SOLITUDINI MIGRANTI - cesevoca.it · 3.2.2 Pensiero interculturale: tra Decostruzione e Costruzione...

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FOGGIA FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA FORMAZIONE CONTINUA Tesi di laurea in DIDATTICA GENERALE SOLITUDINI MIGRANTI DAI SERVIZI DI ASSISTENZA ALL’INTERCULTURA Relatore: Chiar.ma Prof.ssa LAURA MARCHETTI Candidata: ANNA MARIA RAINONE Anno accademico 2011/2012

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FOGGIA

FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA FORMAZIONE CONTINUA

Tesi di laurea

in

DIDATTICA GENERALE

SOLITUDINI MIGRANTI DAI SERVIZI DI ASSISTENZA ALL’INTERCULTURA

Relatore:

Chiar.ma Prof.ssa

LAURA MARCHETTI

Candidata:

ANNA MARIA RAINONE

Anno accademico 2011/2012

“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi,

anche voi fatelo a loro.”

i

INDICE

INTRODUZIONE

Capitolo I

L’ESPERIENZA DI TIROCINIO:

I SERVIZI DI PRIMA ACCOGLIENZA PER MIGRANTI 1.1 L’esperienza del tirocinio

1.2 Il Centro Studi Diomede

1.3 Il progetto “Diomede risponde”

1.4 “Mappa dei servizi di prima accoglienza per migranti”

1.5 Il valore formativo del tirocinio

1.6 Ostacoli e traguardi

1.7 Méta del tirocinio e la scoperta di una realtà nuova

Capitolo II IL DISAGIO MIGRANTE

2.1 Migrazioni in aumento: dati statistici

2.2 L’immigrato: una “categoria” sospesa tra integrazione e nostalgia

2.3 L’inferno dell’estrema solitudine

2.4 Il modello patologico dell’immigrato

2.4.1 Le origini storiche

2.4.2 Effetti dell’emigrazione di massa: derive psicopatologiche 2.5 Passaggi di confine: la relazione terapeutica e una nuova metodologia di

indagine e di cura

2.5.1 L’etnopsichiatria

Capitolo III

NUOVI BISOGNI EDUCATIVI E PRATICHE DI INTERCULTURA

3.1 La comunità globale: terreno di nuovi bisogni educativi

3.2 Intercultura: emergenza e sfida per la costruzione di una nuova

Forma mentis

3.2.1 Le strutture dell’intercultura

3.2.2 Pensiero interculturale: tra Decostruzione e Costruzione

3.3 Il ruolo della pedagogia e le pratiche dell’intercultura

3.4 L’educazione interculturale: a scuola e non solo

3.5 La scuola: laboratorio di ricerca delle differenze e spazio d’incontro

3.5.1 La “Didattica della carezza”

3.5.2 Il contributo dei Programmi Ministeriali

3.5.3 Il contributo dei documenti normativi e regolamentari

3.6 Le radici dell’educazione interculturale nella Dichiarazione

sulla razza e sui pregiudizi razziali

3.7 Conclusioni

ii

APPENDICE

Breve rassegna delle leggi sull’immigrazione in Italia

BIBLIOGRAFIA

RIVISTE

SITOGRAFIA

RINGRAZIAMENTI

1

INTRODUZIONE

Motivo ispiratore del presente lavoro è l’esperienza di tirocinio svolta presso il

“Centro Studi Diomede”di Castelluccio dei Sauri, in collaborazione con il

Ce.Se.Vo.Ca. (Centro di Servizi per il Volontariato di Capitanata) di Foggia. Nel

primo capitolo, alla breve presentazione di queste due associazioni, segue

l’esposizione del progetto “Diomede Risponde” del Centro Studi, che si colloca

nell’ambito delle numerose iniziative condotte da esso a favore e a sostegno

dell’immigrazione, in direzione di un positivo inserimento nel nostro tessuto sociale.

L’esperienza formativa del tirocinio si colloca proprio all’ interno di queste attività,

ed è consistita nella realizzazione della terza edizione di una “Pianta della città di

Foggia dei servizi gratuiti di prima accoglienza per i migranti”. La mappa propone

una fotografia dettagliata dei servizi di accoglienza offerti da associazioni di

volontariato, enti, parrocchie e istituzioni della città di Foggia per il primo

inserimento dei migranti che arrivano in città. Questo lavoro ha acceso i riflettori su

una realtà sfaccettata e complessa, méta di numerosi viaggi di speranza da parte di

molti, che per ragioni diverse, abbandonano il proprio paese ed ha aperto la

riflessione del secondo capitolo sulla condizione del disagio migrante e sulla

condizione dolorosa di estrema solitudine che esso vive nel nostro paese,

profondamente lacerato dall’abbandono delle sue origini e dall’ostilità incontrata

nel paese ospitante.

Il fulcro della dissertazione è rappresentato dall’esplorazione del disagio del

migrante, partendo dall’analisi del pericolo della categorizzazione che stigmatizza

l’esistenza di ciascuno in un’entità astratta, cancellando le peculiarità

dell’individuo, fino al sentimento della nostalgia per il luogo natìo. Questi sentimenti

2

sono in alcuni casi la causa scatenante di un modello patologico che richiede un

approccio specifico ed adeguato, rappresentato dalla nuova pratica

dell’etnopsichiatria. Facendo appello agli studi condotti nel tempo sul tema della

relazione tra migrazione e salute mentale, il lavoro delinea le caratteristiche

essenziali di questo modello patologico e i fattori di rischio che conducono alla

formazione di esso. Conseguentemente l’elaborato si sofferma sul concetto di

“passaggio di confine” che riguarda la condizione del migrante, ma che ritengo

dovrebbe caratterizzare anche l’approccio del terapeuta che si confronta con esso,

cui si richiede di oltrepassare i propri confini disciplinari ed una messa in

discussione delle pratiche abituali. Questo concetto a conclusione del secondo

capitolo, porta a tracciare le caratteristiche della nuova relazione terapeutica e

della nuova metodologia di indagine incarnati dall’etnopsichiatria, quale pratica

efficace per la cura del disagio migrante, nei casi in cui esso assume le vesti della

psicopatologia.

La tesi prendendo atto del vortice di cambiamenti sociali e culturali che sta

investendo la società odierna si propone l’intento di dimostrare il ruolo cruciale e

insostituibile dell’educazione e della scuola nella costruzione di un ambiente di

confronto, scambio e collaborazione tra le tante diversità che si incontrano nella

comunità globale, mediante le pratiche dell’intercultura. La comunità globale,

brevemente tratteggiata all’inizio del terzo Capitolo, diviene il terreno in cui

emergono nuovi bisogni educativi che trovano risposta nell’ampio orizzonte delle

pratiche dell’intercultura. Per questo motivo l’elaborato prosegue passando in

rassegna le strutture basilari di tali pratiche: lo sguardo antropologico, la differenza

e il dialogo, che ci permettono di cogliere il significato profondo dell’intercultura,

3

quale mezzo efficace che consente di sradicare da un lato le radici del razzismo e

della xenofobia e dall’altro il germe del disagio del migrante. L’ educazione

interculturale, che si realizza all’interno di una scuola accogliente, si esplica nella

Didattica della carezza, una didattica cooperativa e corporea capace di creare

forme di convivenza costruttiva tra le diversità. L’educazione interculturale, che

trova il suo compimento a scuola nel contributo di Programmi Ministeriali e di

documenti normativi, facendo appello ai valori universali della dignità e

dell’uguaglianza di tutti gli uomini, costruisce nella odierna società multietnica le

premesse per la realizzazione del progetto di una convivenza pacifica tra popoli e

culture diverse, favorendo la conoscenza globale dell’uomo e riconoscendo la

diversità come la vera ricchezza del genere umano. In conclusione, l’ampia

discussione sul concetto di intercultura e sulle sua pratiche, ci permette di cogliere,

riconoscere e dimostrare le enormi potenzialità dell’educazione, la quale, se

opportunamente orientata, può condurre alla formazione di una cittadinanza

planetaria, che non patisce più il razzismo, il pregiudizio, la xenofobia, né conosce

più il disagio e la solitudine estrema.

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CAPITOLO I

L’ESPERIENZA DI TIROCINIO:

I SERVIZI DI PRIMA ACCOGLIENZA PER MIGRANTI

1.1 L’esperienza del tirocinio

Primo tassello indispensabile per la costruzione dell’intero lavoro è rappresentato

dall’esperienza del tirocinio formativo che ha contraddistinto alcuni mesi del

percorso universitario, imprimendovi una traccia significativa, tanto da divenire

motivo ispiratore dell’elaborato conclusivo di questo percorso.

La trattazione che segue intende esporre ed analizzare le diverse fasi del tirocinio, col

fine di far emergere la portata educativa e formativa che esso ha avuto sia sotto il

profilo professionale che umano.

Durante il suo svolgimento, l’esperienza in questione si è arricchita di nuovi elementi

che hanno contribuito a “popolarla” di numerosi spunti di riflessione sulla realtà e

sulle nuove frontiere che la caratterizzano.

Inoltre il percorso del tirocinio, mettendo alla prova abilità relazionali e

organizzative, ha prodotto la crescita e l’ampliamento del personale bagaglio

empirico e cognitivo, mettendo spesso in discussione certezze e riferimenti

puramente teorici. Questo tempo di formazione ha incontrato diversi ostacoli, che

una volta superati, hanno permesso di approdare alla scoperta di una nuova realtà

multiforme. Questa realtà è quella che vediamo delinearsi sotto i nostri occhi, nel

nostro Paese, dai più piccoli centri alle grandi città, in ogni settore di vita, ed è su

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questa che soffermeremo la nostra attenzione nel prosieguo del lavoro, sottolineando

l’importanza e l’urgenza di proposte formative che siano in grado di rispondere alle

esigenze che da essa emergono. La panoramica del tirocinio offerta di seguito,

rappresenta infatti l’incipit dell’analisi sviluppata nei capitoli successivi sul

fenomeno migratorio, sugli effetti, sulle reazioni e sui bisogni che esso produce.

1.2 Il Centro Studi Diomede

L’esperienza di tirocinio è stata svolta nel periodo intercorso tra il 20 settembre 2010

e il 23 dicembre 2010, presso il “Centro Studi Diomede” sito a Castelluccio dei

Sauri, in provincia di Foggia.

Il Centro Studi Diomede è un’associazione ONLUS di volontariato che opera

nell’ambito della cultura dal 1998 nella Provincia di Foggia diffondendo i valori

della solidarietà e dell’intercultura. Il lavoro del Centro Studi coinvolge diverse

persone quali soci, dipendenti, collaboratori occasionali, professionisti e volontari

che svolgono diverse mansioni, compatibilmente con il proprio impiego, nell’arco

della settimana dal lunedì al venerdì nelle ore di apertura della sede.

L’attività sociale del Centro Studi Diomede è rivolta non solo alla promozione della

cultura e della lettura dei ragazzi, ma anche all’accoglienza ed integrazione degli

immigrati che giungono nel nostro territorio.

Le attività rivolte agli immigrati, sia adulti che bambini, sono corsi di lingua italiana

e sostegno pomeridiano allo studio, nonché la disponibilità ad aiutare quanti hanno

bisogno di aiuto per il recupero e la compilazione di moduli burocratici. L’attenzione

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rivolta non solo all’immigrazione, ma alla “migrazione” in senso lato, ha fatto sì che

il Centro Studi si occupasse, negli ultimi anni, di Storia e Letteratura

dell’Emigrazione, raccogliendo un fondo speciale di testi, sia in lingua italiana che in

inglese, legati al tema delle migrazioni. Al fine di divulgare i risultati delle ricerche

l’associazione è diventata casa editrice ed ha pubblicato testi di autori della provincia

di Foggia, emigrati negli Stati Uniti, poco conosciuti in Italia e apprezzati all’estero.

1.3 Il progetto “Diomede risponde”

L’esperienza di tirocinio inizia in concomitanza con l’avvio del progetto “Diomede

risponde”, che si propone di offrire un supporto all’accoglienza e all’integrazione

degli stranieri che giungono nel nostro territorio. Esso si concretizza nella proposta di

realizzare una serie di attività ed iniziative che facilitino la vita degli stranieri che

hanno difficoltà con la lingua, di adattamento e di integrazione. Il sostegno è di tipo

materiale e psicologico e prevede:

- un numero verde, con un traduttore a disposizione;

- un centro di ascolto, con la collaborazione di figure professionali che possano

essere di sostegno agli stranieri;

- uno sportello informativo al quale gli immigrati possano fare riferimento per

il reperimento, la compilazione di modulistica e che faccia da tramite tra lo straniero

e la burocrazia italiana;

- corsi di formazione (linguistica, professionale, informatica) per gli stranieri;

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- un’attività di tutorato per minori stranieri, fornendo loro un sostegno

psicologico e pratico, attraverso l’insegnamento della lingua italiana e il sostegno

nello studio.

L’idea di svolgere il tirocinio formativo presso questa struttura nasce dal desiderio di

confrontarsi e toccare con mano una realtà che negli ultimi anni si sta allargando nei

piccoli centri del nostro territorio, mèta di un considerevole flusso migratorio. Negli

ultimi anni il fenomeno migratorio si è esteso anche ai piccoli centri della provincia,

dove hanno cominciato a risiedere stabilmente alcune famiglie di immigrati che non

si sono pienamente integrate nel tessuto sociale.

Le esperienze di vita quotidiana, a contatto con questa “nuova realtà” nel piccolo

paese di provenienza, hanno suscitato il desiderio di approfondire la conoscenza di

questo fenomeno, in conformità con gli obiettivi formativi previsti dal proprio Corso

di Laurea.

Nello specifico si è inteso fare esperienza nell’ambito della prevenzione e riduzione

del disagio e dello svantaggio sociale, del riconoscimento e della valorizzazione della

cultura delle pari opportunità, della promozione, mediazione e gestione dei processi e

delle relazioni interculturali.

Obiettivo fondamentale del tirocinio è stato quello di acquisire e affinare competenze

gestionali, organizzative e competenze relazionali.

Motivazione aggiuntiva allo svolgimento del tirocinio a Castelluccio dei Sauri presso

il “Centro Studi Diomede”, è stata la possibilità di raggiungere la sede più

agevolmente rispetto ad altre mète.

L’esperienza è iniziata al Centro Studi con incontri propedeutici alle attività, che

hanno permesso allo studente di conoscere l’ambiente di lavoro mediante lo studio

8

personale sulla storia e sulle attività svolte nel tempo dall’ente ospitante, attingendo

agli archivi dello stesso; cui hanno fatto seguito incontri di approfondimento teorico

ed empirico sul lavoro da svolgere e sulle relative modalità, mediante l’osservazione

del lavoro di sportello.

Successivamente ci sono stati colloqui con i volontari e gli esperti che lavorano

presso il Centro, per approfondire la conoscenza del progetto “Diomede Risponde”,

di tutte le sue articolazioni e dei settori in cui esso opera, al fine di comprendere le

finalità che intende perseguire e fornire la giusta motivazione al tirocinante. Durante

questi incontri si è presentata la possibilità di confrontarsi anche con i Mediatori

attivi nel progetto, per conoscere la loro esperienza di migranti e le eventuali

problematiche incontrate sia al momento dell’arrivo nel nostro paese, sia durante la

loro permanenza.

In questa prima fase si è avuta altresì l’occasione di entrare nel vivo del progetto,

tramite l’affiancamento all’addetta del nascente sportello informativo, che ha avuto il

compito di illustrare passo dopo passo le attività e accompagnare il tirocinante con

attenzione e disponibilità.

Queste attività hanno permesso al tirocinante di fare esperienza nel campo del

supporto all’accoglienza e all’integrazione, come ci si proponeva nell’iniziale

progetto formativo.

9

1.4 “Mappa dei servizi di prima accoglienza per migranti”

Nel corso dell’esperienza formativa presso il “Centro Studi”, il tirocinio si è inserito

poi in un nuovo progetto condotto in collaborazione con il Ce.Se.Vo.Ca. (Centro di

Servizi per il Volontariato di Capitanata) finalizzato alla realizzazione di una “Pianta

della città di Foggia dei servizi gratuiti di prima accoglienza per i migranti”. Lo

svolgimento di questo lavoro ha richiesto lo spostamento dell’attività di tirocinio

presso la sede del Ce.Se.Vo.Ca. a Foggia.

Il Ce.Se.Vo.Ca. (Centro di Servizi per il Volontariato di Capitanata), è

un’associazione di volontariato fondata il 23 gennaio 1997 a Foggia, da 15 realtà

associative operanti sul territorio provinciale e iscritte al Registro Regionale del

Volontariato, che nel tempo sono aumentate fino a raggiungere le 234 realtà

associative. Previsto dalla legge quadro per il volontariato (L. 266/91), il

Ce.Se.Vo.Ca è un centro di dialogo e confronto, in cui le associazioni chiedono

servizi e propongono iniziative, motivate dal comune intento di trovare risposte

sempre nuove e coerenti ai bisogni del nostro territorio.

L'azione del Centro punta a far crescere la cultura delle associazioni, le capacità

gestionali ed organizzative, la loro capacità di autogoverno, l'autonoma capacità di

intervento, attraverso l’erogazione dei servizi previsti dal D.M. del 21/11/91

(consulenza legale e fiscale, informazioni concernenti il volontariato, supporto a chi

intende intraprendere nuove iniziative di volontariato, promozione del volontariato,

consulenza e assistenza nella progettazione e realizzazione di specifiche attività,

formazione, ecc.)1.

In questa nuova fase il tirocinante, affiancato dal tutor aziendale e da un esperto

operante nel Centro, è stato chiamato a rivestire un ruolo attivo.

A seguito di alcuni incontri di approfondimento e di preparazione personale, il

tirocinante si è calato attivamente nel compito assegnatogli. La Pianta, che ha avuto

due precedenti edizioni nell’ottobre del 2007 e nell’ottobre del 2008, è stata

realizzata con il Patrocinio della Provincia e del Comune di Foggia ed ha coinvolto

attivamente il tirocinante, che nello specifico si è occupato di aggiornare e di

1 Tratto dal sito web: http://www.cesevoca.it/content/view/22/49/ in data 30/06/2011

10

implementare i dati relativi ai diversi servizi per i migranti erogati da enti e

istituzioni, patronati, associazioni e parrocchie presenti nella città di Foggia. La

Mappa, tradotta in cinque lingue (arabo, francese, inglese, russo e rumeno) e

stampata in 5.000 copie, segnala infatti numerosi servizi utili: punti di ascolto,

ristoro, pernottamento, cura alla persona e reperimento di vestiario, oltre che punti di

orientamento legale e servizi offerti da enti ed istituzioni, anche di volontariato, che

operano a favore dei migranti nella città di Foggia. Il metodo utilizzato è stato quello

del contatto telefonico con gli enti e le associazioni, finalizzato a raccogliere

informazioni riguardanti i servizi, gli orari, le sedi e i contatti, con il supporto di

Internet per la ricerca di nuove strutture, enti o associazioni nati nel territorio

interessato.

Essa testimonia la sinergia tra le istituzioni civili e religiose nel proporre

un’accoglienza ed un’assistenza adeguate al migrante che arriva nel nostro territorio.

Rispetto alle due edizioni precedenti la mappa si è arricchita di nuovi numerosi

servizi, tanto che lo spazio a disposizione è apparso insufficiente rispetto al passato, a

dimostrazione del fatto che sono tanti gli enti pubblici e privati impegnati nel campo

dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti e che la nostra realtà è molto più

aperta e disponibile ai temi dell’accoglienza, rispetto a ciò che comunemente si

crede.

11

Fig.1.“Mappa dei servizi di prima accoglienza per migranti” 2

2 Terza edizione della “Mappa dei servizi di prima accoglienza per migranti” di Foggia, realizzata

durante il tirocinio presso il Ce.Se.Vo.Ca.

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1.5 Il valore formativo del tirocinio

Questo periodo di formazione ha favorito l’incontro con diverse figure professionali

e non, presenti all’interno delle sedi deputate al suo svolgimento.

Nella sede del Centro Studi Diomede, ho incontrato la disponibilità e la competenza

del tutor aziendale e, in mancanza di quest’ultimo, della figura di riferimento

all’interno dell’ente. Essi hanno saputo porre le basi allo svolgimento del tirocinio,

motivando le attività e permettendomi di inserirmi facilmente nell’ambiente di

lavoro. Il rapporto professionale è stato caratterizzato da un costante confronto e

aggiornamento sull’andamento delle attività, nonché da un’attenta valutazione del

lavoro da parte del tutor con cadenza giornaliera e/o settimanale. Il lavoro del tutor è

stato inoltre coadiuvato dalla presenza di figure professionali esperte, che hanno

contribuito ad indirizzare e valutare tutta l’esperienza.

Durante la prima fase del tirocinio poi, ho avuto occasione di intessere brevi

conversazioni con i Mediatori culturali che operano nel progetto “Diomede

risponde”. Il colloquio pur essendo stato breve, è stato carico di significato

formativo per l’impatto umano che è riuscito ad avere, grazie alla disponibilità che

alcuni mediatori in particolare hanno dimostrato nel raccontare la propria esperienza

di “migranti”, aprendo le porte di un mondo spesso ignorato e sconosciuto, quale

quello della migrazione da e per il nostro Paese.

Infine durante l’ultima fase del tirocinio presso il Ce.Se.Vo.Ca ho potuto incontrare e

conoscere diverse figure professionali operanti nell’associazione. La preparazione

professionale coniugata alla capacità di intessere relazioni lavorative e umane di

spessore, proprie dei colleghi di lavoro, mi ha permesso di inserirmi senza difficoltà

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e con entusiasmo nell’ambiente di lavoro. Quest’occasione mi ha offerto

l’opportunità di sviluppare rapporti professionali paritari con i colleghi, che hanno

saputo valorizzare e motivare il ruolo e il lavoro da me svolto, dimostrando rispetto e

riconoscenza per la collaborazione prestata all’associazione.

La professionalità, la disponibilità e il rispetto da parte di tutte le figure incontrate

durante il percorso, ha avvalorato e aumentato la carica formativa dello stesso.

L’esperienza sul campo condotta durante il tirocinio ha stimolato la ricerca nel

personale bagaglio culturale di validi supporti teorici, che potessero affinare le

competenze gestionali e organizzative.

La padronanza di mezzi tecnici quali l’uso del computer per l’organizzazione dei dati

raccolti e l’abilità nell’utilizzo della rete Internet come supporto alle attività e alle

ricerche svolte mi hanno consentito di districarmi agevolmente nel compito

assegnatomi e di portare a termine il lavoro con buoni risultati.

Inoltre le difficoltà incontrate e il sostegno delle figure professionali che hanno

indirizzato l’esperienza verso l’adempimento degli obiettivi formativi previsti, hanno

contribuito a sviluppare valide competenze organizzative e gestionali, unite a

spiccate competenze relazionali.

Durante lo svolgimento delle attività previste ho potuto maturare un atteggiamento

responsabile e professionale, grazie anche all’approfondimento personale dei temi

trattati. Le tematiche affrontate infatti, hanno suscitato in me un interesse tale da

condurmi ad approfondire in separata sede gli argomenti poco chiari o

completamente sconosciuti, come ad esempio quelli relativi alle modalità di ingresso

dei cittadini extracomunitari nel nostro paese, alla regolarizzazione del loro stato e

all’ottenimento di permessi per la permanenza.

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Il contatto con i colleghi e soprattutto con i responsabili dei vari servizi di

accoglienza per la raccolta di informazioni mi ha permesso di migliorare la qualità

dell’approccio relazionale, tramite l’analisi della tipologia di utenza, l’adeguamento

ad essa del linguaggio utilizzato e la chiarezza nell’esposizione dei contenuti.

I momenti di colloquio e confronto con gli esperti, mi hanno aiutato ad analizzare di

volta in volta gli obiettivi prefissati e ad orientare in funzione di essi il lavoro. Inoltre

l’attività di valutazione periodica condotta con il tutor aziendale mi ha stimolato a

rivedere eventuali imprecisioni o aspetti trascurati durante lo svolgimento delle

attività e a migliorare l’approccio con il lavoro stesso, sviluppando competenze

gestionali più raffinate. I piccoli fallimenti mi hanno insegnato a rimediare con

umiltà e responsabilità alle imprecisioni commesse.

1.6 Ostacoli e traguardi

Analizzando le diverse tappe del tirocinio ritengo di non aver incontrato grandi

difficoltà o ostacoli, soprattutto grazie all’ambiente favorevole in cui si è svolto.

Ciò nonostante, inizialmente ho sperimentato un naturale disorientamento per

l’inserimento in un ambiente sconosciuto, poi superato grazie all’affiancamento di

esperti nel settore e allo studio individuale.

Durante la prima tappa del percorso si è presentata qualche difficoltà perché

l’esperienza formativa si inseriva in un progetto nascente che non aveva ancora

sviluppato a pieno tutte le sue articolazioni e che per questo motivo, non ha potuto

impegnarmi attivamente come previsto nell’iniziale progetto formativo. L’attività

15

allo sportello informativo ad esempio, è stata alquanto marginale, perché

rappresentava un aspetto del progetto “Diomede risponde” non ancora diffuso e

conosciuto adeguatamente dall’utenza per cui è stata pensata.

Nella seconda tappa del tirocinio, svoltasi presso il Ce.Se.Vo.Ca, il percorso è stato

agevole e motivante nonostante le lacune nella materia affrontata. Il tirocinio infatti,

ha permesso di riscontrare anche la parziale inadeguatezza e insufficienza di quelle

competenze che bisognerebbe acquisire in ambito universitario, per poter affrontare

adeguatamente un’esperienza formativa di questa portata.

In particolare, credo che bisognerebbe affinare competenze di progettazione e

organizzazione di attività formative, che consentano ad ogni studente di gestire con

maggiore autonomia il lavoro col quale è chiamato a confrontarsi durante il tirocinio.

Sarebbe utile possedere anche maggiori competenze relazionali, che aiutino il

tirocinante a confrontarsi col mondo del lavoro, con soggetti “a rischio” e con

categorie vulnerabili come immigrati, donne, tossicodipendenti, anziani e bambini,

che potenzialmente si incontreranno nella futura esperienza lavorativa. Inoltre,

ritengo indispensabile la possibilità di organizzare corsi di aggiornamento più

frequenti per le aziende e gli enti, finalizzati ad accogliere in modo adeguato il

tirocinante e a risolvere con facilità e celerità le pratiche iniziali e conclusive del

tirocinio. Le principali difficoltà, infatti, sono state riscontrate nella fase iniziale e

finale del tirocinio, per la risoluzione delle pratiche burocratiche necessarie.

La personale preparazione universitaria e il bagaglio di conoscenze in mio possesso

inizialmente non hanno rappresentato un solido ausilio per l’attività svolta, perché

non completamente adeguate ad un valido confronto col mondo dell’immigrazione.

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Nonostante le difficoltà riscontrate ritengo comunque di aver raggiunto tutti gli

obiettivi previsti nel progetto formativo iniziale, seppur con tempi e modalità diversi.

Come già detto, il primo step del tirocinio è stato dedicato ad acquisire esperienza nel

campo del supporto all’accoglienza e all’integrazione. Questo primo traguardo è

stato raggiunto attraverso una serie di colloqui con mediatori culturali ed esperti che

operano all’interno dell’azienda stessa e tramite la pratica allo sportello sociale di cui

dispone l’associazione. L’adempimento di quest’obiettivo è stato in seguito

soddisfatto a pieno dall’attività di aggiornamento e inserimento dei dati relativi ai

diversi servizi erogati da enti e istituzioni, patronati, associazioni e parrocchie

presenti nella città di Foggia, per la realizzazione della “Pianta della città di Foggia

dei servizi gratuiti di prima accoglienza per i migranti”.

Il tirocinio mi ha offerto altresì l’occasione di svolgere un lavoro personale

finalizzato ad approfondire la conoscenza delle esperienze delle famiglie migranti e

del loro rapporto con la scuola, tramite colloqui con i diretti interessati e attraverso lo

studio individuale delle esperienze condotte dall’associazione nell’ambito del

supporto all’integrazione dei migranti, attingendo agli archivi della stessa. Infine i

colloqui con i Mediatori attivi nel progetto “Diomede risponde”, mi hanno fatto

conoscere alcuni aspetti del fenomeno migratorio e una parte delle problematiche

incontrate dai migranti sia al momento dell’arrivo sia durante la loro permanenza nel

nostro paese.

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1.7 Méta del tirocinio e la scoperta di una realtà nuova

Il percorso di tirocinio ha spalancato le porte alla scoperta di una realtà nuova

e fiorente nei nostri piccoli centri, così come nelle grandi città italiane. Una

realtà che vede la presenza di milioni di migranti in Italia e che contribuisce a

dare a tutto il paese un volto nuovo, in cui emergono nuove caratteristiche e

soprattutto nuove esigenze.

L’esperienza complessiva mi ha permesso di maturare uno sguardo diverso

sulla realtà che ci circonda e soprattutto di operare una rivalutazione di tutto

ciò che il nostro territorio offre.

Il lavoro di aggiornamento della Pianta di Foggia sui servizi gratuiti per i

migranti, infatti, ha fatto emergere un ampio orizzonte di iniziative, di servizi

e di organizzazioni che si preoccupano di curare l’accoglienza e l’inserimento

dei numerosi migranti che giungono nel nostro territorio, predisponendo

servizi che vanno dalla semplice cura della persona all’orientamento legale e

a tutta una serie di servizi fondamentali, che rispondano alle esigenze di

questa nuova parte della popolazione.

Mèta del percorso formativo condotto in questi mesi è una dimensione

probabilmente ancora sconosciuta ai più e sottovalutata da molti. Una

dimensione ricca di iniziative e di persone qualificate, che avvertono le

esigenze della società multietnica e impegnano il proprio lavoro in questa

direzione.

La scoperta di questa dimensione richiede di scardinare molti pregiudizi sulla

povertà di iniziative o professionalità del nostro territorio che al contrario, è

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costellato di un numero considerevole di associazioni ed enti, organizzati per

favorire un positivo inserimento nel tessuto sociale dei “nuovi arrivati”.

Enti, associazioni e istituzioni che avvertono l’emergenza dell’Intercultura,

come un problema del presente, ma soprattutto come la dimensione del

futuro3 .

3 Cfr. F.CAMBI, Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma, 2008, p. 11

19

CAPITOLO II

IL DISAGIO MIGRANTE

2.1 Migrazioni in aumento: dati statistici

L’esperienza del tirocinio, delineata nel capitolo precedente, ha rappresentato in

questa sede la componente determinante ed ispiratrice della riflessione sulle

peculiarità della società odierna interessata da ampi flussi migratori, che

contribuiscono a modificare l’assetto sociale e culturale di ogni paese-mèta di questi

viaggi della speranza. Le argomentazioni e le esigenze riguardanti questo imponente

fenomeno, non possono più passare inosservate né tantomeno essere trattate in

maniera marginale, a causa dell’aumento sostanziale di questi flussi nell’ultimo

decennio.

Come testimoniato dal 21° rapporto della Caritas sull’Immigrazione, a livello

mondiale, negli ultimi dieci anni i migranti sono aumentati di 64 milioni di unità e

secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono attualmente 214

milioni (4,2 milioni dei quali sono italiani). I flussi di migranti hanno sfiorato i 6

milionidi unità l’anno e, seppure rallentati nell’attuale fase di recessione, secondo le

previsioni dell’Ocse acquisteranno nuovo dinamismo con la ripresa economica.

L’Unhcr4 attesta che nel 2010 sono state 43,7 milioni le persone in fuga; 15,4 milioni

4 “L’ Unchr (United Nations High Commissioner for Refugees – Alto Commissariato delle Nazioni

Unite per i Rifugiati) è l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. L’agenzia fu creata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1950 e di fatto, incominciò ad operare il 1° gennaio 1951, con l’obiettivo di badare e proteggere gli interessi dei rifugiati nei paesi in cui avevano cercato asilo.

20

sono stati i rifugiati e 850mila i richiedenti asilo, con gli Stati Uniti (55.530

domande), la Francia (47.800) e la Germania (41.330) come primi paesi di

accoglienza. In Italia le 10mila domande d’asilo del 2010 risultano dimezzate

rispetto all’anno precedente a seguito dei respingimenti in mare previsti dall’accordo

italo-libico5 del 2009. Tuttavia nel 2011, con la ripresa degli sbarchi (oltre 60mila

fino al mese di settembre), si è riproposta la necessità di pervenire a un sistema in

grado di accogliere i richiedenti asilo anche in caso di eventi straordinari.

L’Unione Europea si conferma come una forte area di immigrazione, con il

coinvolgimento anche dei nuovi paesi: ad esempio in Polonia, nel 2011, è stata

decisa la regolarizzazione di circa 300mila non comunitari. Nell’UE a 27, a fine

2009, erano 32,5 milioni i residenti con cittadinanza straniera (incidenza del 6,5%

Il mandato originario dell’UNHCR era limitato ad un programma di tre anni destinato ad aiutare coloro che erano ancora rifugiati della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, gli esodi non solo non cessarono, ma si trasformarono in un fenomeno persistente su scala mondiale. Nel dicembre del 2003, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite abolì l’obbligo per l’agenzia di rinnovare il proprio mandato ogni pochi anni. Lo statuto dell’UNHCR fu redatto praticamente in simultanea con la Convenzione del 1951 sui Rifugiati; ne consegue che lo strumento chiave del diritto internazionale e l’organizzazione designata al suo monitoraggio sono particolarmente ben sincronizzati. L’Articolo 35 della Convenzione del 1951 rende esplicita la relazione e richiede agli stati di cooperare con l’UNHCR sulle questioni relative alla messa in vigore della Convenzione stessa e ad eventuali leggi, regolamenti o decreti che gli stati possono redigere e che possono avere un effetto sui rifugiati.” Tratto dal sito web: http://www.unhcr.it/news/dir/2/l-unhcr.html in data 23/05/2012. 5 Il Trattato Italia-Libia firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 segna la conclusione di un lungo processo

negoziale che era stato iniziato dai precedenti governi ed è stato accelerato dall’attuale. Il Trattato non è un semplice trattato di amicizia e navigazione, ma intende imprimere una salto di qualità alle relazione dei due paesi, istituendo un vero e proprio partenariato. Il 7 ottobre in Libia si celebrava il giorno della vendetta, poiché in quella data vennero cacciati gli italiani, nel 1970. Il Trattato stabilisce che il 30 agosto, anniversario della firma, sia proclamato “Giornata dell’Amicizia italo-libica”. Il trattato consta di tre parti relative ai principi generali, che regolano le relazioni tra i due paesi, alla chiusura del capitolo del passato e dei contenziosi e al partenariato. Con esso: la Libia è riuscita ad ottenere una “condanna” del colonialismo italiano; viene ricordato il contributo dato dall’Italia al superamento dell’embargo che la comunità internazionale aveva decretato nei confronti della Libia; e affermati i principi che debbono informare le relazioni italo-libiche contenuti in buona parte nella Carta delle Nazioni Unite, cui il Trattato fa continuo riferimento: rispetto della eguaglianza sovrana, divieto di ricorso alla minaccia e all’uso della forza, non ingerenza negli affari interni, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Tratto dal sito web: http://www.iai.it/pdf/Oss_Transatlantico/108.pdf in data 23/05/2012.

21

sulla popolazione) e 14,8 milioni quelli nati all’estero ma diventati cittadini del paese

in cui vivono, per cui quasi un decimo della popolazione non ha un’origine

autoctona. I casi di acquisizione di cittadinanza nella UE sono stati 776mila nel 2009,

più di 2 mila al giorno.

In Italia nel 1861, anno dell’Unità, su 22.182.000 residenti, gli stranieri erano

89mila, appena uno ogni 250 (incidenza dello 0,4%) e rivestivano posizioni socio-

occupazionali ragguardevoli. A differenza della Francia, interessata a contrastare il

calo demografico con una decisa politica di insediamento e di naturalizzazione, e

della Germania, bisognosa di sostenere il suo sviluppo con l’arrivo di polacchi e di

italiani, per l’Italia iniziava il periodo della grande emigrazione, durata più di un

secolo con ben 30 milioni di espatri. Nel 1951, anno del primo censimento del

Dopoguerra, gli stranieri erano 130mila su 47.516.000 residenti, e superarono

l’incidenza dell’1% solo nel 1991 (625 mila su 56.778.000 residenti). Da allora, in

Italia è iniziata la fase della grande immigrazione, che ha superato 1 milione di unità

solo nel 2001 (1.334.889).

Al 31 dicembre 2010, su 60.626.442 residenti nel Paese, i 4.570.317 stranieri (per il

51,8% donne) incidono sulla popolazione per il 7,5% (52 volte di più rispetto al

1861) ed esercitano un ruolo rilevante nel supplire alle carenze strutturali a livello

demografico e occupazionale. Nell’ultimo anno l’aumento, nonostante la crisi, è stato

di 335.258 unità, al netto delle oltre 100mila cancellazioni dall’anagrafe (di cui

33mila per trasferimento all’estero e 74mila per irreperibilità) e dei 66mila casi di

acquisizione di cittadinanza. Ai residenti, secondo la stima del Dossier, bisogna

aggiungere oltre 400mila persone regolarmente presenti ma non ancora registrate in

anagrafe, per una stima totale di 4.968.000 persone. Può sorprendere che il numero

22

degli immigrati regolari sia quasi uguale a quello dello scorso anno, ma non deve

sfuggire che le nuove presenze sono state oltre mezzo milione, tra regolarizzati e

nuovi venuti, a fronte di altrettanti immigrati la cui autorizzazione al soggiorno è

venuta a cessare, a prescindere dal fatto che siano rimpatriati o siano scivolati

nell’irregolarità.

La ripartizione territoriale degli immigrati in Italia è la seguente: Nord Ovest 35,0%;

Nord Est 26,3%; Centro 25,2%; Sud e Isole 13,5%.

In Italia l’immigrazione costituisce un rimedio, seppure parziale, al continuo

processo di invecchiamento demografico e al basso tasso di fecondità e un supporto

per l’economia e la produttività, sebbene negli ultimi tempi i lavoratori immigrati

stiano pagando il peso degli effetti della crisi incidendo per un quinto sui disoccupati

del paese6.

2.2 L’immigrato: una “categoria” sospesa tra integrazione e nostalgia

Questi dati ci permettono di avere una visione completa della situazione che il nostro

paese e il resto del mondo stanno attraversando in questo momento: il fenomeno

della migrazione si presenta come fattore strutturante la società contemporanea.

Uomini e donne per cause diverse, sembrano aver riscoperto la loro antica tradizione

di soggetti nomadi.

Se in passato persecuzioni, genocidi, deportazioni e torture sono apparse come l’esito

di una logica razzista, oggi non meno dolorose e drammatiche sono le esperienze di

6 Tratto dal sito web:

http://www.caritasitaliana.it/materiali/Pubblicazioni/libri_2011/dossier_immigrazione2011/scheda.pdf in data 23/05/2012

23

precarietà, spaesamento, provvisorietà e disorientamento che caratterizzano i vissuti

di altre figure emblematiche di questa nostra epoca: gli esuli, i profughi, i rifugiati e i

popoli migranti.

L’esperienza migratoria, specialmente quando vissuta come una necessità imposta,

comporta sempre una pesante e inevitabile alterazione della propria identità.

Si costituisce la “categoria” dell’immigrato, in cui la dimensione individuale si

dissolve all’interno di entità collettive, astratte e indifferenziate e la singolarità delle

persone si perde nell’indistinzione del gruppo7. Il termine “immigrato” appiattisce in

un unico profilo esperienze e ragioni completamente diverse, che fanno capo a

persone diverse, conferendo uno statuto ontologico a ciò che rappresenta solo un

tratto dell’esistenza di questi individui, una tragica necessità o una scelta. Questo

termine intrappola i soggetti in un’etichetta, che risucchia il loro passato, il loro

futuro e tutte le qualità che rendono ciascuno di essi un essere unico e irripetibile

rispetto alla moltitudine8.

Nel linguaggio corrente e nella mentalità comune, infatti, gli immigrati non sono

nominati e riconosciuti per ciò che li caratterizza personalmente, bensì secondo una

qualificazione che, etnicizzandoli9, li separa, identificandoli come “altri” e “stranieri”

rispetto ai cittadini dei paesi ospitanti, e li massifica in un gruppo.

7 Cfr. F. PINTO MINERVA, L’alfabeto dell’intercultura, in: AA.VV., Le parole dell’intercultura, Adda

Editore, Bari, 1996, p.25. 8 Cfr. MASSIMO CUZZOLARO, Psichiatria e nuove migrazioni. La salute degli immigrati tra assistenza

pubblica e volontariato, in: AA.VV., Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni, a cura di Virginia De Micco e Pompeo Martelli, Liguori Editore, Napoli, 1993, p.127. 9 Col termine “etnicizzare” intendo la tendenza a designare e riconoscere un individuo

rinchiudendolo all’interno di una generica categoria etnica: arabo, uomo di colore, marocchino, algerino, ecc.

24

L’esperienza della migrazione diventa l’evento significante della vita di questi

individui, che trasforma ogni altro connotato appartenente alla loro soggettività, fino

a divenire l’inizio di una nuova esistenza e spesso di una terribile esistenza.

In questa nuova dimensione l’immigrato si ritrova a vivere una profonda scissione

tra quello che realmente è e quello che gli altri pensano che egli sia; si trova in bilico

tra la difesa dell’appartenenza per il timore di perdere l’identità e la necessità di

integrarsi ai nuovi contesti di vita, per poter essere accettato e sentirsi riconosciuto.

Il disorientamento determinato dal continuo pendolarismo tra la paura

dell’annientamento e l’umiliazione per il disconoscimento della propria specificità,

produce i contrapposti comportamenti della rassegnazione e della ribellione, della

rabbia e del rimorso.

La condizione di esilio e di indifferenza, di disagio e di estraneità, caratterizza

lungamente, e spesso anche per tutta la vita, l’esistenza dell’emigrato.

A questi sentimenti si accompagna da un lato, la sensazione di non avere più una

terra stabile su cui camminare e dall’altro il ricordo del luogo natìo, che fa emergere

quel sentimento amaro chiamato nostalgia. Alla nostalgia del paesaggio, si connette

la nostalgia della casa, spazio di relazioni rassicuranti in cui si è appresa la lingua e si

è costruito il proprio modo di concettualizzare il mondo10

.

Nel corso del tempo ampie dissertazioni e riflessioni sono state dedicate al tema della

nostalgia, non solo come riferimento al fantasma ossessivo della madre-patria, al

desiderio di farvi ritorno, ma anche come un disgusto della vita determinato dallo

sradicamento e dal disadattamento alle nuove condizioni dell’esistenza, da cui può

10

Cfr. F. PINTO MINERVA, L’alfabeto dell’intercultura, in: AA.VV., Le parole dell’intercultura, Adda Editore, Bari, 1996, p.26.

25

emergere l’insofferenza verso i nuovi costumi, il disgusto dei rapporti sociali o la

violenta avversione verso ogni minima ingiustizia.

La nostalgia rinvia al legame affettivo con la terra d’origine e al ricordo di luoghi

familiari e spesso allude a qualcosa di irrimediabilmente perduto, a un tempo che non

potrà mai tornare com’era. E’ proprio quest’ultimo aspetto che rende lacerante il

sentimento nostalgico per cui l’emigrato si sente vittima di un’ingiustizia per aver

dovuto abbandonare la propria terra ma, a un medesimo tempo, considera se stesso

come l’artefice della sua stessa condanna, come testimoniato dalle parole pronunciate

da un’immigrata argentina: “Tener que emigrar es una injusticia en la cual somos

nosotros mismos a elegir la condena” (Dover emigrare è un’ingiustizia, della quale

siamo noi stessi ad emettere la sentenza).

La nostalgia evidenzia la profonda lacerazione della trama di riferimenti che fondano

l’esperienza di ciascuno, ma per molti versi, costituisce anche una strategia e

un’arma per fronteggiare incertezze e dilemmi esistenziali, cercando di reperire nel

proprio passato risorse emozionali e antiche certezze. Ad essa si ricorre quando è

minacciato il nucleo più profondo dell’identità, quando l’autostima vacilla e gli

insuccessi possono scavare dentro sino a determinare il crollo, spingendo

l’immigrato a una deriva fatta di solitudine, rancori o depressione11

.

11

Cfr. R. BENEDUCE, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, Carocci editore, Roma, 2011, pp.245-247.

26

2.3 L’inferno dell’estrema solitudine

L’esperienza degli immigrati che soccombono alle forme estreme di categorizzazione

e di nostalgia si svolge all’interno di uno spazio sospeso, un limbo12

, inteso come un

“non più e un non ancora” che la situazione socio-culturale, assistenziale, politica e

burocratica del paese ospitante non contribuisce a migliorare. Infatti accade spesso

che il contesto in cui l’immigrato viene “accolto” aggravi il suo malessere.

Per il migrante l’indecifrabilità del nuovo ambiente che si riproduce quotidianamente

nella minaccia di essere aggredito, di essere espulso, di sentirsi al centro di campagne

criminalizzanti o razziste amplifica la sensazione di una solitudine estrema. Un

contesto ostile, dove i problemi della precarietà, la frustrazione dei progetti originari,

il logorarsi delle speranze di cambiamento e la necessità di mentire a se stessi e alla

propria famiglia diventano elementi tipici e caratterizzanti la condizione di ogni

immigrato.

E’ a questo punto che prende corpo la “doppia solitudine” degli immigrati, orfani

della propria cultura e talvolta incapaci di intessere rapporti sociali e affettivi efficaci

nel nuovo contesto.

Pur convinta che come sempre nessuna generalizzazione è legittima, ritengo di poter

affermare che tale condizione rappresenta il comune denominatore di molte

esperienze migranti.

Già diversi anni fa Tahar Ben Jelloun, psicologo di origini marocchine trasferitosi

poi a Parigi, parlava della condizione di “estrema solitudine13

” di cui molti immigrati

12

Per limbo intendo quello stato di perenne temporaneità, quella situazione che costringere molti immigrati a rimanere in mezzo al guado, in una protratta liminarità. 13

La plus haute des solitude, così nel 1977 Ben Jelloun intitolava un suo celebre libro dedicato proprio alla condizione di solitudine che investe la vita di ogni migrante.

27

sono vittime oggi come trent’anni fa. Essi sono travolti dall’atteggiamento ambiguo

che tanto la società ospitante quanto quella d’origine esprimono verso di loro.

Indipendentemente dalle ragioni della loro migrazione, agli occhi del paese d’origine

così come a quelli del paese ospitante essi diventano sospetti:

<<Né cittadino, né straniero, né dalla parte dello Stesso, né dalla parte

dell’Altro, l’immigrato esiste solo per difetto nella comunità d’origine e per

eccesso nella società ricevente, generando periodicamente in entrambe

recriminazione e risentimento14

>> (Bourdieu, Wacquant, 2000, p.178 ).

La solitudine di cui parla Ben Jelloun è anche “ la solitudine della sera, del tempo

libero e della domenica”, una solitudine affettiva, sessuale, emotiva causata dalla

povertà o dall’assenza di relazioni amicali o amorose, una solitudine culturale e

comunicativa, causata dalla mancanza di riconoscimento, dall’impossibilità di

lasciare una traccia di sé e di poter mostrare la propria anima, il proprio cuore, i

desideri, la fantasia e il senso dell’umorismo15

.

All’ostilità e al pregiudizio della società ospitante, si accompagna spesso una

reazione non meno acrimoniosa da parte dei gruppi di origine verso coloro che sono

partiti: essa si manifesta sottoforma di invidia ma anche di ostilità, che può tradursi

in forme minacciose o in rituali volti a richiamare nel paese d’origine chi ha

dimenticato doveri e vincoli.

Se in molte famiglie l’assenza di uno dei suoi membri comporta condizioni di vita

migliori anche per coloro che sono rimasti, in altre quell’amputazione sarà sentita

come un tradimento, come una perdita e farà soffrire il corpo sociale per l’esistenza e

il vagheggiamento di un arto fantasma. In alcuni casi il desiderio di riportare in

famiglia colui che è partito può trasformarsi in una maledizione o un sortilegio, che

14

Cfr. R. BENEDUCE, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, Carocci editore, Roma, 2011, pp. 248-255. 15

Cfr. L. MARCHETTI, La luce della notte. Modelli per una didattica delle culture, Palomar, Bari, 2011, pp. 232-233.

28

può rendere folli o addirittura condurre alla morte colui che prova a sottrarsi a quel

richiamo, a sottrarsi in altri termini, alla volontà del gruppo16

.

Queste pratiche ci permettono di comprendere che chi emigra, abbandonando coloro

che rimangono e sottraendosi al patto implicito che regola la vita del gruppo, può

diventare per la società d’origine oggetto di sentimenti contradditori. L’atto di

emigrare può assumere il significato e la valenza dell’inganno, del tradimento o della

diserzione dalla lotta di ogni giorno, finendo con l’assumere i tratti della colpa.

Abdelmalek Sayad, sociologo algerino che ha dedicato la sua vita allo studio del

fenomeno dell'emigrazione-immigrazione, compie delle osservazioni illuminanti a

riguardo:

<<Per quanto l’emigrazione possa essere giustificata, essa rimane sempre

sospetta. […] Quest’ultima (l’emigrazione) contiene in sé, segretamente, il

sospetto di “tradimento”, di “fuga” e al limite di rinnegamento. Basta che

capiti un “incidente” di percorso, una leggera deviazione nei comportamenti,

perché emerga il senso di colpa, del peccato originario consustanziale all’atto

di emigrare. Colpa, colpevolizzazione e autocolpevolizzazione. Accusa e

autoaccusa: ecco quanto fonda indissolubilmente la condizione dell’emigrato e

la condizione dell’immigrato17

>> (Sayad, 2002, p.187).

In questa situazione paradossale che potremmo definire di atopos

18, di non

appartenenza e di completa mancanza di riferimenti, l’individuo sperimenta

l’abbandono, l’isolamento e la solitudine estrema: sperimenta l’inferno, che brucia

ogni speranza di godere di una vita felice.

Ritengo che parlare di “inferno” per definire questa situazione non sia casuale né

eccessivo, ma pertinente e consono se pensiamo al modo in cui l’Inferno e il Paradiso

vengono concepiti dalla cultura islamica. L’Inferno è patimento per coloro che non

16

Ricordiamo a tal proposito alcuni rituali magici praticati ancora oggi da popolazioni dell’Africa occidentale per richiamare al villaggio colui che è partito: bondu fra i Dogon del Mali; wootal fra i Wolof del Senegal; nodital fra gli Haal Pularen, ecc. termini che indicano questo tipo di rituale. 17

Cfr. R. BENEDUCE, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, Carocci editore, Roma, 2011, pp.254-255. 18

Dal greco ἄτοπος (atopos) “fuori luogo”.

29

hanno creduto, per i miscredenti, mentre il Paradiso è premio per i giusti che saranno

ammessi in gruppo a godere di beni materiali e di donne giovani, belle e vergini.

L’aspetto su cui voglio soffermare la mia attenzione è la visione collettiva e

comunitaria che connota il Paradiso, dove ci saranno fanciulle dagli sguardi modesti

e con occhi bellissimi19

(cit. Corano XXXVII) che accompagneranno la permanenza

eterna di ciascuno in questa dimensione. A questo stato di beatitudine e convivialità

si contrappone la condizione di doloroso isolamento che caratterizza l’Inferno, in cui

ogni singolo individuo dovrà pagare in eterno per la sua infedeltà e incredulità.

E’ questa breve analisi che mi ha permesso di costruire l’idea che probabilmente e in

molti casi, i migranti si trovano a vivere nella realtà contemporanea quello stato di

emarginazione e di abbandono che la loro cultura ha da sempre attribuito alla

dimensione punitiva dell’Inferno dopo la morte, per cui essi maturano la sensazione

di aver ricevuto già in terra un’anticipazione di quel patimento di cui sono meritevoli

per la sola (spesso involontaria) colpa di aver lasciato la patria, tradendo la fedeltà

alle proprie origini.

2.4 Il modello patologico dell’immigrato

Risulta fondamentale precisare che contrariamente alle circostanze sopra descritte,

esistono molti casi in cui l’immigrato riesce a trovare un equilibrio felice per sé e per

la sua famiglia, e grazie alle nuove opportunità economiche, sociali e affettive riesce

ad imprimere un risvolto positivo alle spinte negative provenienti dai sentimenti di

19

Cfr. P. MOROSINI, Vangelo e Corano. Analogie, differenze e diverse difficoltà nel credere, Avverbi edizioni, Roma, 2001.

30

nostalgia e dai vissuti ambivalenti prima evocati. Bisogna ricordare infatti, che molti

individui o famiglie riescono a ricomporre una stabilità soddisfacente, occupando

talvolta posizioni sociali anche di prestigio nella società ospite. Non è però di questi

ultimi che mi occuperò nel prosieguo del lavoro.

Intendo focalizzare il discorso su quei profili di vulnerabilità e sofferenza, da cui

possono nascere serie patologie mentali e conseguentemente riflettere sulle cure

riservate a questo tipo di disagio, ma anche sulle proposte didattiche e formative

dell’intercultura, di cui mi occuperò nel capitolo successivo, che hanno lo scopo di

prevenire questo tipo di disagio.

2.4.1 Le origini storiche

La maturazione di un interesse sistematico intenso e appassionato per la correlazione

tra migrazione e malattia mentale risale alla metà dell’Ottocento, nonostante già in

passato ci fossero stati studi analoghi.

La Heimweh, termine tedesco che significa dolore della casa, era stata menzionata

per la prima volta nel 1559 dello statista svizzero Pfyffer in una lettera in cui

comunicava la morte di un soldato, e il termine conobbe un’ampia diffusione in tutta

Europa ben prima dell’età romantica. Cent’anni dopo il medico svizzero Hofer

dedicava un’ampia dissertazione al tema della nostalgia-malattia, che può generare

un decadimento fisico a volte mortale, per cui l’unico rimedio proposto è

l’immediato ritorno a casa.

31

Nei secoli successivi molti medici, scienziati e uomini di lettere si cimenteranno

nella descrizione di questo oscuro male, che si è manifestato soprattutto tra le fila dei

soldati sparsi a combattere in terre straniere. Il nostalgico in questi casi si trasforma

definitivamente in malato e la malattia nasconde il disagio iniziale; il desiderio di

ritornare a casa è concepito come mancanza rispetto ad un ideale di salute, ma non si

precisa mai che le sofferenze provocate dalla nostalgia sono legate a una condizione

imposta da circostanze specifiche.

Dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, medici e psichiatri hanno rilevato che negli

Stati Uniti gli immigrati mostrano un’elevata percentuale di disturbi psichici. E’

proprio in terra americana che il modello patologico del migrante viene convalidato.

La psicopatologia della migrazione nasce allora e accompagna le ondate migratorie

che si susseguono nell’America del nord fino ai primi decenni del nostro secolo. In

quegli anni si cercò di verificare l’esistenza di un nesso tra malattia mentale e

migrazione di massa, per cui molte statistiche sui ricoveri psichiatrici si susseguirono

con l’intento di dimostrare la vulnerabilità psichica degli immigrati. Essi appaiono un

gruppo ad alto rischio e per lungo tempo, in rapporti scientifici e dibattiti, sono

considerati portatori di criminalità e follia. La loro presunta predisposizione e

vulnerabilità alla malattia mentale è attribuita a tracce ereditarie o a caratteristiche

razziali, creando un vero e proprio stigma biologico.

Un parziale cambiamento di prospettive avverrà negli anni che precedono il secondo

conflitto mondiale. Durante il New Deal muta il clima sociale e l’immigrazione sarà

regolata dai Quota Act20

. Allora si stabilì che gli immigrati sono “sani” quanto gli

20

I Quota Act rientrano nelle leggi emanate dagli Stati Uniti per controllare e limitare il flusso

dell’immigrazione Italiana, stabilendo delle quote per ogni nazionalità. Il Quota Act del 19 maggio 1921 limitava il numero degli stranieri ammesso annualmente, e per nazionalità, al 3 per cento del numero dei rispettivi connazionali stabilitisi negli Stati Uniti nel 1910. Questa legge venne applicata

32

autoctoni e non più “matti”, tant’è vero che negli ospedali psichiatrici sono più

frequenti i ricoveri degli autoctoni e soprattutto degli immigrati interni. Vacilla a

questo punto l’ipotesi di una coincidenza tra caratteristiche etniche e malattie

mentali.

Nasce un nuovo filone di studi che focalizza l’attenzione sulle diverse forme di

migrazione: spostamenti dalle campagne alle città, dalle antiche colonie ai paesi

sviluppati, migrazioni transoceaniche e migrazioni interne. La discussione inizia a

metà degli anni Trenta e ha come primi protagonisti l’americano Malzberg e il

norvegese Ødegaard che giungono a conclusioni opposte. Malzberg ritiene decisivi i

fattori sociali e ambientali perché ritiene che essi condizionino il tasso e la frequenza

dei ricoveri psichiatrici. Egli ancorato alla critica del riduzionismo biologico in cui

era intrappolata l’epidemiologia psichiatrica delle migrazioni, toglie credibilità

all’immagine dell’immigrato alienato. Secondo lui sono i migranti interni, che

occupano le posizioni inferiori di status, a riempire gli ospedali psichiatrici degli

Stati Uniti.

Di opinione completamente opposta lo psichiatra Ødegaard, il quale osserva che in

Norvegia i migranti interni al paese presentavano tassi minori di ricoveri psichiatrici.

E questo non smentiva la sua teoria del migrante alienato, che riguardava gli

immigrati statunitensi provenienti dall’Europa. Egli considerava la migrazione

interna come il frutto di una selezione positiva, che predisponeva in poca misura al

fino al 1 luglio 1924, quando entrò in vigore il National Origins Act, approvato nel maggio 1924, che riduceva le quote di ciascuna nazionalità al 2 per cento dei rispettivi connazionali residenti negli Stati Uniti nel 1890. Tratto dal sito web: http://www.emigrati.it/Emigrazione/Xenofobia.asp in data 11/06/2012.

33

disagio e ai disturbi mentali perché rappresentava una sorta di avanzamento sociale

ed economico, un’esperienza che non comportava alcuno sradicamento.

La disputa tra i due studiosi mise in crisi il rapporto tra disagio psichico e

migrazione, fino a quel momento dato per certo. Il dibattito si concluse con la

svalutazione dello sradicamento e del trapianto, e la valutazione di altri fattori quali il

reddito, la mobilità o il cambiamento culturale. Il modello patologico del migrante si

indebolisce in maniera sostanziale.

In Italia i riflessi e le ripercussioni di questi dibattiti sono piuttosto flebili, sebbene

abbiano ampiamente influenzato l’opinione pubblica dei paesi in cui si sono

sviluppati. Un accenno a queste tematiche risale agli anni Sessanta, in concomitanza

con i problemi sollevati dalle migrazioni interne verso il nord industriale. Un primo

convegno si tenne a Milano nel 1963, nel momento più intenso della migrazione dal

Mezzogiorno, un altro a Varese nel 1974 quando ormai i flussi interni cominciano a

rallentare. Negli atti di questi convegni si legge chiaramente l’oscillazione tra

l’adesione alle teorie della migrazione come fatto patologico, sostenute da Ødegaard,

e altre indagini che non mostrano alcuna differenza sostanziale tra la psicopatologia

dei migranti meridionali e quella degli autoctoni.

Il contributo italiano più originale è quello di Michele Risso, autore con Wolfgang

Böker, di uno studio in lingua tedesca sugli stati deliranti che compaiono presso i

lavoratori meridionali italiani, emigrati nella Svizzera tedesca durante gli anni ’60.

Risso e Böker li attribuiscono al conflitto tra il mondo magico di appartenenza e la

società elvetica, in cui predominano tratti di tipo razionalista-tecnologico. Lo studio

dei casi rivela la vitalità dei meccanismi di reintegrazione psicologica adottati dalle

comunità di origine e mostra come lo shock culturale consista anche nell’enorme

34

difficoltà che gli immigrati incontrano, di interpretare con strumenti vecchi una realtà

nuova. La vera novità degli studi di Risso consiste nell’aver inserito in una

prospettiva antropologica la riflessione su migrazione e psichiatria.

Risso aveva adottato nel suo lavoro la teoria del culture shock, che inizialmente

funziona come un’apertura antropologica, un progresso che contrasta il modello di

stampo biologizzante. Esso può provocare smarrimenti gravi e disagio, quando gli

immigrati incontrano norme ed esigenze dell’urbanizzazione, della modernizzazione

e affrontano lo scontro diseguale tra tradizioni e società distanti in fatto di valori e

comportamenti. Oggi il modello dello shock culturale ha subito un

ridimensionamento e critiche importanti, ma è stato utilizzato anche per restaurare e

riprendere il vecchio rapporto tra migrazione e disturbo mentale. Ora lo shock

culturale è entrato in ambito medico sotto le vesti dello stress socio-culturale.

Il modello patologico del rapporto tra migrazione e malattia mentale trae importanti

benefici dall’incontro tra le scienze umane, l’antropologia medica e l’etnopsichiatria,

grazie a cui la “malattia” dell’immigrato viene letta in maniera diversa e nuova21

.

2.4.2 Effetti dell’emigrazione di massa: derive psicopatologiche

Beiser nella sua analisi condotta sulla relazione tra migrazione e salute mentale,

elenca alcuni fattori di rischio per l’insorgenza di un disturbo mentale in soggetti

immigrati:

21

Cfr. D. FRIGESSI, Il modello patologico dell’immigrazione, in: AA.VV., Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni, a cura di Virginia De Micco e Pompeo Martelli, Liguori Editore, Napoli, 1993, pp.42-49.

35

<<a) Una cattiva situazione socio-economica personale in seguito alla

migrazione (dequalificazione, lavoro precario, etc.);

b) l’incapacità di parlare la lingua del paese ospite;

la separazione dalla famiglia;

c) le attitudini negative da parte della popolazione del paese che accoglie;

d) l’avere poche o nessuna possibilità di ripiegamento sulla comunità

d’origine;

e) il fatto che la migrazione sia avvenuta durante l’adolescenza o durante la

terza età22

>> (Cit. M.Beiser, “The Mental Health of Immigrants and

Refuges in Canada”).

La convergenza di tutti questi fattori sommata a circostanze specifiche e a fattori

soggettivi, può determinare la formazione di un modello patologico.

Gli effetti psicopatologici dell’emigrazione vengono registrati, già nei primi anni del

Novecento, dalle statistiche manicomiali del Regno d’Italia. Dall’analisi di queste

statistiche gli psichiatri si convincono che l’emigrazione svolge un impatto

destrutturativo, anche se essi tendono a sottolineare le debolezze congenite ed

eredodegenerative delle razze regionali. L’emigrazione viene già allora presentata

come un processo che distrugge profondamente l’integrità psico-fisica delle

popolazioni, che sovverte princìpi e i modelli dell’organizzazione sociale, che

corrode la speranza di un possibile progresso auto-centrato da parte del soggetto

sociale.

L’emigrazione viene paragonata ad un gioco, estremamente rischioso, in cui masse di

individui, spogliandosi dei propri beni, vivono un calvario alla fine del quale si arriva

“poveri e pazzi”.

La massa in movimento viene spesso concepita unicamente come funzione del ciclo

economico e disconosciuta come portatrice di una propria soggettività culturale,

22

Cfr. R. BENEDUCE, Geografia della memoria. Considerazioni clinico-antropologiche su migrazione e salute mentale, in: AA.VV., Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni, a cura di Virginia De Micco e Pompeo Martelli, Liguori Editore, Napoli, 1993, p.134.

36

mentre in realtà essa non è riducibile ad una pura astrazione economica perché

mantiene i propri dispositivi culturali di identità antropologica.

Il bagaglio ideologico originario, una volta esportato, subisce una profonda

recessione valoriale che lo costringe a giustificarsi come arcaismo disadattivo o ad

amplificarsi come distonia comportamentale.

Possiamo dire che le conseguenze individuali dell’emigrazione si affermano

principalmente nello sganciamento dell’individuo dalla relazione di complementarità

solidale con l’etnia di appartenenza, accompagnata da una condizione di isolamento

dalla società di accoglienza. L’individuo non riesce ad utilizzare efficacemente i

propri meccanismi culturali di difesa o perché entra in conflitto con il suo stesso

bagaglio culturale o perché il sistema adottivo delegittima la dignità di tali

meccanismi. Egli viene travolto da un conflitto di lealtà culturale poiché, se aderisce

al presente in toto, rompe la continuità con la sua identità originaria, mentre se

aderisce al suo passato rompe l’intenzionalità del progetto di riscatto. Inoltre il

trasferimento in paesi “formalmente” ospitanti, ma effettivamente ostili può far

esplodere reazioni comportamentali incontenibili.

La reazione disadattata è causata dall’inadeguatezza delle mappe cognitive possedute

dagli emigrati, dalla persistenza delle difficoltà comunicative con popolazioni dotate

di ben altri assunti linguistici e comportamentali, dall’impoverimento affettivo

dovuto alla perdita degli oggetti d’amore significativi che fa precipitare l’individuo

in un’atmosfera depressiva e già potenzialmente persecutoria. I sintomi del

disadattamento si manifestano nel momento in cui all’illusione dell’emancipazione

subentra la delusione per l’integrazione mancata.

37

Il disturbo mentale si trasforma in un meccanismo di espulsione sociale, messo in

movimento dall’istituzione psichiatrica. Questo movimento ha inizio isolando il

paziente all’interno della micro-società immigrata, e prosegue attraverso le ordinanze

che dispongono il suo trasferimento nel territorio d’origine. Al soggetto malato viene

assegnato un destino irreversibile che lo restituirà ancora più debole al territorio da

cui è fuggito. Qui il malato interiorizza le frustrazioni e le violenze subite, tanto da

divenire un malato mentale incurabile. Per questo motivo anche la società d’origine

considera l’individuo malato come un corpo estraneo non più assimilabile e in

quanto tale, da segregare all’interno della comunità o da confinare nello spazio

istituzionale. A questo livello il disturbo si trasforma in processo disgregativo.

Prima di procedere ad una definizione diagnostica, con l’obiettivo di affrontare

problemi nosografici, è necessario precisare che molto spesso questo processo non è

neutrale bensì condizionato dal tipo di atteggiamento culturale assunto dalla

categoria medica in un tempo storico e in un contesto socio-istituzionale determinati.

Ciò è apparso particolarmente evidente nell’analisi di casi di schizofrenia, a seguito

della registrazione di un aumento di questo disturbo specialmente a carico della

popolazione emigrata. Esso raggiunge il livello numerico più alto nel corso degli

anni Sessanta, mentre nei decenni successivi sarà sostituito da un aumento di reazioni

psicotiche acute.

Ad una prima impressione sembrerebbe che la diagnosi di schizofrenia non fosse

retta da ragioni psicopatologiche sufficienti, ma sostenuta piuttosto dal pregiudizio

discriminatorio espresso dagli psichiatri nei confronti degli immigrati.

I disturbi che assumono caratteristiche sindromiche tipiche e stabilizzate rinviano

alla persistenza di fattori ambientali sfavorevoli, come la perdita dei diritti prima

38

garantiti nel contesto adottivo, la scarsa capacità riparativa del gruppo etnico e

familiare, la carente dotazione strutturale di partenza e le cure inadeguate.

L’aggregazione e la sinergia di questi elementi costringono l’emigrante ad entrare

nello spazio della psicosi e della cronicizzazione23

, affrontate in ambito medico e

scientifico tramite approcci diversi su cui di seguito soffermerò brevemente la mia

attenzione.

2.5 Passaggi di confine: la relazione terapeutica e una nuova metodologia di

indagine e di cura

Parlare di “passaggio di confine” ci riporta al momento in cui il migrante oltrepassa

il confine geografico, culturale ed esistenziale tra il suo paese e il paese di nuova

accoglienza, ma anche alla necessità di un oltrepassamento dei confini disciplinari da

parte dello psichiatra che se ne prende cura per andare alla ricerca della radice

antropologica del suo operare. Dunque, passaggio di confine come tentativo di

colmare lo scarto esistente tra l’esperienza migratoria e i modelli di riferimento delle

discipline psicologico - psichiatriche.

Una rilettura critica della storia della cosiddetta psicopatologia dell’emigrazione

rivela come tali modelli siano stati condizionati a lungo da pregiudizi

costituzionalisti che tentano di radicare la differenza culturale nell’inferiorità

biologica, facendo da schermo alle reali motivazioni di politica economica che hanno

23

Cfr. S. INGLESE, Effetti dell’emigrazione di massa sull’ecologia sociale in un territorio calabrese: mutazioni antropologiche e derive psicopatologiche, in: AA.VV., Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni, a cura di Virginia De Micco e Pompeo Martelli, Liguori Editore, Napoli, 1993, pp. 53-65.

39

determinato spostamenti ingenti di popolazioni e sradicamenti dall’altissimo prezzo

umano. La psichiatria dal canto suo, mentre assolveva al compito di razionalizzare il

disagio individuale, immediatamente tradotto in malattia, eludeva completamente

l’incontro con la sofferenza del migrante. Ancora oggi la psichiatria e le scienze

devono guardarsi dal pericolo, sempre in agguato, di diventare veicolo di

emarginazione piuttosto che provvedere alla cura e all’integrazione. Ciò sarà

possibile tramite un confronto con il nostro passato e presente storico e culturale,

ricordando cioè, il tempo in cui i nostri stessi connazionali emigrati, sono stati

oggetto di teorizzazioni scientifiche tese al protezionismo e all’emarginazione.

L’attenzione rivolta agli aspetti epidemiologico - statistici nel descrivere e analizzare

i disturbi psichiatrici dei migranti traduce la difficoltà di instaurare una relazione

terapeutica quando non si condividono né modelli linguistici, né strumenti

concettuali, né modalità di espressione delle emozioni. Tuttavia è necessario

affermare l’irrinunciabilità della relazione terapeutica quale luogo e strumento

privilegiato di ricerca, in cui i vissuti si incrocino nel terreno dei linguaggi, dei

desideri e delle difficoltà di comprensione, luogo in cui si manifesta quella necessità

di oltrepassare e ristabilire i confini.

Occorre interrogarsi su quali difficoltà specifiche si incontrano nel costruire e vivere

una relazione terapeutica con un paziente immigrato, proveniente da un diverso

contesto socioculturale; in quale misura bisogna fare riferimento ad apparati teorici

per la definizione e la strutturazione del disagio psichico e per le aspettative di cura

del paziente, intese come componente essenziale dell’efficacia terapeutica delle

pratiche adottate.

40

Le ricerche etnopsichiatriche indicano che la valutazione della malattia, i modelli

eziologici e le pratiche terapeutiche adottate, siano legati al sistema di valori del

gruppo in seno al quale esse prendono forma ed acquistano senso. Risulta

fondamentale riflettere sulle dinamiche esistenti tra psiche individuale e contesto

socioculturale di provenienza, nonché sulle ripercussioni a carico dell’equilibrio

psicologico che avvengono quando il contesto antropologico muta bruscamente,

come nell’esperienza migratoria.

Nella relazione terapeutica con pazienti provenienti da culture extraoccidentali,

l’intero bagaglio nosografico e terapeutico dello psichiatra occidentale viene messo

in discussione. Il modello psichiatrico occidentale appare impossibilitato a cogliere la

complessità dei rapporti tra aspetti culturali e manifestazioni psicopatologiche,

limitandosi a ricercare invarianti naturali piuttosto che variabili socioculturali.

L’auspicata collaborazione tra discipline etnoantropologiche e discipline psicologico

- psichiatriche, al di là della consueta antinomia tra scienze della natura e scienze

dello spirito, oltre allo scopo di costruire un repertorio di dati sulle culture di

provenienza dei migranti, per decodificare particolari aspetti delle loro

manifestazioni psicopatologiche, esprime l’intento di connettere schemi e

metodologie differenti per riflettere sulla radice antropologica dell’operare

psichiatrico.

La clinica medica e quella psichiatrica, nate all’interno dell’istituzione ospedaliera, si

sono costituite in realtà su un annullamento delle differenze tra i malati affinché

risaltassero le differenze tra le malattie. Le discipline etnoantropologiche, al

contrario, proponendo il recupero e la valorizzazione delle variabili socioculturali e

dunque delle differenze tra i malati nel determinare le manifestazioni di malessere e

41

il modo di prendersene cura, riescono a scardinare questi modelli. Grazie

all’intervento di queste ultime, le tendenze universalizzanti ed omologanti vengono

negate attraverso il riferimento alle particolari contingenze storiche, sociali,

economiche, culturali che attraversano l’evento malattia. Pensiamo per un attimo ai

servizi sanitari occidentali che sostengono la divisione tra mente e corpo tipica della

tradizione occidentale, ma spesso radicalmente estranea all’esperienza di chi

proviene da culture extraoccidentali, in cui prevale invece una presa in carico olistica

del malessere.

La condizione del migrante sofferente e dello psichiatra che se ne prende cura non

può fare riferimento ad uno strumento concettuale consolidato, neppure in campo

etnoantropologico, poiché la relazione terapeutica e il disagio individuale sono

luoghi del mutamento e della trasformazione.

La capacità di passare il confine per lo psichiatra rappresenta, dunque, la capacità di

penetrare in maniera mimetica la condizione del migrante, facendo vacillare il

proprio quadro di riferimento culturale e disciplinare. Questo rappresenta il primo

passo nel tentativo di avvicinarsi all’esperienza psicologica e patologica del

migrante ripercorrendo il suo percorso antropologico. La condizione psicopatologica

del migrante non può trovare rimedio nel semplice rientro in patria, come proponeva

Hofer per la Heimweh, o nel ricorso acritico a terapie tradizionali, ma richiede

l’intervento di un terapeuta capace di vivere e di affrontare il mutamento. Il pericolo

ricorrente è quello di attingere ad un inventario delle “follie locali”, che tenta di

creare ambiti definiti e delimitati di significato, e conseguentemente applicarlo allo

studio e all’analisi dei disturbi psicopatologici del migrante, eludendo l’incontro con

la sua personale sofferenza e con il suo vissuto.

42

Perché il processo di cura possa svilupparsi occorre che paziente e medico

condividano il modo di intendere la costituzione, il funzionamento e

disfunzionamento dell’unità somatopsichica, che permette loro di comprendersi e di

stabilire una comunicazione efficace. Laddove non si condividono i livelli simbolici

che caratterizzano la sequenza terapeutica, quest’ultima è destinata al fallimento

totale. Tuttavia è un dato di fatto che la dimensione in cui sono immersi paziente

immigrato e medico-ospite è caratterizzata dalla non coincidenza dei livelli

simbolici, per cui ciò che conta non è tanto imporsi di aderire all’universo simbolico

dell’altro, ma cercare di costruire un universo referenziale “meticcio”, che sia

abitabile per entrambi.

Tutto ciò costringe anche alla costruzione di una nuova teoria della conoscenza, un

nuovo orizzonte simbolico - culturale, all’interno del quale elaborare un diverso

approccio al disagio psichico del migrante, attraverso: 1. il riconoscimento dei limiti

dello sguardo medico tradizionale; 2. una riflessione critica sull’opportunità di

utilizzare dati e modalità provenienti dalle ricerche etnoantropologiche nella pratica

terapeutica ed assistenziale; 3. un discorso psicopatologico, impostato in senso

antropologico, centrato sui meccanismi d’integrazione psicoculturale all’interno delle

mutevoli condizioni comunitarie24

.

24

Cfr. V. DE MICCO, Passaggi di confine. Percorsi migratori, sofferenza psichica, strumenti antropologici , in: AA.VV., Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni, a cura di Virginia De Micco e Pompeo Martelli, Liguori Editore, Napoli, 1993, pp.15-25.

43

2.5.1 L’etnopsichiatria

Il proliferare di situazioni in cui gruppi culturali differenti vengono a contatto fa sì

che non sia più possibile applicare alla cura delle nuove forme di disagio

psicopatologico i modelli consueti della psicologia e della psichiatria ereditati dagli

studi otto - novecenteschi.

L’Etnopsichiatria è la risposta più coerente a ciò che sta accadendo nel mondo e alle

esigenze che emergono da esso. Dinanzi allo scenario odierno si ha sempre più

l’impressione che rispetto al mondo dell’immigrazione, la nostra cultura, i nostri

sofisticati strumenti di ascolto, i nostri codici di attribuzione di senso, siano

insufficienti e destinati a fallire. L’etnopsichiatria si muove proprio in direzione della

comprensione del fenomeno della migrazione nell’ottica della salute mentale,

precisando ovviamente che tale approccio non riguarda e non interessa la totalità

della popolazione migrante, in cui esiste una parte sostanziale che per fortuna, oserei

dire, e grazie ad una forte determinazione personale riesce ad inserirsi in maniera

positiva e costruttiva nel nuovo contesto.

Cercare di definire l’ etnopsichiatria può risultare fuorviante da un punto di vista

concettuale, perché è difficile delineare la definizione di una disciplina che è per sua

natura multiforme e nomade. Gli studiosi ritengono che sarebbe più opportuno

parlare di etnopsichiatrie diverse quanto diverse sono le culture a cui esse si

appoggiano.

Questa disciplina nasce dalla convergenza di interessi e di informazioni culturali

provenienti da aree di confine tra discipline come la Medicina, la Psicologia, la

Pedagogia interculturale, l’Antropologia e la Sociologia.

44

Il termine etnopsichiatria venne introdotto per la prima volta nel 1961 da George

Devereux, quando ancora si utilizzava il termine di “Psichiatria transculturale” per

definire l’ambito di studio delle patologie di pazienti di culture extraeuropee,

nonostante alcuni studiosi ritengano che il suo utilizzo risalga a diversi anni prima.

Devereux definisce l’etnopsichiatria come “una tecnica terapeutica che riserva

uguale importanza alla dimensione culturale del disturbo e della sua presa in carico

da un lato e all’analisi dei funzionamenti interni della mente dall’altro”.

L’etnopsichiatria è generata dall’assunto che i migranti originari di società non

occidentali pongono al loro terapeuta l’obbligo di inscriversi all’interno di un

dispositivo tecnico e di un pensiero radicalmente diversi da quelli che è solito

abitare.

Essa infatti ingloba dentro di sé un sapere medico occidentale e altri saperi

provenienti da culture diverse, assumendosi la sfida di elaborare un saper fare nuovo,

multidisciplinare e multiculturale, che nasca dal concepire i vari sistemi culturali, i

vari modelli antropologici e terapeutici sullo stesso piano e sullo stesso livello

gerarchico. L’etnopsichiatria compie quell’operazione faticosa e dolorosa di de-

narcisizzazione della cultura occidentale, rielaborando tutte le consuete modalità

(psicologiche, pedagogiche, psicoanalitiche) di comprendere l’altro e di rispondere

alle sue sofferenze25

.

L’etnopsichiatria è una pratica della psicopatologia che considera che la cultura del

paziente costituisce una parte del suo “essere nel mondo” importante quanto la sua

biologia e la sua storia, perché non esiste alcun uomo senza cultura. Ecco perché

25

Cfr. D. DE LUCA, Migrazioni e salute, etnopsichiatria e svolta etno-pedagogica, pp.2-5 , tratto dal sito web http://www.cestim.it/argomenti/21salute/21salute_deluca-01.pdf in data 12/06/2012

45

l’etnopsichiatria si applica alla descrizione culturale del disturbo psichico e della sua

presa in carico, così come all’analisi dei funzionamenti psichici individuali.

Da questi principi deriva il fatto che dinanzi a ciascun paziente ci si pone due tipi di

domande: qual è l’organizzazione particolare del disturbo presentato? Quale risposta

avrebbe ricevuto se fosse stato preso in carico nella cultura d’origine del paziente? In

quest’ottica comprendiamo che l’etnopsichiatria procede alla valorizzazione delle

risorse terapeutiche delle società tradizionali e quindi ad un rimaneggiamento delle

griglie nosologiche consuete.

La pratica etnopsichiatrica in origine ha dimostrato che è impossibile stabilire una

relazione terapeutica con soggetti originari di culture non-occidentali prescindendo

da alcuni dispositivi, quali ad esempio la stregoneria o la trance. Perciò

l’etnopsichiatria non può utilizzare il materiale clinico della psichiatria o fidarsi di

descrizioni cliniche esterne, nelle quali l’osservatore detiene da solo il quadro di

riferimento da cui emergono le caratteristiche dell’osservato, poiché è quest’ultimo

che costituisce il principale informatore sul suo quadro di riferimento. Da ciò emerge

chiaramente che l’etnopsichiatria è necessariamente una disciplina interattiva e

relazionale, che costruisce il suo impianto e il suo metodo a partire dalla conoscenza

della dimensione culturale dell’altro.

Sulla base di questi presupposti, capiamo il motivo per le fondamenta del dispositivo

etnopiscoanalitico sono rappresentate dalla conoscenza della lingua del paziente e

dalla presenza di un gruppo. Prima di tutto è necessario rendere presenti nello spazio

della seduta, i riferimenti culturali del paziente e sicuramente la lingua nella quale si

costruisce il suo pensiero. Indispensabile diventa la presenza della figura di un

interprete o mediatore che aiuti a comprendere non solo il significato ma anche le

46

connotazioni di una certa parola, il paradigma di una certa idea o di una certa

rappresentazione. Altro elemento essenziale è la presenza di un gruppo che circondi

il paziente per convalidare le sue percezioni e sensazioni, che gli consenta di

distinguere il suo sé dall’alterità. Ecco perché le consultazioni etnopsichiatriche si

svolgono in un gruppo costituito da una quindicina di terapeuti, tutti professionisti

generalmente di formazione psicoanalitica, ma di origini culturali diverse. Questo

gruppo contiene rappresentazioni multiple dell’alterità, per cui non ci sono solo

soggetti culturalmente identici, ma anche dei “simili” e degli “altri” che hanno

padronanza di molte lingue. Il gruppo terapeutico svolge diverse funzioni: permette

di formulare un discorso eclettico sul paziente, che non lo fissi in una

rappresentazione unica, di tipo diagnostico; assicura una funzione di sostegno

culturale e psichico al soggetto, evitandone l’umiliazione ma anche la

condiscendenza del terapeuta; media il rapporto tra il terapeuta principale e il

paziente; infine, costituisce il contenitore per la sofferenza del paziente, perché

rappresenta una cornice meticcia tra la sua cultura e quella del terapeuta26

.

L’etnopsichiatria con un siffatto dispositivo terapeutico e grazie alla sua posizione

cerniera, costituisce un metodo rigoroso di indagine e cura del “disagio migrante”,

quando, in casi-limite, esso assume le vesti della psicopatologia, la quale richiede un

intervento esperto e competente in grado di far fronte adeguatamente al problema.

L’ analisi condotta in questo capitolo sul disagio migrante e sui nuovi dispositivi di

indagine e cura delle psicopatologie migranti, ci consente, a conclusione di questo

26

Cfr. T. NATHAN, “Fier de n’avoir ni pays ni amis, quelle sottise c’était”. Modificazioni tecniche e concettuali recentemente apportate alla psicopatologia attraverso la clinica etnopsicoanalitica, in: AA.VV., Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni, a cura di Virginia De Micco e Pompeo Martelli, Liguori Editore, Napoli, 1993, pp.81-93.

47

elaborato, di focalizzare l’attenzione sulle proposte didattiche e formative promosse

in direzione dell’intercultura, capaci di prevenire la formazione di quel modello

patologico sopra descritto, mediante l’incontro/confronto tra le diversità, che

consente di conoscersi e di integrarsi in un’unica comunità, rimuovendo in tal modo

il germe del razzismo da un lato e l’origine dell’estrema solitudine migrante

dall’altro.

48

CAPITOLO III

NUOVI BISOGNI EDUCATIVI E PRATICHE DI INTERCULTURA

3.1 La comunità globale: terreno di nuovi bisogni educativi

Molti sono gli studiosi che hanno formulato un’analisi dettagliata degli aspetti

molteplici che fondano e caratterizzano la società contemporanea, elencando e

valutando le potenzialità creatrici e insieme distruttrici che scaturiscono dalla rapida

evoluzione culturale e tecnologica cui stiamo assistendo.

Riferendoci alla nostra realtà possiamo ormai parlare di una “globalizzazione” di

eventi economici, politici, culturali e comunicativi, che produce l’abolizione di

qualsiasi distanza geografica e di ogni barriera cognitiva e sociale 27

.

La globalizzazione è un fenomeno che interessa il mercato economico e il sistema

produttivo ma anche la rete di comunicazione tra i diversi attori sociali,

contrassegnata oggi da una facilità e velocità di spostamenti materiali e virtuali in

tutto il pianeta, consentendo contatti prima impossibili da pensare e realizzare.

Attraverso questo processo si realizza un cambiamento dei termini di relazione

dell’individuo con lo spazio fisico, modificando il rapporto dei singoli con la terra

d’origine e costringendoci a relativizzare il concetto di appartenenza territoriale.

La rivoluzione telematica che è parte integrante del fenomeno di globalizzazione,

elimina i limiti spazio-temporali che in passato condizionavano i processi

27

Cfr. D. ZOLO, Globalizzazione, Laterza, Bari, 2009.

49

comunicativi e le relazioni e inaugura l’ampio spazio dell’etere elettronico, che

consente di comunicare con ogni latitudine del pianeta.

Questi contatti e spostamenti hanno posto le premesse per un nomadismo fisico,

intellettuale e culturale sempre più accentuato 28

.

Siamo entrati a far parte di una fitta rete di interazioni, scambi e migrazioni che

contribuiscono a creare la comunità globale, caratterizzata da una pluralità di popoli

e culture che convivono in un spazio senza confini.

Questo vortice di cambiamenti sociali e il confronto tra le tante diversità, come

abbiamo visto, può generare da un lato comportamenti di diffidenza, insofferenza e

intolleranza negli autoctoni fino ad espressioni di xenofobia e razzismo, dall’altro

sentimenti di disagio, solitudine e disorientamento nei nuovi arrivati. Nella comunità

globale si realizza un confronto per tutti molto complesso: la diversità provoca in

tutti diffidenze e paure, sulle quali, per rassicurarsi, si costruiscono pregiudizi e

stereotipi, che, consolidandosi, inducono comportamenti discriminatori e creano

disagio.

Dinanzi a questi dati di fatto possiamo dire che oggi tutti avvertono la necessità di

rassicurarsi non solo rispetto alle condizioni di lavoro e di vita, ma ad una vita

sociale e alla sicurezza personale, all’integrità fisica e morale, all’identità culturale e

religiosa.

In quest’ambientazione complessa e multiforme emergono i nuovi bisogni educativi

e le nuove proposte didattiche e formative dell’intercultura, che si pongono

l’obiettivo primario e urgente di attivare un processo di confronto, di conoscenza, di

28

Cfr. F. PINTO MINERVA, L’intercultura, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 6-7.

50

dialogo e di interazione, a partire dalla scuola, nel rispetto delle diverse culture,

percepite come risorsa e ricchezza, e dei valori fondamentali della democrazia 29

.

3.2 Intercultura: emergenza e sfida per la costruzione di una nuova forma

mentis

Per comprendere le ragioni e le caratteristiche dell’intercultura, quale sede

privilegiata di pratiche formative e didattiche che sappiano corrispondere ai bisogni

della comunità globale, dobbiamo preliminarmente compiere una distinzione tra il

concetto di intercultura e quello di multicultura, termini entrati nell’uso comune e

spesso utilizzati indistintamente a causa di una cattiva conoscenza del loro

significato.

Per multicultura si intende la trascrizione di una realtà di fatto, che vede la

compresenza nello stesso territorio, di popoli diversi per etnia, lingua e cultura. Il

termine si limita a registrare una realtà oggettiva, oggi sempre più diffusa, ma non

implica alcun giudizio di valore circa la possibilità di un confronto, incontro e

scambio tra queste popolazioni.

Il concetto di intercultura invece, si riferisce ad un progetto più che ad una realtà

oggettiva, esso richiama infatti l’impegno a ricercare forme, strumenti e occasioni

per sviluppare un confronto e un dialogo costruttivo e creativo. L’intercultura

presuppone la capacità e la volontà di promuovere l’analisi e la comparazione di

idee, valori e culture differenti con lo scopo di trovare intese e punti di incontro che

29

Cfr. R.BONANNI, Dalle analisi alle politiche. L’antidoto è l’integrazione , in “Scuola e Formazione”, anno XIII n.4/5, aprile/maggio 2010, pp. 20-21.

51

non annullino le differenze ma le esaltino, riconoscendole come risorsa per il bene di

tutti.

E’ doveroso precisare oltretutto, che in un paese il passaggio dalla dimensione

multiculturale a quella interculturale non è mai automatico e consequenziale. Se la

multicultura è una condizione oggettiva di compresenza di più culture, l’intercultura

è la risposta educativa alla società multiculturale e multietnica. Su questa base si

sviluppa l’idea di una transculturalità che attraversa e oltrepassa i confini delle

singole culture e si fonda sul riconoscimento della comune appartenenza alla specie

umana e alla comune terra-madre 30

. L’intercultura si pone come emergenza primaria

nella realtà attuale col fine di creare un nuovo modello di cultura che metta in

discussione le certezze millenarie della tradizione occidentale e apra nuove frontiere

etiche, cognitive, antropologiche, sociali e politiche. Il progetto interculturale intende

promuovere una visione “laica” della cultura e della convivenza sociale, che si fondi

sui criteri della tolleranza e del dialogo, e non su quelli dell’appartenenza e della

Tradizione unica e vincolante.

L’intercultura diventa quindi, una sfida radicale alla mentalità corrente e comune,

radicata nelle convinzioni della tradizione e divenuta habitus mentale dell’uomo

occidentale, ancorato ad un profondo etnocentrismo 31

. L’etnocentrismo infatti,

nasce dal privilegiamento dell’identità di una cultura che si ritiene superiore e

dominante rispetto ad altre. Esso è separatezza ed esclusività di una cultura e produce

il rifiuto dell’incontro con l’alterità. Questa malattia si è diffusa in Occidente in

secoli di storia, a partire dagli eventi della scoperta dell’America fino al clamoroso

30

Cfr. F. PINTO MINERVA, L’intercultura, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 13-14. 31

Cfr. F.CAMBI, Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma, 2008, p.15.

52

dramma dei giorni nostri quale quello dell’Olocausto, in cui l’Occidente ha portato

avanti con fierezza lo stendardo della “superiorità” della propria specie e cultura 32

.

La sfida dell’intercultura intende rompere con questo passato etnocentrico,

imperialistico, coloniale e razzista e consiste nella disponibilità ad uscire dai confini

della propria cultura per entrare nei territori di altre culture e apprendere a vedere e

interpretare la realtà secondo schemi e sistemi simbolici differenziati e molteplici 33

.

Oltre ad essere un’emergenza culturale e sociale, l’intercultura è anche un compito

socio-politico, finalizzato ad elaborare un sapere e un agire che apre spazio ad una

nuova forma mentis, ad un nuovo stile cognitivo ed emotivo che consenta un

approccio inedito alla realtà plurale, riconoscendo all’alterità un valore e un ruolo-

guida 34

.

3.2.1 Le strutture dell’intercultura

L’intercultura si articola in una serie di pratiche educative, idonee a raggiungere

l’obiettivo di garantire una convivenza solidale tra le diversità che abitano la società

odierna.

Per questo motivo ritengo opportuno fissare per un attimo lo sguardo sulle “strutture”

portanti che connotano le pratiche dell’intercultura, quali lo sguardo antropologico,

la differenza e il dialogo, così come ci vengono suggerite da Franco Cambi,

attraverso cui si costruiscono le premesse per la realizzazione di un ambiente che si

arricchisce grazie al confronto e allo scambio tra le culture.

32

Ivi, p. 104. 33

Cfr. F. PINTO MINERVA, L’intercultura, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 15. 34

Cfr. F.CAMBI, Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma, 2008, pp. 71-72.

53

Lo sguardo antropologico è il punto di partenza per lo sviluppo della società

interculturale e consiste nel distacco da ciò che siamo e nell’attenzione all’alterità, a

ciò che è diverso da noi. Come gli antropologi partecipano per comprendere e si

decostruiscono per partecipare, così ad ognuno viene richiesto di uscire da sé per

incontrare l’altro e comprenderlo.

La differenza etnica, religiosa, sessuale, fino a ieri è stata considerata come un

disvalore e un veleno nocivo da sopprimere ed eliminare. Oggi invece l’orizzonte è

cambiato e la differenza è vissuta come valore antropologico di articolazione

dell’umano, di variazione di prospettive e di pluralismo di valori e modelli. Tale

valore ha riportato al centro dell’attenzione nuove forme culturali emarginate, come

le emozioni, i sentimenti, la fantasia, ecc. Da essa poi, emergono e si consolidano i

principi della tolleranza, della convivenza, e quindi l’accordo, le regole e il contratto

che fondano un nuovo tipo di società in cui la democrazia, intesa come eguaglianza

nella differenza e partecipazione nella giustizia e nella libertà, rappresenta il collante

che ha sostituito il concetto di appartenenza. Appartenenza significa “avere radici”,

far parte di una terra-storia e in essa collocare il proprio sé, che da lì trae

orientamento e senso; essa genera chiusura ed isolamento e quindi si contrappone

all’incontro e alla comprensione dell’altro.

Il dialogo non è uno strumento, bensì il fine cui l’intercultura tende. Esso si fonda su

regole precise e nasce dall’ascolto reciproco tra i dialoganti. Il dialogo comporta uno

sforzo cognitivo ed etico, è insieme critica e costruzione e consente la comprensione

dell’alterità e lo spostamento di prospettive, di cui l’intercultura si nutre 35

. Il dialogo

costruisce un luogo di incontro e scambio tra culture, etnie e gruppi che su questo

35

Ivi, pp. 107-108.

54

terreno mostrano i loro “pregiudizi” e si aprono all’ascolto. Il dialogo appartiene ai

soggetti aperti alle istanze dell’intercultura e produce la costruzione di una nuova

identità, che non è basata sull’appartenenza ma sulla migrazione. “Migrare” è uscire

dal proprio habitat ma soprattutto è incontrare l’altro (la differenza) e lasciarsi

attraversare da esso per costruire il meticciato. “Meticciato” significa accogliere le

ragioni dell’altro, le caratteristiche della sua cultura, le forme della sua identità

poiché è il dialogo stesso che trasforma, miscela e crea comunicazione e scambio 36

.

Mediante queste strutture l’intercultura prende forma e accompagna quel processo di

melting pot, cioè quella mescolanza consapevole in grado di produrre una

convivenza democratica che consenta di incorporare regole e fini della democrazia,

dal pluralismo alla tolleranza, dall’incontro all’ascolto reciproco, e costruire una

cittadinanza in un unico spazio-tempo che ha allargato i propri confini e “superato”

la semplice appartenenza37

.

3.2.2 Pensiero interculturale: tra Decostruzione e Costruzione

La molteplicità delle culture, delle etnie, delle lingue, il pluralismo delle versioni del

mondo e delle intelligenze sono la premessa per la costruzione di un pensiero

interculturale, che di seguito cercherò di analizzare per comprendere la via che

conduce ad esso.

La realizzazione di questo obiettivo avviene mediante la Decostruzione e la

successiva Costruzione di un pensiero nuovo. Occorre cioè decostruire e smontare

36

Ivi, p. 86. 37

Ivi, p. 108.

55

assetti di pensiero che si sono consolidati in secoli di storia, in una lunga tradizione

di etnocentrismo, assoggettamento, sfruttamento, colonizzazione ed espropriazione

del patrimonio culturale, simbolico e mentale di popoli diversi e lontani. Questi

assetti sono il frutto di quel pensiero totalitario, gerarchico e monoculturale, che

sottomette e subordina, elimina le differenze collettive ed individuali e produce

integralismi e fondamentalismi, ancorato in maniera ottusa alle sue certezze, e che

produce e alimenta pregiudizi38

. Decostruire però non vuol dire rovesciare o

annullare l’identità, bensì metterla in discussione come punto di vista assoluto, che

non esclude altri punti di vista, ma ne tiene conto e si misura con essi. Si tratta di

dare spazio ad una visione relativistica, più critica e dinamica delle culture a partire

da quella di origine, mettendone in luce la parzialità di valori, modelli e schemi

mentali 39

.

Parallelamente alla Decostruzione va progettata la Costruzione di un nuovo pensiero

interculturale, relazionale e dialogico mediante un lungo apprendimento che

consenta di passare:

- da un pensiero assiomatico ad un pensiero complesso, in grado di reggere

l’incertezza, emanciparsi dai limiti e dalle limitazioni di un codice unico e

totalizzante per costruire codici alternativi e plurali;

- da un pensiero normativo ad un pensiero condizionale, che non si nutre solo

di certezze per cui l’argomentazione si fa più libera e mutevole;

- da un pensiero autocentrato ad un pensiero trasversale, in grado di

individuare le diverse prospettive da cui poter guardare la realtà;

38

Cfr. F. PINTO MINERVA, L’intercultura, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 19. 39

Cfr. F.CAMBI, Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma, 2008, p.35.

56

- da un pensiero disgiuntivo ad un pensiero relazionale e dialogico, capace di

costruire saldature e operare connessioni ed intersezioni;

- da un pensiero dogmatico ad un pensiero mobile e flessibile, capace di

ridefinirsi a partire dal confronto e di apprendere la transizione e il cambiamento

richiesti da una società multiculturale;

- da un pensiero statico e rigido ad un pensiero migrante ed erratico, capace di

allontanarsi dalle proprie rappresentazioni mentali, di andare verso l’altro e ritornare

in se stesso arricchito dall’esperienza di confronto e scambio.

L’obiettivo finale è quindi quello di costruire un pensiero complesso, condizionale,

trasversale, relazionale e dialogico, mobile e flessibile, migrante ed erratico, che

sappia difendere quei principi universalistici che sono alla base dei diritti umani e il

valore di difesa della dignità umana nella singolarità delle sue diverse

manifestazioni40

.

In questa prospettiva si colloca il fondamentale ruolo dell’educazione e della

formazione, chiamate a superare ogni tipo di appartenenza, ripensando l’identità e la

differenza mediante questo percorso di decostruzione e ricostruzione.

3.3 Il ruolo della pedagogia e le pratiche dell’intercultura

La costruzione del pensiero interculturale, la realizzazione di una società aperta al

dialogo e alla convivenza pacifica tra entità eterogenee non è un meccanismo

automatico, innescato dal multiculturalismo che caratterizza la realtà contemporanea.

40

Cfr. F. PINTO MINERVA, L’intercultura, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 20.

57

Il processo che conduce a questi traguardi va guidato, programmato e voluto, poiché

dentro la stessa società multiculturale la reazione spontanea non è quella della

convivenza nello spirito comune della cittadinanza, bensì quella della subordinazione

o della chiusura o dell’esclusione.

E’ necessaria una solida consapevolezza pedagogica che realizzi un iter formativo

opportunamente orientato, organizzato, diretto e controllato per dare corpo a quel

processo che altrimenti resterebbe soltanto un auspicio e un modello astratto.

In funzione di ciò la pedagogia deve liberarsi dal suo rigido habitus retorico-

deontologico-normativo e conciliare prassi e teoria secondo un modello di pedagogia

critica e di ricerca-azione. Come pedagogia critica essa deve accompagnare la

teorizzazione plurale, complessa intorno al multiculturale e alla formazione della

multiculturalità, producendo modelli interculturali secondo i principi di convivenza

democratica e di cittadinanza metacomunitaria.

L’intercultura interpreta la vocazione stessa della pedagogia, quella di

emancipazione da radicamenti bloccanti, da appartenenze bloccanti, da appartenenze

esclusive che si oppongono alle molteplici esperienze di arricchimento.

Come ricerca-azione deve dar corpo ad una serie di pratiche che diano vita a quei

processi di decostruzione delle appartenenze e delle esclusioni e di apertura alla

tolleranza, all’ascolto e al costruire insieme, che possiamo definire pratiche di

intercultura appunto.

Queste pratiche conducono ad una nuova idea di pedagogia, lontano dall’idea

tradizionale, che si fonda su una comunicazione che diventa valore-guida della

formazione e che va oltre l’identità, attraverso i principi della differenza e della

58

krasis, di quella mescolanza che non è confusione ma accordo, collaborazione,

interazione, scambio comunicativo ed ethos democratico41

.

3.4 L’educazione interculturale a scuola e non solo

Ausilio per la nostra discussione circa la missione dell’educazione interculturale è

ciò che scrive Giuseppe Acone a riguardo:

<<l’errore da evitare assolutamente è credere che basti affermare l’esigenza

dell’universalismo perché questa produca per incanto educazione e

universalità, mondialità e comportamenti aperti… Diventa quindi essenziale

approntare anche una rete di strumenti e di mediazioni culturali ‘oltre’ la pur

necessaria affermazione dell’interculturalità, dell’universalità e della

mondialità dell’educazione. E diventa essenziale sottrarre la cultura di tale

universalismo al relativismo radicale che è tipico di certe culture e certe

antropologie materialistiche. Il personalismo pedagogico e l’umanesimo

cristiano dovranno costruire strumenti e mediazioni autonome su questo

discorso, non basta enunciare il principio, bisogna approntare i mezzi

altrimenti l’interculturalità resterà sul terreno dell’evocazione proiettiva di

un’utopia contro la vittoria di Babele 42

.>>

L’educazione interculturale rappresenta l’innovazione più significativa degli ultimi

anni nel campo delle scienze dell’educazione, sollecita la messa a punto di itinerari

specifici che richiedono l’apporto di altre scienze oltre alla pedagogia, quali

l’antropologia culturale, la sociologia, la storia, la geografia a cui si sommano gli

apporti tradizionali di psicologia e filosofia. In particolare dobbiamo riconoscere

l’apporto primario dell’antropologia, per cui non può esistere un’educazione

interculturale che prescinda dall’antropologia, perché quest’ultima le conferisce la

capacità di interpretare l’umano nella sua totalità, pur cogliendolo come un insieme

41

Cfr. F.CAMBI, Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma, 2008, pp. 38-40. 42

S. CLARIS, A scuola di intercultura. Proposte educative e didattiche, Editrice La Scuola, Brescia, 2002, p.11.

59

diversificato. Mentre l’etnologia e l’etnografia approfondiscono le eterogeneità,

l’antropologia, quale scienza dell’identità, scienza dell’Umano in generale, mira ad

evidenziare e portare alla luce i nuclei costanti, le interdipendenze, le reti spirituali e

affettive che legano tra loro le diverse culture e società. Grazie a questo contributo

l’educazione interculturale si pone l’obiettivo di educare ad una conoscenza globale

dell’uomo e di scoprire le proprietà generali della natura umana, valide per tutte le

società e culture umane43

.

La dimensione interculturale dell’educazione si riferisce al suo oggetto, alla relazione

educativa, alla mediazione didattica e all’approccio metodologico, agli oggetti scelti

come interculturali o tali da poter aiutare la formazione interculturale.

Educare ed educarsi al plurale rappresenta ormai un’esigenza innegabile, che si

realizza mediante un rinnovamento della formazione dell’uomo e del cittadino che

dovrà imparare a convivere con altre culture ed etnie in un circolo virtuoso. Questo

processo coinvolge non solo la mente dell’uomo ma anche le sue emozioni, i

sentimenti, i valori profondi che condizionano e caratterizzano l’agire di ogni

individuo.

L’educazione interculturale si configura come un tirocinio di nuove modalità di

esercizio di socialità costruttiva e flessibile, che richiede competenze pratiche ed

operative.

Spazio privilegiato di pratica dell’educazione interculturale è la scuola, che è il luogo

per eccellenza in cui si realizza l’incontro tra le diversità.

Ciò nonostante è necessario precisare che la questione interculturale non è solo una

questione educativa e scolastica poiché coinvolge tutte le società di questo tempo,

43

Cfr. L. MARCHETTI, La luce della notte. Modelli per una didattica delle culture, Palomar, Bari, 2011, p. 252.

60

perciò richiede anche nuove risposte giuridico-amministrative, economiche, politiche

e culturali. Nei sistemi sociali e sul piano della convivenza quotidiana si devono

approntare molteplici strategie di intervento di fronte ai bisogni di lavoro, di

accoglienza, di cultura, di istruzione. A tal proposito, Porcher propone di mettere in

campo:

1. azioni di portata generale, di universalità relativa, riguardo ad una cultura dei

diritti dell’uomo, ai valori e alle loro rappresentazioni, all’interculturalità

come progetto civile e sociale;

2. azioni contestualizzate, inserite nel campo socio-culturale;

3. azioni di coordinamento tra il sistema socio-educativo e scolastico e mass-

media, servizi sociali, politiche di integrazione…;

4. interventi mirati ad armonizzare teorie e pratiche44

.

Nel prosieguo del presente lavoro tuttavia, intendo parlare più specificatamente del

ruolo cruciale che la scuola ha nello svolgimento delle pratiche dell’educazione

interculturale, la quale detiene il potere insostituibile di sanare le fratture e i conflitti

della nostra realtà, che possono divenire fonte di disagio.

3.5 La scuola: laboratorio di ricerca delle differenze e spazio di incontro

Tra le istituzioni sociali la scuola è quella che maggiormente si è aperta alla

prospettiva interculturale perché è stata la prima a dover fare i conti con le differenze

44

S. CLARIS, A scuola di intercultura. Proposte educative e didattiche, Editrice La Scuola, Brescia, 2002, pp. 10-13.

61

di genere, di ceto, e in seguito con quelle etniche e culturali. Tante le esperienze

educative realizzate fino ad oggi nella scuola, che hanno permesso di sperimentare

situazioni e occasioni di educazione ‘alla’ diversità, ‘con’ la diversità e ‘attraverso’ la

diversità; si pensi alle iniziative per fronteggiare lo svantaggio scolastico e socio-

culturale e ai progetti di integrazione dei soggetti disabili, ecc.

A scuola, bambini e bambine hanno l’opportunità di praticare attività di analisi-

confronto con codici culturali diversi dai propri ed esercitare il pensiero a

decentrarsi, distanziando i propri modi di leggere e interpretare la realtà e a ritornare

alla propria cultura, rileggendola e ripensandola attraverso l’esperienza del

confronto. A scuola si costruisce quel pensiero nomade e migrante con cui coniugare

vicino e lontano, particolarità e universalità e che costituisce la mèta indispensabile

per diffondere una cultura della pace, del confronto e dello scambio, nell’ottica

interculturale.

La scuola diventa un’insostituibile laboratorio di ricerca delle differenze, assunte

come preziose risorse per ripensare il rapporto tra l’orizzonte unitario e comune della

solidarietà planetaria e la pluralità dei modi di pensare e di abitare la Terra.

Nell’epoca in cui il nostro paese è diventato mèta di intere popolazioni migranti,

l’educazione interculturale impartita a scuola diventa una priorità irrinunciabile per

realizzare una ‘storia comune’ e ‘solidale’.

Quest’obiettivo è raggiungibile attraverso un progetto formativo idoneo a

promuovere forme di convivenza costruttiva, attraverso cui l’incontro con l’alterità

sappia andare oltre la semplice tolleranza della diversità e creare un’interdefinizione

cognitiva ed etica, in cui le coordinate conoscitive e valoriali di ciascuna delle

62

culture coinvolte si aprono allo scambio, al confronto, alla solidarietà e dove i popoli

ospitati e quelli accoglienti si trovano accomunati da un duplice impegno:

- il primo ha come obiettivo il superamento di ogni etnocentrismo e

l’attivazione del confronto, della conoscenza reciproca e della comunicazione

continua e costruttiva;

- il secondo assume l’obiettivo di ampliare il raggio di profondità di tale

processo di relativizzazione cognitiva, finalizzandolo alla lotta contro ogni

pregiudizio sociale nei confronti di tutte le diversità.

Per farsi promotrice e costruttrice di questo ambizioso e necessario progetto ‘inter-

trans-culturale’, la scuola deve sapersi rinnovare sul piano strutturale e curricolare,

rivedere i suoi programmi così come l’organizzazione dei tempi, degli spazi, delle

relazioni, della professionalità docente.

A partire dalla scuola dell’infanzia, l'istituzione scolastica deve interrogarsi sulle

forme e sui comportamenti di chiusura e intolleranza verso la diversità in generale e

successivamente organizzare contesti e itinerari formativi che sappiano rovesciare

questi atteggiamenti, trasformandoli in apertura intellettuale, disponibilità emotiva e

ricchezza emotiva. Si dovrà progettare una scuola della comprensione e della

collaborazione che orienti ogni fase della sua offerta formativa e le modalità di

organizzazione didattica, dalle classi alle lezioni individualizzate, in questa

direzione.

Concludiamo dicendo che una scuola accogliente è una scuola che:

1. dichiari esplicitamente di condannare ogni forma di razzismo e di

discriminazione etnica e culturale e ponga tale obiettivo al centro della propria

proposta educativa;

63

2. traduca queste dichiarazioni di principio nella predisposizione di un Piano

dell’offerta formativa che sappia tener conto e soddisfare gli specifici bisogni

formativi dei bambini migranti;

3. utilizzi come punto di forza nella propria azione il modello dell’integrazione

interistituzionale, coinvolgendo in questo progetto tutte le forze istituzionali

interne ed esterne alla scuola;

4. capitalizzi le sue risorse, materiali e professionali, intorno all’obiettivo

dell’educazione interculturale, nella consapevolezza che da ciò trarranno benefici

non solo i bambini migranti ma anche i bambini autoctoni, che avranno modo di

sperimentare la ricchezza e la produttività dello scambio e del confronto

interculturale45

.

La scuola, dalla primaria all’Università, più di qualsiasi altra istituzione può e deve

contribuire a far sì che i migranti lascino nel nuovo paese di residenza “tracce di sé”,

naturalmente la scuola pubblica, cioè la scuola di tutti che prescrive l’integrazione e

il diritto generale all’istruzione anche per gli stranieri non regolari, come previsto

dalla normativa vigente46

. La scuola deve diventare il luogo privilegiato della

conoscenza reciproca, in essa si impara a crescere insieme, con la curiosità e il

rispetto per gli altri.

Questa prospettiva ci permette di comprendere che la scuola, tramite l’esercizio

dell’educazione interculturale e di una didattica orientata in tal senso, può

rappresentare l’antidoto principale per prevenire il disorientamento del migrante così

come l’atteggiamento intollerante ed etnocentrico degli autoctoni.

45

Cfr. F. PINTO MINERVA, L’intercultura, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 41-49. 46

Cfr. L. MARCHETTI, La luce della notte. Modelli per una didattica delle culture, Palomar, Bari, 2011, p. 236.

64

3.5.1 La “Didattica della carezza”

Il cuore dell’educazione interculturale è rappresentato dalla cosiddetta “Didattica

della carezza”, che ci viene illustrata da Laura Marchetti in un recente lavoro sulla

didattica delle culture.

La didattica è nella sua origine greca un’arte non una tecnica, che ha la funzione di

insegnare modi di pensare e di essere in vita trasmessi da un maestro ad un allievo,

ma anche di modi di essere e pensare da una generazione ad un’altra. Essa perciò

veniva praticata all’aria aperta e si configurava come una “didattica viva”, etica e

conoscitiva che utilizzava il dialogo al posto del manuale. Il dialogo trovava

fondamento nell’amicizia, nel sentimento di philia, che è la forma più alta di

comprensione della differenza. L’amicizia, che è divenuto il valore fondante la

Costituzione del Sudafrica post-apartheid, non presenta gli eccessi e il pericolo di

inghiottimento dell’amore né la freddezza della distanza e della semplice tolleranza.

Nell’amicizia c’è la giusta distanza della carezza, come diceva Levinas, che si basa

sulla cura e sull’ascolto affettivo della soggettività dell’altro. L’anima della didattica

dell’intercultura è :

<<una didattica erotica, lucida nell’osservare l’altrui differenza, magica

nell’annullarla sfiorando l’altrui volto con la mano>>. (Cit. Laura Marchetti)

Essa è una didattica materna che affida all’insegnante il ruolo valorizzante e

maieutico della madre, non distruttiva e invadente, domestica perché capace di far

sentire tutti a casa. E’ una didattica corporea e cooperativa capace di creare spazi di

collaborazione e di cooperazione, in cui imparare, insegnare e diventare insegnanti.

Una didattica, che assume queste caratteristiche e modalità, rappresenta il

fondamento di una scuola capace di essere all’altezza dei tempi che viviamo, che non

65

divenga una grande disadattata che produce esseri umani disadattati, discriminati e

nuovi disavanzi culturali delle differenze culturali e dei ritardi cognitivi (Cit.) e

quindi il valore basilare di una educazione che sia capace di prevenire e annullare

ogni tipo di disagio47

.

3.5.2 Il contributo dei Programmi Ministeriali

Per comprendere meglio cosa si deve intendere per educazione interculturale a

scuola, può esserci utile ripercorrere le tappe storiche attraverso cui essa è emersa e

si è consolidata nei Programmi e nei documenti normativi ufficiali che hanno segnato

la vita della scuola italiana, a partire dal 1955 fino ai nostri giorni.

La normativa scolastica per l’integrazione dei bambini immigrati rivela una

progressiva sensibilizzazione al problema, confermata anche dalla parallela

evoluzione della normativa di carattere generale conseguentemente alle

trasformazioni che nel tempo si sono manifestate nel fenomeno migratorio.

Dobbiamo precisare che nello specifico il concetto di intercultura lo ritroviamo solo

a partire dagli anni ’80 nella normativa scolastica, eppure andare ancora più indietro

nel tempo ci aiuta a comprendere la genesi di questa tematica in ambito scolastico e a

maturare quindi, una maggiore consapevolezza per le scelte da operare nel presente.

Partendo dall’analisi dei Programmi didattici per la scuola elementare del 1955, ci

rendiamo conto di essere ancora lontani dalla dimensione europea ed internazionale

dell’educazione che andrà formandosi negli anni a venire dietro la spinta dei processi

47

Cfr. L. MARCHETTI, La luce della notte. Modelli per una didattica delle culture, Palomar, Bari, 2011, pp. 301-304.

66

di integrazione europea e lo sviluppo della coscienza democratica. In essi infatti,

troviamo solo un breve cenno ad una conoscenza iniziale ed episodica dei paesi

europei ed extraeuropei, mentre ci si focalizza maggiormente sulla promozione di

insegnamenti orientati all’amore e alla conoscenza della patria.

Anche i Programmi didattici per la scuola media promulgati con D.M. 9 febbraio

1979 non affrontano ancora in modo esplicito le tematiche dell’educazione

interculturale, eppure ritroviamo alcuni segni di apertura all’educazione in chiave

europea e mondiale. In modo particolare il paragrafo 5 della IV parte

(socializzazione), dedicata alle discipline come educazione e alle metodologie

dell’apprendimento, sottolinea l’importanza dell’educazione al vivere insieme ed

all’operare in spirito di solidarietà con gli altri nella costruzione del bene comune.

Questa educazione, che si serve di concrete esperienze di cooperazione come il

lavoro di gruppo, contribuisce alla formazione del cittadino, allo sviluppo sociale e

soprattutto alla formazione del rispetto reciproco, inducendo ad assumere

comportamenti democratici ed una visione più ampia della gestione della realtà,

estesa a tutta l’Europa. Sebbene si profili un ampliamento di orizzonti, ci troviamo

ancora di fronte indicazioni che ruotano intorno alla dimensione nazionale ed

europea, con qualche riferimento a possibili contatti con culture extraeuropee, ma

non è ancora presente in essi l’esigenza interculturale vera e propria.

In essi leggiamo:

<< Ponendo gli alunni a contatto con i problemi e le culture di società diverse

da quella italiana, la scuola favorirà anche la formazione del cittadino

dell’Europa e del mondo, educando ad un atteggiamento mentale di

comprensione che superi ogni visione unilaterale dei problemi e avvicini

all’intuizione di valori comuni agli uomini pur nella diversità delle civiltà,

67

delle culture e delle strutture politiche48

>> (dai Programmi didattici della

scuola media, 1979).

Risalgono al 1985 i Programmi della scuola elementare che riflettono una sensibilità

più aperta e sono ricchi di riferimenti all’educazione interculturale. Gli anni ’80 sono

gli anni in cui il nostro Paese è percorso dai primi fermenti interculturali e dai primi

processi di migrazione di massa.

A partire dalla premessa questi programmi rivelano riferimenti connessi con

l’interculturalità, in particolare nella prima parte dedicata ai caratteri e ai fini della

scuola elementare, nella seconda sui caratteri di una scuola adeguata alle esigenze

formative del fanciullo. La terza parte, dedicata alle linee del programma, alla

programmazione ed organizzazione didattica, alla valutazione, ai programmi delle

discipline di studio, ci interessa soprattutto per individuare negli obiettivi e contenuti

o nelle indicazioni metodologiche delle diverse materie quanto di “interculturale” o

di orientabile in tal senso viene enunciato.

Leggiamo:

<<Il fanciullo sarà portato a rendersi conto che "tutti i cittadini hanno pari

dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di

razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e

sociali" (art. 3 Cost.) La scuola è impegnata ad operare perché questo

fondamentale principio della convivenza democratica non venga inteso come

passiva indifferenza e sollecita gli alunni a divenire consapevoli delle proprie

idee e responsabili delle proprie azioni, alla luce di criteri di condotta chiari e

coerenti che attuino valori riconosciuti49

>> (dai Programmi didattici per la

scuola elementare, 1985).

Anche le indicazioni presenti nei successivi Nuovi Orientamenti per la scuola

materna del 1991 sono calate nella realtà della contemporanea società plurale e

48

Tratto dal sito web: http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/strumenti/normativa/Programmi/media.htm in data 5/02/2012 49

Tratto dal sito web: http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/strumenti/normativa/Programmi/primaria.htm in data 5/02/2012

68

complessa, con l’accentuazione della necessità di una convivenza basata sulla

cooperazione, lo scambio e l’accettazione produttiva della diversità come valore e

opportunità di crescita democratica. Da essi si deduce il fondamentale ruolo della

scuola dell’infanzia nella maturazione dell’identità del fanciullo, nella sua conquista

dell’autonomia e nello sviluppo delle sue competenze. Il riconoscimento della

pluralità culturale e della complessità sociale sono cifre distintive e culturalmente

presenti nel testo e nelle proposte operative50

.

<< Un risalto del tutto particolare spetta all’educazione alla multiculturalità,

che esige la maggiore attenzione possibile per la conoscenza, il

riconoscimento e la valorizzazione delle diversità, che si possono riscontrare

nella scuola stessa e nella vita sociale in senso ampio51

>> (dai Programmi

didattici per la scuola materna, 1991)

Infine concludiamo con un breve ai Programmi didattici per la scuola secondaria

del 1992. Essi analizzando e reinterpretando in modo corretto e attento le dinamiche

formative contemporanee, hanno perseguito l’ambizioso traguardo dell’intercultura

nelle varie discipline. In particolare i programmi di lingua straniera per il biennio

propongono le finalità della "formazione umana sociale e culturale mediante il

contatto con altre realtà, in un’educazione interculturale che porti a ridefinire i

propri atteggiamenti nei confronti del diverso da sé52

".

50

Cfr. S. CLARIS, A scuola di intercultura. Proposte educative e didattiche, Editrice La Scuola, Brescia, 2002, pp.23-33 51

Tratto dal sito web: http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/strumenti/normativa/Programmi/materna.htm in data 5/02/2012 52

Tratto dal sito web: http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/strumenti/normativa/Programmi/superiore.htm in data 5/02/2012

69

3.5.3 Il contributo dei documenti normativi e regolamentari

Tra gli altri riferimenti normativi fondamentali, ricordiamo la C.M. 8/9/1989 n.301 e

la C.M. 26/7/1990 n.205 con le quali il ministero della Pubblica Istruzione ha avviato

un progetto più articolato di integrazione scolastica. Queste hanno fornito indicazioni

sul tema generale dell’educazione interculturale e su quello più specifico della

presenza a scuola di alunni stranieri.

Il Progetto ‘Ragazzi 2000’ della C.M. 2/8/1991 n.240 richiama la scuola

dell’obbligo al tema dell’intercultura, proponendo “l’educazione ai diritti umani e

alla pace, alla cooperazione ed allo sviluppo, all’integrazione fra i diversi,

l’educazione ambientale.”

Nel dicembre del 1991 si svolse un convegno, organizzato dal Ministero della

Pubblica Istruzione, sul tema “Migrazioni e società multiculturale: il ruolo della

scuola”. Durante i lavori emerse la complessità del problema a livello nazionale e

internazionale. Vennero presentate anche esperienze già realizzate e l’anno

successivo nelle scuole fu promosso lo svolgimento di una settimana di dialogo

interculturale promosso dal Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione

sull’educazione interculturale.

La successiva C.M. n.73 del 1994, dal titolo impegnativo “Dialogo interculturale e

convivenza democratica: l’impegno della scuola”, fornì importanti apporti alla

tematica interculturale, affermando la necessità di una riflessione intenzionale e

sistematica, nelle scuole di ogni ordine e grado, per formulare risposte convincenti ai

bisogni formativi legati al fenomeno multiculturale nella società odierna e alla

conflittualità che ne consegue. Per raggiungere questo obiettivo si richiede ai docenti

70

una rinnovata professionalità, che si manifesta con un rinnovato spirito collaborativo

e partecipativo nel quotidiano far scuola.

Interventi più recenti possiamo trovarli nella Direttiva 8/2/1998 n.58 dal titolo

“Ruolo dell’educazione e della scuola nella società odierna. Programmi di

insegnamento di educazione civica”. In essa l’educazione interculturale viene

ritenuta una carta decisiva, esplicitandosi nella trasversalità dei contenuti e dei

metodi di insegnamento.

Anche gli adulti che frequentano le attività dei Centri Territoriali per l’istruzione e la

formazione in età adulta (di cui all’O.M. 455/1997), che promuovono corsi di

italiano per adulti, ma anche iniziative più ampie di educazione al vivere in

dimensione interculturale, sono diventati i destinatari di indicazioni che abbiano lo

scopo di superare gli stereotipi ed i luoghi comuni che circolano nell’opinione

pubblica.

Altri spunti provengono dal D.L. 25 luglio 1998 n.286 (“Testo Unico delle

disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione

dello straniero”) e dal relativo Regolamento attuativo. In questi documenti vengono

sottolineati i ruoli dei diversi attori istituzionali a riguardo dei minori e degli adulti

immigrati. In particolare l’art.38. comma 3 del decreto citato ribadisce che

<<la comunità scolastica accoglie le differenze linguistiche e culturali come

valore da porre a fondamento del rispetto reciproco, dello scambio tra le

culture e della tolleranza. A tal fine, promuove e favorisce iniziative volte

all’accoglienza, alla tutela della cultura e della lingua d’origine ed alla

realizzazione di attività interculturali comuni>>.

Nel corso del 2000 è stato messo a disposizione delle scuole un opuscolo con

allegato un CD elaborato in sede ministeriale dal titolo “Educazione interculturale

nella scuola dell’autonomia” ed è stato attivato un corso di formazione a distanza per

71

gli insegnanti, in convenzione con la Rai. Abbondante materiale pedagogico e

didattico si può infatti reperire visitando il sito del Ministero P.I. all’indirizzo:

www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura dove è possibile trovare anche

tutti i riferimenti normativi della tematica presente.

Un ulteriore contributo proviene dalla C.M. del 12.9.2000 redatta dalla

Commissione Nazionale per l’educazione interculturale, che affronta i temi

dell’identità della cultura e delle culture, dell’interculturalità e dei nuovi saperi. Si

parla esplicitamente di un “curriculum” interculturale quale percorso aperto alla

molteplicità dei saperi e alla diversità delle metodologie. L’educazione interculturale

diventa sfondo integratore a partire dal quale rivisitare ed arricchire i contenuti,

innovare le metodologie e gli strumenti, mettere in relazione i processi di

apprendimento.

Per concludere questa breve panoramica sulla normativa scolastica in tema di

intercultura, ritengo doveroso sintetizzare l’immagine dell’educazione interculturale

che risulta da questi contributi programmatici e normativi seguendo alcune linee

essenziali:

deve riguardare tutti gli alunni;

deve coinvolgere tutti i docenti;

non si tratta di una nuova disciplina o di una nuova educazione;

è affiancata spesso a temi quali:

- lotta al razzismo,

- prevenzione della xenofobia e di conflitti,

- educazione alla salute,

- educazione al rispetto dei diritti dell’uomo,

72

- educazione alla convivenza democratica, rinnovata;

in essa sono coinvolte le conoscenze (ambito cognitivo), ma anche gli

atteggiamenti, i comportamenti, le emozioni (empatia), ed i sentimenti (il rispetto);

si presenta come una finalità, composta da dichiarazioni di principio;

rimane implicito o affidato alle scuole, con che cosa, come, quando, con chi,

con quale organizzazione, con quali sussidi e mezzi “fare” educazione interculturale.

Questo quadro di riferimento lascia aperti spazi di incertezza e ambiguità, ma offre

anche interessanti e stimolanti possibilità di autonomia e progettualità alle scuole53

.

3.6 Le radici dell’educazione interculturale nella Dichiarazione sulla razza e sui

pregiudizi razziali

In una dissertazione che desidera asserire e dimostrare l’importanza dell’educazione

interculturale, quale risposta ai bisogni educativi della società multietnica, non ci si

può esimere dal rivolgere uno sguardo al primo testo che in Europa ha parlato di

educazione all’intercultura, che ci aiuterà a chiarire il senso e il significato profondo

della sua missione. La “Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali”

dell’UNESCO, l’organizzazione mondiale per l’Educazione, la Scienza e la Cultura,

adottata all’unanimità nel 1978 dalla Conferenza Generale dell'Organizzazione delle

Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura, riunita a Parigi per la sua

ventesima sessione, è il primo prezioso documento che illustra i concetti chiave che

fondano l’educazione interculturale. Esso sostiene preliminarmente l’infondatezza

53

Cfr. S. CLARIS, A scuola di intercultura. Proposte educative e didattiche, Editrice La Scuola, Brescia, 2002, pp. 35-39.

73

del concetto di “razza” e afferma la dignità, l’uguaglianza e il rispetto assoluto della

persona umana. Il concetto portante presente nella Dichiarazione è la prospettiva

interculturale, cioè “il riconoscimento del diritto alle diversità culturali” e “la

valorizzazione della differenza”, in seguito a cui si evince in essa l’impegno a

promuovere l’educazione transculturale, ovvero la valorizzazione degli elementi

comuni, non storici o geografici, ma eterni e indipendenti dalla distinzione tra popoli

e fronti54

, come possiamo riscontrare in alcuni punti focali della Dichiarazione

riportati di seguito.

<< Articolo 1:

1) Tutti gli esseri umani appartengono alla stessa specie e provengono dallo

stesso ceppo. Essi nascono uguali in dignità e diritti e fanno tutti parte

integrante dell'umanità.

2) Tutti gli individui e tutti i gruppi hanno diritto di essere diversi, di ritenersi

e di essere accertati come tali. […]

3) L'identità di origine non può condizionare la facoltà degli esseri umani di

vivere diversamente, così come non lo possono le differenze basate sulla

diversità delle culture, dell'ambiente e della storia, né può ledere il diritto di

mantenere la propria identità culturale.

4) Tutti i popoli del mondo sono dotati delle stesse facoltà che permettono loro

di raggiungere la pienezza dello sviluppo intellettuale, tecnico, sociale,

economico, culturale e politico.

5) Le differenze tra le realizzazioni dei diversi popoli sono determinate da

fattori geografici, storici, politici, economici, sociali e culturali. Queste

diversità non possono, in alcun modo, costituire un pretesto per una

qualsivoglia gerarchizzazione delle nazioni e dei popoli.

Articolo 5:

1) La cultura, opera di tutti gli uomini e patrimonio comune dell'umanità, e

l'educazione, nel senso più largo, offrono agli uomini e alle donne mezzi

sempre più efficaci di adattamento, che permettono loro non solo di affermare

che essi nascono uguali in dignità e in diritti, ma anche di riconoscere che essi

devono rispettare il diritto di tutti i gruppi umani all'identità culturale e allo

sviluppo della propria vita culturale nell'ambito nazionale e internazionale,

poiché spetta ad ogni gruppo di decidere liberamente se mantenere e,

54

Ivi, p.249.

74

eventualmente, adattare o arricchire valori che esso considera essenziali alla

propria identità.

2) Lo Stato, in conformità ai suoi principi e procedure costituzionali, come

tutte le autorità competenti e tutto il personale insegnante hanno la

responsabilità di preoccuparsi che le risorse nel settore dell'educazione di tutti

i paesi siano utilizzate per combattere il razzismo, specialmente facendo in

modo che i programmi e i libri di testo contengano nozioni scientifiche ed

etiche sull'unità e la diversità umane e non facciano distinzioni offensive nei

riguardi di un popolo, assicurando la formazione del personale insegnante a

questo scopo, mettendo le risorse del sistema scolastico a disposizione di tutti i

gruppi della popolazione senza restrizione né discriminazione razziale e

adottando disposizioni atte a sopperire alle limitazioni di cui soffrono alcuni

gruppi razziali o etnici per quanto riguarda il livello di educazione e il livello

di vita e ad evitare in particolare che questi comportamenti vengano trasmessi

ai fanciulli.

3) I grandi mezzi di informazione e coloro che li controllano o li gestiscono,

come ogni gruppo organizzato in seno alle comunità nazionali, sono chiamati -

tenendo nel dovuto conto i principi formulati nella Dichiarazione Universale

dei Diritti dell'Uomo e specialmente il principio della libertà di espressione - a

promuovere la comprensione, la tolleranza e l'amicizia tra gli individui ed i

gruppi umani, ed a contribuire ad eliminare il razzismo, la discriminazione

razziale cd i pregiudizi razziali, evitando in particolare di presentare in

maniera stereotipata, parziale, unilaterale o capziosa individui e differenti

gruppi umani55

. […]>> (Cit. “Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali”)

Questi brevi cenni del Documento rivelano l’affermazione dell’unità e

dell’uguaglianza della specie umana (nell’art.1) e la considerazione della cultura

come insieme universale e patrimonio comune dell’umanità (art.5, comma 2) da cui

discende il ruolo fondamentale dello Stato, del personale insegnante e dei mezzi di

informazione chiamati ad impegnarsi per combattere, ciascuno con i propri mezzi, il

razzismo.

I principi presenti nella Dichiarazione costituiscono le colonne portanti

dell’architettura interculturale.

55

Tratto dal sito web: http://www.arpnet.it/ahs/DICH-RAZZA-PREGIUD.htm in data 16/06/2012

75

Questi riferimenti ci sono utili per ribadire la nostra tesi circa l’importanza decisiva

dell’impegno della scuola e dell’educazione nel promuovere l’unità del genere

umano, contro ogni tentativo di gerarchizzazione e prevaricazione dei gruppi e delle

diversità che lo compongono, processi che gettano il germe del disagio e del

conflitto.

76

3.7 Conclusioni

L’ampia dissertazione che ci ha condotti sin qui, constatando l’aumento del

fenomeno migratorio e maturando la consapevolezza che esso rappresenta ormai una

componente ineludibile della nostra realtà, tanto da divenire oggetto di

provvedimenti normativi e istituzionali, passa in rassegna alcuni degli effetti e delle

reazioni che provoca considerando sia il disorientamento e la solitudine che il

migrante sperimenta nella nuova realtà, sia l’intolleranza e il rifiuto maturato negli

autoctoni.

Da questa analisi è emerso che l’uomo nella comunità globale, sia esso migrante o

autoctono, deve imparare a concepire e gestire la sua nuova condizione umana,

determinata dal complesso rapporto tra il carattere di globalità e di universalità del

suo essere in un mondo senza confini e la particolarità e la diversità che lo connotano

e che spesso lo oppongono e separano dagli altri uomini. Per fare ciò occorre

recuperare l’idea di una matrice identica per tutti, al di là delle singole diversità

individuali, culturali e sociali.

E’ qui che si inserisce il ruolo insostituibile dell’educazione, cui spetta il compito di

formare una “cittadinanza planetaria” che aspiri alla pace in ogni circostanza. Come

sosteneva Maria Montessori, <<l’educazione è l’arma della pace>>, quando

favorisce la costruzione di un pensiero interculturale, relazionale e dialogico, che

insegna a uomini e donne, fin dall’infanzia, a non dominare e sopraffare ma a

comprendere, solidarizzare e prendersi cura degli altri. In tal senso la scuola assume

il ruolo trainante di realizzazione della dimensione interculturale, tracciando

77

orizzonti formativi e modelli di didattica coerenti con i principi di cui abbiamo

parlato, che devono impegnare ed ispirare innanzitutto i docenti.

A conclusione della tesi portata avanti in queste pagine, possiamo affermare che la

mentalità interculturale, frutto di un esercizio continuo e difficile di conoscenza e di

relazioni con gli altri, a partire dal rapporto a scuola tra i docenti, tra gli alunni, e tra

docenti e alunni, rappresenta l’unica speranza per l’avvenire dell’umanità, altrimenti

esposto pericolosamente alla crescita di antagonismi sempre più distruttivi perché

planetari56

.

Per concludere, a sostegno della dissertazione condotta in questa sede, intendo

riportare le parole della preghiera di Voltaire sulla “Tolleranza”, che a più di due

secoli di distanza risuonano con estrema attualità e delineano perfettamente lo sfondo

su cui ho inteso costruire il mio lavoro:

<< Non più dunque agli uomini mi rivolgo:

ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e di tutti i tempi.

Se è permesso a deboli creature,

perdute nell'immensità e impercettibili al resto dell'universo,

osar domandare qualcosa a te, a te che hai dato tutto,

a te i cui decreti sono immutabili quanto eterni,

degnati di guardar con misericordia gli errori legati alla nostra cultura.

Che questi errori non generino le nostre sventure.

Tu non ci hai dato un cuore perché noi ci odiassimo,

né delle mani perché ci strozzassimo.

Fa che ci aiutiamo l'un l'altro a sopportare

il fardello d'una esistenza penosa e passeggera;

che le piccole diversità tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi,

tra tutte le nostre lingue insufficienti,

tra tutti i nostri usi ridicoli,

tra tutte le nostre leggi imperfette,

tra tutte le nostre opinioni insensate,

tra tutte le nostre condizioni ai nostri occhi cosi diverse l'una dall'altra,

e così eguali davanti a te;

che tutte le piccole sfumature che distinguono questi atomi chiamati uomini,

non siano segnale di odio e di persecuzione;

che coloro i quali accendono ceri in pieno mezzogiorno per celebrarti

56

Cfr. F. PINTO MINERVA, L’intercultura, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 123-126.

78

sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole;

che coloro i quali coprono la veste loro d'una tela bianca per dire che bisogna

amarti,

non detestino coloro che dicono la stessa cosa portando un mantello di lana

nera;

che sia eguale adorarti in un gergo proveniente da una lingua morta,

o in un gergo più nuovo.

Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli57

! >>

57 Tratto dal sito web:

http://www.iismas.it/ss/ss.htm in data 17/06/2012

79

APPENDICE

Breve rassegna delle leggi sull’immigrazione in Italia

Il 1986 rappresenta un po’ uno spartiacque nella storia dell’immigrazione straniera

verso l’Italia. Per la prima volta, viene approvata una legge che riconosce la presenza

di lavoratori extra-comunitari nel nostro paese e che si pone l’obiettivo di regolarne

lo status giuridico e di programmarne gli ingressi. Fino ad allora, infatti, le uniche

norme in vigore erano quelle del Codice di Pubblica Sicurezza del 1935, che si

limitava ad assoggettare lo straniero a una serie di controlli discrezionali da parte

delle autorità di polizia.

La legge n. 943/1986, invece, coerentemente alla convenzione OIL n. 143 del 1975

ratificata dall’Italia nel 1981, definisce il ‘lavoratore extracomunitario legalmente

residente sul territorio’ come soggetto di diritti, a cui deve essere assicurato il pieno

accesso alla sanità, ai servizi sociali, alla scuola e alla casa, nonché la protezione

della cultura e della lingua di origine (art. 1).

In questa norma il diritto al ricongiungimento famigliare assume una rilevanza

centrale, previsto dall’articolo 4 per il coniuge, i figli minori e i genitori a carico. Per

questi ultimi però, non era prevista alcuna possibilità di accesso al lavoro, mentre nel

caso di coniuge e figli si fissava un tempo di attesa di un anno.

Ma andiamo con ordine.

La legge n. 943/1986, infatti, delega ad una serie di decreti del Ministero del lavoro e

della previdenza sociale, di intesa con i Ministri per gli affari esteri e dell’interno, il

80

compito di fissare le direttive di carattere generale in materia di impiego e mobilità

professionale dei lavoratori extracomunitari (art. 5).

In particolare, i decreti avrebbero dovuto stabilire le modalità specifiche di

presentazione e raccolta delle domande di lavoro provenienti da stranieri

extracomunitari residenti in Italia e all’estero, anche attraverso l’istituzione di

apposite liste di collocamento e relative graduatorie.

La successiva legge Martelli n. 39/1990 ha cercato di rendere più stringente il

processo di programmazione dei flussi di ingresso. Inoltre, secondo questa legge,

spettava sempre ai decreti definire il programma di interventi sociali ed economici

per l’integrazione degli stranieri.

Questi primi tentativi di programmazione si sono rivelati piuttosto complicati e

alquanto inefficaci. I decreti, infatti, hanno sempre previsto contingenti di ingressi

estremamente bassi e sono stati approvati con forte ritardo rispetto ai tempi previsti.

L’ingresso per lavoro si basava sostanzialmente sul meccanismo della chiamata

numerica o, nel caso del lavoro domestico, nominativa dall’estero, e non era prevista

alcuna possibilità di incontro in loco tra domanda e offerta di lavoro.

Accanto alla definizione delle politiche degli ingressi, la legge n. 39/1990 si

preoccupava anche di specificare i requisiti di accesso al permesso di soggiorno e le

condizioni necessarie per il rinnovo (art. 4). Inoltre, la legge Martelli ha introdotto

norme specifiche in tema di respingimenti (art. 3) ed espulsioni2 (art.7), inasprendo

le sanzioni contro il favoreggiamento dell’ingresso illegale già previste dall’articolo

12 della legge n. 943/1986.

81

Queste sanzioni sono state ulteriormente rafforzate dal decreto legge n.489/1995,

noto come decreto Dini, approvato nel contesto dell’adesione dell’Italia al trattato di

Schengen3.

Le prime due leggi sull’immigrazione hanno posto anche le basi in Italia delle

politiche per gli immigrati, ovvero dirette a quanti sono stati ammessi a soggiornare

nel paese. La legge n. 943/1986, in particolare, ha stabilito una serie di punti fermi in

tema di accesso ai diritti, affermando la parità tra lavoratori nazionali e immigrati

regolari.

In base all’articolo 3, la Consulta, che partecipava al Servizio per i problemi dei

lavoratori immigrati e delle loro famiglie, costituito presso la Direzione generale del

collocamento della manodopera del Ministero del Lavoro, aveva il compito di

promuovere attività di integrazione quali: diffusione di informazioni su diritti e

doveri dei lavoratori; monitoraggio delle opportunità di lavoro; ricerca di

sistemazioni abitative; protezione delle culture e lingue di origine, e supporto alle

associazioni di immigrati. L’articolo 9, infine, affidava alle Regioni il compito di

predisporre appositi programmi culturali per i diversi gruppi nazionali nonché corsi

integrativi di lingua e cultura d’origine per i figli degli immigrati. Il mantenimento

della cultura di origine appare inserirsi, almeno in parte, in una concezione

dell’immigrazione come fenomeno temporaneo: l’articolo 13 prevedeva infatti

l’istituzione presso l’Inps di un fondo per assicurare i mezzi economici necessari al

rimpatrio del lavoratore extracomunitario

che ne fosse privo.

82

Molte delle misure previste dalla legge sono però rimaste lettera morta, prima fra

tutte i corsi di lingua madre e i programmi culturali delle regioni, per i quali non sono

stati previsti stanziamenti specifici.

La prima legge sull’immigrazione, quindi, sebbene abbia delineato un quadro di

principi di integrazione nel complesso equilibrato, in quanto attento sia alla

dimensione dell’inclusione individuale che a quella del riconoscimento della

diversità, non si può dire sia stata seguita da misure altrettanto coerenti di attuazione.

Al contrario, la legge n. 39/1990 si contraddistingue decisamente per l’approccio più

orientato ai problemi, e in particolare alla soluzione delle emergenze che in questi

anni sembrano accompagnare i processi di insediamento della presenza immigrata

nel nostro paese.

Le politiche di immigrazione, come già evidenziato da queste due leggi, sono dirette

sostanzialmente a rispondere a tre questioni centrali: quella della programmazione

dei flussi per lavoro e della definizione dei canali di ingresso sul territorio; quella

delle condizioni di accesso al permesso di soggiorno e allo status di straniero

regolarmente residente; quella del contrasto all’immigrazione irregolare e

clandestina.

Ciascuna di queste questioni è stata trattata dalla legge n. 40/1998, nota come Legge

Turco-Napolitano, alla base del TU sul11l’immigrazione (D. Lgs. n. 286/1998), e

dalla successiva legge Bossi-Fini n. 189/2002 attualmente in vigore.

Innanzitutto, in merito alla programmazione dei flussi, va sottolineato come la legge

n.40/1998, all’articolo 3, riconosca esplicitamente l’esistenza di una domanda di

lavoro immigrato da soddisfare attraverso quote di ingresso per lavoratori

83

subordinati, anche a carattere stagionale, e autonomi, stabilite ogni anno con decreto

del Presidente del Consiglio dei Ministri.

La legge Bossi-Fini ha mantenuto inalterato il sistema di programmazione basato su

documenti triennali e decreti flussi annuali, anche se il comma 4 dell’articolo 3

modifica almeno in parte la procedura di definizione di questi ultimi.

La Bossi-Fini introduce anche una via di ingresso preferenziale per i lavoratori di

origine italiana «per parte di almeno uno dei genitori fino al terzo grado in linea retta

di ascendenza» (art. 17), per i quali si prevede l’istituzione di appositi elenchi presso

le rappresentanze diplomatiche o consolari nel paese di residenza.

Riguardo l’ingresso per lavoro, entrambe le leggi stabiliscono che le autorizzazioni

debbano essere concesse nei limiti delle quote, anche se sono previste una serie di

categorie professionali non soggette a tale vincolo, ovvero dirigenti e personale

altamente specializzato di società aventi sede o filiali in Italia, lettori universitari,

professori e ricercatori universitari, interpreti e traduttori, lavoratori marittimi,

personale artistico e sportivo, giornalisti accreditati in Italia e personale

temporaneamente distaccato. Tra queste categorie, la legge n. 189/2002 ha inserito,

all’articolo 22, anche gli infermieri professionali assunti presso strutture sanitarie

pubbliche o private.

La legge Bossi-Fini ha eliminato la possibilità per alcuni soggetti di farsi garanti

dell’ingresso di cittadini stranieri da inserire nel mercato del lavoro, dato che

l’ammissione sul territorio per motivi di lavoro è stata subordinata all’esistenza di

un’offerta di occupazione prima dell’ingresso, ovvero alla stipula del cosiddetto

«contratto di soggiorno» (artt. 5 e 6), in base al quale il datore di lavoro si impegna a

84

garantire un alloggio al lavoratore e a pagare i costi di un eventuale ritorno. Le

richieste avvengono sempre per chiamata nominativa o numerica.

La legge Bossi-Fini all’articolo 19 introduce, quale titolo di prelazione, cioè che dà

diritto a un canale preferenziale di ingresso in Italia, la partecipazione nei paesi di

origine a programmi di formazione professionale approvati dai ministeri del lavoro e

dell’istruzione su proposta di regioni e province autonome.

Ovviamente, accanto all’ammissione per motivi di lavoro, vi sono altri canali di

ingresso nel paese, primo fra tutti il ricongiungimento famigliare. In base alla legge

n. 40/1998, articolo 29, il ricongiungimento familiare può essere richiesto dai titolari

di un permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno, rilasciato per lavoro

subordinato o per lavoro autonomo, per asilo, per studio o per motivi religiosi, date

però due condizioni: un alloggio che rientri nei parametri previsti dalla legge

regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica; un reddito annuo derivante

da fonti lecite non inferiore all’importo dell’assegno sociale. Possono essere

ricongiunti il coniuge, i figli minori e i genitori a carico, nonché i parenti entro il

terzo grado a carico ed inabili al lavoro13. È previsto inoltre l’ingresso, per

ricongiungimento con il figlio minore regolarmente soggiornante in Italia, del

genitore naturale che dimostri, entro un anno, il possesso dei requisiti di alloggio e

reddito (c. 6).

La legge n. 189/2002, dal canto suo, ha abrogato la possibilità del ricongiungimento

con i parenti entro il terzo grado, e ha sottoposto l’ingresso dei genitori a carico alla

verifica della condizione che questi «non abbiano altri figli nel paese di origine o di

provenienza, ovvero qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento

per documentati gravi motivi di salute» (art. 23 c. 1, lettera c). Infine, si prevede il

85

ricongiungimento con i figli maggiorenni a carico, qualora questi ultimi non possano

per ragioni oggettive prevedere al loro sostentamento a causa dello stato di salute che

ne comporti invalidità totale (art. 23 c. 1,lettera b-bis).

In tema di condizioni di accesso al permesso di soggiorno e allo status di regolare, va

sottolineato come la legge Bossi-Fini abbia cercato di favorire, almeno in parte, una

semplificazione delle procedure amministrative: l’articolo22, infatti, istituisce, presso

la Prefettura-Ufficio territoriale del Governo, lo Sportello Unico per l’Immigrazione,

cui spetta seguire l’intero procedimento riguardante l’assunzione di lavoratori

stranieri subordinati a tempo determinato ed indeterminato, nonché quello relativo al

rilascio del permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare.

Rispetto alla Turco-Napolitano, però, l’articolo 6 della legge n. 189/2002 ha ridotto

la durata dei diversi permessi di soggiorno, prevedendo che questi possano essere

rinnovati solo per un periodo di pari durata e non più doppio. In generale, il permesso

di soggiorno non può mai superare la durata del contratto di lavoro e, in caso di

assunzione a tempo indeterminato, i due anni. Ma non solo. Sempre l’articolo 6

riduce anche i tempi per la richiesta del rinnovo, da 30 giorni della scadenza ad

almeno 60 giorni prima nei casi di contratti di lavoro a tempo determinato e a 90

giorni prima per i contratti di lavoro a tempo indeterminato.

Inoltre, in caso di perdita del posto di lavoro, se la legge Turco-Napolitano

consentiva l’iscrizione alle liste di collocamento per un anno e il rilascio di un

permesso per ricerca di lavoro, la Bossi-Fini riduce a 6 mesi il tempo a disposizione

per cercare una nuova occupazione.

Insomma, come si può vedere, a dispetto degli obiettivi dichiarati, ovvero

promuovere la semplificazione amministrativa, la legge Bossi-Fini sembra aver reso

86

più complicato l’accesso al permesso di soggiorno14, e in particolare il suo rinnovo,

rendendo lo status dei lavoratori stranieri residenti nel nostro paese meno certo e più

soggetto ai tempi lungi della burocrazia. Anche lo status di lungo-residenti, d’altro

canto, appare una meta tutt’altro che facile da raggiungere. A tale proposito, la legge

n. 40/1998 ha introdotto la «carta di soggiorno» (art. 9), un documento a tempo

indeterminato a cui possono avere accesso i cittadini stranieri regolarmente

soggiornanti in Italia da almeno 5 anni, in possesso di un permesso di soggiorno che

consente un numero illimitato di rinnovi e in grado di dimostrare un reddito

sufficiente al sostentamento proprio e della propria famiglia (c. 1). Di fatto, però, una

serie di circolari del Ministero dell’Interno hanno introdotto condizioni estremamente

restrittive per il rilascio del documento. Inoltre, la successiva legge Bossi-Fini ha

aumentato di un anno il periodo di residenza richiesto per accedere alla carta di

soggiorno.

In materia di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, la Bossi-Fini prevede,

all’articolo 11, che la sanzione introdotta dalla Turco-Napolitano, e cioè reclusione

fino a tre anni e multa fino a 15mila euro (prima 30 milioni di lire, art. 10 c. 1), sia da

intendersi per ogni persona di cui si favorisce l’ingresso illegale. Entrambe le leggi

puniscono il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a fini di lucro con la

reclusione da 4 a 12 anni e con una multa fino a 15mila euro per straniero coinvolto,

anche quando il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro, o

utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti (art. 10 c.

3, l. n. 40/1998; art. 11 c. 3, l. n. 189/2002).

La legge n. 189/2002 ha inasprito anche le sanzioni a carico dei datori di lavoro che

occupino alle proprie dipendenze stranieri privi del permesso di soggiorno,

87

mantenendo l’arresto da 3 mesi fino a un massimo di un anno e aumentando le

sanzioni pecuniarie da un massimo di 6 milioni di vecchie lire a 5.000 euro per

straniero coinvolto.

In tema di espulsioni, infine, le legge n. 40/1998 introduce alcuni strumenti diretti ad

aumentarne l’efficacia: la conclusione di specifici accordi e intese bilaterali con i

paesi di origine che prevedano, in cambio della collaborazione nel controllo

dell’immigrazione clandestina e nelle procedure di riammissione, quote privilegiate

di ingressi per motivi di lavoro (art. 19); l’istituzione dei cosiddetti Centri di

Permanenza Temporanea (art. 14), diretti a trattenere lo straniero per il tempo

necessario al completamento dell’iter di espulsione e comunque per un periodo non

superiore a 30 giorni. Questi due strumenti continuano a costituire elementi centrali

della normativa attualmente in vigore.

La legge Bossi-Fini, dal canto suo, ha accentuato la connotazione restrittiva delle

norme in materia di espulsione. Gli espulsi non possono rientrare prima di 10 anni,

anziché di 5 come previsto nella normativa precedente.

33 Analogamente a quanto previsto dalla legge n. 943/1986, la legge n. 40/1998

afferma all’articolo 2 la parità di trattamento e la piena eguaglianza tra lavoratori

italiani e stranieri regolarmente soggiornanti sul territorio (c. 3), anche nei rapporti

con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai servizi (c. 5). Ma non solo: in base

al comma 4, l’immigrato regolare «partecipa alla vita pubblica locale».

Rispetto alla normativa precedente, quindi, la legge Turco-Napolitano, alla base del

TU sull’immigrazione, guarda agli immigrati non solo quali oggetto di tutele, ma

anche come portatori di interessi di cui si riconosce la legittimità nell’arena pubblica.

88

Tale impianto generale non è stato modificato dalla legge Bossi-Fini, che invece,

come si è detto, ha toccato in maniera più incisiva il piano delle politiche di

immigrazione. Tuttavia alcuni provvedimenti successivi hanno almeno in parte

ridefinito il quadro delle competenze in materia di integrazione, rafforzando il ruolo

delle Regioni.

La questione dell’accesso all’istruzione è trattata all’articolo 38, in base al quale i

minori stranieri presenti sul territorio sono soggetti ad obbligo scolastico, anche se

irregolari. L’articolo 45 del regolamento di attuazione specifica poi, che l’iscrizione

avviene nella classe corrispondente all’età anagrafica (c. 2), a meno che il collegio

docenti non deliberi diversamente. Spetta sempre al collegio docenti formulare le

proposte per la ripartizione degli alunni stranieri nelle classi, avendo cura di evitare

la concentrazione di questi ultimi (c. 4).

In termini di interventi di integrazione, da un lato la legge prevede l’organizzazione,

da parte di Stato, Regioni ed enti locali, di appositi corsi ed iniziative per

l’apprendimento della lingua italiana (c. 2), dall’altro la promozione di iniziative di

tutela delle culture e delle lingue di origine, e di attività interculturali (c.3), da

realizzarsi sulla base dei bisogni rilevati a livello locale ed eventualmente in

convenzione con le associazioni di stranieri, le rappresentanze diplomatiche dei paesi

di origine e le organizzazioni di volontariato (c. 4).

Per facilitare le comunicazioni con le famiglie, è prevista la possibilità di ricorrere a

mediatori culturali qualificati, anche sulla base di intese con gli enti locali (c. 5).

In materia di alloggio e assistenza sociale (Capo III), una rilevanza cruciale assume

l’articolo 40, che cerca di delineare un percorso che, dalla prima accoglienza, porti

all’inserimento in soluzioni abitative stabili.

89

La prima tappa è rappresentata dai centri di accoglienza, intesi alla stregua di

sistemazioni temporanee dirette ad ospitare, anche gratuitamente, stranieri

regolarmente soggiornanti che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere

autonomamente alle proprie esigenze alloggiative e di sussistenza (c. 3). Oltre

all’ospitalità, i centri dovrebbero offrire «anche servizi volti a rendere autonomi il

più presto possibile gli ospiti» (c. 2), favorendo quindi il passaggio ai cosiddetti

alloggi sociali (c. 4), ovvero strutture organizzate in forma di pensionato, a costo

calmierato e aperte sia a italiani che stranieri.

Per quanto riguarda le altre misure di integrazione sociale, il TU prevede corsi di

lingua italiana e di cultura di origine, la diffusione di informazioni utili a un positivo

inserimento nella società italiana, la valorizzazione delle diverse espressioni culturali

degli stranieri, la mediazione culturale, la formazione degli operatori pubblici

all’anti-razzismo e all’intercultura, la cui realizzazione è affidata a Stato, regioni,

province e comuni, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze ed anche in

collaborazione con le associazioni di stranieri, quelle operanti in loro favore, la

autorità o gli enti pubblici o privati dei paesi di origine (c. 1). A tal fine, si prevede

l’istituzione, presso il Dipartimento degli affari sociali della Presidenza del Consiglio

dei Ministri, di un registro delle associazioni di e per gli stranieri (c. 2)58

.

Questi sono solo alcuni esempi che ci aiutano a comprendere la strada fatta finora per

favorire l’inserimento e l’integrazione degli stranieri nel nostro paese, eppure

riteniamo che c’è ancora tanto da realizzare per poter raggiungere la mèta

dell’Intercultura di cui abbiamo largamente parlato.

58

Tratto dal sito web: http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/15/0673_Rapporto_immigrazione_BARBAGLI.pdf in data 6/02/2012

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credere, Avverbi edizioni, Roma, 2001.

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VENEZIANO, A. VOLPICELLA, Le parole dell’intercultura, Adda Editore, Bari,

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http://www.emigrati.it/Emigrazione/Xenofobia.asp (in data 11/06/2012)

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http://www.arpnet.it/ahs/DICH-RAZZA-PREGIUD.htm (in data 16/06/2012)

http://www.iismas.it/ss/ss.htm (in data 17/06/2012)

RIGRAZIAMENTI

A conclusione di questo percorso, è doveroso da parte mia citare tutte le persone che

hanno dato il loro personale contributo al raggiungimento di questo traguardo.

Ringrazio innanzitutto il Cielo che mi ha permesso di fare un percorso personale

ricco di nuovi incontri e di presenze costanti, di doni importanti e di attimi intensi.

Primo fra tutti desidero ringraziare il Centro Studi Diomede di Castelluccio dei Sauri

che ha sorprendentemente e generosamente indirizzato il mio tirocinio formativo,

motivo ispiratore di questo elaborato, permettendomi inoltre di fare un’esperienza

pregna di valori umani e professionali e sostenendomi in ogni singolo step di questo

percorso. Ringrazio il presidente del CSD, Michele Paglia per la sua disponibilità e

attenzione ad ogni mia esigenza sia durante lo svolgimento del tirocinio, che durante

la stesura della tesi.

Desidero esprimere altresì la mia riconoscenza al CE.SE.VO.CA e al suo staff che mi

ha accolto e guidata nel percorso di tirocinio alla scoperta di una realtà ricca di

iniziative giovanili. Ringrazio Pasquale Russo per la fiducia accordatami, per la

pazienza impagabile e per l’aiuto prezioso.

Un grazie di cuore va alle compagne che hanno condiviso con me questo percorso di

studi, per la condivisione di ore di lezione e quintali di appunti, di ansie e di

soddisfazioni: Elisabetta Mancini, con cui fin dal primo incontro è scattato il colpo di

fulmine dell’elezione intellettuale e dell’affinità personale; Fabiana Fesce con cui

c’è stata immediatamente affinità caratteriale e la condivisione delle piccole grandi

ansie e infine Maria Lorenza Niballi, conosciuta al termine dell’avventura ma non

meno importante per disponibilità e generosità. La bellezza di questo percorso di

studi è anche merito della loro presenza! Ad esse si aggiunge la mia amica di Liceo

Valentina Elia, presenza costante in questo cammino, sostegno nella fatica e nella

gioia, cui rivolgo un grande grazie; alla schiera importantissima degli amici di Liceo

appartengono anche Leone Lensi e Stefania Francullo, cui rivolgo un grazie sincero

perché nonostante la distanza, porto sempre nel cuore la traccia indelebile della loro

amicizia e della loro presenza.

Immancabile in questa sede è un ringraziamento ai professori che mi hanno

accompagnata nel percorso del Liceo, in particolare alla Professoressa Concetta

Ugliola che con la sua grande professionalità e umanità ha dato un contributo

importante alla mia formazione intellettuale e umana. Il raggiungimento di questo

traguardo è dovuto in parte anche a lei e ai suoi materni insegnamenti.

Ringrazio col cuore le mie “sorelle di sempre”, compagne della vita e dello spirito,

che mi hanno presa per mano e mi hanno accompagnata in questi anni con infinita

pazienza e dedizione: Paola, Eleonora, Angela e Costanza. Difficile elencare in

poche righe ogni piccolo dettaglio per cui vorrei rivolgere loro il mio grazie più

sentito, per questo mi limiterò a ringraziarle per il loro grande cuore e per la

meraviglia e lo stupore che ogni giorno hanno saputo suscitare in me con i loro

piccoli gesti e con le loro parole, che mi hanno fatto comprendere quale dono

prezioso sia l’amicizia vera. Ad esse non posso non riconoscere il merito di aver

mitigato il mio pessimismo estremo nei momenti di difficoltà e di aver rasserenato

con pazienza ogni mio turbamento. Voglio ringraziare anche coloro che nel corso del

tempo sono diventati parte di questa categoria così importante nel mio cuore, in

particolare Pasquale, Michele F. e Michele T., che hanno coronato, con

comprensione e amore, la bellezza di questo rapporto così importante.

Dedico questa giornata alla mia nipotina Elena, perché con il suo arrivo ho

conosciuto la meraviglia che si prova dinanzi ad un capolavoro, perché grazie a lei

ho sperimentato che “felici lo si è senza un miracolo” e ho compreso quali sono le

piccole-grandi cose che hanno il potere di farci sentire realizzati.

Ringrazio i miei fratelli spirituali: Suor Maria di Gesù Bambino, che da lontano mi

ha sempre sostenuta con la forza più grande che c’è: la preghiera, e papà Francisco

che con il piccolo Francesco ha fatto sentire sempre la sua presenza forte e

coraggiosa, esempio per superare con tenacia e con il sorriso ogni difficoltà. Un

grazie a Rachele presente seppur a chilometri di distanza nei momenti più importanti

della mia vita, per le nostre lunghe chiacchierate illuminanti e per il suo valido

esempio di tenacia e determinazione. Ad essi si uniscono tutti i fratelli della

Comunità Maria Stella dell’Evangelizzazione, che hanno contribuito a forgiare in me

solide certezze che trovano il loro fondamento in Dio!

Desidero ringraziare colui che all’improvviso e inaspettatamente ha incrociato il mio

percorso ed ha rapito ogni mia attenzione, per avermi resa felice e spensierata;

grazie a lui che ha il potere di capirmi con uno sguardo e di stupirmi con poco, per la

pazienza che ha avuto e continua ad avere e per avermi aiutata a credere sempre che

ce la posso fare! Un grazie va anche alla mia “nuova famiglia” che mi ha accolta con

amore e con generosità, sostenendomi in quest’ultimo tratto importante di strada.

In ultimo, sicuramente non per importanza, non posso non riconoscere il significativo

e fondamentale ruolo dei miei genitori per la mia formazione umana e intellettuale.

Desidero condividere il successo di questo traguardo con loro che hanno saputo porre

radici solide alla mia vita, impregnandola di valori importanti e duraturi. In

particolare voglio ringraziare il mio papà per la sua generosità, per la sua bontà, per i

suoi sacrifici e la sua incredibile dedizione alla famiglia, qualità che mi hanno

permesso di portare avanti i miei studi con estrema serenità e spensieratezza e che

fanno di lui il mio punto di riferimento in ogni circostanza della vita: la mia roccia!

Ringrazio la mia mamma, mediatrice nelle difficoltà e sostegno insostituibile nei

momenti di ansia e di preoccupazione, che con i suoi schietti consigli e la sua lucida

e sensibile visione della realtà ha saputo dare un orientamento ai miei passi quando

mi sono sentita confusa e incerta; la ringrazio perché ha sempre saputo interpretare i

miei stati d’animo senza tante parole e mi ha spronata a superare ogni difficoltà con

coraggio e determinazione. Dedico questo momento felice a loro, ringraziandoli per

aver riposto in me una fiducia incondizionata, rispettando sempre le mie scelte e le

mie priorità. Desidero ringraziare inoltre, la mia “sorella maggiore” per il suo

sostegno silenzioso ma efficace e forte, per le sue parole che mi hanno aiutata a

considerare le cose importanti quando lo sconforto me le ha fatte perdere di vista.

Ringrazio lei per la stima silenziosa ma percettibile che ha sempre nutrito nei miei

confronti.

Dedico a tutti loro il successo di questo giorno, perché hanno il merito di farmi

sentire quotidianamente fortunata!

Al lungo elenco dei ringraziamenti si aggiunge un grazie speciale rivolto ai nonni, a

quelli che sono qui con me e a quelli che mi guardano dal cielo, perché da loro

proviene tutta la saggezza, l’amore, l’umiltà e lo spirito di sacrificio con i quali è

stata concimata la piantina della mia vita.

Ringrazio gli zii e i cugini che hanno seguito i miei passi fin da piccolina e che mi

hanno incoraggiata in questo percorso, felice di tagliare questo importante traguardo

con loro.

Senza nulla togliere all’importanza di ciascuno di essi, ritengo doveroso esprimere

un caloroso ringraziamento alla zia più giovane, Zia Maria Giovanna, per aver speso

gran parte delle sue mattinate ed energie ad alleviare il peso e lo sconforto dei

momenti di crisi e per avermi dedicato molti dei suoi pensieri, nonostante le sue

ansie e i suoi impegni di mamma.

Infine, dedico in particolar modo questo traguardo a chi di loro non ha potuto

aspettare che io raggiungessi questo traguardo perché aveva fretta di salire in Cielo, e

che oggi sarà sicuramente molto orgoglioso di me. Mi piace pensare che in questo

giorno mi guarda dall’alto con lo stesso sguardo pieno di orgoglio di quando mi ha

vista guidare l’auto!

Concludo con un grazie speciale rivolto a tutti coloro che mi hanno regalato un

sorriso in questi anni, a coloro che hanno contribuito a rendermi migliore, a coloro

che hanno dedicato un piccolo pensiero a me e al mio lavoro, a coloro che non hanno

saputo comprendermi provocando qualche piccola ferita, a chi in qualunque

circostanza ha sfiorato la mia anima e mi ha donato un po’ di sé, perché grazie a tutti

loro sono cresciuta e sono diventata più forte!

GRAZIE.