondazione comunista, il Comune di Cinisi e l'Ordine dei giornalisti chiedono di costituirsi parte civile e la loro richiesta viene accolta. Il 23 novembre 1999 Gaetano Badalamenti rinuncia all'udienza preliminare e chiede il giudizio immediato.

    Nell'udienza del 26 gennaio 2000 la difesa di Vito Palazzolo chiede che si proceda con il rito abbreviato, mentre il processo contro Gaetano Badalamenti si svolgerà con il rito normale e in video-conferenza. Il 4 maggio, nel procedimento contro Palazzolo, e il 21 settembre, nel processo contro Badalamenti, vengono respinte le richieste di costituzione di parte civile del Centro Impastato, di Rifondazione comunista e dell'Ordine dei giornalisti.

    Nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia si è costituito un Comitato sul caso Impastato e il 6 dicembre 2000 è stata approvata una relazione sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Nella commissione si rendono note le posizioni favorevoli all'ipotesi dell'attentato terroristico poste in essere dai seguenti militari dell'arma: il Maggiore Tito Baldo Honorati; il maggiore Antonio Subranni; il maresciallo Alfonso Travali.

    Il 5 marzo 2001 la Corte d'assise ha riconosciuto Vito Palazzolo colpevole e lo ha condannato a trent'anni di reclusione. L'11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all'ergastolo.

    Giorgio Ambrosoli Giorgio Ambrosoli (Milano, 17 ottobre 1933 – Milano, 11 luglio 1979) è stato un avvocato italiano. Fu assassinato l'11 luglio 1979 da un sicario ingaggiato dal banchiere siciliano Michele Sindona, sulle cui attività Ambrosoli indagò nell'ambito dell'incarico di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana.

    Ambrosoli era un avvocato esperto in liquidazioni coatte amministrative. Dopo aver ricevuto, in famiglia, "un’educazione fondata su una robusta fede cattolica", in gioventù aveva militato nell'Unione monarchica italiana. Nel settembre 1974 fu nominato dal governatore della Banca d'Italia Guido Carli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana.

    Nel 1971 si addensarono sospetti sulle attività del banchiere siciliano Michele Sindona. La Banca d'Italia, attraverso il Banco di Roma, investigò sulle attività di Sindona nel tentativo di evitare il fallimento degli Istituti di credito da questi gestiti: la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria. Le scelte dell'allora governatore Guido Carli erano chiaramente motivate dalla volontà di non provocare il panico nei correntisti. Fu quindi accordato un prestito a Sindona, anche in virtù della benevolenza dell'amministratore delegato dell'istituto romano

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    Mario Barone. Quest'ultimo fu cooptato come terzo amministratore, modificando appositamente lo statuto della banca stessa, che ne prevedeva solo due: nel caso specifico, Ventriglia e Guidi.

    Fu accordato tale prestito con tutte le modalità e transazioni necessarie e fu incaricato il direttore centrale del Banco di Roma, Giovanbattista Fignon, di occuparsi della vicenda. Le banche di Sindona vennero fuse e prese vita la Banca Privata Italiana di cui Fignon divenne vice presidente ed amministratore delegato. Contro tutte le aspettative, Fignon andò a Milano a rivestire la carica e comprese immediatamente la gravità della situazione. Stese numerose relazioni, ricostruì le operazioni gravose messe in piedi da Sindona e dai suoi collaboratori e ne ordinò l'immediata sospensione.

    Il lavoro di Fignon non poteva essere sufficiente; nel settembre del 1974 consegnò a Giorgio Ambrosoli la relazione sullo stato della Banca. Fignon continuò nel suo operato, tanto da essere citato anche nelle agende dell'avvocato Ambrosoli, che nulla poteva immaginare di ciò che sarebbe seguito. Ciò che emerse dalle investigazioni indusse, nel 1974, a nominare un commissario liquidatore. Per il compito fu scelto Giorgio Ambrosoli.

    Commissario liquidatore

    In questo ruolo, Ambrosoli assunse la direzione della banca e si trovò ad esaminare tutta la trama delle articolatissime operazioni che il finanziere siciliano aveva intessuto, principiando dalla controllante società "Fasco", l'interfaccia fra le attività palesi e quelle occulte del gruppo. Nel corso dell'analisi svolta dall'avvocato emersero le gravi irregolarità di cui la banca si era macchiata e le numerose falsità nelle scritturazioni contabili, oltre alle rivelazioni dei tradimenti e delle connivenze di ufficiali pubblici con il mondo opaco della finanza di Sindona.

    Contemporaneamente a questa opera di controllo Ambrosoli cominciò ad essere oggetto di pressioni e di tentativi di corruzione. Queste miravano sostanzialmente a ottenere che avallasse documenti comprovanti la buona fede di Sindona. Se si fosse ottenuto ciò lo Stato Italiano, per mezzo della Banca d'Italia, avrebbe dovuto sanare gli ingenti scoperti dell'istituto di credito. Sindona, inoltre, avrebbe evitato ogni coinvolgimento penale e civile.

    Ambrosoli non cedette, sapendo di correre notevoli rischi. Nel 1975 indirizzò una lettera alla moglie in cui scrisse:

    « Anna carissima,

    è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I., atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una

    bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto

    e il fatto stesso di dover trattare con gente dì ogni colore e risma non tranquillizza affatto. E' indubbio che, in ogni caso, pagherò a

    molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione

    unica di fare qualcosa per il paese. Ricordi i giorni dell'Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti:

    ebbene, a quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l'incarico, ho avuto in mano un potere

    enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato - ne ho la piena coscienza - solo nell'interesse del paese, creandomi ovviamente

    solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver

    avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo.

    I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare

    centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo

    saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [... ] Abbiano

    coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami

    Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell'altro.. Sarà per te una vita dura,

    ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi (...) Giorgio »

    Ai tentativi di corruzione fecero presto seguito minacce esplicite. Malgrado ciò, Ambrosoli confermò la necessità di liquidare la banca e di riconoscere la responsabilità penale del banchiere.

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    Nel corso dell'indagine emerse, inoltre, la responsabilità di Sindona anche nei confronti di un'altra banca, la statunitense Franklin National Bank, le cui condizioni economiche erano ancora più precarie. L'indagine, dunque, vide coinvolta non solo la magistratura italiana, ma anche l'FBI.

    Nella sua indagine sulla banca di Sindona, Ambrosoli poté contare solo su Ugo La Malfa come referente politico, mentre il maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre gli fece da guardia del corpo. Nonostante le minacce di morte, infatti, ad Ambrosoli non fu accordata alcuna protezione da parte dello Stato. In Bankitalia, poté contare sul sostegno di Paolo Baffi, il governatore, e diMario Sarcinelli, capo dell'Ufficio Vigilanza, ma solo fino al marzo del 1979, quando entrambi furono incriminati per favoreggiamento e interesse privato in atti d'ufficio nel corso di un'inchiesta sul mancato esercizio della vigilanza sugli istituti di credito legata al caso Roberto Calvi-Banco Ambrosiano. Baffi si dimise il 16 agosto 1979, lasciando l'incarico di Governatore a Carlo Azeglio Ciampi, mentre per Sarcinelli fu eseguito il mandato di arresto in carcere.

    In un clima di tensione e di pressioni anche politiche molto forti, Ambrosoli concluse la sua inchiesta. Avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale il 12 luglio 1979.

    L'omicidio

    La sera dell'11 luglio 1979, rincasando dopo una serata trascorsa con amici, Ambrosoli fu avvicinato sotto il suo portone da uno sconosciuto. Questi si scusò e gli esplose contro quattro colpi .357 Magnum. Ad ucciderlo fu William Joseph Aricò, un sicario fatto appositamente venire dagli Stati Uniti e pagato con 25 000 dollari in contanti ed un bonifico di altri 90 000 dollari su un conto bancario svizzero.

    Nessuna autorità pubblica presenziò ai funerali di Ambrosoli, ad eccezione di alcuni esponenti della Banca d'Italia.

    Nel 1981, con la scoperta delle carte di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, si ha la conferma del ruolo della loggia massonica P2 nelle manovre per salvare Sindona.

    Il 18 marzo 1986 a Milano, Michele Sindona e l'italo-americano Robert Venetucci (un trafficante di eroina che aveva messo in contatto Sindona col killer) furono condannati all'ergastolo per l'uccisione dell'avvocato Ambrosoli.

    Omaggi postumi

    Giorgio Ambrosoli non ebbe grandi riconoscimenti, nonostante il sacrificio estremo con cui aveva pagato la sua onestà e il suo zelo professionale.

    Secondo Carlo Azeglio Ciampi, «Ambrosoli era il cittadino italiano al servizio dello Stato che fa con normalità e semplicità il suo compito e il suo dovere». Giulio Andreotti ha invece dichiarato: «è una persona che in termini romaneschi "se l'andava cercando"», per poi precisare di voler «fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto».

    Il primo omaggio alla figura di Ambrosoli fu il libro di Corrado Stajano, intitolato Un eroe borghese. Dal libro è stato tratto nel 1995 il film omonimo diretto da Michele Placido.

    Nell'anno 2000 il comune di Milano, durante il primo mandato del Sindaco Gabriele Albertini, dedicò una piccola piazza a Giorgio Ambrosoli in zona Corso Vercelli, e tre borse di studio di 5163,33 euro l'una.

    Nel 2009, Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, anch'egli educato nella fede cattolica, tanto che i genitori lo avevano mandato a studiare presso i Padri Rosminiani di Domodossola, pubblicò Qualunque cosa succeda, ricostruzione della vicenda del padre «sulla base di ricordi personali, familiari, di amici e collaboratori e attraverso le agende del padre, le carte processuali e alcuni filmati dell'archivio RAI» (dalla quarta di copertina). Nello stesso anno è morto l'altro figlio, Filippo, a causa di un malore.

    Il comune di Roma, durante il primo mandato del sindaco Walter Veltroni gli dedicò un Largo, in zona Nomentana. Ad Ambrosoli dedicarono vie, piazze e larghi anche altri comuni, tra cui Alessandria, Arcene, Bolzano, Corbetta, Cornate d'Adda, Desio, Firenze, Forlì, Landriano, Nova Milanese, Ravenna,Rodano, Reggiolo, San Donato Milanese, Scanzorosciate, Scandicci, Seveso, Treviso, Varese, Volvera. Il Comune di Ghiffa (sul Lago Maggiore), dove Giorgio Ambrosoli è sepolto, ha dedicato all'avvocato milanese il proprio lungolago.

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    Paolo Borsellino Primi anni

    Figlio di Diego Borsellino (1910 - 1962) e di Maria Pia Lepanto (1910 - 1997), Paolo Emanuele Borsellino nacque a Palermo nel quartiere popolare La Kalsa, in cui vivevano tra gli altri anche Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta. La famiglia di Paolo era composta dalla sorella maggiore Adele (1938 - 2011), dal fratello minore Salvatore (1942) e dall'ultimogenita Rita (1945).

    Dopo aver frequentato le scuole dell'obbligo Borsellino si iscrisse al liceo classico "Giovanni Meli" di Palermo. Durante gli anni del liceo diventò direttore del giornale studentesco "Agorà".

    L'11 settembre 1958 si iscrisse a Giurisprudenza a Palermo con numero di matricola 2301. Dopo una rissa tra studenti "neri" e "rossi" finì erroneamente anche lui di fronte al magistrato Cesare Terranova, cui dichiarò la propria estraneità ai fatti. Il giudice sentenziò che Borsellino non era implicato nell'episodio. Proveniente da una famiglia con simpatie politiche di destra, nel 1959 si iscrisse al Fronte Universitario d'Azione Nazionale, organizzazione degli universitari missini di cui divenne membro dell'esecutivo provinciale, e fu eletto come rappresentante studentesco nella lista del FUAN "Fanalino" di Palermo.

    Il 27 giugno 1962, all'età di ventidue anni, Borsellino si laureò con 110 e lode con una tesi su "Il fine dell'azione delittuosa" con relatore il professor Giovanni Musotto. Pochi giorni dopo, a causa di una malattia, suo padre morì all'età di cinquantadue anni. Borsellino si impegnò allora con l'ordine dei farmacisti a mantenere attiva la farmacia del padre fino al raggiungimento della laurea in farmacia della sorella Rita. Durante questo periodo la farmacia fu data in gestione per un affitto bassissimo, 120.000 lire al mese e la famiglia Borsellino fu costretta a gravi rinunce e sacrifici. A Paolo fu concesso l'esonero dal servizio militare poiché egli risultava "unico sostentamento della famiglia".

    Nel 1967 Rita si laureò in farmacia e il primo stipendio da magistrato di Paolo servì a pagare la tassa governativa.

    Il 23 dicembre 1968 sposò Agnese Piraino Leto, figlia di Angelo Piraino Leto (1909 - 1994), a quel tempo magistrato, presidente del tribunale di Palermo. Dalla moglie Agnese ebbe tre figli: Lucia (1969), Manfredi (1972) e Fiammetta (1973).

    La carriera in magistratura

    « L'equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest'uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c'è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati. »

    Nel 1963 Borsellino partecipò al concorso per entrare in magistratura; classificatosi venticinquesimo sui 171 posti messi a bando, con il voto di 57, divenne il più giovane magistrato d'Italia. Iniziò quindi il tirocinio come uditore giudiziario e lo terminò il 14 settembre 1965 quando venne assegnato al tribunale di Enna nella sezione civile. Nel 1967 fu nominato pretore a Mazara del Vallo. Nel 1969 fu pretore a Monreale, dove lavorò insieme ad Emanuele Basile, capitano dei Carabinieri. Proprio qui ebbe modo di conoscere per la prima volta la nascente mafia dei corleonesi.

    Il 21 marzo 1975 fu trasferito a Palermo ed il 14 luglio entrò nell'ufficio istruzione affari penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con Chinnici si stabilì un rapporto, più tardi descritto dalla sorellaRita Borsellino e da Caterina Chinnici, figlia del capo dell'Ufficio, come di "adozione"

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    non soltanto professionale. La vicinanza che si stabilì fra i due uomini e le rispettive famiglie fu intensa e fu al giovane Paolo che Chinnici affidò la figlia, che abbracciava anch'essa quella carriera, in una sorta di tirocinio. Nel febbraio 1980 Borsellino fece arrestare i primi sei mafiosi tra cui Giulio Di Carlo e Andrea Di Carlo legati a Leoluca Bagarella. Grazie all'indagine condotta da Basile e Borsellino sugli appalti truccati a Palermo a favore degli esponenti di Cosa Nostra si scopre il fidanzamento tra Leoluca Bagarella e Vincenza Marchese sorella di Antonino Marchese, altro importante Boss. Il 4 maggio 1980 Emanuele Basile fu assassinato e fu decisa l'assegnazione di una scorta alla famiglia Borsellino.

    Il pool antimafia

    In quell'anno si costituì il "pool" antimafia nel quale sotto la guida di Chinnici lavorarono alcuni magistrati (fra gli altri, Falcone, Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giovanni Barrile) e funzionari della Polizia di Stato (Cassarà e Montana).

    Nel racconto che ne fece lo stesso Borsellino, il pool nacque per risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano individualmente, separatamente, ognuno "per i fatti suoi", senza che uno scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue potesse consentire, nell'interazione, una maggiore efficacia con un'azione penale coordinata capace di fronteggiare il fenomeno mafioso nella sua globalità. Uno dei primi esempi concreti del coordinamento operativo fu la collaborazione fra Borsellino e l'appena "acquisito" Di Lello, che Chinnici aveva voluto e richiesto in squadra: Di Lello prendeva giornalmente a prestito la documentazione che Borsellino produceva e gliela rendeva la mattina successiva, dopo averla studiata come fossero "quasi delle dispense sulla lotta alla mafia". E presto, senza che le note divergenze politiche potessero essere di più che mera materia di battute, anche fra i due il legame professionale si estese all'amicizia personale. Del resto era proprio la formazione di una conoscenza condivisa uno degli effetti, ma prima ancora uno degli scopi, della costituzione del pool: come ebbe a dire Guarnotta, si andava ad esplorare un mondo che sinora era sconosciuto per noi in quella che era veramente la sua essenza.

    Nel pool andò formandosi una "gerarchia di fatto", come la chiamò Di Lello: fondata sulle qualità personali di Falcone e Borsellino, tributari di questa leadership per superiori qualità - sempre secondo lo stesso collega - di "grande intelligenza, grandissima memoria e grande capacità di lavoro"; ed i colleghi non l'avrebbero discussa, questa supremazia, anche per il timore di essere sfidati a sostituirli.

    Tutti i componenti del pool chiedevano espressamente l'intervento dello Stato, che non arrivò. Qualcosa faticosamente giunse nel 1982, a prezzo però di nuovo altro sangue "eccellente", quando dopo l'omicidio del deputato comunista Pio La Torre, il ministro dell'interno Virginio Rognoni inviò a Palermo il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio in Sicilia e contro la mafia aveva iniziato la sua carriera di ufficiale, nominandolo prefetto. E quando anche questi trovò la morte, 100 giorni dopo, nella strage di via Carini, il parlamento italiano riuscì a varare la cosiddetta "legge Rognoni-La Torre" con la quale si istituiva il reato di associazione mafiosa (l'articolo 416 bis del codice penale) che il pool avrebbe sfruttato per ampliare le investigazioni sul fronte bancario, all'inseguimento dei capitali riciclati; era questa la strada che Giovanni Falcone ed i suoi colleghi del pool maggiormente intendevano seguire, una strada anni prima aperta dalle indagini finanziarie di Boris Giuliano (sul cui omicidio investigava il capitano Basile quando fu a sua volta assassinato) a proposito dei rapporti fra il capomafia Leoluca Bagarella ed il losco finanziere Michele Sindona.

    Il 29 luglio 1983 fu ucciso Rocco Chinnici, con l'esplosione di un'autobomba, e pochi giorni dopo giunse a Palermo da Firenze Antonino Caponnetto. Il pool chiese una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 fu arrestato Vito Ciancimino, mentre Tommaso Buscetta ("Don Masino", come era chiamato nell'ambiente mafioso), catturato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia, iniziò a collaborare con la giustizia.

    Buscetta descrisse in modo dettagliato la struttura della mafia, di cui fino ad allora si sapeva ben poco. Nel 1985 furono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni l'uno dall'altro, il commissario Giuseppe Montana ed il vice-questore Ninni Cassarà. Falcone e Borsellino furono per sicurezza trasferiti nella foresteria del carcere dell'Asinara, nella quale iniziarono a scrivere l'istruttoria per il cosiddetto "maxiprocesso", che mandò alla sbarra 475 imputati. Si seppe in seguito che l'amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese ed un indennizzo per il soggiorno trascorso.

    Parallelamente si impegna all'interno degli organismi di rappresentanza dei giudici, come esponente di Magistratura Indipendente.

    A Marsala

    Borsellino chiese ed ottenne (il 19 dicembre 1986) di essere nominato Procuratore della Repubblica di Marsala. La nomina superava il limite ordinariamente vigente del possesso di alcuni requisiti principalmente relativi all'anzianità di servizio.

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    Secondo il collega Giacomo Conte la scelta di decentrarsi e di assumere un ruolo autonomo rispondeva ad una sua intuizione per la quale l'accentramento delle indagini istruttorie sotto la guida di una sola persona esponeva non solo al rischio di una disorganicità complessiva dell'azione contro la mafia, ma anche a quello di poter facilmente soffocare questa azione colpendo il magistrato che ne teneva le fila; questa collocazione, "solo apparentemente periferica", fu secondo questo autore esempio della proficuità di questa collaborazione a distanza.

    Di parere difforme fu Leonardo Sciascia, scrittore siciliano, il quale in un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera il 10 gennaiodel 1987, si scagliò contro questa nomina invitando il lettore a prendere atto che "nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso", a conclusione di un'esposizione principiata con due autocitazioni. Si tratta della nota polemica sui cosiddetti "professionisti dell'antimafia". Borsellino commentò (o lo citò) solo dopo la morte di Falcone, parlando il 25 giugno 1992 ad un dibattito, organizzato da La Rete e da MicroMega, sullo stato della lotta alla mafia dopo la Strage di Capaci: "Tutto incominciò con quell'articolo sui professionisti dell'antimafia.

    « Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni Falcone »

    (Durante il Convegno del La Rete del 25 giugno 1992)

    « Quando Giovanni Falcone solo, per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, ilConsiglio Superiore della Magistratura, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli. »

    (Durante il Convegno del La Rete del 25 giugno 1992)

    Secondo Umberto Lucentini, uno dei suoi biografi, Borsellino si era invece reso conto della crescente importanza delle cosche trapanesi, e di Totò Riina e Bernardo Provenzano, all'interno della rete criminale Cosa Nostra, che ad esempio intorno a Mazara del Vallo e nel Belice, facevano ruotare interessi notevoli che occorreva seguire da vicino.

    La fine del Pool ed il ritorno a Palermo

    Nel 1987, mentre il maxiprocesso si avviava alla sua conclusione con l'accoglimento delle tesi investigative del pool e l'irrogazione di 19 ergastoli e 2.665 anni di pena, Caponnetto lasciò il pool per motivi di salute e tutti (Borsellino compreso) si attendevano che al suo posto fosse nominato Falcone, ma il Consiglio Superiore della Magistratura non la vide alla stessa maniera e il 19 gennaio 1988 nominò Antonino Meli; sorse il timore che il pool stesse per essere sciolto.

    Borsellino parlò allora in pubblico a più riprese, raccontando quel che stava accadendo alla procura di Palermo. In particolare, in due interviste rilasciate il 20 luglio 1988 a la Repubblica ed aL'Unità, riferendosi al CSM, dichiarò tra l'altro espressamente: "si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all'Ufficio", "hanno disfatto il pool antimafia", "hanno tolto a Falcone le grandi inchieste", "la squadra mobile non esiste più", "stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa". Per queste dichiarazioni rischiò un provvedimento disciplinare (fu messo sotto inchiesta). A seguito di un intervento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, si decise almeno di indagare su ciò che succedeva nel palazzo di Giustizia.

    Il 31 luglio il CSM convocò Borsellino, il quale rinnovò accuse e perplessità. Il 14 settembre Antonino Meli, sulla base di una decisione fondata sulla mera anzianità di ruolo in magistratura, fu nominato capo del pool; Borsellino tornò a Marsala, dove riprese a lavorare alacremente insieme a giovani magistrati, alcuni di prima nomina. Iniziava in quei giorni il dibattito per la costituzione di una Superprocura e su chi porvi a capo, nel frattempo Falcone fu chiamato a Roma per assumere il comando della direzione affari penali e da lì premeva per l'istituzione della Superprocura.

    Nel settembre 1990 intervenne alla festa nazionale del Fronte della Gioventù a Siracusa, insieme al parlamentare regionale del MSI Giuseppe Tricoli, e agli allora dirigenti giovanili Gianni Alemanno e Fabio Granata.

    Con Falcone a Roma, Borsellino chiese il trasferimento alla Procura di Palermo e l'11 dicembre 1991 vi ritornò come Procuratore aggiunto, insieme al sostituto Antonio Ingroia.

    Il cammino segnato

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    Nel settembre del 1991, la mafia aveva già abbozzato progetti per l'uccisione di Borsellino. A rivelarlo fu Vincenzo Calcara, picciotto della zona di Castelvetrano cui la Cupola mafiosa, per bocca di Francesco Messina Denaro (capo della cosca di Trapani), aveva detto di tenersi pronto per l'esecuzione, che si sarebbe dovuta effettuare o mediante un fucile di precisione, o con un'autobomba. Assai onorato dell'incarico, che gli avrebbe consentito la scalata di qualche gradino nella gerarchia mafiosa, il mafioso attendeva l'ordine di entrare in azione come cecchino qualora si fosse propeso per questa soluzione.

    Ma Calcara fu arrestato il 5 novembre e la sua situazione in carcere si fece assai pericolosa poiché, secondo quanto da lui stesso indicato, aveva in precedenza intrecciato una relazione con la figlia di uno dei capi di Cosa Nostra, uno sbilanciamento del tutto contrario alle "regole" mafiose e sufficiente a costargli la vita; se da latitante poteva ancora essere utilizzato per "lavori sporchi", da carcerato invece gli restava solo la condanna a morte emessa dall'organizzazione. Prima che finisse il periodo di isolamento, Calcara decise di diventare collaboratore di giustizia e si incontrò proprio con Borsellino, al quale, una volta rivelatogli il piano e l'incarico, disse: "lei deve sapere che io ero ben felice di ammazzarla". Dopo di ciò, raccontò sempre il pentito, gli chiese di poterlo abbracciare e Borsellino avrebbe commentato: "nella mia vita tutto potevo immaginare, tranne che un uomo d'onore mi abbracciasse".

    Soltanto nel 2012 si è venuto a sapere, da una rivelazione rilasciata in tribunale del colonnello Umberto Sinico, sentito come testimone, che Borsellino non solo era a conoscenza di essere nel mirino di Cosa Nostra, ma che preferiva che non si stringesse troppo la protezione attorno a sé, così da evitare che Cosa Nostra scegliesse come bersaglio qualcuno della sua famiglia.

    Elezione del Presidente della Repubblica e Capaci

    Il pomeriggio del 19 maggio 1992, nel corso dell'XI scrutinio delle elezioni presidenziali, l'allora segretario del MSI Gianfranco Fini diede indicazione ai suoi parlamentari di votare per Paolo Borsellino come Presidente della Repubblica, che ottenne in quello scrutinio 47 preferenze, al sedicesimo scrutinio (avvenuto dopo la strage di Capaci) fu eletto Oscar Luigi Scalfaro.

    Il 23 maggio 1992, in un attentato dinamitardo sull'autostrada di Capaci, persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani eRocco Dicillo.

    « Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninni Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: "Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano". »

    (Paolo Borsellino, intervista a Lamberto Sposini dell'inizio di luglio)

    Dichiarazioni e rifiuti

    Borsellino rilasciò interviste e partecipò a numerosi convegni per denunciare l'isolamento dei giudici e l'incapacità o la mancata volontà da parte della politica di dare risposte serie e convinte alla lotta alla criminalità. In una di queste Borsellino descrisse le ragioni che avevano portato all'omicidio del giudice Rosario Livatino e prefigurò la fine (che poi egli stesso fece) che ogni giudice "sovraesposto" è destinato a fare.

    Alla presentazione di un libro alla presenza dei ministri dell'interno e della giustizia, Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, nonché del capo della polizia Vincenzo Parisi, dal pubblico fu chiesto a Borsellino se intendesse candidarsi alla successione di Falcone alla "Superprocura"; alla sua risposta negativa Scotti intervenne annunciando di aver concordato con Martelli di chiedere al CSM di riaprire il concorso ed invitandolo formalmente a candidarsi. Borsellino non rispose a parole, sebbene il suo biografo Lucentini abbia così descritto la sua reazione: "dal suo viso trapela una indignazione senza confini"". Rispose al ministro per iscritto, giorni dopo: "La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento".

    La strage di via d'Amelio

    Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove viveva sua madre.

    Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa 100 kg di esplosivo a bordo (semtex e/o tritolo) detonò al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta.

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    Il 24 luglio diecimila persone partecipano ai funerali privati di Borsellino (i familiari rifiutarono il rito di Stato, poiché la moglie Agnese Borsellino, accusava il governo di non aver saputo proteggere il marito, voleva una cerimonia privata senza la presenza dei politici), celebrati nella chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac, disadorna e periferica, dove il giudice era solito sentir messa, quando poteva, nelle domeniche di festa. L'orazione funebre la pronuncia Antonino Caponnetto, il vecchio giudice che diresse l'ufficio di Falcone e Borsellino: «Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi». Pochi i politici: il presidente Scalfaro, Francesco Cossiga, Gianfranco Fini, Claudio Martelli. Il funerale è commosso e composto, interrotto solo da qualche battimani. Qualche giorno prima, i funerali dei 5 agenti di scorta si svolsero nella Cattedrale di Palermo, ma all'arrivo dei rappresentanti dello stato (compreso il neo Presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro), una folla inferocita sfondò la barriera creata dai 4000 agenti chiamati per mantenere l'ordine, la gente mentre strattonava e spingeva, gridava "FUORI LA MAFIA DALLO STATO". Il Presidente della Repubblica venne tirato fuori a stento dalla calca, venne spintonato anche il capo della polizia.

    Pochi giorni prima di essere ucciso, durante un incontro organizzato dalla rivista MicroMega, così come in un'intervista televisiva a Lamberto Sposini, Borsellino aveva parlato della sua condizione di "condannato a morte". Sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra e sapeva che difficilmente la mafia si lascia scappare le sue vittime designate.

    Antonino Caponnetto, che subito dopo la strage aveva detto, sconfortato, "Non c'è più speranza...", intervistato anni dopo da Gianni Minà ricordò che "Paolo aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell'attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l'abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze".

    Una settimana dopo la strage, la giovanissima testimone di giustizia Rita Atria, che proprio per la fiducia che riponeva nel giudice Borsellino si era decisa a collaborare con gli inquirenti pur al prezzo di recidere i rapporti con la madre, si uccise.

    L'eredità

    « Io accetto la... ho sempre accettato il... più che il rischio, la... condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli. Il... la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in... in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare... dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro. »

    (Paolo Borsellino, intervista a Sposini, inizio luglio 1992)

    La figura di Paolo Borsellino, come quella di Giovanni Falcone, ha lasciato un grande esempio nella società civile e nelle istituzioni.

    Alla sua memoria sono state intitolate numerose scuole e associazioni, nonché (insieme all'amico e collega) l'aeroporto internazionale "Falcone e Borsellino" (ex "Punta Raisi", Palermo), un'aula della facoltà di Giurisprudenza all'Università di Roma La Sapienza e l'aula del consiglio comunale della città di Castellammare di Stabia. Anche la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Brescia ha intestato una delle sue aule più suggestive di Palazzo dei Mercanti ai giudici Falcone e Borsellino. Dal 2011, l’aula delle udienze della Corte d’Appello di Trento è dedicata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

    « Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene concesso. Borsellino, invece, era di un'altra tempra, andò incontro alla morte con una serenità e una lucidità incredibili. »

    (Antonino Caponnetto, intervista a Gianni Minà, maggio 1996)

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    Le mafie in Lombardia Dalle infiltrazioni alla colonizzazione

    di Lorenzo Frigerio

    Le mafie sono presenti a Milano e in Lombardia da diversi decenni e, oggi più che mai, rappresentano una pericolosa minaccia per la convivenza civile e democratica. Risale agli inizi degli anni sessanta il progressivo insediamento delle mafie dovuta all’applicazione della misura del soggiorno obbligato, che porta in Lombardia, a Milano soprattutto, molti uomini delle cosche. Da quel momento è un lento diffondersi della presenza mafiosa, prima con il controllo delle bische e del contrabbando, poi con i sequestri di persona, per finire ai nostri giorni con il dominio del mercato delle sostanze stupefacenti e le infiltrazioni negli appalti pubblici. A testimonianza dell’inquinamento del sistema finanziario ed economico milanese, l’11 luglio del 1979, viene ucciso da un killer della mafia italoamericana Giorgio Ambrosoli1, il coraggioso e inflessibile avvocato liquidatore della banca privata italiana di Michele Sindona, crocevia di operazioni di riciclaggio delle cosche. Il posto di Sindona viene poi preso da Roberto Calvi che porta il Banco Ambrosiano al fallimento per ripianare gli investimenti fatti per conto della mafia. A metà degli anni novanta, il bilancio finale della lunga stagione dei processi nati dalle inchieste della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano è di quasi 3.000 persone condannate per associazione mafiosa, oltre al sequestro di ingenti patrimoni: cifre di gran lunga superiori a quelle che si registrano nello stesso periodo in realtà come Palermo e Napoli. Nello stesso periodo, i riflettori dell’opinione pubblica a Milano sono puntati sulle molte inchieste di Tangentopoli. Proprio le inchieste sulla corruzione evidenziano come il sistema mafioso prospera grazie al costante rapporto con politica e istituzioni. Altro segnale inquietante della presenza mafiosa in città è l’attentato di via Palestro, nella stagione della cosiddetta “trattativa” tra Stato e antistato, quando il 27 luglio del 1993 una bomba ad alto potenziale distrugge parte del Padiglione di Arte Contemporanea e provoca la morte violenta del vigile urbano Alessandro Ferrari, dei pompieri Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno e del cittadino marocchino Driss Moussafir. I numeri delle mafie Tutti i documenti ufficiali di magistratura e forze dell’ordine, licenziati recentemente, raccontano di una presenza capillare e diffusa delle cosche in città e nella regione, a motivo della centralità dell’una e dell’altra nei processi decisionali economici e politici del nostro Paese. La Lombardia secondo le statistiche è la prima regione per traffico di cocaina e delle altre sostanze stupefacenti: Milano è la piazza dove si fa il prezzo delle sostanze per tutto il nord Europa. La Lombardia è la prima regione per segnalazione di operazioni sospette in tema di riciclaggio all’Ufficio Informazione Finanziaria e offre numerose e diversificate possibilità di reimpiego dei capitali accumulati illecitamente dalle cosche. La Lombardia è la terza regione per numero di aziende confiscate alla criminalità organizzata. La Lombardia è la quinta regione per numero di beni immobili confiscati, anche se negli ultimi anni si è trovato in posizioni più elevate, tenendo conto delle singole annualità relative alle confische. Milano e la Lombardia sono il crocevia dei tanti traffici illeciti delle mafie transazionali che oggi prosperano sulla caduta delle frontiere in Europa e movimentano ingenti masse di denaro e merci di tutti i tipi, compresi gli esseri umani. 1 Stajano Corrado, Nel 2015 la città e la regione saranno la sede di un grande evento internazionale, Expo 2015 che movimenterà non solo presenze e relazioni, ma anche ingenti quantità di risorse, sulle quali, è prevedibile, abbiano già puntato le organizzazioni criminali. 2010, il brusco risveglio Nel 2010 Milano e la Lombardia si svegliano dal lungo torpore di questi ultimi decenni e si trovano la mafia sull’uscio di casa. È un brusco risveglio: evidentemente si è persa la memoria di quanto avvenuto a metà degli anni novanta, con la DDA milanese che mandò alla sbarra e fece condannare quasi tremila affiliati alle cosche. Oggi i tempi sono cambiati, ma a differenza della polvere che si nasconde sotto il tappeto, per dare l’impressione che la casa sia pulita, non è più possibile liquidare nell’indifferenza boss e picciotti e, quindi, il loro ruolo ingombrante deve essere analizzato e metabolizzato se si vuole trarre utile insegnamento da quanto è accaduto e rafforzare gli anticorpi. Prima tocca al clan Valle e poi all’operazione “Infinito/Il Crimine”, che interessa Lombardia e Calabria, colpendo al cuore la più pericolosa delle mafie, la ’ndrangheta calabrese. C’è spazio anche per la vicenda di una donna, Lea Garofalo, che rompe coraggiosamente con il suo passato, ma trova la morte a Milano. Anche questa terribile storia racconta del potere mafioso in città. Da Reggio Calabria a Vigevano Una vasta operazione antimafia guidata dalla DDA di Milano, che ha visto la partecipazione di circa 250 agenti di ben sedici questure, in accordo con il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato; settanta perquisizioni effettuate in tutto il territorio italiano; quindici persone finite in manette con pesanti accuse che vanno dall’associazione di tipo mafioso all’usura, passando per l’intestazione fittizia di beni; 138 tra immobili e altri beni aziendali sequestrati, infine, provento dell’attività usuraria per un valore che oscilla tra gli 8 e i 10 milioni di euro. È questo l’importante bilancio tracciato dai magistrati Ilda Boccassini, Daniela Dolci, Paolo Storari, dal capo della Squadra Mobile Alessandro Giuliano e da Raffaele Grassi dello SCO, al termine delle operazioni di polizia, che interessano in particolar modo la Lombardia tra mercoledì 30 giugno e giovedì 1 luglio. Al centro dell’inchiesta un clan storico della ’ndrangheta, legato da vincoli epocali con i potenti

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    boss Di Stefano di Reggio Calabria. Stiamo parlando del clan Valle, da tempo insediatosi tra Vigevano e Milano, il primo clan a cui vennero sequestrati e poi confiscati beni in Lombardia e riutilizzati a fini sociali, grazie alla legge 109/96 promossa da Libera. La presenza della famiglia Valle in Lombardia risale alla fine degli anni settanta, una presenza dovuta, da un lato, all’esigenza criminale di espandersi in nuovi territori e, dall’altro, motivata dai furori della guerra intestina contro i clan rivali dei Geria-Rodà, che in quegli anni aveva mietuto vittime da una parte e dall’altra nel territorio di origine. È però nel decennio successivo che il clan allarga la propria sfera d’influenza muovendo dalla provincia pavese, in particolare Vigevano, verso Milano, passando dall’hinterland sud ovest del capoluogo. Alla guida del sodalizio criminale il capostipite Francesco Valle, di 72 anni, supportato dai figli Fortunato e Angela, sposata con Francesco Lampada, altro rampollo di famiglia mafiosa proveniente da Reggio Calabria, finito lui pure in manette. Usura e investimenti Il patriarca si occupava in prima persona degli affari di famiglia, incentrati soprattutto sui business dell’usura e dell’estorsione. Le somme che “venivano prestate” partivano da un minimo di 20mila euro per arrivare anche a un massimale di 250mila euro mentre il tasso di interesse accordato era del 20%: condizioni capestro dalle quali era difficilissimo rientrare per chiunque. I proventi delle attività illecite erano poi reinvestiti in attività commerciali e immobiliari, grazie anche all’ausilio di compiacenti prestanome, ai quali erano intestati esercizi commerciali e quote aziendali. Al clan sono state ricondotte, per il momento, ben 34 tra società e aziende. In particolare, gli imprenditori Cusenza e Mandelli avrebbero permesso ai Valle di estendere la loro «sfera di influenza interessandosi a operazioni legate alle costruzioni immobiliari». La zona oggetto di interesse sarebbe quella ricadente nei comuni di Rho e di Pero, alle porte di Milano, interessate in prima battuta dalle opere connesse al prossimo Expo 2015. Al momento risultano solo diciassette casi di prestito abusivo di denaro e cinque vittime di usura, ma gli inquirenti ritengono che gli imprenditori vittime del clan siano molti, molti di più. Il giudice Boccassini ha ricordato in conferenza stampa che le indagini, durate circa due anni, non sono nate da segnalazioni o denunce e questo è un aspetto assolutamente negativo che rivela un totale assoggettamento del tessuto civile e imprenditoriale dell’area: «Parte della cittadinanza milanese si comportava con questa organizzazione al pari di quello che succede a Locri, a Trapani o in Sicilia, nel senso che avevano il rispetto totale». Il magistrato rivolge tramite i mass media anche un accorato appello alla classe imprenditoriale perché denunci: «O si sta con lo Stato o si sta contro lo Stato. Nei casi borderline, quando c'è connivenza la linea della Procura sarà durissima. Non si possono avere alibi». Clima di omertà? Palese connivenza? Diffusa rassegnazione? Sfiducia nelle istituzioni? Difficile dare una risposta univoca, anche se il quadro che emerge è davvero inquietante. Nessuno ha parlato, mentre tutti continuavano a subire. Se non fosse stato per il tanto vituperato strumento delle intercettazioni telefoniche, diff